Grice ed Abbagnano: filosofia romana – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Salerno,
Campania). Filosofo italiano.
Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be different,
dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later illuminismo),
and MY Abbagnano, the one who explored that infamous Greek embassy that arrived
in Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the fascination of the
Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist Italian
philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has no
entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history of
philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce. Laureatosi
in filosofia a Napoli con ALIOTTA (si veda), insegna al Liceo Umberto I ed
all'Istituto Benincasa del capoluogo campano, per poi trasferirsi a Torino dove
è professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia.
Condirettore, a fianco di BOBBIO (si veda), della “Rivista di filosofia.” Ispiratore
del gruppo di filosofi, comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e GEYMONAT
(si veda), che prende il nome di neo-illuminismo italiano, organizzando una
serie di convegni rivolti alla costruzione di una filosofia laica, aperta ai
principali orientamenti della filosofia. Collabora con “La Stampa”. Si
trasferisce a Milano dove collabora con “Il giornale” di MONTANELLI (si veda), e
dove viene eletto consigliere comunale nelle liste del partito liberale e
assume per I anno la carica di assessore comunale alla cultura. Divenne
socio dell'Accademia delle scienze di Torino. Uno dei promotori del centro di
studi metodologici di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere
in Italia la conoscenza delle correnti esistenzialistiche, in particolare
Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti irrazionali del
pensiero," A. esalta l'azione creativa, la volontà e l'esperienza,
attribuendo ad esse il compito di condurre alla verità. Sono elementi che A. ritrova soprattutto
nella filosofia di Gentile. Fondamentale nella sua filosofia è il saggio "La struttura dell'esistenza”
(Torino), nella quale propone un’alternativa all'esistenzialismo di Heidegger e
Jaspers. A. define la propria visione filosofica come esistenzialismo
positivo. Esso, pur non esplicitamente formulato in veste sistematica,
individua la centralità dell'esistenza come momento ontologicamente fondativo,
considerando la razionalità dell'uomo come lo strumento principe in grado di
garantire a questo fondamento un valore positivo contro ogni possibile
nichilismo. Diversamente rispetto all'impostazione di Heidegger e Jaspers,
A. evidenzia l'importanza della libertà e della indeterminazione e quindi l'ineluttabilità
del loro perseguimento. Oltre a porre la ragione come unico mezzo per
creare un legame tra l'uomo e il mondo che lo circonda A. insiste molto su un
chiarimento dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con
quello della necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e
dell'esistenzialismo, fatto che spiega la sua forte critica nei confronti
queste due scuole filosofiche. Nello saggio "Possibilità e libertà," A.
chiara il senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica
dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure
ottimista al punto da concedere all'essere una realizzazione certa. Prende vita
il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo", nel quale
precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di empirismo radicale
e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Questo movimento, che ha
sin dal principio una configurazione culturalmente e politicamente molto
composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una visione e di un uso
della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che al cattolicismo. A. Ha del resto ripetutamente criticato
all'idealismo e all’idealismo di GENTILE (si veda) la tendenza a sottostimare
il valore della scienza, da lui invece considerata una disciplina
indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle
sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari
valore e ad essa complementare. A. insiste nei suoi saggi sui concetti di
libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di scegliere, la
seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni dell'uomo. Anche il
positivismo è oggetto di critica tramite la contrapposizione con Kant e
Kierkegaard. Nel suo esistenzialismo positivo, A. insiste molto sulla
finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua
costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente
nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere.
Questo lucido senso del limite e della problematicità esistenziale si è
accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose, inteso come un
aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. Ed è proprio questo
senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni illusoria
infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondare secondo A. la
possibilità di un incontro genuino fra credenti e non credenti. E ciò
all'insegna di una umiltà del pensiero che rappresenta la condizione
indispensabile di ogni etica del dialogo e del reciproco rispetto. Oltre che
autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), A. è
anche l'autore di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate
intere generazioni d’italiani. Egli realizza anche un "Dizionario di
filosofia," considerato tra i migliori. La Storia della filosofia -- sia
nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia, sia nella versione
universitaria pubblicata dalla Pomba -- è stata aggiornata da FORNERO (si
veda), in collaborazione con ANTISERI e RESTAINO. Fornero, insieme a un'équipe
di noti studiosi, curato anche l'aggiornamento del "Dizionario di
filosofia." Saggi: Le sorgenti irrazionali del pensiero” (Genova, Perrella);
“Il problema dell'arte” (Genovam Perrella); “Il nuovo idealismo, Genova,
Perrella. La filosofia di Meyerson e la logica dell'identità (Napoli, Castello);
Ockham, Gubbio, Oderisi. Ockham, Lanciano; La nozione del tempo secondo
Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di una teoria della
scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La struttura
dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo, Milano, Bompiani,
Storia della filosofia; Filosofia antica; Filosofia patristica; Filosofia
scolastica, Torino, POMBA, Filosofia moderna, Torino, POMBA, 1II.2, Filosofia
del romanticismo; Filosofia contemporanea, Torino, POMBA, Filosofia del
Rinascimento, POMBA, La filosofia contemporanea; Fornero, Lentini, Restaino, Antiseri,
F. Restaino. POMBA, Torino, Filosofia religione scienza, Torino,
L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario
di filosofia, Torino, POMBA, aggiornato da Fornero; Per o contro l'uomo,
Milano, Fra il tutto e il nulla, Milano, con Visalberghi, Linee di storia
della pedagogia, Torino: Paravia, Questa pazza filosofia ovvero l'Io
prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La saggezza della
filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti esistenzialisti,
Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Milano, Protagonisti
e testi della filosofia, Milano, L'esercizio della libertà. Scritti scelti,
Maiorca, Boni, Bologna, Esistenza e metafisica, Maiorca, Milella, Lecce,
Scritti neoilluministici, Maiorca, introduzione di Rossi e Viano, POMBA,
Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da Fornero, Abbagnano tra
limite e mistero, «Avvenire». La prima
edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che aveva già pubblicato un Sommario di filosofia
per i licei risale per il manuale scolastico e per il manuale universitario.
Attraverso successive edizioni e aggiornamenti, per opera di Fornero, tale
storia continua a essere la più diffusa nelle scuole d’Italia. Bobbio, Discorso
su A., in: A., Scritti scelti (Taylor, Torino); Bobbio, La filosofia
dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Pareyson, Il
pensiero di A. e i suoi sviluppi recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor,
Torino, Aliotta, L'esistenzialismo positivo di A., in Id., Critica dell'esistenzialismo,
Perrella, Roma; Giannini, L'esistenzialismo positivo di A., Morcelliana,
Brescia, Chiodi, L'esistenzialismo (Loescher, Torino); Lombardi,
L'esistenzialismo in Italia, in Id., La filosofia italiana, Arethusa, Asti, Santucci,
Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Mulino, Bobbio, Discorso su A.,
in A., Scritti scelti (Crescenzo e Laveglia) (Taylor, Torino); Semerari, L’illuminismo,
in Id., Esperienze, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana, Atti del Convegno
di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, Semerari, Genesi e formazione
dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida,
Napoli. Pasini, Rolando, L’illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Saggiatore,
Milano, Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. A. and His
Predecessors, Temple University, Philadelphia. Cacciatore, Cantillo, Una filosofia dell'uomo, Atti del
Convegno in memoria di A. (Salerno), Comune di Salerno; Delpino, Riceputi, L'uomo
e il filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento
di Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure; Merlo,
Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di
Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Maiorca, Seam, Roma, Miglio, A.. Un itinerario
filosofico, Atti del Convegno per A. (Torino,), Mulino, Bologna); Montano, Il
prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana, Soveria Mannelli,
Rubbettino, Maiorca, A.. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma. Marvulli,
'Tributo ad A.', in abbagnanofilosofo.,. Panelli Marvulli, A. Una vita per la
filosofia, con un saggio di Fornero, POMBA, Torino, Paolini Merlo, A. a Napoli.
Gl’anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida,
Napoli; Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia fra Torino e l'Italia,
Mulino, Bologna, Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul
pensiero italiano, Mulino, Bologna, Primerano, La prospettiva pedagogica, Aracne,
Roma, Merlo, L'esistenza come struttura: A. e l'esistenzialismo, Scientifica,
Napoli, Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di A., in Id.,
Estetica esistenziale, Mimesis, Milano, Ferrarotti, Un greco in via Po.
Passeggiate silenziose con A., Edb, Bologna. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, A., Sito dedicato, su
abbagnano filosofo. Filosofia Filosofo Storici della filosofia italiani Accademici
italiani Professore Salerno Milano Esistenzialisti Studenti dell'Università
degli Studi di Napoli Federico II Professori dell'Università degli Studi
Benincasa Professori dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia
delle Scienze di Torino. Refs.: Grice, “Implicature in Philosophical
Dictionaries. I don’t give a hoot care what the dictionary saysAnd that’s where
you make your big mistake. – NICOLA ABBAGNANO DIZIONARIO I FILOSOFIA Seconda
edizione riveduta e accresciuta (41° migliaio) UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
TORINESE © 1971 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello 28 - 10125
Torino Tipografia Sociale Torinese corso Monte Cucco 108 - 10141 Torino
AVVERTENZA ALLA SECONDA EDIZIONE Questa seconda edizione interamente riveduta
contiene 22 voci nuove: Artefatto, Asserzione, Automa, Avere, Classe coscienza
di, Diacronico- Sincronico, Dio morte di, Dossologia, Ensomatosi, Futurologia,
Gettone, Illu- minatismo, Lavoro, Matrimonio, Performativo, Poietico,
Prassiologia, Previsione, Psichedelico, Rifiuto, Tavole di verità, Teleonomia.
Sono state interamente rifatte le voci: Condizionale, Conseguenza, Entimema,
Implicazione, Matrici, Paegola fondamentale cui si è obbe- dito nella
composizione delle voci: quella di individuare le costanti di significato che
possono essere dimostrate o documentate con citazioni testuali anche in
dottrine apparentemente diverse. Ma le costanti di significato possono essere
individuate solo se i significati diversi, compresi sotto uno stesso termine,
sono chiaramente riconosciuti e distinti ; e questa è l'esigenza della
chiarezza, che va ritenuta fondamentale in un’opera come questa; e che è in
realtà condizione essenziale affinchè la filosofia possa eser- citare una
qualsiasi funzione di illuminazione e di guida nei confronti degli uomini. In
un periodo in cui i concetti sono spesso confusi e mistificati al punto da
diventare inservibili, l'esigenza di una riistretto di amici: NorBERTO BosBIo,
EuGENIO GARIN, C. A. Viano, Pietro Rossi, PiETRO CHIODI. Altri amici mi hanno
aiutato a trovare o confrontare testi di più difficile accesso : così hanno
fatto GrazieLLa VescovinI FEDERICI, GRAZIELLA GIorDANO, SERGIO RurrINO. VI
PREFAZIONE Mia moglie, Marian TavyLor, mi ha aiutato validamente nella
correzione delle bozze. A tutte queste persone io rivolgo il mio cordiale
ringraziamento. Ma il lavoro di questo Dizionario non sarebbe stato iniziato nè
portato a termine senza l’aiuto lun- gimirante della grande e benemerita Casa
Editrice che ora lo pubblica. Ad essa esprimo pertanto la mia gratitudine. . NICOLA
ABBAGNANO. Torino, 11 ottobre 1960. AVVERTENZE 1. — Il Dizionario contiene
soltanto termini, non nomi propri. Esso contiene bensì voci come Pla- tonismo,
Aristotelismo, Criticismo, Idealismo, ecc. che si riferiscono alla dottrina di
un filosofo o di una scuola o ad aspetti o indirizzi comuni a varie dottrine;
ma tali voci si limitano a esporre i capisaldi delle dottrine o degli indirizzi
in questione, con la massima brevità, dato che le opinioni dei filosofi cui
esse si riferiscono sono ampiamente citate in tutte le voci principali. 2. —
Sono stati inclusi articoli dedicati non solo alle singole discipline
filosofiche (Metafisica, Ontologia, Gnoseologia, Metodologia, Etica, Estetica,
ecc.), ma anche a discipline scientifiche di carat- tere teoretico o a fondamento
teoretico (Matematica, Geometria, Economia, Fisica, Psicologia, ecc.), nei cui
confronti le voin modo da includere il maggior numero possibile di significati
riscontrabili. 4. — Il Dizionario ha pertanto, come ogni altro Dizionario
linguistico, una base essenzialmente sto- rica: esso mostra quali sono stati e
sono gli usi di un termine nella lingua filosofica del mondo Occi- dentale,
anche, all'occorrenza, in rapporto con l’uso che il termine ha nella lingua
comune. Le ambi- guità di significato sono state accuratamente registrate. Dove
la cosa poteva esser fatta senza eccessivo arbitrio, è indicato il modo di
evitare tali ambiguità. 5. — Per evitare le incertezze e gli equivoci che
potevano nascere dalle citazioni di passi composti originariamente in lingue
diverse, si è provveduto a mettere al principio di ogni articolo l'indicazione
del vocabsources . . . . Analytica posteriore, ed. Ross, Oxford, 1949.
Analytica priora, ed. Ross, Ox- ford, 1949. Categoriae, ed. Minuo-Paluello,
Oxford, 1949. De caelo, ed. E. J. Allan, Oxford, 1936. De generatione
animalium, ed. Bekker. De partibus animalium, ed. Bekker. De sophisticis
elenchis, ed. Bekker. Ethica Eudemia, ed. Susemihl, 1884. Ethica nicomachea,
ed. Bywather, Oxford,
1957. Physicorum libri VIII, ed. Ross, Oxford, 1950. Metaphysica, ed. Ross,
Oxford, 1924. De arte poetica, ed. Bywather, Oxford, 1953. Politica, ed. W. L.
Newman, Oxford, 1887-1902. Rethorica, ed. Bekker. Topicorum libri VIII, ed.
Bekker. La logique ou l'art de penser, 1662, in Euvres Philosophiques, 1893. Novum organum, 1620. De augmentis scientiarum, 1623.
Evolution créatrice, 1907, 83 ed., 1911, Deux sources de la morale et de la
religion, 1932; trad. italiana M. Vinciguerra, Milano, 1947. Boezio Phil. cons. .
Campanella Phil. rat. .... Pass. de l'éme . Princ. phil. Cicerone Acad. . . . Cusano N. De docta ignor. Diels
LISTA DELLE ABBREVIAZIONI PRINCIPALI Philosophiae consolationis libri V, 524. Philosophia rationalis,
Parigi, 1638. Discours de la méthode, 1637. Méditations touchant la première
philosophie, 1641. Passions de l'dme. Principia philosophiae, 1644.
Academicorum reliquiae cum Lu- cullo, ed. Plasberg, 1923. De Divinatione, ed.
Plasberg-Ax, 1965. De finibus bonorum et malorum, ed. Schiche, 1915. De legibus, ed. Mueller, 1897. De
natura deorum, ed. Plasberg, 1933. De officis, ed. Atzert, 1932. De republica,
ed. Castiglioni, 1947. Topica, ed. Klotz, 1883. Tusculanae disputationes, ed.
Poh- lens, Lipsia, 1918. De docta ignorantia, 1440. Die Fragmente der
Vorsokratiker, 5à ed., 1934. La lettera A si riferisce alle testimonianze, la
lettera B ai frammenti; il nu- mero è sempre quello dato da Diets nel suo
ordinamento. x LISTA DELLE ABBREVIAZIONI Diogene Laertio (sec. n) Dioa. L.
Vitae et placita philosophorum, ed. Cobet, 1878. Duns Scoto Rep. Par. .. . . .
Reportata Parisiensia, in Opera, a cura di L. Wadding, vol. XI. Opus Oxoniense,
nelle Opere, a cura di L. Wadding, vol. V-X. Le parti di quest'opera pubblicate
sotto il titolo di Ordinatio nei primi quattro volumi dell'Opera Omnia, edite a
cura della Com- missione Vaticana nel 1950, sono state citate nel testo se-
guito in quest’ultima edizione. ‘00000 Op. Ox. Fichte J. G. Wissenschaftslehre
. . Grundlage der gesammten Wissen- schaftslehre, 1794, in Werke, a cura del
figlio I. H. Fichte, 8 voll., 1845-46. Anche le altre opere di Fichte sono
citate (salvo diverso avviso) da questa edizione o da quella delle
Nachgelassene Werke, a cura dello stesso figlio, 1834-35 (ci- tate nel testo
come Werke, IX, X, XI). Ficino Theol. Plat. .. . Theologia Platonica, in Opera,
1561. In Conv. Plat. de Am. Comm. In Convivium Platonis de Amore Commentarium,
ibidem. Filone All leg...
.... Allegoria Legis, ed. Colson-Whi- taker, 1929-62. Gellio Aulo Noct. Att...
... Noctes Attices, ed. Hertz-Hosius, 1903. Hegel Enci ele Encyklopddie der
philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 2* ed., ell’Accademia Prus-
siana. In tal caso, per ciò che riguarda la
Critica della Ragion Pura, si indica con A la 319, con B la 2 edizione.
Gesammelte Werke, trad. ted. a cura di E. Hirsch, 1957 e segg. LISTA
DELLEABBREVIAZIONI PRINCIPALI xI Leibniz Disc. de Mét. Discours de Métaphysique,
1686, ed. Lestienee, 1929. Monadologie, 1714. Nouveaux essais sur l’entendement
humain, 1703. Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme
et l'origine du mal, 1710. Le precedenti due opere e molti altri scritti di
Leibniz sono ci- tati da Opera Philosophica, ed. J. E. Erdmann, Berlino, 1740.
Sono anche citate le due rac- colte: Mathematische Schriften, ed. C. J. Gerhardt, 7 voll,
Berlino, 1848-63; Philosophi- sche Schriften, ed. C. J. Ger- bardt, 7 voll,
Berlino, 1875. An Essay Concerning Human Un- derstanding, 1690, ed. a cura di
A. Campbell Fraser, 1894; trad. it. Pellizzi, 1951. Lucrezio (sec. 1 a. C.) De
rer. nat. .. .. De rerum natura, ed. Bailey, 1947. Ockham In Sent. . Quaestiones in IV libros senten- tiarum, Lugduni,
1495. Origene (sec. n) De prin. ..... De principiis. In Johann In Johannen.
Pascal Pensées . ..... I numeri si riferiscono all'ordina- mento dell’ed.
Brunschvicg. P.G.. MicNE, Patrologia Greca, il primo numero indica il volume.
Piibi vien di DI Micne, Patrologia Latina, il pri- mo numero indica il volume. Peirce C. S. (1839-1914)
Coll. Pap... ... Collected Papers, voll. I-VI, edited by C. Hartshorne e P.
Weiss, 1931-35; voll. VII-VIII, edited
by A. W. Burks, 1958. Pietro Ispano (Papa Giovanni XXI, sec. x111) Summ. log...
.. Summulae logicales, ed. I. M. Bo- chenski, 1947. Platone ‘Alc:; In ao è
404000 CE E IT 000080000» 000000 S. Th. Scheler Formalismus .... Sympathie . .
... Alcibiades, I,
II. Apologia Socratis. Charmides. Symposium. Cratylus. Crito. Critias.
Definitiones. Epistulae. Euthydemus. Euthyphro. Phaedo. Philebus. Gorgias. Ion.
Parmenides. Politicus. Protagoras. Respublica,
ed. Chambry, 1932. Sophista. Theaethetus. Timaeus. I testi sono citati nell’ed.
di Burnet, Oxford, 1899-1906. Enneades, ed. Bréhier, 1924. De civitate Dei.
Confessionum libri XIII. Summa Theologiae, a cura di P. Caramello, Torino,
1950. Summa contra Gentiles, Torino, 1938. Quaestiones disputatae de veritate,
Torino, 1931. Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, 1913-16.
Wesen und Formen der Sympathie 1923; trad. franc. Lefebvre, 1928. Simmtliche
Werke, a cura del figlio K. F. A. Schelling: I serie (opere edite), 10 voll.;
II serie (opere inedite), 4 voll, 1856 e seguenti. XI LISTA DELLE ABBREVIAZIONI
PRINCIPALI Schopenhauer Die Welt ..... Die Welt als Wille und Vor- stellung,
1819; 23 ed., 1844; trad. it. Savj-Lopez e De Lo- renzo, 1914-30. Scoto
Eriugena (sec. rx) De divis. nat. De divisione naturae, nella P. L., 122.
Seneca Episodi aes Epistulae morales ad Lucilium, ed. Beltrami, 1931; trad. it.
Boella, 1951. Sesto Empirico Adv. math. Adversus mathematicos, ed. J. Mau, Lipsia,
1954. Ip. Pim. ..... Pirroneion hypotyposeon libri tres, ed. Mutschmann, 1912.
Spinoza Etc e i Ga Ethica more geometrico demon- strata, 1677, in Opera a cura
di C. Gerhardt, 1923. Stobeo Ecl...
Wittgenstein Tractatus Eclocae physicae et ethicas, ed. Wachsmuth-Hense,
1884-1923. System of Logic Ratiocinative and Inductivr, 1843. De rerum natura
iuxta propria principia, I-II, 1565; II-IX, 1586; ed. V. Spampanato, 1910-23.
Tractatus logico-philosophicus, 1922. Cosmologia
generalis, 1731. Philosophia rationalis sive logica, 1728. Philosophia prima
sive ontologia, 1729. Altre abbreviazioni non sono sopra registrate o perchè
sono quelle solitamente usate dagli studiosi o perchè di immediato intendimento
come App. per Appendice; Fil. per Filosofia o Phil. per Philosophie o
Philosophy; Intr. per Introduzione o Introduction; Met. per Metafisica o
Métaphysique o Metaphysics o Metaphysik; Op. per Opere; Schol. per scholium;
ecc. Tai A. 1. Per primo Aristotele, in particolare negli Analitici, ha usato
le prime lettere maiuscole del- l’alfabeto, A, B, I, per indicare i tre termini
di un sillogismo. Tuttavia, poichè nella sua sintassi il predicato è posto
prima del soggetto (A brapyet té B, «A inerisce [o ‘appartiene ’) a B+) di so-
lito negli Analitici i soggetti sono B e T. Nella Logica dell’età moderna, con
l’uso di scrivere «A est B», A è diventato normalmente il simbolo del soggetto.
2. A cominciare dai trattatisti scolastici (pare, dalle Introductiones di
Guglielmo di Shyreswood, sec. xm), la lettera A viene usata nella Logica
formale « aristotelica» come simbolo della propo- sizione universale
affermativa (v.), secondo i noti versi pervenuti a noi in varie redazioni.
Nelle Summulae di Pietro Ispano (edit. Bochenski, l. 21) essi suonano: A
affirmat, negat E, sed universaliter ambae, I firmat, negat O, sed
particulariter ambae. 3. Nella logica modale tradizionale, la lettera A designa
la proposizione modale che consiste nella affermazione del modo e
nell’affermazione della proposizione. Per es., « È possibile che p » dove p è
una proposizione affermativa qualsiasi (ARNAULD, Log., II, 8). 4. Nella formula
« A è Ar o «A= A1 che si cominciò ad usare con Leibniz come tipo delle verità
identiche e fu assunta poi da Wolff e da Kant come espressione del cosiddetto
principio d’identità (v.), A significa un oggetto o un con- cetto qualsiasi.
Diceva Fichte: « Ciascuno accorda la proposizione A è A (come pure A= A perchè
questo è il significato della copula logica) ed in- fatti senza minimamente
pensarci sopra la si ri- conosce per pienamente certa e indubitabile » (Wis- 1
— ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. senschaftslehre, 1794, $ 1). La formula è
rimasta per lungo tempo a esprimere il principio di identità e nello stesso
tempo a costituire un tipo di verità assolutamente indubitabile. Dice Boutroux:
«Il principio di identità può esprimersi così A è A. Io non dico l’Essere ma
semplicemente A, cioè ogni cosa, assolutamente qualsiasi, suscettibile di esser
concepita, ecc.» (De l’idée de loi naturelle, 1895, pag. 12). 5. Nel simbolismo
di Lukasiewicz la lettera « A » è usata come il simbolo della disgiunzione per
la quale s’adopera più comunemente il simbolo « V » (cfr. A. CHURCH,
Introduction to Mathematical Logic, nota 9i). G. P.-N. A. ABALIETÀ. V. AserTÀ.
ABDERITISMO (ted. Abderitismus). Così fu chiamata da Kant la concezione che
considera la storia nè in progresso nè in regresso ma sempre nello stesso
stato. Da questo punto di vista la storia umana non avrebbe più significato di
quella di una qualsiasi specie animale, solo sarebbe più fa- ticosa (Se il
genere umano sia în costante progresso verso il meglio, 1798). ABDUZIONE (gr. araywyrh; lat.
Reductio; ingl. Abduction; franc. Abduction; ted. Abduc- tion). È un procedimento di prova indiretta,
se- midimostrativa (teorizzato da Aristotele in 7op., VIII, 5, 159b 8, e 160a
11 sgg.; An. Pr., II, 25, 69 a 20 sgg.), in cui la premessa maggiore è
evidente, la minore invece è solo probabile o comunque più facilmente accettata
dall’interlocutore che non la conclusione che si vuole dimostrare. Sebbene si
tratti in sostanza di un procedimento dialettico piuttosto che apodittico, era
già stato ammesso da Platone (cfr. Menone, 86 sgg.) per la matematica, e verrà
pure canonizzato tra i metodi di dimo- strazione matematica da Proclo (In Eucl.,
212, 24). 2 AB ESSE AD POSSE Il Peirce ha introdotto il termine abduction (0
retroduction) per indicare il primo momento del processo induttivo, quello
della scelta di un’ipotesi che possa servire a spiegare determinati fatti em-
pirici (Coll. Pap., 2.643). G. P. AB ESSE AD POSSE. È una delle conse- quentiae
formales temente confuso. Essa significa una disposizione costante, o relati-
vamente costante, ad essere o ad agire in un certo modo. Per es., l’«abito di
dire la verità» è la di- sposizione deliberata, che è in questo caso un impegno
morale, di dire la verità. Ed è altra cosa dall’« abitudine di dire la verità »
che implicherebbe un meccanismo adatto a far ripetere frequentemente l’azione
in questione. Così « l’abito di alzarsi presto la mattina» è una specie di
impegno che può costare sforzo ed esser penoso; «l’abitudine di alzarsi presto
la mattina » non costa più sforzo perchè è un meccanismo consuetudinario. La
parola è stata introdotta nel linguaggio filo- sofico da Aristotele il quale
(Mer., V, 20, 1022 b, 10) la definì come «una disposizione ad essere bene o mal
disposto verso qualche cosa, sia verso di sé che verso altro; e, per es., la
salute è un abito perchè è una disposizione siffatta ». In questo senso egli
ritenne che la virtù sia un abito, in quanto non è nè una «emozione» (come la
cupidigia, l’ira, la paura, ecc.) nè una « potenza» come sarebbe la tendenza
all'ira, al dolore, alla pietà, ecc. La virtù è piuttosto la disposizione ad
affrontare bene o male emozioni e potenze; per es., a indulgere agli impulsi
dell’ira o a moderarli (Et. Nic., II, 5). Lo stesso significato viene ripreso
da S. Tommaso, che lo riespone nel modo seguente (Contra Gent., IV, 77):
«L’abito si differisce dalla potenza in ciò che da esso non siamo resi capaci
di far qualcosa ma piuttosto abili o inabili a poter agire bene o male ». Il
concetto è rimasto pressocchè immutato sino ai nostri giorni. Dewey così lo
espone: « Quella specie di attività umana che è influenzata dall’atti- vità
precedente e in questo senso è acquisita; che contiene dentro di sè un certo
ordine o una certa sistemazione dei minori elementi di azione; che è
progettante, dinamico in qualità, pronto per la manifestazione aperta; e che è
operativa in qualche forma subordinata e nascosta anche quando non è attività
ovviamente dominante. Abito, anche nel suo uso ordinario, è il termine che
denota più da vicino questi fatti di ogni altra parola » (Zuman Nature and
Conduct, 1921, pag. 40-41). Dewey rite- neva che i termini «atteggiamento » e «
disposi- zione » andassero ugualmente bene per questo con- cetto; ed in realtà
questi due ultimi termini sono usati assai più frequentemente che abito e con
significati assai simili. ABITUDINE (gr. €806; lat. Consuerudo; in- glese
Habit, Custom; franc. Habitude; ted. Ge- wohnheit). In generale, la ripetizione
costante di un evento o di un comportamento, dovuto ad un mec- canismo di
qualsiasi genere, fisico, psicologico, bio- logico, sociale, ecc. Si assume, il
più delle volte, che tale meccanismo si formi mediante la ripetizione degli
atti o dei comportamenti e quindi, nel caso di eventi umani, mediante
l’esercizio. Diciamo « le cose abitualmente vanno così» per indicare una
qualsiasi uniformità di eventi, anche non umani, purchè non sia un’uniformità
rigorosa e assoluta ma soltanto approssimativa e relativa e tuttavia
suscettibile di autorizzare una previsione proba- bile. In questo senso
Aristotele disse (Rer., I, 10, 1369 b 6): « Si fa per abitudine ciò che si fa
perchè si è spesso fatto » e aggiunse che: « L’abitudine è in qualche modo
simile alla natura, giacchè ‘ spesso ’ e ‘sempre’ sono vicini; la natura è di
ciò che è sempre, l’abitudine di ciò che è spesso» (/bid., I, 11, 1370a 7). Con
ciò Aristotele vide nell’abi- tudine una specie di meccanismo, analogo ai mec-
canismi naturali, che garantisce, in qualche misura, la ripetizione uniforme di
fatti, atti o comporta- menti, eliminando o riducendo, nei confronti di questi
ultimi, sforzo e fatica e così rendendoli piacevoli. In questo significato il
termine è stato ed è co- stantemente adoperato in un coaturalmente » (Pensées,
n. 252). Fu questo il punto di vista che Hume, un secolo dopo, pose a base
della sua filosofia. Hume definì l’abi- tudine come la disposizione, prodotta
dalla ripe- tizione di un atto, a rinnovare l’atto stesso senza che intervenga
il ragionamento (Ing. Conc. Un- derst., V, 1). E si avvalse dell’abitudine così
intesa in primo luogo per spiegare la funzione delle idee astratte, che egli
considerò come idee particolari assunte come segni di altre idee parti- colari
simili. L’abitudine di considerare unite tra loro idee designate da un unico
nome, fa sì che il nome stesso risvegli in noi, non una sola di quelle idee nè
tutte, ma l’abitudine che abbiamo di con- siderarle assieme e quindi l’una o
l’altra di esse a seconda delle occasioni (7reatise I, 1, 7). All’abi- tudine
poi Hume ricorre per spiegare la connessione causale: per aver visto più volte
congiunti due fatti od oggetti, per es., la fiamma e il calore, il peso e la
solidità, siamo portati dall’abitudine ad aspet- tarci l'uno quando l’altro si
mostra. L'insieme della nostra vita quotidiana è fondato sull’abitudine. «Senza
l’abitudine — dice Hume (/nquiry, cit., V, 1) — saremmo interamente ignoranti
di ogni questione di fatto, fuori di quelle che ci sono im- mediatamente
presenti alla memoria o ai sensi. Non sapremmo adattare i mezzi ai fini e
impiegare i nostri poteri naturali a produrre un qualsiasi effetto. Ogni azione
sarebbe finita e così pure la parte principale della speculazione ». In modo
analogo ma in campo diverso, Bergson (riprendendo forse un’idea di Renouvier,
Nouvelle monadologie, pag. 298) si è servito della nozione di abitudine per
spiegare le obbligazioni morali; le quali non sarebbero esigenze di ragione, ma
abitudini sociali che garantiscono la vita e la so- lidità del corpo sociale
(Deux sources de la morale et de la religion, pag. 21). L’interpretazione
dell’abitudine come di una azione originariamente spontanea o libera che viene
poi fissata dall’esercizio, sì da poter essere ripetuta senza l’intervento del
ragionamento e della coscienza e quindi in modo meccanico, ha reso possibile
l’uso metafisico di questa nozione: uso che ricorre abbastanza frequentemente
nella filo- sofia moderna e contemporanea, specialmente nel- l’idealismo e
nello spiritualismo. Il primo a trarre partito da questo uso per la costruzione
di una metafisica dell’esperienza interiore è stato Maine de Biran nel suo
scritto Influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1803). Mentre le
abitudini pas- sive, che concernono le sensazioni, producono la diminuzione
della coscienza, le abitudini artive che concernono invece le operazioni,
producono la loro maggior facilità e perfezione e costituiscono perciò uno
strumento di liberazione dello spirito dai mec- canismi che tendono a formarsi
mediante la ripe- tizione dei suoi sforzi. Questa nozione di abitudine, che pur
essendo espressa nei termini della cosiddetta « esperienza interiore» o «senso
intimo», ha già una portata metafisica, perchè Maine de Biran ritiene che i
dati di quest’esperienza rivelino la realtà stessa, trova riscontro nella
dottrina di Hegel che le ha dedicato alcuni paragrafi della sua sezione sullo
Spirito soggettivo, nella parte dedicata all’Anima senziente (Enc., $ 409-10).
Hegel dice che mediante l’abitudine l’anima «ha il contenuto in suo pos- sesso
e lo ritiene in sè in modo che in tali deter- minazioni essa non sta come
sensitiva, non sta in relazione ad esse distinguendosene, nè è immersa in esse,
ma le possiede senza sensazione e senza coscienza e vi si muove dentro. L’anima
è perciò libera da esse in quanto non se ne interessa e non se ne occupa; ed
esistendo in queste forme come in suo possesso essa è insieme aperta ad ogni
ul- teriore attività ed occupazione (tanto della sensa- zione quanto della
coscienza spirituale in genere) ». Per questa funzione dell’abitudine, di
offrire al- l’anima il possesso di un certo contenuto, in modo che essa possa
avvalersi di tale contenuto « senza sensazione e senza coscienza » sicchè
sensazione e coscienza ridiventano libere, cioè disponibili per altre
operazioni, Hegel ha sottolineato l’importanza dell’abitudine per la vita
spirituale. « L’abitudine, egli ha detto, è la cosa più essenziale
all’esistenza di ogni spiritualità nel soggetto individuale affinchè il
soggetto esista come soggetto concreto, come idealità dell’anima; affinchè il
contenuto religioso, morale, ecc., appartenga a lui come a questo se stesso, a
lui come a questa anima; nè sia in lui solo in sè (come disposizione) nè come
sensazione e come rappresentazione passeggera, nè come in- teriorità astratta
separata dal fare e dalla realtà, ma nel suo essere ». Il che vuo! dire che
l'abitudine incorpora un certo contenuto nell’essere stesso del- l’anima
individuale, come un possesso effettivo, che si traduce in azione reale. Sulle
orme di Maine de Biran, Ravaisson ha proposto una vera e propria metafisica
dell’abitu- dine, che espose in una memoria famosa (Sull’abi- tudine, 1838).
Nell’abitudine Ravaisson vide una idea sostanziale cioè un’idea che si è
trasformata in sostanza, in realtà, e che agisce come tale. L’abi- tudine non è
un puro meccanismo ma una « legge di grazia » in quanto segna il predominio
della causa finale sulla causa efficiente. Essa consente perciò di intendere la
natura stessa come spirito e come attività spirituale, giacchè dimostra che lo
spirito può farsi natura e la natura spirito. Essa4 ABNEGAZIONE consente di
ordinare tutti gli esseri in una serie di cui la natura e lo spirito
rappresentano i limiti estremi. « Il limite inferiore è la necessità, il
destino, se si vuole, ma nella spontaneità della natura; il limite superiore è
la libertà dell’intelletto. L’abitu- dine discende dall’uno all’altro,
riavvicina questi contrari, e riavvicinandoli ne svela l’essenza intima e la necessaria
connessione». Da Bergson in poi frequentemente questi concetti sono stati
ripresi nello spiritualismo contemporaneo, per spiegare in qualche modo il «
meccanismo della materia » e ricondurlo alla spontaneità spirituale. ABNEGAZIONE (gr. drdpwnow;
lat. Abne- gatio; ingl. Self-denial; franc. Abnégation; ted. Ver- leugnung). È il rinnegamento di sè e la disposi- zione di
mettersi a servizio degli altri o di Dio col sacrificio dei propri interessi.
Così la nozione è de- scritta nel Vangelo (Matt., XVI, 24; Luc., IX, 23): «Se
uno vuole seguirmi rinneghi se stesso e porti giorno per giorno la sua croce».
Questo rinnega- mento di se stesso, però, non è la perdita di se stesso ma
piuttosto il ritrovamento del vero « se stesso +, come è spiegato nel versetto
successivo a quello ci- tato: « giacchè chiunque vorrà conservare la sua vita
la perderà; ma chiunque perderà la sua vita per me la salverà ». Perciò la
nozione di abnegazione non è, nei Vangeli, una nozione di morale ascetica ma
piuttosto esprime l’atto del rinnovamento cristiano, per il quale, dalla
negazione dell’uomo vecchio, nasce l’uomo nuovo o spirituale. AB UNIVERSALI AD
PARTICULAREM. È una delle consequentiae formales (v. Conseguenza) della Logica
scolastica: ab universali ad particu- larem, sive indefinitam sive singularem
valet (tenet) consequentia; cioè: da «ogni A è B» valgono le conseguenze
qualche A è B», « A è Ba, <S (se Sè un A)è B». G.P. ACATALESSIA (gr.
axatoAnpla; ingl. Acara- lepsy; franc. Acatalepsie; ted. Akatalepsie). È la negazione
operata da Pirrone e dagli altri Scettici antichi della rappresentazione
comprensiva (pavtuola xataAnmtuh) cioè della conoscenza che consente di
comprendere e afferrare l’oggetto, la quale era, secondo gli Stoici, la
conoscenza vera. L’acatalessia è l’atteggiamento di chi dichiara di non
compren- dere e per conseguenza sospende il suo assenso, cioè non afferma nè
nega (Sesto EMP., /p. Pirr., I, 25). ACCADEMIA (gr. ’Axadiuea; lat. Academia; ingl.
Academy; franc. Académie; ted. Akademie).
Propriamente la scuola fondata da Platone nel gin- nasio che prendeva nome
dall’eroe Academo e che dopo la morte di Platone fu diretta da Speusippo
(347-339 a. C.), da Senocrate (339-14 a. C.), da Pole- mone (314-270 a. C.) e
da Cratete (270-68 a. C.). In questa fase l'Accademia continuò la speculazione
platonica legandola sempre più strettamente al pi- tagorismo e appartennero ad
essa matematici e astronomi, fra i quali il più famoso fu Eudosso di Cnido.
Alla morte di Cratete l'Accademia mutò indirizzo con Arcesilao di Pitane (315 o
314-241 o 240 a. C.) avviandosi verso un probabilismo che prendeva lo spunto da
quanto Platone aveva af- fermato intorno alla conoscenza delle cose naturali:
le quali, non avendo alcuna stabilità e saldezza, non possono dar origine ad
una conoscenza sta- bile e salda ma solo ad una conoscenza probabile. Da
Arcesilao e dai suoi successori (di cui non sappiamo quasi nulla) questo punto
di vista fu esteso all’intera conoscenza umana nel periodo che si chiamò della
« media Accademia ». La « nuova Accademia » comincia con Carneade di Cirene
(214 o 212-129 o 128 a. C.); quest’indirizzo scetti- cheggiante e
probabilistico fu mantenuto sino a Filone di Larissa che, nel 1 secolo a. C.,
iniziò la IV Accademia d’indirizzo eclettico, alla quale soprattutto si ispirò
Cicerone. Ma l'Accademia platonica durò ancora a lungo e rinnovò ancora il suo
indirizzo nel senso religioso-mistico che è proprio del neo-Platonismo (v.).
Solo nel 529 l’im- peratore Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia e
confiscò l’ingente patrimonio dell’Ac- cademia. Damascio, che ne era il capo,
si rifugiò con altri suoi compagni, tra cui Simplicio, autore di un vasto
commentario ad Aristotele, in Persia; ma di lì tornarono presto disillusi. La
tradizione indipen- dente del pensiero platonico ebbe così termine. ACCADEMIA
FIORENTINA. Fu fondata per iniziativa di Marsilio Ficino e di Cosimo de’ Me-
dici e raccolse un circolo di persone che vedevano la possibilità di rinnovare
l’uomo e la sua vita re- ligiosa mediante un ritorno alle dottrine genuine del
platonismo antico. In queste dottrine i seguaci del platonismo e specialmente
Marsilio Ficino (1433- 1499) e Cristofaro Landino (vissuto tra il 1424 e il
1498) vedevano la sintesi di tutto il pensiero re- ligioso dell’antichità e
quindi anche del cristiane- simo e perciò la più alta e vera religione
possibile. Con questo ritorno all’antico si connette un altro aspetto
dell’Accademia fiorentina, l’anticurialismo; contro le pretese di supremazia
politica del papato l’Accademia sosteneva un ritorno all’idea imperiale di Roma
e quindi faceva oggetto frequente di com- menti e di discussioni il De
monarchia di Dante (v. RINASCIMENTO). ACCADIMENTO (gr. cvuBeBnxéc; lat. Ac-
cidens; ingl. Occurrence; franc. Événement; te- desco Vorfalressa dalla definizione;
perciò è un accidente. Ma è un accidente che ap- partiene al triangolo non per
un caso, cioè per una causa indeterminabile, ma a causa del trian- golo stesso
cioè per quello che il triangolo è; ed è perciò un accidente eterno (Mer., V,
30, 1025a 31 sgg.). Aristotele illustra la differenza nel modo seguente (An.
Post., 4, 73 b 12 sgg.): « Se mentre qualcuno cammina, lampeggia, questo è un
acci- dente, giacchè il lampeggiare non è causato dal camminare... Se invece un
animale muore sgoz- zato a causa della ferita, diremo che esso è morto perchè è
stato sgozzato, e non già che gli sia acca- duto accidentalmente di morire
sgozzato ». In altri termini l’accidente per sè è connesso causalmente (e non
casualmente) con le determinatte che la parola « modo» che egli adopera sia
sino- nimo di accidente; sinonimia che sembra suggerita dalla definizione che
egli dà del modo (£r., I, def. 5) come ciò che è in altro ed è concepito per
mezzo di quest'altro. Comunque il mutamento di significato è chiaramente riscontrabile
in Kant e Hegel. Kant dice (Crit. R. Pura, Analitica dei princìpi, Prima
Analogia): «Le determinazioni di una sostanza le quali non sono che modi
speciali di esistere di essa, si chiamano accidenti. Essi sono sempre reali,
perchè riguardano l’esistenza della sostanza. Ora se a questo reale che è nella
so- stanza (per es., al movimento come accidente della materia) si attribuisce
una speciale esistenza, questa esistenza si chiama inerenza per distinguerla
dalla esistenza della sostanza che si chiama sussistenza +. Questo passo
riprende la terminologia scolastica in un significato del tutto differente
perchè gli ac- cidenti sono considerati come « modi speciali di esistere »
della sostanza stessa. Analoga nozione si trova in Hegel il quale dice (Enc., $
151): «La sostanza è la totalità degli accidenti nei quali essa si rivela come
la loro assoluta negatività, cioè come potenza assoluta, ed insieme come la
ricchezza di ogni contenuto ». Il che significa che gli accidenti, nella loro
totalità sono la rivelazione o manife- stazione stessa della sostanza. Fichte
aveva d’al- tronde espresso un concetto analogo asserendo, sulle orme di Kant,
che « Nessuna sostanza è pen- sabile se non è riferita a un A.... Nessun A. è th;
francese Accidie; tedesco Acedie). La noia o nausea nel mondo medievale: il
torpore o l’inerzia in cui ca- devano i monaci dediti alla vita contemplativa.
Se- condo S. Tommaso, essa consiste nel « rattristarsi del bene divino » ed è
una specie di torpore spiri- tuale che impedisce di iniziare il bene (S. 7h.,
II II, q. 35, a. 1). L’accidia ha in comune con la noia lo stato che la
condiziona, stato, non di bisogno, ma di soddisfazione (v. NOIA). ACCORDO
(ingl. Agreement; franc. Conve- nance; ted. Ùbereinstimmung). Questa nozione è
servita nell’età moderna a definire la natura del giudizio o della proposizione
in generale. Dice la Logica di Porto Reale: « Dopo aver concepite le cose
mediante le nostre idee, noi paragoniamo queste idee fra di loro; e trowpé<e
= mucchio, consiste nel domandare quanti grani di frumento occorrono per
formare un mucchio; basta forse un solo grano? Ne bastano due?, ecc. Sic- come
è impossibile determinare a qual punto co- mincia un mucchio, si adduce
quest’argomento contro la pluralità delle cose (Cic., Acad., II, 28, 92 sgg.;
16, 49; Diog. L., VII, 82). Lo stesso argo- mento è stato talora espresso in
altra forma sotto il nome di argomento del calvo (cfr. Diog. L., II, 108) e
consiste nel chiedere se un uomo diventa calvo quando gli si strappa un
capello. E quando se ne strappano due? E così via. ACHILLE (gr. ‘Ayoaesc; lat.
Achilles; inglese Achilles; franc. Achille; ted. Achilleus). Con questo nome si
indicava il secondo dei quattro argomenti di Zenone d’Elea contro il movimento.
Esso così viene espresso da Aristotele: «Il più lento nella corsa non sarà mai
raggiunto dal più veloce: giacchè colui che insegue dovrà cominciare per
raggiungere il punto da cui è partito il fuggitivo, di modo che il più lento
sarà sempre in vantaggio + (Fis., VI, 9, 239 b 14). Il presupposto di questo,
come degli altri argomenti, è l’infinita divisibilità dello spazio. V.
DICOTOMIA, FRECCIA, STADIO. A CONTRARIO. Forma di argomentazione dialettica per
analogia: dal contrario si conclude il contrario. (Se ad A conviene un
predicato B, a non-A è probabile convenga un predicato non-B). G. P. ACOSMISMO
(ingl. Acosmism; franc. Acos- misme; ted. Akosmismus). Termine adoperato da
Hegel (Enc., $ 50) per caratterizzare la posizione di Spinoza, in opposizione
con l’accusa di € ateismo » frequentemente rivolta a questo filosofo. Spinoza,
secondo Hegel, non mescola Dio con la natura e con il mondo finito considerando
come Dio il mondo, ma piuttosto nega la realtà del mondo finito affermando che
Dio, e Dio solo, è reale. In questo senso la sua filosofia non è a-teismo ma
a-cosmismo; e Hegel ironicamente nota che l’ac- cusa contro Spinoza deriva
dalla tendenza a credere che si può più facilmente negare Dio anzichè il mondo.
ACRIBIA (gr. dxplBewa). Esattezza o preci- sione. Nel senso moderno, scrupolo
nel seguire le regole metodiche di una qualsiasi ricerca scien- tifica. Nel
significato platonico «l’esatto in sè» (&utò taxpiBéc) è il giusto mezzo
(tò pérptov) cioè il conveniente o l’opportuno in quanto oggetto di una delle
due branche fondamentali dell’arte della misura cioè di quella che propriamente
interessa l’etica e la politica. L’altra branca della stessa arte è quella
propriamente matematica che concerne il numero, la lunghezza, l’altezza, ecc.
(Pol., 284 d-e). ACROAMATICO (gr. dxponpatixéc; inglese Acroamatic; franc.
Acroamatique; ted. Akroama- tisch). Così sono stati chiamati, perchè destinati
agli ascoltatori, gli scritti di Aristotele che costi- tuivano lezioni da lui
tenute al Liceo per distin- guerle da quelle destinate al pubblico, di cui non
ci restano che frammenti. Tutte le opere aristote- liche da noi possedute sono
acroamatiche, perchè gli scritti che egli compose per un pubblico più vasto, e
che erano quasi tutti in forma di dialogo, caddero in disuso quando gli scritti
di lezioni, portati a Roma da Silla, furono riordinati e pub- blicati da
Andronico da Rodi verso la metà del I secolo avanti Cristo (v. ESSOTERICO).
ADDIZIONE LOGICA (ingl. Logica! Ad- dition; franc. Addition logique; ted.
Logische Ad- dition). Nell’ Algebra della Logica (v.) si chiama così
l’operazione «a + 5», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle
dell’addizione aritmetica (importantissima l’eccezione «a + a = a»). Inter-
pretata come operazione tra classi «a + 5+ viene a formare la classe contenente
tutti e soli gli elementi, comuni e non comuni, della classe a e della classe
d. Interpretata come operazione tra proposizioni, «a + b» ne indica
l’affermazione disgiuntiva («a o br). G.P. ADEGUATO rità suprema in quanto il
suo inten- dere è la misura di tutto ciò che è e di ogni altro intendere. La
nozione di adeguazione (o accordo, o conformità, o corrispondenza) viene
presupposta e adoperata da molte filosofie e precisamente da tutte quelle le
quali considerano la conoscenza come un rapporto di identità o somiglianza (v.
CONOSCENZA). Locke afferma che «la nostra conoscenza è reale solo se vi è una
conformità tra le idee e la realtà delle cose» (Saggio, IV, 4, $ 3). Kant
stesso di- chiara di presupporre « la definizione nominale della verità come
accordo della conoscenza col suo 0g- getto» e si propone l’ulteriore problema
di un criterio « generale e sicuro per determinare la verità di ciascuna
conoscenza» (Crit. R. Pura, Logica trasc., Intr., III) riterio rimane quello
della corri- spondenza. Dall’indirizzo linguistico della filosofia analitica
contemporanea la nozione della corrispon- denza viene mantenuta come rapporto
di somiglianza tra linguaggio e realtà. Wittgenstein, per es., dice: «La
proposizione è l’imagine (2i/d) della realtà... La proposizione, se è vera, mostra
come stanno le cose» (Tractatus, 4.021, 4.022). La coincidenza di dottrine così
diverse su questa nozione di verità è dovuta all’interpretazione della
conoscenza come rapporto di assimilazione (v. CONOSCENZA; VERITÀ). AD HOMINEM.
Così fu chiamata nella logica del ’600 l’argomentazione dialettica che consiste
nel contrapporre all’avversario le con- seguenze che risultano dalle tesi meno
proba- bili concesse o approvate da lui (Jcapelli del capo o le stelle siano in
numero pari. Il secondo indica ciò per cui si sente impulso o repulsione ma non
più per questo che per quello, come nel caso di due monete identiche di cui
bisogna scegliere una. In terzo senso, si dice indifferente «ciò che non
conferisce nè alla feli- cità nè all’infelicità, come la salute e la ricchezza
o in altri termini, ciò di cui è possibile fare uso buono o cattivo » (/p.
Pirr., III, 177). Kant usò il termine per indicare le azioni credute moralmente
indifferenti cioè nè buone nè cattive (Religion, I, Osservazione e nota
relativa) (v. LATITUDINARISMO; RIGORISMO). ADIAFORISTICA, Controversia (inglese
Adiaphoristic Controversy; franc. Controverse Adia- phoristique; ted.
Adiaphoristen Streit). La contro- versia sorta tra i Luterani intorno al valore
di quelle pratiche religiose (come la Messa, l’Estrema Unzione, la Cresima,
ecc.) che Lutero aveva di- chiarato «indifferenti » per la salvezza e che
Melan- tone aveva accettato per spirito di compromesso 0 di pace. La
controversia fu conclusa con la « for- mula di concordia» del 1577-80 che riconfermava
il carattere indifferente o neutro dei riti e delle cerimonie. A DICTO SECUNDUM
QUID AD DICTUM SIMPLICITER. È una delle con- sequentiae formales (v.
Conseguenza) della Logica aristotelica scolastica: a dicto secundum quid ad
dictum simpliciter non valet consequentia; cioè se A è Bin relazione a qualche
cosa, non consegue che A sia B in senso assoluto (ARIST., E/. Sof., 168 b 11;
Pietro Isp., Summ. Log., 7.46). G.P. AD IGNORANTIAM. Così Locke chiamò
l'argomento che consiste nell’esigere che l’avver- AFFEZIONE 9 sario accolga la
prova addotta o ne porti una migliore (Saggio, IV, 17, 20). AD JUDICIUM. Così
Locke chiamò l’ar- gomentazione che consiste «nell’usare le prove tratte da uno
qualunque dei fondamenti della co- noscenza o della probabilità ». È la sola
argomen- tazione valida (Saggio, IV, 17, 22). ADOMBRAMENTO (ted. Abschattung).
Ter- mine adoperato da Husserl per indicare il modo parziale e approssimato in
cui la cosa esterna è data alla coscienza percettiva. Per es.: « Il medesimo
colore appare in serie continuative di adombra- menti di colore. Lo stesso vale
per ogni qualità sensibile e per ogni figura spaziale. L’unica e me- desima
figura, in quanto data in carne ed ossa come medesima, appare continuamente ‘in
modo diverso *, in sempre diversi adombramenti di figura. È questa una
necessaria situazione di cose, che ha validità universale » (/deen, I, $ 41).
ADOZIONISMO (ingl. Adoptionism; francese Adoptionisme; ted. Adoptionismus). La
dottrina se- condo la quale Cristo, nella sua natura umana, è considerato come
Figlio di Dio solo per adozione. Questa dottrina è comparsa varie volte nella
storia della Chiesa. Fu insegnata da Teodoro vescovo di Mopsuestia intorno al
400; fu ripresa nel sec. vii da alcuni vescovi spagnoli, combattuta da Alcuino
e condannata nel Concilio di Francoforte del 794. La dottrina implicava
l’indipendenza della natura umana da Dio e quindi il dualismo di natura umana e
natura divina: dualismo inammissibile dal punto di vista della dogmatica
cristiana. AD VERECUNDIAM. Così Locke chiamò l’argomentazione che consiste «
nel citare le opi- nioni di uomini il cui ingegno, dottrina, eminenza, potere o
qualche altra causa ha ottenuto un nome e stabilito la reputazione nella stima
comune con Capri specie di autorità » (Saggio, IV, 17, 19). l'appello
all’autorità. AFASIA (gr. dpacla; ingl. Aphasia; francese Aphasie; ted.
Aphasie). In senso filosofico, è l’at- teggiamento degli Scettici in quanto si
astengono dal pronunciarsi, cioè dall’affermare o negare al- cunchè intorno a
tutto ciò che «è oscuro» cioè che non muove la sensibilità in modo da produrre
una modificazione che spinge necessariamente ad assentire. L'A. è così
l'astensione dal giudizio connessa con la sospensione dell’assenso (v.) (SESTO
EMPIRICO, /p. Pirr., I, 20, 192 sgg.). AFFERMAZIONE (gr. xatépaoc; lat. Af-
firmatio; ingl. Affirmation; franc. Affirmation; te- desco Bejahung). Termine
col quale si può designare tanto l’atto dell’affermare, quanto il contenuto af-
fermato, ossia la proposizione affermativa, Aristo- tele la considerò pertanto
come una delle due forme dell’asserzione e precisamente quella che « unisce
qualcosa con qualcosa» (De /nterpret., 17a 25). Secondo la medesima teoria
aristotelica, essa unisce due concetti in un concetto composito. Sostanzial-
mente la tradizione logica successiva ha conservato questa dottrina e quindi
questo significato del ter- mine; soltanto i seguaci della teoria del giudizio
coione, la protezione, l’attaccamento, la gratitudine, la tenerezza, ecc., che,
nel loro complesso possono essere caratterizzati come la situazione in cui una
persona «si prende cura di + o « nutre sollecitudine per» un’altra persona o in
cui quest’altra risponde positivamente alla cura o alla sollecitudine di cui è
fatta oggetto. Ciò che comunemente si chiama « bisogno di A.» è il bisogno di
essere compreso, assistito, aiutato nelle proprie difficoltà, seguito con
occhio benevolo e fiducioso. In questo senso l’A. non è che una delle forme
dell’amore (v.). AFFEZIONE (gr.
nd00c; lat. Passio; ingl. Af- fection; franc. Affection; ted. Affektion). Questo ter- mine, che viene talora usato
promiscuamente con affetto (v.) e passione (v.), si può distinguere da essi, in
base all’uso prevalente nella tradizione filosofica, per la sua maggiore
estensione e gene- ralità: in quanto designa ogni stato, condizione o qualità
che consiste nel subire un'azione o nell’es- 10 AFFEZIONE sere influenzato o
modificato da essa. In questo senso un affetto (che è una specie di emozione
[v.)) o una passione è bensì un’A., in quanto implica un'azione subita, ma ha
anche altri caratteri che ne fanno una particolare specie di affezione. Di-
ciamo comunemente che un metallo è affetto dal- l’acido, o che il tale ha un’A.
polmonare; mentre riserviamo le parole « affetto» e «passione» per situazioni umane,
le quali presentano tuttavia un certo grado di passività in quanto stimolate od
occasionate da agenti esterni. In questo senso generalissimo, Aristotele intese
la parola r&8os, che egli considerò come una delle dieci categorie ed
esemplificò con « venir tagliato, venir bruciato » (Car., 2a 3); e chiamò
affettive (ra&ituxa) le qualità sensibili perchè ciascuna di esse produce
un’A. dei sensi (/bid., 9 b 6). Dichia- rando inoltre, al principio del De
Anima, lo scopo della sua ricerca, Aristotele la intese diretta a co- noscere,
oltre che la natura e la sostanza dell’anima, tutto ciò che ad essa accade,
cioè sia le A. che sem- brano sue proprie, sia quelle che essa ha in comune con
l’anima degli animali (De An., I, 1, 402a 9). Nel qual testo la parola A. (r&0n)
designa tutto ciò che all’anima accade, cioè qualsiasi modificazione essa
subisca. Il carattere passivo delle A. dell’anima, carattere che sembrava
minacciare l’autonomia ra- zionale di essa, condusse gli Stoici a dichiarare
irra- zionali, quindi cattive, tutte le emozioni (Diog. L., VII, 110): di qui
la connotazione moralmente nega- tiva che assunse l’espressione « A. dell’anima
» e che si rivela chiaramente in espressioni come per- turbatio animi o
concitatio animi che vengono usate da Cicerone (Tusc., IV, 6, 11-14) e da
Seneca (Ep., 116), e sono espressamente ritenute da S. Ago- stino (De Civ. Dei,
IX, 4) sinonime con quelle di affectio e affectus (emozione). Ma S. Agostino e,
dietro di lui, gli Scolastici, mantennero il punto di vista aristotelico della
neutralità delle A. del- l’anima dal punto di vista morale, nel senso che esse
possono essere buone o cattive a seconda che sono moderate o meno dalla
ragione; punto di vista che S. Tommaso difese richiamandosi ap- punto ad
Aristotele e a S. Agostino (S. 7A., II, I, q. 24, a. 2). La nozione di
modificazione subita, cioè di qua- lità o condizione prodotta da un’azione
esterna, si mantiene costante nella tradizione filosofica e viene espressa il
più delle volte con la parola passio la quale solo nella seconda metà del xviit
secolo assume il suo significato moderno (v. PASSIONE). Così Alberto Magno
intende con A. «l’effetto e la conseguenza dell’azione » (S. 7h., I, q. 7, a.
1). S. Tommaso, che dà identica definizione (/bid., I, q. 97, a. 2) distingue
tre significati del termine: «Il primo, che è il più proprio si ha quando qual-
cosa viene allontanata da ciò che ad essa conviene secoe il paziente siano
spesso assai di- versi, l’azione e l’affezione non cessano d'essere sempre una
stessa cosa che ha questi due nomi per via dei due soggetti diversi ai quali la
si può riferire ». In senso analogo la parola viene adope- rata da Spinoza per
definire quelli che egli chiama affectus e che noi chiameremmo emozioni o
senti- menti. Le emozioni, in quanto passiones cioè A., costituiscono
l’impotenza dell’anima e l’anima le vince trasformandole in idee chiare e
distinte. «L’emozione, dice Spinoza (Ef., V, 3) che è un’A., cessa di essere
un'A. appena ci formiamo di essa un'idea chiara e distinta ». In tal caso,
infatti, quest'idea si distingue solo razionalmente dall'emozione e si
riferisce alla sola mente; così essa cessa di essere un’A. (/bid., A.; i
concetti, invece, su funzioni » (Crit. R. Pura, Anali- tica dei concetti, I,
sez. I). Queste notazioni kantiane sono in polemica con la tesi della scuola
leibniziano- wolffiana che faceva consistere la sensibilità nelle
rappresentazioni indistinte e l’intellettualità in quelle distinte: il che,
notava Kant (Antr., $ 7, nota), significa far consistere la sensibilità in una
mancanza (mancanza di distinzioni), mentre essa è qualcosa di positivo e di
indispensabile alla conoscenza in- tellettuale. In conclusione il termine A.,
inteso come rice- zione passiva o modificazione subita, non ha ne-
cessariamente una connotazione emotiva; e per quanto sia stato adoperato
frequentemente a pro- posito di emozioni ed affetti (per il carattere
chiaramente passivo di Aphorism; franc. Aphorisme; ted. Aphorismus).
Proposizione che esprime in ma- niera succinta una verità, una regola o una massima
concernente la vita pratica. Dapprima la parola fu usata quasi esclusivamente
per indicare le formule che esprimono, in modo abbreviativo e mnemonico, i
precetti dell’arte medica: per es., gli A. di Ippo- crate. Bacone espresse
sotto forma di A. le sue osservazioni (contenute nei I libro del Novum Organum)
« sulla interpretazione della natura e sul regno dell’uomo »: probabilmente per
sottolineare il carattere pratico e attivo di queste osservazioni in quanto
sono dirette a preparare il dominio del- l’uomo sulla natura. E Schopenhauer
chiamò A. sulla saggezza della vita (nei Parerga und Paralipomena) i suoi
precetti per rendere più felice, o meno infe- lice, l’esistenza umana,
conservando così alla parola il suo significato di massima o regola per dirigere
l’attività pratica dell’uomo. A FORTIORI. Espressione che non indica un modo
specifico di argomentare ma significa sem- plicemente «a più forte ragione».
Qualche logico designa con questa espressione le inferenze transi- tive del
tipo «x implica y, y implica z, dunque x implica z » (cfr. STRAWSON,
Introduction to Logical Theory, 1952, pag. 207). AFRICA (ingl. Africa; franc.
Afrique; tedesco Afrik). I filosofi hanno talora cercato di giusti- ficare «
speculativamente », cioè nei termini della loro filosofia, anche la partizione
dei continenti considerandola non già come casuale o convenzio- nale ma come
essenziale e razionale. Così apparve a Hegel la partizione del vecchio mondo in
tre parti, A., Asia ed Europa che starebbero tra loro come tesi, antitesi e
sintesi. L'A. rappresenterebbe in questa triade il momento in cui lo spirito
non riesce a giungere alla coscienza e l’uomo rimane abbrutito nella passività
e nella schiavitù (Philo- sophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 203 sgg.).
Analogamente Gioberti vide nella razza africana «la più degenere delle tre
schiatte umane » perchè «il nero è privazione della luce» (Prorologia, II, pag.
221). AGAPISMO (ingl. Agapism). Termine ado- perato da Peirce per designare la
« legge dell'amore evolutivo » in virtù della quale l’evoluzione cosmica
tenderebbe ad un incremento dell’amore fraterno fra gli uomini (Coll. Pap., 6.
60; ARNAULD, Log., II, 1). Nella linguistica moderna l’A. è quella classe di
parole definibile per la sua funzione di caratterizzare la sostanza ed è diviso
in descrittivo o limitativo, a seconda che segue o precede il nome (cfr.
BLOOMFIELD, Language, 1933, pag. 202 sgg.). AGGREGATO (ingl. Aggregate; franc.
Agré- gat; ted. Aggregat). In generale una collezione, un agglomerato, un
raggruppamento, una somma o una quantità di cose che conservano tuttavia la
loro individualità. Il termine ha un uso esteso nella matematica e nella logica
matematica contempo- ranea (v. INSIEME) e in generale nelle scienze naturali
che lo adoperano per indicare, in generale, masse o raggruppamenti di elementi
che conservano, stando insieme, le proprietà che hanno separata- mea del sapere
col procedi- mento che fu poi seguito anche da Spencer per determinare i
confini dell’Inconoscibile (v.). AGNOSIA (gr. aywwota; ingl. Agnosy; francese
Agnosie; ted. Agnosie). L’atteggiamento di chi pro- fessa di non conoscere
nulla, come fu quello di Socrate che affermava di sapere solo di non sapere
(PLATONE, Apol., 21 a) e che lo scettico Arcesilao rinforzava dicendo di non
sapere neppure questo (Cic., Acad., I, 45). AGNOSTICISMO (ingl. Agnosticism;
fran- cese Agnosticisme; ted. Agnosticismus). Il termine fu coniato dal
naturalista inglese Tommaso Huxley nel 1869 (Collected Essays, V, pag. 237
sgg.) per indicare l'atteggiamento di chi si rifiuta di am- mettere soluzioni
di quei problemi che non possono essere trattati con i metodi della scienza
positiva e segnatamente dei problemi metafisici e religiosi. Huxley stesso
dichiarò di aver coniato il termine «come antitesi dello ‘gnostico * della storia
della Chiesa che pretendeva di saperla lunga sulle cose che io ignoravo ». Il
termine fu ripreso da Darwin che si dichiarò agnostico in una lettera del 1879.
D'’allora in poi il termine fu usato a designare l’at- teggiamento degli
scienziati di indirizzo positivi- stico di fronte all’Assoluto, all’Infinito, a
Dio ed ai problemi relativi, atteggiamento contrassegnato dal rifiuto di
professare pubblicamente una qual- siasi opinione intorno a tali problemi. Così
fu detta agnostica la posizione di Spencer che nella prima parte dei Primi
principi (1862) intese dimo- strare l’inaccessibilità della realtà ultima cioè
della forza misteriosa che si manifesta in tutti i fenomeni naturali. Il
fisiologo tedesco Du-Bois Raymond in uno scritto del 1880 enunciava Sette
enigmi del mondo (l’origine della materia e della vita; l'origine del
movimento; il sorgere della vita; l’ordinamento finalistico della natura; il
sorgere della sensibilità e della coscienza; il pensiero razionale e l’origine
del linguaggio; la libertà del volere) di fronte ai quali egli riteneva che
l’uomo fosse destinato a pronunciare un igrorabimus in quanto la scienza non
potrà mai risolverli. Nello stesso periodo la parola fu estesa a designare
anche la dottrina di Kant in quanto essa ritiene che il noumeno o cosa in sè è
al di là dei limiti della conoscenza umana (v. NouMENno). Ma questa estensione
della parola non può dirsi del tutto legittima, data la concezione kantiana del
noumeno come concetto- limite. Fa parte integrante della nozione di A. la riduzione
dell’oggetto della religione a semplice « mistero », rispetto al quale i
simboli che si adope- rano per interpretarlo rimangono del tutto ina- deguati.
AGOSTINISMO (ingl. Augustinianism; fran- cese Augustinism; ted. Augustinismus).
S’intende con questo termine, più che l’intera dottrina originale di S.
Agostino, quell’insieme di elementi dottrinali agostiniani che caratterizzarono
uno degli indirizzi della Scolastica (v.) che fu seguito prevalentemente dai
dottori francescani, in polemica con l’indirizzo aristotelico-tomista dei
dottori domenicani. La fi- sionomia generale dell'A. medievale può essere
espressa con i seguenti punti (cfr. MANDONNET, Siger de Brabant, 2* ediz.,
1911, I, pag. 55 sgg.): a) man- canza di una distinzione precisa tra il dominio
della filosofia e quello della teologia cioè tra l’ordine delle verità
razionali e quello delle verità rivelate; b) teoria dell’illuminazione divina,
secondo la quale l'intelligenza umana non può funzionare se non per l’azione
illuminatrice e immediata di Dio e non può trovare la certezza della sua
conoscenza se non nelle regole eterne e immutabili della scienza divina; c)
preminenza della nozione di bene su quella del vero e perciò della volontà
sull’intelligenza sia ALGEBRA DELLA LOGICA 13 in Dio che nell'uomo; d)
riconoscimento alla ma- teria di una realtà positiva, in contrasto con Ari-
stotele che vede in essa una pura potenzialità; dal che deriva, per es., che il
corpo umano possiede già una sua realtà o attualità, cioè una forma in-
dipendentemente dall’anima e che l’anima è quindi una forma ulteriore che si
aggiunge al composto vivente e animale; di qui la cosiddetta pluralità delle
forme sostanziali nel composto. Questi tratti accomunano i grandi maestri della
scolastica francescana come Alessandro di Hales (1770 circa), Roberto
Grossatesta, S. Bonaventura, Ruggiero Bacone, Duns Scoto e molti altri minori.
Alcuni di quei tratti si possono anche riconoscere in dottrine filosofiche
moderne e contemporanee, alle quali pervengono attraverso la tradizione me-
dievale o direttamente dall’opera di S. Agostino. ALBERO DI PORFIRIO (lat.
Arbor Por- phyriana; ingl. Tree of Porphyry; franc. Arbre de Porphyre; ted.
Baum des Porphyrius). Celebre schema o modello di definizione per dicotomie
successive, discendente dal genere generalissimo alle specie infime (sostanza:
corporea, incorporea; sostanza corporea [corpo]: animato, inanimato; corpo
animato: sensibile, insensibile; corpo ani- mato sensibile [animale]:
ragionevole, irragione- vole; animale ragionevole: mortale, immortale; animale
ragionevole mortale [uomo]: Socrate, Pla- tone, ecc.). Sebbene tale «albero»
non si trovi propriamente nei manoscritti di Porfirio, fu co- struito sulla
base del testo porfiriano (/sag., 4, 20) e si trova in tutti i trattati medievali
di logica (cfr., per es., Pietro IspANO, Summ. Logic., 2. 10), donde è passato
nei testi moderni di logica tradi- zionale. G. P. ALCUNI. V. QUALCHE.
ALESSANDRISMO (ingl. Alexandrianism; franc. Alexandrisme; ted. Alexandrismus).
S’in- tende con questo termine la cultura alessandrina cioè la cultura del
periodo seguito alla morte di Alessandro Magno (323 a. C.) il quale aveva uni-
ficato il mondo antico nel segno della cultura greca e ne aveva posto la
capitale in Egitto nella nuova città di Alessandria. La dinastia dei Tolomei
mirò a fare di questa città un grande centro intellettuale in cui confluissero
insieme la cultura greca e quella orientale, mediate e unificate dalla lingua
che era diventata di patrimonio comune dei dotti, il greco. Scienziati e dotti
di tutti i paesi erano ospitati nel Museo ed avevano a loro disposizione un
mate- riale scientifico e bibliografico eccezionale per quei tempi. Al Museo fu
poi aggiunta la biblioteca, il cui primo nucleo si dice sia stato formato dalle
opere possedute da Aristotele e che divenne poi ricchissima, fino a comprendere
700.000 volumi. La cultura alessandrina è contrassegnata dal di- vorzio tra
scienza e filosofia. Mentre le ricerche scientifiche, la determinazione dei
metodi della scienza e la sistemazione dei risultati di essa fanno grandi passi
in questo periodo, la filosofia rinuncia al còmpito che costituì la sua
grandezza nel pe- riodo classico: quello di cercare liberamente le vie e i modi
di un’esistenza propriamente umana. Essa si irrigidisce nella pretesa di
garantire all'uomo, a tutti i costi, la pace e la serenità dello spirito; e in
tal modo diventa privilegio di pochi dotti che riescono ad isolarsi dal resto
della vita e dai pro- blemi che la dominano e si disinteressa quindi anche
della ricerca scientifica. La scienza dell’età alessandrina offre grandi figure
di matematici (Eu- clide, Archimede, Apollonio); di astronomi (Iparco e
Tolomeo); di geografi (Eratostene); di medici (Galeno). La filosofia si
presenta divisa in due grandi scuole: Epicureismo (v.) e Stoicismo (v.) e in
due indirizzi filosofici sostenuti da scuole diverse, lo Scerticismo (v.) e
l’Eclettismo (v.). A questo periodo della filosofia si può far risalire quella
nozione di essa, che talora ancora predo- mina nel senso comune, come
un'attività consola- toria o tranquillizzante che impedisce all'uomo di
mescolarsi alle cose della vita comune e cerca di garantirne l’imperturbabilità
di spirito. ALESSANDRINISMO (ingl. Alexandrinism; franc. Alexandrinisme; ted.
Alexandrinismus). Così fu chiamata, nel Rinascimento, la dottrina di Ales-
sandro di Afrodisia sull’intelletto attivo (v.). ALETIOLOGIA (ted.
Alethiologie). Così Lam- bert chiamò la seconda delle quattro parti del suo
Nuovo organo (1764) e precisamente quella che studia gli elementi semplici
della conoscenza. Essa è una specie di anatomia dei concetti che ha lo scopo di
raggiungere i concetti più semplici e in- definibili. ALGEBRA DELLA LOGICA
(ingl. Logica! Algebra; franc. Algèbre de la logique; ted. Algebra der Logik).
Già Leibniz aveva intuita la possibilità di un calcolo letterale affine a
quello dell’A. ordi- naria, in cui, definite mediante assiomi (molto simili a
quelli algebrici) certe operazioni logiche (addizione, sottrazione,
moltiplicazione, divisione, negazione) e certe relazioni (implicazione,
identità) fondamentali, indicate con simboli tolti alla matematica, si poteva
da questi assiomi derivare mediante calcolo tutte le regole della sillogistica
tradizionale. Ma (forse per il prevalere di preoccupazioni contenutistiche-
intensive di origine filosofica sulla pura idea del calcolo) non era giunto a
risultati soddisfacenti. E non più fortunati furono i tentativi di suoi con-
tinuatori come Lambert. Solo i logici inglesi del- 1’800 riuscirono a fondare
una vera e propria A. della logica. IH primo fu George Boole (Ma- thematical
Analysis of Logic, 1847; Laws of Thought, 14 ALGORITMO 1854) sulle cui orme
lavorarono Stanley Jevons (Pure Logic, 1864), J. Venn (Simbolic Logic, 1881) e
il tedesco E. Schròder (Algebra der Logik, 1890- 1895). L’A. della Logica è
generalmente intesa come un calcolo letterale bivalente, caratterizzato: 1° dal
fatto che le equazioni vi possono assumere solo i valori 0 o 1; 2° dagli
assiomi «a +a4= a» e «a*»a = a» (con tutte le conseguenze derivanti da ciò); 3°
dall’assenza di operazioni indirette, come la sottrazione (non potendosi la
negazione «— a» equiparare alla sottrazione, nonostante l’as- sioma, già
enunciato da Leibniz, «a- — a= 03). Questo mero calcolo letterale in sè non
significa nulla, è un mero giuoco simbolico (appunto, un'«A. zione a;
finalmente 0 si interpreta «falso », 1 si interpreta «vero». In tal modo si
fonda un’interpretazione del calcolo lo- gico-algebrico che viene ad assorbire
in sè, tra- sformandola in disciplina formale e deduttiva, la sillogistica
tradizionale. La Logica matematica, fon- data da Frege e Russell, e in seguito
la Logica simbolica contemporanea, assorbendo in sè gli ele- menti più vitali
dell’A. della Logica, l’hanno resa oramai desueta. Gg. P. ALGORITMO (ingl.
Algorism; franc. Algo- rithme; ted. Algorithmus). Un qualsiasi proce- dimento
di calcolo. Il termine derivato dal nome dell’autore arabo di un trattato che
introdusse in Europa nel sec. ix la numerazione decimale, desi- gnava da
principio i procedimenti del calcolo aritmetico ed è stato poi generalizzato a
indicare ogni procedimento di calcolo. ALIENAZIONE (ingl. Alienation; franc.
Alié- nation; ted. Entfremdung). Il termine, che nel lin- guaggio comune
significa perdita di un possesso, di un affetto o dei poteri mentali, è stato
ado- perato dai filosofi in alcuni significati specifici. 1. Nel Medioevo fu
talora usato per indicare un grado dell’ascesa mistica verso Dio. Così Riccardo
di San Vittore considera l’A. come il terzo grado dell’elevazione della mente a
Dio (dopo la dilata- zione e la sollevazione) e ritiene che essa consiste
nell’abbandono della memoria di tutte le cose finite e nella trasfigurazione
della mente in uno stato che non ha più nulla di umano (De gratia con-
templationis, V, 2). In questo senso l’A. non è che l’estas’autotogliersi di
quest’ultimo ha un significato positivo, cioè se stessa; infatti, in quella A.
essa pone sè come oggetto o, in forza dell’inscindibile unità
dell’esser-per-sè, pone l’oggetto come se stessa, mentre d’altra parte in
quest’atto è contenuto l’altro momento ond’essa ha tolto e ripreso in sè
medesima quest’A. e oggettività, essendo dunque, nel suo esser altro come tale,
presso di sè. Questo è il movimento della coscienza, la quale in tal movimento
è la totalità dei propri momenti» (Phéinomen. des Geistes, VIII, 1). Questo
concetto puramente speculativo viene ri- preso da Marx nei suoi scritti
giovanili per descrivere la situazione dell’operaio nel regime capitalistico.
Secondo Marx, Hegel ha avuto il torto di confon- dere l’obiettivazionatto ma
infelice... E solo fuori del lavoro si sente presso di sè, si sente fuori di sè
nel lavoro ». Nella società capitalistica il la- voro non è volontario ma
costretto perchè non è soddisfacimento di un bisogno, ma solo un mezzo ALLEGORIA
15 per soddisfare altri bisogni. «Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si
aliena è un lavoro di sa- crificio di se stessi, di mortificazione »
(Manoscritti economico-filos., 1844, I, 22). Questo uso del termine è diventato
corrente nella cultura contemporanea, non soltanto nella descrizione del lavoro
operaio in certe fasi della società capitalistica, ma anche a proposito del
rapporto tra l’uomo e le cose nel- l’età della tecnica: giacchè sembra che il
predominio della tecnica « alieni l’uomo da se stesso » nensional Man, 1964,
pag. 12). Nel linguaggio filosofico-politico oggi corrente il termine ha i
significati più disparati che dipendono dalla varietà dei caratteri su cui si
insiste per la definizione dell’uomo. Se l’uomo è ragione auto- contemplativa
(come riteneva Hegel), ogni suo rap- porto con un oggetto qualsiasi è
alienazione. Se l’uomo è un essere naturale e sociale (come riteneva Marx) è A.
il suo ritirarsi nella contem- plazione. Se l’uomo è istinto e volontà di vita,
è A. ogni repressione e diminuzione di tale istinto e volontà; se l’uomo è
razionalità operante o fattiva è A. il suo affidarsi all’istinto. Se l’uomo è
ragione (comunque intesa), è A. il suo rifugiarsi nella fantasia; ma se è
essenzialmente immagina- zione e fantasia, è A. ogni sua disciplina razionale.
Infine, se l’individuo umano è una totalità auto- sufficiente e completa, è A.
ogni regola o norma che venga imposta, in qualsiasi modo, alla sua espressione.
L’equivocità del concetto di A. di- pende dalla problematicità della nozione di
uomo. ALLEGORIA (gr. &anropla; lat. Allegoria; ingl. Allegory; franc.
Allégorie; ted. Allegorie). Nel suo primo significato specifico, la parola
indica un modo di interpretare le sacre scritture e di sco- prire, al di là
delle cose, dei fatti e delle persone, di cui esse trattano, verità permanenti
di natura religiosa o morale. La prima importante applica- zione del metodo
allegorico è il commentario alla Genesi di Filone di Alessandria (sec. 1).
Filone non esita a contrapporre il senso allegorico al senso letterale e a
dichiarare «sciocco» (etnînc) que- st’ultimo. Ecco un esempio: «‘ E Dio finì
nel set- timo giorno le opere che egli creò’ (Gen., 2, 2). È assolutamente
sciocco credere che il mondo è nato in sei giorni o in generale nel tempo.
Perchè? Perchè ogni tempo è un insieme di giorni e di notti che sono
necessariamente prodotti dal movimento del sole che va al di sopra e al di
sotto della terra; ma il sole è una parte del cielo sicchè si riconosce che il
tempo è più recente del mondo » (A//. /eg., I, 2). A sua volta Origene che è il
primo autore di un grande sistema di filosofia cristiana, distin- gueva nei
testi biblici tre significati: il somatico, lo psichico e lo spirituale, che
stanno tra loro come le tre parti dell’uomo: il coranifesto, non meno è vero
quello che spiritualmente s’in- tende cioè che nella uscita dell'anima del
peccato, essa si è fatta santa e libera in sua potestate» (Conv., II, 1). Ma
tra questi sensi, come Dante stesso dice, quello fondamentale, per il teologo come
per il poeta, è l’allegorico. E difatti l’A. divenne nel Medioevo il modo
d'intendere la funzione del- l’arte e specialmente della poesia. Giovanni di
Sa- lisbury diceva di Virgilio che egli « sotto l’imagine delle favole esprime
la verità dell’intera filosofia » e Dante (Vita Nuova, 25) definiva così il
compito 16 ALLOGLOSSIE del poeta: « Vergogna sarebbe a colui che rimasse cose
sotto veste di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse
denudare le sue parole di cotal veste, in gure del simbolo (v.) che può essere
vivo ed evocatore perchè l’imagine simbolica è au- tonoma e ha un interesse in
se stessa cioè un inte- resse che non mutua dal suo riferimento convenzio- nale
a un concetto o ad una dottrina. Tuttavia, se si tiene conto della potenza e
della vitalità di certe opere d’arte di chiara struttura allegorica (per es.,
della Divina Commedia e di molte pitture medievali e rinascimentali) si deve
dire che l'A. non necessariamente rende impossibile l’autonomia e la leggerezza
dell’imagine estetica e che, in certi casi, anche la corrispondenza puntuale
tra l’imagine e il concetto può non riuscire mortificante per la prima e non
togliere ad essa la vitalità dell’arte o della poesia. T. S. Eliot ha fatto,
proprio a pro- posito di Dse per designare Dio come principio e fine del mondo
(Ap., I, 8; 21, 6; 22, 13; ecc.). ALTERAZIONE (gr. dMolwow; ingl. Alte- ration;
franc. Altérat on; ted. Alteration). Secondo Aristotele, una delle forme del
mutamento e preci- samente quella secondo la categoria della qualità:
intendendosi per qualità non quella essenziale ad una sostanza ed espressa
nella differenza specifica ma quella che una sostanza o realtà riceve o su-
bisce (Fis., V, 2, 226a 23 sgg.). In altri termini, l’A. è per Aristotele
l'acquisto o la perdita di qua- lità accidentali; come, per es., l’essere ora
in buona, ora in cattiva salute (Mer., VIII, 1, 1042a 36). Questo significato
di « mutamento qualitativo » è rimasto nell’uso filosofico della parola in
questione; per quanto non sempMa più ge- neralmente si può dire che, secondo
Hegel, l’A. ac- compagna l’intero sviluppo dialetico dell’Idea perchè essa è
inerente al momento negativo che è intrinseco a questo sviluppo. Difatti appena
fuori dell’essere indeterminato che ha come sua negazione il puro niente le
determinazioni negative dell’Idea divengono a loro volta qualche cosa di
determinato cioè un « essere altro » da quello stesso che negano. «La negazione
— non più come il niente astratto ma come un essere determinato e un alcunchè —
è soltanto forma per questo alcunchè, è un essere altro » (Enc., $ 91).
ALTERNATIVA, PROPOSIZIONE (in- glese
Alternative proposition; franc. Proposition alter- native; ted. Alternative
Proposition). Con questo ALTRO, PROBLEMA DELL’ 17 nome si suole indicare, propriamente,
la proposi- zione molecolare disgiuntiva « poq+ («almeno p è vero, quindi se
non è vero p è vero q+). Ma spesso in uso non rigoroso, le componenti della
molecolare disgiuntiva si dicono « alternative» l’una rispetto all’altra. Pare
che la parola a/ternatio, introdotta dagli scrittori latini ad indicare la
proposizione di- sgiuntiva, derivi dal linguaggio giuridico. G. P.
ALTERNAZIONE. V. ALTERNATIVA. ALTRO (gr. Gftnpov; ingl. Orher; franc. Autre;
ted. Andere). Uno dei cinque generi sommi dell’es- sere, enunciati da Platone
nel Soffsta e che sono: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico e
l’altro. Il motivo per ammettere l’altro come un genere a sè è il seguente: la
quiete e il movimento, en- trambi, sono, perciò, sotto l’aspetto dell’essere,
sono identici; ma essi sono anche diversi l’uno dall’altro e questa diversità è
esattamente come è la loro iden- tità (dovuta al fatto che entrambi sono).
L’altro (il diverso) è perciò un genere egualmente origi- nario e irriducibile
degli altri quattro (Sof., 254 seguenti). Il riconoscimento dell’altro come di
un genere sommo è molto importante perchè consente a Platone di risolvere
l’antinomia, propria della sofistica e della eristica (v.), che è impossibile
dire il falso perchè il falso è ciò che non è e dire ciò che non è significa
dir nulla cioè non dire. Da questo punto di vista l’errore dovrebbe essere
dichiarato inesistente; e non ci sarebbe neppure differenza pos- sibile tra il
filosofo, che si preoccupa di stabilire la distinzione tra verità ed errore, e
il sofista che non se ne preoccupa affatto. Ammesso invece l’A. come genere
sommo, il non-essere potrà essere interpre- tato, non già come il nulla, ma
come l’A. dall’es- sere e precisamente dall’essere di cui si parla; per es.,
dire che qualcosa è non grande o non bella significa semplicemente dire che è
qualcosa di A., di diverso, dal grande e dal bello; ma non perciò che è
l’opposto dell’essere e cioè il nulla (Ibid., 257 b sgg.). Quest’affermazione
della realtà del non-essere, in quanto A. o diverso, è presen- tata, dal
Forestiere eleate che è il maggiore prota- gonista del Sofista, come una specie
di « parricidio + verso Parmenide, che aveva affermato che il solo essere è e
il non essere non è (/bid., 242 d). Queste notazioni platoniche, soprattutto la
categoria di «A.», sono poi state adoperate frequentemente per chiarire la
nozione di niente (v.). ALTRO, PROBLEMA DELL’ (ingl. Problem of Others; franc.
Problème de l’autre; ted. Problem von fremden Ichen). Con quest’espressione
s’indica, nella filosofia moderna e contemporanea, il pro- blema concernente
l’esistenza di altri io (spiriti o persone) indipendenti da quello di colui che
si pone il problema stesso. Questo problema nasce da due punti di vista diversi
e tuttavia connessi 2 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. insieme da alcuni
presupposti comuni. Il primo è quello dell’idealismo romantico (v.) secondo il
quale la realtà essendo un Principio infinito ed universale (per es., l’Io
assoluto di Fichte), si tratta di vedere come essa si rompe o si moltiplica
nella diversità degli io singoli. Il secondo è il punto di vista ge-
nericamente idealistico e spiritualistico, secondo il quale ciò che a ciascuno
di noi è originariamente dato è soltanto il suo proprio io e le sue esperienze
psichiche di cui alcune (una parte solamente) si riferirebbero ad altri
individui. AI primo problema Fichte rispose nella Dorfrina Morale (1798)
affermando il carattere originario dell’idea del dovere e facendo derivare da
essa il riconoscimento degli altri io. L'idea del dovere è l’autodeterminazione
originaria dell’io; ma essa non potrebbe esser realizzata se non ci fossero
altri io, altri soggetti nei confronti dei quali soltanto l’idea del dovere può
trovare la sua determinazione e quindi la sua possibilità di realizzazione. La
realtà degli altri io è quindi, per Fichte, un postulato morale: l’esistenza
degli altri io deve essere ammessa e riconosciuta, se l'io deve poter
concretamente rea- lizzare la sua moralità (Sittenlehre, $ 18). Questa
concezione è stata, con qualche variante, ripresa da altri filosofi; per es.,
da Riehl nel suo libro sul Criticismo (1786-87) e da Cohen nella sua Erica
della volontà pura (1904): il quale ultimo deduce l’esistenza delle persone in
generale dal carattere giuridico e dalle funzioni pubbliche dell’uomo, sicchè
la molteplicità degli io non esisterebbe che come molteplicità di « persone
giuridiche ». Dall’altro lato, dal punto di vista che l’io conosce in modo
immediato solo se stesso e i suoi stati interiori, cioè dal punto di vista di un
accesso pri- vilegiato alla conoscenza interiore dell’io (v. Co- scieNZA) nasce
il problema di vedere come mai una parte dell’esperienza dell’io possa essere
rife- rita ad altri io; e il problema ancora più grave di vedere quale garanzia
questo riferimento offra in favore dell’esistenza effettiva dell’altro io. Per
ri- spondere a questi problemi due teorie sono state avanzate: 1° la teoria
secondo la quale l’esistenza degli altri sarebbe inferita mediante un «
giudizio di analogia », a partire dalle percezioni che ci ri- velano movimenti
analoghi a quelli mediante i quali noi esprimiamo il nostro proprio io. Ma
questa teoria, propria della psicologia associazionista, ha contro di sè il
fatto che la credenza nell’esistenza o soggettivistico del problema è apparso
sempre più debole; ed è stato anche at- taccato, sulla base di osservazioni
sperimentali, dalla psicologia contemporanea. Scheler osservò che non esiste
alcun privilegio ontologico o metafisico a favore dei pensieri o dei sentimenti
che l’io chiama «miei ». Il mio pensiero mi è dato come « mio» allo stesso
titolo in cui il pensiero di un altro mi è dato come pensiero « altrui »: è
questo il caso comunissimo e normale in cui noi comprendiamo una comunicazione
qualsiasi che ci vien fatta. Tra il mio e l’altrui c'è sempre una connessione
stret- tissima ed essi si determinano e si condizionano vicendevolmente, senza
tuttavia che le sfere rispet- tive si lascino fissare mai rigidamente, come è
provato dal fatto che spesso non sappiamo dire se una certa esperienza psichica
ci venga da noi stessi o da altri (Sympathie, III, cap. III). Questo equivale a
negare il carattere privato e rigida- mente soggettivo dell’Zo (v.) e a
riconoscere che esso si muove, sin dalla sua costituzione e in tutte le sue
manifestazioni, in una rete di rapporti inter- soggettivi che lo costituiscono
in proprio e nella quale vengono ritagliate le sfere correlative del «mio » e
del « tuo ». Questo punto di vista si ritrova frequentemente, e anche presso
scuole diverse, nella filosofia contemporanea. Mead afferma che « l’uomo
diventa un io nella sua esperienza solo in quanto il suo atteggiamento richiama
un corrispondente atteggiamento nei rapporti sociali ». L’autocoscienza stessa
o io non è altro, in questo caso, che l’atteg- giamento generalizzato degli
altri nei nostri riguardi. « Noi prendiamo il ruolo di quello che può essere
chiamato l’altro generalizzato e nel far questo ap- pariamo come oggetti
sociali, come io» (Phil. of the Present, pag. 185). Dall’altra parte Carnap ha
espresso un punto di vista assai vicino a questo, insistendo sul carattere
secondario e derivato della distinzione tra l’io e il tu. «La stessa
caratterizza- zione degli elementi fondamentali del nostro si- stema
costitutivo come psichicamente propri cioè come ‘psichici’ e come ‘miei’
acquista signifi- cato solo quando si sono costituiti il campo del non psichico
(contrapposto allo psichico) e del ‘tu’» (Der logische Aufbau der Welt, $ 65).
Queste notazioni dimostrano che un punto di partenza solipsistico che pretenda
fondarsi su dati cadenti nell’àmbito della coscienza personale è sempre più
difficile a sostenersi. Ed anche una filosofia come quella di Sartre per la
quale l’altra esistenza è tale in quanto non è la mia, sicchè il rapporto
inter- personale è un rapporto di negazione reciproca, e solo la negazione è
«la struttura costitutiva dell’es- sere altri » (L’étre et le néant, pag. 285),
si presenta come un trascendimento del cogito. « Ciò che noi chiamiamo, in
mancanza di meglio, il cogito dell’esi- stenza altrui, si confonde col mio
proprio cogito. Bisogna che il cogito mi getti fuori di lui sull’A., come mi ha
gettato fuori di lui sull’in-sè e questo non già rivelandomi una mia struttura
a priori che punterebbe verso l’altro egualmente a priori, ma scoprendo in me
la presenza concreta e indubitabile di questo o quell’altro concreto come ha
già ri- velato a me la mia esistenza inconfrontabile con- tingente e tuttavia
necessaria e concreta» (/bid., pag. 308-09). Analogamente per Husserl
l’esperienza dell’altro è una specie di Einfhlung o empatia per la quale
l’altro si costituisce per «appresentazione» come «un altro me stesso»
(Cartesianische Medita- tionen, $ 52). L’io stesso fa in modo che « una mo-
dificazione intenzionale di se stesso e della sua pri- mordialità pervenga alla
validità sotto il titolo di percezione dell’estraneità, percezione di un altro,
di un altro io» (Die Krisis, $ 54 b). ALTRUISMO (ingl. Altruism; franc.
Altruisme; ted. Altruismus). Il termine è stato creato da Comte, in opposizione
a egoismo (v.), per designare la dot- trina morale del positivismo. Nel
Catechismo posi- tivista (1852) Comte enunciò la massima fondamen- tale
dell’A.: vivere per gli altri. Questa massima, egli ritenne, non è contraria a
tutti, indistintamente, gli istinti dell’uomo; giacchè l’uomo possiede, ac-
canto agli istinti egoistici, istinti simpatetici che l'educazione poiivista
può sviluppare gradata- mente sino a renderli predominanti sugli altri. Già,
infatti, le relazioni domestiche e civili tendono a contenere gli istinti
personali, quando essi susci- tano conflitti tra i vari individui, e a
promuovere le inclinazioni benevole che si sviluppano sponta- neamente presso
tutti gl'individui. Il termine fu sùbito accettato da Spencer (nei Principi di
psico- logia, 1870-72) il quale ritenne che l’antitesi tra egoismo e A. sia
destinata a scomparire con l’evo- luzione morale e farà sempre più coincidere
la sodisfazione del singolo col benessere e la felicità altrui (Data of Ethics,
$ 46). Come si vede il fon- damento dell’etica altruistica è naturalistico,
perchè essa fa appello agli istinti naturali che portano l’in- dividuo verso
gli altri e intende promuovere lo sviluppo di tali istinti. Il suo termine
polemico è l’etica individualistica del xvm secolo in quanto è un’etica che
rivendica i valori e i diritti dell’in- dividuo contro quelli della società e
in particolare dello Stato. Comte, come tutto il Romanticismo (v.) obbedisce
all’esigenza opposta, che fa leva sul va- AMBIENTE 19 lore preminente
dell'autorità statale e perciò la sua etica prescrive puramente e semplicemente
il sacri- ficio dell'individuo. Non fa perciò meraviglia che le dottrine
interessate alla difesa dell’individuo ab- biano considerato con ostilità e
disprezzo la morale dell’altruismo. Così Nietzsche, identificando l’amor del
prossimo con l’A., lo fa condannare da Zara- tustra. « Voi andate al prossimo
sfuggendo a voi stessi e vorreste far di ciò una virtù; ma io leggo bene
attraverso il vostro A. ... Voi non sapete sop- portare voi stessi e non vi amate
abbastanza: ed ecco che volete sedurre il vostro prossimo inducen- dolo
all'amore e farvi belli del suo amore» (Also sprach Zarathustra, cap.
sull’Amore del prossimo). Su un terreno più obiettivo e scientifico Scheler
(Sympathie, ll, cap. I) ha negato l’identificazione (presupposta anche da
Nietzsche) dell'A. e del- l’amore. Egli ha osservato che gli atti che si diri-
gono verso gli altri in quanto altri non sono sempre necessariamente « amore ».
L’invidia, la cattiveria, la gioia maligna, si riferiscono egualmente agli
altri in quanto altri. Un amore che fa completamente astrazione da se stesso
poggia su un odio ancora più primitivo, cioè l’odio verso se stesso. «Il fare
astrazione da sè, il non poter sopportare il colloquio con se stesso, son cose
che non hanno niente a che vedere con l’amore ». In realtà la massima del- l’A.
«vivere per gli altri», se presa alla lettera, farebbe di tutti gli uomini
mezzi per un fine che non esiste; ed è perciò contraria ad uno dei teoremi
meglio stabiliti dell’etica moderna (e in generale dell’etica) cioè a quello
per il quale l’uomo non deve mai essere considerato come un semplice mezzo, ma
deve sempre avere, anche, valore di fine. AMABIMUS. V. PURPURFA. AMBIENTE (ingl. Environment;
franc. Milieu; ted. Mittel). Nel
significato corrente, un complesso di rapporti tra mondo naturale ed essere
vivente, che influiscono sulla vita e sul comportamento dello stesso essere
vivente. In questo senso la parola (milieu ambiant) fu probabilmente introdotta
nel- l’uso dal biologo Geoffroy St.-Hilaire (Études pro- gressives d'un
naturaliste, 1835) e ripresa e adope- rata da Comte (Cours de philosophie
positive, lez. 40, $ 13 sgg.). Osservazioni sull’influenza delle condi- zioni
fisiche, e specialmente del clima, sulla vita degli animali in generale e in
particolare su quella dell’uomo, ed anche sulla vita politica dell’uomo, si
trovano frequentemente negli scrittori antichi (si confronti, per es.,
IPPOCRATE, Arie acque luoghi, 14-24; ARISTOTELE, Pol., VII, 4, 7) e sono state
poi variamente ripetute. Nel mondo moderno si deve a Montesquieu (Libro XIV de
L’Esprit des Lois, 1748) il principio, da lui sistematicamente sviluppato, che
« il carattere dello spirito e le pas- sioni del cuore sono estremamente
differenti nei diversi climi » e che perciò « le leggi devono essere relative e
alla differenza di queste passioni e alla differenza di questi caratteri ». Il
positivismo otto- centesco attribuì all’A. fisico e biologico il valore di
causa determinante di tutti i fenomeni propria- mente umani, dalla letteratura
alla politica. L’opera letteraria e filosofica di Ippolito Taine contribuì alla
diffusione di questa tesi, secondo la quale l’ambiente fisico, biologico e
sociale determina ne- cessariamente tutti i prodotti e i valori umani e basta a
spiegarli. Nella Filosofia dell’arte (1865) Taine affermò che l’opera d’arte è
il prodotto ne- cessario dell'ambiente e che conseguentemente si può derivare
da questo non solo lo sviluppo delle forme generali dell'imaginazione umana, ma
anche quella che spiega le variazioni degli stili, le diffe- renze delle scuole
nazionali, e perfino i caratteri generali delle opere individuali. Nel mondo
con- temporaneo la nozione di A. è rimasta fondamentale nelle scienze
biologiche, antropologiche e sociolo- giche ma si è venuta gradualmente
trasformando giacchè la relazione tra l’A. e l’organismo o l’uomo o il gruppo
sociale non è stata più intesa secondo uno schema meccanico cioè come una
relazione di determinismo causale assoluto. L’azione selettiva che l’essere, sul
quale l’A. agisce, esercita nei con- fronti dell’A. stesso è stato ampiamente
sottolineato. « L'A. di un organismo, ha detto Goldstein, non è qualcosa di
compiuto ma si forma continuamente a misura che l’organismo vive ed agisce. Si
po- trebbe dire che l’A. è estratto dal mondo dalla esistenza dell’organismo, o
meglio, per esprimersi più oggettivamente, che un organismo non può esistere se
esso non riesce a trovare nel mondo, a ritagliarsi in esso, un A. adeguato, a
condizione naturalmente che il mondo gliene offra la possibi- lità » (Aufbau
des Organismus, 1934, pag. 58). Analo- gamente, a proposito dell’A.
storico-sociale, Toynbee ha detto: « L’A. totale, geografico e sociale, in cui
è compreso sia l’elemento umano, sia il non umano, non può essere considerato
come un fattore posi- tivo da cui le civiltà sono state generate. È chiaro che
una combinazione virtualmente identica dei due elementi dell’A. può originare
una civiltà in un caso e mancare di originare una civiltà in un altro, senza
che sia possibile da parte nostra spiegare questa differenza assoluta nel loro
sorgere con qualche sostanziale differenza nelle circostanze, per quanto si
possono definire esattamente i ter- mini della comparazione » (A Study of
History, I, pag. 269). Questo ovviamente non significa che l’A. non agisca
affatto sulla vita e sulle creazioni degli uomini ma solo che ne è piuttosto la
con- dizione che la causa. I filosofi hanno sottolineato questo nuovo
significato dell'ambiente. Mead ha detto: « L’A. è una selezione che è dipendente
dalla 20 AMBIGUITÀ forma vivente» (Phil. of the Act, pag. 164). Dal- l’altro
lato Heidegger ha inteso la sua analisi del- l’essere nel mondo (che è
determinazione essenziale dell’esistenza) quale una messa in questione e in
discussione di quella nozione di A. che la biologia non fa che presupporre
(Sein und Zeit, $ 12). AMBIGUITÀ (ingl. Ambiguity; franc. Ambi- guité; ted.
Ambiguitàt). 1. Lo stesso che Equivo- cazione (v.). 2. Riferito a stati di
fatto o situazioni: possibilità di interpretazioni diverse o presenza di
alternative escludentisi. AMBIVALENZA (ingl. Ambivalence; francese Ambivalence;
ted. Ambivalenz). Uno stato caratte- rizzato dalla presenza simultanea di
valutazioni o di atteggiamenti contrastanti od opposti. Il termine è usato
specialmente in psicologia per indicare certe situazioni emotive che implicano
amore e odio, e in generale atteggiamenti opposti, nei confronti del medesimo
oggetto (cfr. E. BLeuLER, Lehrbuch der Psychiatrie, 22 ediz., 1918). AMERICA
(ingl. America; franc. Amérique; ted. Amerika). I filosofi del Romanticismo
hanno avuto una parte importante in quella « disputa del Nuovo Mondo» che,
cominciata verso la metà del *700, ancora, si può dire, perdura, a proposito
dell’inferiorità o superiorità dell'America. La tesi della debolezza o della «
immaturità » delle Americhe nasce con Buffon che esaminando comparativamente le
specie animali in A. e in Europa, concludeva che in A. «la natura vivente è
assai meno attiva, è assai meno varia e si può dire assai meno forte » (CEuvres,
ediz. 1826-28, XV, 429). Le tesi di Buffon venivano polemicamente amplificate
dal- l’abate De Paw in uno scritto del 1768, Recherches philosophiques sur les
Américains. Nelle mani di Hegel le notazioni di Buffon e De Paw divengono,
conformemente al sistema e allo spirito di lui, «determinazioni assolute +,
verità necessariamente dedotte. L’A. è un mondo nuovo nel senso di es- sere
immaturo e fiacco; la fauna vi è più debole, ma in compenso la vegetazione è
mostruosa. Man- cano in essa i due strumenti di progresso civile, il ferro e il
cavallo (Enc., $ 339, Zus.). L'A. è quindi un mondo nuovo nel senso che è
giovane ed im- maturo. Perfino il mare tra l’A. del sud e l’Asia « manifesta
una immaturità fisica anche quanto alla sua origine ». E per tutto questo «
l’A. si è sempre mostrata e si mostra ancora impotente tanto dal punto di vista
fisico quanto da quello spirituale » (Phil. der Geschichte, ediz. Lasson, pag.
122 e sgg.). È bensì vero che, forse proprio per questa imma- turità, l'A. è
«il Paese dell’avvenire, quello a cui, in tempi futuri, forse nella lotta fra
il nord e il sud, si rivolgerà l’interesse della storia universale ». Ma Hegel
aggiunge sùbito: « Come paese dell’av- venire, essa assolutamente non ci
riguarda. Il filo- sofo non s'intende di profezie. Dal lato della storia noi
abbiamo piuttosto a che fare con ciò che è stato e con ciò che è, mentre nella
filosofia non ci occupiamo nè di ciò che soltanto è stato o che soltanto sarà,
ma di ciò che è ed è eternamente: della ragione; e con ciò abbiamo abbastanza
da fare » (Ibid., ediz. Lasson, pag. 129). Schopenhauer dal canto suo ripeteva
le osservazioni (se così pos- sono chiamarsi) sull’inferiorità della fauna
ameri- cana e degli indigeni; e aggiungeva, nel linguaggio fiorito delle sue
invettive, una descrizione degli Stati Uniti come di un paese prospero ma domi-
nato da un vile utilitarismo e dalla sua immanca- bile compagna, l’ignoranza,
che ha aperto il cam- mino alla stupida bigotteria anglicana, alla sciocca
presunzione e alla brutale volgarità congiunta a una stolta venerazione per le
donne (Die Welt, II, 44; Parerga, II, VI, $ 92). Alla stessa tendenza
denigratrice non si sottrae l’altro corno del Ro- manticismo, il positivismo
che, per bocca di Comte, svaluta la portata della rivoluzione americana, vede
negli Stati Uniti una «colonia universale » e con- sidera la loro civiltà
completamente priva di origi- nalità e semplice filiazione della civiltà
inglese (Cours de phil. positive, V, 470-711; VI, 60n). D'altra parte lo stesso
Romanticismo suggeriva ad Emerson un’esaltazione mistica dell’A. altrettanto
fantasica ed arbitraria delle denigrazioni dei ro- mantici europei (The
American Scholar, 1837; The Young American, 1844). Già Humboldt notava
(Ansichten der Natur, 1807) il carattere arbitrario e fantastico di quelle
notazioni che pretendevano di essere « scientifiche » o « speculative » e che
erano soltanto dogmatizzazioni di pregiudizi. Ma con tutto ciò gli elementi
della polemica intorno al Nuovo Mondo sono rimasti per lungo tempo e forse ancor
oggi rimangono quelli che abbiamo accennato. (Per maggiori particolari, cfr. A.
GERBI, La disputa del Nuovo Mondo, Milano-Napoli,AMICIZIA (gr. quia; ingl.
Friendship; fran- cese Amitié; ted. Freundschaft). In generale la co- munità di
due o più persone legate assieme da atteggiamenti concordanti e da affetti
positivi. Gli antichi ebbero dell’A. un concetto assai più esteso di quello che
oggi viene comunemente ammesso e adoperato, come risulta dall’analisi che
Aristotele dette di essa nei libri VIII e IX dell’Etica Nico- machea.
L’amicizia è, secondo Aristotele, o una virtù o strettamente congiunta con la
virtù: co- munque, è ciò che c’è di più necessario alla vita giacchè i beni che
la vita offre, come la ricchezza, il potere, ecc., non si possono nè conservare
nè adoperar bene senza gli amici (VIII, 1, 1155 a 1). L’A. va distinta in primo
luogo dalle due cose AMMIRAZIONE 21 cui sembra più strettamente affine, cioè
dall’amore e dalla benevolenza. Essa si distingue dall’amore (ptc) perchè
l’amore è simile ad un’affezione (v.), l’A. a un abito (v.). Sicchè l’amore si
può rivolgere anche a cose inanimate, mentre il riamare, che è proprio dell’A.,
implica una scelta che deriva da un abito (VIII, 5, 1157b 28). Inoltre,
all'amore si accompagnano l’eccitazione e il desiderio, che sono estranei
all’A.; ed esso, a differenza dell’A., è provocato dal godimento che dà la
vista della bel- lezza (IX, 5, 1166b 30). Si distingue poi dalla benevolenza
perchè questa può dirigersi anche verso gli ignoti e può rimanere nascosta: il
che non ac- cade dell’A. (IX, 5, 1167 a 10). L’A. è certamente una specie di
concordia, ma una concordia che non riposa sull’identità delle opinioni ma
piuttosto, come la concordia delle città, sull’armonia degli atteggiamenti
pratici, sicchè a giusto titolo si chiama « A. civile » la concordia politica
(IX, 6, 1167 a 22). L’A. è poi certamente una comunità nel senso che l’amico si
comporta verso l’amico come verso se stesso (IX, 12, 1171 b 32). Ci sono tante
specie di amicizie quante sono le comunità, cioè le parti della società civile:
quella tra i naviganti, quella tra i soldati, quella tra coloro che fanno un
qual- siasi lavoro comune (VIII, 9, 1159b 25). Vi può essere anche A. tra il
padrone e lo schiavo, se lo schiavo è considerato, non più soltanto come uno
strumento animato, ma come un uomo. Solo nella tirannide c'è poca o nulla A.:
giacchè in essa non c’è niente in comune tra chi comanda e chi obbedisce, e
l’A. è tanto più forte quante più sono le cose comuni tra uguali (VIII, 11,
1161 b 5). Ci sono, anche, tante A. quante sono le forme dell'amore: quella del
padre col figlio, del giovane col vecchio, del marito con la moglie.
Quest’ultima è quella più naturale e ad essa si congiungono l’uti- lità e il
piacere (VIII, 12, 1161b 11). Quanto al fondamento dell’A., esso può essere o
l’utilità reciproca o il piacere o il bene; ma è chiaro che mentre un’A.
fondata sull’utilità o sul piacere è destinata a finire quando il piacere o
l’utilità ces- sano, l’A. fondata sul bene è la più stabile e ferma ed è quindi
la vera A. (VIII, 3, 1156 a 6 sgg.). Que- st’analisi aristotelica, che è la più
compiuta e bella che la filosofia abbia mai dato del fenomeno dell’A.,
s’incardina sui seguenti punti: 1° I’A. è una certa comunità cioè una
partecipazione solidale di più persone ad atteggiamenti, valori o beni
determinati; 2° essa è collegata con l’amore e ne segue le forme ma non
s’identifica con l’amore; 3° essa si avvi- cina piuttosto alla benevolenza ed è
perciò colle- gata con gli affetti positivi, cioè con quelli che implicano
sollecitudine, cura, pietà, ecc. L'A. è così, secondo Aristotele, più estesa
dell'amore, che è limitato e condizionato dal godimento della bel- lezza. Ed è
diversa dall’amore per il suo carattere attivo e selettivo, onde Aristotele
dice che l’amore è un’affezione (r&80c) cioè una modificazione su- bita
mentre l’A. è un abito (come un abito è la virtù) cioè una disposizione attiva
e impegnativa della persona. Dopo Aristotele, l’A. trovò i suoi esaltatori
negli Epicurei che ne fecero uno dei capisaldi della loro etica e della loro
condotta pra- tica. Essa assume però presso questa scuola un carattere
aristocratico; è una delle manifestazioni della vita del saggio, non già, come
la riteneva Aristotele, collegata ai rapporti umani come tali. Ritornano nelle
testimonianze epicuree che ci sono rimaste alcune notazioni aristoteliche, per
es., que- sta: « L’A. è nata dall’utile ma essa è un bene per sè. Amico non è
chi cerca sempre l’utile nè chi non lo congiunge mai con l’A.: giacchè il primo
considera l'A. come un traffico di vantaggi, il se- condo distrugge la
fiduciosa speranza di aiuto che è tanta parte dell’A.» (Sent. Var., 39-24,
Bignone). Col prevalere del Cristianesimo l’importanza del- l'A. come fenomeno
umano primario, decade nella letteratura filosofica. Il concetto più esteso e
più importante diventa quello dell'amore, dell'amore del prossimo, che manca
dei caratteri selettivi e speci- fici, che Aristotele aveva riconosciuto
all’amicizia. Difatti « prossimo » è colui col quale c’imbattiamo o che è
comunque in rapporto con noi, chiunque esso sia, amico o nemico. La massima
aristotelica dell’A., «comportarsi verso l’amico come verso se stesso », vedere
in lui « un altro se stesso » (Er. Nic., IX, 9, 1170 b 5; IX, 12, 1171 b 32),
viene estesa dal Cristianesimo a tutto il prossimo. AMMIRAZIONE (gr. Gavpdtew;
lat. Admi- ratio; ingl. Wonder; franc. Admiration; ted. Be- wunderung,
Staunen). Secondo gli antichi l’A. è il principio
della filosofia. Platone dice: « Questa emozione, questa A. è propria del
filosofo; nè la filosofia ha altro principio fuori di questo; e chi affermò che
Iride è figliola di Taumante non ha secondo me tracciato male la genealogia»
(7eet., 11, 155d). E Aristotele: «In virtù dell'A., gli uomini cominciarono per
la prima volta a filoso- fare ed anche ora filosofano: da principio comin-
ciarono ad ammirare le cose intorno a cui era più facile il dubbio, poi
procedettero a poco a poco a dubitare anche delle cose maggiori, come, ad es.,
delle affezioni della luna e di ciò che concerne il sole e le stelle e della
generazione dell’universo. Colui che dubita e ammira sa di ignorare; perciò il
filosofo è anche amatore del mito: il mito con- siste infatti di cose mirabili»
(Mer., I, 2, 982b 12 sgg.). Al principio dell’età moderna Cartesio ha espresso
lo stesso concetto: « Quando ci si pre- senta qualche oggetto insolito e che
giudichiamo nuovo o diverso da ciò che prima conoscevamo o 22 AMMISSIONE
supponevamo che fosse, questo oggetto fa sì che noi lo ammiriamo e ne restiamo
sorpresi; e poichè ciò accade prima che noi sappiamo se l’oggetto ci sia utile
o meno, l’A. mi appare come la prima di tutte le passioni; ed essa non ha
opposto perchè se l’oggetto che si presenta non ha in sè niente che ci
sorprenda, noi non siamo affetti da esso e lo consideriamo senza passione»
(Passions de lame, II, 53). Su questo punto la differenza tra Cartesio e
Spinoza è grande: Spinoza considerò l’A. solo come l’imaginazione di una cosa a
cui la mente rimane attenta per essere essa priva di connessione con altre cose
(E:., III, 52 e scol.) e si rifiutò di considerarla come una emozione primaria
e fonda- mentale, tanto meno come una emozione filosofica o che sia all'origine
della filosofia. L'unico atteg- giamento filosofico è per lui l’amore
intellettuale di Dio, la contemplazione imperturbabile e beata della
connessione necessaria di tutte le cose nella Sostanza divina. Per Aristotele e
per Cartesio l’A. è invece l’atteggiamento che è alla radice del dubbio e della
ricerca: è il prender coscienza di non com- prendere ciò che si ha davanti e
che, anche se è per altri rapporti familiare, ci si rivela, ad un certo punto,
inspiegabile e meraviglioso. Kant parlava dell'A. a proposito della finalità
della natura, in quanto è inesplicabile con i concetti dell’intelletto (Crit.
del Giud., $ 62). A sua volta Kierkegaard definiva l’A. come «il sentimento
appassionato del divenire» e la riteneva propria del filosofo che considera il
passato, come un segno della non ne- cessità del passato. «Se il filosofo non
ammira nulla (e come potrebbe senza contraddizione am- mirare una costruzione
necessaria?) egli è con ciò estraneo alla storia; giacchè dovunque entra in
gioco il divenire (che certamente è nel passato) l’incertezza di ciò che è
sicuramente divenuto (l’in- certezza del divenire) non può esprimersi che me-
diante questa emozione necessaria al filosofo e propria di lui »
(Philosophische Brocken, p. IV, $ 4). Whitehead ha detto «la filosofia nasce
dell’A.» (Na- ture and Life, 1934, 1). AMMISSIONE (ingl. Admission; franc. Ad-
mission; ted. Aufnahme). Una proposizione, che si assume da altri (in quanto
altri l'hanno già pro- posta oppure in quanto si trova ad essere comune- mente
adoperata) allo scopo di fondare su di essa un qualche ragionamento o di
effettuare a partire da essa una qualche inferenza. Oppure: l’atto di assumere
una proposizione siffatta. La proposizione ammessa può essere ritenuta o vera o
falsa o pro- babile o indifferente; se la si ritiene vera la si chiama un
assioma; se probabile, un’ipotesi; se indifferente, un postulato. Ma essa può
essere ammessa anche solo allo scopo di confutarla, mediante una ridu- zione
all’assurdo. Dall’assurzione (v.) l'A. si di- stingue in quanto concerne una
proposizione la cui scelta o proposta, come base di un ragionamento, è già
stata fatta da altri. AMORALE, AMORALISMO (ingl. Amoral, Amoralism; franc.
Amoral, Amoralisme; ted. Amo- ralisch, Amoralismus). L’aggettivo «A.» designa
propriamente ciò che è indifferente alle valutazioni morali: in questo senso un
uomo A. è un uomo sulla cui condotta i giudizi sul bene e sul male non hanno
alcuna presa e che perciò si regola in- dipendentemente da essi. Il termine «
amoralismo » designa invece una professione di amoralità e perciò la pretesa di
prescindere dai valori della morale cur- rente e di sostituirvi altri valori;
in questo senso esso è stato spesso adoperato per designare l’atteggia- mento
di Nietzsche (v. TRASMUTAZIONE DEI VALORI). AMOR DI SÉ (gr. puavria; ingl.
Self-love; franc. Amour de soi; ted. Selbstliebe). Quest’espres- sione non deve
essere confusa nè con « amor pro- prio » che significa vanità, o, nel migliore
dei casi, senso di fierezza o di orgoglio, nè con egoismo (v.). Aristotele
distinse la filautia, che è una virtù, dal- l’egoismo volgare di chi ama se
stesso in quanto vuole attribuirsi la maggior parte di lucro, di pia- ceri e di
onori. « Il filautos, egli disse, è piuttosto colui che si appropria del bello
e del bene e si dà ad esso in signoria e gli obbedisce in tutto » (Er. Nic.,
IX, 8, 1168 a, 28). In altre parole, chi ama se stesso nel vero senso, non
pretende la parte maggiore del piacere, degli onori o del lucro, ma la parte
maggiore del bene e del bello, cioè l'esercizio della virtù. In senso analogo,
S. Tommaso afferma che l’uomo ama se stesso quando ama la sua natura
spirituale, non quella corporea e che in tal senso egli deve amare se stesso
dopo Dio ma prima di qualsiasi altro; sicchè, per es., non può sopportare
d’incor- rere in peccato per liberare il prossimo dal pec- cato (S. 7A., II,
II, q. 26, a. 4). Nell’età moderna, Malebranche (nella Première lettre au R. P.
Lamie) ha ripreso la distinzione tra amor proprio e A. considerando il primo
come la fonte di tutte le sregolatezze umane e il secondo invece come il
principio di tutti gli sforzi per il compimento del dovere. La distinzione fu
ripresa da Vauvenargue (De l’esprit humain, 24): «Con l’amore di noi stessi si
può cercare la propria felicità fuori di sè. Si può amare qualcosa fuori di sè
più che la propria esistenza e non si è per se stessi l’unico oggetto. L’amor
proprio al contrario subordina tutto alle proprie comodità e al proprio
benessere, e ha in se stesso l’unico oggetto e l’unico fine; sicchè mentre le
emozioni che vengono dall’A. dànno noi alle cose, l’amor proprio vuole che le
cose si diano a noi e fa di sè il centro di tutto ». Kant, pur con- siderando
l’A. di sì come una specie dell’egoismo (inteso però nel senso più generale di
desiderio AMORE 23 della felicità) lo distingueva come benevolenza verso di sè
(o philautia) portata all’estremo, dalla com- piacenza verso se stesso (o
arrogantia) e lo riteneva suscettibile di accordarsi con la legge morale e di
diventare «amore razionale di sè » (Crit. R. Prat., libro I, cap. III, A 129).
Le analisi di Scheler hanno insistito sul carattere non egoistico dell’A. di
sé: «L’amore orientato verso i valori e, per il loro tramite, verso gli oggetti
che ne sono i portatori, senza preoccuparsi di sapere a chi appartengono questi
valori, se a ‘ me’ o ad ‘altri’ » (Symparhie, II, cap. I, $ D. AMORE (gr. tpwc, dyamn;
lat. Amor, Caritas; ingl. Love; franc. Amour; ted. Liebe). I significati che questo termine presenta nel
linguaggio comune sono molteplici, disparati e contrastanti; e altret- tanto
molteplici, disparati e contrastanti sono quelli che esso presenta nella
tradizione filosofica. Comin- ceremo con l’accennare agli usi più correnti del
linguaggio comune, per selezionarli e ordinarli e servircene come criterio per
selezionare e ordinare gli usi filosofici del termine stesso: @) in primo luogo
con la parola A. si designa il rapporto inter- sessuale, quando questo rapporto
è selettivo ed elettivo ed è perciò accompagnato dall’amicizia e da affetti
positivi (sollecitudine, tenerezza, ecc.). Dall’A. in questo senso si
distinguono spesso le relazioni sessuali a base puramente sensuale, che sono
fondate non già sulla scelta personale ma sull'’anonimo ed impersonale bisogno
di rapporti sessuali. Spesso però lo stesso linguaggio comune estende anche a
questo tipo di rapporti la parola A., come quando si dice « fare all’A. +; 5)
in secondo luogo la parola A. designa una vasta gamma di rapporti
inter-personali; come quando si parla del- l’A. dell'amico per l’amico, del
padre per il figlio o reciprocamente, dei cittadini tra di loro, dei co- niugi
tra di loro; c) in terzo luogo si parla dell’A. per cose od oggetti inanimati:
per es., l’A. del denaro, dei quadri, dei libri, ecc.; d) in quarto luogo si
parla dell’A. per oggetti ideali: per es., l'A. della giustizia, del bene,
della gloria, ecc.; e) in quinto luogo si parla dell’A. per attività o forme di
vita: A. del lavoro, della propria professione, del gioco, del lusso, del
divertimento, ecc.; f) in sesto luogo si parla di A. per comunità o enti
collettivi: per es., amor di patria, amor di partito, ecc.; g) in settimo luogo
si parla di A. del prossimo e di A. di Dio. Indubbiamente alcuni di questi
significati si pos- sono eliminare come impropri perchè possono es- sere
espressi e designati più esattamente da altre parole. Così: a) per ciò che
riguarda il rapporto inter-sessuale lo si può designare come A. solo quando
esso è a base elettiva e implica l’impegno personale reciproco. Si potrà così
evitare di desi- gnare come « A.» il rapporto sessuale occasionale o anonimo.
Per ciò che concerne gli usi indicati sotto c) (cioè A. di oggetti inanimati),
è chiaro che qui la parola « A.» sta per desiderio di possesso, quando tale
desiderio raggiunge la forma dominante della passione. E per ciò che concerne
gli usi in- dicati sotto d) (A. di oggetti ideali) è anche chiaro che la parola
« A.» sta qui per indicare un certo impegno morale atto a segnare limiti e
condizioni all’attività dell’individuo. Infine per ciò che ri- guarda e) (A. di
attività, ecc.) la parola « A.» sta ad indicare un certo interesse più o meno
domi- nante, cioè tutivi del- l’A. non può essere determinato una volta per
tutte giacchè esso è diverso a seconda delle forme o delle specie diverse
dell’A. ed implica anche gradi diversi di intimità, di intrinsichezza e di
forma emotiva. Per es., l’A. tra uomo e donna o quello tra padre e figlio o
quello tra cittadini o quello tra uomini che si considerano l’un l’altro come «
prossimo », hanno differenti basi biologiche, culturali e sociali e non si
lasciano ricondurre a uno stesso tipo o forma di solidarietà, di concordia e di
compartecipazione emotiva. Bisognerà pertanto tenere presente questa diversità
nella considerazione dell’uso che i filosofi hanno fatto del termine, giacchè
spesso quest’uso si modella su uno o più tipi particolari di esperienza
amorosa. I Greci videro nell’A. soprattutto una forza uni- tiva e
armonizzatrice e la intesero sul fondamento dell'A. sessuale, della concordia
politica e del- l'amicizia. Secondo Aristotele (Mer., I, 4, 984 b 25 sgg.),
Esiodo e Parmenide furono i primi a suggerire che l’A. è la forza che muove le
cose e le porta e le mantiene insieme. Empedocle rico- nobbe nell’A. la forza
che tiene uniti i quattro elementi e nella discordia la forza che li separa: il
regno dell’A. è lo sfero, la fase culminante del ciclo cosmico, nella quale tutti
gli elementi sono legati nella più completa armonia. In questa fase non c’è nè
il sole, nè la terra, nè il mare perchè non c’è altro che un tutto uniforme,
una divinità che gode della sua solitudine (Fr. 27, Diels). Pla- 24 AMORE tone
ci ha data la prima trattazione filosofica dell'A.: da essa vengono assunti e
conservati i caratteri dell’A. sessuale; e nello stesso tempo tali caratteri
vengono generalizzati e sublimati. In primo luogo, l’A. è mancanza,
insufficienza, bisogno e nello stesso tempo desiderio di acquistare e con-
servare ciò che non si possiede (Conv., 200 a, se- guenti). In secondo luogo
l'A. si dirige verso la bellezza la quale non è altro che l'annuncio e
l’apparenza del bene, ed è quindi desiderio del bene (/bid., 205 e). In terzo luogo
l’A. è desi- derio di vincere la morte (com’è dimostrato dal- l’istinto di
generare proprio di tutti gli animali) ed è quindi la via attraverso la quale
l’essere mor- tale cerca di salvarsi dalla mortalità, non rimanendo sempre lo
stesso, come fa l'essere divino, ma la- sciando dopo di sè in cambio di ciò che
invecchia e muore, qualcosa di nuovo che gli somiglia (/bid., 208 a, b). In
quarto luogo, Platone distingue tante forme dell’A. quante sono le forme del
bello, a cominciare dalla bellezza sensibile e a finire alla bellezza della
sapienza, che è la più alta di tutte e il cui A., cioè la filosofia, è quindi
il più nobile (Ibid., 210 a, sgg.). Il Fedro è diretto appunto a mostrare la
via attraverso la quale l’A. sensibile può diventare amor di sapienza, cioè
filosofia, e il delirio erotico diventare una virtù divina, che allontana dai
modi di vita consueti e impegna l'uomo alla difficile ricerca dialettica
(Fedro, 265 b, seguenti). Questa dottrina platonica dell’A., mentre contiene
gli elementi di un’analisi positiva del fe- nomeno, offre anche il modello di
una metafisica dell'A. che doveva varie volte essere ripresa nella storia della
filosofia. Aristotele si ferma, invece, alla considerazione positiva
dell'amore. Per lui l’A. o è l’A. sessuale o è l'affetto tra consanguinei © tra
persone comunque congiunte da un rapporto solidale, o è l'amicizia (v.). In
generale l’A. e l'odio come tutte le altre affezioni dell'anima, apparten- gono
non all’anima come tale ma all’uomo in quanto è composto di anima e corpo (De
An., I, 1, 403 a, 3) e pertanto vengono meno col venir meno della unione di
anima e corpo (/bid., I, 4, 408 b, 25). Aristotele inoltre riconosce all’A.
quel fondamento di bisogno, imperfezione o deficienza, sul quale Platone aveva
insistito. La divinità, egli dice, non ha bisogno di amicizia giacchè essa è il
suo proprio bene a se stessa, mentre a noi il bene viene da altro (Et. Eud.,
VII, 12, 1245b 14). L’A. è quindi un fenomeno umano e non c’è da meravigliarsi
che di esso Aristotele non faccia alcun uso nella sua teologia. Esso è
un’affezione, cioè una modifica- zione passiva, mentre l’amicizia è un abito,
cioè una disposizione attiva (Ef. Nic., VIII, 5, 1157 b 28). AIl’A. si
congiunge la tensione emotiva e il desi- derio: nessuno è preso da A. se non
sia stato prima colpito dal godimento della bellezza; ma questo godimento di
per sè non è ancora A., che si ha soltanto se si desidera l’oggetto amato
quando è assente e se lo si brama quando è presente (/bid., IX, 5, 1167 a 5).
L’A. che è legato al piacere può cominciare e finire rapidamente ma può anche
dar luogo alla volontà di vivere insieme; e in questo caso assume la forma
dell’amicizia (/bid., VII, 3, 1156 b 4). Se l’analisi aristotelica dell'A. è
priva di riferimenti metafisici e teologici, bisogna ricor- dare che
l'ordinamento finalistico del mondo e la teoria del primo motore immobile
conducono Ari- stotele a dire che Dio, come primo motore, muove altre cose
«come oggetto d°A.+, cioè come ter- mine del desiderio che le cose hanno di
raggiungere la perfezione di lui (Met., XII, 7, 1072b 3). Questa notazione sarà
largamente adoperata dalla filosofia medievale. Sul finire della filosofia
greca, il neoplatonismo ha adoperato la nozione del- l’A. non già per definire
la natuogni « prossimo»; dall’altro lato esso si trasforma in un comando, che
non ha connessioni con le situazioni di fatto e che si propone di tra- sformare
queste situazioni e di creare una comu- nità che non esiste ancora ma che dovrà
rendere tutti gli uomini come fratelli: il regno di Dio. L’A. del prossimo
diventa il comando della non- resistenza al male (MatT., 5, 44); ela parabola
del buon Samaritano (Luc., 10, 29 sgg.) tènde a de- finire l'umanità cui l’A.
deve dirigersi, non nel suo senso composto, ma nel suo senso diviso, come ogni
persona con la quale ciascuno venga a con- tatto; la quale proprio come tale fa
appello alla sollecitudine e all’A. del cristiano. Inoltre, nella concezione
cristiana, Dio stesso risponde con l'A. al- l’A. degli uomini, perciò il suo
attributo fondamen- tale è quello di « Padre». Le Lettere di S. Paolo,
identificando il regno di Dio con la Chiesa e con- siderando nella Chiesa il «
corpo di Cristo » di cui i cristiani sono le membra (Rom., 12, 5 sgg.) fanno
dell’A. (&y&mm) che è il vincolo della comu- AMORE 25 nità religiosa,
la condizione della vita cristiana. Tutti gli altri doni dello Spirito, la
profezia, la scienza, la fede, sono nulla senza di esso. « L’A. sop- porta
tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la fede, la
speranza, l’amore, queste tre cose; ma l’amore è la maggiore di tutte » (Cor.,
I, 13, 7-13). L’elaborazione teologica che il Cristianesimo subì nel periodo
della Patristica non ha da principio utilizzata la nozione dell’amore. Nei
grandi sistemi della Patristica orientale (Ori- gene, Gregorio di Nissa) la
terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, è intesa come una potenza
subordinata di carattere incerto: di qui, anche, le frequenti dispute
trinitarie che il concilio di Nicea (325) non riuscì ad eliminare del tutto.
Soltanto per opera di S. Agostino, con l’identificazione dello Spirito Santo
con l’A. (mentre Dio Padre è l’Es- sere e Dio Figlio è la Verità) l’A. viene
introdotto esplicitamente nella stessa essenza divina e diventa un concetto
teologico, oltre che morale e religioso. L’A. di Dio e l'A. del prossimo si
uniscono in S. Agostino quasi a formare un concetto unico. Amare Dio significa
amare l’A.; ma, dice Agostino, «non si può amare l’A. se non si ama chi ama».
Non è A. quello che non ama nessuno. L'uomo perciò non può amare Dio, che è
l’A., se non ama l’altro uomo. L'A. fraterno fra gli uomini «non solo deriva da
Dio, ma è Dio stesso» (De Trin., VIII, 12): è la rivelazione di Dio, in uno dei
suoi aspetti essenziali, alla coscienza degli uo- mini. La nozione dell’A.
rimane tuttavia in S. Ago- stino quella che era per i Greci, una specie di
rapporto, unione o vincolo che lega un essere con l’altro: quasi «una vita che
unisce o tende ad unire due esseri, l’amante e ciò che si ama » (2bid., VII,
6). Le notazioni agostiniane vengono riprese fre- quentemente lungo tutto lo
sviluppo di una delle principali correnti della Scolastica medievale, cioè
dell’Agostinismo (v.): da Giovanni Scoto Eriugena a Giovanni Duns Scoto.
Scoesseri creati; ma 1’A. intellettuale, che è carità e virtù, è più perfetto
del primo, quindi, aggiungendosi ad esso, lo per- feziona, nel modo stesso in
cui la verità sopranna- turale si aggiunge, senza contrastarla, alla verità na-
turale e la perfeziona (S. Th., I, g. 60, a. 1). Quanto all’A. intellettuale,
cioè alla carità, questa è definita da S. Tommaso come « l’amicizia dell’uomo
verso Dio »: intendendosi per « amicizia +, secondo il si- gnificato
aristotelico, l'A. che è congiunto con la benevolenza (amor benevolentiae) cioè
che vuole il bene di colui che si ama, e non vuole semplicemente appropriarsi
del bene che è nella cosa amata (amor concupiscientiae) come accade in chi ama
il vino o un cavallo. Ma l’amicizia suppone non solo la benevolenza ma anche il
mutuo A. e così si fonda su una certa comunicazione, che, nel caso della
carità, è quella dell’uomo con Dio, che comunica a noi la Sua beatitudine
(/bid., II, 2, q. 23, a. 1). Questa comunione è, secondo S. Tommaso, ciò che
c'è di proprio nell’A.: esso è una specie di unione o vincolo (unio ve/ nexus)
di natura affettiva, che è simile all’unione sostanziale in quanto chi ama si
comporta verso l’amato come verso se stesso. Una unione reale è poi anche
l’effetto dell’A.; ma si tratta di un'unione che non àltera o corrompe coloro
che si uniscono ma si mantiene nei limiti opportuni e convenienti: per es., fa
sì che parlino e dialoghino insieme o si cogiungano in altri modi siffatti
(/bid., II, 1, q. 28, a. 1, ad 2°). In quanto « amare » significa voler il bene
di qualcuno, l'A. ap- partiene alla volontà di Dio e la costituisce. Ma l'amor
di Dio è diverso da quello umano perchè mentre quest’ultimo non crea la bontà
delle cose ma la trova nell’oggetto da cui è suscitato, l’A. di Dio infonde e
crea la bontà nelle cose stesse (bid., I, q. 20, a. 2). La speculazione
teologica sull’A. ritorna nel pla- tonismo rinascimentale; ma questo accentua
la re- ciprocità dell'A. tra Dio e l’uomo, conformemente alla tendenza propria
del Rinascimento a insistere sul valore e la dignità dell’uomo come tale. Mar- 26
AMORE silio Ficino afferma che l’A. è il legame del mondo e abolisce
l’indegnità della natura corporea che viene riscattata dalla sollecitudine di
Dio (Theo/. Plat., XVI, 7). L’uomo non potrebbe amare Dio, se Iddio stesso non
lo amasse; Dio si rivolge al mondo con un libero atto di A., prende cura di
esso e lo rende vivo ed attivo. L’A. spiega la libertà del- l’azione divina
come quella dell’azione umana, giacchè esso è libero e nasce spontaneamente
dalla libera volontà (In Conv. Piat. de Am. Comm., V, 8). E gli stessi accenti
ritornano nei Dialoghi d’A. di Leone Ebreo che ebbero vastissima diffusione
nella seconda metà del ’500. Ma anche nel natura- lismo del Rinascimento l’A.
ritorna talvolta come forza metafisica e teologica. Campanella ritiene che le
tre primalità dell’essere (cioè i principi costitutivi del mondo) siano il
Potere, il Sapere e l’A. (Mer., VI, proem.). L’A. infatti appartiene a tutti
gli enti perchè tutti amano il loro esszione di A. si può considerare, nella
tradizione filosofica, come un portato dell’agosti- nismo; almeno fino al
Romanticismo dal quale questa nozione viene ricondotta ad un senso pan-
teistico, il cui precedente più importante è Spinoza. Bisogna poi tener
presente che l’uso teologico della nozione di A. implica non solo che Dio sia
oggetto d’A. (il che non è negato da nessuna concezione cristiana della
divinità) ma che Egli stesso ami: il che è cosa completamente diversa e che per
l’appunto si ritrova soltanto nell’agostinismo, nel Romanticismo e in talune
concezioni che, come quella di Feuerbach e del positivismo moderno, tendono a
identificare Dio con l’umanità. In realtà l’A., nel suo concetto classico, che
si modella sulla esperienza umana, ha come sua condizione la man- canza, e
quindi il desiderio e il bisogno, di ciò che si ama; difficilmente può essere
pertanto attribuito a Dio che nella sua completezza e infinità si sottrae a
ogni deficienza. La concezione panteistica del- l’A., per es., come quella di
Spinoza, di Schelling e di Hegel, si sottrae a questa difficoltà solo in-
terpretando l’A. come unità o coscienza dell’unità, cioè in un modo che non
trova riscontro in qualsiasi tipo di esperienza amorosa. L’unità, sia essa o no
cosciente di sè, non ha niente a che fare con l’A. ed è anzi la negazione di
esso perchè esclude il rapporto e la comunità che costituiscono l’A. in tutte
le sue manifestazioni. È abbastanza ovvio che dove c'è una cosa sola non c’è nè
chi ami nè chi sia amato. Alla tradizione agostiniana si possono riportare le
famose parole di Pascal: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di
Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio di A. e di consolazione, è un Dio che
riempie l’anima e il cuore di quelli ch’Egli possiede e fa loro sentire
interiormente la loro mi- seria e la Sua misericordia infinita » (Pensées, 556,
Brunschwicg). Ma è dubbio che in questo o simili testi di Pascal si possa
vedere molto più della no- zione che Dio è, in primo luogo e soprattutto,
oggetto d'amore. Quanto a Malebranche, egli af- ferma che Dio ha creato il
mondo « per procurarsi un onore degno di Lui» (Recherche de la vérité, IX) e fa
dire al Verbo: «È la mia potenza che fa tutto, così il bene come il male...
perciò tu devi amare solo me perchè nessuno all’infuori di me produce in te i
piaceri che tu sperimenti in occasione di ciò che accade nel tuo corpo »
(Medirations chré- tiennes, XII, 5); parole che sembrano escludere la dottrina
di Dio come amore. Le notazioni di Cartesio intorno al fenomeno dell’A.,
riportato alla scala umana, sono impor- tanti. «L’A., egli dice, è un’emozione
dell’anima prodotta dal movimento degli spiriti vitali che la incita a
congiungersi volontariamente con gli og- getti che le appaiono convenienti». In
quanto è prodotta dagli spiriti l’A., che è un’affezione e dipende dal corpo, è
diversa dal giudizio che anche induce l’anima, di sua libera volontà, a unirsi
con le cose che essa crede buone (Pass. de l’dme, II, 79). L'A. si distingue
altresì dal desiderio, che è rivolto al futuro; esso consente invece di con-
siderarsi sùbito uniti con ciò che si ama «in modo tale che noi imaginiamo un
tutto di cui siamo solo una parte e di cui la cosa amata è l’altra parte »
(Ibid., 80). Cartesio rigetta la distinzione medievale tra A. di concupiscenza
e A. di benevolenza perchè, egli dice, questa distinzione concerne gli effetti
dell’A. ma non l’essenza di esso: in quanto siamo volontariamente congiunti con
qualche oggetto, quale che sia la natura di questo, abbiamo per esso un senso
di benevolenza e questo è uno dei principali effetti dell’A. (/bid., 81). Ci sono
tuttavia varie specie dell’A., relative ai diversi oggetti che possiamo amare:
I’A. che un uomo ambizioso ha per la gloria, il povero per il denaro,
l’ubbriacone per il vino, un uomo brutale per una donna che desidera violare,
l’uomo d’onore per l’amico o per la moglie e un buon padre per i suoi figli,
sono AMORE 27 specie diverse e tuttavia simili dell'amore. Le prime quattro
tuttavia, sono A. solo del possesso degli oggetti ai quali l'emozione si dirige
e non sono A. degli oggetti in se stessi; le altre invece si diri- gono verso
questi stessi oggetti e desiderano il bene di essi (/bid., 82). Di questa
natura è anche l’ami- cizia; la quale, per di più, è legata alla stima della
persona amata; sicchè non si può avere amicizia per un fiore, un uccello, un cavallo,
ma solo per gli uomini (/bid., 83). In generale, quando stimiamo l'oggetto
dell'A. meno di noi stessi, proviamo per esso un semplice affetto (v.); quando
lo stimiamo come noi stessi, proviamo amicizia; e quando lo stimiamo più di noi
stessi proviamo devozione. Di quest’ultima il principale oggetto è ovviamente
Dio, ma essa può dirigersi anche alla patria, alla città e a qualsiasi uomo che
stimiamo molto più di noi stessi (/bid., 83). Sulla stessa linea si trova
l’analisi di Hume secondo il quale l’A. è un’emozione inde- finibile, di cui
però si può intendere il meccanismo. La causa di essa è sempre un essere
pensante (non si possono amare oggetti inanimati) e il meccanismo con cui
questa causa agisce è costituita da una doppia connessione: una connessione di
idee — tra l’idea di sè e l’idea dell’altro essere pensante — e una connessione
emotiva tra l’emozione dell’A. e quella dell’orgoglio (che è l’emozione che ci
mette in rapporto col nostro io); o tra l’emozione del- l'odio e quella
dell’umiltà (Diss. on the Passions, II, 2). In generale gli scrittori del ’700
insistono sulla connessione dell’A. con la benevolenza: che è il tratto su cui
aveva insistito Aristotele a pro- posito dell'amicizia. Leibniz ha espresso
nella forma più chiara, che doveva essere ripetuta numerose volte nella
letteratura del ’700, questa nozione del- l’amore. « Quando si ama sinceramente
una per- sona, egli dice (Op. Phil., ed. Erdmann, pag. 789- 790) non si cerca
il proprio profitto nè un piacere staccato da quello della persona amata, ma si
cerca il proprio piacere nell’appagamento e nella felicità di questa persona; e
se questa felicità non piacesse di per se stessa ma solo a causa di un
vantaggio che ne risulta per noi, non si tratterebbe più di un A. sincero e
puro. Occorre dunque che si provi immediatamente piacere in questa felicità e
che si provi dolore nell’infelicità della persona amata; giacchè ciò che dà
immediatamente piacere di per se stesso è anche desiderato di per se stesso
come costituente (almeno in parte) lo scopo dei nostri intenti e come qualcosa
che entra nella nostra propria felicità e ci dà sodisfazione ». Questa no-
zione dell’A. toglie, secondo Leibniz, il contrasto fra due verità, cioè tra
quella che è impossibile per noi di desiderare altra cosa se non il nostro
proprio bene e quella che non c’è A. se non quando cer- chiamo il bene
dell’oggetto amato di per se stesso e non per nostro proprio vantaggio. Questa
nozione ha anche il vantaggio, secondo Leibniz, di esser comune all’A. divino e
all’A. umano perchè esprime ogni tipo di A. « non mercenario », qual è, per
es., la caritas o « benevolenza universale » (Op. Phil., pa- gina 218). Va da
sè che in questo senso l’A. può rivolgersi solo a « ciò che è capace di piacere
o di felicità »; sicchè non si può dire, se non per me- tafora, che amiamo le
cose inanimate di cui go- diamo (Nouv. Ess., II, 20, 4). Notazioni di questo
genere sono assai frequenti negli scrittori del °700. Wolff dice che l’A. è «la
disposizione dell’anima a prender piacere dalla felicità altrui (Psicho!. em-
pirica, $ 633). E Vauvenargues afferma: « L'A. è il compiacersi nell’oggetto
amato. Amare una cosa significa compiacersi del suo possesso, della sua grazia,
del suo accrescimento, temere la sua pri- vazione, i suoi decadimenti, ecc. +
(De l’esprit hu- main, $ 24). Nessuno degli scrittori del ”700 mette in dubbio
il fondamento sensibile dell’A.: fondamento per il quale esso si differenzia
dall’amicizia. Vauvenargues, per es., dice: « Nell’amicizia lo spirito è
l'organo del sentimento, nell’A. sono i sensi» (/bid., $ 36). E Kant sembra
ammettere questo presupposto quando distingue risolutamente l’A. sensibile o «
patologico » dall’A. « pratico » cioè morale, che è comandato dalla massima
cristiana « Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso ». L’amor
di Dio, come inclinazione, dice Kant, è impossibile perchè Dio non è un oggetto
dei sensi. E un simile A. verso gli uomini è bensì possibile, ma non può esser
comandato, perchè non è in potere di nessuno amare un altro solamente per
precetto. « Amar Dio» può significare quindi sol- tanto «eseguire volentieri i
suoi comandamenti +; e «amare il prossimo » soltanto « mettere in pratica
volentieri tutti i doveri verso di esso». Ma qui la parola « volentieri » dice
che la massima cristiana non impone che di aspirare a questo A. pratico senza
che esso sia raggiungibile da parte degli es- seri finiti. Difatti sarebbe
inutile e assurdo «co- mandare » ciò che si fa « volentieri »; perciò il pre-
cetto evangelico presenta l’intenzione morale nella sua perfezione totale «come
un ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura e che tut- tavia è
l’esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci con un progresso
ininterrotto ma in- finito» (Crit. R. Prat., I, I, cap. 3) (v. Fana- TISMO). La
dottrina di Spinoza presenta due concetti dell’A., dei quali il secondo doveva
essere utilizzato dai Romantici. In primo luogo l’A. come ogni altra emozione
(affectus) è un’affezione dell’anima (passio) e precisamente consiste nella
gioia accom- pagnata dall’idea di una causa esterna (Zr., III, 28 AMORE 13
scol.). In questo senso si deve dire, propriamente parlando, che Dio non ama
alcuno giacchè esso non è soggetto ad alcuna affezione (/bid., V, 17, corol.).
Ma esiste poi un « A. intellettuale di Dio » che è la visione di tutte le cose
nel loro ordine necessario, cioè in quanto derivano, con eterna ne- cessità,
dall’essenza stessa di Dio (/bid., V, 29 scol.; 32 corol.). Questo A.
intellettuale è il solo eterno ed è quello con ui Dio ama se stesso; sicchè
l’A. intellettuale della mente verso Dio è parte dell’A. infinito con cui Dio
ama se stesso. « Ne consegue, dice Spinoza, che Dio, in quanto ama se stesso,
ama gli uomini e per conseguenza che l’A. di Dio verso gli uomini e l’A.
intellettuale della mente verso Dio, sono la medesima cosa» (4bid., V, 36
corol.). Questo A. è ciò in cui con- siste la nostra salvezza o beatitudine, o
libertà; ed è ciò che nei libri sacri si chiama « gloria » (/bid., scol.). È
chiaro che esso non è più un’affezione, nè una emozione nel senso che Spinoza
ha dato a tali termini, ma è la pura contemplazione di Dio, anzi, poichè la
mente che contempla Dio non è che un attributo di Dio, quest’A. non è altro che
la contemplazione che Dio ha di sè, come unità di se stesso e del mondo. Qui il
concetto dell’A. cessa di riferirsi all’esperienza umana: diventa il con- cetto
metafisico dell’unità di Dio con se stesso e col mondo, quindi con tutte le
manifestazioni del mondo, uomini compresi. Questo concetto doveva diventare
centrale e do- minante nel Romanticismo (v.) della prima metà dell’800, che
s’impernia tutto sul tentativo di di- mostrare l’unità (cioè la totale identità
e intrinsi- chezza) del finito e dell’Infinito. Schleiermacher fa di
quest’unità, in quanto si rivela nella forma del sentimento, il fondamento
della religione; Fichte, Schelling e Hegel fanno della stessa unità, da essi
posta come principio della ragione, il fondamento della filosofia. Ma fu per
l’appunto quest’unità che consentì ai Romantici di elaborare una teoria del-
l’A., per la quale l’A. stesso, pur rivolgendosi a cose o creature finite, vede
o coglie, in queste, le espressioni o i simboli dell’Infinito (cioè dell’Asso-
luto o di Dio). Per l’unità del finito e dell’Infinito, infatti, l’aspirazione
all’Infinito può giungere al suo appagamento anche nel mondo finito, per es.,
nell’A. verso la donna. A., poesia, unità di finito e d’Infinito e sentimento
di quest’unità, diventano sinonimi per i romantici. Federico Schlegel è forse
colui che ha espresso meglio questi concetti. « La sorgente e l’anima di tutte
le emozioni, egli dice, è l’A.; e lo spirito dell'A. deve nella poesia ro-
mantica esser presente ovunque, invisibile e visi- bile... Le passioni galanti
alle quali nella poesia dei moderni, dall’epigramma alla tragedia, non si può
sfuggire, sono il grado minimo di quello Spi- rito, o piuttosto, secondo i
casi, la lettera estrinseca di esso o null’affatto o qualcosa di non amabile e
privo di amore. No, è il Soffio divino che ci commuove nei suoni della musica.
Esso non si lascia prendere a forza o meccanicamente afferrare, ma
amichevolmente attirare dalla bellezza mortale e in essa velare: anche le
magiche parole della poesia possono essere penetre e animate dalla sua forza.
Ma nella poesia dove non è o non può essere dap- pertutto, esso non è affatto.
Esso è una Sostanza infinita e non aderisce e non rivolge il suo intero ». Essi
sono reciprocamente indipendenti solo in quanto « pos- sono morire». L'A. è
superiore a tutte le opposi- zioni e ad ogni molteplicità. Queste notazioni
romantiche ritornano nelle opere mature di Hegel. « L’A., egli dice, esprime in
generale la coscienza della mia unità con un altro, sicchè io per me non sono
isolato, ma la mia autocoscienza si af- ferma solo come rinunzia al mio essere
per sè e attraverso il sapermi come l’unità di me con l’altro e dell’altro con
me » (Fil. del dir., $ 158, aggiunta). «La vera essenza dell’A., dice ancora
Hegel nelle Lezioni di estetica, consiste nell’abbandonare la co- scienza di sè
nell’obliarsi in un altro se stesso e tuttavia nel ritrovarsi e possedersi
veramente in quest’oblio » (Vorles. iiber die Aesta nozione roman- tica, che
vede nell’A. la totalità della vita e dell’uni- verso nella forma di un «
sentimento infinito » che è fine a se stesso, si ritrova in tutta la tradizione
letteraria del Romanticismo, e specialmente nella narrativa, a cominciare dalla
Lucinda di Schlegel. Questa stessa nozione ha anche penetrato di sè il costume
e la vita dei popoli occidentali sino, si può dire, ai giorni nostri: nei quali
ancora l’ag- gettivo «romantico » sembra il più adatto a defi- nire la natura
di un sentimento esaltato e tendente a infinitizzarsi, in cui l’aspetto
spirituale e l’aspetto sensuale si complicano e si limitano l’un l’altro, dando
luogo a vicende interiori di cui ci si com- piace di seguire le più minute
sfumature, esageran- done l’importanza e il valore. Fa parte anche del- l’A.
romantico, in quanto il suo proprio oggetto è l’infinito, o meglio l’infinita
unità e identità, l’insistenza sull’A. come aspirazione,desiderio o brama, che
invece di trovare sodisfazione nell’atto sessuale, teme di essere diminuito o
indebolito da quest’atto e tende ad evitarlo. La «lontananza » è ritenuta dai
Romantici come un mezzo che favorisce i sogni voluttuosi; perciò l’A. romantico
subisce di regola un raffreddamento alla presenza dell’og- getto amato. Ma la
concezione romantica dell’A. si trova anche in filosofie e indirizzi che sono
diversi dal Romanticismo o almeno non ne condividono tutti i caratteri.
Schopenhauer distingue nettamente l’A. sessuale (*pwc) e l'A. puro (iy&rm).
L'A. sessuale è semplicemente l’emozione di cui si serve il « genio della
specie » per favorire l’opera oscura e proble- matica della propagazione della
specie (Metaf. del- PA. sessuale). Ma il «genio della specie» non è che la
cieca, malvagia e disperata « volontà di vi- vere +, che costituisce la
sostanza dell’universo, il suo « noumeno ». L’A. sessuale non è quindi che la
manifestazione in forma fenomenica e cioè sotto l’apparenza della diversità e
della molteplicità degli esseri viventi, dell’unica forza che regge il mondo.
Quanto all’A. puro, esso non è altro che com- passione e la compassione è la
conoscenza del- l’altrui dolore. Ma l’altrui dolore è poi il dolore del mondo,
il dolore della stessa volontà di vita divisa in se stessa e lottante contro se
stessa nelle sue manifestazioni fenomeniche: al di là delle quali, l’A. come
compassione è la per- cezione dell’unità fondamentale (Die Welt, I, $ 67). In
tal modo la nozione romantica dell’A. come sentimento dell’unità cosmica,
rimane nella teoria di Schopenhauer. Ed essa rimane anche nell’ana- lisi di un
suo seguace, Edoardo von Hartmann, che la rende più esplicita affermando che
l’A. è l’identificazione dell’amante e dell’amato; una specie di allargamento
dell’egoismo mediante l’assorbi- mento di un io da parte di un altro io, onde
il senso più profondo dell’A. consiste nel trattare l’oggetto amato come se
fosse, nella sua essenza, identico con l’io che ama. Se quest’unità e identità
non ci fossero, afferma Hartmann, l’A. stesso sa- rebbe un'illusione; ma Haduo
dell’altro sesso) ma semplicemente la tendenza alla produzione e alla
riproduzione di sensazioni voluttuose relative alle cosiddette « zone erotogene
+; tendenza che si manifesta sin dai primi istanti della vita umana. L’impulso
sessuale specifico è una formazione tarda e complessa, for- mazione che
d’altronde non è mai completa come è dimostrato dai pervertimenti sessuali,
così vari e numerosi. Questi pervertimenti non sono quindi, secondo Freud,
deviazioni da un impulso primitivo normale ma modi di comportamento che rimon-
tano ai primi istanti della vita, che si sono sottratti ad uno sviluppo normale
e si sono fissati nella forma di una fase primitiva (v. PsicANALISI). Dalla
libido si sviluppano, secondo Freud, le forme superiori dell’A. mediante
l’inibizione e la sublimazione. La inibizione ha la funzione di mantenere la
/ibido nei limiti compatibili con la conservazione della specie; e da essa
derivano le emozioni morali, in primo luogo quelle della vergogna, del pudore,
ecc., che tendono a immobilizzare e a contenere le ma- 30 AMORE nifestazioni
della /ibido. Nell’inibizione della libido e dei suoi contenuti obiettivi,
prendono radici le nevrosi. La sublimazione invece, si ha quando la libido si
distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione voluttuosa e dagli
oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri oggetti, che saranno in
questo modo amati di per se stessi, indipendentemente dalla loro capacità di
produrre sensazioni voluttuose. Sulla sublimazione d non contiene nessun
elemento adatto a spiegare la scelta che è presente in tutte le forme dell’A. e
che manca completamente nei comportamenti istintivi, che sono ciechi ed
anonimi. Eppure, lo stesso Freud insiste sul valore della scelta nella sua
critica dell’A. uni- versale. « Alcune persone, dice Freud, si rendono
indipendenti dall’acquiescenza dei loro oggetti tra- sferendo il valore
principale dal fatto di essere amate al loro proprio atto di amare; esse si pro-
teggono contro la perdita dell’oggetto amato ri- volgendo il loro A., non a
oggetti individuali, ma a tutti gli uomini egualmente, ed evitano le incertezze
e le delusioni dell’A. genitale distogliendosi dallo scopo sessuale di esso e
trasformando l’istinto in un impulso a intento inibito. Lo stato che esse
inducono in se stesse con questo processo — un immutabile, non deviabile
atteggiamento tenero — ha poca somiglianza superficiale con le tempestose
vicende dell’A. genitale, ma è tuttavia derivato da questo » (Civilisation and
its Discontents, pag. 69). Le obiezioni che Freud fa a questo tipo di A. sono
due: esso non discrimina tra i suoi oggetti il che si risolve in un’ingiustizia
verso questi oggetti stessi; e in secondo luogo non tutti gli uomini sono degni
di amore. Se io amo qualcuno, dice Freud, egli dev'essere degno di quest’A. in
un modo o in un altro: ne sarà degno perchè è così simile a me in qualche
aspetto importante che io posso amare me stesso in lui; o perchè è molto più
perfetto di me sicchè io posso amare in lui il mio ideale di me stesso; o
perchè è il figlio del mio amico del quale intendo condividere gli affetti e le
pene. Ma se non c’è alcun motivo specifico di amarlo, l’amarlo sarà assai
difficile per me e sarà un’ingiustizia per quelli che sono degni del mio A.
giacchè porrò questi ultimi allo stesso livello di lui. Ed inoltre l’A. che
potrò dargli, come adem- pienza al precetto dell’A. universale, sarà soltanto
una piccolissima parte di quello che, per tutte le leggi della ragione, io sono
autorizzato a dare a me stesso. In conclusione il comando di amare il nostro
prossimo come noi stessi è la più forte difesa contro l'aggressività umana ed è
l’esempio superlativo dell’atteggiamento anti-psicologico del super-ego
culturale. Ma è un comando impossi- bile a rispettarsi: tale un’enorme
inflazione di A. potrebbe solo abbassare il valore e non sa- rebbe un rimedio
del male» (/bid., pag. 139-41). Queste considerazioni presuppongono ovviamente
che l’A. implica una scelta motivata dal valore riconosciuto o attribuito
all’oggetto amato; ma proprio questo elemento di scelta non trova posto nella
dottrina di Freud, tutta fondata sul principio del carattere istintivo della
libido da cui ogni A. deriva. La critica di Freud all'«A. universale» è im-
portante e, per qualche aspetto, decisiva per l’orien- tamento contemporaneo
intorno al problema del- l’amore. Tuttavia Freud ha diretto questa critica
contro un bersaglio sbagliato, il precetto evangelico dell'A. del prossimo: il
vero bersaglio di essa è la nozione modeall’uomo nella sua finitudine. Ma
nonostante questo trasferimento, la nozione rimane la stessa; e l’A. è infatti
inteso da Feuerbach, romanticamente, come unità e identità: «l’unità di Dio e
dell’uomo, dello spirito e della natura ». L’A. « non ha plurale ».
L’incarnazione stessa, per Feuerbach come per Hegel, non è che «il puro,
assoluto A., senza aggiunta, senza distinzione tra l’A. divino e l’umano »
(/bid., pag. 82). Sulla base di questa nozione Feuerbach ha delineato la pro-
gressiva estensione dell’A. dall’oggetto sessuale, al bambino, al figlio, dal
figlio al padre e finalmente AMORE 31 alla famiglia, alla gente, alla tribù,
ecc.: la quale estensione sarebbe dovuta al moltiplicarsi delle azioni
reciproche e perciò della reciproca dipen- denza degl’istituti e degl’interessi
vitali. Il termine ultimo di quest’estensione progressiva sarebbe « la umanità
nel suo complesso +, che come tale è l’og- getto più alto dell'A. e l'ideale
morale per eccellenza. Sull’A. esteso a tutta l’umanità hanno fondato la loro
etica gli scrittori positivisti e specialmente Comte e Spencer; e su di esso si
è pure fondata l’etica del neo-criticismo tedesco quale si trova, per es.,
espressa in Cohen. In questi indirizzi i termini « umanità» e « A.» diventano
sinonimi perchè significano l’unità degli esseri umani e qualche volta,
addirittura, l’unità cosmica secondo il concetto romantico. Le forme dell'A.
vengono da questo punto di vista classi- ficate secondo la maggiore o minore
estensione del circolo di oggetti cui l’A. si estende. Così l’A. della patria
sarebbe inferiore all’A. dell’umanità, l’A. della famiglia inferiore all’A.
della patria e l’A. di se stesso inferiore a quello che si prova per un amico.
Scheler ha mostrato (Natura e forma della simpatia, 1923) il carattere fittizio
di questa ge- rarchia che pretende ridurre le varietà autonome dell'A. ad
un'unica forma che avrebbe gradi di- versi a seconda dell’estensione del
circolo umano che costituisce il suo oggetto. Le sue osservazioni a questo
proposito coincidono sostanzialmente con quelle già accennate di Freud: il
valore dell’A. di- minuisce, mon s’accresce, a misura che l’A. si estende a un
numero di oggetti maggiore: giacchè, io generale, l’A. di ciò che è prossimo ha
più va- lore dell’A. di ciò che è lontano, almeno finchè si rivolge ad un
essere vivente; e Nietzsche ha avuto torto a contrapporre (in Così parlò
Zaratustra) l’A. del lontano all’A. del prossimo. Scheler ha negato il
presupposto stesso della dottrina dell’A. universale: la nozione romantica
dell’A. come unità o identificazione. L’A., e in generale la simpatia in tutte
le sue forme (v. Simpatia), implica, e nello stesso tempo, fonda, la diversità
delle persone. Ti senso dell’A. consiste proprio nel non conside- rare e nel
non trattare l’altro come se fosse iden- tico a sè. «L’A. vero, dice Scheler
(Sympathie, I, cap. IV, $ 3) consiste nel comprendere sufficiente- mente
un’altra individualità modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al
suo posto pur mentre la considero altra da me , che in linea di principio si
orientano verso le qualità vitali che chiamiamo più « nobili ». Ma se l’A.
sessuale domina la sfera vitale esistono altre forme di A. corrispondenti alla
sfera spirituale e alla sfera religiosa; e queste forme sono varietà qualitativamente
diverse, qualità pri- mordiali e irriducibili le une alle altre, che fanno
pensare ad una preformazione, nella struttura psi- chica dell’uomo, dei
rapporti elementari che esi- stono tra uomo e uomo (/bid.). Tra queste forme
non c’è tuttavia l’A. dell'umanità. L'umanità può essere amata come individuo
unico ed assoluto solo da Dio; il cosiddetto A. dell’umanità è perciò sol-
tanto l’A. dell’uomo medio di una certa epoca cioè dei valori correnti in
quest'epoca, che inte- ressano i sostenitori di questa forma di amore. La
quale, secondo Scheler, non è altro che risen- timento, cioè odio per i valori
positivi impliciti in « paese natale », « popolo », « patria », 4 Dio», odio
che sostituendo l’umanità a questi portatori di va- lori specificamente
superiori cerca di darsi e di dare l'illusione dell’A. (/bid.). Le analisi di
Scheler sono, nella filosofia contem- poranea, il primo tentativo di sottrarre
la nozione dell’A. all’ideale romantico dell’assoluta unità. Si può scorgere
tuttavia la suggestione e l’azione di quest’ideale in due dottrine
contemporanee, appa- rentemente eterogenee; la dottrina dell'A. mistico di
Bergson e la dottrina dell’A. sessuale di Sartre. Secondo Bergson la formula
del misticismo è questa: «Dio è A. e oggetto d’A.» (Deux sources de la morale
et de la religion, III; trad. ital., pag. 275). Per quanto si possa dubitare
dell’esattezza della prima parte di questa formula, perchè difficilmente si può
riscontrare nei mistici la tesi che Dio ami l’uomo (ciò che Dio offre all'uomo
che lo ama è la salvezza e la beatitudine e la partecipazione alla sua «gloria
+), ciò che Bergson intende dire è che lo slancio mistico si realizza come
un’unità fra l'uomo e Dio. « Non c’è più separazione com- pleta fra chi ama e
chi è amato: Dio è presente e la gioia è senza limiti» (/bid., pag. 252). Per
quest’unità, l’A. dell'uomo verso Dio è l'A. di Dio per tutti gli uomini. «
Attraverso Dio, con Dio egli ama tutta l’umanità di A. divino ». Ma questo A.
non è la fraternità dell’ideale razioè di stampo ro- mantico, non meno
romantico è l’* amor profano » di Sartre. Il presupposto dell’analisi di Sartre
è che l’A. sia il tentativo o, per meglio dire, il pro- getto di realizzare
l’unità o l’assimilazione tra l’io e l’altro. Questa esigenza di unità o di assimilazione,
è, dalla parte dell’io, l’esigenza che esso sia per l’altro una totalità, un
mondo, un fine assoluto. L’A. è, fondamentalmente, un voler essere amato; e
voler essere amato significa « voler situarsi al di là di tutto il sistema dei
valori posto dagli altri, come la condizione di ogni valorizzazione e come il
fondamento oggettivo di tutti i valori» (L’étre et le néant, pag. 436). La
volontà di essere amato è così la volontà di valere per l’altro come l’infi-
nito stesso. « Lo sguardo dell’altro non mi permea più di finitudine, non
immobilizza più il mio essere in ciò che sono semplicemente; io non potrò
essere guardato come brutto, come piccolo, come vile, perchè questi caratteri
rappresentano necessaria- mente una limitazione di fatto del mio essere e
un’apprensione della mia finitudine come finitu- dine » (/bid., pag. 437). Ma
affinchè l’altro possa considerarmi così, occorre che esso possa volere, cioè
che sia libero: perciò il possesso fisico, il pos- sesso dell’altro come cosa
è, nell’A., insodisfacente e deludente. Occorre che l’altro sia libero per vo-
lermi amare e per vedere in me l'infinito. Il che vuol dire che occorre che si
mantenga « come pura soggettività, come l’assoluto per il quale il mondo viene
all’essere » (/bid., pag. 455). Ma qui appunto è il conflitto e lo scacco
inevitabile dell’A.: giacchè da un lato l’altro esige da me la stessa cosa che
io esigo da lui, cioè d'essere amato e di valere per me come la totalità
infinita del mondo; e dall’altro, proprio per voler ciò, per amarmi, «mi delude
radicalmente col suo stesso A.: io esigevo da lui che egli fondasse il mio
essere come oggetto privi- legiato, mantenendosi come pura soggettività nei
miei confronti; e, dal momento che mi ama, mi riconosce invece come soggetto e
s’inabissa nella sua oggettività di fronte alla mia soggettività » (Ibid., pag.
444). In altri termini ognuno, nell’A., vuol essere per l’altro l’oggetto
assoluto, il mondo, la totalità infinita; ma per questo occorre che l’altro
rimanga soggettività libera e altrettanto assoluta. Ma poichè entrambi vogliono
esattamente la stessa cosa, l’unico risultato dell’A. è un conflitto ne-
cessario e uno scacco inevitabile. C'è bensì un’altra via di realizzare
l'assimilazione dell’uno e dell’altro, che è esattamente l’inversa di quella
ora descritta: in luogo di progettare di assorbire l’altro conser- vandogli la
sua alterità posso progettare di farmi assorbire dall’altro e di perdermi nella
sua soggetti- vità per sbarazzarmi della mia. In questo caso, invece di cercare
di esistere per l’altro come oggetto- limite, come mondo o totalità infinita,
cercherò di farmi trattare come un oggetto fra gli altri, come uno strumento da
utilizzare, in una parola, come una cosa. Si avrà allora l’atteggiamento
masochista. Ma il masochismo stesso è e dev’essere uno scacco perchè si avrà un
bel volere diventare un semplice strumento inanimato, una cosa umile, ridicola
od oscena; si dovrà, per l’appunto, volerlo cioè valere, a questo scopo, come
soggettività libera (/bid., pag. 346-47). Non c'è pertanto salvezza nell’A.: il
conflitto e lo scacco gli sono intrinsecamente ne- cessari. D'altronde un
conflitto analogo Sartre vede anche nel semplice desiderio sessuale, di cui
così definisce « l’ideale impossibile »: « Possedere la tra- scendenza dell’altro
come pura trascendenza e tut- tavia come corpo: ridurre l’altro alla sua
semplice fattualità, perchè esso è allora nel mezzo del mio mondo, ma fare che
questa fattualità sia una rap- presentazione perpetua della sua trascendenza
nul- lificante » (/bid., pag. 463-64). E come l’A. può tendere al masochismo
come a un’illusoria soluzione del suo conflitto, così il desiderio sessuale
tende al sadismo cioè alla non reciprocità dei rapporti ses- suali, al
godimento d’essere «potenza possessiva e libera nei confronti di una libertà
imprigionata dalla carne » (/bid., pag. 469). Non c’è dubbio che l’analisi di
Sartre, assai ricca di notazioni e di riferimenti, rappresenti un esame
spregiudicato di certe forme che l’A. può assumere ed assume, e dei conflitti
cui esse mettono capo. Ma si tratta delle forme dell’A. romantico e delle sue
degene- razioni. L'A. di cui parla Sartre è il progetto della fusione assoluta
fra due infiniti; e due infiniti non possono che escludersi e contraddirsi.
Voler essere amato significa per Sartre voler essere la totalità dell’essere,
il fondamento dei valori, il tutto e l’in- finito: cioè il mondo o Dio stesso.
E l’altro, l'amato, dovrebbe essere un soggetto altrettanto assoluto ed
infinito, capace di dare assolutezza ed infinità a chi lo ama. Sono evidenti i
presupposti romantici di quest’impostazione. L’unità assoluta ed infinita che
il Romanticismo classico ingenuamente postu- lava come una realtà garantita
dell'A. diventa, in Sartre, un progetto inevitabilmente destinato allo AMORE 33
scacco. Quello di Sartre è un Romanticismo deluso e consapevole del suo
fallimento. È tuttavia palese nella filosofia contemporanea la tendenza
anti-romantica a togliere all’A. il suo carattere d’infinità, cioè la sua
natura « cosmica » o «divina» e a circoscriverlo in limiti più ristretti e
precisabili. Russell ha messo in luce la fragilità dell’A. romantico che
pretende di essere la totalità della vita e va invece rapidamente incontro
all’esau- rimento e al fallimento. « L’A., egli ha detto, è ciò che dà valore
intrinseco a un matrimonio e, come l’arte e il pensiero, è una delle cose
supreme che fanno la vita degna di essere vissuta. Ma seb- bene non ci sia un
buon matrimonio senza A., i migliori matrimoni hanno uno scopo che va al di là
dell'amore. L’A. reciproco di due persone è troppo circoscritto, troppo
separato dalla comunità per essere per se stesso lo scopo principale di una
buona vita. Esso non è in se stesso una fonte suf- ficiente di attività, non è
sufficientemente prospettivo per costituire un’esistenza in cui si possa
trovare una sodisfazione ultima. Esso diventa presto o tardi retrospettivo, è
una tomba di gioie morte, non una sorgente di nuova vita. Questo male è in-
separabile da ogni scopo che può essere raggiunto solo in un’unica emozione
suprema. I soli scopi adeguati sono quelli i quali insistono sul futuro che non
possono mai essere pienamente raggiunti ma sono sempre in crescendo e infiniti
come l’in- finità della ricerca umana. Solo quando l’A. è legato a qualche
scopo infinito di questa specie, può avere la serietà e la profondità di cui è
capace » (Principles of Social Reconstruction, pag. 192). Con ciò l’A. non è
negato ma ricondotto ai limiti che lo defi- niscono. « Un uomo, dice ancora
Russell, che non ha mai veduto le cose belle in compagnia della donna amata,
non ha conosciuto appieno il magico potere che tali cose possiedono. Inoltre
l’A. è in grado di spezzare il duro nòcciolo del proprio io perchè è una specie
di collaborazione biologica nella quale le emozioni dell’uno sono necessarie
alla sodisfazione degli istintivi propositi dell’altro » (La conquista della
felicità; trad. ital., pag. 42). In questo senso esso, tuttavia, non richiede
il sacri- ficio delle persone che si amano ma costituisce piuttosto un
arricchimento e un compimento delle loro personalità. Non richiede neppure
l’ammuto- limento dello spirito critico da ambe le parti ma piuttosto il
rispetto della reciproca autonomia e la fedeltà agli impegni presi. Per questo
è indispen- sabile la realizzazione dell’uguaglianza di condizione morale e
giuridica tra i sessi ed anche una tra- sformazione e una liberalizzazione
delle regole mo- rali che ora restringono e inibiscono in modo troppo rigido i
rapporti sessuali. Dall'altro lato però, «il rapporto sessuale senza A. ha un
valore 3 — ABBAGNANO, Dirfonario di filosofia. minimo e deve essere considerato
come un primo esperimento, tale da dare un concetto approssima- tivo dell’A.»
(Marriage and Morals, cap. IX; trad. ital, pag. 118). Uno sguardo d’insieme
alle teorie di cui si è fatto cenno mostra che in esse ricorrono due no- zioni
fondamentali dell’A., all’una o all’altra delle quali ciascuna di esse può
essere agevolmente ricondotta. La prima è quella dell’A. come un rapporto che
non annulla la realtà individuale e l'autonomia degli esseri tra i quali
intercorre, ma tènde a rafforzarle, mediante uno scambio reci- proco
emotivamente controllato di servizi e di cure di ogni genere, scambio nel quale
ognuno cerca ilbene dell’altro come suo proprio. In questo senso ’A. tènde alla
reciprocità ed è sempre reciproco nella sua forma riuscita: la quale tuttavia
potrà sempre dirsi un’urione (di interessi, d’intenti, di propositi, di
bisogni, nonchè delle emozioni corre- lative) ma mai un’ unità » nel senso
proprio del termine. In questo senso l’A. è un rapporto finito tra enti finiti,
suscettibile della più grande varietà di modi in conformità con la varietà di
interessi, propositi, bisogni, e relative funzioni emotive, che possono
costituirne la base oggettiva. « Rapporto finito » significa rapporto non
necessariamente de- terminato da forze ineluttabili, ma condizionato da
elementi e situazioni atte a spiegarne le modalità particolari. Significa
altresì rapporto soggetto alla riuscita come alla non riuscita e, anche nei
casi più favorevoli, suscettibile di riuscite solo parziali e di stabilità
relativa. In questo caso, ovviamente, l’A. non è mai «tutto» e non costituisce
la solu- zione di tutti i problemi umani. Ogni tipo o specie di A., e, in ogni
tipo o specie, ogni caso di esso, sarà delimitato e definito, nel rapporto che
lo co- stituisce, da quei particolari interessi, bisogni, aspi- razioni,
preoccupazioni, ecc., la cui compartecipa- zione costituirà di volta in volta
la base o il motivo dell'amore. Specificamente, l’A. potrà essere defi- nito
come il controllo emotivo di tali tipi o modi di compartecipazione e dei
comportamenti corri- spondenti. Il valore di questo controllo emotivo può
essere reso ovvio da qualche osservazione, Per es., la fedeltà nell’A. non ha
valore se deriva non dal controllo emotivo, ma da una fredda no- zione del
dovere; e d’altra parte certe infedeltà non intaccano necessariamente l’amore.
In questi limiti in cui l'A. è un fenomeno umano, per la descrizione del quale
termini come « unità », « tutto », « infinito », « assoluto » sono fuori luogo,
l’A. perde di sostanza cosmica quanto guadagna d’importanza umana; e il suo
significato, oggettivamente consta- tabile, per la formazione, la
conservazione, l’equi- librio della personalità umana, diventa fondamen- tale.
La nozione dell’A. in questo senso è quella 34 AMOR FATI illustrata da Platone,
Aristotele, S. Tommaso, Car- tesio, Leibniz, Scheler, Russell. La seconda
ricorrente teoria dell’A. è quella che vede in esso un'unità assoluta o
infinita, ovvero la coscienza, il desiderio o il progetto di tale unità. Da
questo punto di vista l’A. cessa di essere un fenomeno umano per diventare un
fenomeno co- smico o meglio ancora la natura del Principio o della Realtà
suprema. La riuscita o la non riuscita dell'amore umano diventa indifferente ed
anzi, l’A. umano, come aspirazione all’identità assoluta, e come tentativo da
parte del finito di identificarsi con l’Infinito, viene condannato
preventivamente all’insuccesso e ridotto ad un’aspirazione unilate- rale, per
la quale la reciprocità è deludente e che si contenta di vagheggiare la vaga
forma di un ideale sfuggente. Due sono le conseguenze di tale concetto
dell'amore. La prima è l’infinitizzazione delle vicende amorose che,
considerate come modi o manifestazioni dell’Infinito, acquistano un si-
gnificato e una portata sproporzionata e grottesca senza rapporto con
l’importanza reale che esse hanno per la personalità umana e per i rapporti di
essa con gli altri. La seconda è che ogni tipo o forma di A. umano viene destinato
allo scacco; e la stessa riuscita di tale A., constatabile nella re- ciprocità,
nella possibilità della compartecipazione, viene assunta come il segno di
questo scacco. Questi due atteggiamenti si possono agevolmente riscontrare
nella letteratura romantica sull’amore. Questa nozione dell'A. è quella che si
trova difesa da Spinoza, Hegel, Feuerbach, Bergson, Sartre. AMOR FATI.
Espressione usata da Nietzsche come « formula per la grandezza dell’uomo » e
che significa: «Non voler nulla di diverso da quello che è, non nel futuro, non
nel passato, non per tutta l’eternità. Non solo sopportare ciò che è ne-
cessario, ma amarlo». La formula esprime l’atteg- giamento proprio del
superuomo e la natura dello 4 spirito dionisiaco » in quanto è accettazione in-
tegrale ed entusiastica della vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più
sconcertanti, tristi e crudeli (Ecce Homo, passim; Wille zur Macht, ed. Krònee
la situazione o l’oggetto nei suoi elementi, sicchè un procedimento analitico
si dice riuscito quando tale risoluzione è stata compiuta. Il procedimento
venne adoperato da Aristotele nella logica della dimostrazione (apodittica) con
lo scopo di risolvere la dimostrazione nel sillogismo, il sillogismo nelle
figure, le figure nelle proposizioni (An. pr., I, 32, 47a 10). Nella logica del
’600, la differenza fra analisi e sintesi cominciò ad essere esposta come la
differenza tra due metodi di inse- gnamento. « L’ordine didascalico, diceva
Jungius, o è sintetico cioè compositivo o analitico cioè ri- solutivo ».
L'ordine sintetico va «dai princìpi al principiato, dai costituenti al
costituito, dalle parti al tutto, dai semplici ai composti » ed è quello ado-
perato dal logico, dal grammatico, dall’architetto e anche dal fisico quando
passa dalle piante agli animali o dagli esseri meno perfetti a quelli più
perfetti. L'ordine analitico procede per la via op- posta ed è proprio del
fisico e dell’etico, in quanto quest’ultimo passa, ad es., dalla considerazione
del fine a quella dell’azione onesta (Logica Ham- burgensis, 1638, IV, cap.
18). Non più come di- versi metodi d’insegnamento, ma come diversi procedimenti
di dimostrazione vennero considerate l’analisi e la sintesi a partire da
Cartesio. Dice Cartesio: « La maniera di dimostrare è duplice: l’una dimostra attraverso
l’A. o risoluzione, l’altra attraverso la sintesi o composizione. L’A. dimostra
la vera via per la quale la cosa è stata metodica- mente inventata e fa vedere
come gli effetti dipen- dano dalla causa... La sintesi, al contrario, quasi
esaminando le cause dai loro effetti (benchè la prova che essa contiene vada
sovente dalle cause agli effetti) dimostra in verità chiaramente ciò che è
contenuto nelle sue conclusioni e si serve di una lunga serie di definizioni,
postulati, assiomi, teo- remi, problemi » (Rép. aux II Ob.). Cartesio stesso
nota come gli antichi geometri si fossero serviti prevalentemente della sintesi
(come infatti fecero PapPo, VII, 1 sgg. e ProcLOo, Comm. al I libro di Euclide,
pag. 211, Friedlein), mentre egli ha pre- ferito l'A. perchè questa via «
sembra la più vera e la più adatta per insegnare». Hobbes ripeteva
sostanzialmente queste considerazioni (De Corpore, VI, $ 1-2) e la Logica di
Porto Reale chiamava l’A. « metodo d’invenzione » e la sintesi « metodo di com-
posizione » o « metodo di dottrina » (Log., IV, 2). Questo punto di vista
sanzionava la superiorità del procedimento analitico nella filosofia moderna.
Tale superiorità è presupposta anche da Leibniz che definisce l’A. dal punto di
vista logico-lingui- ANALISI 35 stico: « L'A. è questa: un qualsiasi termine
dato sia risolto nelle sue parti formali, cioè si ponga la definizione di esso;
queste parti siano a loro volta risolte in parti, cioè si dia la definizione
dei termini della definizione, e così via sino alle parti semplici cioè ai
termini indefinibili » (De Arte Combinatoria, Op., ed. Erdmann, pag. 23 a-b).
Con altre parole Newton diceva la stessa cosa: « Con la via dell'A. noi
possiamo procedere dai composti agli ingre- dienti e dai movimenti alle forze
che li producono; e in generale dagli effetti alle loro cause e dalle cause
particolari alle generali, sinchè il ragiona- mento termina alle più generali »
(Opticks, 1704, Ill, 1, q. 31; ed. Dover, pag. 404). Wolff contrap- poneva
nello stesso senso il metodo analitico e il metodo sintetico: « Si chiama
analitico il metodo dal quale le verità sono disposte nell’ordine in cui furono
trovate o almeno in cui potevano essere trovate. Si dice sintetico il metodo
dal quale le verità sono disposte in modo che ciascuna possa essere più
facilmente intesa e dimostrata a partire dall’altra » (Log., $ 885). Non
diverso è il signi- ficato che Kant dette all’opposizione dei due me- todi. Più
particolarmente nel De Mundi Sensibilis atque intellegibilis forma et ratione,
I, $ 1, nota, egli distinse due significati di A.: uno qualitativo che è «il
regresso a rationato ad rationem» l’altro quantitativo (di cui dichiara di
avvalersi) che è «il regresso dal tutto alle sue parti possibili cioè mediate,
cioè alle parti delle parti, sicchè l’A. non è la divisione ma la suddivisione
del composto dato ». Kant si avvalse di questo procedimento in tutte le sue tre
opere principali, in ciascuna delle quali la parte positiva fondamentale è
costituita da una « Analitica ». Procedimento analitico è, se- condo Kant,
quello proprio della « logica generale » in quanto «risolve l’intera opera
formale dell’in- telletto e della ragione nei suoi elgni caso di determinare
gli elementi veri o effettivi che condi- zionano queste attività, in contrasto
con gli elementi apparenti o fittizi (o « dialettici »). Naturalmente il metodo
analitico non ha niente a che fare con i giudizi analitici. «Il metodo
analitico in quanto si oppone al sintetico è tutt’altra cosa che un com- plesso
di giudizi analitici: esso vuol dire soltanto che si parte da ciò che è oggetto
della questione, come dato, per risalire alle condizioni che lo ren- dono
possibile » (Pro/., $ 5, nota). Hegel fissò in modo analogo il carattere
fondamentale del proce- dimento analitico quando scrisse: « Anche quando il
conoscere analitico procede a rapporti che non sono una materia data
esteriormente ma determi- nazioni di pensiero, rimane ciò nondimeno anali- tico
in quanto per esso anche questi rapporti sono dati» (Wissenschaft der Logik,
III, III, II, A a; trad. ital., pag. 295). Il riconoscimento di dati si può
infatti assumere come il crattere fondamentale del procedimento analitico,
quello che più profon- damente lo distingue dal sintetico (v. FiLosoFia). Nella
filosofia e in generale nella cultura moderna e contemporanea la tendenza
analitica, cioè la ten- denza a riconoscere nell’A. il procedimento della
indagine, si è estesa e si è manifestata feconda. Questa tendenza coincide
sostanzialmente con la tendenza empiristica (nel senso metodologico del- l’empirismo
[v.})) a restringere l’indagine ai « fatti osservabili » e alle relazioni fra
tali fatti: tendenza la quale implica in ogni caso l’esigenza di indicare il
metodo o il procedimento mediante cui il fatto può essere effettivamente
osservato. In questo senso il procedimento analitico porta all'eliminazione di
realtà o di concetti «in sè», cioè assoluti e indi- pendenti da ogni
osservazione o verificazione e presupposti come realtà o verità « ultime».
Sotto questo aspetto la fisica relativistica e la meccanica quantistica possono
essere considerate come risul- tati del procedimento analitico. Quando Einstein
osservò che, per parlare di « fatti simultanei », oc- corre dare un metodo per
osservare la simultaneità di tali fatti (dando così la chiave della teoria
della relatività) non fece che condurre a buon fine l’A. della nozione di «
fatti simultanei ». E quando Niels Bohr e i suoi allievi misero in luce che
ogni osser- vazione fisica è accompagnata da un effetto dello strumento
osservante sull’oggetto osservato, non fe- cero che condurre a buon fine l’A.
di « osservazione fisica »; e da questa analisi è nata l’intera meccanica
quantistica. Analogamente la rinuncia a postulare un mezzo di trasmissione non
osservabile dei fe- nomeni elettromagnetici (il cosiddetto « etere ») può
essere considerato come un risultato del rafforza- mento del procedimento
analitico. In matematica lo stesso procedimento ha prevalso in quanto si è
rinunciato a discutere che cosa siano i punti, le rette, i numeri, in sé, e ci
si è limitato all’A. delle relazioni intercorrenti tra questi termini e dei po-
stulati che le esprimono. Da questo punto di vista 36 ANALITICA l'A. si è
estesa e rafforzata a danno di ciò che si chiama « metafisica », cioè del
dominio delle realtà assolute e delle verità necessarie. Nel campo delle
scienze storiche Dilthey ha contrapposto al metodo metafisico e aprioristico,
adoperato, per es., da Hegel, il metodo analitico e descrittivo proprio della
psicologia: onde si parla oggi dell’« A. sto- rica » che mira a comprendere un
fatto storico nei suoi elementi e nella connessione di tali elementi. Si parla
anche di « A. sociologica + nel senso di un procedimento diretto a risolvere
una realtà sociale nei comportamenti, negli atteggiamenti e nelle isti- tuzioni
che ne costituiscono gli elementi osservabili. Nel dominio della filosofia
contemporanea l’A. assume varie forme sia a li in cui l’uomo si trova nel
mondo. Nell’empirismo logico, l’A. è A. del linguaggio e tènde a eliminare le
confusioni mediante la de- terminazione e il controllo del significato o modo
d’uso dei segni. Queste tendenze analitiche della filosofia contemporanea sono
più o meno in po- lemica con la metafisica tradizionale e tendono a dare
all’indagine filosofica un metodo rigoroso per l'accertamento e il controllo
dei suoi risultati. Nello stesso tempo, tutte più o meno indulgono a certi
irrigidimenti metafisici; parlando, per es., di «ati ultimi » come fa Bergson,
di « forme o essenze ne- cessarie » come fa Husserl, di « strutture necessarie
» come fa Heidegger, di « proposizioni atomiche » o di « fatti atomici » come
fa l’empirismo logico, ecc. Si può dire tuttavia che la tendenza delle
filosofie analitiche e dell’indirizzo analitico delle scienze con- siste nella
progressiva eliminazione di punti fermi, cioè di elementi o strutture che per
la loro sostan- zialità e necessità blocchino il corso ulteriore dell’A. e lo
immobilizzino su risultati assunti come defi- nitivi e perciò sottratti ad ogni
ulteriore controllo. Questa tendenza mira perciò a determinare e utiliz- zare
tecniche di controllo che siano suscettibili di correzione o rettificazione. Da
questo punto di vista l’A. è l’equivalente aggiornato dell’empirismo tra-
dizionale e ad essa si contrappone la metafisica, nel senso classico del termine,
come scienza o pretesa scienza di ciò che, essendo « necessariamente +» ed «in
sè», non ha bisogno di essere analizzato cioè descritto, interpretato o
compreso mediante proce- dure verificabili. ANALITICA (ingl. Analytics; franc.
Anali tique; ted. Analitik). In generale una disciplina o una parte di
disciplina il cui procedimento fonda- mentale è l’analisi (v.). Aristotele
chiamò A. la parte della logica che mira a risolvere ogni ragio- namento nelle
figure fondamentali del sillogismo (Primi Aalitici) ed ogni prova nei
sillogismi stessi e nei primi princìpi che costituiscono le loro pre- messe
evidenti (Secondi Analitici). Kant chiamò « A. trascendentale » la prima parte
della « dottrina degli elementi » nella Critica della ragion pura e nella
Critica della ragion pratica (mentre la seconda parte di essa è la Dialettica):
intendendo per A. la deato 8 appartiene al soggetto A come qualcosa che è con-
tenuto (implicitamente) in questo concetto A (Crit. R. Pura, Intr., IV). Sul
carattere di questa implicazione però nulla vien detto; e il famoso esempio
addotto da Kant della proposizione «i corpi sono estesi » che sarebbe analitica
di fronte ANALOGIA 37 alla proposizione «i corpi sono pesanti» che sa- rebbe
sintetica non chiarisce certo il concetto giacchè non si vede perchè
l’estensione debba essere con- tenuta implicitamente nel concetto di corpo e
non la pesantezza. 3° La tautologia. In questo senso Wittgenstein ha
considerato le proposizioni analitiche come tau- tologie. « La tautologia, egli
ha detto non ha con- dizioni di verità perchè è incondizionatamente vera »
(Tractatus, 4.461). Ma dall’altrca; ma la proposizione « nessuno scapolo è
sposato » non è più una tautologia ma è tuttavia una propo- sizione analitica,
fondata sulla sinonimia tra « sca- polo » e « non sposato +. (Cfr. QuINE, From a Logical
Point of View, 1953, cap. ID. 4° La sinonimia. Questa può essere stabilita: a) mediante definizioni,
come si fa di solito nelle matematiche e in tutti i linguaggi artificiali; 5)
me- diante il criterio dell’intercambiabilità, con cui Leibniz definisce la
stessa identità (v.); in tal caso si chiamano sinonimi i termini che possono
essere scambiati in uno stesso contesto senza alterare la verità del contesto
stesso; c) mediante regole se- mantiche come anche accade nei linguaggi
artificiali. È da notare che la difficoltà di stabilire con questi procedimenti
il significato esatto di sinonimia e quindi di A. ha condotto alcuni logici
moderni a negare che esista una netta distinzione tra A. e sinteticità (MORTON
WHITE, The Analytic and the Synthetic: an Untenable Dualism, in SipNEY Hook,
ed. John Dewey, New
York, 1950; W. V. O. QuINE, From a Logical Point of View, Cambridge, 1953, cap.
II). ANALOGIA (gr. &vadoyia; lat.
Analogia; in- glese Analogy; franc. Analogie; ted. Analogie). Il termine ha due
significati fondamentali: 1° il senso proprio e ristretto, desunto dall’uso
matematico (per cui vale proporzione) di eguaglianza di rapporti; 2° il senso
di estensione probabile della conoscenza mediante l’uso di somiglianze
generiche che si pos- sono addurre tra situazioni diverse. Nel primo si-
gnificato il termine fu adoperato da Platone e da Aristotele ed è tuttora
adoperato dalla logica e dalla scienza. Nel secondo significato, il termine è
stato ed è adoperato nella filosofia moderna e con- temporanea. L’uso medievale
del termine serve da passaggio dall’uno all’altro significato. 1° Platone
adoperò il termine per indicare l’uguaglianza dei rapporti fra le quattro forme
— a due a due — di conoscenza che distinse nella Re- pubblica (VII, 14, 534a
6): cioè fra la scienza e la dianoia che appartengono alla sfera dell’intelli-
genza (che ha per oggetto l’essere); e la credenza e la congettura che
appartengono a quella della opinione (che ha per oggetto il divenire). « Come l’essere
sta al divenire, dice Platone, così l’intelli- genza sta all’opinione; e comche
gli elementi e i principi delle cose non sono gli stessi, ma sono solo
analoghi, nel senso che sono gli stessi i rapporti che hanno tra loro. Per es.,
« nel caso del colore, la forma sarà il bianco, la privazione il nero e la
materia la superficie; nel caso della notte e del giorno, la forma sarà la
luce, la privazione sarà l’oscurità e la materia sarà l’aria» (/bid., 12, 4,
1070b 18). Ovviamente, il bianco, il nero e la superficie non sono le stesse
cose rispettivamente che la luce, l’oscurità e l’aria; ma identico è il
rapporto fra 38 ANALOGIA queste due terne di cose (come fra moltissime altre
terne): rapporto che è espresso con i principi di forma, privazione e materia.
In questo senso, cioè come uguaglianza di rapporti in tutti i casi in cui si
tcessario. Questi due significati dell’essere non sono univoci cioè iden- tici
e neppure eguivoci, cioè semplicemente diversi; sono analoghi cioè simili ma di
proporzioni diverse. Solo Dio ha l’essere per essenza, le creature hanno
l’essere per partecipazione; esse, in quanto sono, sono simili a Dio che è il
primo principio universale dell'essere, ma Dio non è simile ad esse: questo
rapporto è l’A. (S. TA., I, q. 4, a. 3). Il rapporto analogico si estende a
tutti i predicati che si attri- buiscono allo stesso tempo a Dio e alle
creature. Per es., il termine « sapiente» riferito all’uomo si- gnifica una
perfezione distinta dall’essenza e dalla esistenza dell’uomo, mentre riferito a
Dio vuol dire una perfezione che è identica alla sua essenza e al suo essere;
inoltre, riferito all'uomo, fa com- prendere ciò che vuol significare mentre
riferito a Dio lascia fuori di sè la cosa significata che tra- scende i limiti
dell'intendimento umano (/bid., I, q. 13, a. 5). Il diverso significato che un
termine può avere a seconda della sua attribuzione a questa o a quella realtà
fu poi chiamato dagli scolastici A. di attribuzione. Questo tipo di A. si
verifica non soltanto a proposito dell’attribuzione di uno stesso termine a Dio
e alle creature ma in molti altri casi come, per es., quando si dice che è sana
una me- dicina ed è sano un animale in quanto la medicina è causa della sanità
che è nell’animale (/bid., I, q. 13, a. 5). L’A. di proporzionalità si
riferisce invece soltanto all’analogicità di significato tra l'essere di Dio e
l'essere delle creature: e diventa un tema di discussioni polemiche nella
Scolastica del sec. xm e della prima metà del sec. x1v. L’A. di proporzio-
nalità viene spesso dai Tomisti (come dallo stesso S. Tommaso) riportata ad
Aristotele, ma in realtà questi aveva bensì cominciato col riconoscere vari
sensi dell’essere ma solo per ricondurli a modi e specificazioni dell’unico
senso della sostanza, cioè dell’essere in quanto essere, dell'essere nella sua
necessità, che è l'oggetto della metafisica. Aristotele perciò non distingueva
nè poteva distinguere tra l’essere di Dio e l’essere delle altre cose: per es.,
Dio e la mente sono sostanze proprio nello stesso senso (Er. Nic., I, 6, 1096
a. 24). Il maggior critico e oppositore del Tomismo su questo punto fu Duns
Scoto che, per l’appunto rifacendosi ad Aristotele, considerò la nozione di
essere comune a tutte lo cose esistenti, quindi alle creature come a Dio. La
ANALOGIA 39 considerò perciò univoca per il motivo fondamentale che, se così
non fosse, sarebbe impossibile cono- scere nulla di Dio e determinare un
qualsiasi at- tributo di Lui, risalendo per via causale dalle crea- ture (Op.
Ox., I, d. 3, q. 3, n. 9). In tal modo egli ripristinò pure l’unità della
scienza dell’essere cioè della metafisica che per il tomismo era divisa in
scienza dell’essere creato (metafisica) e in scienza dell’essere necessario
(teologia) e pertanto ridusse la teologia a scienza pratica (cioè diretta, non
a conoscere, ma a guidare l’uomo verso la propria salvezza). 2° Il secondo
significato del termine, come estensione probabile della conoscenza mediante il
passaggio da una proposizione che esprime una certa situazione a un’altra
proposizione che esprime una situazione genericamente simile o come esten-
sione della validità di una proposizione da una certa situazione a una
situazione genericamente si- mile era conosciuto dagli antichi col nome di «
pro- cedura per somiglianza » (St mapafoXîc 0 Su spor ros). Aristotele dice: «
La probabilità appare anche nel procedimento per somiglianza quando si dice il
contrario del contrario: per es., se bisogna far del bene agli amici, si può
dire per somiglianza che bisogna far del male ai nemici» (Top., I, 10, 104 a 28;
cfr. EI. Soph., 173 b 38; 176a 33; ecc.). Questo procedimento ovviamente non ha
niente a che fare con l’A.: il rapporto è diverso (come il « far del male » è
diverso dal «far del bene +) e tra le due situazioni pertanto non c’è
uguaglianza di rapporti ma solo una generica simiglianza. Aristo- tele
consiglia l’uso di questo procedimento a scopi polemici (Top., VIII, 1, 156b
25). Euclide di Me- gara ne aveva già negata la validità logica. Egli infatti
«ripudiava il procedimento per simiglianza dicendo che esso si avvale o di cose
simili o di cose dissimili. Se di simili è meglio rivolgersi alle cose stesse
che a quelle di cui sono simili; se di dissimili è inutile la comparazione »
(Diog. L., II, 107). Come ragionamento per analogia era in- tesa l’induzione
dagli Epicurei che pertanto ne difendevano la validità subordinatamente al
postu- lato dell’uniformità della natura. Dice Filodemo: «Quando noi
giudichiamo: ‘ Poichè gli uomini che sono alla nostra portata sono mortali,
tutti gli uomini sono mortali’ il metodo dell’analogia sarà valido solo se
assumiamo che gli uomini che non sono in condizione di esserci manifesti sono,
sotto tutti i rispetti, simili a quelli che sono alla nostra portata, sicchè si
deve assumere che anch'essi siano mortali. Senza questo presupposto il metodo
dell’analogia non è valido» (De Signis, II, 25). Nella filosofia moderna la
prima difesa dell’analogia è probabilmente quella di Locke che nel IV libro del
Saggio include PA. fra i gradi dell’assenso; e precisamente la considera come
la probabilità che concerne cose che trascendono llla permanenza della sostanza
che si esprime di- cendo: «In ogni cangiamento dei fenomeni la so- stanza
permane e la quantità di essa nella natura non aumenta nè diminuisce +; 5) il
principio della serie temporale secondo la legge della causalità, che si
esprime dicendo: « Tutti i cangiamenti av- vengono secondo la legge del nesso
di causa ed effetto »; c) il principio della simultaneità secondo la legge
dell’azione reciproca che si esprime di- cendo: « Tutte le sostanze in quanto
possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in azione
reciproca universale ». Kant ha chia- rito nel modo seguente il senso nel quale
questi princìpi sono detti analogie. In matematica, le A. sono formule che
esprimono l'uguaglianza di due rapporti quno bensì a priori e quindi certi in
modo indubitabile, ma nel contempo sono privi di evi- denza intuitiva; mentre
gli « assiomi dell’intuizione » (v. Assioma) e le «anticipazioni della
percezione » (v. ANTICIPAZIONI) sono princìpi costitutivi perchè insegnano «
come i fenomeni, sia rispetto alla loro intuizione, sia rispetto alla loro
realtà percepita, possono essere prodotti secondo le regole di una sintesi
matematica » (Crir. R. Pura, Anal. dei princ., IMI, 3). Come si vede, permane
in quest’uso kantiano il significato dell’A. come eguaglianza tra rapporti; ma
tali rapporti sono detti « qualitativi » nel senso che con essi non sono dati
gli oggetti, ma soltanto quelle relazioni che consentono di scoprirli e or- dinarli
in unità. E difatti, i princìpi della perma- nenza della sostanza, di causalità
e di reciprocità non fanno conoscere nulla; ma servono a scoprire gli oggetti
conoscibili e a ordinarli, secondo i loro nessi, nell’unità dell'esperienza. In
tal senso l’A. è uno strumento, anzi uno degli strumenti fondamen- tali per
estendere la conoscenza dei fenomeni natu- rali sulla guida delle loro
connessioni determinanti. La logica e la metodologia della scienza dell’800
sono state diffidenti verso l’A., considerandola ge- neralmente come
un'estensione della generalizza- zione induttiva al di là dei limiti nei quali
essa offre garanzia di verità. Stuart Mill considerò il ragiona- mento per A. «
un’inferenza che ciò che è vero in un certo caso è anche vero in un caso in
qualche modo simile ma non esattamente parallelo, cioè non simile in tutte le
circostanze materiali. Un og- getto ha la proprietà 5; un altro oggetto non ha
la proprietà 5, ma è simile al primo in una pro- prietà a non connessa con b;
l’A. porterà alla con- clusione che anche questo oggetto ha la proprietà b. Per
es., si dice che i pianeti sono abitati perchè la Terra è abitata ». Questo
modo di argomentare può, secondo Stuart Mill, accrescere solo in grado non
determinabile, ma in ogni caso assai modesto, la probabilità della conclusione;
ma in compenso può dar luogo a molte fallacie (Logic, V, 5, 6). Ma la logica e
la metodologia del nostro secolo sono assai meno diffidenti nei confronti
dell'A. forse perchè la riportano al significato 1° cioò a ugua- glianza di
rapporti. Per es., uno dei procedimenti analogici consiste nella creazione di
simboli che ab- biano somiglianza maggiore o minore con le situa- zioni reali,
e i cui rapporti riproducano quelli inerenti agli elementi di tali situazioni.
Tali simboli sono qualche volta modelli meccanici cioè disegni o schemi o
macchine che riproducono i rapporti intercedenti di elementi reali; tali sono,
per es., i modelli del sistema solare, della struttura dell'atomo, del si-
stema nervoso, ecc. Altre volte tali modelli sono ottenuti mediante il
cosiddetto processo di extra- polazione il quale consiste nel portare al limite
il comportamento di un insieme di casi ordinati in una serie nella quale si
suppongano eliminate gra- dualmente le influenze disturbatrici. Si parla così,
per es., di velocità infinita o di velocità zero, di masse ridotte a un punto
geometrico, di leve per- fette, di gas ideali, ecc. Ogni modello è un esempio
di A., nel senso 1°, perchè il proprio di un modello è quello di riprodurre,
fra i propri elementi, gli stessi rapporti degli elementi della situazione
reale. Ma i fisici parlano oggi di A. anche come di con- dizione o di elemento
integrante delle ipotesi e delle teorie scientifiche. Secondo questo indirizzo,
l’A. entra nella costituzione di un’ipotesi in quanto «le proposizioni di
un’ipotesi devono essere ana- loghe ad alcune leggi conosciute »: e in questo
senso l’A. non è solo un aiuto alla formulazione di una teoria ma ne è parte
integrante. « Considerare l'A. come un aiuto all’invenzione delle teorie è così
assurdo come considerare la melodia come un aiuto alla composizione di una
sonata. Se la sodisfazione delle leggi dell'armonia e i principi formali di
svi- luppo fossero tutto ciò che è richiesto per comporre musica, noi saremmo
tutti grandi compositori; ma è l’assenza del senso melodico che ci impedisce di
raggiungere eccellenza musicale col semplice mezzo di acquistare un manuale di
musica » (N. R. Camp- BELL, Physics: The Elements, 1920, pag. 130). L’A.
corrisponderebbe perciò, nella fisica a ciò che è il senso musicale nella
musica: essa garantirebbe l'ade- guazione di un'ipotesi scientifica alle
uniformità espresse o formulate nelle leggi. ANALYSIS SITUS. V. TopoLocia.
ANAMNESI (gr. daviumo; ingl. Remini- scence; franc. Réminiscence; ted.
Reminiszenz). Il mito dell’A. è esposto da Platone nel Merone come antitesi e
correttivo del « principio eristico » che non è possibile all'uomo indagare nè
ciò che sa nè ciò che non sa; giacchè sarebbe inutile indagare ciò che si sa e
impossibile indagare quando non si sa che cosa indagare. A questo discorso che
«può rendere pigri e riesce gradito ai fiacchi » Platone oppone il mito per cui
l’anima è immor- tale, ed è perciò nata e rinata molte volte, sì da aver visto
ogni cosa sia in questo mondo che in un mondo di là; sicchè essa può,
all’occasione, ricordare ciò che prima sapeva. «E poichè tutta la natura è
congenere e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una
sola cosa (che è poi quello che si chiama ‘imparare ’) trovi da sè tutto il
resto, se ha coraggio e non si stanca ANARCHISMO 4l nella ricerca, giacchè il
ricercare e l’apprendere non son altro che reminiscenza » (Men., 80 e-81 e). A.
è stata chiamata da Croce il processo della cono- scenza storica perchè il
soggetto di essa, lo Spirito assoluto, non ha altro da fare che ricordare o ri-
chiamare ciò che è in lui; e le fonti della storia (documenti ed avanzi) non
hanno per l’appunto che questa funzione di richiamo (Teoria e storia della
storiografia, 1917, pag. 12 sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938,
pag. 6). ANANCHISMO (ingl. Anancism). Termine adoperato da Peirce per indicare
il principio della necessità assoluta nell’evoluzione del mondo (Chance Love
and Logic, II, 5; Coll. Pap. 6. 302). ANAPODITTICO (gr. avanédertoc; lat. Zn-
dimostrativus; ingl. Anapodeictic; franc. Anapodic- tique; ted. Anapodiktisch).
Alla lettera: non dimo- strabile. Aristotele chiamò così le premesse prime del
sillogismo che egli diceva pure immediate (Et. Nic., VI, 12, 1143 b 12; An.
post., I, 2,72b 27, ecc.). Ma la teoria dei ragionamenti anapodit- tici fu
sviluppata dagli Stoici proprio in contrasto con la teoria sillogistica di
Aristotele. Mentre i sillogismi o ragionamenti apodittici traggono da premesse
evidenti una conclusione non evidente, i ragionamenti anapodittici hanno una
conclusione evidente e sono la base di tutti gli altri ragionamenti che possono
sempre essere ad essi ridotti (SESTO E., Ip. Pirr., II, 156; cfr. Cicer., Top.,
56-57). Gli Stoici enumeravano cinque tipi fondamentali di ra- gionamenti
anapodittici e ritenevano che ad essi potessero ridursi tutti gli altri
ragionamenti: onde Sesto Empirico dice che, tolti quelli di mezzo, tutta la
dialettica sarà rovesciata. Ecco come essi esem- plificavano tali tipi fondamentali:
1° Se è giorno c'è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce. 2° Se è giorno c’è luce.
Ma non c’è luce. Dunque non è giorno. 3° Se non è giorno è notte. Ma è giorno.
Dunque non è notte. 4° O è giorno o è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte.
5° O è giorno o è notte. Ma non è notte. Dunque è giorno (/p. Pirr., II,
157-568; Diog. L., VII, 80). Assumendo questi ragionamenti come fondamento
della dialettica cioè dell’arte stessa del ragionare, gli Stoici riducevano al
ragionamento A. ipotetico o disgiuntivo, che è sempre a due termini, ogni altra
specie di ragiona» mento, implicitamente negando che avesse valore autonomo il
ragionamento dimostrativo a tre ter- mini cioè il sillogismo aristotelico. MAMAMA
Come sinonimo di questo termine Leibniz usò il termine asillogistico per
indicare un tipo di ragio- namento non sillogistico. « Bisogna sapere, egli
disse, che ci sono conseguenze asillogistiche buone, che non si potrebbero
dimostrare a rigore con un sillogismo senza cambiare un po’ i termini; e questo
stesso cambiamento dei termini fa che la conse- guenza sia asillogistica ». Per
es.: « Gesù Cristo è Dio, dunque la madre di Gesù Cristo è la madre di Dio»;
oppure «Se Davide è il padre di Salo- mone, Salomone è il figlio di Davide »
(Nouv. Ess., IV, 17, 4). ANARCHISMO (ingl. Anarchism; franc. Anar- chisme; ted.
Anarchismus). La dottrina che l’indi- viduo è la sola realtà, che dev'essere
assolutamente libero e che ogni costrizione esercitata dividuo entra per
moltiplicare la sua forza e che per lui è solo un mezzo. Questa forma di
associazione può nascere solo dal dissolvimento della società attuale, che è
per l’uomo lo stato di natura, e può essere solo il risultato di un’insurre-
zione che riesce ad abolire ogni costituzione statale. Sul carattere
rivoluzionario dell’A., insistettero poi gli anarchici russi, il maggiore dei
quali fu Michele Bakunin (1814-96) autore di numerosi scritti fra i quali uno
intitolato Dio e /o Stato (1871) in cui afferma la necessità di distruggere
tutte le leggi, le istituzioni e le credenze esistenti. La tesi anar- chica
della contrapposizione netta e radicale tra tutti gli ordinamenti politici e
sociali esistenti, con- siderati come il male stesso, e il nuovo ordinamento
libertario da venire, considerato come il bene to- tale, è stata di nuovo
ripresentata da G. Landauer 42 ANFIBOLA (Die Revolution, 1923). (Su di lui cfr.
K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, 1929, IV, $ 1; trad. ital., pag. 194 sgg.).
ANFIBOLIA (gr. &upifolla; lat. Amphibolia; ingl. Amphiboly; franc.
Amphibolie; ted. Amphibolie). In Aristotele (Soph. E/., 4, 166 a) è uno dei
sofismi in dictione, e precisamente la fallacia (v.) che con- segue dal fatto
che una frase è resa ambigua dalla sua difettosa costruzione grammaticale. Più
gene- ricamente il termine A. è stato inteso per una pa- rola che significa due
o più cose (SESTO EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 256). In Kant il termine A. è usato
nell’espressione « A. dei concetti di riflessione » per indicare lo scambio che
nasce dalla confusione tra l’uso empirico-intellettuale e l’uso trascendentale
dei concetti di riflessione quali « unità » e « molte- plicità », « materia» e
«forma», e simili (Critica R. Pura, An. dei Principi, Appendice). G. P.
ANFIBOLOGIA. V. ANFIBOLIA. ANGELI (gr. &ryedow; lat. Angeli; ingl. An-
gels; franc. Anges; ted. Engel). Così furono chiamate dalla teologia cristiana
le «creature incorporee » che fanno da intermediarie tra Dio e le creature
corporee, ammesse dal neo-platonismo (v. Dio). La fonte dell’angelologia
medievale è lo scritto dello pseudo Dionigi l’Areopagita Sulla gerarchia
celeste (sec. v). La gerarchia celeste è costituita da nove ordini di A.
raggruppati in disposi- zioni ternarie. La prima disposizione è quella dei
Serafini, dei Cherubini e dei Troni; la seconda è quella delle Dominazioni, delle
Virtù e delle Po- destà; la terza è quella dei Principati, degli Arcan- geli e
degli Angeli. Questa dottrina fu accettata da S. Tommaso (S. 7A., I, q. 108, a.
2); e adottata da Dante nel Paradiso. ANGOSCIA (ingl. Dread; franc. Angoisse;
ted. Angst). Nel suo significato filosofico, cioè come atteggiamento dell’uomo
di fronte alla sua situa- zione nel mondo, il termine è stato introdotto da
Kierkegaard nel Concetto dell’A. (1844). La radice dell’A. è l’esistenza come
possibilità (v. ESISTENZA). A differenza del timore e di altri stati analoghi
che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l'A. non si riferisce a
nulla di preciso: essa è il puro sentimento della possibilità. L’uomo nel mondo
vive di possibilità giacchè la possibilità è la dimen- sione del futuro e
l’uomo vive continuamente pro- teso verso il futuro. Ma le possibilità che si
pro- spettano all’uomo non hanno alcuna garanzia di realizzazione. Solo per una
pietosa illusione esse gli si presentano come possibilità piacevoli, felici o
vittoriose: in realtà, come possibilità umane, esse non offrono garanzia alcuna
e celano sempre l’al- ternativa immanente dell’insuccesso, dello scacco e della
morte. « Nel possibile tutto è possibile », dice Kierkegaard; il che vuol dire
che una possibilità favorevole non ha maggiore sicurezza della possi- bilità
più disastrosa ed orribile. Pertanto l’uomo che si rende conto di questo,
riconosce la vanità di ogni accortezza e non ha di fronte a sè che due vie: o
il suicidio, o la fede, cioè il ricorso a « Colui al quale tutto è possibile ».
L’A. è, secondo Kierke- gaard, parte essenziale della spiritualità che è
propria dell’uomo, sicchè se l’uomo fosse angelo o bestia non conoscerebbe
l’A.: e infatti arriva a masche- rarla o a nasconderla l’uomo nel quale la spiritualità
è troppo debole. In quanto riflessione sulla propria condizione umana, la
spiritualità dell’uomo è con- nessa all’A. cioè al sentimento della minaccia
im- manente ad ogni possibilità umana come tale. — Nella filosofia
contemporanea, Heidegger ha imper- niato sull’angoscia la sua analisi
esistenziale (v. EMo- ZIONE). L’A. è la situazione affettiva fondamentale «che
può tener aperta la continua e radicale mi- naccia che viene dall’essere più
proprio e isolato dell’uomo »: cioè la minaccia della morte. Nell’A., l’uomo «
si sente in presenza del nulla, dell’impossi- bilità possibile della sua
esistenza ». In questo senso l’A. costituisce essenzialmente ciò che Heidegger
chiama «l’essere per la morte» cioè l'accettazione della morte come «la
possibilità assolutamente propria, incondizionata e insormontabile dell’uomo »
(Sein und Zeit, $ 53). Ma con ciò l’A. non è la paura della morte o dei
pericoli che possono pro- spettarla. Dice Heidegger: « La paura trova il suo
appiglio nell’ente di cui ci si prende cura dentro il mondo. L’A. invece
scaturisce dall’Esserci stesso. La paura giunge improvvisa dall’intramondano.
L’A. si leva dall’essere-nel-mondo in quanto get- tato essere-per-la-morte »
(/bid., $ 68 b). L'A. non è neppure il pensiero della morte o l'attesa © la
preparazione della morte. Vivere per la morte, angosciarsi, significa
comprendere l’impossibilità dell’esistenza in quanto tale. E comprendere tale
impossibilità significa comprendere che tutte le pos- sibilità dell’esistenza
in quanto consistono di anti- cipazioni o progetti, che pretendono trascendere
la realtà di fatto, non fanno che ricadere nella realtà di fatto. Perciò il
vero significato dell’A. è il de- stino, cioè la scelta della situazione di
fatto come un’eredità cui non si può sfuggire e il riconosci- mento
dell’impossibilità o nullità di ogni altra scelta che non sia l’accettazione
della situazione in cui si è già. In altri termini, l'A. come comprensione
esistenziale rende possibile all’uomo far di necessità virtù: accettare con un
atto di scelta quella situazione di fatto, che è il suo destino e che senza
l’A. cerche- rebbe vanamente di trascendere. La coincidenza di ne- cessità e
libertà sembra così il significato dell’A. hei- deggeriana (/bid., $ 74). In
questo senso Heidegger dice che l’A. « libera l’uomo dalle possibilità nulle e
lo fa libero per quelle autentiche » (/bid., $ 68 b). Tuttavia non è solo dalla
filosofia esistenziali- stica che l’A. viene considerata come la rivelazione
emotiva della situazione umana nel mondo. Una ricca letteratura psicologica ha
chiarito il carattere omni-pervadente dell’A. che rimane distinta dalla paura,
dal timore e da altri stati emotivi che hanno carattche si verifichi una
situazione di impotenza; oppure la si- tuazione presente mi ricorda un evento
traumatico precedentemente vissuto. Così io anticipo questo trauma, mi comporto
come se esso fosse già qui, sin tanto che c’è ancora tempo di respingerlo. L’A.
è dunque da un lato aspettativa del trauma, dall’altro una ripetizione
attenuata di esso » (Hem- mung, Symptom und Angst, 1926, cap. XI, B; trad.
ital., pag. 106). Dall'altro lato lo studio delle persone nelle quali l'A. si
manifesta nelle forme più imponenti (per es., in quelle colpite da lesioni ce-
rebrali) ha portato qualche scienziato (per es., GOLDSTEIN, Der Aufbau des
Organismus, 1934) a definire l’A. come «l'impossibilità di mettersi in rapporto
con il mondo?» e di « realizzare un còm- pito corrispondente all'essenza
dell’organismo », considerandola così come il caso limite di quelle «reazioni
di catastrofe » che accompagnano il di- battito dell’organismo con il mondo.
ANIMA (gr. vvyh; lat. Anima; ingl. Soul; franc. Ame; ted. Seele). In generale,
il principio della vita, della sensibilità e delle attività spirituali
(comunque intese e classificate), in quanto costi- tuente un’entità a sè o
sostanza. Quest’ultima no- tazione è importante perchè l’uso della nozione di
A. è condizionato dal riconoscimento che un certo insieme di operazioni o di
eventi, quelli appunto detti « psichici » 0 « spirituali », costituiscano le
ma- nifestazioni di un principio autonomo, irreducibile, per la sua
originalità, ad altre realtà, sebbene in rapporto con esse. Che poi l’A. sia
incorporea 0 abbia la stessa costituzione delle cose corporee, è questione meno
importante: giacchè la soluzione materialistica di essa è spesso ugualmente
fondata, come la sua opposta, sul riconoscimento dell’Acome sostanza. In questo
significato fondamentale, l’A. viene il più delle volte considerata come « so-
stanza »: intendendosi con questo termine per l’ap- punto una realtà a sè, cioè
che esiste indipendente- mente dalle altre (v. SostAnZA). Il riconoscimento
della realtà-A. sembra provvedere un solido fon- damento ai valori connessi con
le attività spirituali umane, i quali, senza di essa, sembrerebbero so- spesi
nel nulla; sicchè la sostanzialità dell’A. viene considerata, dalla maggior
parte delle teorie filo- sofiche tradizionali, come una garanzia della sta-
bilità e della permanenza di quei valori: garanzia che viene talora rafforzata
dalla credenza che l’A. è, nel mondo, la realtà più alta o ultima o, qualche
volta, lo stesso principio ordinatore e governatore del mondo. Date queste
caratteristiche della nozione, la storia filosofica di essa si presenta
relativamente monotona perchè è in prevalenza la reiterazione della realtà
dell’A. nei termini di quei concetti che ogni filosofo assume per definire la
realtà stessa. Sicchè, per es., l’A. è aria per Anassimene (Fr. 2, Diels) e per
Diogene d’Apollonia (Fr. S, Diels) i quali ritengono che il principio delle
cose è l’aria; è armonia per i Pitagorici (Arisr., Pol., VIII, 5, 1340 b 19)
che nell’armonia esprimibile in numeri vedono la struttura stessa del cosmo; è
fuoco per Eraclito (Fr. 36, Diels) che vede nel fuoco il prin- cipio universale;
è, per Democrito, formata di atomi rotondi, che possono più agevolmente pene-
trare nel corpo e muoverlo (Arisr., De an., I, 2, 404, 1); e così via.
Probabilmente Platone non fece che esprimere un pensiero implicito in queste
de- terminazioni quando affermò che l’A. si muove da sè e definì I’A. appunto
sulla base di questa caratteristica. «Ogni corpo a cui il muoversi è impresso
da fuori è inanimato; ogni corpo che si muove di per sè dal di dentro è
animato; e tale è appunto la natura dell’A.» (Fedro, 245 d). L'A. è quindi la
causa della vita (Crar., 399 d) e per- tanto è immortale giacchè la vita
costituisce la sua stessa essenza (Fed., 105d sgg.). Con queste determinazioni
Platone distingueva nettamente la realtà dell’A., semplice, incorporea, che si
muove da sè, che vive e dà vita, dalla realtà corporea che ha i caratteri
opposti. E queste determinazioni do- vevano servire di base a tutte le
ulteriori tratta- zioni filosofiche dell’anima. Tra esse, quella di Aristotele
è la più importante perchè le determinazioni che Aristotele attribuisce
all’essere psichico, nei termini del suo concetto del- l’essere, dovevano
lungamente rimanere il modello di buona parte delle dottrine dell’anima.
Secondo Aristotele, l’A. è la sostanza del corpo. Essa è definita come «l’atto
finale (enrelechia) primo di un corpo che ha la vita in potenza». L'A. sta al
corpo come l’atto della visione sta all’orpo (/bid., II, 2, 413 b 26). Come
atto o attività l’A. è forma e come forma è sostanza, in una delle tre
determina- zioni della sostanza che può essere o la forma o la materia o il
composto di forma e materia. La materia infatti è potenza, la forma è atto e
ogni essere animato è composto di queste due cose; ma mentre il corpo non è
l’atto dell’A., l’A. è l’attività di un corpo determinato cioè la realiz-
zazione della potenza che è propria di questo corpo: onde si può dire che essa
non esiste nè senza il corpo nè come corpo (/bid., 414a 11). Queste
determinazioni aristoteliche hanno costi- tuito, per lunghi secoli, l'intero progetto
della « psi- cologia dell’A.». A seconda dei vari interessi (me- tafisico,
morale, religioso) che hanno presieduto agli sviluppi di tale psicologia, si è
insistito, nella storia di essa, sull’una o sull’altra delle determina» zioni
aristoteliche. Di queste, le più importanti sono: che l’A. sia sostanza cioè
realtà nel senso forte del termine; e che sia principio indipendente di
operazioni, cioè causa. Queste determinazioni hanno lo scopo di garantire un
solido sostegno alle attività spirituali quindi ai valori che sono prodotti da
tale attività. La seconda serie di de- terminazioni sono quelle della
semplicità e indivi- sibilità; che hanno lo scopo di garantire l’impassi-
bilità dell’A. nei confronti dei mutamenti corporei e, per il tramite della
indecomponibilità, la sua im- mortalità. La terza determinazione importante è
il suo rapporto col corpo, definito da Aristotele come rapporto della forma con
la materia, dell’atto con la potenza. La prima determinazione non viene negata
neppure dai materialisti. Epicuro che ri- tiene I’A. composta di particelle
sottili, diffuse in tutto il corpo come un soffio caldo, ritiene tuttavia che
l’A. abbia la capacità causativa della sensazione, che viene preparata dal
corpo e di cui il corpo par- tecipa, ma che è in una certa misura indipendente
dal corpo stesso: giacchè quando l’A. si distacca da esso, il corpo non ha più
sensibilità (Ep. a Erod., 63 sgg.). In questo modo l'A. non è semplice nè
immortale (essa si dissolve nelle sue particelle con la morte del corpo); ma è
tuttavia una realtà a sè, dotata di una propria capacità causativa,
indispensabile alla vita stessa del corpo. In modo analogo gli Stoici ritengono
che l’A. è un soffio congenito in noi; che, come tale, è corpo perchè se non
fosse corpo non potrebbe nè unirsi al corpo nè separarsi da esso; ma che può
tuttavia essere immortale, com’è certamente immortale l’A. del mondo, di cui
sono parti quelle degli esseri animati, e le A. dei saggi (Dioc. L., VII,
156-57). Qui la corporeità dell'A. non toglie ad essa nè la sempli- cità nè
l’immortalità; come non la toglie nella con- cezione di Tertulliano che
anch’egli la considera come un soffio o flatus di Dio e perciò generata,
corporea e immortale (De an., 8 sgg.). L’accettazione quasi universale della
dottrina ari- stotelica dell'A. ha una eccezione in Plotino. Plo- tino critica
egualmente sia la dottrina che l’A. è corpo sia e in relazione, cioè le cose e
gli altri uomini (/bid., V, 3, 1-2). I Neoplatonici e i Padri della chiesa
orientale ripetono le determinazioni neoplatoniche: l’imma- terialità e l’unità
dell'A. sono i caratteri fondamen- tali riconosciuti ad essa da Porfirio
(STOB., Ecl., I, 818) e da Proclo (/nsf. theol., 15); nonchè da Gregorio di
Nissa (De an. et resur., pag. 98 sgg.). Ma è soprattutto S. Agostino che
raccoglie l’ere- dità del neo-platonismo e la trasmette al mondo cristiano, col
riconoscimento dell’interiorità spiri- tuale come via d’accesso privilegiata
alla realtà propria dell’anima. Questa via d’accesso è l’esperienza interiore,
la riflessione sulla propria interiorità, la « confes- sione » come
riconoscimento della propria realtà intima; in una parola ciò che nel
linguaggio mo- derno si chiama coscienza (v.). Nei Soliloqui (I, 2) S. Agostino
dichiarava di non voler conoscere altro che « Dio e l’A. ». Ma Dio e l’A. non
richiedono, per lui, due indagini parallele o comunque diverse, giacchè Dio è
nell’A. e si rivela nella più riposta interiorità dell'A. stessa. « Non uscire
da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità; e se
troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso » (De vera rel., $
39). Quest’atteggia- mento che domina tutta la ricerca agostiniana do- veva
dare i suoi frutti più tardi, a cominciare dalla tarda Scolastica. — Ma la
Scolastica è nel suo complesso dominata dalla dottrina aristotelica del- l’A.,
che viene riproposta quasi negli stessi termini a partire da Scoto Eriugena (De
divis. nat., II, 23) sino a Duns Scoto (Op. Ox., IV, 43, q. 2), il quale ultimo
si limita ad aggiungere che, poichè l’A. è la forma del corpo, come diceva
Aristotele, essa non può sussistere quando il corpo è distrutto e che pertanto
l'immortalità è pura materia di fede. Le stesse notazioni di S. Tommaso (S.
7A., I, q. 75; C. Genr., II, 79 sgg.) non aggiungono nulla alla dot- trina
aristotelica dell’A., salvo la maggiore insi- stenza sull’indipendenza dell’A.
dal corpo, al fine di garantirne l’immortalità. La sola innovazione che la
Scolastica agostiniana presenta di fronte a questa teoria, e in contrasto con
l’indirizzo aristo- telico-tomistico della stessa Scolastica, concerne il
rapporto tra A. e corpo: l'ammissione di una forma corporeitatis che è propria
del corpo come tale, anteriormente alla sua unione con l’A. e che lo predispone
a tale unione. La forma corporeitatis è la realtà che il corpo umano possiede,
come corpo organico, indipendentemente dalla sua unione con I’A. (Duns Scoro,
Op. Ox., IV, 11, q. 3; OCKHAM, Quodl., II, q. 10). Quest'ammissione è legata al
riconoscimento che la materia in generale non è pura potenza ma possiede, già
come materia, una certa realtà attuale che è appunto la forma corpo- reitatis
(v. AGOSTINISMO). Ma la Scolastica del *300 ci offre, con Ockham,
un’innovazione assai più radicale; il dubbio avan- zato sulla realtà dell’A.
intellettiva. Dice infatti Ockham (Quodi., I, q. 10) che, se s’intende per A.
intellettiva « una forma immateriale e incorruttibile che è tutta in tutto il
corpo e tutta in ciascuna parte, non si può conoscere con evidenza, nè con la
ragione nè con l’esperienza, che una tale A. sia forma del corpo e che
l’intendere sia proprio di una tale sostanza ». Difatti le ragioni che si
possono addurre per la dimostrazione di una tale forma, sono dubbie; e, quanto
all’esperienza, tutto ciò che noi sperimentiamo sono l’intellezione, la vo-
lizione, ecc.: operazioni che possono ben essere proprie di una « forma estesa,
generabile e corrut- tibile », cioè del corpo stesso. Ockham perciò re- lega
tra le materie di fede non solo l’immortalità dell’A. (come aveva già fatto
Duns Scoto) ma la realtà stessa dell'A. intellettiva come supposto sog- getto
delle operazioni spirituali di cui ates il punto di partenza della filosofia
moderna. La nozione dell’A. come sostanza sopravvive alla crisi del
Rinascimento. Nè il materialismo di Telesio e di Hobbes costituiscono vere e
proprie negazioni della sostanzialità dell’anima. Telesio am- mette una
sostanza intellettiva, direttamente creata e infusa da Dio nell’uomo, solo per
spiegare la vita religiosa dell’uomo, la sua aspirazione al tra- scendente (De
rer. nat., V, 2); ma lo stesso « spirito animale », di cui egli si avvale per
spiegare la sen- sibilità, l’intelligenza e anche la vita morale del- l’uomo,
pur essendo di natura corporea e prodotto e tosti ‘PMR de4dal seme, è da lui
considerato come realtà a sè, come « sostanza » (/bid., V, 10). Quanto a
Hobbes, egli dichiara illegittimo il pivela « un essere l’esistenza del quale
ci è più co- nosciuta di quella degli altri in modo che può servire come
principio per conoscerli» (Lett. d Clercelier, in CEuvres, IV, 443). Ora il
cogito com- prende «tutto ciò che è in me e di cui sono immediatamente
cosciente » (Z/ Rép., def. I): cioè il dubitare, il capire, il concepire,
l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’imaginare, il sen- tire,
ecc. Sicchè la coscienza è una via d’accesso privilegiata perchè sicura al
punto da essere asso- lutamente indubitabile, ad una realtà, la sostanza A.,
che è a sua volta privilegiata perchè può servire come principio per conoscere
le altre realtà. E di- fatti è la stessa coscienza, in quanto testimonia il
carattere passivo della facoltà sensibile, che fa ’A. nei ter- mini del loro
concetto di realtà. Per Spinoza, l’A. è «l’idea di un corpo singolo esistente
in atto + (Er., II, 11): è cioè la coscienza correlativa a un corpo organico.
Non si può dire che l’A. sia sostanza perchè la sostanza è una sola ed è Dio.
Ma, come idea, l’A. è parte dell’intelletto infinito di Dio, cioè è una
manifestazione necessaria della sostanza divina (/bid., II, 9) quindi è eterna
(/bid., V, 23). Per Leibniz l'A. è una sostanza spirituale, una monade che,
come uno specchio, rappresenta in sè tutto il mondo ma è in se stessa semplice,
cioè senza parti e indecomponibile (Monad., $$ 1, 56). A differenza delle altre
monadi, che sono gli atomi spirituali che compongono tutte le cose dell’uni-
verso (comprese quelle corporee), l'A. è sa nozione di A. come realtà o
sostanza, Hume contribuisce in pari misura a stabilire la supremazia della
coscienza i cui dati sono riconosciuti come i soli elementi certi della
conoscenza umana. La rivalità tra le due nozioni di A. e di coscienza raggiunge
il suo punto culminante nella critica di Kant alla psicologia razionale cioè
alla nozione di A. nei suoi attributi tradizionali di sostanzialità,
semplicità, unità e possibilità di rapporti col corpo {Crit. R. Pura, Dial.
trasc., Paralogismi della ragion pura). La critica kantiana consiste nel dire
che l’in- tera psicologia razionale si fonda su di un « para- logisma » cioè su
un errore formale di ragionamento o su un «equivoco »: nel senso che assume
come oggetto di conoscenza, a cui sia applicabile la scienza e, spesso, ridotta
alla stessa coscienza. Quest’inversione del rapporto tra A. e coscienza per cui
la coscienza, da via d’accesso alla realtà-A., si trasforma in questa stessa
realtà, è egualmente evidente nelle due grandi correnti della filosofia
ottocentesca, l’Idealismo e il Positi- vismo. Hegel, per es., considera l’A.
come il primo grado dello sviluppo dello Spirito, che è la co- scienza nel suo
grado più alto, cioè Auto-coscienza; e la configura come « Spirito soggettivo
», cioè come lo spirito nell’aspetto della sua individualità. Ed ecco come egli
descrive il processo dello Spirito soggettivo: « Nell'A. si desta la coscienza;
la co- scienza si pone come ragione che si è immediata- mente destata alla
consapevolezza di sè; e la ragione mediante la sua attività si libera col farsi
oggetti- vità, coscienza del suo oggetto» (Enc., $ 387). Il primo di questi
momenti, cioè il destarsi della co- scienza, è l’anima. Ad essa Hegel riconosce
le caratteristiche tradizionali (sostanzialità, immateria- lità), ma in un
senso in cui queste caratteristiche possono essere riferite alla coscienza. «
L’A., egli dice, non è immateriale soltanto per sè ma è l’im- materialità universale
della natura, la sua semplice vita ideale. Essa è la sostanza e quindi il
fondamento assoluto di ogni particolarizzamento e individualiz- zazione dello
spirito, di modo che lo spirito ha nell’A. ogni materia della sua
determinazione e l’A. resta l’idealità identica e prevalente di questa. Ma in
tale determinazione ancora astrapreparare e di fondare una « scienza » dei
fatti psichici che avesse lo stesso rigore delle scienze della natura. In
questa dire- zione già il termine « A. » appare improprio e viene spesso
sostituito dal termine spirito (v.); e in questo senso Stuart Mill, dice, per
es., che lo spirito (mind) è la «serie delle nostre sensazioni» con in più «
un'infinita possibilità di sentire» (Examination of Hamilton’s Philosophy, pag.
242 sgg.) o, più sem- plicemente, « ciò che sente » (Logic, VI, IV, 1). Oggetto
della psicologia diventano i « fenomeni psi- chici » o « gli stati di coscienza
», che vengono spie- gati mediante il vario associarsi dei loro elementi più
semplici (v. ASssociaZIONISMO). Tale « psicologia senza A.» presiedette agli
inizi della psicologia scientifica e fu l’insegna polemica per l’elimina-
zione, dal campo di essa, della nozione tradizionale dell'A. come sostanza. Il
termine tuttavia fu ed è ancora usato per in- dicare l’insieme delle esperienze
psichiche in quanto sono raccolte in una qualche unità. Così l’intese Wundt
(Logik, II, pag. 245 sgg.), che per unità intese l’unità della coscienza. E
così l’intende anche Dewey: «In conclusione si può affermare che la parola A.,
quando è liberata da tutte le tracce del tradizionale animismo materialistico,
denota la qua- lità delle attività psico-fisiche, in quanto sono or- ganizzate
in unità. Alcuni corpi hanno A. in modo eminente come altri hanno eminentemente
fra- granza, colore e solidità... Dire enfaticamente di una persona particolare
che essa ha un’A. o una grande A., non significa pronunziare una frase fatta
applicabile ugualmente a tutti gli esseri umani. Esprime invece la convinzione
che l’uomo o la donna in questione possiede in grado notevole le qualità di una
sensibile, ricca e coordinata cipazione a tutte le situazioni della vita. Così
le opere d’arte, la musica, la pittura, l’architettura, hanno A., mentre altre
sono morte, meccaniche » (Experience and Nature, pag. 293 sgg.). Ma l’A. in
questo senso non è più « un abitante del corpo »; designa un insieme di
capacità o di possibilità di cui ogni singolo uomo o cosa partecipa più o meno.
L'ultima critica alla nozione di A. è quella di Ryle (Concept of Mind, 1949)
che ha battezzato la concezione dell'A. che fa risalire a Cartesio come quella
dello «spettro nella macchina ». In realtà la nozione è molto più antica, come
si è visto, e deve la sua forza, più che alle sue capacità esplicative, alle
garanzie che essa fornisce o sembra fornire a determinati valori. Ryle ritiene
che la nozione sia frutto di un errore categoriale per il quale i fatti della
vita mentale sono considerati appartenenti a un tipo o categoria (o classe di
tipi o categorie) logica (o semantica) diversa da quella cui essi appartengono.
Tale errore è simile a quello di chi, dopo aver visitato aule, laboratori,
biblio- teche, musei, uffici, ecc., che costituiscono un’Uni- versità, si
domandi che cosa sia e dove risieda l’Università stessa. L'Università non è
un’unità che si aggiunga agli organismi o ai membri che la co- stituiscono e
che possegga quindi una realtà a parte da tali organismi o membri. Così pure
l’A. non ha realtà a parte dalle manifestazioni singole, dai comportamenti
particolari superiori che la parola serve a designare nel loro complesso. In
conclusione, anche assai prima di quest’ul- tima condanna, la nozione
tradizionale di A. come una specie di realtà a sè, principio e fondamento degli
eventi detti mentali, era stata abbandonata e ridotta alla nozione di un’unità
funzionale o di una qualche specie di coordinazione e di sintesi tra quegli
eventi. Ma in questa forma la nozione rinvia a quella di coscienza (v.). ANIMA
BELLA (gr. xx} yuyn; franc. Belle dime; ted. Schòne Seele). L’espressione è di
origine mistica: Plotino già parlava dell’A. bella che è l’A. che quella in cui
il sentimento morale ha finito per assicurarsi di tutte le affezioni dell’uomo,
al punto da poter abbandonare senza timore alla sensibilità la dire- zione
della volontà, senza mai correre il rischio di trovarsi in disaccordo con le
decisioni di questa... Un”A. bella non ha altro merito che quello di esi-
stere. Con facilità, come se l’istinto agisse per lei, esegue i doveri più
penosi per l’umanità e il sacri- ficio più eroico, che essa strappa all’istinto
naturale, appare come libero effetto di quel medesimo istinto » (Werke, ed.
Karpeles, XI, 202. Cfr. PAREYSON, L’e- stetica dell’Idealismo tedesco, pag. 239
sgg.). Kant non rifiutò recisamente questo concetto di Schiller e pur
attenuandolo, non negò che la virtù potesse e dovesse accordarsi le Esperienze
di Wilhelm Meister e la faceva parlare così: «Io non mi ricordo di nessun
comando; niente mi ap- ANOMALIA 49 pare in figura di legge; è un impulso che mi
conduce e mi guida sempre giusto; io seguo liberamente le mie disposizioni e so
così poco di limitazione come di pentimento ». L’A. bella è una delle figure
tipiche del Romanticismo: l’incarmazione della mo- ralità, non come regola o
dovere, ma come effusione del cuore o dell’istinto. Scheler, pur rendendosi
conto del decadentismo di questa nozione roman- tica, ritiene ancora tuttavia
che « l'antica questione circa il rapporto tra l’A. bella che vuole il dover
essere ideale e lo realizza non già per dovere ma per inclinazione, e il
comportamento ‘ per il dovere * a cui Kant riduce ogni valore morale, va
risolta nel senso che l’A. bella è non solo di pari valore, ma di valore
superiore » (Formalismus, pag. 226). Ma nell’uso contemporaneo l’espressione ha
as- sunto un significato ironico o derisorio, designando l'atteggiamento di chi
vive contento della propria presunta perfezione morale, ignorando o miscono-
scendo i problemi effettivi, le difficoltà e le lotte che rendono difficile
l'esercizio di un'attività mo- rale efficace. Questo capovolgimento di
apprezza- mento è dovuto probabilmente a Nietzsche che nella Genealogia della
morale (I, $ 10) descrisse i puri di cuore, le A. belle che si drappeggiano
poe- ticamente della loro virtù, come « uomini del ri- sentimento » che fremono
di un sotterraneo spirito di vendetta contro coloro che incarnano la ricchezza
e la potenza della vita (v. RISENTIMENTO). ANIMA DEL MONDO (gr. persàn yuxh;
lat. Anima Mundi; ingl. World-Soul; franc. Ame du monde; ted. Weltseele).
Nozione che ricorre fre- quentemente nella cosmologia tradizionale, la quale
concepisce spesso il mondo come « un grande ani- male », dotato perciò di un’A.
propria. Così Platone concepì il mondo nel Timeo e imaginò che l’A. di esso
fosse costruita e distribuita geometricamente nel mondo dal Demiurgo (Tim., 34
b). — La no- zione fu ripresa dagli Stoici che identificarono Dio col mondo e
lo concepirono come « un animale immortale, razionale, perfetto, intelligente e
beato » (Diog. L., VII, 137). Per Plotino l’A. del mondo è la seconda
emanazione dell’Uno o Dio e procede dall’Intelletto, che è la prima emanazione,
come questo procede dall’Uno. L'A. universale guarda da un lato all’intelletto,
dall’altro alle cose infe- riori o materiali che essa ordina e governa (Enn.,
V, 1, 2). Nella Scolastica I’A. del mondo venne talora identificata con lo
Spirito Santo: così fece Abelardo (Theol. Christ., I, 17); e così fecero alcuni
rappresentanti della Scuola di Chartres (Bernardo Silvestre, Teodorico di
Chartres). Nel Rinascimento questa dottrina venne ripresa da Giordano Bruno che
considerò Dio come l’intelletto universale « che è la prima e principal facoltà
dell'A. del mondo, la quale è forma universale di quello {del mondo 4 —
ABBAGNANO, Disionario di filosofia, stesso] » (De /a causa, III) e fu
comunemente ac- cettata da tutti coloro, e furono moltissimi, che ammisero la
validità della magia (Cornelio Ag- grippa, Paracelso, Fracastoro, Cardano,
Campa- nella, ecc.) giacchè fu ritenuta il fondamento di quella « simpatia
universale » fra le cose del mondo, che il mago utilizza per i suoi incantesimi
e le sue operazioni miracolose. Del concetto di A. del mondo si servì
Schellling (Sul/"A. del mondo, 1798) per dimostrare la continuità del
mondo or- ganico e del mondo inorganico in un fuffo che è esso stesso un
organismo vivente; mentre negava invece l’« A. mondiale » Hegel, giacchè
riteneva che l’A. «ha la sua verità effettiva solo come indivi- dualità,
soggettività » (Enc., $ 391). Col prevalere della scienza e della concezione
meccanica del mondo, la nozione di A. del mondo diveniva ov- viamente
inservibile. ANIMA, PARTI DELL’. V. FACOLTÀ. ANIMISMO (ingl. Animism; franc.
Animisme; ted. Animismus). Termine usato da Tylor (Primitive Culture, 1, 1934,
p. 428-29) per indicare la credenza, diffusa presso i popoli primitivi, che le
cose naturali sono tutte animate; e perciò la tendenza a spiegare gli
avvenimenti con l’azione di forze o princìpi animati. Nell’A. così inteso il
Tylor vide la forma primitiva della metafisica e della religione. Questa dottrina
partiva dal presupposto che la prima e fondamentale preoccupazione dell’uomo
primitivo sia quella di spiegare in qualche modo i fatti che lo circondano.
L'osservazione sociologica ha però mostrato che questo non è il caso e che il
primitivo è soprattutto interessato alla caccia, alla pesca, agli eventi e alle
festività della tribù: e che con questi interessi è legato non già l'A. ma
piuttosto la magia (v.). La dottrina che l’atteggiamento magico è quello da cui
è nata la religione e su cui s'impernia la cultura primitiva è stata chiamata
preanimismo. (Cfr. su di esso
MARETT, The Threshold of Religion, 1909; G. FRAZER, Tie Golden Bough, 1911-14;
Ma- LINOWSKI, Magic Science and Religion, 1925). ANNO GRANDE. V. Cicto. ANOETICO (ingl. Anoeric;
franc. Anoétique; ted. Anoetik). Aggettivo che viene talvolta usato a designare
le funzioni diverse dall’intelletto, per es., la sensibilità, le emozioni, ecc.
ANOMALIA (ingl. Anomaly; franc. Anomalie; ted. Anomalie). In generale ogni
fatto o elemento che si scosta dal modello uniforme, costantemente riscontrato,
di un certo genere di fatti o elementi: per es., un corpo vivente presenta
un’A. se la strut- tura di qualche suo organo si allontana da quella
riscontrata in corpi dello stesso genere. Un fatto anomalo è un fatto che
contravviene alla previsione probabile, fondata su uniformità ricorrenti (vedi
ANOMIA (ingl. Anomy; franc. Anomie; te- desco Anomie). Termine moderno usato
soprat- tutto da sociologi (per es., Durkheim) per indicare l'assenza o la
deficienza di organizzazione sociale e quindi di regole che assicurino
l’uniformità degli accadimenti sociali. ANONIMIA (ted. Man). Secondo Heidegger,
è il modo d’essere livellato ‘dell’esistenza quotidiana, nella sua « medietà »
pubblica, cioè nelle forme che finisce per assumere nella vita d’ogni giorno.
In tale modo d'essere, « ognuno è gli altri e nessuno è se stesso. Il Si in cui
trova risposta il problema circa il Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a
cui ogni Esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-insieme »
(Sein und Zeit, $ 27) (v. MEDIETÀ). ANORMALITÀ (ingl. Abnormality; francese
Anormalité; ted. Unregelmdssigkeit). Ciò che è con- trario a una norma e perciò
si sottrae, in qualche misura, alla funzione o al fine che la norma tènde a
garantire o a raggiungere. Il termine ha un signi- ficato diverso da anomalia
(v.) giacchè questa non sempre costituisce un’anormalità. L’anomalia è una
variante imprevista, un caso che si allontana dal- l’uniformità riconosciuta:
essa può essere e può non essere un’anormalità. Per es., un organo ano- malo è
anormale solo nel caso in cui non è in grado di adempiere alla funzione che gli
sarebbe propria. ANTECEDENTE (ingl. Antecedent; franc. An- técédent; ted.
Antezedens). In Logica, il primo ter- mine di una conseguenza (v.). o. P.
ANTEPREDICAMENTI (lat. Antepraedica- menta; ingl. Antepredicament; franc.
Anteprédica- ment; ted. Antepridicament). Nel Medioevo con il nome di A. si
designava spesso l’/sagoge alle Cate- gorie di Porfirio. Inoltre la medesima
parola desi- gnava anche, naturalmente, le quinque voces (o cate- gorie della
Logica) trattate appunto nell’/sagoge: genere (v.), specie (v.), differenza
(v.), proprio (v.), accidente (v.). Husserl ha chiamato evidenza ante-
predicativa quella con cui gli oggetti si danno, con le varie modalità del loro
essere, nel mondo della vita (v.): evidenza che è a fondamento del giu- dizio
predicativo o apofantico (Erfahrung i agi 1939, intr.). ANTICHI E MODERNI
(ingl. pe pe Moderns; franc. Anciens et Modernes). La disputa sulia superiorità
degli A. o dei moderni nacque in Italia con i Pensieri diversi (1620) di
Alessandro Tas- soni, si svolse soprattutto in Francia e in Inghilterra e vertè
sostanzialmente intorno al concetto della storia come progresso. La nozione di
progresso anzi trova appunto la sua origine da questa disputa e specialmente
nel Dialogo dei morti (1683) di Fon- tenelle. Il concetto che viene elaborato
in quelle discussioni era stato già espresso da Giordano Bruno con
l’affermazione che « noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che i nostri
predecessori » perchè attraverso il tempo il giudizio si matura (Cena delle
ceneri, in « Op. It. », I, 31-32); concetto che Bacone aveva a sua volta
espresso con quello di veritas filia temporis tolto da Aulo Gellio (Noct. Att.,
XII, 11): « L’antichità, diceva Bacone, fu an- tica e maggiore rispetto a noi,
ma per rispetto al mondo nuova e minore; ed appunto come da un uomo anziano
possiamo aspettarci molta maggior conoscenza delle cose umane e maggior
maturità di giudizio che da un giovane — per via dell’espe- rienza e del gran
numero di cose da lui vedute, udite e pensate — così pure dall'età nostra (se
avesse coscienza delle sue forze e volesse darsi a sperimentare e capire)
sarebbe giusto aspettarsi più gran cose che dai tempi A., essendo questa per il
mondo la maggiore età, aiutata e arricchita da in- finiti esperimenti ed
osservazioni + (Nov. Oro., I, 84). Questo concetto ripetuto da Fontenelle
costituì il primo nòcciolo della nozione di progresso (v.). — (Sulla disputa degli
A. e dei moderni cfr. RIGAULT, Histoire de la querelle des Anciens et des
Modernes, 1856; J. B. Bury, 7he /dea of Progress, 1932,ANTICIPAZIONE (gr.
rp6anpis; lat. Antici- patio; ingl. Anticipation; franc. Anticipation; te-
desco Antizipation). Con questo termine i logici stoici ed epicurei designavano
i concetti generali (di genere e specie) in quanto mediante essi i dati della
esperienza erano « anticipati » dalla mente (Dioc. L., VII, 1, 54). Nella
filosofia moderna, sulle tconclude in una contraddizione; nella Logica stoica
il ragionamento che conclude in un dilemma, come «è giorno op- pure non è
giorno» (invece in Aristotele «se è giorno, allora non è giorno +). G. P.
ANTILOGIA (gr. avrmoyla; ingl. Antilogy; franc. Antilogie; ted. Antilogie). Contraddizione
(v.). Talora il termine equivale a disputa, o ad arte della disputa, perchè
questa consiste nel contrap- porre un argomento a un altro argomento. Anti-
ANTINOMIE s1 logici fu il titolo di un’opera di Protagora (Dioc. L., II, 37).
ANTILOGISMO (ingl. Antilogism; franc. An- tilogisme; ted. Antilogismus).
Termine coniato con parole greche (&vri, «contro » e X6yoc, « ragione +),
introdotto per indicare atteggiamenti filosofici di ostilità alla ragione
discorsiva. G.P. ANTIMETAFISICO (ingl. Antimetaphysic; franc. Antimétaphysique;
ted. Antimetaphysik). Ter- mine usato dai moderni ad indicare un atteggiamento
o un indirizzo di pensiero contrario alle pretese della metafisica classica e
cioè che si rifiuta di am- mettere la validità di una ricerca che proceda al di
là dei confini dell’esperienza o che comunque metta capo ad affermazioni non
verificabili in ter- mini di esperienza (v. METAFISICA). Più specifica- mente
la critica antimetafisica si dirige (seguendo l’esempio di Hume) contro i due
concetti fonda- mentali di sostanza e di causa o contro l’interpre- tazione che
renda possibile la loro applicazione ad oggetti che trascendano il limite
dell’esperienza. ANTINOMIE (ingl. Antinomies; franc. Anti- nomies; ted.
Antinomien). Con questo termine o con quello di paradossi sono chiamate le
contrad- dizioni cui mette capo l’uso della nozione assoluta di tutti nella
matematica e nella logica. Le A. in questo senso non erano ignote all’antichità
perchè fecero parte di quei ragionamenti insolubili o con- vertibili di cui
Megarici e Stoici si compiacevano e che furono talora anche chiamati dilemmi
(vedi DILEMMA). Tali ragionamenti vengono nella tarda scolastica trattati nelle
raccolte di /nsolubilia o di Obligatoria; e il più famoso di essi è quello del
mentitore che già Cicerone ricordava: « Se tu dici che mentisci, o dici il vero
e allora menti o dici il falso e allora dici la verità » (Acad., IV, 29, 96).
Questo paradosso veniva nel sec. xIv discusso da Ockham (Summa Log., III, II,
38). Nella logica contemporanea, la prima contraddizione del genere fu messa in
luce da Burali Forti nel 1897 e riguar- dava la serie dei numeri ordinali: se
la serie di tutti i numeri ordinali ha un numero ordinale, che sia, per es., w,
anche è sarà un numero ordi- nale, sicchè la serie di tutti i numeri ordinali
avrà il numero w + 1, più grande di w e è non sarà il numero ordinale di tutti
gli ordinali (« Una. que- stione sui numeri transfiniti », in Rend. del Circolo
Matematico di Palermo, 1897). Ma il più famoso paradosso, che richiamò l’attenzione
su tutti gli altri, fu quello di Russell, che concerne la classe di tutte le
classi che non sono membri di se stesse. Ci sono classi che non sono membri di
se stesse, come, ad es., la classe degli uomini: la quale, non essendo un uomo,
non è membro di se stessa. Ci sono invece classi che sono membri di se stesse,
come la «classe dei concetti », che è essa stessa un concetto. Ora la classe di
tutte le classi che non sono membri di se stesse è, o no, membro di se stessa?
Se sì, contiene un membro che è membro di se stesso e pertanto non è più la
classe di tutte le classi che non contengono se stessa come membro. Se no, sarà
una delle classi che non contengono se stessa come membro e deve perciò
appartenere alla classe di tali classi. Questo paradosso pub- blicato da
Russell nel 1902 ha dato poi luogo alla riorganizzazione che della logica
matematica hanno fatto Whitehead e Russell nei Principia Mathe- matica
(1910-13). Ao di variazione è un insieme di oggetti individuali. Sono di grado
due quelle for- nite di una variabile apparente che sta in luogo di una
funzione proposizionale di grado uno; e così via. Posto ciò, si stabilisce la
regola che non si possono trattare sullo stesso piano proposizioni ricavabili
da funzioni di grado diverso. Per es., l’A. del mentitore dipende dal fatto che
la frase «io mento » s’interpreta nel senso: « Qualunque sia la mia presente
affermazione x, x è una menzogna »; e che si identifica questa frase, che
chiamiamo », con l’affermazione x. Ma in realtà y è di grado diverso da x
perchè x è la variabile apparente con- tenuta in y: perciò non può essere
identificata con y. In altre parole, quando si dice ‘ io mentisco ’, non
s’intende che è una menzogna la frase stessa «io mentisco » ma che è una
menzogna qualche altra frase cui essa fa riferimento. Russell tuttavia per
rendere possibile in matematica quel tipo di asserzione impropriamente espressa
con la frase (che dà luogo alle A.) «tutte le proprietà di x, introduceva
l’assioma delle classi o assioma di ri- ducibilità. Egli diceva: «Sia g x una
funzione, di qualsiasi ordine, di un argomento x che può essere o un individuo
o una funzione di qualsiasi ordine. Se ® è dell’ordine immediatamente superiore
a x, scriviamo la funzione nella forma p!x; e in tal caso chiameremo ® una
funzione predicativa. Così la funzione predicativa di un individuo è una fun-
zione di primo ordine; e per argomenti di tipo più alto le funzioni predicative
prendono il posto che le funzioni di primo ordine prendono nei ri- spetti degli
individui. Noi assumiamo allora che ogni funzione è equivalente, per tutti i
suoi valori, a qualche funzione predicativa dello stesso argo- mento »
(Mathematical Logic, ecc., Op. Cit., pa- gina 81-82). Russell riteneva di avere
in questo modo salvato il concetto di classe dall’A. e nello stesso tempo di
averlo reso ancora utilizzabile nella sua funzione fondamentale, che sarebbe
quella di ridurre l’ordine delle funzioni proposizionali; ma l’assioma suscitò
molte critiche, che mostrarono spe- cialmente come esso aveva l’effetto di
restaurare la possibilità di quelle definizioni impredicative che la teoria dei
gradi era diretta ad eliminare (cfr. su tali critiche A. CHURCH, Introduction
to Mathematical Logic, $ 59, n. 588). Lo stesso Russell nella Intro- duzione
alla seconda edizione dei Principia Ma- thematica (1925) raccomandava
l’abbandono del- l’assioma di riducibilità. Ramsey propose allora di dividere
le A. in due ca- tegorie: le antinomie /ogiche (in senso stretto) che sono
quelle esemplificate dall’A. di Russell e che non fanno riferimento alla verità
o falsità delle espres- sioni; e le A. sintattiche, esemplificate dall'A. del
men- titore, che sono quelle che nascono dal riferimento semantico e si possono
perciò anche chiamare semantiche o epistemologiche (Foundations of Ma-
thematics, 1931). Ramsey osservò che le antinomie della seconda specie non
compaiono nei sistemi logistici ma solo nei testi che li accompagnano e che
pertanto esse possono essere trascurate dalla logica in quanto ha per oggetto
la costruzione di sistemi simbolici. Per le A. logiche, invece, Ramsey osservò
che basta la teoria semplice dei tipi; la cui regola fondamentale, Carnap,
seguendo il suggerimento di Ramsey, ha così formulata: « Un predicato
appartiene sempre a un tipo diverso da quello dei suoi argomenti (cioè
appartiene a un tipo di livello più alto); e perciò un enunciato non può avere
mai la forma ‘F(F)’» (The Logical Syntax of Language, $ 60 a). Questa regola
basta a evitare le definizioni impredicative (v.): sicchè la teoria dei tipi semplici
è quella oggi più comune- mente accettata dai logici, per ciò che concerne le
A. logiche. 2° La seconda soluzione fondamentale delle A. riguarda invece le A.
sintattiche cioè semantico- epistemologiche, che sono quelle nelle quali ri-
corrono i concetti di vero e falso. Questa soluzione consiste nel considerare
quelle A. come proposi- zioni indecidibili cioè come proposizioni sulla cui
verità o falsità la struttura della lingua, nella quale esse sono formulate,
non permette di decidere nè in un senso nè nell’altro. Mediante un ampliamento
della lingua considerata, tali proposizioni possono diventare suscettibili di
decisione; ma a sua volta tale ampliamento può dar luogo ad altre proposi-
zioni indecise. Una soluzione di questo genere era stata già prospettata da
Ockham quando, nell’analisi del pa- radosso del mentitore, aveva riconosciuto
il carat- tere indecidibile degli enunciati autoriflessivi. Così, diceva
Ockham, non è legittimo porre che A si- gnifichi « A significa il falso». È
certamente pos- sibile che A significhi il falso; ma appunto perchèANTINOMIE è
possibile, e soltanto tale, esso non significa nè il vero nè il falso (Summa
Log., III, II, 38). Questo punto di vista è stato oggi rafforzato dal
cosiddetto teorema di Gédel secondo il quale è impossibile provare la non
contraddittorietà di un sistema logistico con i mezzi di espressione conte-
nuti nello stesso sistema (« Ùber formal unentscheid- bare Sétze der Principia
Mathematica und verwandter Systeme », in Monatsh. Math. Phys., 1931). Posto
ciò, si può intendere come le A. sintattiche nascano quando i predicati vero e
falso, riferiti a un lin- guaggio determinato S, sono usati dentro questo
stesso linguaggio. Dall’altro lato, la contraddizione può essere evitata
adoperando i predicati ‘vero (in S)” e ‘falso (in S)” in una sintassi di S, che
non è formulata nello stesso S; ma in un altro linguaggio Sy (CARNAP, Logical
Syntax of Language, $ 60b). Questo equivale a dire che l'affermazione «io
mentisco» può essere vera al livello di un certo linguaggio e falsa al livello
di un altro linguaggio; e che cioè essa rimane indecisa finchè non si è
determinato il livello del linguaggio a cui viene riferita. Solu- zioni
sostanzialmente simili a queste sono state proposte da Quine (Mathematical
Logic, 1940, cap. VII; cfr. From a
Logical Point of View, VII, 3) e da Church (Introduction to Mathematical Logic,
$ 57). ANTINOMIE KANTIANE (ingl. Kanzian
Antinomies; franc. Antinomies kantiennes; ted. Kants Antinomien). La parola A.
significa propriamente «conflitto di leggi» (QUINTILIANO, /nst. Or., VII, 7, 1)
ma fu estesa da Kant a indicare il conflitto in cui la ragione viene a trovarsi
con se stessa in virtù dei suoi stessi procedimenti. Kant parlò delle A. nel
campo della cosmologia razionale, cioè della dottrina che ha per oggetto l’idea
del mondo. Questa idea, come tutte le idee della ragion pura (v. IDEA), nasce dal
tentativo, illegittimo secondo Kant, di applicare le categorie a se stesse,
cioè dall’uso ri- flessivo delle categorie. L’idea di mondo è infatti «l’unità
incondizionata delle condizioni oggettive della possibilità degli oggetti in
generale ». Le « con- dizioni oggettive, ecc. », sono le categorie e i prin-
cìpi da esse derivati; e l’unità è ancora una categoria. Le A. che sorgono in
questo modo sono, secondo Kant, naturali o inevitabili: naturali perchè l’idea
di mondo, che ad esse dà origine, per quanto priva di validità empirica e
quindi conoscitiva, è formata dalla ragione con un procedimento naturale che
consiste nell’applicare alle categorie le stesse ca- tegorie, che dovrebbero
essere invece applicate sol- tanto ai fenomeni; inevitabili, perchè una volta
formatasi l’idea di mondo come la totalità assoluta, incondizionata, di tutti i
fenomeni e delle loro con- dizioni, non si può in alcun modo evitare di giun-
KANTIANE 53 gere a proposizioni contraddittorie. Kant enumera quattro A. che
corrispondono ai quattro gruppi di categorie, cioè alle categorie secondo la
qualità, la quantità, la relazione e la modalità. Ecco le quattro A.: 18
Antinomia. Tesi: il mondo ha un inizio nel tempo e, nello spazio, è chiuso
dentro limiti. Antitesi: il mondo non ha nè inizio nel tempo nè limite nello
spazio ma è infinito sia nel tempo che nello spazio. 2 Antinomia. Tesi: ogni
sostanza composta consta di parti semplici e non esiste altro che il semplice o
ciò che risulta composto dal: semplice. Antitesi: non esiste al mondo alcuna
cosa composta di parti semplici e non esiste in nessun luogo niente di
semplice. 3» Antinomia. Tesi: la causalità secondo leggi della natura non è la
sola da cui possano essere spiegati i fenomeni del mondo. È necessario am-
mettere per la spiegazione di essi anche una cau- salità della libertà.
Antitesi: non c’è alcuna libertà, ma tutto nel mondo accade unicamente secondo
le leggi della natura. 48 Antinomia. Tesi: nel mondo c’è qualcosa che o come
sua parte o come sua causa è un essere assolutamente necessario. Antfitesi: in
nessun luogo esiste un essere assolutamente necessario nè nel mondo nè fuori
del mondo come sua causa. Sia la tesi che l’antitesi di ciascuna di queste A. è
dimostrabile con argomenti logicamente ineccepi- bili: tra l’una e l’altra è
quindi impossibile decidere. Il conflitto pertanto rimane e dimostra
l’illegitti- mità della nozione che gli ha dato origine, cioè dell’idea di
mondo. Questa, essendo al di là di ogni esperienza possibile, rimane
inconoscibile e non può fornire alcun criterio àtto a decidere per l’una o
l’altra delle tesi in conflitto. L’illegittimità della nozione di mondo risulta
evidente dal fatto che la tesi delle A. presenta un concetto di esso troppo
piccolo per l’intelletto, mentre l’antitesi presenta un concetto troppo grande
per l'intelletto stesso. Così, se il mondo ha avuto un principio, regredendo
empiricamente nella serie dei tempi bi- sognerebbe arrivare ad un momento in
cui questo regresso si arresta; e questo è un concetto del mondo troppo piccolo
per l’intelletto. Se invece il mondo non ha avuto un principio, il regresso
nella serie del tempo non può mai esaurire l’eternità; e questo è un concetto
troppo grande per l’intelletto. Lo stesso si dica per la finità o l’infinità
spaziale, per la divisibilità o io di sommo bene: «O il desiderio della
felicità dev'essere la causa movente per la massima della virtù o la mas- sima
della virtù dev'essere la causa efficiente della felicità »; ed una A. del
giudizio teleologico (Critica d. Giud., $ 70) che è formata dalla tesi « Ogni
produ- zione delle cose materiali è possibile secondo leggi puramente
meccaniche » e dall’antitesi « Alcuni pro- dotti della natura non sono
possibili secondo leggi puramente meccaniche ». A proposito delle A. kan-
tiane, Hegel le interpretava come se Kant avesse voluto togliere la
contraddizione dal mondo in se stesso e attribuirla alla ragione. E aggiungeva:
«È questa una troppo grande tenerezza per il mondo, voler allontanare da esso
la contraddizione per trasportarla invece e lasciarla altro le tesi di esse e
rigettava le antitesi, riconoscendo così la finità del mondo nello spazio e nel
tempo (Essais de critique générale, I, pag. 282). Il risultato rag- giunto
dalla discussione kantiana delle A. è tuttavia importante. Esso consiste nell’aver
messo in qua- rantena l’idea tradizionale del mondo come totalità assoluta e
nell’aver insegnato l’uso critico del con- cetto di mondo (v.). ANTIPERISTASI
(gr. dvrireplotani; lat. Anti- paristasis). Uno dei modi tradizionali di
spiegare il movimento dei proiettili; poichè la natura non per- mette il vuoto,
quando un corpo esce velocemente dal luogo in cui stava, l’aria si precipita in
questo luogo e spinge il corpo stesso che passa così ad un altro luogo; e così
via, per tutta l’estensione del mo- vimento. A questa spiegazione, Aristotele
obiettava che essa non tiene conto del fatto che esiste un corpo che non è
mosso da altro: il cielo (Fis., VIII, 10, 267 a 12). La nozione fu criticata da
co- loro che elaborarono la dottrina dell’impeto (v.): per es., da Buridano
(Quaesr. super physicam, VIII, q. 12. Cfr. anche BoviLLo, De Nihilo, in Opera,
1510, f. 72 v.). ANTISTORICISMO (ingl. Antihistoricism; franc.
Antihistoricisme; ted. Antihistorismus). Ter- mine adoperato soprattutto da
Croce per designare l’Illuminismo che, come «razionalismo astratto » avrebbe
considerato « la realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo di idee o
di valori e in un basso mondo che le riflette o le ha riflesse finora in modo
fuggevole o imperfetto e al quale converrà una buona volta imporli, facendo
succedere alla storia imperfetta o alla storia senz’altro una realtà razionale
perfetta » (La storia, pag. 51). Da questo punto di vista, sono « antistoriche
» tutte le dottrine che distinguono ciò che è da ciò che dev'essere e cioè che
non ammettono l’identificazione hegeliana di realtà e razionalità. — In realtà,
l’Illuminismo non è « antistoricismo » ma piuttosto « antitradizio- nalismo »,
in quanto ha costituito la prima e più radicale condanna della tradizione come
portatrice e garante di verità (v. ILLUMINISMO; TRADIZIONE). ANTITESI (gr.
d&vrtdeoc; ingl. Antithesis; franc. Antithèse; ted. Antithesis). 1.
Contrapposi- zione: Aristotele dice che la contraddizione è una A. che non ha
termine medio (An. post., I, 2, 72 a 10). 2. Uno dei due termini della
contrapposizione, quello che si oppone alla tesi. In questo senso Kant chiamò
A. il secondo membro dell’anti- nomia (v.) ed Hegel chiamò A. il secondo
momento del procedimento dialettico detto appunto « mo- mento dialettico » o «
negativo razionale». ANTITETICA (ted. Antithetik). Kant intese con questo
termine «un conflitto di conoscenze in apparenza dogmatiche (thesis cum
antithesi) a nessuna delle quali si attribuisca un diritto preva- lente
all’assenso ». L’A. si opporrebbe così alla Tetica (v.). In particolare, l’A.
trascendentale è «una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue
cause e il suo risultato » (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. II, sez.
II). ANTITIPIA (gr. dvritria; lat. Antitypia; ingl. Antitypy). Termine
d’origine epicurea (SESTO, Adv. Math., I, 21) adoperato da Leibniz per indicare
l'attributo della materia per il quale «essa è nello spazio » e per il quale
perciò un corpo è impene- trabile all’altro (Op., ed. Erdmann, pag. 463, 691).
ANTROPOLOGIA (ingl. Anthropology; fran- cese Anthropologie; ted.
Anthropologie). L’esposi- zione sistematica delle conoscenze che si hanno
intorno all’uomo. In questo senso generale l’A. è stata ed è una parte di ogni
filosofia; ma come disciplina specifica e relativamente autonoma essa APATIA 55
è nata solo in tempi moderni. Kant distinse un’A. fisiologica che considera
quel che la natura fa del- l’uomo da un’A. pragmatica che considera invece
quello che l’uomo come essere libero fa, oppure può suo oggetto proprio non
solo nell’analisi e nella classificazione dei lin- guaggi ma nella
comprensione, attraverso i lin- guaggi, della psicologia individuale e di
gruppo (cfr., R. Linton, ed. The Science of Man in the World Crisis, 1945,
1952”). Secondo Lévi-Strauss lA. si distingue dalla sociologia in quanto tende
ad essere la scienza sociale dell’osservato mentre la sociologia tende ad
essere la scienza sociale del- l'osservatore (Anthr. structurale, 1958, cap.
XVII). I filosofi hanno spesso sottolineato l’importanza dell’A. come scienza
filosofica, cioè come determi- nazione di ciò che l’uomo deve essere, nei
confronti di ciò che è. Humboldt, per es., voleva che l’A., pur movendo a
determinare le condizioni naturali dell’uomo (temperamento, razza, nazionalità,
ecc.) mirasse a scoprire, attraverso di esse, l’ideale stesso dell'umanità, la
forma incondizionata, alla quale nessun individuo si adegua mai perfettamente
ma che rimane lo scopo cui tutti gli individui tendono ad avvicinarsi
(Schriften, I, pag. 388 sgg.). In tal senso l’A. è stata intesa da Scheler (//
posto dell’uomo nel cosmo, 1928) che perciò la colloca in un posto intermedio
tra la scienza positiva e la metafisica. — Più specificamente il còmpito del-
l’A. filosofica dovrebbe essere quello di considerare l’uomo non già
semplicemente come natura, come vita, come volontà, come spirito, ecc., ma
preci- samente come uomo e cioè di riportare il complesso delle condizioni o
degli elementi che lo costituiscono al suo modo di esistenza specifico. Tale è
l’esigenza prospettata, per es., da Biswanger (Ausgewédhite Vortràge und
Ausdtze, I, pag. 176). E in questo senso il Saggio sull'uomo (1944) di Cassirer
è una ricerca di A. filosofica che si accentra intorno al concetto dell’uomo
come animal symbolicum, cioè come animale che parla e crea l’universo simbo-
lico della lingua, del mito e della religione. ANTROPOMORFISMO (inglese
Anthropo- morphism; franc. Anthropomorphisme; ted. Anthro- pomorphismus).
S'indica con questo nome la ten- denza a interpretare ogni tipo o specie di
realtà nei termini del comportamento umano o per so- miglianza o analogia con
questo comportamento. « Credenze antropomorfiche » 0 « antropomorfismi » sono
dette solitamente le interpretazioni di Dio in termini di condotta umana. Una
critica di tale A. fu già fatta da Senofane di Colofone. « Gli uomini, egli
disse, credono che gli dèi hanno avuto nascita e hanno voce e corpo simili al
loro » (Fr. 14, Diels) perciò gli Etiopi fanno i loro dèi camusi e neri, i
Traci dicono che hanno occhi azzurri e capelli rossi; e anche i buoi, i
cavalli, i leoni, se potessero, imaginerebbero i loro dèi a loro somiglianza
(Fr. 16, 15). — Ma l’A. non appartiene soltanto al dominio delle credenze
religiose. L'intera scienza moderna si è venuta formando attraverso una progressiva
liberazione dall'A. e lo sforzo di considerare le operazioni della natura non
secondo la loro somi- glianza con quelle dell’uomo, ma juxta propria prin-
cipia. PANTROPOSOFIA (ingl. Anthroposophy, fran- cese Anthroposophie; ted.
Anthroposophie). Il ter- mine fu creato da J. P. V. Troxler per indicare, la
dottrina naturale della conoscenza umana (Na- turlehre der menschlichen
Erkenntnis, 1828) e ripreso da R. Steiner quando, nel 1913 si distaccò dal
movimento teosofico e volle sottolineare l’impor- tanza della dottrina intorno
alla natura e al destino dell’uomo. Cfr. STEINER, Die Rétsel der Philosophie, 2
voll., 1924-26 (v. TEOSOFIA). APAGOGICO, PROCEDIMENTO. Vedi ABDUZIONE;
RIDUZIONE. APATIA (gr. &rdBeva; ingl. Apathy; franc. Apa- thie; ted.
Apathie). Il termine propriamente signi- fica insensibilità; ma nell’uso
filosofico antico esso designò l’ideale morale dei Cinici e degli Stoici, cioè
l'indifferenza verso tutte le emozioni e il di- sprezzo di esse: indifferenza e
disprezzo raggiunti attraverso l’esercizio della virtù. In questo senso, per
cui l’insensibilità non è una dote nativa e na- turale, ma un ideale di vita
difficile a raggiungersi, Cinici e Stoici videro nell’A. la felicità stessa
(Diog. L., VI, 1, 8-11). Kant vide nell’A. un no- bile ideale, ma aggiunse che
la natura fu saggia a dare all’uomo la simpatia, per guidarlo provvi-
soriamente e cioè prima che la ragione raggiunga in lui la sua maturità, come
un aiuto o appoggio sensibile alla legge morale e surrogato temporaneo della
ragione (4ntr., $ 75). L’età moderna e con- temporanea, nonostante la grande
suggestione che l’etica stoica ha sempre esercitato, non si mostra propensa
all’ideale dell’A., giacchè essa è portata a riconoscere il valore positivo
delle emozioni e ad evitare, perciò, la condanna sommaria e to- tale di esse
che è inclusa nella nozione di apatia (v. EMOZIONE). APEIRON (gr. &repov).
L'infinito o l’indetermi- nato: secondo Anassimandro di Mileto, il principio e
l'elemento primordiale delie cose. Esso non è una miscela dei vari elementi
corporei, in cui questi siano compresi ognuno con le sue qualità de- terminate;
ma piuttosto è una materia in cui gli elementi non sono ancora distinti e che
perciò, oltre che infinita, è anche indefinita o indeterminata (Diels, A, 9).
Questa duplice determinazione di infinità nel senso di inesauribilità e di
indetermina- tezza è poi rimasta per molto tempo attaccata al concetto di
infinito (v.). APERTO (ingl. Open; franc. Ouvert). Agget- tivo adoperato
frequentemente in senso metaforico nel linguaggio comune e filosofico per
indicare at- teggiamenti o istituzioni che ammettono la possi- bilità di una
partecipazione o comunicazione estesa o addirittura universale. Uno «spirito
aperto» è uno spirito accessibile a suggerimenti, consigli, cri- tiche che gli
vengono dagli altri o dalla stessa si- tuazione e che è disposto a tenere nel
massimo conto, cioè senza pregiudizi, tali suggerimenti. Una «società aperta» è
una società che rende possibile per vie pacifiche la correzione delle proprie
istitu- zioni (K. Popper, The Open Society and its Enemies, London, 1945).
Bergson chiamò società aperta quella che «abbraccia l’umanità intera» (Deux
sources, 1932, I; trad. ital., pag. 28). C. Morris ha issa che interpreta il
succedersi dei mondi come il teatro della progressiva rieducazione degli esseri
alla condizione beata originaria. Gregorio afferma anche recisamente il
carattere universale dell’A.: « Perfino l’inventore del male (cioè il demonio),
unirà la propria voce all’inno di gratitudine al Salvatore » (De hom. opif.,
26). Nell’età moderna una dottrina analoga è stata sostenuta da Re- nouvier
nella Nuova Monadologia (1899): viene qui ripresa la tesi di Origene di una
pluralità di mondi successivi e del passaggio da un mondo all’altro determinato
dall’uso che l’uomo fa della libertà in ciascuno di essi; e la si corregge solo
nel senso che «la fine raggiunta si ricongiunge col principio, non
nell’indistinzione delle anime, ma nell’umanità perfeer oggetto la verità
necessaria, cioè la verità pro- priamente detta e che ci conduce attraverso
l’apo- dissi cioè la dimostrazione alla scienza, sicchè giusta- mente viene
chiamata sia apodittica sia epistemo- nica» (Logica Hamburgensis, 1638, IV, I,
cap. I, $ 1). Questo nome è stato poi raramente usato (cfr., ad es., BOUTERWEK,
/deen zu einer Apodiktik, 1799). APODITTICO (gr. &rodemtixéc ; lat.
Apodicticus; franc. Apodictique; ted. Apodiktisch). 1. Dimostra- tivo. Questo è
il significato generale e fondamentale del termine: significato che esso ha in
Aristotele sia quando Aristotele lo riferisce alla proposizione (An. Pr., I, 1,
24 a 30) sia quando lo riferisce alla scienza, definita come «abito
dimostrativo » (Fr. Nic., VI, 3, 1139 b 31). 2. Necessario. Questo secondo
significato è stato introdotto come significato primario da Kant che chiamò A.
i giudizi in cui l’affermazione o la ne- gazione si considera come necessaria.
« La propo- sizione A., scrisse Kant, pensa il giudizio assertorideterminato
attraverso le leggi dello stesso intelletto e perciò affermato a priori; ed esprime
così una necessità logica » (Crit. R. Pura, $ 9, 4). Questa, ovviamente, non è
la necessità della dimostrazione. Kant però non escluse neppure il significato
tradi- zionale perchè divise le proposizioni apodittiche in quelle dimostrabili
e quelle immediatamente certe (Ibid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I [A
736, B 764]). L’uso di Kant è stato seguito da Husserl che ha parlato di «
visione A. + e di «evidenza A.? (Ideena verità contemplata l’uomo greco vedeva
dappertutto l'aspetto orribile e assurdo del- l’esistenza: l’arte gli venne in
soccorso, trasfigu- rando l’orribile e l’assurdo in imagini ideali, per virtù
delle quali la vita fu resa accettabile (Geburr der Tragòdie, $ 7). La
trasfigurazione fu compiuta dallo spirito dionisiaco, modulato e disciplinato
dallo spirito apollineo, e dètte luogo alla tragedia e alla commedia. Più tardi
Nietzsche vide nello spirito dionisiaco il fondamento stesso dell’arte in
quanto questa «corrisponde agli stati di vigore animale » (Wille sur Macht, $
361, ed. Kroner, 802). Lo stato apollineo non è che la risultanza estrema
dell’ebbrezza dionisiaca, una specie di semplifica- zione e concentrazione
dell’ebbrezza stessa. Lo stile classico rappresenta questo stato ed è la forma
più elevata del sentimento di potenza. Sull’esempio di Nietzsche, Spengler ha
chiamato apollinea « l’anima della cultura antica che ha scelto il corpo
indivi- duale presente e sensibile come tipo ideale della estensione ».
Apollinei sono «la statica meccanica, i culti materiali degli dèi dell'Olimpo,
le città greche politicamente isolate, la sorte di Edipo e il simbolo del
fallo» (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $ 6). Questa caratterizzazione come
quella corrispondente di faustismo (v.) è perfettamente arbitraria e fan-
APOLOGETICA (ingl. Apologetics; franc. Apo- logétique; ted. Apologetik). La
disciplina che ha per oggetto la difesa (apologia) di un determinato sistema di
credenze. Il termine viene più frequen- temente riferito alla difesa delle
credenze religiose: per es., « A. cristiana ». APOLOGISTI (ingl. Apologists;
franc. Apo- logistes; ted. Apologeten). Si chiamano con questo nome i Padri
della Chiesa del n secolo che scrivevano in difesa (apologia) del Cristianesimo
contro gli attacchi e le persecuzioni che gli venivano mossi. La prima apologia
di cui si abbia notizia (ma ne rimane solo un frammento) è la difesa presentata
all'imperatore Adriano intorno al 124 da Qua- drato, discepolo degli Apostoli.
Il principale dei Padri A. è Giustino. Altri autori di apologie sono Taziano,
Atenagora, Teofilo, Ermia. Coi Padri A. comincia l’attività filosofica
cristiana. La tesi comune che essi difendono è che il Cristianesimo è la sola
filosofia sicura ed utile ed è il risultato ultimo al quale la ragione deve
giungere. I filosofi pagani conobbero semi di verità che essi non po- tettero
intendere appieno: i Cristiani conoscono la verità intera perchè Cristo è il
/ogos, cioè la ragione stessa della quale partecipa tutto il genere umano.
L’apologetica di questi Padri costituisce perciò il primo tentativo di
inserzione del Cristianesimo nella storia della filosofia classica. APONIA (gr.
&rovia; ingl. Aponia; franc. Aponie; ted. Aponie). L'assenza di dolore come
piacere sta- bile, e quindi eticamente accettabile, nell’etica di Epicuro (Fr.
2, Usener). APOREMA (gr. &répnua; ingl. Aporem; fran- cese Aporème; ted.
Aporem). In Aristotele (Top., VIII, 11, 162 a), è definito come un ragionamento
dialettico che conclude ad una contraddizione, e quindi che non permette di
stabilire per quale dei due corni della contraddizione stessa si debba sce-
gliere. G.P. APORETICA (ingl. Aporetic; franc. Aporé- tique; ted. Aporetik).
Così Nicolai Hartmann ha chiamato (da aporia = dubbio) quello stadio della
ricerca filosofica che consiste nel mettere alla luce i problemi cioè tutti
quegli aspetti dei fenomeni che non sono stati compresi e che perciò costitui-
scono le aporie naturali (Systemarische Philoso- phie, $ 5). APORIA (gr.
&ropla; ingl. Aporia; franc. Aporie; ted. Aporie). Questo termine viene
usato nel senso di dubbio razionale cioè di difficoltà inerente a un
ragionamento e non di stato soggettivo di incer- tezza. Essa è perciò il dubbio
oggettivo, l’effettiva difficoltà di un ragionamento o della conclusione cui un
ragionamento mette capo. Per es., « Le A. di Zenone d’Elea sul movimento », «
Le A. dell’in- finito », ecc. A POSTERIORI. V. A PRIORI. APPARENZA (gr. tò
qparvuevov; lat. Ap- parentia; ingl. Appearance; franc. Apparence; te- desco
Erscheinung). Questo termine ha avuto nella storia della filosofia due significati
simmetricamente opposti. Esso è stato inteso: 1° come nascondimento della
realtà; 2° come manifestazione o rivelazione della realtà stessa. Secondo il
significato 1°, l’A. vela od oscura la realtà delle cose sicchè questa non si
può conoscere se non procedendo al di là dell’A. e prescindendo da essa.
Secondo il signi- ficato 2°, l’A. è ciò che manifesta o rivela la realtà
stessa, sicchè questa trova nell’A. la sua veriA. e realtà fu per la prima
volta stabilito in modo netto e tagliente da Parmenide d’Elea che contrappose
«la via della verità e della persuasione », che ha per oggetto l’essere, la sua
unità, inevitabilità e necessità, alla «via dell’opi- nione» che ha per oggetto
il non essere, cioè il mondo sensibile nel suo divenire. Ma il mondo dell’opinione
e il mondo dell’A. coincidono, se- condo Parmenide: « Anche questo imparerai:
come siano verosimilmente le cose apparenti per chi le esamini in tutto e per
tutto» (Fr. 1, 31, Diels). La stessa coincidenza tra A. e opinione, opinione e
sensazione è presupposta da Platone, che inter- preta il principio protagoreo
dell’homomensura come se significasse « quali le cose appaiono a me tali sono
per me» e pertanto come se identificasse conoscenza e sensazione (7eef., 152
a). D'altra parte il mondo dell'opinione è, secondo la Re- pubblica, il mondo
sensibile diviso nei suoi due segmenti delle ombre e imagini riflesse, e delle
cose e degli esseri viventi (Rep., VI, 510). Di questo mondo delle A. sensibili
non si può avere, secondo Platone, che conoscenza verosimile o probabile, data
la sua natura incerta e sfuggente: conoscenza che differisce non di grado ma di
qualità dalla conoscenza scientifica o razionale che ha per og- getto l’essere
(7irm., 29). Lo stesso Platone tuttavia affermando che l’oggetto dell’opinione
sta all’og- getto della conoscenza come l’imagine sta al modello (Rep., VI,
510a), ammise un rapporto di somi- glianza o di corrispondenza tra A. e realtà.
Ma il passo decisivo fu fatto da Aristotele che riconobbe la neutralità dell’A.
sensibile: questa, sia come sen- sazione, sia come imagine può essere tanto
vera che falsa. Certamente hanno torto coloro che ri- tengono che è vero tutto
ciò che appare giacchè questi dovrebbero ammettere anche la realtà dei sogni;
e, rispetto al futuro, non potrebbero stabi- lire alcuna differenza tra il
parere dell’esperto (per es., del medico che fa la prognosi) e il parere
dell’ignorante (Mer., IV, 5, 1010 b 1 sgg.). L'A. non contiene quindi nessuna
garanzia di verità e solo il giudizio intellettuale su di essa può certi-
ficarla o confutarla. Ma d’altronde essa è il punto di partenza della stessa
ricerca scientifica la quale, come è chiarito da ciò che i matematici fanno
ril’intero mondo sensibile come l’A., cioè la manifestazione, del mondo
intellegibile, e quest’ultimo come l’A. o l’imagine di Dio stesso: pensiero che
sarà ereditato da Scoto Eriugena: « Tutto ciò che s’intende e si sente non è
altro che l’apparizione dell’apparente, la manifestazione dell’occulto (De
divis. nat., III, 4)». Da questo punto di vista «il mondo è una teofania, ogni
opera della creazione manifesta l’es- senza di Dio che perciò diventa apparente
e visibile in essa e per essa » (/bid., I, 10; V, 23). Lungo l’una o l’altra di
queste due vie procede quella che si potrebbe chiamare la rivalutazione dell’A.
del mondo moderno. Lungo la prima pro- cede quella che si potrebbe chiamare la
rivaluta- zione empiristica. Già nella Scolastica del °300, Pietro Aureolo
partendo dalla negazione di ogni realtà universale e nell’intento di eliminare
la species come intermediaria della conoscenza intellettuale, affermava che «
le cose stesse sono viste dalla mente e ciò che si vede non è una qualche forma
specu- lare ma è la cosa stessa nel suo essere apparente (esse apparens) e
questo essere apparente è ciò che chiamiamo concetto o rappresentazione
oggettiva » (In Sent., I, d. 9, a. 1). La distinzione tra il senso e
l’intelletto non dipende perciò dalla natura del- l'oggetto appreso ma dal modo
di apprendere. Al senso e all’imaginazione le cose appaiono sotto le condizioni
della quantità mentre l’intelletto astrae da ciò che è quantitativo e materiale
(/bid., I, d. 35, a. 1). Ma è solo nel mondo moderno, a partassunta come punto
di partenza dell'indagine che concerne le cose non create dal- l’uomo (al modo
in cui le definizioni sono il punto di partenza per l'indagine delle cose
create dal- l’uomo, cioè degli enti matematici e politici). Con queste parole
di Hobbes era posto il fondamento dell’empirismo moderno. Esso, mentre
sottolineava il carattere relativo e soggettivo delle A. sensibili, le assunse
come l’unico fondamento della cono- scenza umana. Locke osserva che se i nostri
sensi venissero modificati e resi più pronti cd acuti, l’A. delle cose
muterebbe completamente; ma con ciò essa diverrebbe anche incompatibile con
l’essere nostro o almeno con i bisogni della nostra vita (Saggio, II, 23, 12).
«A. sensibili» sono le idee di cui parla Berkeley (Prinma Kant, che i corpi
paiano semplicemente esseri esterni o che l’anima mia paia semplicemente data
nella mia autocoscienza, quando affermo che le qualità dello spazio e del
tempo, secondo le quali, come condi- zione della loro esistenza, pongo quelli e
questa, sono nel mio modo di intuire e non in questi og- getti. Sarebbe un
errore il mio, se facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come
feno- meno » (Crif. R. Pura, Estetica trascendentale, Os- servazioni gen., 3).
L'affermazione: «I sensi ci rappresentano gli oggetti come appaiono,
l’intelletto come sono» viene interpretata da Kant nel senso che l’intelletto
rappresenta gli oggetti nella connes- sione universale dei fenomeni (il che non
dice che essi siano indipendenti dalla relazione con l’espe- rienza possibile e
quindi dalle « A. sensibili +) (/bid., Analitica dei princìpi, cap. III). L’A.
fenomenica è dunque chiamata tale solo per sottolinearne le connessioni con le
condizioni soggettive del cono- scere e per distinguerla dall’ipotetica
conoscenza noumenica in modo da poterne chiaramente sta- bilire i limiti (v.
FENOMENO). Dall’altro lato la stessa negazione del carattere ingannevole
dell’A., è stata utilizzata, nella filosofia moderna, per ribadire il carattere
assoluto della conoscenza umana. Così Hegel vede nell’A. feno- menica l’essenza
stessa. A. ed essenza non si op- pongono ma s’identificano: l’A. non è che
l'essenza che esiste nella sua immediatezza. « L’apparire, egli dice, è la
determinazione per mezzo di cui l’essenza non è essere ma essenza; e l’apparire
sviluppato è 60 APPERCEZIONE il fenomeno. L’essenza non è perciò dietro o di là
del fenomeno; ma, perciò appunto che l’essenza è quel che esiste, l’esistenza è
il fenomeno + (Enc., $ 131). Vero è che come determinazione « imme- diata »,
l’A. è destinata, secondo Hegel, ad essere assorbita o superata da altre
determinazioni, ri- flesse o mediate, nello sviluppo dialettico dell’Idea
assoluta; ma è pur vero che l’intera dottrina di Hegel è sorretta dal pensiero
che non c’è realtà così recondita che in qualche modo non si mani- festi ed
appaia. Nella filosofia contemporanea questo punto di vista ha trovato la sua
migliore espres- sione per opera di Heidegger. « Quale significato
dell’espressione ‘fenomeno * è quindi da tener ben fermo il seguente: ciò che
si manifesta in se stesso, il rivelato... Questo manifestarsi lo definiamo come
apparire (Scheinen). Anche in greco l’espressione phainomenon, ha questo
significato: ciò che ha l’aspetto di apparente, A. ... Soltanto perchè qual-
cosa, in virtù del suo senso, pretende in generale di manifestarsi, cioè di
essere fenomeno, è possibile che essa si manifesti come qualcosa che non è,
cioè abbia l’aspetto di... Noi riserviamo al termine ‘ fenomeno * il
significato positivo e originario di phainomenon e distinguiamo fenomeno da A.,
con- siderando quest’ultima come una modificazione privativa di fenomeno» (Sein
und Zeit, $ 7A). Questo tuttavia non vuol dire che la filosofia con- temporanea
ha identificato l’essere con l’apparenza. Essa ha piuttosto riproposto in nuova
forma il problema del loro rapporto passando a considerare questo rapporto in
forma oggettiva od ontologica cioè senza riferimento ad una qualsiasi
soggettiva- zione idealistica. Non è senza ragione che l’ultima opera
importante nella quale sia stato dibattuto nella forma tradizionale il problema
del rapporto tra apparenza e realtà appartiene a un idealista: F. H. Bradley
(A. e Realtà, 1893). Soprattutto per l’influenza dell’impostazione
fenomenologica (vedi FeNoMENOLOGIA) la considerazione del rapporto tra
l’apparire e l’essere è stata sottratta completamente sia al dualismo tra
questi due termini sia agli altri dualismi coi quali veniva di solito
interpretata, come quello tra sensazione e pensiero, soggettività e
oggettività, ecc. L’intero rapporto si colloca sul piano oggettivo delle
esperienze diverse o dei gradi diversi di esperienza. Un filosofo che fonda le
sue costruzioni su un gruppo di esperienze o su un dato tipo di realtà, che
perciò in qualche modo privilegia e considera fondamentale, è portato a
valutare meno reali o significanti e in qualche modo semplicemente « apparenti
» le altre forme di espe- rienza o gli altri tipi di realtà. E, per es., chi
privilegia l’esperienza interiore o coscienza, è portato a con- siderare come
meno significante o in qualche modo solo « apparente » l’esperienza esterna o
sensibile; o reciprocamente. Ma in ogni caso anche ciò che si dichiara
apparente viene assunto come A. di qualche cosa; perciò dotata, già come A., di
un suo grado o misura di realtà. Sicchè la relazione tra realtà e A. viene a
configurarsi come relazione tra realtà e imagine o realtà e simbolo e, in ogni
caso, tra due gradi o determinazioni oggettive. APPERCEZIONE (ingl.
Apperception; fran- cese Apperception; ted. Apperzeption). Il significato
specifico di questa parola è stato per la prima volta chiarito da Leibniz come
consapevolezza delle proprie percezioni. Dice Leibniz: « La percezione della
luce o del colore, per es., di cui abbiamo l’A., è com- posta di molte piccole
percezioni di cui non ab- biamo l’A.; e un rumore che noi percepiamo ma a cui
non facciamo attenzione diviene appercepibile se subisce un piccolo aumento »
(Nouv. Ess., II, 9, 4). Mentre le percezioni appartengono anche agli
anl’Idealismo romantico (v. IDEALISMO; Io). In senso psicologico-metafisico, il
concetto di A. fu pure inteso da Maine de Biran che chiamò «A. interna
immediata » la coscienza che l’io ha di se stesso come « causa produttrice »
nell’atto di distinguersi dall’effetto sensibile che la sua azione determina
((Euvres inédites, ed. Naville, I, pag. 9; III, pag. 409-10). Un nuovo concetto
dell’A. fu dato da Herbart come fondamento per intendere il meccanismo della
vita rappresentativa. L'A. fu intesa da Herbart come il rapporto tra masse
diverse di rappresen- tazioni il quale fa sì che una massa si appropri
dell’altra al modo stesso in cui le nuove percezioni del senso esterno vengono
accolte ed elaborate dalle rappresentazioni omogenee più vecchie. Questo fe-
nomeno per cui una massa rappresentativa, detta appercipiente, accoglie ed
assimila a sè una o più rappresentazioni omogenee, dette appercepite, è il
fenomeno dell’A., che Herbart identificò col senso interno (Psychol. als
Wissenschaft, II, $ 125). Questa nozione fu molto adoperata nella psicologia e
nella pedagogia dell’800 soprattutto per chiarire il fe- nomeno
dell’apprendimento e per riconoscere le condizioni psicologiche che lo
facilitano. Sul ca- rattere attivo dell'A. come l’atto per il quale un
contenuto psichico viene portato ad una più chiara comprensione, insistè Wundt
che parlò anche di una « psicologia dell’A.» che avrebbe dovuto con- trapporsi
alla dominante psicologia associazionistica appunto per il maggiore rilievo
riconosciuto alla attivitche è difficile (cfr. S. Tommaso, S. 7h., q. I, 81, a.
2). Queste notazioni sono rimaste pressocchè immu- tate per secoli. Hobbes dice
che l’A. e la fuga dif- feriscono dal piacere e dal dolore come il futuro
differisce dal presente: sono esse stesse piacere e dolore ma non presenti,
bensì previsti o aspet- tati (De hom., 11, 1). Spinoza connette l’appetito con
lo sforzo (conatus) della mente di perseverare nel proprio essere per una
durata infinita: « Questo sforzo, egli dice, si chiama volontà quando si at-
tribuisce alla sola mente, si chiama appetito quando si riferisce insieme alla
mente e al corpo; l’appetito, perciò, è l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui
na- tura derivano necessariamente le cose che servono 62 APPRENDIMENTO alla sua
conservazione e che perciò è destinato a compiere » (Er., III, 9, Scol.).
Leibniz vide nell’A. l’azione del principio interno della monade che opera il
mutamento o il passaggio da una perce- zione all'altra (Monad., $ 15). Kant
definì l’A. come «la determinazione spontanea della forza propria di un
soggetto, che avviene per mezzo della rap- presentazione di una cosa futura
considerata come effetto della forza medesima » (Antr., $ 73). L’A. costituisce
perciò quella che, nella Critica della Ragion Pratica, egli chiama «facoltà di
deside- rare inferiore» la quale presuppone sempre, come suo motivo
determinante, un oggetto empirico: a differenza della facoltà di desiderare «
superiore » che è determinata dalla semplice rappresentazione della legge (Cri.
R. Pratica, libro I, cap. I, $ 3, Scol. I). Nella filosofia moderna e
contemporanea il ter- mine A. è caduto in disuso ed è stato sostituito da altri
come « tendenza » o « volontà », ai quali ven- gono talora riferite le
determinazioni che la filo- sofia antica aveva attribuite all’appetizione.
APPRENDIMENTO (gr. pd@nas; ingl. Learning; franc. Apprendre; ted. Erlernung).
L’acqui- sizione di una tecnica qualsiasi, simbolica, emotiva o di
comportamento: cioè un mutamento nelle ri- sposte di un organismo all’ambiente
che migliori tali risposte ai fini della conservazione e dello svi- luppo
dell’organismo stesso. Tale è il concetto che la psicologia moderna dà dell’A.,
pur nella varietà delle teorie che presenta. Questo concetto d'altronde non è
che la generalizzazione di una nozione antichissima dell’A., considerato come
forma di associazione. Fu Platone il primo a il- lustrare questa nozione con la
sua teoria della anamnesi: « Tutta la natura essendo congenita, egli diceva, ed
avendo l’anima appreso tutto, nulla im- pedisce che chi si ricorda di una sola
cosa — che è quello che si chiama apprendimento — trovi da sè tutto il resto se
abbia costanza e non desista dalla ricerca, perchè il ricercare e l’apprendere
non son altro che reminiscenza » (Men., 81d). L’A. è perciò secondo Platone
dovuto all’associazione delle cose tra loro per cui l’anima può, dopo aver af-
ferrato una cosa, afferrare anche l’altra che è legata con essa. Non sostanzialmente
diversa da questa fu la teoria avanzata da Herbart, secondo la quale l’A. di
premio e punizione. Le prime reazioni ad una situazione problematica sono date
a caso. Quando una di queste reazioni ha suc- cesso, essa viene scelta nelle
prove successive, riu- scendo infine ad eliminare le altre. Thorndike ha
formulato a questo proposito la cosiddetta /egge dell’effetto secondo la quale
la risposta a uno sti- molo è rafforzata, se è seguita da un premio. Se- condo
lo stesso Thorndike, questi due fattori, la ripetizione della reazione
indovinata e il premio, bastano a spiegare tutti i processi dell’A. e quindi
l’intera condotta dell’uomo (cfr. Animal Intelli- gence: Experimental Studies,
1911; The Psychology of Wants, Interests and Attitudes, 1935, spec. pa- gina
24). Più recentemente le stesse idee sono state generalizzate da Hull che ha
insistito sui moventi dell’A., scorgendovi uno stato di bisogno. Uno sti- molo
condizionato può rimanere attaccato ad una risposta che lo segue solo se questa
produce una diminuzione del bisogno (Principles of Behavior, 1943). Se questa
dottrina sia sufficiente a spiegare l’A. umano, è cosa su cui gli psicologi non
sono d’ac- cordo (cfr. la discussione relativa in E. R. HILGARD, Theories of
Learning, 1948). Il dubbio concerne il problema se l’A. consista semplicemente
nel dare risposte indovinate o se esso implichi anche la scelta intelligente di
tali risposte in base a deter- minati perchè. Sembra difficile escludere dal
pro- cesso umano dell’A. le scelte intelligenti guidate dalle relazioni
espresse dai segni « se», « ma», «come», «non di meno», ecc. Da questo punto di
vista il fatto che l’uomo intenda la relazione tra i segni e le risposte è un
elemento dell’A., non riducibile alla pura legge dell'effetto (cfr. M.
WERTHEIMER, Productive Thinking, 1945). APPRENSIONE (lat. Apprehensio; ingl.
Ap- prehension; franc. Appréhension; ted. Apprehenzion). Termine introdotto
dalla Scolastica del ’300 per designare l’atto con cui si apprende o si assume
come oggetto un termine qualsiasi (concetto, pro- posizione o qualità
sensibile), in quanto distinto dall’assenso (v.) con cui propriamente si
giudica di esso e cioè lo si afferma o lo si nega. Ockham dice: « Fra gli atti
dell’intelletto, uno è quello apprensivo che si riferisce a tutto ciò cui mette
capo l’atto della potenza intellettiva, l’altro si può dire giu- dicativo
giacchè con esso l'intelletto non soltanto apprende l’oggetto, ma anche
assentisce ad esso o A PRIORI, A POSTERIORI 63 ne dissente » (/n Sent., Prol.,
q. 1, O). L’atto ap- prensivo può consistere sia nella formazione di una
proposizione sia nella conoscenza di un complesso già formato (Quodl., V, q.
6). La parola viene anche adoperata da Wolff (Log., $ 33) e Kant se ne avvalse
nella prima edizione della Critica della Ragion Pura (Deduzione dei concetti
puri dell’in- telletto) parlando di una « sintesi dell’A. » che con- sisterebbe
nel raccogliere il molteplice della rap- presentazione in modo che da esso
sorga «l’unità dell’intuizione ». Talvolta, nell’uso moderno, A. viene
contrapposta a comprensione come cono- scenza primitiva o semplice che non cobi
in poi, la filosofia araba aveva formulato la distinzione tra la dimostrazione
propter quid e la dimostrazione quia, che da Alberto di Sassonia furono poi
chiamate rispettivamente di- mostrazioni @ priori e dimostrazioni a posteriori.
«La dimostrazione è duplice, dice Alberto; una è quella che procede dalle cause
all'effetto e si chiama dimostrazione a priori o dimostrazione propter quid o
dimostrazione perfetta, e questa dimostrazione fa conoscere la ragione per cui
l’effetto è. L’altra è la dimostrazione che procede dagli effetti alle cause e
si chiama dimostrazione a posteriori o di- mostrazione quia o dimostrazione non
perfetta, e questa dimostrazione ci fa conoscere le cause per le quali
l’effetto è » (In An. Post., I, q. 9). I due termini vengono adoperati per
tutta la Scolastica e fino al sec. xvi appunto in questo senso, per indicare
due specie di dimostrazione. 2° A partire dal sec. xvi, per opera di Locke e dell’empirismo
inglese, i due termini acquistano un significato più generale passando a
designare, l’a priori, le conoscenze raggiungibili mediante l’eser- cizio della
pura ragione e l’a posteriori, invece quelle raggiungibili con l’esperienza.
Hume e Leibniz sono d’accordo nel contrapporre, in questo senso, a priori e a
posteriori. Dice Hume: « Oso affermare, come proposizione generale che non
ammette ecce- zione, che la conoscenza della relazione di causa ed effetto non
è, in nessun caso, raggiunta, ragio- nando a priori, ma sorge interamente
dall’esperienza quando noi troviamo che certi particolari oggetti sono
costantemente uniti con altri» (Zng. Conc. Underst., IV, 1). E Leibniz
contrappone costan- temente il «conoscere a priori» e il « conoscere per esperienza
» (Nouv. Ess., III, 3, $ 15; Monad., $ 76); «la filosofia sperimentale che
procede a po- steriori» e la «pura ragione» che «giustifica @ priori » (Op.,
ed. Erdmann, pag. 778 b). Wolff espri- meva con la sua solita chiarezza l’uso
dominante ai suoi tempi dicendo: « Ciò che apprendiamo con l’esperienza,
diciamo di conoscerlo a posteriori; ciò che ci è noto col ragionamento diciamo
di co- noscerlo a priori » (Psychol. emp., $$ 5, 434 sgg.). La nozione kantiana
dell’a priori, come cono- scenza indipendente dall’esperienza, ma non pre-
cedente (nel senso cronologico) l’esperiecostituisce non un campo o dominio a
parte di conoscenze ma la condizione di ogni conoscenza oggettiva. L’a priori è
la forma della conoscenza, come l’a posteriori è il contenuto. Sull’a priori si
fondano le conoscenze della matematica e della fisica pura; ma l’a priori di
per se stesso non è conoscenza ma la funzione che condiziona universalmente
ogni co- noscenza, sia sensibile che intellettuale. I giudizi sintetici a
priori sono infatti possibili in virtù delle forme a priori della sensibilità e
dell’intelletto. L'a priori è per Kant l’elemento formale cioè in- sieme
condizionante e fondante di tutti i gradi della conoscenza; e non solo della
conoscenza, giacchè anche nel dominio della volontà e del sen- timento
sussistono elementi a priori, come dimo- strano la Critica della Ragion Pratica
e la Critica del giudizio. La nozione kantiana dell’a priori è stata assunta o
presupposta da buona parte della filosofia moderna. L’Idealismo romantico la
cor- resse nel senso di ammettere che l’intero sapere è a priori, cioè
interamente prodotto dall'attività produttiva dell’Io. Così pensarono Fichte e
Schel- ling. Hegel ritenne che il pensiero è essenzialmente la negazione di un
esistente immediato, quindi di tutto ciò che è a posteriori o fondato
nell’espe- rienza. L°a priori è invece la riflessione e la me- diazione
dell’immediatezza, cioè l'universalità, lo «starsene del pensiero in se stesso»
(Enc., $ 12). Più frequentemente, nella filosofia moderna, l’a priori conserva
il significato kantiano. E a tale si- sono i seguenti: 1° La nozione di Dio
come dell’Essere neces- sario, cioè tale che non può non esistere, e del mondo
come derivante da Dio la sua propria ne- cessità. In quanto prodotti da una
Causa prima necessaria, tutti gli eventi del mondo sono a loro volta necessari.
Gli Arabi ammettono una inin- terrotta catena causale che va da Dio, come Primo
Motore, alle Intelligenze celesti e ai cieli, infine agli avvenimenti terrestri
e all'uomo. Essi giustificano perciò l’astrologia, spiegandone le deficienze
con l’imperfetto grado di osservazione. 2° La dottrina dell’intelletto agente o
attivo come una sostanza di natura divina, separata dal- l’anima umana:
dottrina che Averroè modificò nel senso di ritenere separato dall’uomo e divino
anche l'intelletto passivo o potenziale che Ai Kindi e Alfarabi ritenevano
propri dell’uomo. All’uomo appartiene, secondo Averroè, soltanto una specie di
riproduzione o d’imagine del vero intelletto. L'unico intelletto divino si
moltiplica nelle varie anime umane come la luce del sole si moltiplica distri-
buendosi sui vari oggetti che illumina. Questa dot- trina, che metteva in
dubbio l’immortalità dell’anima umana, in quanto separava da essa e attribuiva
a Dio la sua parte più alta e immateriale, venne chia- mata dottrina dell’unità
dell’intelletto. ARCHEUS 65 3° La tendenza propria dell’aristotelismo e in
particolare di Averroè a porre la filosofia al di sopra della religione,
attribuendole il fine della con- templazione e riservando alla religione il
dominio dell'azionein quanto accompagna la massima fioritura del- l’Impero
arabo nel Mediterraneo, ha avuto notevole influenza sulla Scolastica latina. In
primo luogo, essa ha fornito a tale Scolastica buona parte del suo materiale;
che le è pervenuto attraverso le traduzioni latine delle traduzioni arabe delle
tra- duzioni siriache delle opere di autori greci. In se- condo luogo, essa le
ha offerto un costante punto di riferimento polemico, portandola ad organiz-
zarsi come filosofia della libertà di fronte alla filosofia della necessità del
mondo musulmano. L’aristotelismo stesso, al suo primo comparire nel mondo
occidentale, fu identificato con la sua in- terpretazione A.; e solo per opera
di Alberto Magno e di S. Tommaso fu poi adattato alle esigenze della Scolastica
cristiana (v. SCOLASTICA). ARAZIONALE (gr. &oyoc; lat. Alogus; in- glese
Arational; franc. Alogique; ted. Alogisch). Ciò che è privo di ragione o non si
può esprimere o spiegare razionalmente: lo stesso che irrazionale. Questo è
l’uso classico del termine (PLATONE, Gorg., SOl a; Conv., 202a; Teet., 205e;
Sof., 238 c, ecc.; ARIST., Et. Nic., X, 2, 1172 b 10). Il termine greco (come
quello latino) serve anche a designare le grandezze incommensurabili che noi chiamiamo
irrazionali (ARIST., An. Post., I, 10, 76b 9; EUCLIDE, Z/., X, def. 10, ecc.).
L’uso moderno ha tentato, raramente e senza successo, di distinguere A. da
irrazionale. ARBITRIO (lat.
Arbitrium, ingl. Free Will; fran- cese Arbitre; ted. Willkur). Il principio dell’azione negli animali e
nell’uomo. A. è perciò termine più generale di volontà (v.) la quale può essere
attri- buita solo all'uomo. Dice Kant: « È A. semplice- mente animale
(arbitrium brutum) quello che non può essere determinato se non da stimoli
sensibili 8 — ABBAGNANO, Dizionurio di filosofia. ossia patologicamente. Ma
quello che è indipen- dente da stimoli sensibili, e quindi può essere de-
terminato da motivi che non sono rappresentati se non dalla ragione, dicesi
libero A. (arbitrium liberum) e tutto ciò che vi si connette o come prin- cipio
o come conseguenza è detto pratico » (Critica KR. Pura, Dottr. trascendentale
del metodo; Il ca- none della R. Pura, sez. I). L’A. implica così una
possibilità di scelta, che tuttavia non è ancora libertà. Per libero A. v.
LIBERTÀ. di manifestazioni del passato e le proietta come possibilità per
l’avvenire. La storia A. considera invece ciò che è stata nel passato la vita
di ogni giorno e radica in essa la mediocrità del presente. La storia critica
serve invece a rom- rla col passato, a rinnovarsi (v. STORIA). ARCHETIPO (lat.
Archetypus; ingl. Arche- type; ted. Archetyp, Urbild). Il modello o l’esem-
plare originario o l’originale di una serie qualsiasi. A. sono state dette le
idee platoniche in quanto modelli delle cose sensibili e, più frequentemente,
le idee esistenti nella mente di Dio, come modelli delle cose create (PLOTINO,
Enn., V, 1, 4; PROCLO, in Rep., II, 296). Ma Locke (Saggio, II, 31, $ 1)
adoperò la parola A. per dire soltanto modello: « Chiamo adeguate le idee che
rappresentano per- fettamente gli A. da cui la mente suppone siano state
tratte, che essa intende siano rappresentate da quelle idee e cui essa le
riferisce». A., in questo caso, sono le forze naturali, le idee sem- plici o le
idee complesse che si assumono come modelli per misurare l’adeguatezza delle
altre idee (v. EcTIPO). ARCHEUS. Secondo Teofrasto Paracelso, è la forza che
muove gli elementi, cioè lo spirito ani- matore della natura. Come tutte le
cose sono com- poste di tre elementi (zolfo, sale, mercurio), così tutte le
forze che le animano sono costituite dai loro arcani, cioè dall’attività
incosciente dell'A. (Meteor., pag. 79 sgg.). 66 ARCHITETTONICA ARCHITETTONICA
(gr. dpyitextovii) TEX; ingl. Architectonics; franc. Architectonique; ted. Ar-
chitektonik). In generale l’arte di costruire in quanto suppone la capacità di
subordinare i mezzi al fine e il fine meno importante a quello più importante.
In questo senso la parola è usata da Aristotele (Et. Nic., I, 1, 1094 a 26) il
quale parla anche (Et. Eud., I, 6, 1217 a) di una «intelligenza A. e pratica »
cioè costruttiva e operativa. La parola fu usata per la prima volta come nome
di una disci- plina filosofica da Lambert che intitolò ad essa una sua opera
(Architettonica, 1771) e la intese come «la teoria degli elementi semplici e
primitivi nella conoscenza filosofica e matematica ». Kant riprese la parola
per indicare «l’arte del sistema » al quale dedicò un capitolo (il III) nella
seconda parte principale della Critica della Ragion Pura. Come sisGOMENTO (gr. 2606;
lat. Argumentum; ingl. Argument; franc. Argument; ted. Argument). 1. In un primo significato, A. è qualsiasi
ragione, prova, dimostrazione, indizio, motivo, che sia adatto a captare
l’assenso e a indurre persuasione o con- vinzione. A. comuni o tipici o schemi
di A. sono i luoghi (rérrot, loci) che costituiscono l’oggetto dei Topici di
Aristotele. Cicerone infatti definiva i luoghi come le sedi dalle quali
provengono gli A. i quali sono « le ragioni che fanno fede di una cosa dubbia »
(Top., 2, 7). Il significato generalissimo della pa- rola A. risulta chiaro
anche nella definizione di S. Tommaso: «A. è ciò che convince (arguit) la mente
ad assentire a qualcosa» (De ver., q. 14, a. 2, ob. 14); e in quella di Pietro
Ispano che ri- prendcui il discorso verte o può vertere. A questo secondo
significato del termine si riconnette l’uso di esso nella logica e nella
matematica per indicare i valori delle va- riabili indipendenti di una
funzione. A. è in questo senso ciò che riempie lo spazio vuoto di una fun-
zione o ciò a cui la funzione deve essere applicata perchè abbia un valore
determinato. La parola è stata per la prima volta usata in questo senso da G.
Frege, Funktion und Begriff, 1891 (v. FUNZIONE). ARISTOCRAZIA. V. Governo,
FORME DI. ARISTOTELISMO (ingl. Aristotelianism; fran- cese Aristotélisme; ted.
Aristorelismus). Con questo termine s'intendono alcuni capisaldi della dottrina
di Aristotele che sono passati nella tradizione filo- sofica o hanno ispirato
le scuole o i movimenti che più direttamente si rifanno ad Aristotele stesso,
come la Scuola peripatetica, l’A. arabo, l’A. cri- stiano medievale, l’A. del
Rinascimento e varie altre tendenze del mondo medievale e moderno. Tali
capisaldi possono essere riassunti nel modo seguente: 1° L'importanza accordata
da Aristotele al mondo della natura e il valore e la dignità delle indagini ad
esso dirette. Mentre Platone pensava che tali indagini non possono raggiungere
che un certo grado di probabilità assai inferiore alla co- noscenza scientifica
(Tim., 29 c), Aristotele ritenne che non c’è nella natura nulla di così
insignificante che non valga la pena di essere studiato, dato che, in ogni
caso, il vero oggetto dell’indagine è la sostanza delle cose (v. SOSTANZA). 2°
Il concetto della metafisica come filosofia prima e teoria della sostanza e
come fondamento della intera enciclopedia delle scienze (v. METAFISICA). 3° La
dottrina delle quattro cause (formale, materiale, efficiente, finale) e quella
del movimento, come passaggio dalla porenza all’atto, che con- sentirono ad
Aristotele l’interpretazione della intera realtà naturale (v. le voci
corrispondenti). 4° La teologia con il suo concetto di Primo Motore e di Atto
puro (v. Dio). 5° La dottrina dell’essenza sostanziale o ne- cessaria, posta a
base della teoria della conoscenza e della logica (v. ANIMA; ESSENZA; ESSERE).
6° L'importanza attribuita alla logica, di cui Aristotele è il primo espositore
sistematico, come ARTE 67 strumento di ogni conoscenza scientifica (v. Con-
CETTO; LOGICA; SILLOGISMO; TOPICA; ecc.). Le varie correnti dell’A. si sono
rifatte, abitual- mente, soltanto ad alcuni di questi capisaldi e ciò spiega
perchè l’A. è talora apparso come una metafisica teologica (nella Scolastica
medievale) ta- lora come naturalismo (nel Rinascimento) e talaltra come
spiritualismo (in alcune interpretazioni mo- derne, per es., quelle di
Ravaisson e Brentano). ARITMETICA (ingl. Arithmetic; franc. Ari- thmétique;
ted. Arithmetik). La teoria matematica dei numeri naturali, cioè dei numeri
interi positivi. S’intendono comunemente per leggi dell’A. le se- guenti
proposizioni o regole: lo a+b=b+a (legge commutativa dell’ad- dizione); 2° ab =
ba (legge commutativa della molti- plicazione); 3° a+(b+0=(a+td5)+c (legge
associa- tiva dell’addizione); 4° a (bc) = (ab)c (legge associativa della mol-
tiplicazione); 5° a(b + c) = ab + ac (legge distributiva). La formalizzazione
dell’A. cioè la riduzione del- l’A. ad un sistema logico fondata su pochi
assiomi è stata effettuata per la prima volta da Peano che si avvalse di alcuni
concetti di Dedekind. Peano presuppose come nozioni primitive quella di zero,
quella di insieme di numeri naturali e quella di suc- cessione espressa con
l’espressione i/ successivo di. Egli fece vedere come tutte le proposizioni
dell’A. si lasciassero derivare dai cinque assiomi seguenti: 1° 0 è un numero
naturale; 2° se x è un numero naturale, il numero suc- cessivo è anche un
numero naturale; 3° se x e y sono numeri naturali e se il suc- cessivo di x è
identico al successivo di y, allora x e y sono identici; 4° se x è un numero
naturale, il numero suc- cessivo di x è differente da 0; 5° se 0 appartiene a
un insieme a e se il succes» sivo di un numero naturale qualunque appartiene
anche a questo insieme, l'insieme dei numeri naturali è una parte di a. Con
l’espressione aritmetizzazione della matema- tica s'intende talora l’esigenza
che si affacciò verso la metà dell’800, nel campo delle matematiche, ad opera
soprattutto di Weierstrass, di dare unità e rigore logico all’analisi
matematica, fondandola sopra una teoria dei numeri reali. Questa teoria fu poi
sviluppata da Giorgio Cantor (1845-1918) e Riccardo Dedekind (1831-1916). Cfr.
le memorie di logica matematica di Peano ora raccolte in Opere Scelte, Roma,
1958. Cfr. pure B.
RusseLL, /Introduction to Mathematical Philo- sophy, 1918 (v. MATEMATICA:
NUMERO). ARMONIA (gr. dpuovia; lat. Yarmonia;
inglese Harmony; franc. Harmonie; ted. Harmonie). L’or- dine o la disposizione
finalisticamente organizzata delle parti di un tutto, per es., del mondo, o
dell’anima, la quale fu detta « A.» dai Pitagorici in quanto proporzione o
mescolanza degli elementi corporei (cfr. PLAT., Fed., 86 c). Empedocle si av-
valse del concetto per definire la natura dello sfero (Fr. 122, Diels). Il termine
è stato usato da Leibniz nell’espressione A. prestabilita per designare un par-
ticolare sistema di comunicazione tra le sostanze spi- rituali (monadi) che
compongono il mondo. Leibniz ritiene che tali sostanze non possono influenzarsi
re- ciprocamente essendo ognuna « chiusa in se stessa » e perciò esclude la
dottrina comunemente ammessa della influenza reciproca. Esclude pure la
dottrina che egli chiama della assistenza e che è propria del sistema delle
cause occasionali di Guelingx e Malebranche secondo il quale la comunicazione
tra le varie monadi sarebbe stabilita di volta in volta direttamente da Dio.
L’A. prestabilita è la dottrina secondo la quale le varie monadi, come tanti
oro- logi costruiti perfettamente, sono sempre tra loro d’accordo, pur seguendo
ognuna la propria legge. Così l’anima e il corpo vivono ognuno per proprio
conto e tuttavia d’accordo perchè Dio ha coordi- nato le leggi dell’uno e
dell’altra. Il corpo segue la legge meccanica, l’anima segue la propria spon-
taneità: l’A. tra essi è stata predisposta da Dio all’atto della creazione
(Phil. Schriften, ed. Ger- hardt, IV, pag. 500 sgg.). Il termine ricorre
frequentemente nello spiritua- lismo, specialmente in Ravaisson. Si è avvalso
di esso Whitehead per spiegare la bellezza, la verità, il bene nonchè la
libertà e la pace e tutta «la grande avventura cosmica ». «La grande A., egli
dice (Adventures of Ideas, pag. 362), è l’A. di individua- lità durature
connesse nell’unità del fondamento. È per questa ragione che la nozione di libertà
non ab- bandona mai le civiltà più alte; la libertà in ognuno dei suoi molti
sensi è l’esigenza di una vigorosa autoaffermazione ». ARS MAGNA V.
COMBINATORIA, ARTE. ARTE (gr. teyxvà; lat. Ars; ingl. Ars; franc. Art; ted. Kunsto
erworatuei) di cui la prima consiste sem- plicemente nel conoscere, la seconda
nel dirigere, in base alla conoscenza, una determinata attività (Pol., 260 a,
b; 292 c). In tal modo I’A. comprende per Platone ogni attività umana ordinata
(com- presa la scienza) e si distingue nel suo complesso dalla natura (Rep.,
381 a). — Aristotele restrinse notevolmente il concetto dell’arte. In primo
luogo egli sottrae all’àmbito dell'A. la sfera della scienza, che è quella del
necessario, cioè di ciò che non può essere diverso da com'è. In secondo luogo
egli divide quel che cade fuori della scienza, cioè il possibile (che « può
essere in un modo o nell’altro ») in ciò che appartiene all’azione e in ciò che
appar- tiene alla produzione. Soltanto il possibile che è oggetto di
produzione, è oggetto dell’arte. In questo senso si dice che l’architettura è
un’A.; e l’A. si definisce come l’abito, accompagnato da ragione, di produrre
qualcosa (Et. Nic., VI, 3-4). L’àm- bito dell’A. viene così a restringersi
molto. Sono A. la retorica e la poetica, ma non è A. l’analitica (la logica) il
cui oggetto è necessario. Sono A. quelle manuali o meccaniche, come è A. la
medicina; mentre non è A. la fisica o la matematica. Questo è, almeno, il punto
di vista di Aristotele maturo; giacchè le pagine con cui si apre la Metafisica
sembrano invece stabilire una distinzione puramente di grado tra l’A. e la
scienza, ponendo l’A. stessa come intermediaria tra l’esperienza e la scienza.
Anche quelle pagine si concludono tuttavia con l’affermazione che la sapienza è
piuttosto cono- scenza teoretica anzichè A. produttiva (Mer., I, 1, 982 a 1
sgg.). Questa distinzione aristotelica non fu però ereditata nel suo rigore dal
mondo antico e medievale. Gli Stoici estesero di nuovo la nozione dell’A., affermando
che « l’A. è un insieme di com- prensioni », intendendo per comprensione
l’assenso od una rappresentazione comprensiva (Sesto E., Ip. Pirr., Ill, 241;
Adv. dogm., V, 182); questa de- finizione non permette infatti di distinguere
l’A. dalla scienza. E Plotino che fa invece questa di- stinzione perchè vuole
conservare alla scienza il suo carattere contemplativo, distingue le A. in base
al loro rapporto con la natura. Distingue pertanto l’architettura e le A.
analoghe, che hanno il loro termine nella fabbricazione di un oggetto, da
quelle che si limitano ad aiutare la natura come la medi- cina e l’agricoltura
e dalle A. pratiche, come la reto- rica e la musica, che tendono ad agire sugli
uomini, rendendoli migliori o peggiori (Enn., IV, 4, 31). A partire dal sec. 1
si chiamarono « A. liberali » (cioè degne dell’uomo libero) in contrasto con le
A. manuali, nove discipline, alcune delle quali Ari- stotele avrebbe chiamate
scienze e non arti. Queste discipline furono enumerate da Varrone: gramma-
tica, retorica, logica, aritmetica, geometria, astro- nomia, musica,
architettura e medicina. Più tardi, nel sec. v, Marciano Capella nelle Nozze di
Mercurio e della filologia riduceva a sette le A. liberali (gram- matica,
retorica, logica, aritmetica, geometria, astro- nomia e musica), eliminando
quelle che gli parevano non necessarie ad un essere puramente spirituale {che
non ha corpo) cioè l’architettura e la medi- cina e stabilendo così il
curriculum di studi che doveva restare immutato per molti secoli (v. CuL-
TURA). S. Tommaso stabiliva la distinzione tra A. liberali e A. servili sul
fondamento che le prime sono dirette al lavoro della ragione, le seconde in-
vece « ai lavori esercitati con il corpo, che sono in un certo modo servili, in
quanto il corpo è sotto- messo servilmente all’anima e l’uomo è libero se-
condo l’anima » (S. 7h., II, 1, q. 57, a. 3, ad 3). La parola A. rimase
tuttavia a designare per lungo tempo non solo le A. liberali ma anche le A.
mec- caniche, cioè i mestieri; come ancora accade oggi che intendiamo per A. o
artigiano un mestiere o chi pratica un mestiere. Kant ha riassunto le ca-
ratteristiche tradizionali del concetto quando ha distinto l’A. dalla natura da
un lato, dalla scienza dall’altro; e ha distinto, nell’A. stessa, l'A. mec- canica
e l’A. estetica. Su quest’ultimo punto egli dice: «Quando l’A., conformemente
alla cono- scenza di un oggetto possibile, compie soltanto le operazioni
necessarie per realizzarlo, essa è A. mec- canica; se invece ha per scopo
immediato il senti- mento di piacere, è A. estetica. Questa è A. piacevole o A.
bella. È piacevole quando il suo scopo è di far sl che il piacere si accompagni
alle rappresen- tazioni in quanto semplici sensazioni; è bella quando il suo
scopo è di accno strato geologico è perciò comunemente assunta dagli
antropologi come segno della presenza dell’uomo nell’età corrispondente: e la
natura e la com- plessità degli A. si assumono come base per distin- guere i
tipi di cultura cui appartengono. L’A., per essere riconosciuto tale, deve manifestare
l’inten- zione, preesistente alla sua costruzione, di utiliz- zarlo per uno
scopo determinato: cioè costituire la realizzazione di un progetto (v.).
ARTEFICE INTERNO. Così Giordano Bruno chiamò nel De /a causa, principio e uno
l'intelletto universale, che è «l’intima più reale e propria facultà e parte
potenziale de la anima del mondo +»: perchè « forma la materia e la figura da
dentro ». ASCESI (gr. &oxna; ingl. Ascesis; franc. Ascèse; ted. Askese). La
parola significa propriamente eser- cizio e originariamente indicò
l’allenamento degli atleti e le loro regole di vita. Con i Pitagorici, i Cinici
e gli Stoici, la parola si cominciò ad appli- care alla vita morale in quanto
la realizzazione della virtù implica limitazione dei desideri e rinuncia. Il
senso di rinuncia e di mortificazione divenne perciò prevalente; A. significò
nel Medioevo la mortificazione della carne e la purificazione dai legami
corporei. La rivolta contro l’ideale ascetico si iniziò col Rinascimento cioè
con la rivalutazione degli aspetti corporei e sensibili dell’uomo. Kant
considera l’ascetica morale come « l’esercizio fermo, coraggioso e ardito della
virtù» e la contrappone all’A. monacale « che per timore superstizioso o per
ipocrito orrore di sè usa mortificare e trascurare il proprio corpo »; e si
castiga invece di pentirsi moralmente, cioè di prendere la risoluzione di cor-
reggersi (Meraph. der Sitten, II, $ 53). Schopen- hauer ha dato un significato
metafisico all’A. in cui ha visto «l'orrore dell’uomo per l’essere di cui è
espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nòcciolo
e l’essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore» (Die Welt, I, $ 68), e
perciò il solo strumento di liberazione, di cui l’uomo disponga. ASCETISMO
(ingl. Asceticism; franc. Ascé- tisme; ted. Asketismus). La pratica
dell’ascesi. ASEITÀ (lat. Aseitas; ingl. Aseity; franc. Aséité; ted. Aseitàt).
Qualità o carattere dell’essere che ha in se stesso la causa e il principio del
proprio es- sere, cioè di Dio. Abalietà è la qualità contraria, cioè quella
dell’essere che ha in un altro essere la sua causa. Vocaboli usati nella tarda
Scola- stica. ASILLOGISTICO. V. ANAPODITTICO. ASINO DI BURIDANO (ingl. Buridan®s Ass; franc. Ane de
Buridan; ted. Esel des Buridan). Gio-
vanni Buridano maestro e rettore dell’Università di Parigi nella prima metà del
xv secolo fu disce- polo di Ockham ed è importante per alcune os- servazioni
che anticipano il principio d'inerzia della meccanica moderna (v. ImpETO). Il
caso dell’A., il quale, messo in mezzo tra due fasci di fieno uguali morrebbe
di fame prima di decidersi a mangiare l’uno o l’altro di essi, non si trova
nelle sue opere. Se ne trovano però le premesse. Buridano ritiene infatti che
la volontà segue necessariamente il giu- dizio dell’intelletto; per es., si
decide per il bene maggiore, se l’intelletto lo giudica tale. Ma quando
l’intelletto giudica uguali due beni, la volontà non può decidersi nè per l’uno
nè per l’altro: la scelta non avviene (/n Eth., III, q. 1). Questo è proprio il
caso dell’asino. Soltanto che Buridano ritiene che l’uomo può non morire di
fame come l’A.: può difatti sospendere o impedire il giudizio dell’intel- letto
(/bid., III, q. 4). L'origine del caso (per quanto non riferito all’A.) si
trova in Aristotele: « Si dice che chi è molto assetato o affamato, se si trova
a uguale distanza dal cibo e dalla bevanda, neces- sariamente rimane immobile
dove si trova» (De Cael., II, 13, 295 b 33). E neanche Dante riferisce il caso
all’A.: «Intra duo cibi, distanti e moventi — D’un modo, prima si morria di
fame — Che liber uom l’un si recasse a’ denti» (Par., IV, 1-3). In realtà la
discussione intorno al caso dell’A. di Buridano fu propria di un periodo
(l’ultima Sco- lastica) nel quale si accentuò il carattere arbitrario della scelta
volontaria e si intese la libertà dell’uomo come « arbitrio d’indifferenza »
(v. LIBERTÀ). ASOMATICO (ingl. Asomatous; franc. Asoma- tique; ted.
Asomatisch). Privo di corpo o disincar- nato. La condizione dell'anima dopo la
sua sepa- razione dal corpo, o delle sostanze angeliche. ASPETTAZIONE (ingl.
Expectation; francese Attente; ted. Erwartung). L’anticipazione di un av-
venimento futuro (v. AvvENIRE). Una delle forme dell’attenzione o attenzione
aspettansito egli dice: « L’intelletto può assentire ad una cosa in due modi.
Nel primo modo, perchè è mosso ad assentire dallo stesso oggetto o perchè è
cognito di per se stesso, come accade dei primi principi di cui abbiamo
intelligenza, o perchè è conosciuto attraverso altro come accade delle con-
clusioni di cui abbiamo scienza. Nel secondo modo, l'intelletto assentisce a
qualcosa, non perchè sia mosso sufficientemente dal suo proprio oggetto, ma per
una scelta volontaria che lo inclina da una parte piuttosto che dall’altra. Ora
se questo ac- cadrà insieme col dubbio e col timore che l’altra parte sia vera,
si avrà l’opinione; se accadrà invece con certezza e senza quel timore, si avrà
la fede » (S. Th., II, 2, q. 1, a. 4). Nell’ultima fase della Sco- lastica la
dottrina dell’A. fu elaborata da Ockham. Secondo Ockham, l’atto dell’A.
accompagna l’atto dell’apprendimento. « Chiunque apprende una pro- posizione,
egli dice (Ir Sent., Prol., q. 1 55), as- sente, dissente o dubita di essa ».
La teoria dell’A. è sostanzialmente la teoria dell’errore. Secondo Ockham, quando
una proposizione è empiricamente o razionalmente evidente, l’A. è garantito
dalla sua evidenza; mentre quando questa evidenza manca l’A. è più o meno
volontario e va incontro alla pos- sibilità dell’errore (/bid., II, q. 25). Una
dottrina analoga si trova in Cartesio. Per giudicare si richiede in primo luogo
l’intelletto, dato che non si può giudicare su ciò di cui non si ha
l’apprensione, e in secondo luogo la volontà per cui si assentisce a ciò cosa
(Scienza morale, ed. naz. 1941, pag. 109). La Grammatica dell’A. (1870) di
Newmann distinse l’A. reale, che si dirige alle cose, dall’A. nozionale che si
dirige alle proposizioni. L’A. nozionale è ciò che viene chiamato professione,
opinione, pre- sunzione, speculazione; l’A. reale è la credenza. L’A. nozionale
ad una proposizione dogmatica è un atto teologico, l’A. reale alla stessa
proposizione è un atto religioso. Le due cose non si contraddi- cono, ma solo
l’A. reale raggiunge al credo dogma- tico i sentimenti e le imaginazioni che
condizionano la sua validità religiosa. Queste idee di Newmann riprese e
sviluppate da Ollé-Laprune e da Blondel dettero lo spunto alla filosofia
dell’azione (v.). ASSENZA. V. NULLA. ASSERZIONE (gr. &répavote, Abyog
drtopam degli Stoici. E in realtà i due termini sono equivalenti, finchè non si
consideri il diverso contesto in cui trovano posto (v. ENUNCIATO e
PROPOSIZIONE). Nella logica matematica contemporanea Russell, sull'esempio di
Frege seguito da molti altri logici ha introdotto un simbolo speciale (° — ’)
da ante- porre al simbolo dell’asserzione. La logica termi- nistica medievale
riconosceva, invece che le espres- sioni «è vero che ‘p’» e ‘p’ (dove ’p’ è il
segno di una proposizione) sono da considerarsi sinonime. L’A. tuttavia implica
in ogni caso che si creda o si assentisca alla proposizione (v.) espressa; e
come tale è talora distinta da enunciato (v.). Cfr. .As- SENSO. G.P. ASSIALE,
EPOCA. V. Epoca. ASSICURAZIONE (ingl. Security; franc. As- surancej ted.
Assecuranz)ì. Un sistema di A. fu suggerito da Royce per realizzare quella che
egli chiamava la « Grande comunità » umana. L’A. è difatti un’associazione
fondata sul principio tria- dico dell’interpretazione: come in questa c’è l’in-
terprete che interpreta qualcosa a qualcuno, così nell’A. ci sono con lo stesso
rapporto l’assicurato, l'assicuratore e il beneficiario (La speranza nella
grande comunità, 1916). Royce ha anche suggerito lA. contro la guerra (Guerra e
A., 1914). ASSIOMA (gr. dElwua; lat. Axioma; inglese Axiom; franc. Axiome; ted.
Axiom). Originaria- mente la parola significa dignità o valore (gli Sco-
lastici e Vico dicevano appunto degnità) e fu adope- rata dagli Stoici per
indicare l’enunciato dichiarativo che Aristotele chiamava apofantico (Diog. L.,
VII, 65). I matematici l’usarono per designare i principi indimostrabili, ma
evidenti, della loro scienza. Ari- stotele ha dato la prima analisi di questa
nozione, intendendo per A. «le proposizioni prime da cui parte la dimostrazione
» (che sono i cosiddetti A. co- muni ) e in ogni caso i « principi che devono
essere necessariamente posseduti da chi vuol apprendere checchessia » (An.
post., I, 10, 76b 14; I, 2, 72a 15). Come tale l’A. è completamente diverso
dal- l’ipotesi e dal postulato (v.). Il principio di contrad- dizione è esso
stesso un A., anzi «il principio di tutti gli A. » (Mer., IV, 3, 1105 a 20
sgg.). Questo significato della parola come principio che appare immediatamente
evidente dai suoi stessi termini si è mantenuto costante attraverso l’antichità
e l’età moderna. «I princìpi immediati, dice S. Tommaso (In I Post., Lez. 5),
non sono conosciuti per il tra- mite di qualche termine medio ma attraverso la
conoscenza dei loro stessi termini. Posto che si sappia che cosa è il tutto e
che cosa è la parte, si riconosce che ‘il tutto è maggiore della parte ’
giacchè in tutte le proposizioni di questa specie il predicato è compreso nella
nozione del soggetto ». La verità dell’A. è in altri termini manifestata dalla
semplice intuizione dei termini che entrano a com- porlo. Veramente l’esempio
scelto da S. Tommaso si presta particolarmente a rivelare il carattere fit-
tizio dell’evidenza intuitiva cui sarebbe affidata la validità dell’assioma.
Già a poca distanza da S. Tommaso, Ockham riscontrava che il principio «il
tutto è maggiore della parte » non vale quando si tratta di tutti che
comprendono infinite parti e che non si può dire che nell’intero universo ci
siano più parti che in una fava, se in una fava ci sono in- finite parti
(Quodi., I, q. 9; Cent. theol., concl. 17, C). Dopo le ricerche di Cantor e di
Dedekind noi sap- piamo oggi che questo preteso A. è semplicemente la
definizione degli insieme finiti (v. INFINITO). Per più secoli si è cercato di
giustificare in un modo o nell’altro la validità assoluta degli A.; ma questa
validità non è stata posta in dubbio. Bacone ri- tenne gli A. ottenibili per
via di deduzioneo di induzione (Nov. org., I, 19) mentre Cartesio li ri- tenne
verità eterne che hanno sede nella nostra mente (Princ. Phil., I, 49); entrambi
però li cre- dettero verità immutabili. Locke considerò gli A. come
proposizioni, esperimenti, esperienze imme- diate (Saggio, IV, 7, 3 e sgg.) e
Leibniz invece li considerò come principi innati nella forma di di- sposizioni
originarie che l’esperienza rende espli- cite (Nouv. Ess., I, 1, 5); ma entrambi
attribui- rono ad essi il carattere di verità evidenti. Gli empiristi non hanno
dubitato della loro evidenza più dei razionalisti; Stuart Mill afferma che essi
sono «verità sperimentali, generalizzazioni dalla osservazione » (Logic, II, 5,
$ 4). Altrettanto evi- denti, ma a priori, sono gli A. per Kant che li
definisce « princìpi sintetici a priori in quanto immediatamente certi». La
certezza immediata, cioè l’evidenza, è, secondo Kant, la caratteristica degli
assiomi. La matematica possiede A. perchè essa procede mediante la costruzione
dei concetti. La filosofia, invece, che non costruisce i suoi con- cetti, non
possiede assiomi. Gli stessi A. dell’in- tuizione che Kant ha posto fra i
principi dell’in- telletto puro, non sono veramente A. secondo lo stesso Kant,
ma semplicemente contengono «il principio della possibilità degli A. in
generale» (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del met., Disciplina della ragion
pura, I). Nel mondo contemporaneo la nozione di A. ha subito la sua
trasformazione più radicale. La ca- ratteristica che lo definiva,
l'immediatezza della sua verità, la certezza, l’evidenza, gli è stata negata.
Questo risultato si deve allo sviluppo del formalismo matematico e logico, cioè
all’opera di Peano, Russell, 72 ASSIOMATICA Frege e Hilbert. Secondo il punto
di vista for- malistico, che è quello ora più diffuso, gli A. della matematica
non sono nè veri nè falsi, ma sono assunti convenzionalmente, in base a mo-
tivi di opportunità, come fondamenti o premesse del discorso matematico
(HiLBERT, « Axiomatischen Denken », in Math. Annalen, 1918). In tal modo gli A.
non si distinguono più dai postulati e le due parole vengono oggi usate
scambievolmente. La scelta degli A. è in una certa misura libera e in questo
senso si dice che gli A. sono « convenzio- nali» o «assunti per convenzione».
Ma in realtà questa scelta è limitata da esigenze o condizioni precise che si
possono riassumere nel modo se- guente: 1° Gli A. devono essere coerenti,
altrimenti il sistema che ne dipende diventa contraddittorio. E che il sistema
diventi contraddittorio significa che esso permette di dedurre qualsiasi cosa e
si può in esso dimostrare una proposizione qualsiasi come la sua negazione.
Poichè la prova della non con- traddittorietà non si può ottenere nell’interno
di un sistema (v. AssIoMaTICA), ci si avvale abitual- mente del sistema della
riduzione a una teoria anteriore la cui coerenza appare bene stabilita, per
es., all’aritmetica classica o alla geometria eu- clidea. Questo procedimento
indubbiamente non equivale a una dimostrazione di non contraddit- torietà, ma
fornisce un indizio importante. Un altro procedimento è la realizzazione, cioè
il riferimento del sistema a un modello reale; sul presupposto che ciò che è
reale deve essere possibile, quindi non contraddittorio. 2° Un sistema di A.
deve essere completo nel senso che di due proposizioni contraddittorie for-
mulate correttamente nei termini del sistema, una deve poter essere dimostrata.
Il che vuol dire che in presenza di una qualsiasi proposizione del si- stema,
si può sempre dimostrarla o confutarla e per conseguenza decidere sulla sua
verità o falsità in rapporto al sistema dei postulati. In questo caso il
sistema si chiama decidibile. 3° La terza caratteristica di un sistema di A. è
la loro indipendenza, cioè la loro irreducibilità re- ciproca. Tale condizione
non è così indispensabile come quella della coerenza, ma è opportuna per
evitare che le proposizioni primitive siano troppo numerose. 4° Infine il minor
numero possibile e la sempli- cità degli A. sono condizioni desiderabili che
confe- riscono eleganza logica ad un sistema di assiomi. ASSIOMATICA (ingl.
Axiomarics; franc. Axio- matique; ted. Axiomatik). L’A. si può considerare come
un risultato di quella aritmetizzazione della analisi che ha avuto luogo nelle
matematiche a partire dalla seconda metà del x1x secolo per im- pulso
soprattutto di Weierstrass. Il primo tenta- tivo di assiomatizzazione della
geometria fu fatto da Pasch nel 1882. All’assiomatizzazione delle ma- tematiche
ha poi contribuito il formalismo di Peano, Russell, Frege e specialmente
l’opera di Hilbert. Ma l’A. non si limita oggi al dominio delle matematiche: la
fisica la ricerca come suo scopo finale o almeno come sua formulazione ul- tima
e più soddisfacente: e ogni disciplina che raggiunga un certo grado di rigore
tende ad assu- mere la forma assiomatica. Il significato dell'A. può essere
riassunto brevemente nei punti seguenti: 1° Assiomatizzare una teoria significa
in primo luogo considerare, al posto di oggetti o di classi di oggetti forniti
di caratteri intuitivi, simboli op- portuni, le cui regole d’uso siano fissate
dalle re- lazioni enunciate dagli assiomi. Poichè tali simboli sono privi di
ogni riferimento intuitivo, la teoria formale così ottenuta è suscettibile di
molteplici interpretazioni, che si chiamano modelli. Ma il mo- dello qui non è
un archetipo preesistente alla teoria, e anche la teoria concreta originale,
che ha fornito i dati per lo schema logico dell’A., non è che uno di tali
modelli. La caratteristica dell'A. è quella di prestarsi a interpretazioni o a
realizzazioni dif- ferenti, delle quali essa costituisce la struttura lo- gica
comune. 2° Il metodo A. è un potente strumento di generalizzazione logica. Uno
dei modi di generaliz- zazione di tale metodo consiste nel far cadere suc-
cessivamente alcuni assiomi di una certa teoria deduttiva conservando gli altri
e così costruendo teorie sempre più astratte. Il sistema generato dal- l’A.
così ristretta, è coerente, se il sistema iniziale lo è, e costituisce una
generalizzazione di questo. 3° L’A. rende indispensabile distinguere tre modi
in cui si possono differenziare l’una dall'altra le teorie deduttive.
Consideriamo il caso della geo- metria euclidea. In primo luogo, se si modifica
uno dei suoi postulati, si otterranno altre geometrie che si dicono vicine ad
essa o imparentate con essa: in questo senso si parla di una pluralità di geo-
metrie. In secondo luogo, si può effettuare la ri- costruzione logica di una
qualsiasi di queste geo- metrie in più modi cioè secondo A. differenti; e
queste A. saranno eguivalenti fra loro. Infine, se si sceglie una di queste A.
si potranno il più delle volte trovare per essa interpretazioni differenti: ci
saranno cioè vari modelli di essa, modelli che sa- ranno detti isomorfi. Ci saranno
così: a) una plu- ralità di geometrie; 5) una pluralità di A. per una stessa
geometria; c) una pluralità di modelli per una stessa assiomatica. 4° La
caratteristica fondamentale dell'A. è la scelta e la chiara enunciazione delle
proposizioni primitive di una teoria, cioè degli assiomi che in-
ASSOCIAZIONISMO 73 troducono i termini indefinibili e stabiliscono le regole
d’uso indimostrabili. La scelta delle nozioni primitive è la parte fondamentale
nella costituzione di un’assiomatica. È ormai chiaro tuttavia che le stesse
nozioni di « primitivo +, « indefinibile », « in- dimostrabile » sono relative,
nel senso che un ter- mine indefinibile o una proposizione indimostrabile
nell’interno di un sistema possono diventare defi- nibili o dimostrabili se si
modificano le basi del sistema. Per es., nella geometria euclidea non si può
dimostrare il postulato delle parallele; ma se si rinuncia a dimostrare il
teorema che la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due retti, si può
assumere questa proposizione come un as- sioma, e dimostrare l’unicità della
parallela. Inoltre, spesso i termini non definiti sono implicitamente definiti
dall’insieme dei postulati prescelti (defini- zione per postulati). La scelta
dei postulati si dice che è libera: in realtà essa deve obbedire a partico-
lari condizioni che la limitano notevolmente; per queste condizioni v. ASSIOMA.
5° Si è detto (v. Assioma) che il limite fonda- mentale per la scelta degli
assiomi è la loro coerenza o compatibilità. Tuttavia un teorema di Gédel (1931)
ha stabilito che un’aritmetica non contrad- dittoria comporta enunciati non
decisi e tra questi enunciati c'è la non contraddizione del sistema aritmetico.
In altri termini non si può, rimanendo nell'àmbito di un sistema, stabilire la
non con- traddittorietà del sistema stesso. È questo uno dei limiti dell'A.
oltre quelli messi in luce dalla corrente intuizionista dei matematici (v. Ma-
TEMATICA). ASSIOMI DELL'INTUIZIONE (inglese Axioms of Intuition; franc. Axiomes
de l’intuition; ted. Axiomen der Anschauung). Kant ha indicato con
quest’espressione quei princìpi sintetici dell’in- telletto puro che derivano
dall’applicazione delle categorie all’esperienza e che esprimono la possi-
bilità delle proposizioni della matematica e della fisica pura. Tutti i princìpi
dell’intelletto puro hanno la funzione di eliminare il carattere soggettivo
della percezione dei fenomeni, riconducendo tale perce- zione a quella
connessione necessaria dei fenomeni stessi che è propria dell’esperienza
oggettivamente valida. In particolare, glmenti della coscienza, connessione per
la quale tali elementi, quali che siano, si richiamano l’un l’altro secondo
uniformità o leggi riconoscibili. La simiglianza, la continuità e il contrasto,
costituiscono le uniformità o le leggi fondamentali dell'A. che furono già ri-
conosciute da Platone (Fed., 76 a) e da Aristotele (De memoria et
reminiscentia, II, 451 b 18-20). In sèguito il fenomeno non ha più attratto
l’attenzione dei filosofi sino all’età moderna. Hobbes nel Le- viathan dedica
un capitolo (il III) all’A. delle imagini, ma fu Locke a creare l’espressione
stessa « A. delle idee» e a introdurre il fenomeno relativo come principio di
spiegazione della vita della coscienza. L’importanza che l’A. acquista per
opera di Locke deriva dal presupposto asulle connessioni naturali sono fondate
tutte le operazioni dello spirito umano: la conoscenza nei suoi vari gradi,
l’imaginazione, la volontà, ecc. Per Locke tuttavia l’A. delle idee assume
forme differentissime. Hume la ridusse in- vece a solo tre principi: la
rassomiglianza, la con- tiguità nel tempo e nello spazio e la causa ed effetto
(/ng. Conc. Underst., III). Abbandonato, dopo di Kant, in filosofia come
principio esplica- tivo dell’intera vita spirituale, l'A. è rimasta il
principio esplicativo della psicologia scientifica dalla metà dell’800 fino ai
princìpi del nostro secolo. Nel periodo contemporaneo la psicologia della forma
o gestaltismo (v.) ha impugnato lo stesso presupposto atomistico su cui si
fondava la teoria dell’associazione. ASSOCIAZIONISMO (ingl. Associationism;
franc. Associationnisme; ted. Associazionstheorie). L’indirizzo filosofico e
psicologico che assume come principio esplicativo dell’intera vita spirituale
l’as- sociazione delle idee (v.). Il presupposto dell'A. è l’atomismo
psicologico cioè la riscluzione di ogni 74 ASSOLUTISMO evento psichico in
elementi semplici che sono le sensazioni, le impressioni, o, genericamente, le
idee. Il fondatore dell'A. è Hume, ma uno dei suoi maggiori diffonditori fu il
medico inglese David Hartley (1705-57) per il quale l’associazione delle idee è
per l’uomo ciò che la gravitazione è per i pianeti: cioè la forza che determina
l’organizzazione e lo sviluppo del tutto. L’A. trovò altre manife- stazioni
importanti nell’opera di Giacomo Mill (1773-1836) che se ne servì nell’analisi
dei problemi morali spiegando con l’associazione tra il piacere proprio e
l’altrui il passaggio dalla condotta egoi- stica alla condotta altruistica; e
di Stuart Mill (1806-73) che se ne avvalse nella trattazione di problemi morali
e logici. Ma dopo Stuart Mill Il’A. ha cessato di essere una dottrina
filosofica viva; ed è rimasta soltanto come ipotesi operante nel do- minio
della psicologia scientifica dalla quale è stata esclusa solo negli ultimi
decenni ad opera della psicologia della forma (v. PSICOLOGIA). ASSOLUTISMO
(ingl. Absolutism; franc. Abso- lutisme; ted. Absolutismus). Termine coniato
nella prima metà del xvi secolo per indicare ogni dot- trina che difenda il «
potere assoluto » o la « sovra- nità assoluta » dello Stato. Nel suo senso
politico originario il termine ora designa: 1° l’A. utopistico di Platone nella
Repubblica; 2° l’A. papale affer- mato da Gregorio VII e da Bonifacio VIII,
riven- dicante per il Papa, come rappresentante di Dio sulla Terra, la
p/enitudo potestatis cioè la sovranità assoluta su tutti gli uomini compresi i
principi, i re e l’imperatore; 3° l’A. monarchico del xvi se- colo che trova il
suo difensore in Hobbes; 4° l’A. democratico, teorizzato da Rousseau nel
Contratto sociale e da Marx e dagli scrittori marxisti come «dittatura del
proletariato ». Tutte queste forme dell'A. difendono ugualmente, pur con motivi
o fondamenti vari, l’esigenza che il potere statale venga esercitato senza
limitazioni o restrizioni. L'esigenza oche deter- minano la condotta più
riuscita che si possa tenere ad un dato stadio di conoscenza. Chiunque vuol
trovare di più in queste asserzioni, scoprirà alla fine che ha inseguito una
chimera ». L’A. filoso- fico non è tanto di chi parla dell’Assoluto o ne
riconosce l’esistenza, ma di chi pretende che l’as- soluto stesso appoggi le
sue parole e dia ad esse un’incondizionata garanzia di verità. In questo senso
il prototipo dell’A. dottrinale rimane l’Idea- lismo romantico, secondo il
quale nella filosofia non è il filosofo come uomo che si manifesta e parla, ma
l’Assoluto stesso che giunge alla sua consapevolezza e si manifesta a se stesso.
ASSOLUTO (ingl. Absolute; franc. Absolu; ted. Absolut). Il termine latino
absolutus (sciolto da, staccato da, cioè liprovarla falsa »; il quale secondo
significato è meno dogmatico del primo. Così rispondere « As- solutamente no»
ad una domanda o ad una ri- chiesta, significa semplicemente avvisare che
questo «no» è saldamente appoggiato da buone ragioni e sarà mantenuto. Questi
usi comuni del termine corrispondono all'uso filosofico che, genericamente, è
quello di «senza limiti», «senza restrizioni », e quindi «illimitato » o «
infinito ». Molto probabil- mente la diffusione della parola, la quale ha
inizio dal °700 (per quanto sia stato Niccolò da Cusa ASSURDO 75 a definire Dio
come l’A., Docta ignor., II, 9) è dovuta al linguaggio politico e ad espressioni
come « potere A. », « monarchia A. +, ecc., nelle quali la parola significa
chiaramente «senza restrizioni » 0 « illimitato ». La grande voga filosofica
del termine è dovuta al Romanticismo. Fichte parla di una « deduzione A.», di
«attività A.», di «sapere A.», di «rifles- sione A.», di «Io A.», per indicare,
con questa ultima espressione, l’Io infinito, creatore del mondo. E nella
seconda fase della sua filosofia, quando cerca di interpretare l’Io come Dio fa
della parola un abuso che rasenta il ridicolo: « L’A. è assolu- tamente ciò che
è, riposa su e in se medesimo assolutamente », « Esso è ciò che è assolutamente
perchè è da se stesso... perchè accanto all’A. non rimane niente di estraneo ma
svanisce tutto ciò che non è l’A.» (Wissenschafislehre, 1801, $$ 5 e 8; Werke,
II, pag. 12, 16). La stessa inflazione della parola si trova in Schelling; il
quale, comfilosofia. Il Romanticismo ha così fissato l’uso della parola sia
come aggettivo sia come sostantivo. Secondo questo uso la parola significa « senza
restrizioni », « senza limitazioni », «senza condizioni »; e come sostan- tivo
significa la Realtà che è priva di limiti o con- dizioni, la Realtà suprema, lo
« Spirito » 0 « Dio ». Già Leibniz aveva detto: «Il vero infinito, a rigore,
non è che l'A. » (Nouv. Ess., II, 17, $ 1). E in realtà il termine può essere
considerato come sinonimo di « Infinito » (v.). Dato il posto centrale che la
nozione di infinito ha nel Romanticismo (v.) s’in- tende come questo sinonimo
abbia trovato acco- glimento e voga nel periodo romantico. In Francia la parola
fu importata da Cousin del quale sono noti i legami col Romanticismo tedesco.
In Inghilterra essa fu introdotta da William Hamilton, il cui primo scritto fu
uno studio sulla Filosofia di Cousin (1829); e la nozione divenne la base delle
discus- sioni sulla conoscibilità dell’A., iniziate da Ha- milton e Mansel e
continuate dall’evoluzionismo positivistico (Spencer, ecc.) che, come questi
due pensatori, affermò l’esistenza e insieme l’inconosci- bilità dell’Assoluto.
Nella filosofia contemporanea la parola è stata ampiamente usata appunto da
quella corrente che più strettamente si rifaceva al- l’Idealismo romantico,
cioè dall’Idealismo anglo- americano (Green, Bradley, Royce) e italiano (Gen-
tile, Croce) per designare la Coscienza infinita o lo Spirito infinito. La
parola rimane pertanto legata a una fase determinata del pensiero filosofico,
precisamente alla concezione romantica dell’Infinito, che com- prende e risolve
in sè ogni realtà finita e non è perciò limitato o condizionato da niente, non
avendo nulla fuori di sè che possa limitarlo o condizionarlo. Nel suo uso
comune come in quello filosofico il termine rimane a significare o lo stato di
ciò che, a qualsiasi titolo, è privo di condi- zioni e di limiti, o (come
sostantivo) ciò che rea- lizza se stesso in modo necessario e infallibile.
ASSORBIMENTO, LEGGE DI (ingl. Law of Absorption; franc. Loi d’absorption). Con
questo nome si designano nella Logica contemporanea i due teoremi dell’algebra
delle proposizioni: p»pa=pì P(pv9)=p e i
due corrispondenti teoremi dell'algebra delle classi: —avab=a; alavb)=a. L’A. è
in queste espressioni la possibilità logica di sostituire p a pvpgq 0 a p(pvg)
nelle prime espres- sioni; o a ad avab o ad a(avb) nelle seconde espressioni.
(Cfr. CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic, 15. 8). Fuori del linguaggio della
logica, la legge significa che, se un concetto ne implica un altro, esso
assorbe quest’altro, nel senso che l’asserzione simultanea dei due equivale
all’asser- zione del primo e può essere quindi sostituita dall’asserzione di
questo ogni volta che essa ricorra. Cfr. TAUTOLOGIA. ASSUNZIONE (gr. ji; lat.
Sumptio; in- glese Assumption, Sumption; franc. Assomption; ted. Vordersatz).
La proposizione che si sceglie come premessa del ragionamento; oppure l’atto di
scegliere una proposizione a questo scopo (cfr. Ci- CERONE, De divinatione, II,
53, 108). Più precisamente, la proposizione che si sceglie come prima premessa
del sillogismo e che talora è detta anche /emma (v.) (cfr. HAMILTON, Lectures
on Logic, 1, pag. 283). L’A. non implica necessariamente la verità della
premessa che si assume. Si può assumere una pro- posizione vera o un'ipotesi o
anche una proposi- zione falsa allo scopo di confutaria. Il termine è
equivalente a posizione (v.). ASSURDO (lat. &torov, &Sivarov; lat.
Absurdum; ingl. Absurd; franc. Absurde; ted. Absurd). In ge- nerale, ciò che
non trova posto nel sistema di 76 ASTRATTE, IDEE credenze cui si fa riferimento
o è in contrasto con qualcuna di tali credenze. Gli uomini, e i filosofi, hanno
sempre fatto un uso abbondante di questa parola per condanso più ristretto e
preciso la parola si- gnifica «impossibile » (adynaton) perchè contrad-
dittorio. In questo senso Aristotele parlava di un ragionamento per A. o di una
riduzione all’A.; che sarebbe un ragionamento che assume come ipo- tesi la
proposizione contrapposta alla conclusione che si vuol dimostrare e fa vedere
che da tale ipotesi deriva una proposizione contraddittoria con l’ipo- tesi
stessa (An. Pr., II, 11-14, 61a sgg.). La di- mostrazione per A., aggiunge
Aristotele (/bid., 14, 62 b 27) si differenzia dalla dimostrazione ostensiva
perchè assume ciò che, con la riduzione all’errore riconosciuto, vuol
distruggere; la dimostrazione ostensiva, invece, parte da premesse già ammesse.
Leibniz chiamò dimostrazione apagogica il ragiona- mento per A. e lo ritenne
utile o almeno difficil- mente eliminabile, nel dominio della matematica (Nouv.
Ess., IV, 8, $ 2). Kant che adopera lo stesso nome, lo giustificò nelle scienze
ma lo escluse dalla filosofia. Lo giustificò nelle scienze perchè in queste è
impossibile il modus ponens di conchiudere alla verità di una conoscenza dalla
verità delle sue conseguenze: bisognerebbe infatti conoscere tutte le
conseguenze possibili: il che è impossibile. Ma se da una proposizione può
essere ricavata anche una sola conseguenza falsa, la proposizione è falsa:
perciò il modus tollens dei sillogismi conchiude insieme con rigore e con
facilità. Ma questo modo di ragionare è senza pericoli solo nelle scienze in
cui non si può scambiare l’oggettivo col soggettivo, cioè nelle scienze della
natura. In filosofia invece quello scambio è possibile, cioè può darsi che sia
soggettivamente impossibile ciò che non è oggetti- vamente impossibile. E
quindi il ragionamento apa- gogico non porta a conclusioni legittime (Critica
R. Pura, Disciplina della ragion pura, IV). ASTRATTE, IDEE. V. ASTRAZIONE.
ASTRATTE, SCIENZE. V. Scienze, CLAS- SIFICAZIONE DELLE. ASTRATTIVA, CONOSCENZA
(lat. Co- gnitio abstractiva; ingl. Abstractive Knowledge; fran- cese
Connaissance abstractive; ted. Abstrahierende Erkenntnîss). Termine che Duns
Scoto adoperò, simmetricamente od oppostamente a quello di cono- scenza
intuitiva (cognitio intuitiva), per indicare una delle specie fondamentali
della conoscenza: la prima delle quali « astrae da ogni esistenza aTRAZIONE 77
alla quantità discreta e continua; il fisico prescinde da tutte le
determinazioni dell’essere che non si riducono al movimento. Analogamente il
filosofo spoglia l’essere di tutte le determinazioni partico- lari (quantità,
movimento, ecc.) e si limita a con- siderarlo solo in quanto essere» (Mer., XI,
3, 1061 a 28 sgg.). L’intero procedimento del conoscere può essere, secondo
Aristotele, descritto con l’A.: «La conoscenza sensibile consiste infatti
nell’assumere le forme sensibili senza la materia come la cera assume
l’impronta del sigillo senza il ferro o l’oro di cui esso è composto è (De An.,
II, 12, 424 a 18). E la conoscenza intellettuale riceve le forme intel-
ligibili astraendole dalle forme sensibili nelle quali sono presenti (/bid.,
III, 7, 431 sgg.). All’opera- zione dell’A., S. Tommaso riduce la conoscenza
intellettuale; la quale è un astrarre la forma dalla materia individuale e così
trarre fuori l’universale dal particolare, la specie intelligibile dalle
imagini singole. AI modo in cui possiamo considerare il colore di un frutto
prescindendo dal frutto, senza perciò affermare che esso esista separato dal
frutto; così possiamo conoscere le forme o specie univer- sali dell’uomo, del
cavallo, della pietra, ecc., pre- scindendo dai princìpi individuali cui vanno
unite, ma senza pretendere che esistano separatamente da questi. L’A. perciò
non falsifica la realtà ma solo rende possibile la considerazione separata
della forma e con ciò la conoscenza intellettuale umana (S. 7h., I, q. 85, a.
1). Questi concetti, o concetti affini, ricorrono in tutta la Scolastica. La
Logica di Porto Reale (I, 4) ha riassunto assai bene il pen- siero della
Scolastica e la stretta connessione del procedimento astrattivo con la natura
dell’uomo, dicendo: «La limitazione della nostra mente fa sì che non possiamo
comprendere le cose composte se non considerandole nelle loro parti e contem-
plando le facce diverse con cui esse ci fronteggiano: ciò è quello che si suole
generalmente chiamare conoscere per A. ». Locke per primo ha messo in luce la
stretta con- nessione del procedimento dell’A. con la funzione simbolica del
linguaggio. « Mediante l’A., egli dice, le idee tratte da esseri particolari diventano
le generali rappresentanti di tutti gli oggetti della stessa specie e i loro
nomi diventano nomi generali, applicabili a tutto ciò che esiste ed è conforme
a tali idee astratte... Così, venendo oggi osservato nel gesso o nella neve lo
stesso colore che ieri lo spirito ha ricevuto dal latte, esso considera quel
solo aspetto e ne fa la rappresentazione di tutte le altre idee dalla medesima
specie; e avendogli dato il nome ‘bianchezza’ con questo suono significa la
medesima qualità, dovunque essa venga imaginata o incontrata; e così vengono
composti gli universali, sia che si tratti di idee, sia che si tratti di
termini » (Saggio, II, 11, $ 9). Proprio sulla base di queste osservazioni di
Locke, Berkeley giunse alla nega- zione dell’idea astratta e della stessa
funzione della astrazione. Egli nega, in altri termini, che l’uomo possa
astrarre l’idea del colore dai colori, l’idea dell’uomo dagli uomini, ecc. Non
c’è infatti l’idea di un uomo che non abbia alcun carattere parti- colare, come
non c’è in realtà un uomo di tal genere. Le idee generali, non sono idee prive
di ogni carat- tere particolare (cioè « astratte »), ma idee partico- lari
assunte come segni di un gruppo di altre idee particolari fra loro affini. Il
triangolo che un geo- metra ha presente per dimostrare un teorema non è un
triangolo astratto, ma un triangolo particolare, per es., isoscele; ma poichè
di tale carattere parti- colare non si fa menzione nel corso della dimo-
strazione, il teorema dimostrato vale per tutti indi- stintamente i triangoli,
ognuno dei quali può prendere il posto di quello considerato (Princ. of Hum.
Know., Intr., $ 16). Hume ripetette l’analisi negativa di Berkeley (7reazise,
I, 1, 7). Tali analisi tuttavia non negano l’A., ma piuttosto la sua nozione
psicologica in favore del concetto logico-simbolico di essa. L’A. non è l’atto
con cui lo spirito pensa certe idee separatamente da certe altre; è piuttosto
la funzione simbolica di certe rappresentazioni par- ticolari. Kant tuttavia
sottolinea l’importanza del- l’A. nel senso tradizionale, mettendola accanto
alla attenzione come uno degli atti ordinari dello spirito e sottolineando la
sua funzione di separare una rappresentazione, di cui si è coscienti, dalle
altre con cui essa è legata nella coscienza. Per quanto egli esemplifichi in
modo curioso l’importanza di questo atto (« Molti uomini sono infelici perchè
non sanno astrarre ». « Un celibe potrebbe fare un buon matrimonio se soltanto
sapesse astrarre da una verruca del viso o dalla mancanza di un dente della sua
amata », [Aner., $ 3]), è chiaro che l’intero procedimento di Kant inteso a
isolare (isolieren) gli elementi a priori della conoscenza o in generale
dell’attività umana, è un procedimento astrattivo. «In una logica
trascendentale, egli dice per es., noi isoliamo l'intelletto (come sopra,
nell’Estetica trascendentale, la sensibilità) e rileviamo di tutta la nostra
conoscenza soltanto la parte del pensiero che ha la sua origine unicamente
nell’intelletto » (Crit. R. Pura, Div. della Log. trascend.). Con Hegel si assiste
allo strano fenomeno di una sopravvalutazioperciò, secondo Hegel, la realtà
stessa, anzi la sostanza della realtà. Dall’altro lato, tuttavia, l’astratto è
considerato da Hegel come ciò che è finito, immediato, non posto in relazione
col tutto, non risolto nel divenire del- l’Idea, e perciò prodotto di una
prospettiva provvi- soria c fallace. «L’astratto è il finito, il concreto è la
verità, l’oggetto infinito » (Phil. der Religion, II, in Werke, ed. Glockner,
XVI, pag. 226). «Soltanto il concreto è il vero, l’astratto non è il vero »
(Geschi- chte der Phil., III, in Werke, ed. Glockner, XIX, pag. 99). È chiaro
tuttavia che Hegel intende per astratto quello che comunemente si chiama con-
creto — le cose, gli oggetti particolari, le realtà singole offerte o
testimoniate dall’esperienza — mentre chiama me immanenza di esso nelle
rappresentazioni singole e dell’« astrattezza » delle nozioni considerate
avulse dai particolari (Lo- gica, 48 ediz., 1920, pag. 28). Bergson ha
costante- mente contrapposto il tempo «concreto» della coscienza al tempo «
astratto» della scienza; e in generale il procedimento della scienza che si av-
vale di concetti o simboli cioè di «idee astratte o generali» al procedimento
intuitivo o simpate- tico della filosofia (cfr., per es., La pensée et le
mouvant, 3» ediz., 1934, pag. 210). Simili temi polemici sono stati assai
frequenti nella filosofia dei primi decenni del nostro secolo. E certamente la
polemica contro l’A. è stata efficace contro la tendenza ad entificare i
prodotti di essa cioè a con- siderare come sostanze o reogo alle vere e proprie
entità astratte, per es., nella matematica. «Il più ordinario fatto della
percezione, come, ad es., ‘ c’è luce ® implica A. precisiva o prescissione. Ma
l’A. ipostatica, l'A. che trasforma il ‘c’è luce’ in ‘c’è la luce qui’ che è il
senso ch'io do comunemente alla parola A. (dal momento che prescissione in-
dica l’A. precisiva) è un modo specialissimo del pensiero. Esso consiste nel
prendere un certo aspetto di un oggetto o di più oggetti percepiti (dopo che è
stato già prescisso dagli altri aspetti di tali oggetti) e di esprimerlo in
forma proposizionale con un giudizio » (Coll. Pap., 4.235; cfr. 3.642; 5.304).
Questa distinzione che era stata già accennata da James (Princ. of Psychol., I,
243) ed è stata accet- tata da Dewey (Logic, cap. 23; trad. ital., pag. 603-
604) non toglie che sia la prescissione sia l’A. ipo- statica sono
specificazioni di quella generale funzione selettiva, che tradizionalmente è
stata indicata con la parola « astrazione ». Paul Valéry ha poeticamente
insistito sull’importanza dell’A. in ogni costruzione umana quindi anche
nell’arte: « L'uomo, ti dico, fabbrica per A.; ignorando e dimenticando gran
parte delle qualità di ciò che impiega, applicandosi soltanto a condizioni
chiare e distinte che possono per lo più essere simultaneamente soddisfatte non
da una ma da più specie di materie» (Eupalinos, trad. ital., pag. 134).
ASTRAZIONISMO (ingl. Abstractionism; franc. Abstractionnisme; ted.
Abstraktionismus). Così William James (The Meaning of Truth, 1909, capi- tolo
XIII) chiamò l’uso illegittimo dell’astrazione e in particolare la tendenza a
considerare come reali i prodotti dell’astrazione. ASTROLOGIA (gr. dotpodoria;
lat. Astrologia; ingl. Astrology; franc. Astrologie; ted. Astrologie). La
credenza nell’influsso dei movimenti degli astri sul destino degli uomini e la
scienza, o pretesa scienza, fondata su questa credenza. L'A. è legata con la
nascita dell’astronomia nel mondo orientale e ha accompagnata l’astronomia nella
prima parte della sua storia. Secondo F. Cumont, furono i Caldei i primi a
concepire l’idea di una necessità inflessibile che regoli l’universo e a
sostituire tale idea a quella di un mondo retto da dèi in confor- mità delle
loro passioni. L’idea fu ad essi suggerita ATEISMO 79 dalla regolarità dei
movimenti dei corpi celesti (CumonT, Oriental Religions in Roman Paganism,
trad. ingl., pag. 179). Questa credenza condusse a stabilire una corrispondenza
tra il macrocosmo (mondo) e il microcosmo (uomo): corrispondenza in virtù della
quale gli avvenimenti dell’uno si ri- fletterebbero negli avvenimenti
dell’altro e sarebbe possibile, a partire dalla conoscenza dei primi, predire
in qualche modo i secondi. L’A. si diffuse in Occidente nel periodo
greco-romano. La filo- sofia araba la giustificò, proprio come gli antichi
Caldei, sul fondamento della necessità universale che lega insieme tutti gli
eventi del mondo e che da Dio, come primo motore, va sino agli eventi umani.
Questa catena necessaria passa attraverso gli avvenimenti celesti: gli
avvenimenti terrestri, e quelli umani, non sono determinati direttamente da
Dio, ma sono determinati da lui per il tramite degli avvenimenti celesti, cioè
dei movimenti degli astri. Sicchè tali movimenti sono quelli che imme-
diatamente determinano gli eventi del mondo sub- lunare e quindi del mondo
umano; e la conoscenza di essi rende possibile la previsione di questi. Le
credenze astrologiche erano comuni nel Medioevo, nonostante le condanne
ecclesiastiche: Dante stesso ne partecipava (Conv., II, 14; Purg., XXX, 109 se-
guenti). Nel Rinascimento furono difese e giusti- ficate da uomini come
Paracelso, Bruno, Campa- nella. Quest'ultimo dedicò all’A. un’opera Astro-
logicorum Libri VII, 1629, e si avvalse di essa per confermare il suo vaticinio
dell’imminente ri- torno del mondo all’unità religiosa e politica (Atheismus
triumphatus, 1627). Altri filosofi furono ostili all’astrologia, pur ammettendo
la validità della magia. Così fece, per es., Pico della Miran- dola che scrisse
le Disputationes adversus Astrologos nelle quali accusa l’A. di rendere gli
uomini servi e miserabili; e così fece Giovan Battista Helmont negando
l’influsso degli astri sugli avvenimenti umani (De Vita Longa, 15, 12). L’A. ha
perduto il suo fondamento scientifico con la scienza moderna, la quale esige,
per poter affermare un qualsiasi rapporto causale, che tale rapporto sia
riscontrato uniforme in un numero di casi sufficientemente grande. Il rapporto
causale tra i movimenti degli astri e gli eventi umani po- trebbe pertanto
essere riconosciuto come tale solo sul fondamento di osservazioni ripetute e
ripetibili, che ne mettessero in luce tutti gli anelli intermedi, in modo da
farne comprendere il funzionamento. Niente del genere si è verificato nell’A.
la quale tuttora si fonda su antichi testi e tradizioni, su simbolismi non
suscettibili di controllo e su cre- denze magiche o teosofiche. D'altronde, le
credenze astrologiche rimangono tra le più diffuse anche nel mondo
contemporaneo, permeato com'è di spirito scientifico: forse lo spirito
contemporaneo trova in esse un correttivo all'assenza di sicurezza che è
caratteristica della sua situazione e nelle pre- dizioni astrologiche una via
per limitare, sia pure in modo arbitrario e fantastico, le previsioni in- torno
al suo destino prossimo o lontano. ASTRUSO (lat. Abstrusus [= nascosto]; in-
glese Abstruse; franc. Abstrus; ted. Abstrus). Ter- mine peggiorativo per
qualificare qualsiasi nozione inconsueta o di difficile comprensione; 0, come
dice Locke (Saggio, II, 12, $ 8) «lontana dai sensi e da ogni operazione del
nostro spirito ». Il termine è applicato soprattutto a nozioni astratte; ma
viene ugualmente applicato a nozioni che si allon- tanino, più o meno,
dall’ordinario universo di discorso. ASTUZIA DELLA RAGIONE (ingl. Astu- teness
of the Reason; franc. Astuce de la raison; ted. List der Vernunfr). Così Hegel
ha chiamato il fatto che l’Idea universale fa agire nella storia le passioni
degli uomini come suoi strumenti e le fa logorare e consumarsi per i propri fini.
« L’Idea paga il tributo dell’esistenza e della caducità non di sua tasca ma
con le passioni degli individui. Cesare doveva compiere quello che era
necessario per rovesciare la decrepita libertà; la sua persona perì nella lotta
ma quello che era necessario restò: la libertà secondo l’idea giaceva più
profonda del- l’accadere esterno » (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag.
83-84; trad. ital, pag. 98). ATANATISMO (ingl. Arhanatism; franc. Atha-
natisme; ted. Athanatismus). Così fu chiamata da alcuni autori dell’800 la
dottrina dell’immortalità dell’anima. ATARASSIA (gr. drapazla; ingl. Afaraxia;
franc. Ataraxie; ted. Ataraxie). Termine usato dap- prima da Democrito (Fr.,
191) poi dagli Epicurei e dagli Stoici per designare l’ideale della impertur-
babilità o della serenità dell’anima derivante dal dominio sulle passioni o
dall’estirpazione di esse (v. ApATIA). Analogamente «Il fine dello scetti-
cismo è l’A. nelle cose opinabili e la moderazione nelle cose che sono per
necessità » (SESTO E., /potip. Pirr., I, 25). ATEISMO (gr. a0e6mns; lat.
Arheismus; inglese Atheism; franc. Athéisme; ted. Atheismus). È, in generale,
la negazione della causalità di Dio. Il riconoscimento dell’esistenza di Dio
può ac- compagnarsi con l’ateismo se non include anche il riconoscimento della
causalità specifica di Dio. La prima analisi dell'A. che la storia della fi-
losofia ricordi è quella di Platone nel X libro delle Leggi. Platone considera
tre forme di A.: 1° la negazione della divinità; 2° la credenza che la divinità
esista ma non si curi delle cose umane; 3° la credenza che la divinità possa
essere propi- 80 ATEISMO ziata con doni ed offerte. La prima forma è il
materialismo: il quale dipende dall’opinione che la natura precede l’anima e
cioè che la materia « dura e molle, pesante e leggera» preceda «l’opinione, la
previsione, l’intelletto, l’arte e la legge ». Questo è l’errore di tutti i
filosofi della natura che pongono l’acqua, o l’aria o il fuoco come principi
delle cose e li chiamano «natura» per intendere che sono l'origine di esse
(Leggi, X, 891 c, 892 b). Per con- futare il materialismo non c’è che da
dimostrare che l’anima precede la natura; e Platone dimostra come lo stesso
movimento dei corpi materiali pre- suppone un Primo Motore immateriale (v. Dro,
Prove DI). La seconda forma di A., che consiste nel ritenere che la divinità
non si occupa delle cose umane, è confutata da Platone con l’argomento che essa
equivarrebbe ad ammettere che la divinità è pigra e indolente e a ritenerla
inferiore al più comune mortale che sempre vuol rendere perfetta l’opera sua,
grande o piccola che sia. Infine la peggiore aberrazione è quella dei malvagi i
quali credono di poter propiziarsi la divinità con doni ed of- ferte. Costoro
pongono la divinità stessa alla pari dei cani che, ammansiti dai doni, permet-
tono di depredare le greggi e al di sotto degli uomini comuni che non
tradiscono la giustizia accettando doni delittuosamente offerti. Platone è così
severo con quest’ultima forma di A. che, per evitarla, vorrebbe impedire ogni forma
di sacrificio privato ed ammettere solo quelle effet- tuate sui pubblici altari
e con rituale stabilito (Leggi, X, 909 d). L’analisi di Platone assomma a dire
che l’unica forma di A. filosofico è il materialismo naturalistico, il quale
pone il corpo prima dell’anima; le altre due forme sono piuttosto pregiudizi
volgari che credenze filosofiche (sebbene la prima di esse, l’indifferen- tismo
degli dèi, doveva essere fatta propria dagli Epicurei). Uno sguardo al corso
ulteriore della filo- sofia occidentale mostra che accanto al materialismo,
possono essere considerati, come forme di A. filoso- fico, lo scetticismo, il
pessimismo e il panteismo. 1° Nell’età moderna la coincidenza di mate- rialismo
e A. è stata affermata da Berkeley che appunto da questa coincidenza è stato
indotto a sostenere l’irrealtà della materia (v. IMMATERIA- LIsMO). Se si
ammette che la materia è reale l’esi- stenza di Dio diventa inutile perchè la
materia stessa diventa la causa di tutte le cose e delle idce che sono in noi.
L’esistenza della materia è il principale fondamento dell'A. e del fatalismo e
della stessa idolatria (Prince. of Hum. Knowledge, $$ 92-94). In linea di fatto
si può dire che non la realtà della materia, ma solo la causalità della materia
è uno dei fondamenti dell’ateismo. Il materialismo sette- centesco di La
Mettrie e d’Holbach come quello ottocentesco di Luigi Buchner, di Ernesto
Heckel e di Felice Le Dantec hanno appunto questo fon- damento. Dio viene
eliminato come principio cau- sale di spiegazione perchè si ammette come tale
la materia. 2° La seconda forma di A. filosofico è quella scettica, che trova
la sua prima manifestazione nel neo-accademico Carneade di Cirene (214-129 a.
C.). Questi non solo fa vedere la debolezza delle prove che si adducono dell’esistenza
della divinità, ma mostra le difficoltà inerenti al concetto di divinità. Per
es., Carneade dice: « Se esistono, gli dèi sono viventi, se viventi sentono...
Se sentono, ricevono piacere o dolore. E se ricevono dolore sono capaci di
turbamento e mutazioni in peggio; e così sono mortali» (Sesto E., Adv. math.,
IX, 139-40). Un punto di vista analogo a quello di Carneade è stato elaborato
nell'età moderna da Hume nei suoi Dialoghi sulla religione naturale. Hume
ritiene che una prova « priori dell’esistenza di Dio sia impos- sibile perchè
l’esistenza è sempre materia di fatto. Quanto alle prove a posteriori, egli
rigetta la validità di una prova cosmologica, ritenendo illegittimo chiedersi
la causa di una collezione di individui. « Se, egli dice, si mostra la causa di
ciascun individuo di una collezione che comprende venti individui, è assurdo
domandare poi la causa dell’intera col- lezione che è stata già data con le
cause particolari. Questo vuol dire che non ha senso domandarsi la causa del
mondo nella sua totalità. Maggior va- lore ha la prova fisico-teologica; ma
essa può con- sentire soltanto di risalire ad una causa proporzio- nata
all’effetto; e poichè l’effetto, cioè il mondo, è imperfetto e finito, la causa
dovrebbe essere al- trettanto imperfetta e finita. Ma se la divinità si
riconosce imperfetta e finita, manca il motivo per riconoscerla unica. Se una
città può essere co- struita da più uomini, perchè l'universo non po- trebbe
essere stato creato da più deità o dèmoni? » (Works, Il, 1827, pag. 413). Da
ultimo la disputa tra teismo e A. diventa una questione di parole: « Il teista
ammette che l’intelligenza originale è assai di- versa dalla ragione umana.
L’ateista ammette che il principio originale dell’ordine ha qualche remota
analogia con la ragione stessa. Volete allora, miei signori, bisticciare
intorno al grado dell’analogia ed entrare in una controversia che non ammette
preciso significato nè conseguentemente una con- clusione qualsiasi? » (/bid.,
pag. 535). Questo tipo di scetticismo non è tuttavia, come spesso il materia-
lismo, una forma di professato A.: esso ténde, come si vede, a togliere ogni
valore drammatico alla di- sputa sull’A. e a dimostrarla da ultimo
insignificante. 3° La terza forma di A. è il panteismo (v.). Anche qui non si
tratta di un professato A. ma piuttosto di un'accusa che spesso viene rivolta a
ATOMISMO 81coloro che identificano Dio col mondo. L’accusa di A. è stata per
molto tempo rivolta a Spinoza per il suo Deus sive Natura: in realtà, come
notava Hegel, più esattamente si sarebbe dovuto parlare di acosmismo (v.).
Accuse di A. furono rivolte anche a Fichte in séguito ad un articolo pubblicato
nel 1798 nel Giornale filosofico di Jena, « Sul fon- damento della nostra
credenza nel governo divino del mondo», nel quale s’identificava Dio con l’or-
dine morale del mondo. Per la polemica che seguì a questo articolo, Fichte fu
costretto a dimettersi dal- l’Università di Jena. Fichte, come Spinoza,
rigettava l’accusa di A.; e, comunque si voglia giudicare la cosa, è certo che
il panteismo non è A. professato. 4° A. professato è invece, in alcune delle
sue forme, il pessimismo. Il disordine, il male, l’infeli- cità del mondo sono,
secondo Schopenhauer, osta- coli insormontabili sia all’affermazione del Dio
personale che è richiesto dal teismo, sia all’identi- ficazione del mondo con
Dio operata dal panteismo (Selected Essays, trad. ingl. Belfort-Bax, pag. 71).
Teismo e panteismo presuppongono l’ottimismo che non solo è smentito dai fatti
in quanto viviamo nel peggiore dei mondi possibili, ma è anche pernicioso
perchè non fa altro che legare gli uomini alla spie- tata e crudele volontà di
vita (Die Welt, ecc., II, cap. 46). Nella filosofia contemporanea, la dottrina
di Sartre rappresenta un A. pessimistico aggior- nato coi nuovi indirizzi della
speculazione. Non è il male o il dolore come tale il fondamento di questo
pessimismo; ma piuttosto l'ambiguità radicale, l’in- certezza dell’esistenza
umana gettata nel mondo e dipendente soltanto dalla propria assoluta libertà
che la condanna allo scacco. Non c’è Dio, secondo Sartre, ma c’è l’essere che
progetta di essere Dio, cioè l’uomo: progetto che è nello stesso tempo l’atto
della libertà abissò nel mare e scomparve, rendendo impraticabile e ine-
splorabile il mare nel quale era situata (7im., 24 sgg.). La Nuova A. è
un’opera postuma di Bacone, pubblicata nel 1627. È la descrizione di 8 —
ARRAGNANO, Dizionario di filosofia. una società in cui la scienza, posta a
servizio dei bisogni umani, ha scoperto o va scoprendo le tecniche per far dell’uomo
il dominatore dell’uni- verso. La Nuova A. è perciò un paradiso della tecnica
dove sono portati a compimento le inven- zioni e i ritrovati di tutto il mondo
e ha l’aspetto di un enorme laboratorio sperimentale nel quale gli abitanti
cercano di « estendere i confini dell’im- pero umano ad ogni cosa possibile ».
I numi tutelari dell’isola sono i grandi inventori di tutti i paesi e le sacre
reliquie sono gli esemplari di tutte le più rare e importanti invenzioni.
ATOMICO (ingl. Atomic; franc. Atomique; ted. Atomik). Elementare, non
riducibile a parti costitutive più semplici. Fatto A.: si è tradotto con questa
espressione ciò che Wittgenstein aveva chia- mato «stato di cose»
(Sachkverhalte) cioè il fatto in quanto costituisce l’elemento ultimo del mondo
(Tract. logico-philos., 1922, 2). Proposizione A.: la proposizione elementare
cioè quella che « asse- risce l’esistenza di un fatto A. + (/bid., 4. 21). Cor-
risponde alla propositio categorica della logica sco- lastica: è una
proposizione immediatamente vera o falsa (appunto come imagine di un fatto A.),
non scomponibile in altre proposizioni più sem- plici. G. P.-N. A. ATOMISMO (ingl.
Aromism; franc. Atomisme; ted. Atomismus). S’intendono con questa parola tre dottrine diverse,
che hanno scopi diversi, e precisamente: 1° l’A. filosofico o naturalismo ato-
mistico; 2° la teoria atomica; 3° la concezione atomistica della realtà
psichica o sociale o del lin- guaggio. 1° L’A. filosofico è quello di Democrito
e Leucippo, degli Epicurei e di Gassendi. Esso è una filosofia della natura che
non ha maggiori basi sperimentali della fisica aristotelica (v. ATOMO). 2° La
teoria atomica (ingl. Atomic Theory; franc. Théorie atomique; ted. Atomtheorie)
è quella formulata nella scienza moderna per la prima volta da Dalton, ed
esprime il modello che la scienza si è via via fatta dell’aromo (v.). 3° La
concezione atomistica (ingl. Atomistic Idea; franc. Idée atomistique; ted.
Atomistisches Denken) consiste nel proporre per la spiegazione della vita della
coscienza o della società o del linguaggio un’ipotesi analoga a quella dell’A.
filo- sofico o della teoria atomica assumendo che co- scienza o società o
linguaggio siano costituiti da elementi semplici irreducibili, la cui diversa
com- binazione ne spieghi tutte le modalità. Così fa l’associazionismo (v.) per
la vita della coscienza e l’individualismo (v.) per la vita della società. Si
parla pertanto di A. associazionistico (per es., ne parlava JAMES, Psychology,
I, 1890, pag. 604 e ne parla KATZ, Gestalipsychologie, cap. 1). L’espres- 82
ATOMISTICO sione «A. sociale» ricorre frequentemente a de- signare le dottrine
individualistiche che ritengono la società risolvibile interamente negli
individui che la compongono. Infine l’espressione « A. logico » fu adoperata da
Russell nel 1918 per indicare la sua filosofia. «La ragione per cui io chiamo
la mia dottrina A. logico, egli diceva, è che gli atomi ai quali desidero
arrivare come residui ultimi della analisi sono atomi logici e non atomi fisici
» (« The Phil. of Logical Atomism», in The Monist, 1918, ora in Logic and
Knowledge, London, 1956). Già nel libro Merodo scientifico in filosofia (1914)
aveva parlato di « proposizione atomica » intendendo la proposizione che
esprime un fatto cioè che afferma che una cosa ha una certa qualità o che certe
cose hanno certe relazioni; e aveva chiamato « atomico » il fatto espresso
dalla proposizione atomica. Questi concetti costituiscono anche i capisaldi del
Tractatus Logico-Philosophicus (1922) di Wittgenstein. ATOMISTICO. V. AtoMisMo.
ATOMO (gr. &ropov; ingl. Atom; franc. Atome; ted. Arom). La nozione di A.
ha offerto alla filo- sofia occidentale una delle più importanti alterna- tive
di speculazione e di ricerca. Essa è stata infatti lo strumento principale
della spiegazione mec- canica delle cose e in generale del mondo (v. Mec-
canIcisMo). Leucippo e Democrito elaborarono nel sec. v a. C. questa nozione:
l’A. è un elemento corporeo, invisibile per la sua piccolezza e non divisibile.
Gli A. differiscono solo per forma e grandezza; unendosi e disunendosi nel
vuoto de- terminano la nascita e la morte delle cose e dispo- nendosi
diversamente ne determinano la diversità. Aristotele (Mer., I, 4, 985 b 15
sgg.) li paragonò alle lettere dell'alfabeto, che differiscono fra loro per la
forma e danno luogo a parole e a discorsi diversi, disponendosi e combinandosi
diversamente. Le qua- lità dei corpi dipendono dunque o dalla figura degli A. o
dall’ordine e dal movimento di essi. Perciò non tutte le qualità sensibili sono
oggettive e appartengono veramente alle cose che le provocano in noi. Sono
oggettive le qualità proprie degli A.; la forma, la durezza, il numero, il
movimento; invece il freddo, il caldo, i sapori, i colori, gli odori, sono
soltanto apparenze sensibili provocate bensì da speciali figure o combinazioni
di A., ma non appartenenti agli A. stessi (DeMOCRITO, Fr. 5, Diels). Il
movimento degli A. è determinato da leggi immutabili: « Nessuna cosa, dice
Leucippo {Fr. 2) accade senza ragione ma tutto accade per una ragione e di
necessità ». Il movimento originario degli A. facendoli roteare e urtarsi in
tutte le direzioni produce un vortice dal quale le parti più pesanti sono
portate al centro e le altre invece respinte verso la periferia. Il loro peso,
che li fa tendere verso il centro, è dunque un effetto del loro movimento
vorticoso. In questo modo si formano infiniti mondi che incessantemente si
generano e si dissolvono. Questi capisaldi, propri del vecchio atomismo,
rimasero immutati nelle altre forme dell’atomismo. La fisica di Epicuro rappresenta
una ripetizione della fisica democritea: non molta importanza ha difatti la
variante di Epicuro che gli A. cadono in linea retta e che s’incontrano e
producono vor- tici quando, senza causa, deviano dalla traiettoria rettilinea
(CICERONE, De fin., I, 18; De nat. deor., I, 69). La nozione dell’A. non viene
utilizzata per tutto il Medioevo, durante il quale l’unica teoria fisica
accettata è quella aristotelica delle quattro cause (v. Fisica). E ai principi
dell’età moderna, per quanto la nozione ritorni occasionalmente — per es., in
Cusano e in Giordano Bruno (De mi- nimo, I, 2) — non viene utilizzata come
strumento di una teoria sistematica se non da Pierre Gassendi. Questi però,
ammettendo che gli A. sono creati da Dio, da lui dotati di movimento, e da lui
guidati e ordinati mediante una specie di anima del mondo, fa perdere alla
fisica epicurea il carattere materia- listico e meccanico e la trasforma in una
fisica spiritualistica e finalistica (Synragma Philosophiae Epicuri, 1658). Nel
frattempo Cartesio aveva dato luogo al meccanismo non atomistico e considerato
impossibile la stessa nozione di atomo. «Se gli A. esistessero, egli disse,
dovrebbero necessaria- mente essere estesi e in tal caso, per quanto si
imaginassero piccoli potremmo sempre dividerli col pensiero in due o più parti
minori e riconoscerli perciò come divisibili » (Princ. Phil., II, 20) Fu
probabilmente in base a questa considerazione che Leibniz accettò la nozione di
un A. non più fisico ma psichico, cioè della monade (v.). La scienza moderna,
pur essendo meccanistica, non si avvale, da principio, dell'atomo. È vero che
alla fine dell’Orrica (1704) Newton adduceva un com- plesso di ragioni, cioè di
esperienze, per ammettere che « tutti i corpi siano composti di particelle dure
»; e formulava l’ipotesi che « Dio al principio abbia dato alla materia la
forma di particelle solide, do- tate di massa, dure, impenetrabili e mobili, di
tali dimensioni e figure e con tali proprietà e in tali proporzioni con lo
spazio, da essere adatte al fine per il quale egli le ha formate» (Opzicks,
IMI, 1, q. 31); ma è anche vero che queste e simili specula- zioni cadevano
fuori della scienza appartenendo alla sfera delle opinioni private dello
scienziato. In realtà, l’ipotesi atomica fa il suo ingresso nella scienza
soltanto ai principi dell’800, per opera della chimica. La legge delle
proporzioni multiple, for- mulata da Giovanni Dalton, esprimeva il fatto che
quando una sostanza entra in combinazione con quantità diverse di un’altra
sostanza, queste quan- tità stanno tra loro come i numeri semplici, cioè
ATTEGGIAMENTO 83 si comportano come se fossero parti indivisibili. Ma le parti
indivisibili non sono altro che atomi.’ Pertanto l’ipotesi della composizione
atomica della materia come spiegazione della legge delle pro- porzioni multiple
veniva avanzata da Dalton nel 1808. Per quanto essa suscitasse sùbito vivaci
op- posizioni perchè appariva come il ritorno di una vecchia dottrina
metafisica quindi come uno scon- finamento della scienza nella metafisica, essa
in realtà era ora un’ipotesi invocata a dar ragione di un fatto bene accertato.
E più che un’ipotesi, la nozione stessa apparve come una realtà quando nel 1811
la teoria di Avogadro (circa l’uniformità del numero delle particelle contenute
in un volume dato di gas) permetteva di stabilire il peso degli A.
relativamente ali’ A. d’idrogeno, assunto come unità: il che dava agli A. una
realtà fisica (misurabile). La nozione di A. doveva subire una trasformazione
radicale a partire dalla seconda metà dell’800 con lo studio dei fenomeni dei
gas rarefatti e delle ema- nazioni radioattive. L’A., indivisibile per la
chimica, non era più indivisibile per la fisica. Verso il 1904 Thompson
escogitava il primo modello di A., ima- ginando che esso fosse costituito da una
piccola palla elettrizzata positivamente che racchiudesse nel suo interno un
certo numero di elettroni. Ma al- cune esperienze di Rutherford mostravano che
la materia è assai meno compatta di come avrebbe fatto supporre il modello
atomico di Thompson. Perciò Rutherford verso il 1911 imaginava la strut- tura
dell'A. come un sistema solare in miniatura, costituito da un nucleo centrale
elettrizzato positi- vamente (paragonabile al Sole) e da vari elettroni rotanti
intorno ad esso (paragonabili ai pianeti). Un'ulteriore innovazione del modello
dell’A. fu operata da Bohr, il quale, tenendo presente la scoperta del quantum
di azione, imaginò che l’elet- trone percorra intorno al nucleo un numero
deter- minato di ellissi e possa saltare da un’ellissi all’altra, liberando in
questo salto un quanium di energia. La scoperta del principio di
indeterminazione (v.) dimostrava tuttavia che non è possibile osservare nella
sua interezza la traiettoria di un elettrone e che perciò la stessa nozione di
traiettoria non ha significato fisico (nulla che non sia osservabile o
misurabile ha significato fisico). Ma allora lo stesso modello dell’A. di Bohr
perdeva il suo significato fisico e cessava di avere la pretesa di essere
l’imagine esatta dell’atomo. Dal 1927 in poi, cioè dalla data in cui Heisenberg
ha scoperto il principio di in- determinazione, la scienza ha praticamente
abban- donato ogni tentativo di descrivere l’A. o di defi- nirlo in un modo
qualsiasi. Allo stato attuale delle cose l’aggettivo «atomico » rimane soltanto
a de- signare la scala sulla quale certi fenomeni possono essere osservati e
misurati. ATOMO PRIMEVO (ingl. Primeval Atom). L’ipotesi cosmogonica che
presenta l’universo come il risultato della disintegrazione radioattiva di un
atomo (G. LeMAITRE, The Primeval A., An Essay on Cosmogony, 1950) (v.
COSMOLOGIA). ATTEGGIAMENTO (ingl. Attitude; franc. At- titude; ted.
Einstellung). Termine ampiamente usato nella filosofia, nella sociologia e
nella psicologia contemporanee per indicare in generale l’orienta- mento
selettivo e attivo dell’uomo nei confronti di una situazione o di un problema
qualsiasi. Dewey ritiene la parola sinonima di abito (v.) e di disposizione
(v.); e in particolare gli sembra che essa designi «un caso speciale di
predisposizione, la disposizione che aspetta di prorompere attraverso una porta
aperta» (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 41). Lewis analogamente dice che
nel- l’A. ciò che è presente è afferrato nel suo significato pratico e
anticipatorio, come un indizio di ciò che sta al di là, nel futuro (An Analysis
of Knowledge and Valuation, pag. 438). Del termine si è servito ampiamente
Stevenson per la sua distinzione tra « si- gnificato descrittivo » e «
significato emotivo » delle parole: il primo dei quali si avrebbe quando la
risposta allo stimolo è un insieme di processi men- tali conoscitivi e il
secondo quando la risposta allo stimolo è una certa spinta all'azione.
Stevenson chiama A. questa spinta all’azione, che viene, non si sa perchè,
qualificata come « emotiva »; ma ri- tiene troppo difficile definire
precisamenono di un determinato reticolato di forme trascendentali »
(Psychologie, Intr., $ 4). Più precisamente l’A. si può definire come il
progetto di scelte a venire di fronte a un certo tipo di situazione (o di pro-
blemi); o come un progetto di comportamento che consenta di effettuare scelte
di valore costante nei confronti di una situazione determinata. In questo caso
dire, per es., che «x ha un A. contrario al matrimonio » significa dire che x
progetta di non sposarsi; perciò, in generale, l’A. di x per S è un progetto di
x riguardante il comportamento da te- 84 ATTEGGIAMENTO NATURALnere nei
confronti di situazioni in cui S è possibile (cfr. ABBAGNANO, Problemi di
sociologia, 1959, cap.V). ATTEGGIAMENTO NATURALE (tedesco Naturlicher
Einstellung). Husserl ha chiamato così l’A. che consiste nell’assumere come
esistente il comune mondo in cui viviamo, formato di cose, beni, valori,
ideali, persone, ecc., così com’esso si offre a noi. Da questo A. la filosofia
fenomenolo- gica intende uscire mediante un dubbio radicale che consiste nel
sospendere l’A. naturale, cioè nel vie- tarsi ogni giudizio sull’esistenza del
mondo e di tutto ciò che è in esso. Solo questo nuovo A. sarebbe il punto di
partenza della ricerca filosofica (/deen, I, $ 27 seg.) (v. EPOCHÉ; SOSPENSIONE
DELL’ASSENSO). ATTENZIONE (ingl. Attention; franc. Af- tention; ted.
Aufmerksamkeit). Nozione relativa- mente recente (sec. xvil) con la quale
s’intende in generale l’atto con cui lo spirito prende possesso in forma chiara
e vivida di uno dei suoi possibili oggetti; o il presentarsi in forma chiara e
vivida di uno di tali possibili oggetti allo spirito. La no- zione di A. si
trova in Cartesio, che la intende come l’atto con cui lo spirito prende in
considera- zione un unico oggetto per qualche tempo (Passions de l’àme, I, $
43). Locke chiama «A.» l’A. pas- siva con la quale lo spirito è attratto da
certe idee mentre chiama «riflessione» l’A. attiva per cui esso sceglie certe
idee come propri oggetti privile- giati (Saggio, II, I, $ 8). Egli dice:
«Quando si prende nota delle idee che ci si presentano da sè, ed esse vengono
per così dire registrate nella me- moria, si tratta dell’A. » (/bid., II, 19, $
1). Leibniz, invece, dà un senso attivo all’A.: « Noi facciamo A. agli oggetti
che distinguiamo e preferiamo agli altri ». E come forme dell’A. enumera la
considera- zione, la contemplazione, lo studio, la meditazione (Nouv. Ess., II,
19, $ 1). Essa costituisce il pas- saggio dalle piccole percezioni
all’appercezione (/bid., prefaz.). Lo stesso carattere attivo l’A. con- serva
in Wolff (Psychol. emp., $ 237) e in Kant (Antr., I, $ 3) il quale la definisce
come «lo sforzo di di- ventar cosciente delle proprie rappresentazioni ». A
partire dalla seconda metà del sec. xrx, col sorgere della psicologia
scientifica, l’A., conside- rata come una delle condizioni della vita psichica,
cade sotto la competenza di questa scienza. Il con- cetto di essa rimane quello
che i filosofi avevano formulato; e gli psicologi distinguono un’A. spon- tanea
o passiva o involontaria, per la quale è l’og- getto che s'impone alla
coscienza; e un’A. attiva o volontaria o controllata per la quale è il soggetto
che sceglie l'oggetto della sua attenzione. La psi- cologia contemporanea
considera l’A. come l’adat- tamento attivo ad una situazione, come l’orienta-
mento selettivo nei confronti degli oggetti da percepire (cfr., ad es., D. O.
HeBB, 7lie Organisa- tion of Behaviour, 1949, pag. 4). Con questa nozione
dell’A., che si adatta allo schema generale prevalente nelle scienze
antropologiche secondo il quale ogni attività dell’uomo è la sua risposta a un
complesso determinato di stimoli (situazioni o problemi), l'A. è stata
sottratta al dominio della pura interiorità e riconosciuta come una forma di
comportamento (v.). ATTIMO (gr. tò
tEalewne; lat. Momentum; ingl. Instant; franc. Instant; ted. Augenblick). 1. Se- condo il significato specifico, che è proprio
di una certa tradizione filosofica, l’A. ha un significato diverso dall’ora
(v.) o istante, che è il limite o la condizione del tempo, perchè rappresenta
una specie di incontro o di compromesso tra il tempo e l’eter- nità. Questa
nozione rimonta a Platone. «L’A., egli diceva, sembra che indichi ciò che fa da
tran- sizione tra due mutamenti inversi. Il trapasso in- fatti dal movimento
alla quiete e viceversa non ha luogo a partire da un’immobilità che è ancora
immota o dal movimento che è tuttora mosso. La natura un po’ strana dell’A. si
asside nel mezzo tra la quiete ed il moto pur non essendo cesso nel tempo e lo
fa essere il punto di arrivo e di partenza di ciò che si muove verso lo star
fermo e di ciò che sta fermo verso il muoversi» (Parm., 156 d). In altri
termini per Platone l’A. non è nè il tempo nè l'eternità, nè il movimento nè la
quiete, ma sta in mezzo tra essi e costituisce il loro punto di in- contro.
Questa nozione è stata ripresa da Kierke- gaard che ha visto nell’A. la
subitanea inserzione dell'eternità nel tempo e quindi la subitanea in- serzione
della verità divina nell'uomo cioè la na- scita della fede (Philosophische
Brocken, cap. IV; cfr. Werke, II, pag. 108, 116 sgg.). Il carattere istantaneo
della fede esclude che essa possa essere suscitata o prodotta da procedimenti
di dimostra- zione o di persuasione. Di qui la polemica di Kierke- gaard contro
la chiesa ufficiale danese. Polemica che egli condusse nel giornale che
intitolò per l’ap- punto L’attimo. Il concetto dell’A. ritorna nell’esi-
stenzialismo tedesco ma senza la risonanza religiosa che aveva in Kierkegaard.
Dice Jaspers: « L’A. vis- suto è il fatto supremo, calore di sangue, immedia-
tezza, vita, presente corporeo, totalità del reale, unica cosa vera e concreta.
Invece di partire dal presente per perdersi nel passato o nel futuro, l’uomo
trova l’esistenza e l’assoluto nell’A. che solo può darglieli. Passato e futuro
sono abissi oscuri informi, tempo indefinito, mentre l’A. può essere
l'abolizione del tempo, la presenza del- l’eterno » (Psychologie der
Weltanschauungen, 1925, I, 3; trad. ital., pag. 132). Lo stesso Jaspers mette
in rapporto la che istante od ora (v.). ATTITUDINE (ingl. Aptitude; franc.
Aptitude; ted. Eignung). Da non confondere con atteggia- mento (v.). Questo
termine designa la presenza di determinati caratteri che nel loro complesso
ren- dono l’individuo particolarmente adatto ad un còm- pito determinato. Sulla
determinazione delle A. è fondato l’orientamento professionale, cioè la sele-
zione e l’avviamento dell’individuo a questo o a quel lavoro, in conformità
delle sue attitudini. ATTIVISMO (ingl. Activism; franc. Activisme; ted.
Activismus). Il significato di questo termine va tenuto distinto da quello di
artualismo (v.): questo indica la teoria metafisica per la quale la realtà è
atto o attività, mentre il termine in questione in- dica l’atteggiamento
(talvolta razi A. sono state, in questo senso, il fascismo, il nazismo e lo
stali- nismo. (Cfr. K. MANNHEIM, /deologie und Utopie, 1929, III, $ 2; trad.
ital., pag. 141). ATTIVITÀ (ingl. Activity; franc. Activité; te- desco
Tatigkeit o Aktiviràt). Questo termine ha due significati corrispondenti ai due
significati della parola azione. Da un lato, infatti, esso viene ado- perato a
indicare un complesso più o meno omo- geneo di azioni volontarie (in
riferimento al signi- ficato 2° della parola azione) come quando si dice «x ha
svolto intensa A. politica». Dall’altro, è adoperato a indicare il modo
d'essere di ciò che agisce o ha in suo potere l’azione, come quando si dice «
Lo spirito nel conoscere è attivo + per dire che non è semplicemente ricettivo
o passivo. Il contrario di A. in questo secondo senso è « passi- vità », mentre
il contrario di A. nel primo senso è s inerzia » o « inazione ». L’uso
filosofico coincide con l’uso del linguaggio comune ed è quindi anch’esso
duplice. Tuttavia prevale, soprattutto nell’uso moderno, il secondo
significato. Malebranche (Recherche de la vérité, II, 7), alcuni ideologi
francesi e Galluppi (Filosofia della volontà, I, 6, $ 60) si servono del
termine A. per designare il modo d’agire della volontà; ma anche in questo caso
il significato del termine è il secondo, non il primo. Per questo secondo si-
gnificato si può forse risalire a Locke che distingue la « passività » dello
spirito per la quale esso riceve tutte le sue idee semplici, dall'A. per cui
esso « compie in proprio numerosi apotere creativo, è al centro della filosofia
di Fichte. « L’A. dell’io consiste nell’il- limitato porsi » dice Fichte
(Wissenschaftslehre, 1794, II, $ 4) e ponendo se stesso, l'io pone nello stesso
tempo anche il mondo esterno come proprio li- mite e condizione. Da Fichte in
poi la filosofia moderna ha avuto come uno dei suoi temi prefe- riti «1’A.
creatrice dello spirito » delle quali alcune filosofie, come l’attualismo di
Gentile, hanno fatto 86 ATTO il proprio tema dominante. È chiaro che in queste
forme estreme la nozione di attività perde il suo significato: questo deriva
dal rapporto con quelia di passività, in quanto designa la possibilità e il
potere d’azione di fronte a limiti o condizioni determinate; mentre là dove
l’A. è infinita, limiti o condizioni non sussistono e la distinzione tra A. e
passività non dà senso. ATTO (gr.
evipyea, tvredtyera; lat. Actus; ingl. Act; fr. Acte; ted. Akt). Questo termine ha due significati: 1° quello di
azione nel significato ri- stretto e specifico di questa parola, come
operazione che emana dall’uomo o da un suo potere specifico (v. AZIONE, 2).
Diciamo infatti « A. volontario », «A. responsabile » o «A. dell’intelletto »,
« A. mo- rale », ecc.; ma non diciamo «A. degli acidi sui metalli » o « A.
distruttivo del DDT», ecc., bensì usiamo, in questi casi, la parola « azione +;
2° quello di realtà che si è realizzata o si va realizzando, dell’essere che ha
raggiunto o va raggiungendo la sua forma piena e finale, in quanto si
contrappone a ciò che è semplicemente potenziale o possibile. Nel secondo senso
la parola fa esplicito riferi- mento alla metafisica di Aristotele e alla sua
di- stinzione fra potenza ed atto. L’A. è l’esistenza stessa dell’oggetto: sta
alla potenza «come il co- struire al saper costruire, l'essere desto al
dormire, il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, e come
l’oggetto cavato dalla materia ed ela- borato compiutamente sta alla materia
grezza e al- l’oggetto non ancora finito » (Mer., IX, 6, 1048 a 37). Alcuni A.
sono movimenti, altri azioni: sono azioni quei movimenti che hanno il loro fine
in se stessi, per es., il vedere o l’intendere o il pensare; mentre
l’apprendere, il camminare, il costruire hanno fuori di sè il loro fine, nella
cosa che si apprende, nel punto cui si vuole arrivare, nell’oggetto che si co-
struisce. L'azione perfetta, che ha in sè il suo fine, è detta da Aristotele A.
finale o entelechia (v.). Mentre il movimento è il processo che porta gra-
dualmente all'A. ciò che prima era in potenza, l’entelechia è il termine finale
(re/os) del movimento, il suo compimento perfetto. Come tale è anche la
realizzazione completa, quindi la forma perfetta di ciò che diviene, la specie
e la sostanza. L’A. pre- cede la potenza sia rispetto al tempo sia rispetto
alla sostanza: giacchè se il seme vien prima della pianta, in realtà esso non
può essere derivato che da una pianta. Ciò che nel divenire è ultimo, è
sostanzialmente primo: la gallina vien prima dell’uovo (/bid., IX, 8, 1049b 10
sgg.). Queste distinzioni hanno dominato per molti secoli il pen- siero
occidentale e sono entrate a far parte del linguaggio comune. S. Tommaso
ripropone queste distinzioni con la sua solita chiarezza a proposito della
differenza tra A. ed azione, dicendo: «L’A. è duplice, cioè primo e secondo. L’A.
primo è la forma e l’integralità della cosa (forma et inte- gritas rei); l’A.
secondo è l’operazione (operatio) + (S. Th., I, q. 48, a. 5; Contra gent., II,
59). In altri termini ogni realtà come tale è A. e quindi è A. anche l’azione,
per es., un'operazione della volontà o dell’intelletto, sebbene non si tratti,
in questo caso, di un oggetto esistente. Nella concezione aristotelica la
distinzione tra potenza e A. determina l’ordinamento gerarchico dell’intera
realtà che va da un estremo limite in- feriore che è la materia prima (v.),
pura potenzialità indeterminata, a Dio che è puro A., senza mesco- lanza di
potenzialità. Dio è difatti il Primo Motore immobile dei cieli; e poichè il
movimento dei cieli è continuo, il motore di esso non solo deve essere eternamente
attivo, ma dev’essere per sua natura attività, assolutamente privo di potenza.
E poichè la potenza è materia, esso è anche privo di ma- teria, A. puro (Mer.,
XII, 6, 1071 b 22). La no- zione di A. puro è rimasta fondamentale per la
elaborazione dell'idea di Dio nel pensiero occi- dentale. Ad essa si rifanno
alcune moderne « filo- sofie dell'A. »: qual è quella di Gentile, che è intesa
a realizzare la rigorosa e totale immanenza di ogni realtà nel soggetto
pensante, cioè nted. Attribut). Il termine latino cor- risponde probabilmente a
ciò che Aristotele chia- mava « accidente per sè » (An. post., I, 22, 83 b 19;
Met., V, 30, 1025 a 30): indica, cioè, un carattere o una determinazione che,
pur non appartenendo alla sostanza dell'oggetto, quale risulta dalla defini-
zione, trova in questa sostanza la sua causa (vedi AcciIDENTE). Nella
Scolastica il termine fu usato quasi esclusivamente per indicare gli A. di Dio
come la bontà, l’onnipotenza, la giustizia, l’infi- nità, ecc., che sono anche
chiamati momi di Dio (cfr. S. Tommaso, S. Th., I, q. 33). Quest’uso ter-
minologico fu modificato da Cartesio con l’esten- sione del termine alle
qualità permanenti della sostanza finita. Difatti Cartesio intende per A. le
qualità in quanto « ineriscono alla sostanza ». Perciò «in Dio diciamo che non
ci sono propriamente modi o qualità ma soltanto A., perchè nessuna variazione
si deve concepire in Lui. E anche nelle cose create, ciò che in cose non si
comporta mai in modo diverso, come l’esisitenza e la durata, non deve essere,
nella cosa che esiste ec dura, chiamata qualità o modo, ma A.» (Princ. Phil, I,
$ 56). Questa terminologia è stata letteralmente fatta propria da Spinoza, con
la sola correzione che, dal momento che non esistono sostanze finite, gli
attributi possono essere solo di Dio. « Per A., dice Spinoza, intendo ciò che
l’intelletto percepisce della sostanza come costituente l’essenza di essa »
(Er/., I, 4). Dio o la sostanza consta di infiniti A. ognuno perciò esiste
necessariamente (/bid., I, 11): di tali in- finiti A., però ne conosciamo due
soltanto, cioè il pensiero e l’estensione (/bid., II, 1-2). Per la loro
immutabilità e la loro connessione con la sostanza divina, gli attributi sono a
loro volta eterni e infi- niti e sono il tramite per il quale da Dio scaturi-
scono gli enti finiti (i modi della sostanza) con assoluta necessità (/bid., I,
21-23). Nella filosofia moderna e contemporanea la pa- rola A. è raramente
usata, salvo che nel suo signi- ficato logico-grammaticale di predicato.
ATTUALISMO (ingl. Actualism; franc. Actua- lisme; ted. Aktualitàtstheorie).
Ogni dottrina che riconosca come sostanza o principio dell'essere un atto o
un'attività. Ogni dottrina di questo ge- nere è una forma di idealismo, e
precisamente di idealismo romantico. A. è pertanto la dottrina di Fichte che
riconosce come principio l’attività del- l’Io infinito. A. è pure la dottrina
di Hegel per il quale l’Idea è attualità perfetta di coscienza. In Italia il
termine A. è stato ristretto a indicare l’idea- lismo di Gentile in quanto
risolve ogni realtà nel- l’atto del pensiero o nel «pensiero in atto» o «
pensiero pensante » (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916). In
questo senso Gentile parlava della «attualità» o «attuosità » dello spi- rito;
e dello spirito come « auto-posizione », « auto- creazione » o « autoctisi ».
Questo termine va tenuto distinto da attivismo. AUMENTO E DIMINUZIONE (gr. dino
xal glow; lat. Auctio et
diminutio; ingl. Increase and Diminution; franc. Augmentation et diminution;
ted. Vermehrung und Verringerung). Secondo
Ari- stotele, una delle quattro specie del mutamento e precisamente il
mutamento secondo la categoria della quantità, anch’esso riducibile, come tutte
le altre, al mutamento di luogo (Fis., IV, 4, 211 a). AURA VITALIS. Termine
adoperato da Giovan Battista Helmont (1577-1644) per indicare la forza che
muove, anima e ordina gli elementi corporei. AUTARCHIA (gr. aùripxera; ingl.
Self-suffi- ciency; franc. Autarchie; ted. Autarkie). La condi- zione di
autosufficienza del saggio, al quale essere virtuoso basta per essere felice,
secondo i Cinici (Droc. L., VII, 11) e gli Stoici (Zbid., VII, 1, 65). AUT AUT.
È il titolo di una delle prime opere di Kierkegaard (1843), titolo che esprime
l’alter- nativa che si offre all’esistenza umana, di due forme di vita o come
Kierkegaard dice, di due «stadi fondamentali della vita»: la vita estetica e la
vita morale. Tra questi due stadi, come tra essi e lo stadio religioso che
Kierkegaard analizzò in Timore e tremore (1843) non c’è passaggio nè pos- sibilità
di conciliazione, ma abisso e salto. L’aut aut, cioè la forma dell’alternativa
fu da Kierke- gaard contrapposta alla forma della dialettica di Hegel nella
quale c’è sempre conciliazione, sintesi e armonia tra gli opposti (v.
DIALETTICA). AUTENTICO (ingl. Authentic; franc. Authen- tique; ted.
Authentisch). Termine adoperato da Jaspers (insieme a quello simmetrico e
opposto di inauten- tico) per indicare l'essere che è proprio dell’uomo in
contrapposto acome una caduta da uno ‘stato originario’ più puro e più alto. Di
qualcosa di simile non solo non abbiamo alcuna sperimentazione ontica, ma
neppure la via di una possibile interpretazione on- tologica + (/bid., $ 38).
In un senso analogo a quello di Jaspers o di Heidegger, le due parole sono
usate frequentemente nella filosofia contemporanea. AUTISMO (ingl. Autism;
franc. Autisme; tedesco Autismus). Termine creato da Bleuler (LeArbuch der
Psychiatrie, 1923) per indicare l’atteggiamento che consiste nell’assorbimento
dell’individuo in se stesso con la conseguente perdita di ogni interesse per le
cose e gli altri. È un egocentrismo (v.) patologico. AUTOCENTRALITÀ (ingl.
Self-centrality; franc. Autocentralité; ted. Selbstcentralitàt). Espres- sione
adoperata interno; quella è chiamata appercezione pura (e falsamente senso
intimo), questa appercezione empirica. Nella psi- cologia indaghiamo noi stessi
secondo le rappre- sentazioni del nostro senso interno, nella logica invece,
secondo ciò che la coscienza intellettuale ci offre. Così l’io ci appare doppio
(il che può es- sere contraddittorio): 1° l’io come soggetto del pen- siero
(nella logica) a cui si riferisce l’appercezione pura (l’io che soltanto
riflette) e di cui nulla si può dire tranne che è una rappresentazione del
tutto semplice; 2° l’io come oggetto dell’appercezione equindi del senso
interno, che include una molte- plicità di determinazioni le quali rendono
possibile un’esperienza interna ». L’A. non è dunque la co- scienza (empirica
di sè) ma la cosmateriale ma questo materiale deve essergli dato e quindi
dev'essere un materiale sen- sibile. Fichte trasforma questo concetto
funzionale kantiano in un concetto sostanziale: ne fa un Io infinito, assoluto
e creatore e pertanto considera l’A. come auto-produzione o auto-creazione.
L’A. diventa così il principio non solo della conoscenza ma della realtà
stessa; e principio non nel senso di condizione, ma di forza o attività
produttiva. Auto- producendosi, l’Io produce nello stesso tempo il non-io, cioè
il mondo, l’oggetto, la natura. Dice Fichte: « Non si può pensare assolutamente
a nulla senza pensare in pari tempo al proprio Io come cosciente di se stesso;
non si può mai astrarre della propria A.»(Wissenschaftslehre, 1794, $ 1, 7).
Matale A. è in realtà il principio creatore del mondo: « L’Io di ciascuno è esso
stesso l’unica Sostanza suprema » dice Fichte criticando Spinoza (/bid., $ 3,
D6); ‘ L’essenza della filosofia critica consiste in ciò che un Io assoluto
viene posto come assolutamente incon- dizionato e non determinabile da nulla di
più alto». Questa nozione dell’A. divenne il fondamento dell’Idealismo
romantico. Dice Schelling: «L’A., dalla quale noi partiamo, è atto uno ed
assoluto; e con quell’atto uno è posto non solamente l’Io stesso con tutte le
sue determinazioni ma anche ogni altra cosa che è posta in generale per l’Io...
L'atto dell’A. è ideale e reale ad un tempo ed as- solutamente. Mercè di esso,
ciò che è stato posto realmente, diviene idealmente anche reale e ciò che si
pone idealmente è posto anche realmente » System des transzendentalen Ideal.,
1800, sez. III, avvertenza). Quanto a Hegel, egli già nella Propedeutica
filosofica (Dottrina del concetto, $ 22) diceva: « Come A. l’Io guarda se
stesso, e l’espressione di questa nella sua purezza è: Io = Io, oppure: Io sono
Io» e nella Enciclopedia ($ 424): « La verità della coscienza è l’A., e questa
è il fondamento di quella; cosicchè nell’esistenza la coscienza di un altro
oggetto è A.; io so l’oggetto come mio (esso è mia rappresenta- zione), io
perciò so in esso me stesso ». Nella sua forma più alta l’A. è « A. universale
» cioè ragione assoluta. « L’A., ossia la certezza che le sue deter- minazioni
sono tanto oggettive — determinazioni dell’essenza delle cose — quanto suoi
propri pen- sieri, è la ragione; la quale, in quanto ha siffatta identità, è
non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere »' (Enc., $ 439): cioè
la ragione come sostanza o realtà ultima del mondo. L’A. come auto-creazione e
perciò creazione della realtà tutta, rimane la nozione dominante dell’Idea-
lismo romantico, non solo nella sua forma classica (alla quale si è accennato)
ma anche nelle forme ricorrenti nella filosofia contemporanea, cioè nel-
l’idealismo anglosassone e nell’idealismo italiano (v. IpeaLISMO). Fuori
dell’Idealismo, la nozione non può essere utilizzata e non presenta neppure
problemi: giacchè i problemi filosofici, psicologici e sociologici inerenti
alla coscienza di sè sorgono ovviamente soltanto quando per tale coscienza
s'intenMIE). AUTOMA (gr. adrsuarov; lat. Automaton; inglese Automaton; franc.
Automate). Ciò che si muove da sè, in generale; o una cosa inanimata che si
muove da sè; o, più specificamente, un apparato meccanico che effettua qualcuna
delle operazioni ritenute proprie dell’animale o dell’uomo. Si hanno notizie di
A. favolosi costruiti dagli antichi. Nel sec. xvm, il meccanico francese Vau-
canson costruì un A. che suonava il flauto. Samuel Butler in scritti
romanzeschi (Darwin tra le mac- chine, 1863; Lucubratio ebria, 1865; Erewhon,
1872) parlava di macchine che hanno poteri umani ed entrano in conflitto con.
l’uomo. L’inglese Charles 90 AUTONIMO Babbage (1792-1871) progettò una macchina
calco- latrice che però non venne mai costruita. Un A. logico cioè una macchina
capace di com- binare proposizioni e derivarne conclusioni fu costruita da
Stanley Jevons nel 1869. John Venn costruiva nel 1881 un diagramma che poteva
essere adoperato in maniera da illustrare le relazioni tra i valori di verità
delle proposizioni. Nel 1885 Allan Marquand disegnava una macchina analoga a
quella di Jevons e nel 1947 un calcolatore elettrico fu costruito ad Harvard da
T. A. Kalin e W. Burk- hart per la soluzione di problemi impostati sul-
l’algebra di Boole, che ha per oggetto variabili che possono assumere solo due
valori (vero o falso, indicati rispettivamente con 1 e 0) e che perciò può
essere applicata in tutti i casi in cui si ha la scelta tra due alternative. La
teoria degli A. nel senso moderno, cioè delle macchine calcolatrici fu
sviluppata da A. M. Turing nel 1936. I calcolatori eseguono in generale il
programma in base al quale sono stati progettati, ma effettuano le operazioni
relative con rapidità e sicurezza enormemente maggiori di quanto po- trebbe
fare un uomo. Tali A. sono cioè « rispar- miatori di tempo». Da essi il biologo
inglese R. W. Ashby distinse gli « amplificatori dell’intel- ligenza » che
hanno, ad un certo grado, ciò che nell’uomo si chiama « iniziativa ». Tra
questi ci sono in fase di realizzazione o in fase teorica, gli A. che giuocano
e gli A. che imparano. Von Neumann ha parlato anche di A. che si riproducono
(Theory of Self-Reproducing Automata, 1966). Per le teorie relative a tali A.
vedi CIBERNETICA. AUTONIMO. V. Uso. AUTONOMIA (ingl. Autonomy; franc. Auto-
nomie; ted. Autonomie). Termine introdotto da Kant per designare l’indipendenza
della volontà da ogni desiderio od oggetto di desiderio e la sua capacità di
determinarsi in conformità di una legge propria, che è quella della ragione.
L’A. è cotrapposta da Kant alla eteronomia per la quale la volontà è
determinata dagli oggetti della facoltà di desiderare. Anche gli ideali morali
della felicità o della perfezione suppongono l’eteronomia della vo- lontà
perchè suppongono che essa sia determinata dal desiderio di raggiungerli e non
da una sua propria legge. L’indipendenza della volontà da ogni oggetto
desiderato è la libertà nel senso negativo, mentre la legislazione propria di
essa (come « ragion pratica ») è la libertà nel senso positivo. « La legge
morale non esprime nient'altro che l’A. della ragion pura pratica, cioè della
libertà » (Cri. R. Prat., I, $ 8). In virtù di tale A. «Ogni essere ragionevole
deve considerarsi come fondatore di una legislazione universale » (Grundlegung
zur Met. der Sitten, II, [BA 77)).. Questo è rimasto il concetto classico
dell'autonomia. Più genericamente si parla oggi, per es., di un «principio
autonomo» nel senso di un principio che abbia in sè, o ponga da sè, la sua
validità o la regola della sua azione. AUTOOSSERVAZIONE, AUTORIFLES- SIONE,
AUTOSCOPIA. V. INTROSPEZIONE. AUTORIFERIMENTO (ingl. Self-reference). Con
questo termine equivalente a riflessività (v.), è indicata nei Principia
Mathematica (Intr., cap. II, pag. 64) di Whitehead e Russell la comune cache
resistono acquistano la loro dannazione. I prin- cìpi infatti sono il terrore
non delle buone opere ma delle cattive. Vuoi non temere la potestà? Fa il bene
e avrai lode da essa. Infatti essa è ministra di Dio a te per il bene. Ma se
avrai fatto il male, abbine timore: perchè non invano porta la spada. Essa
infatti è ministra di Dio e vendica nell’ira colui che fa il male. Perciò siate
soggetti di neces- sità, non solo per timore dell’ira ma anche per la coscienza
» (Ad Rom., XIII, I, 5). Questo documento è rimasto fondamentale per la
concezione cristiana dell’autorità. Essa viene difesa da Sant'Agostino (De Civ.
Dei, V, 19; cfr. V, 21); da Isidoro di Si- viglia (Sent., III, 48) e da
Gregorio Magno che insiste sul carattere sacro del potere temporale sino a fare
del sovrano il rappresentante di Dio sulla Terra. Sostanzialmente la stessa tesi
veniva fatta propria da S. Tommaso: « Da Dio, come dal primo dominante, deriva
ogni dominio», egli dice (De Regimine Principum, III, 1). Questa concezione
coin- cide con la prima in un carattere negativo: cioè nel rendere l’A.
completamente indipendente dal consenso dei soggetti. Ma si differenzia dalla
prima in un carattere fondamentale: essa giustifica ogni A. che venga
esercitata de facto. Mentre la prima non esige che la classe che è destinata a
comandare comandi sempre di fatto (e per Platone infatti la cosa non sta così);
la seconda invece implica che ogni A. che di fatto venga esercitata, essendo
posta o stabilita da Dio, sia sempre pienamente legittima. Questo è il teorema
tipico della concezione in esame: teorema che consente di riconoscerla anche nelle
forme più o meno consapevolmente mistifi- cate. Quando, per es., Hegel afferma
che lo Stato è «la realizzazione della libertà» o «l’ingresso di Dio nel mondo»
(Fil. del dir., $ 258, Aggiunta) fa coincidere quella che per lui è I’A. più
alta con la realtà storica dello Stato: e cioè giustifica ogni potere di fatto,
secondo quello che è la mas- sima della sua filosofia: « intendere ciò che è, è
il còmpito della ragione, perchè ciò che è, è la ra- gione » (/bid., Pref.). Da
questo punto di vista, A. e forza coincidono: ciò che possiede la forza di
farsi valere non può non godere di un’A. valida giacchè ogni forza è voluta da
Dio o è divina. 3° La terza 1). Uno dei tipici teoremi di questo punto di vista
è il carattere di legge che viene riconosciuto alle consuetudini: di- fatti se
le leggi non hanno altro fondamento che il giudizio del popolo, quelle che il
popolo stesso approvò pur senza scriverle hanno lo stesso valore di quelle
scritte (/bid., I, 3, 32). I grandi giuristi del Digesto ammettevano pertanto
che l’unica fonte 92 AUTOSUFFICIENZA dell’A. è il popolo romano (R. W.-A. J.
CARLYLE, History of Mediaeval Political Theory in the West, II, I, 7; trad.
ital., pag. 369 e sgg.). Tale è la forma che assunse, nel Medioevo, la dottrina
del fonda- mento umano dell’autorità. Dice Dante: «Il po- polo romano di
diritto, non con l’usurpazione, si assunse il còmpito del monarca, che si dice
impero, sopra tutti i mortali » (De Mon., II, 3). Nelio stesso modo Ockham
affermava che « l'impero romano fu certamente istituito da Dio, ma attraverso
gli uo- mini cioè attraverso i Romani » (Dia/ogus inter ma- gistrum et
discipulum, III, tract. II, lib. I, cap. 27, in GoLpast, Monarchia, II, pag.
899). La stessa A. papale, Ockham riteneva, è limitata dalle esigenze dei diritti
e della libertà di coloro sui quali si estende ed è quindi l’A. di un
principato ministra- tivus, non dominativus (De Imperatorum et pontificum
potestate, VI). E alla domanda quali sono i diritti e le libertà che devono
essere rispettati dalla stessa A. papale, Ockham risponde che sono quelli che
spettano anche agli infedeli, sia prima che dopo l'incarnazione di Cristo:
giacchè i fedeli non de- vono nè dovranno essere in condizioni peggiori di
quelle in cui furono gli infedeli sia prima che dopo l’incarnazione di Cristo
(/bid., IX). Marsilio da Pa- dova affermava chiaramente la tesi generale im-
plicita in simili riconoscimenti: « Il legislatore, cioè la prima ed effettiva
causa efticiente della legge, è il popolo o il complesso dei cittadini oppure
la parte prevalente di essi, che comanda e decide per sua scelta o per suo
volere in un’assemblea gene- rale, in termini precisi che certi atti umani si
devono compiere e altri no sotto pena di penalità o di punizioni corporali»
(Defensor pacis, 1, 12, 3). Nicolò da Cusa non meno esplicitamente affermava
riferendosi all’A. ecclesiastica: « Poichè tutti gli uomini sono naturalmente
liberi, qualsiasi A. che distolga i sudditi dal fare il male e limiti la loro
libertà col timore di sanzioni, deriva solo dall’ar- monia e dal consenso dei
sudditi, sia che risieda nella legge scritta sia che risieda in quella vivente,
rappresentata dal reggitore » (De Concordantia ca- tholica, II, 14). Nel mondo
moderno, la prevalenza del contrattualismo (v.) e del giusnaturalismo (v.)
determinano la prevalenza di questa dottrina. E nonostante che oggi
contrattualismo e giusnatura- lismo non possano più essere invocati come giu-
stificazioni sufficienti dello Staro (v.) e del di- ritto (v.) la tesi
dell'origine umana dell’A. non è revocata in dubbio. La stessa dottrina di
Kelsen, attribuendo l’A. all’ordinamento giuridico non è che una specificazione
della tesi tradizionale. Dice Kelsen: «L'individuo che è, o ha, un’A. deve
avere ricevuto il diritto di emanare comandi ob- bligatori, di modo che altri
individui siano obbli- gati a obbedire. Tale diritto o potere può venire
conferito a un individuo soltanto da un ordina- mento normativo. L’A. è quindi
originariamente la caratteristica di un ordinamento normativo » (General Theory
of Law and State, 1945, II, cap. VI, C, h; trad. ital., pag. 389). Ma, al di là
di questo punto di vista formale, sta il problema delle forme o dei modi in cui
il consenso che fonda l’A. può essere esercitato o espresso, nonchè dei limiti
o dell’estensione che esso può o deve avere nei singoli campi. È chiaro, ad
es., che l’A. deve avere in politica còmpiti ed estensione maggiore che non nel
campo della ri- cerca scientifica; e che pertanto in politica il con- senso che
la convalida deve avere limiti ed esten- sione ed essere esercitato ed espresso
in forme e caratteri diversi che non nel campo scientifico. Un riconoscimento
che esprima accettazione o consenso è alla base di ogni A.: le modalità, le
forme e i limiti istituzionali o meno di quel ricono- scimento possono essere
diversissimi e costituiscono problemi fondamentali di politica generale e
speciale. 2. Nella filosofia medievale auctoritas è un’opi- nione
particolarmente ispirata dalla grazia divina e quindi in grado di guidare e
correggere il lavoro d’indagine razionale. Auctoritas, può essere la de-
cisione di un concilio, un detto biblico, la sententia di un Padre della
Chiesa. +). Si dice anche, osserva Aristotele, «A. una donna» ma questo
significato è im- proprio perchè si vuol dire soltanto che si coabita con lei
(Car., 15, 15b 3 sgg.). Queste distinzioni vengono ripetute nella logica
medievale (cfr., ad esempio, Pietro Ispano, Summ. Log., 3.37-38; JunGiUs,
Logics Hamburgensis, I, 14, 24). In un significato così ampio il termine indica
una rela- zione qualsiasi. Hegel voleva invece restringerlo alla relazione tra
la cosa e le sue proprietà (Enc., $ 125). Marcel ha contrapposto l'A.
all’essere. L’A. sa- rebbe la categoria dominante nell’esteriorità delle cose,
fra le quali l’uomo stesso vive nella sua fun- zione sociale o vitale, mentre
l’essere sarebbe la categoria propria della soggettività in quanto mi- stero
(Étre et avoir, 1935). Nell’A. nel fare e nel- l'essere, Sartre ha visto le tre
grandi categorie dell’esistenza umana. Ma il fare si risolverebbe nel- l’A.,
perchè ogni forma d’azione o di produzione, anche il conoscere, è una forma di
appropriazione; e dall’altro lato l’A. si riduce all’essere perchè il desiderio
d’A. è in fondo riducibile a quello di «essere in rapporto a un certo oggetto
in una certa relazione d’essere » (L’étre er le néant [1943], 1955, pag. 663
sgg.). Nel linguaggio corrente come in quello della logica e della matematica,
A. non indica oggi che una relazione di qualsiasi genere. AVERROISMO (ingl.
Averroism; franc. Aver- rolsme; ted. Averroismus). La dottrina di Averroè
(Ibn-Rosch, 1126-98) come fu intesa e interpretata dagli Scolastici medievali e
dagli Aristotelici del Rinascimento. Essa si compendiava nei capisaldi
seguenti: 1° eternità e necessità del mondo: tesi che era contraria al dogma
delia creazione; 2° sepa- razione dell’intelletto attivo e passivo dall’anima
umana e la loro attribuzione a Dio. Questa tesi, riconoscendo all’anima umana
solo una specie di imagine dell’intelletto, la privava della sua parte più alta
ed immortale; 3° dottrina della doppia verità, cioè di una verità di ragione,
che si può ricavare dalle opere di Aristotele, il filosofo per eccellenza, e di
una verità di fede: le quali possono anche essere contrastanti fra loro. La
figura mag- giore dell'A. latino fu Sigieri di Brabante, nato verso il 1235,
morto verso il 1281-84. AVVENIMENTO. V. Fatto. AVVENIRE (ingl. Future; franc.
Avenir; te- desco Zukunft). Per il primato dell’A. sulle altre determinazioni
del tempo in alcune forme della filosofia contemporanea (v. TEMPO).
AXIOCENTRICO (ingl. Value-centric). Ter- mine introdotto recentemente nella
filosofia ameri- cana per designare la dottrina che afferma la priorità del
valore sulia realtà, del dover essere sull’es- sere, nel senso che anche il
giudizio esistenziale implichi la distinzione di valore tra verità e falsità. (Cfr. E. G. SpauLDING, The
New Rationalism, 1918, pag. 206 sgg.; W. M. UrBAN, 7he /ntelligible World,
1929, pag. 61 seguenti). AXIOLOGIA
(ingl. Axiology; franc. Axiologie; ted. Axiologie). La « teoria dei valori +
era stata già da qualche decennio riconosciuta come una parte importante della
filosofia o addirittura la totalità della filosofia dalla cosiddetta «
filosofia dei valori » e da indirizzi connessi (v. VALORE) quando si co-
minciò, ai princìpi del nostro secolo, ad usare, per indicarla, l’espressione
axiologia. I primi scritti in cui tale espressione ricorre sono i seguenti: P.
LAPIE, Logique de la volonté, 1902, pag. 385; E. von HART- MANN, Grundriss der
Axiologie, 1908; W. M. URBAN, Valuation, 1909. Il termine ebbe fortuna, mentre
non ebbe fortuna l’altro di Timologia proposto per la stessa scienza (KrerIBIG,
Psychologische Grundle- gung eines Systems der Werttheorie, 1902, pa- gina
194). AZIONE (gr.
npdéw; lat. Actio; ingl. Action; franc. Action; ted. Tat, Handlung). 1. Termine di significato
generalissimo che denota qualsiasi ope- razione, considero generico, un
significato speci- fico per il quale il termine possa riferirsi soltanto alle
operazioni umane. Così egli ha cominciato coll’escludere dall’estensione della
parola le ope- razioni che si realizzano in modo necessario, cioè in un modo
che non può essere diverso da quello che è. Queste operazioni sono oggetto
delle scienze teoretiche, matematica, fisica e filosofia prima. Queste scienze
si riferiscono a realtà, fatti o eventi che non possono essere diversi da ciò
che sono. Fuori di esse rimane il dominio del possibile cioè di ciò che può
essere in un modo o nell’altro; ma neppure tutto il dominio del possibile
appartiene all’azione. Da esso bisogna infatti distinguere quello della
produzione che è il dominio delle arti e che ha il suo carattere proprio e il
suo fine negli oggetti 94 AZIONE ELICITA E AZIONE COMANDATA prodotti (Et. Nic.,
VI, 3-4, 1149 e sgg.). S. Tom- maso distingue l’A. rransitiva (transiens) che
passa da chi opera nella materia esterna, come il bru- ciare, il segare, ecc.;
e l’A. immanente (immanens) che rimane nell’agente stesso come il sentire,
l’in- tendere, il volere (S. 7h., II, I, q. 3, a. 2; q. 11, a. 2). Ma la
cosiddetta A. transitiva non è altro che il fare o produrre di cui parla
Aristotele (Ibid. II, I, q. 57, a. 4). In queste notazioni tomistiche, come in
quelle aristoteliche, è presente la tendenza a riconoscere la superiorità
dell'A. cosiddetta im- manente che si consuma nell’interno del soggetto
operante: A. che poi non è altro che l’attività spi- rituale o il pensiero o la
vita contemplativa. S. Tom- maso dice infatti che solo l’A. immanente è «la
perfezione e l’atto dell’agente +», mentre l’A. tran- sitiva è piuttosto la
perfezione del termine che subisce l’A. (/bid., II, I, q. 3, a. 2). Dall’altro
lato S. Tommaso distingue, nell’A. volontaria, l’A. im- perata che è quella
comandata dalla volontà, per es., il camminare o il parlare e l’A. elicita
della volontà che è lo stesso volere. L’ultimo fine dell’A. non è l’atto
elicito della volontà ma quello imperato: giacchè il primo appetibile è il fine
cui la volontà ténde, non la volontà stessa (/bid., II, I, q. 1, a. 1, ad 2°).
Questi concetti sono rimasti per molto tempo immutati e vengono presupposti
anche dalla cosiddetta filosofia dell’A. (v.); la qualll’attore, dice Parsons,
i mezzi impiegati non possono in generale essere considerati come scelti a caso
o di- pendenti esclusivamente dalle condizioni dell'A. ma devono in qualche
modo essere soggetti all’in- fluenza di un determinato fattore selettivo
indipen- dente, la conoscenza del quale è necessaria alla comprensione del
concreto andamento dell'A. ». Questo fattore è l'orientamento normativo, che
per quanto possa essere diversamente orientato, non manca in nessun tipo d'A.
effettiva (The Structure of Social Action, 1949, pag. 44-45). Questo schema
analitico proposto da Parsons risponde indubbia- mente assai bene alle esigenze
dell’analisi sociolo- gica; ma esso può essere assunto anche in filosofia come
base per la comprensione dell'A. nei vari campi in cui la filosofia è
interessata cioè nel campo morale, giuridico, politico, eccetera. AZIONE
ELICITA e AZIONE COMAN- DATA (lat. Actus elicitus et actus imperatus). Secondo
gli Scolastici, l'A. volontaria elicita è l’operazione stessa della volontà, il
volere, mentre l’A. comandata è quella che è diretta, iniziata e controllata
dalla volontà, come, per es., il camminare o il parlare (S. Tommaso, S. 7h.,
II, I, Ù AZIONE, FILOSOFIA DELL’ (ingl. Phi losophv of Action; franc.
Philosophie de l’action). Con questo nome si indicano alcune manifestazioni
della filosofia contemporanea, caratterizzate dalla credenza che l’A.
costituisca la più diretta via per conoscere l’Assoluto o il più sicuro modo
per pos- sederlo. Si tratta di una filosofia di derivazione romantica: il
moralismo di Fichte era fondato sulla superiorità metafisica dell’A. (v.
MoraLISMO). Il primato della ragion pratica di cui Kant aveva parlato non aveva
significato fuori del dominio morale; ma con Fichte questo primato significa
che solo nell’A. l’uomo si identifica con l’Io in- finito. Il simbolo della
filosofia dell’A. si può vedere espresso nella frase di Faust, nell’opera di
Goethe, che proponeva di tradurre In principio erat Verbum del IV Evangelo con
«In principio era l’A.». Con questi presupposti romantici si connette la
filosofia dell'A. che in Francia, per opera di Ollé- Laprune (1830-99) e di
Blondel (1861-1949), as- sunse una forma religiosa: l'A. è per essa il nucleo
essenziale dell’uomo e solo un’analisi dell'A. può mostrare i bisogapparten-
gono alla filosofia dell’A. doveva riportare la no- zione dell’A. ai suoi
limiti e avviarla ad una nuova fase interpretativa. Questa corrente è il pragma-
tismo (v.). Se in un primo tempo l’A. viene dichia- rata da William James la
misura della verità del conoscere e quindi assunta a giustificare proposi-
AZIONE RIFLESSA 95 zioni morali e religiose teoreticamente ingiustifica- bili,
le analisi empiristiche di James, e meglio ancora quelle di Dewey, dovevano
mettere in luce il con- dizionamento dell'A. da parte delle circostanze che lo
provocano, il rapporto di essa con la situazione che ne costituisce lo stimolo;
e perciò i limiti della sua efficienza e della sua libertà. Ma da questo punto
di vista l’A. cessa di essere legata unicamente al soggetto e di trovare
unicamente in esso o nella attività di esso (volontà) il suo principio. Perde
la possibilità di consumarsi e di esaurirsi nel soggetto stesso; e diventa un
comportamento, la cui analisi deve prescindere dalla divisione delle facoltà o
dei poteri dell'anima, mentre deve tener presente la situazione o lo stato di
cose cui deve riuscire ade- guato (v. AZIONE; COMPORTAMENTO). AZIONE MINIMA (ingl. Least Action;
fran- cese Moindre Action; ted. Kleinsten Aktion). Il principio che «la natura non fa nulla d’inutile »
(natura nihil facit frustra) e segue la via più breve ed economica. La massima
si trova in Aristotele (De An., III, 12, 434 a 31; De cael., I, 4, 271 a 32; De
Part. Anim., I, 5, 645 a 22), viene ripetuta da S. Tommaso (/n III An., 14); e
ripresa in tempi moderni da Galileo, Fermat, Leibniz, ecc. Nel 1732 Maupertuis
formulava il principio matematicamente e lo introduceva nella meccanica col
nome di «legge di economia della natura » (Lex Parsimo- niae). Ma anche per
Maupertuis il principio con- servava quel carattere finalistico che aveva
convinto Aristotele ad adottarlo. Nel Saggio di Cosmologia Maupertuis scriveva:
« È questo il principio, così saggio, così degno dell’Essere supremo: qualsiasi
cambiamento abbia luogo in natura, la somma di A. spese in questo cambiamento è
la più piccola possibile ». Tuttavia il principio non ha, nella mec- canica, il
significato finalistico che Maupertuis gli attribuiva. Nella riesposizione che
ne dette La- grange (Mécanique Analytique, II, 3, 6) fu chiaro che esso esprime
la conservazione non soltanto del mi- nimo ma anche del massimo di A. e che
inoltre sia il minimo che il massimo devono essere considerati relativamente e
non assolutamente. Da questo punto di vista Hamilton generalizzava il principio
nella forma di « principio dell'A. stazionaria »: e in questa forma esso dice
soltanto che, in certe classi di feno- meni naturali, il processo di mutamento
è tale che qualche grandezza fisica appropriata sia un estremo (cioè un minimo
o un massimo, più spesso un mi- nimo). Ma quale sia la grandezza in questione e
quale sia il suo minimo o massimo è cosa che può mutare da un ordine di
considerazioni all’altro. Del principio della minima azione si è talora parlato
in psicologia, in estetica e perfino nell’etica (cfr. James, Princ. of
Psychol., II, pag. 188, 239 seguenti; SIMMEL, £inleitung in die moral Wis-
senschaft, 1892, I, pag. 58). Esso non va confuso col principio metodologico
dell’economia che con- cerne, non l’azione della natura o di Dio, ma la scelta
dei concetti e delle ipotesi per la descrizione dei fenomeni naturali (v.
ECONOMIA). AZIONE RECIPROCA. V. RECIPROCITÀ. AZIONE RIFLESSA (ingl. Reflex
Action; franc. Action réflexe; ted. Reflex Bewegune). In ge- nerale, una
risposta meccanica (involontaria), uni- forme e adatta, dell'organismo ad uno
stimolo esterno © interno all’organismo stesso. Un riflesso è, per es., la
contrazione della pupilla quando l’occhio è stimolato dalla luce o la
salivazione al gusto o alla vista di un cibo. Dal riflesso così in- teso va
distinto l’arco riflesso che è il dispositivo anatomo-fisiologico destinato a
mettere in atto il riflesso. Tale dispositivo è formato dal nervo af- ferente o
centripeto che subisce lo stimolo, dal nervo efferente o centrifugo che produce
il movi- mento e da una connessione tra questi due nervi, stabilita nelle
cellule nervose centrali. L'importanza filosofica di questa nozione, elaborata
prima dalla fisiologia (sec. xvi) poi dalla psicologia, sta nel fatto che essa
è stata assunta come lo schema esplicativo causale della vita psichica:
dapprima dei meccanismi involontari soltanto (istinti, emo- zioni, ecc.) poi
anche delle attività superiori. Tutto ciò che dalla vita psichica può infatti
essere ricon- dotto all’A. riflessa, può essere spiegato causal- mente a
partire dallo stimolo fisico che mette in moto l’arco riflesso. Data
l’uniformità di tale A., essa è prevedibile a partire dallo stimolo: il che
vuol dire che essa è causalmente determinata dallo stimolo stesso. In tal modo
l'A. riflessa non è che il meccanismo per il quale la causalità psichica si
inse- risce nella causalità della natura, come parte di essa. Queste nozioni si
sono venute elaborando a par- tire dalla metà dell’800 in poi cioè da quando la
psicologia si è costituita come scienza sperimentale {v. PsicoLogIa).
Conformemente all’indirizzo ato- mistico che è stato proprio per lungo tempo
della psicologia essa ha cercato di risolvere i riflessi com- plessi in
riflessi semplici, dipendenti da circuiti nervosi elementari. La dottrina dei
riflessi condi- zionati fondata da Pavlov su basi sperimentali (a partire dal
1903; cfr. gli scritti di Pavlov raccolti nel volume / riffessi condizionati,
Torino, 1950) obbedisce alla stessa esigenza ed ha anzi contribuito per qualche
tempo a rafforzarla, facendo nascere la speranza che anche i comportamenti
superiori si potessero spiegare col vario combinarsi di mec- canismi riflessi
assai semplici. Un riflesso condizio» nato è quello in cui la funzione
eccitatrice dello stimolo che abitualmente lo produce (stimolo in-
condizionato) è assunta da uno stimolo artificiale (condizionato) col quale il
primo è stato in qualche modo associato. Per es., se si presenta un pezzo di
carne a un cane questo stimolo provoca nel cane un’abbondante salivazione. Se
la presentazione del pezzo di carne è stata numerose volte associata ad un
altro stimolo artificiale, per es., al suono di un campanello o alla comparsa
di una luce, questo secondo stimolo finirà per produrre, da solo, l’effetto del
primo, cioè la salivazione del cane. È chiaro che il combinarsi e il
sovrapporsi dei riflessi condizionati può spiegare numerosi comportamenti che a
prima vista non si collegano con riflessi na- turali o assoluti. Più
recentemente si è visto nel riflesso condizionato anche la spiegazione del com-
portamento cosiddetto simbolico dell’uomo, cioè del comportamento diretto da
segni o simboli, lingui- stici o di altra natura. Per es., il viaggiatore che incontra
sulla strada un cartello che lo avverte che la strada è più in là interrotta,
reagisce (per es., tornando indietro) proprio come se avesse visto
l'interruzione della strada. Qui il simbolo (il car- tello) si è sostituito
come stimolo artificiale allo stimolo naturale (la vista dell’interruzione).
Pavlov e molti sostenitori della teoria dei riflessi condizio- nati hanno
tenuto fede al principio che ogni ri- flesso che entra a comporre un riflesso
condizionato è un meccanismo semplice ed infallibile realizzato da un
determinato circùito anatomico. Perciò anche la teoria del riflesso
condizionato, com’è esposta da Pavlov, s’inscrive nei limiti di quella che si
suole oggi chiamare «teoria classica dell’atto riflesso », cioè
dell'interpretazione causale dell’A. riflessa. Tuttavia un imponente complesso
di osservazioni sperimentali, fatte dalla fisiologia e dalla psicologia negli
ultimi decenni a partire dal 1920 circa, hanno reso sempre più difficile
d’intendere l’A. riflessa nel suo schema classico. In primo luogo si è visto
che l’A. degli stimoli complessi non è prevedibile a partire da quella degli
stimoli semplici che lo compongono e cioè che i cosiddetti riflessi semplici si
combinano tra di loro in modi imprevedibili. In secondo luogo, lo stesso concetto
di « riflesso elementare +, cioè del riflesso che entrerebbe a com- porre i
riflessi complessi, è stato giudicato illegittimo: e difatti tutti i riflessi
osservabili sono complessi e un riflesso « semplice » cioè non decomponibile è
una semplice congettura. In terzo luogo, le stesse osservazioni sui riflessi
condizionati dimostrano la irregolarità e l’imprevedibilità di certe risposte:
ir- regolarità e imprevedibilità che Pavlov spiegava con la nozione
dell’inibizione la quale tuttavia è soltanto un nome per indicare il fatto che
una certa reazione, che si aspettava, non si è verificata (GOLDSTEIN, Der
Aufbau des Organismus, 1927; MERLEAU PONTY, Structure du comportement, 1949).
Questi e altri or- dini di osservazione, messi avanti soprattutto dalla psicologia
della forma (cfr., ad es., KATZ, Gestalt- psychologie, cap. III), fanno vedere
come il ri- flesso non può essere inteso come un’A. dovuta a un meccanismo
causale. Si parla di riflesso là dove si può determinare, nei confronti di un
certo stimolo, un campo di reazioni sufficientemente uni- formi per essere
prevedute con un alto grado di probabilità. Le A. riflesse costituiscono da
questo punto di vista una classe di reazioni e precisamente quella
caratterizzata dall’alta frequenza di uniformità delle reazioni stesse. Ma con
ciò la nozione di riflesso si sottrae allo schema causale per rientrare in
quello generale di condizionamento (v. CONDIZIONE). B. Nella logica medievale
tutti i sillogismi indicati da una parola mnemonica che cominci con B (Ba- ralipton,
Baroco, Bocardo) sono riducibili al primo modo della prima figura (Barbara).
(Cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20). BANAUSIA (gr. Bavavota). La parola, che
in greco significa arte meccanica o lavoro manuale in genere, implica una
valutazione negrato per tutto il Medioevo, e solo il Rinascimento T —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. ha cominciato ad introdurre nel mondo
moderno il concetto della dignità del lavoro manuale (vedi LAVORO). BARALIPTON.
Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il quinto modo della prima
figura del sillogismo e precisamente quello che con- siste di due premesse
universali affermative e di una conclusione particolare affermativa come nel-
l’esempio: « Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale, Dunque qualche
sostanza è uomo + (PIETRO Ispano, Summul. logic., 4.08). BARBARA. Parola
mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il primo dei nove modi del
sillogismo di prima figura, il quale consta di due premesse universali
affermative e di una conclu- sione anche universale affermativa come l’esempio:
«Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale, Dunque ogni uomo è sostanza »
(Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.07; Logica di Porto Reale, III, 5). BARBARI.
Parola mnemonica usata nella Lo- gica di Porto Reale per indicare il quinto
modo del sillogismo di prima figura (cioè il Baralipton) con la modificazione
di assumere per premessa maggiore la proposizione in cui entra il predicato
della con- clusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i miracoli della natura
sono ordinari, Tutto ciò che è ordinario non ci meraviglia, Dunque ci sono cose
che non ci meravigliano, che sono miracoli della natura » (ARNAULD, Logique,
III, 8). BARBARIE. Così Vico chiamò lo stato primi- tivo, ferino, del genere
umano dal quale poi il ti- more del divino ha a poco a poco tràtto l’ordine del
mondo propriamente umano. « B. ritornata + 0 « B. ricorsa +, chiamò poi il
Medioevo (Scienza nuova, degnità, 56; Lettera al De Angelis, Opere, ed. Utet,
pag. 159). BAROCO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il
quarto dei quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello
che consiste di una premessa universale affermativa, 98 BEATITUDINE di una
premessa particolare negativa e di una con- clusione particolare negativa come
nell’esempio: «Ogni uomo è animale, Qualche pietra non è ani- male, Dunque
qualche pietra non è uomo » (PIETRO Ispano, Summul. logic., 4.11). Si è fatta
derivare da questa parola la voce « barocco » usata a designare la forma d’arte
o in generale lo spirito proprio del sec. xva. « Non par dubbio, ha detto
Croce, che la parola si ricolleghi ad uno di quei vocaboli artificialmente
composti e memoriali coi quali nella logica me- dioevale si vennero designando
le figure del sillo- gismo. Tra quei vocaboli (Barbara, Celarent, ecc.) due,
almeno in Italia, colpirono più degli altri e divennero quasi proverbiali, a
preferenza degli altri: il primo, cioè Barbara, perchè era il primo, e poi,
chissà perchè, Baroco, che designava il quarto modo della seconda figura. Dico
non so perchè non essendo quello più strano degli altri, nè più contorto il
modo di sillogismo che esso indicava: forse vi contribuì l’allitterazione con
Barbara » (Storia dell’età barocca in Italia, 19olta usa il termine
scambievolmente con felicità, connette la B. con la contemplazione e la
commisura all'estensione che l’attività con- templativa ha nei vari esseri
viventi. Così, l’intera vita degli dèi è beata perchè è tutta contemplativa.
Agli uomini spetta una specie di similitudine di questa vita perchè si
sollevano solo di tanto in tanto alla contemplazione; gli animali non sono per
nulla beati perchè mancano di attività contem- plativa (Er. Nic., X, 8, 1178 b
9 sgg.). Tra gli uomini, ovviamente, il saggio è il più beato (/bid., I, 11,
1101 b 24). Nella filosofia post-aristotelica e soprattutto in quella stoica,
la B. del saggio divenne un tema diffuso di esercitazione (cfr. il De vita
beata di Seneca) e nel neo-platonismo di Plotino la critica della felicità come
è intesa da Stoici e Aristotelici (Enn., I, 4) si accompagna col concetto di
una B. che è inattiva perchè è indifferente ad ogni realtà esterna. « Gli
esseri beati sono immobili in se stessi e a loro basta d’essere quel che sono:
essi non si arrischiano ad occuparsi di checchessia perchè questo li farebbe
uscire dal loro stato, ma tale è la loro felicità che, senza agire, essi
compiono grandi cose e fanno non poco restando immobili in se stessi» (/bid.,
III, 2, 1). Dal neo-platonismo in poi si può dire che il concetto di B. si sia
distinto sempre più nettamente da quello di felicità connet- tendosi
strettamente con la vita contemplativa, con l'abbandono dell’azione e con
l’atteggiamento della riflessione interiore e del ritorno a se stesso. La
tradizione cristiana agì nello stesso senso, connet- tendo la B. con una
condizione o stato, di tanto indipendente dalle vicende mondane di quanto in-
vece dipendente dall’interna disposizione dell’anima. La dottrina aristotelica
della felicità propria della vita contemplativa, servì di modello agli
Scolastici per l’elaborazione del concetto di beatitudine. San Tommaso dice che
la B. è « l’ultima perfezione del- l’uomo », cioè l’attività della sua più alta
facoltà, l’intelletto nella contemplazione della realtà supe- riore, cioè di
Dio e degli angeli. « Nella vita con- templativa l’uomo comunica con le realtà
superiori, cioè con Dio e con gli angeli ai quali si assimila anche nella B.».
Pertanto la B. perfetta l’uomo la otterrà soltanto nella vita futura che sarà
tutta e interamente contemplativa. Nella vita terrena egli può ottenere una B.
solo imperfetta, in primo luogo attraverso la contemplazione e in secondo luogo
attraverso l’attività dell’intelletto pratico che or- dina le azioni e le
passioni umane, cioè con la virtù (S. 7A., II, I, q. 3, a. 5). Nell’età moderna
il con- cetto di B. e quello di felicità si sono sempre più distinti, il primo
riferendosi alla sfera religiosa e contemplativa, il secondo alla sfera morale
e pra- tica. Si può dire che il solo filosofo che unisca i due significati non per
una semplice confusione, è Spinoza per il quale la B. «è la stessa sodisfazione
intima che nasce dalla cognizione intuitiva di Dio » (Er., IV, app. 4); e che
la identifica con la libertà e con l’amore dell’uomo verso Dio, che è lo stesso
amore con cui Dio ama se stesso (/bid., V, 36 Scol.). Ma poichè l’intuizione di
Dio o l'amore di Dio significano per Spinoza la conoscenza dell’or- dine
necessario delle cose del mondo (/bid., V, 31-33) il carattere
mistico-religioso o contemplativo della B. s’identifica col carattere mondano e
pra- tico della felicità. Lo stesso significato essa ha nel- l’opera di Fichte
Introduzione alla vita beata (1806). Qui la B. è definita, tradizionalmente,
come l’unione con Dio: ma Fichte si preoccupa di togliere il signi- ficato contemplativo
tradizionale, considerandola come il risultato, non già di un « sogno devoto »,
ma della stessa moralità operante (Werke, V, pag. 474). Nel pensiero moderno,
la nozione e la parola one. Si possono distinguere cinque concetti fondamentali
del B., difesi e illustrati sia dentro che fuori l’estetica e cioè: 1° il B.
come manifestazione del bene; 2° il B. come manifesta- zione del vero; 3° il B.
come simmetria; 4° il B. come perfezione sensibile; 5° il B. come perfezione
espressiva. 1° Il B. come manifestazione del bene è la teoria platonica del
bello. Secondo Platone, alla sola bellezza, fra tutte le sostanze perfette, «
toccò il privilegio d’essere la più evidente e la più ama- bile » (Fedro, 250
e). Perciò nella bellezza, e nel- l’amore che essa suscita, l’uomo trova il
punto di partenza per il ricordo o la contemplazione delle sostanze ideali
(/bid., 251 a). La ripetizione di questa dottrina del B. nel neo-platonismo
assume un ca- rattere teologico o mistico perchè il bene o le essenze ideali di
cui Platone parlava sono da Plo- tino ipostatizzate e unificate nell’Uno cioè
in Dio; e l’Uno e Dio vengono definiti come «il Bene ». «È il Bene, dice
Plotino, che fornisce la bellezza a tutte le cose» sicchè il B. nella sua
purezza è il bene stesso e tutte le altre bellezze sono acquisite, mescolate e
non primitive: perchè vengono da esso (Enn., I, 6, 7). Questa forma mistica o
teologica non sempre riveste la dottrina del B. come mani- festazione del bene;
ma è ovvio che simile dottrina è esplicitamente o implicitamente presupposta
ogni volta che si pone il compito dell’arte nel perfezio- namento morale. 2° La
dottrina del B. come manifestazione del vero è propria dell’età romantica. «Il
B., diceva Hegel, si definisce come l’apparizione sensibile del- l’Idea ». Ciò
significa che bellezza e verità sono la stessa cosa e che si distinguono solo
perchè mentre nella verità l’Idea ha la sua manifestazione ogget- tiva e
universale, nel B. essa ha la sua manifesta- zione sensibile (Vorlesungen iber
die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 160). Raramente, fuori di Hegel, questo
punto di vista è stato presentato in una forma così decisa. Esso tuttavia
ricompare in quasi tutte le forme dell’estetica romantica e co- stituisce
indubbiamente una definizione tipica del bello. 3° La dottrina del B. come
simmetria fu pre- sentata per la prima volta da Aristotele. Il B. è costituito,
secondo Aristotele, dall’ordine, dalla sim- metria e da una grandezza adatta ad
essere ab- bracciata nel suo insieme da un sol colpo d’occhio (Poetica, 7,
1450b 35 sgg.). E questa dottrina fu accettata dagli Stoici, dai quali la
ripeteva Ci- cerone: «Come nel corpo esiste un’armonia di fattezze ben
proporzionate congiunta con un bel colorito, che si chiama bellezza, così per
l’anima l’uniformità e la coerenza delle opinioni e dei giu- dizi congiunta a
una certa fermezza e immutabilità, che è conseguenza della virtù o contiene
l'essenza stessa della virtù, si chiama bellezza » (Tusc. Disp., IV, 13, 31).
Questa dottrina rimase fissata per lungo tempo nella tradizione. La seguirono
gli Sco- lastici (per es., S. ToMMasO, S. 7h., I, q. 39, a 8). E la seguirono
molti scrittori-artisti del Rinasci- mento quando vollero illustrare del
piacere sensibile ciò che si suol chiamare « bellezza ». Kant unificò quelle
due de- finizioni complementari del B. e insistette su quello che anche oggi
appare come il carattere fon- damentale di esso cioè il disinteresse.
Conseguen- temente egli definiva il B. «ciò che piace uni- versalmente e senza
concetti » (Crif. del Giud., $ 6): e insisteva sull’indipendenza del piacere
del B. da ogni interesse, sia sensibile che razionale. « Ognuno chiama
piacevole, egli disse, ciò che lo sodisfa, B. ciò che gli piace, buono ciò che
apprezza o approva, ciò a cui dà un valore oggettivo. Il pia- cere vale anche
per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini nella loro
qualità di esseri animali ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono
ragiopondente alle tre forme dell’attività umana riconosciute proprie
dell’uomo: l’intelletto, il sentimento e la volontà. Per quanto questa
tripartizione sia stata per lungo tempo ritenuta come un dato di fatto
originario, testimoniato dalla «coscienza» o dall’« esperienza interiore +»,
essa è in realtà una nozione storicamente derivata, che è nata, nella seconda
metà del ’700, dal- l’inserirsi della « facoltà del sentimento » tra le altre
due facoltà (riconosciute sin dal tempo di Aristotele): la teoretica e la
pratica (v. GUSTO; SENTIMENTO). 5° Come perfezione espressiva o compiutezza dell’espressione,
il B. è implicitamente o esplicita- mente definito da tutte le teorie che
considerano l’arte come espressione (v. ESTETICA, 3). Croce ha detto: « Ci
sembare al dominio della moralità, cioè dei mores, della condotta, dei
comportamenti umani inter-soggettivi, e designa perciò il valore specifico di
tali compor- tamenti. In questo secondo significato, cioè come B. morale, il B.
è oggetto dell’etica e la registra- zione dei suoi differenti significati
storici deve es- sere fatta appunto a proposito della voce Etica (v.). In
questa sede dovremo pertanto occuparci della nozione del B. solo nel primo
senso, cioè nella sua accezione più generale. Possiamo allora di- stinguere due
punti di vista fondamentali, che si sono intersecati nella storia della
filosofia: 1° la teoria mefafisica per la quale il B. è la realtà e
precisamente la realtà perfetta o suprema e viene desiderato come tale; 2° la
teoria sogget- tueste cose e sta al di là di esse (/bid., 509 b). Analogamente
Plotino vede nel B. la prima Ipostasi, cioè l'origine della realtà, Dio stesso,
e lo considera come causa ad un tempo dell’essere e della scienza (Enn., VI, 7,
16) e in generale di tutto ciò che è o vale a un titolo qualsiasi (/bid., V, 4,
1). Queste nozioni di- vennero correnti nella filosofia medievale che iden-
tificò, secondo l’esempio neo-platonico, il B. con Dio stesso in modo che può
dirsi « buono » solo ciò che in qualche modo è simile a Dio (S. Tom- MASO, S.
Th., I, q. 6, a. 4). Il teorema caratteristico di questa concezione del B. è
quello che afferma l’identità di ciò che è B. e di ciò che esiste. « Bonum e
ens sono la stessa cosa in realtà, dice S. Tommaso, per quanto pos- sano dissè
col B. » (Philosophische Propàdeutik, III, $ 83); o che il B. è «la libertà
realizzata, l’assoluto scopo finale del mondo » (Fil. del dir., $ 129). Tutte
le forme di idealismo e di spiritualismo costituiscono altrettante dottrine
metafisiche del B. giacchè tutte identificano il B. con la realtà e, al limite,
con la realtà suprema; così fa, per es., Rosmini che iden- tifica l’essere e il
bene (Principi della scienza morale, ed. naz., pag. 78) e così fa Gentile che
identifica il B. con lo spirito in atto: «Il B. o valore morale non è altro che
la realtà spirituale nella sua idea- lità, come produzione di se stessa o
libertà » (Lo- gica, I, pag. 110). Alcune filosofie contemporanee che
preferiscono parlare del valore anzichè del B., considerando il valore coola
dei valori prescindeva com- pletamente dalla perfezione oggettiva cui si rife-
rivano le tavole dei valori della concezione clas- sica greca. Obliterata per
tutto il Medioevo, la concezione soggettivistica del B. ritorna, nel
Rinascimento, con gli accenni a un’etica del movente che ricorrono in questo
periodo (v. Erica). Ma fu affermata nella sua forma più recisa da Hobbes.
«L'uomo, egli dice, chiama buono l’oggetto del suo appetito o del suo
desiderio, cartivo l’oggetto del suo odio 0 della sua avversione, vile
l’oggetto del suo disprezzo. Le parole ‘ buono ”, ‘ cattivo ’, ‘ vile’,
s'intendono sempre in rapporto a chi le adopera; perchè non c’è nulla di
assolutamente e semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il B. e
per il male, che derivi dalla natura delle cose +» (Leviath., I, 6). Spinoza
accettò con entusiasmo questo punto di vista. « Noi non ci proponiamo,
vogliamo, deside- riamo, bramiamo una cosa perchè la giudichiamo buona; ma al
contrario giudichiamo buona una cosa per il fatto che la proponiamo, vogliamo,
de- sideriamo e bramiamo +» (Er., III, 9, Scol.). E nella Prefazione al IV
libro ribadisce: «Il B. e il male non indicano nulla di positivo, che sia nelle
cose in sè considerate; ma sono nient’altro che modi di pensare o nozioni che
ci formiamo confrontando le cose fra loro. Difatti una stessa cosa può nello
stesso tempo essere buona, cattiva, e anche indiffe- rente ». A sua volta Locke
affermò che «ciò che è àtto a produrre piacere in noi è quello che chia- miamo
B. e ciò che è àtto a produrre pena è ciò che chiamiamo male» (Saggio, II, 21,
43); defini- zioni che trovano consenziente Leibniz: « Si divide il B. in
onesto, piacevole e utile, ma in fondo io credo che esso deve essere o
piacevole di per se stesso o servire a qualcosa che ci dia un sentimento di
piacere: e cioè il B. è piacevole o utile e l’onesto stesso consiste in un
piacere dello spirito » (Nouv. Ess., II, 20, 2). Kant ha accettato queste
notazioni aggiungendovi un elemento importante, cioè l’esi- genza di un
riferimento concettuale. «Il B., egli dice, è ciò che, mediante la ragione,
piace per il suo puro concetto. Chiamiamo qualcosa buona a (utile) quando essa
piace solo come mezzo; quella che invece piace per se stessa, la diciamo buona
102 in sè. In acere perchè al riconosci- mento del B. è connessa la valutazione
concettuale della sua efficienza rispetto a certi fini e questo costituisce il
B. come « un valore oggettivo ». Dopo di Kant, la nozione di valore ténde a
soppiantare quella di B., nelle discussioni morali, e può essere considerata
come l’erede del concetto soggettivo di B., dotata com’è delle sue stesse con-
nessioni sistematiche. Sul suo terreno tuttavia rina- scerà, in forma appena
mutata, l’alternativa tra una concezione oggettivistica e una concezione sog-
gettivistica: alternativa che a tutt’oggi costituisce uno dei temi fondamentali
della discussione morale (v. VALORE). BENE SOMMO (gr. caya0év; lat. Summum bonum; ingl.
Supreme Good; franc. Souverain Bien;
ted. Das hochste Gut). Nozione introdotta da Ari- stotele per indicare ciò che
viene desiderato di per se stesso e non in vista di un B. ulteriore. Un B.
sommo è necessario che ci sia per evitare il processo all’infinito (Et. Nic.,
I, 2, 1094a 18). Per Aristotele il sommo B. è la felicità. Gli Scola- stici
adoperano l’espressione per indicare Dio stesso (S. Tommaso, S. 7h., I, q. 6,
a. 1). Kant ritenne l’aggettivo «sommo» equivoco giacchè esso può significare
sia supremo (supremum) sia perfetto (con- BENE SOMMO summatum). Il B. supremo è
la condizione prima, originaria di ogni B.: è perciò la virtù. Ma il B.
perfetto è quello che non è parte di un B. mag- giore della stessa specie; e in
questo senso la virtù non può dirsi il B. perfetto, che è invece l’unione di
virtù e felicità (Crit. R. Pratica, Dialettica, ca- pitolo II). BENEVOLENZA. V.
Bontà. BENTHAMISMO. V. UTILITARISMO. BERGSONISMO. V. SPIRITUALISMO.
BERKELEISMO. V. IMMATERIALISMO. BICONDIZIONALE (ingl. Biconditional; fran- cese
Biconditionnel). Con questo nome o con quello di «equivalenza materiale » è
inteso comunemente, nella logica contemporanea, il connettivo «se e solo se»
simboleggiato talora col segno = (cfr. Quine, Methods of Logic, $ 3). Il B.
equivale ovvia- mente alla congiunzione dei due condizionali « se p allora g +
e «se gq allora p». BIOGENETICA, LEGGE (ted. Biogenetisches Grundgesetz). Così
il biologo tedesco Ernesto Hae- ckel (1834-1919) chiamò il parallelismo tra lo
svi- luppo dell’embrione individuale e lo sviluppo della specie a cui esso
appartiene. Per ciò che riguarda l’uomo, «l’ontogenesi ossia lo sviluppo
dell’individuo è una breve e rapida ripetizione (una ricapitola- zione) della
filogenesi o evoluzione della stirpe cui esso appartiene » (Nasùrliche
Schopfungsgeschichte, 1868; trad. ital., pag. 178-89). BIOLOGISMO (ingl.
Biologism; franc. Biolo- gisme; ted. Biologismus). 1. L’interpretazione del
mondo fisico o del mondo umano per analogia con l’organismo (v. ORGANICISMO).
2. Lo stesso che Vitalismo (v.). 3. La metafisica di Hans Driesch (1867-1941),
in quanto è una « filosofia dell’organico ». Driesch divide infatti la
filosofia in « dottrina dell’ordine » che ha per oggetto l’intero mondo
inorganico e « dottrina della vita » che ha per oggetto il mondo organico. Il
presupposto di questa suddivisione è che l'organismo non è riducibile a forma o
mani- festazione dell’ordine inorganico; o, in altre parole, non è una macchina.
Ciò che esso ha in più della macchina è l’entelechia che è concepita da Driesch
come una specie di monade nel senso leibniziano, la quale determina tutto lo
sviluppo di un essere vivente. L’entelechia è sopra-individuale e sopra-per-
sonale: la nascita di un uomo non è che la manife- stazione di un’entelechia,
manifestazione che ter- mina con la morte. Gli individui sono soltanto parti
della vita sopra-personale dell’entelechia (Philosophie des Organischen,
1908-09; Ordnungslehre, 1925). BIOSFERA (franc. Biosphère). Così Le Roy ha
chiamato la vita nella sua totalità, in quanto sta con gli individui nello
stesso rapportsciplina » o di «regole » e di « B. di li- bertà »; di « B. di
affetto » e di « felicità », di « aiuto », di «comunicazione + e via dicendo.
Ogni tipo o forma possibile di rapporto tra l’uomo e le cose o tra l’uomo e gli
altri uomini può essere conside- rata sotto l’aspetto del B.: il quale implica
la di- pendenza dell’essere umano da tali rapporti. Nella storia della
filosofia la nozione del B. è stata trat- tata sotto due angoli visuali: 1° più
frequentementedal punto di vista morale, cioè dal punto di vista del problema
dell’atteggiamento da prendere di fronte ai B., se limitarli o incoraggiarli o
in che modo e grado limitarli; 2° meno frequentemente, dal punto di vista della
importanza e del signifi- cato che il bisogno ha rispetto al modo d’essere
proprio dell’uomo, della possibilità che offre di comprendere e descrivere la
sua esistenza. Il pro- blema della disciplina dei B., cioè della limitazione
qualitativa e quantitativa di essi, è il problema stesso della virtù, in
particolare della virtù etica; e i suoi sviluppi storici devono essere
considerati per l’appunto sotto la voce Virtà (v.). Il problema che il B.
presenta come segno, sintomo o elemento della condizione umana, può essere
invece consi- derato in questa sede. Nell’antichità, Platone pare che abbia
riconosciuto il valore del B.: questo sembra essere il significato
dell’importanza che egli riconosce all’amore, che egli intese nel Convito
(204-05) nel significato più vasto, come mancanza e ricerca di ciò che manca.
AI B. inoltre, Platone attribuì nella Repubblica (II, 369b sgg.) l’origine
dello Stato: « Quando un uomo prende con sè un uomo in vista di un B. e un
altro uomo in vista di un altro B., e la molteplicità dei B. riunisce nella
stessa residenza più uomini che si associano per aiutarsi, a questa società noi
diamo il nome di Stato ». Meno esplicita è la funzione che la nozione del B. ha
nella filosofia di Aristotele: il quale non ignora certo il peso che esso ha
nella vita singola e associata dell’uomo (come mostra specialmente la sua
Politica) ma non gli attribuisce una funzione 103 specifica: l’origine stessa
dello Stato è da lui posta nell’esigenza di realizzare una vita felice, che si-
gnifica prevalentemente una vita virtuosa (Pol., VII, 2, 1324 a S sgg.). La
filosofia post-aristotelica si disinteressa dei bisogni anche quando con Epi-
curo prescrive di sodisfarli (Mass. capit., 26; Fr. 200, Usener), giacchè è
troppo occupata a delineare l’ideale del saggio, dedito alla vita puramente
con- templativa. E non si avvalgono del B. per inter- pretare la realtà umana
nè la filosofia medievale, nè quella moderna, le quali preferiscono far leva su
quegli elementi o caratteri che mettono in ri- salto piuttosto l’indipendenza
dell’uomo dal mondo che la sua dipendenza da esso. Hegel, pur parlando di un
«sistema dei B.» preferisce insistere sul- l’aspetto per cui il B. è dominato
dall’uomo più che dominarlo: « L'animale ha una cerchia limitata di mezzi e di
modi di appagamento dei suoi B., che sono parimenti limitati. L'uomo, anche in
questa dipendenza, dimostra, nello stesso tempo, il suo superamento della
medesima e la sua univer- salità, soprattutto mediante la moltiplicazione dei
B. e dei mezzi e poi mediante la scomposizione e la distinzione del B. concreto
» (Fil. del Dir., $ 190). La prima clamorosa affermazione dell’importanza dei
B. per l’interpretazione di ciò che l’uomo è O può essere, si può scorgere
nella filosofia di Scho- penhauer che interpretò come B., quindi come man-
canza, quindi come dolore, la volontà di vita che costituisce l’essenza
noumenica del mondo. «La base di ogni volontà è bisogno, mancanza, ossia
dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura » (Die Welt, 1819, I,
$ 57). Al di fuori della metafisica, sul terreno dell’antropologia, insisteva
sulla stretta connessione del B., con la natura umana L. Feuerbach (Grundsatze
der Philosophie der Zukunft, 1844). Marx nei suoi scritti giovanili (Economia e
filosofia, 1844; Ideologia tedesca, 1845-46) accentuò l’importanza dei B. e
perciò del lavoro diretto a sodisfarli, sino a farne il tema fondamentale della
sua antropologia (v. PER- sona). Nella filosofia contemporanea, oltre che dal
marxismo, l’importanza della nozione del B. per l’interpretazione della realtà
umana, è sotto- lineata da un lato dal naturalismo, dall’altro dal-
l’esistenzialismo. Dewey, per es., insistendo sulla « matrice biologica » di
ogni attività umana, quindi anche della logica, vede nel B. la rottura dell’in-
stabile equilibrio organico e l’inizio della ricerca che ténde a ristabilirlo
(Logic, cap. II; trad. ital., pag. 63). Dall’altro lato Heidegger definendo l’«
es- sere-nel-mondo + in cui l’esistenza dell’uomo con- siste come cura (v.),
insiste sulla dipendenza del- l’uomo dal mondo, sul suo «esser gettato nel
mondo, dal quale le possibilità umane dei rapporti con le cose e con gli altri
uomini si trovano do- minate » (Sein und Zeit, $ 39 sgg., cfr. $ 20). La
nozione di bisogno che emerge da queste notazioni non è quella di uno stato
provvisorio di mancanza o di deficienza (si ha bisogno dell’aria anche se ce
n’è in abbondanza) ma piuttosto quella di uno stato o condizione di dipendenza
che caratterizza, in modo specifico, l’uomo e in generale l’essere finito nel
mondo. BOCARDO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il
quinto dei sei modi del sillo- gismo di terza figura e precisamente quello che
con- siste di una premessa particolare negativa, di una premessa universale
affermativa e di una con- clusione particolare negativa come nell’esempio:
«Qualche uomo non è pietra, Ogni uomo è ani- male, Dunque qualche animale non è
pietra» (Pietro Ispano, Summul. logic., 4.15). BONTÀ (lat. Bonitas; ingl.
Goodness; francese Bonté; ted. Giitigkeit). Nel significato più esteso:
l’eccellenza di un oggetto qualsiasi (cosa o persona). Dice, ad es., S.
Tommaso: «La B. che in Dio è semplicemente e uniformemente, nelle creature è in
modo molteplice e diviso» (S. 7h., I, q. 47, a. 1). Le discussioni del Sei e
Settecento intorno alla B. di Dio come movente della creazione (cfr. LerBNIZ,
7héod., II, $ 116 e sgg.) si fondarono su un più ristretto significato del
termine, che fu espresso chiaramente da Baumgarten: « La B. (be- nignità), egli
disse, è la determinazione della volontà a far bene agli altri. Il beneficio è
l’azione utile all’altro, suggerita dalla B.» (Mer., $ 903). In questo senso la
B. si identifica con quella che Ari- stotele chiamava benevolenza (eùvola) (Er.
Nic., VIII, 2, 1155 b 33). I due significati del termine sono vivi nell'uso
comune. BORIA. Vico parla della B. delle nazioni che consiste nel credere
«d’aver esse prima di tutte l’altre ritrovati i comodi della vita umana e con-
servar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo +»: e della B.
dei dotti «i quali, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo
» (Scienza Nuova, 1744, Degn. 3, 4). La B. dei dotti ha impedito di riconoscere
che l’origine del mondo storico è dovuta a «uomini bestioni » e ha con- dotto
ad attribuire tale origine a « uomini sapienti » che avrebbero agito per
riflessione. BOVARISMO (franc. Bovarisme). Termine de- rivato dal nome della
famosa eroina di Flaubert (Madame Bovary, 1857) per indicare l’atteggiamento di
chi crea a se stesso una personalità fittizia e cerca di vivere in conformità
di essa, urtando contro la sua propria natura e contro i fatti. Il termine fu
creato da Jules de Gaultier (Le bovarisme, 1902). BRACHILOGIA (gr.
Bpayvàdoyia). Nel Prota- gora di Platone, Socrate contrappone alla tendenza di
Protagora di tener lunghi discorsi, la sua esi- BOCARDO genza di risposte brevi
e succinte, ovviamente perchè soltanto attraverso lo scambio di frasi concise è
pos- sibile la discussione dialogata (Prof., 334 c-335 a). BRUTISMO (franc.
Brutisme). Termine adope- rato da St.-Simon per indicare la concezione mec-
canistica dei fenomeni, e che è perciò l’equivalente di meccanicismo (v.).
BUDDISMO (ingl. Buddhism; franc. Bouddhi- sme; ted. Buddhismus). La dottrina
religiosa e filoso- fica che si è originata dagli insegnamenti di Gautama Budda
(563-480 a. C. circa) e che è poi stata svolta da mumerosissimi indirizzi in
India, in Cina e in Giappone. I principali testi del B. sono quelli scritti in
lingua pali, detti Tipitaka e divisi in tre gruppi o ceste che sono: 1° il
Surrapitaka che o sforzo; 7° nella giusta men- talità; 8° nella giusta
concentrazione. L’uomo è, secondo il B., sottoposto alla legge del-
l’incessante fiuire della vita (dharma) che lo porta di desiderio in desiderio,
di dolore in dolore, e di incar- nazione in incarnazione. Finchè l’uomo non si
libera dal desiderio, è sottoposto al ciclo della rinascita (sam- sara). La
liberazione dal desiderio, ottenuta attraverso le regole morali suddette e la
disciplina ascetica (che il B. condivideva con il bramanesimo e con la pra-
tica yoga), si ha soltanto con la dissoluzione dell’il- lusione prodotta dal
desiderio (e che è il karma), con l’eliminazione del desiderio stesso e la di-
struzione dell’attaccamento alla vita, che è il nirvana. Le numerosissime
scuole, sètte, indirizzi a eguale in tutti gli uomini ». Questa sinonimia non
potrebbe più oggi essere ammessa. Da un lato la ragione è passata sempre più a
designare tecniche specifiche (v. RAGIONE), dall’altro il B. senso è rimasto a
designare un certo equilibrio e una certa moderazione nel giudizio sulle
faccende ordinarie della vita e nel modo quo- tidiano di comportarsi. Spesso
tuttavia accade che ciò che appare stravagante o paradossale al B. senso ha
maggior valore di ciò che ad esso è conforme: perchè il B. senso non può far
altro che riferirsi al sistema stabilito di credenze e di opinioni e non può
giudicare che in base ai valori che esso include. Molto spesso la scienza e Ja
filosofia devono pre- scindere dal B. senso, per quanto non possano prescindere
mai o mai interamente da quelle fac- cende quotidiane e minute fra le quali il
B. senso dovrebbe trovarsi a suo agio.C. 1. Nella logica medievale tutti i
sillogismi indi- cati con parole mnemoniche che cominciano con C sono
riducibili al secondo modo della prima figura (Celarent) (cfr. Pietro Ispano,
Summ. Log., 4.20). 2. Nella notazione di Lukasiewicz è usato per indicare il
condizionale o l’implicazione logica, più comunemente simboleggiato con «95»
(A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 91). CADUTA (gr. tertwaw; lat.
Casus; ingl. Fall; franc. Chute; ted. Fall).
Il mito della C. dell’anima umana da uno stato originario di perfezione, nel
quale contemplava beata la verità a faccia a faccia, è esposto nel Fedro (248a
e sgg.) di Platone e ripetuto da Plun’addizione o sottrazione delle conseguenze
dei nomi generali riuniti insieme per definire ed esprimere i nostri pensieri »
(Leviarh., I, 5). Leibniz chiamò « C. filosofico », la scienza universale o ca-
ratteristica universale (v.) in cui egli vedeva lo strumento dell’invenzione
concettuale (Op., ed. Erd- mann, pag. 82 sgg.). Carnap distingue il C. dal
sistema semantico nel senso che « mentre gli enun- ciati di un sistema
semantico sono interpretati, asse- riscono qualcosa, perciò sono o veri o
falsi, entro un calcolo gli enunciati sono considerati da un punto di vista
puramente formale ». Per sottolineare tale di- stinzione talvolta si chiamano
formule gli elementi di un C. e proposizioni gli elementi di un sistema se-
mantico (Foundations of Logic and Mathematics, $ 9). Lo stesso Carnap ha
osservato che i calcoli possono prendere il nome o dai segni o espressioni che
ricor- rono in essi, e in tal senso si dice calcolo degli enun- ciati o dei
predicati oppure, come accade più frequen- temente, dai loro designati cioè
dagli oggetti cui si riferiscono (Introduction to Semantics, 2> ediz., 1959,
p-230). In questo secondo senso, il C. proposizionale è lo studio formalizzato
dei connettivi logici (v. Con- NETTIVI) e i suoi teoremi sono costituiti dalle
formule che possono essere derivate dalle formule primitive con l’applicazione
successiva delle regole primitive di inferenza. Il C. funzionale ha invece per
oggetto le funzioni proposizionali (v. FUNZIONE) e adopera, oltre i connettivi,
il quantificatore universale (v. OpE- RATORE). Il C. delle classi o algebra
delle classi, ha da fare con classi o insieme determinati da fun- zioni
proposizionali o predicati e mette capo a formule che sono espressioni nelle
quali ricorre il simbolo = o =/= (disuguale). L’algebra delle classi è
isomorfica con il C. funzionale perchè coincide con esso nel suo significato
(v. ALGEBRA DELLA Logica). Infine l’a/gebra delle relazioni è lo studio
formalizzato delle relazioni (v.). CANCELLAZIONE CALCOLO COMBINATORIO. V. ARTE
COMBINATORIA. CALCOLO EDONISTICO (ingl. Hedonic Calculus). Così Bentham chiamò
la tavola com- pleta dei moventi dell’azione umana, da servire di guida per
ogni futura legislazione. La tavola com-prende la determinazione della misura
del dolore e piacere in genle: « Parmenide prende per princìpi il C. e il
freddo, che egli però chiama fuoco e terra » (Fisica, I, 5, 188 a 20). Nel
Rinascimento Bernardino Telesio la riprendeva considerando il C. e il freddo
come le due forze o « nature agenti» che determinano l’universo e delle quali
l’una risiede nel Sole, l’altra nella Terra (De Rer. Nat., I, 3). CALENDES.
Parola mnemonica usata dalla Logica di Porto Reale per indicare il sesto modo
del sillogismo di prima figura (cioè il Celantes), con la modificazione di
assumere per premessa mag- giore la proposizione in cui entra il predicato
della conclusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i mali della vita sono mali
passeggeri, Tutti i mali passeggeri non sono da temersi, Dunque nessuno dei
mali che sono da temersi è un male di questa vita + (ARNAULD, Logique, III, 8).
CALVO, ARGOMENTO DEL. V. AceRrvo, ARGOMENTO DELL’. CAMBIAMENTO. V. MUTAMENTO.
CAMESTRES. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il secondo dei
quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello che
consiste di una premessa universale af- fermativa, di una premessa universale
negativa, e di una conclusione universale negativa, come nel- l’esempio: «Ogni
uomo è animale, Nessuna pietra è animale, Dunque nessuna pietra è uomo »
(PIETRO Ispano, Summul. logic., 4, 11). CAMPO (ingl. Field; franc. Champ; ted.
Feld). L'insieme delle condizioni che rendono possibile un evento; o i limiti
di validità o di applicabilità di uno strumento conoscitivo. Kant diceva: « I
mperatura attraverso il volume è un esempio fisico di scalare di C. (D’ABRO,
New Physics, ca- pitolo X). Analogamente nella psicologia, per es., nella
psicologia della forma, dove è stato illustrato così: « Ciò che determina
l'impressione di colore che proviamo in un punto circoscritto del C. vi- sivo è
lo stato eccitatorio globale del C. visivo; ciò che determina l’impressione di
un peso che alziamo non è soltanto la tensione del gruppo mu- scolare
immediatamente legato al sollevamento del peso, ma pure il tono di tutto il
resto della musco- latura » (KATZ, Gestalipsychologie, 3; trad. ital., pag.
29-30). Più precisamente e generalmente, K. LEWIN ha definito il C., inteso
quale lo « spazio vitale» di un organismo, come «la totalità degli eventi possibili
», dalla quale deriverebbe il com- portamento dell’organismo stesso (Principles
of To- pological Psychology, 7* ediz., 1936, pag. 14). Dewey adopera la parola
in senso generico: «È sempre in un qualche C. che si verifica l’osserva- zione
di questo o quell’oggetto. Tale osservazione è fatta allo scopo di trovare ciò
che quel C. rap- presenta in rapporto a qualche attiva risposta di adattamento
con cui far procedere un corso di comportamento » (Logic, Intr.; trad. ital,
pa- gina 11l). Più precisamente la nozione è usata in logica, dove per C. di
una relazione si intende l’insieme del dominante e del dominante inverso della
rela- zione: cioè dei termini che sono in una data rela- zione con questo o
quel termine (dominanti) e dei termini con cui questo o quel termine si trova
in una data relazione (dominanti inversi) (v. RELA- ZIONE). Il concetto è stato
anche usato per la teoria del significato (cfr. A. P. UsHENKO, The Field Theory
of Meaning, 1958) e nella linguistica, nella quale il C. è stato inteso come la
rete di associa- zioni che connettono un termine a molti altri ter- mini
(ULLMANN, Semantics, 1962, IX, 1). CANCELLAZIONE (ted. Durchstreichung). Nelle
/deen (I, $ 106) Husserl chiama C. la nega- 108 zione di una credenza o la
presa di posizione contro di essa. CANONE (gr. xawoy; ingl. Canon; franc.
Canon; ted. Kanon). Criterio o regola di scelte per un campo qualsiasi di
conoscenza o di azione. Il ter- mine fu introdotto probabilmente dallo scultore
Policleto che intitolò così un’opera nella quale de- scriveva la simmetria del
corpo e indicava le regole e le proporzioni che lo scultore deve rispettare
(40, A, 3 Diels). Epicuro chiamò canonica la scienza del criterio, criterio che
per lui è la sensazione nel dominio della conoscenza, e il piacere nel dominio
pratico (Diog. L., X, 30). Il termine fu ripreso dai matematici del °700 e
Leibniz l’adopera per desi- gnare « le formule generali che dànno ciò che si
do- manda » (Math. Schriften, VIII, 217), per es., quella che dà due numeri di
cui si conosce la somma e la differenza o quella che dà le radici di un’equa-
zione. Stuart Mill chiama C. le regole che espri- mono i quattro metodi della
ricerca sperimentale, cioè quelli di concordanza, di differenza, dei re- sidui
e delle variazioni concomiime dicendo: «Si deve poter volere che la massima
della, nostra azione diventi legge universale » (Grundlegung zur Mer. der
Sitten, II). Nella filosofia moderna e nella filosofia contemporanea si adopera
più frequente- mente il termine criterio (v.). Anche C. viene però talvolta
adoperato nel senso tradizionale. Dewey chiama C. i princìpi logici d’identità,
di contrad- dizione, e del terzo escluso (Logic, cap. XVID. CAOS (gr.
y&wc). Propriamente: abisso sbadi- gliante. Lo stato di completo disordine
anteriore alla formazione del mondo e dal quale tale for- mazione s’inizia,
secondo i mitologi. Esiodo dice: «Prima di tutti gli esseri ci fu il C., poi la
Terra dal largo seno» (Teog., V, 116). Aristotele com- battette questa nozione
(Fis., IV, 208 b 31 sgg.) perchè ammise l’eternità del mondo. Kant si servì di
essa per indicare lo stato originario della materia dal quale si sono poi
originati i mondi (Allgemeine Natur- geschichte oder Theorie des Himmels, 1755,
Pref.). CARATTERE (gr.
yapaxtip, 7006; lat. Cha- racter; ingl. Character; franc. Caractère; ted. Cha- rakter). Propriamente il segno, o l’insieme di
segni, che contraddistingue un oggetto e consente di ri- conoscerlo agevolmente
tra gli altri. In particolare, il modo d’essere o di comportarsi abituale e
costante di una persona, in quanto individua e distingue la persona medesima.
In questo senso diciamo che « Una persona ha un C. ben marcato» o «ben deciso
», nel senso che il suo modo di agire rivela orientamenti abituali e costanti;
e qualche volta, semplicemente, « È un C.». All’opposto descri- viamo come «
mancanza di C.» o «C. debole», «incerto » o «incostante » un comportamento abi-
tualmente dovuto piuttosto a scelte casuali e ca- pricciose che ad un
orientamento determinato e costante. Gli antichi possedevano questa nozione.
Eraclito dice che il C. ({90c) di un uomo è il suo destino (Fr. 119, Diels). E
l’aristotelico Teofrasto ci ha lasciato nello scritto intitolato / C. la
descrizione di trenta tipi di C. morali (l’importuno, il vanitoso, lo
scontento, il fanfarone, ecc.) descritti appunto sul fondamento delle loro
manifestazioni abituali. Dimenticata nel Medioevo, durante il quale la pa- rola
servì prevalentemente a designare l’indistrut- tibilità della ordinazione
sacerdotale (S. TomMASO S. Th., III, q. 65, a. 1 sgg.) la nozione fu ripresa
nel '600 e rimessa in circolazione da La Bruyère (Les caractères, 1687). Kant
l’ha utilizzata nel ten- tativo di conciliare la causalità naturale e la cau-
salità libera. Ciascuna causa efficiente deve avere un carattere, cioè «una
legge della sua causalità, senza la quale non sarebbe causa ». Un oggetto del
mondo sensibile ha in primo luogo un C. em- pirico per il quale i suoi atti,
come fenomeni, sono connessi causalmente con gli altri fenomeni in con- formità
delle leggi naturali. Ma lo stesso oggetto può anche avere un C. intellegibile
« per il quale esso è sì la causa di quegli atti come fenomeni, ma di per se
stesso non sottostà a nessuna condi- zione sensibile e non è fenomeno». Del C.
intel- legibile si può dire « che esso comincia da se stesso i suoi effetti nel
mondo senza che l’azione cominci in lui stesso +; e con questa distinzione Kant
crede di aver accordato fra loro libertà e natura (Critica R. Pura, Antinomie
della ragion pura, $ 3). Meno metafisicamente (e più chiaramente) nell’
Antropo- logia egli distingue un C. fisico che è il segno di- stintivo
dell’uomo come essere naturale e un C. morale che è il segno dell’uomo come
essere razio- nale, provvisto di libertà. Il C. fisico dice «ciò che si può
fare dell’uomo, il C. morale dice ciò che l’uomo è capace di fare di se stesso»
(Antr., II, a). Schopenhauer ha utilizzato la distinzione kantiana tra C.
empirico e C. intelligibile per ne- CARATTERE gare la libertà: tutto ciò che
l’uomo fa sarebbe la manifestazione di un €. intelligibile innato e immutabile
(Die Welt, I, $ 55; Neue Paralipo- mena, $ 220). La distinzione kantiana di un
duplice C., l’uno naturale e immutabile, l’altro morale e libero, viene
universalmente abbandonata nella antropologia con- temporanea che tuttavia dà
grande rilievo alla no- zione di carattere. Ma nell’interpretazione di questa
nozione, l’antropologia contemporanea si può dire che assuma o l’uno o l’altro
dei due concetti in cui Kant aveva distinto la nozione stessa, e cioè o che
intende il C. come una formazione naturale inevitabile che l’uomo porta con sè
e non può modificare, o lo intende come una formazione do- vuta alle scelte
dell’uomo e perciò essa stessa libera e modificabile. Accenneremo solo ad
alcune delle principali prese di posizioni in un senso o nell’altro. La teoria
dei tipi psicologici di Jung appartiene al primo indirizzo perchè considera il
C. come un orientamento prevalentemente inconscio dovuto a disposizioni
organiche o al fondamento istintivo. Il C. di un uomo è la direzione in cui
avviene l’in- contro tra quest'uomo e il mondo o tra questo uomo e la società:
è cioè il complesso degli atteg- giamenti o delle disposizioni ad agire o
reagire in una certa direzione. Ora, nell’incontro tra l’uomo e il mondo, due
atteggiamenti fondamentali sono possibili: o l’uomo cerca di dominare il mondo,
cioè gli oggetti esterni, assumendo un atteggia- mento attivo, positivo,
creatore, oppure cerca sem- plicemente di difendersi da egie, pag. 1). Soltanto
che per Le Senne il C. non costituisce la totalità dell’uomo: è soltanto uno
degli elementi della sua personalità, la quale comprende, oltre il C., anche
elementi liberamente acquisiti, che possono contri- buire a specificare il C.
stesso in un senso o nell’altro. Il C. è pertanto un limite oggettivo,
intrinseco alla stessa personalità, della scelta che la personalità può fare
liberamente di se stessa; ma come limite è qualche cosa di congenito e, in se
stesso, di im- mutabile. La determinazione dovuta al C., non è quindi per Le
Senne una determinazione neces- sitante nonostante la sua originarietà e la sua
immutabilità relativa. Per quanto su questo punto Le Senne si riattacchi ad un
caposaldo stabi- lito da Adler (di cui diremo sùbito) la nozione di C. rimane
in lui quella di una determinazione o complesso di determinazioni originarie e
immodi- ficabili, cioè rimane fissa a quel significato per il quale esso non si
distingue da temperamento (v.). Questo concetto del C. fa della libertà e del
deter- minismo nella personalità umana due forze diverse e reciprocamente
autonome, di cui l’una risiede nell’io, l’altra nel C. (o nel temperamento),
riprodu- cendo, in linguaggio diverso, il dualismo kantiano di C. intelligibile
e C. empirico. La dottrina di Adler si era invece sottratta a questo dualismo.
Per Adler il C. è la manifestazione oggettiva, rilevabile attraverso
l’esperienza sociale, della stessa personalità umana. Non solo il C. è un
«concetto sociale » nel senso che si può par- lare di C. solo riferendosi alla
connessione di un uomo col suo ambiente, ma anche i tratti o le di- sposizioni
di cui il C. consiste sono rilevabili solo socialmente. Le manifestazioni del
C. « sono simili ad una linea direttiva che aderisce all'uomo come uno schema e
che gli permette, senza molta rifles- sione, di esprimere in ogni situazione la
sua origi- nale personalità » (Menschenkenntnis, 1926, II, 1; trad. ital, pag.
150 sgg.). Esse non esprimono alcuna forza e substrato innato, ma sono, anche
se molto presto, acquisite. Il C. sostanzialmente è il modo in cui l’uomo
prende posizione di fronte al mondo naturale e sociale; e Adler fonda la va-
lutazione di esso su due punti di riferimento: la volontà di potenza e il
sentimento sociale, che con la loro azione reciproca costituirebbero gli
aspetti fondamentali del carattere. « Si tratta, egli dice, di un gioco di
forze la cui forma di manifestazione esteriore caratterizza ciò che noi
chiamiamo C. » (/bid., 1926, II, 1; trad. ital., pag. 176). Una di- stinzione
radicale tra persona e C. fa invece Scheler. La persona è il soggetto degli
atti intenzionali ed è quindi il correlato di un mondo, e precisamente del
mondo in cui essa vive. Il C., invece, è la co- stante ipotetica x che si
assume per spiegare le particolari azioni di una persona. Pertanto se un uomo
agisce in modo non corrispondente alle de- duzioni che abbiamo ricavate
dall’imagine ipote- ticamente assunta del suo carattere, si è disposti, a buon
diritto, a mutare questa imagine. Ma la persona non può mutare: non possono
quindi toc- carla i mutamenti di C., come non la tocca la malattia psichica che
solamente la nasconde (For- malismus in der Ethik, pag. 501 sgg.). Questa netta
separazione tra C. e persona, che in Scheler è dovuta al primato metafisico che
egli attribuisce alla persona, non trova però riscontri nell’antro- pologia
contemporanea. I tratti più comuni e im- portanti di questa antropologia per
ciò che riguarda la dottrina del C., si possono ricapitolare nel modo seguente:
1° il C. è la manifestazione oggettiva della personalità umana o è questa
stessa perso- nalità nel suo aspetto oggettivo, quale si lascia cogliere
attraverso la comune esperienza umana o le tecniche d'indagine della
personalità stessa (vedi PERSONALITÀ); 2° il C. si differenzia dal rempera-
mento (v.) perchè non è un dato puramente organico come quest’ultimo e perchè
non è un elemento immutabile e necessitante ma è il risultato delle scelte
effettuate da un individuo e consiste nelle costanti osservabili delle sue
scelte; 3° tali scelte non sono assolutamente libere nè necessitate, ma condizionate
da elementi organici, ambientali, so- ciali, ecc.; e nelle loro costanti
osservabili delineano un progetto di comportamento nel quale coincidono il C. e
la personalità dell’uomo. CARATTERE POETICO. Secondo Vico, i primi uomini
concepirono le cose dapprima me- diante « C. fantastici di sostanze animate e
mutoli » cioè mediante atti o corpi che avessero un qualche rapporto con le
idee e poi con « C. divini ed eroici, dappoi spiegati con parlari volgari »
(Scienza nuova, 1744, passim): nelle quali locuzioni ovviamente la parola «
carattere » sta per segno o simbolo. CARATTERI (ted. Charakters). Così Avena-
rius (Kritik der reinen Erfahrung, 1888-90) ha chia- mato uno dei due fattori
di cui è composto il mondo dell'esperienza e precisamente quello che consiste
nelle determinazioni emotive, esistenziali, pratiche e in generale valutative
degli elementi che costitui- scono l’altro fattore dell’esperienza stessa. Così
sono C. il piacere, il dolore, l’essere, l'apparenza, il sicuro, l’insicuro,
ecc., mentre sono elementi le sensazioni (suoni, colori, ecc.). CARATTERISMI
(ted. Charakterismen). Sono secondo Kant « designazioni dei concetti per mezzo
di segni sensibili concomitanti » come le parole, i gesti, i segni algebrici,
ecc. (Crit. del Giud., $ 59). CARATTERISTICA (lat. Characteristica). Leibniz
chiamò preferibilmente C. o C. universale quella che in un primo tempo (1666)
aveva chia- mato «arte combinatoria »: e cioè « l’arte di for- mare e di
ordinare i caratteri in modo che si rife- riscano ai pensieri, cioè in modo che
abbiano tra loro la stessa relazione che c’è tra i pensieri stessi ». I
caratteri non sono altro che i segni o scritti o di- segnati o scolpiti. I
fondamenti dell’arte C. sono espressi dallo stesso Leibniz nello scritto Funda-
menta calculi ratiocinatoris (Op., ed. Erdmann, pa- gina 92 sgg.) nel modo
seguente. Tutti i pensieri umani si possono ridurre a poche nozioni primitive:
Csistenza del tesoro sul letto di morte, sommuovono la terra e la fanno fertile
e questo è l’unico tesoro che tro- vano (Nova Dilucidatio Principiorum
Metaphysicae, 1755, prop. II. Tuttavia l’idea di Leibniz e i vari tentativi di
realizzarla costituiscono il precedente storico immediato della moderna logica
simbolica. CARATTEROLOGIA (franc. Caraciérologie; ted. Charakterologie o
Charakterkunde). Nome en- trato nell’uso nella seconda metà del secolo scorso
per indicare la scienza del temperamento o del ca- rattere. Cfr. CARATTERE;
ETOLOGIA. CARDINALI, VIRTÙ (lat. Cardinales virtutes; ingl. Cardinal Virtues;
franc. Vertues cardinales; ted. Kardinaltugenden). Così furono chiamate da S.
Ambrogio (De off. ministr., I, 34; De Par., III, 18; De sacr., III, 2) le
cristiano fondamentale «Ama il prossimo tuo come te stesso ». S. Paolo
soprattutto ha insistito sulla superiorità della C. sulle altre virtù cristiane
cioè sulla fede e sulla spe- ranza. «La C. sopporta tutto, ha fede in tutto,
spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la fede, la speranza e la C., queste
tre cose; ma la C. è la maggiore di tutte » (Cor., I, 13, 7, 13). La C. è
sostanzialmente, per S. Paolo, il legame che tiene avvinti i membri della
comunità cristiana e fa di questa comunità lo stesso «corpo di Cristo ». In
séguito, la filosofia cristiana ha visto nella C. so- prattutto il legame fra
l’uomo e Dio. S. Tommaso definisce la C. come « l’amicizia con Dio» e dice:
«Questa società dell’uomo con Dio, che è quasi una conversazione familiare con
Lui, comincia nella vita presente mediante la grazia e si perfe- ziona nel
futuro mediante la gloria; ed una cosa e l’altra sono tenute dalla fede e dalla
speranza » (S. 7h., II, 1, q. 65, a. 5). Sul concetto dell’amore cristiano, v.
AMORE. Nel linguaggio comune la pa- rola è talvolta adoperata invece di
beneficenza, cioè per significare l’atteggiamento di chi vuole il bene degli
altri e si comporta verso di essi generosamente. Ma anche il linguaggio comune
conosce e adopera il retto significato del termine, come quando si dice che
«Occorre un po’ di C.» a chi giudica troppo severamente del suo prossimo: nel
qual caso ovviamente C. significa amore o compren- sione (v. AMORE). CARNE (gr.
odpt; lat. Caro; ingl. Flesh; franc. Chair; ted. Fleisch). Nella terminologia
del Nuovo Testamento, e specialmente di S. Paolo, è qualcosa di differente dal
corpo. La C. o carna- lità è infatti l’avversione o la resistenza alla legge di
Dio, perciò il peccato o l’orientamento verso il peccato (per es., S. PaoLO, Ad
Rom., VII, 14; VIII, 3, 8, ecc. Cfr. BULTMANN, Theologie des N. T., 1948, pag.
223). Lo stesso senso il termine ha con- servato nel linguaggio comune e nella
predicazione moralistica. In un senso diverso ha usato il termine Merleau-Ponty
(Le visible et l’invisible, 1964), par- lando della «+ C. del mondo» come della
sostanza viva che è comune al corpo dell’uomo e alle cose del mondo e
costituisce insieme l’oggetto e il sog- getto delle esperienze umane.
CARTESIANESIMO. L'insieme dei capisaldi che sonata e c’è una C. cristiana
contro la quale, da Pascal in poi (Lettere Provin- ciali, 1657) è stato spesso
rivolta l’accusa di mora- lità rilassata o accomodante. L’esigenza di una C.
morale fu affacciata da Kant che così chiarì il concetto di essa: « L'etica,
per il largo margine che concede ai doveri imperfetti, conduce inevitabil-
mente a questioni che spingono il giudizio a deci- dere come la massima debba
essere applicata nei casi particolari o quale massima particolare (su-
bordinata) fornisca a sua volta (in questo modo possiamo sempre chiedere quale
sia il principio di applicazione di queste massime secondo i casi che si
presentano); e così l’etica sbocca in una C.». La C. non è nè una scienza nè
parte di scienza, perchè in tal caso sarebbe dogmat5) riportava l’opinione
secondo la quale la fortuna sarebbe una causa superiore e divina, nascosta
all’intelligenza umana. Ad errore o a illusione equiparavano il C. gli Stoici
che ritenevano che tutto accadesse nel mondo per un'assoluta necessità
razionale (P/ac. philos., I, 29). È chiaro che chi ammette una ne- cessità di
questo genere, e dovuta, o (come gli Stoici ritenevano) alla divinità immanente
nel cosmo, o all’ordine meccanico dell’universo, non può am- mettere la realtà
degli eventi che si sogliono chia- mare accidentali o fortuiti e tanto meno del
caso come principio o categoria di tali eventi; e deve vedere in essi l’azione
necessaria della causa ri- conosciuta in atto nell’universo, negando come
illusione o errore il loro carattere casuale. È ia contemporanea, Bergson ha
spiegato il C. con lo scambio, pura- mente soggettivo, tra l’ordine meccanico e
l’ordine vitale o spirituale: « Che il gioco meccanico delle cause che
arrestano la roulette sul numero mi faccia vincere e perciò agisca come avrebbe
fatto un genio benefico cui stessero a cuore i miei inte- ressi; o che la forza
meccanica del vento strappi dal tetto una tegola e me la lanci sulla testa,
cioè agisca come avrebbe fatto un genio malefico che cospirasse contro la mia
persona, in tutti e due i C. io trovo un meccanismo là dove avrei cercato o
dove avrei dovuto incontrare, a quanto sembra, un’intenzione: è questo che si
esprime parlando del C. » (Évol. créatr., 8* ediz., 1911, pag. 254). 2°
Dall'altro lato, secondo l’interpretazione og- gettivistica, il C. non è un
fenomeno soggettivo ma oggettivo e precisamente consiste nell’interse- carsi di
due o più ordini o serie diverse di cause. La più antica delle interpretazioni
del genere è quella di Aristotele. Aristotele comincia col notare che il C. non
si verifica nè nelle cose che accadono sempre allo stesso modo nè in quelle che
accadono per lo più nello stesso modo, ma piuttosto tra quelle che avvengono
per eccezione e fuori di ogni uni- formità (Fis., II, 5, 196b 10 e sgg.). In
tal modo egli correttamente assegna il C. alla sfera dell'im- prevedibile, cioè
di ciò che accade fuori del ne- cessario (« ciò che accade sempre allo stesso
modo ») e dell’uniforme («ciò che accade per lo più allo stesso modo +1).
Stando a ciò, il C. (o la fortuna) è definito da Aristotele come «una causa
acciden- tale nell’àmbito di quelle cose che non accadono nè in modo
assolutamente uniforme nè frequente- mente e che potrebbero accadere in vista
di un fine + (/b., 197 a 32). La determinazione del fine è, per Aristotele,
essenziale giacchè il C. ha almeno l’aspetto o l'apparenza della finalità: come
nel- l’esempio di chi si reca al mercato per tutt’altro motivo e lì incontra un
debitore che gli restituisce la somma dovuta. In quest’esempio si chiama C. (o
fortuna) l’evento della restituzione dovuto ad un incontro che non è stato
deliberato o voluto come un fine, ma che avrebbe potuto essere un fine: mentre
in realtà è stato l’effetto accidentale di cause che agivano in vista di altri
fini. La no- zione di un incontro, di un intreccio di serie causali per la
spiegazione del C., è stata ripresa nell'età moderna per opera di filosofi,
matematici, econo- misti, che hanno riconosciuta l’importanza della nozione di
probabilità (v.) per l’interpretazione della realtà in generale. Così Cournot
definì il C. come il carattere di un avvenimento « dovuto alla com- binazione o
all’incontro di fenomeni indipendenti nell'ordine della causalità » (Théorie
des chances et des probabilités, 1843, cap. II) nozione che divenne prevalente
nel positivismo, anche perchè fu accet- tata da Stuart Mill (Logic, II, 17, $
2): «Un evento che avvenga per C. può essere meglio de- scritto come una
coincidenza dalla quale non ab- biamo motivo per inferire un’uniformità...
Possiamo dire che due o più fenomeni sono congiunti al C. o che coesistono o si
succedono per C., nel senso che essi non sono in nessun modo connessi dalla
cau- sazione; che non sono nè la causa o l’effetto l’uno dell’altro nè effetti
della stessa causa o di cause tra le quali sussista una legge di coincidenza nè
effetti della stessa collocazione di cause primarie ». In modo simile Ardigò
(Opere, III, pag. 122) ri- conduceva il C. alla pluralità e all’intreccio di
serie causali distinte. Questa nozione tuttavia è ogget- tiva solo in certi
limiti o per meglio dire solo in apparenza. Che il C. consista nell’incontro di
due serie causali diverse significa che esso è un avveni- mento causalmente
determinato come tutti gli altri ma solo più difficile a prevedersi appunto
perchè il suo accadere non dipende dal corso di un’unica serie causale. Secondo
questa nozione la determi. nazione casuale del C., è più complessa ma non meno
necessitante; e l’imprevedibilità che è la ca- ratteristica fondamentale del C.
è dovuta soltanto a tale complessità e non è di natura oggettiva. Affinchè
CATARSI 113 sia di natura oggettiva, tale imprevedibilità dev’es- sere infatti
dovuta ad un’indeterminazione effettiva inerente al funzionamento della
causalità stessa. 3° Questa ultima alternativa costituisce un terzo concetto
del C., un concetto che si può far risalire a Hume. Sembra che Hume voglia
ridurre il caso a un fenomeno puramente soggettivo perchè dice: «Per quanto non
vi sia al mondo qualche cosa come il C., tuttavia la nostra ignoranza della
causa reale di ogni avvenimento ha la stessa influenza sopra l'intelletto e
genera una simile sorta di credenza o di opinione ». Ma in realtà se non esiste
il «C.» come nozione o categoria a sè, non esiste neppure la «causa» nel senso
necessario e assoluto del ter- mine; ma esiste soltanto la « probabilità ». E
sulla probabilità è fondato quello che chiamiamo C.: «Sembra evidente che,
quando la mente cerca di prevedere per scoprire l’evento che può risultare dal
gettare quel dado, si considera l’apparire di ciascun singolo lato come
egualmente probabile; e questa è la vera natura del C., di eguagliare
interamente tutti i singoli eventi che comprende » (Ing. Conc. Underst., VI). È
questa di Hume un’idea che nella filosofia contemporanea doveva rivelarsi
estremamente feconda. Che il C. consista nell’equi- pollenza di probabilità che
non lasciano adito ad una previsione positiva in un senso o nell’altro è un
concetto su cui ha insistito Peirce, il quale ne ha visto anche l’implicazione
filosofica fondamentale: l’eliminazione del « necessitarismo », cioè della dot-
trina che tutto nel mondo avviene per necessità (Chance, Love and Logic, Il, 2;
Coll. Pap., 6. 47 e sgg.). Da questo punto di vista il C. diventa un esempio
particolare del giudizio di probabilità e precisamente quello nel quale la
probabilità stessa non ha sufficiente rilevanza ai fini della prevedibi- lità
di un evento. In tal senso il C. è stato consi- derato come una specie di
entropia (v.) e il relativo concetto è comunemente adoperato nel campo della
teoria dell’informazione e della cibernetica (v.). CASUALISMO (ingl. Casualism;
franc. Ca- sualisme). La dottrina che il caso non è soltanto l’espressione
dell’ignoranza umana a proposito delle cause di certi eventi, ma una condizione
o situa- zione oggettiva di indeterminazione nelle cose stesse. Peirce chiamò
questa dottrina tichismo (Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6. 47
sgg.) da toxn che in realtà significa fortuna. Un C. radicale è so- stenuto da
Wittgenstein. « Fuori della logica tutto è caso », egli dice (Tracr.
Logico-Philos., 6. 3). E si deve ricordare che la logica ha a che fare soltanto
con tautologie (v.) le quali non significano nulla. CATALETTICA, RAPPRESENTA-
ZIONE (gr. pavragia xataAnitixh; lat. Fantasia comprehensiva; ted.
Kataleptische Vorstellung). Il criterio della verità, secondo gli Stoici. Essi
chia- 8 — ABBAGNANO, Distonario di filosofia. marono C., cioè comprensiva, la
rappresentazione evidente o che rende evidente l’oggetto che la produce.
Secondo una testimonianza di Cice- rone (Acad., II, 144) Zenone poneva il
significato della rappresentazione C. nella sua capacità di afferrare o
comprendere l’oggetto: perciò para- gonava la mano aperta alla rappresentazione
pura e semplice, la mano che fa l’atto di afferrare al- l’assenso; la mano
stretta a pugno alla compren- sione C.; e le due mani strette l’una sull'altra
alla scienza. Secondo Diogene Laerzio (VII, 46) e Sesto Empirico (Adv. Math.,
VII, 248) la rappresentazione C. è invece quella che viene da un reale sussC.
come « quella discriminazione che con- serva il meglio e rigetta il peggio»
(Sof., 226 d). Egli inoltre ricorda l’esistenza di libri di Museo e Orfeo
secondo i quali « gli adepti celebrano sa- crifici persuadendo non solo privati
ma anche città che ci sono assoluzioni e purificazioni dagli atti ingiusti per
via di sacrifici e di giochi piacevoli, sia per i vivi che per i morti ».
Empedocle chiamò Purificazioni (x49xpuor) uno dei suoi poemi che per l’appunto
s’ispirava all’orfismo. In Platone il ter- mine ha una portata morale e
metafisica. Esso designa in primo luogo la liberazione dai piaceri (Fed., 67 a,
69c); in secondo luogo la liberazione dell'anima dal corpo come un separarsi e
ritirarsi dell’anima dalle operazioni corporee e realizzazione, già nella vita,
di quella separazione totale che è la morte (/bid., 67 c). E su quest’ultimo
punto insisterà Plotino secondo il quale la virtù purifica l’anima dai desideri
e da tutte le altre emozioni nel senso che separa l’anima dal corpo e fa in
modo che l’anima si raccolga in se stessa e divenga impassi- bile (Enz., I, 2,
5). Aristotele adoperò ampiamente il termine nel suo significato medico negli
scritti di storia naturale come purificazione o purga. Ma per primo lo estese a
designare anche un fenomeno estetico, cioè quella specie di liberazione o di
rasserenamento che l’uomo subisce ad opera della poesia e in par- 114 ticolare
del dramma e della musica. « La tragedia, egli disse, è imitazione di azione di
carattere ele- vato e completa, di una certa estensione, in lin- guaggio
abbellito e che ha diverse specie di abbellimenti distribuite nelle varie parti
di essa, imitazione compiuta da attori e non in forma nar- rativa e che
suscitando il terrore e la pietà per- viene alla purificazione da tali
affezioni» (Poet., 1449 b, 24 sgg.). Abbastanza curiosamente Ari- stotele, che
esamina uno per uno tutti gli elementi della tragedia, non si ferma invece a
spiegare che cos'è la C.: il che vuol dire che egli adopera qui la parola nel
senso generale corrente di rasserena- mento e di calma per quanto non di
assenza totale delle emozioni: senso che trova riscontro in ciò che dice nella
Politica a proposito della musica. Qui egli osserva che quando alcuni, che sono
for- temente scossi da emozioni come pietà, paura, entusiasmo, odono canti
sacri che impressionano l’anima «si trovano nelle condizioni di chi è stato
risanato o purificato ». Anche tutte le altre emozioni possono subire una « purificazione
e un piacevole alleggerimento ». E «le musiche particolarmente adatte a
produrre purificazione dànno agli uomini un’innocente gioia » (Po/., VIII, 7,
1342 a 17). Delle molte interpretazioni che sono state date della C. estetica
la prevalente è stata quella di Goethe (Nachlese zu Aristot. Poetik, 1826)
secondo la quale essa consisterebbe nell’equilibrio delle emozioni che l’arte
tragica induce nello spettatore dopo averne eccitate le emozioni stesse e
perciò nel senso di serenità e di pacificazione che essa procura. Se pure
qualche cosa di simile c’è in Aristotele, bisogna tuttavia osservare che per
lui il significato della C. estetica non è diversa da quella della C. medica o
morale: una specie di cura delle affezioni (corporee © spirituali) che non le
abolisce ma le porta alla misura in cui esse sono compatibili con la ragione.
Nella cultura moderna il termine C. è stato ado- perato quasi esclusivamente
nel suo riferimento alla funzione liberatrice dell’arte. Freud ha talvolta
chia- mato C. il processo di sublimazione della /ibido (v. AMORE) per il quale
la libido si distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione volut-
tuosa e dagli oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri oggetti
che saranno amati di per se stessi. A questo processo di C. (di « subli-
mazione +) sono dovuti, secondo Freud, tutti i progressi della vita sociale,
l’arte, la scienza e la civiltà in generale, almeno nella misura in cui di-
pendono da fattori psichici (v. PSICANALISI). CATASILLOGISMO (lat. Catasyllogismus).
Controdimostrazione. Il termine è adoperato da Giovanni di Salisbury
(Meralogicus, IV, 5) in rife- rimento al verbo controdimostrare adoperato da
Aristotele (An. Pr., II, 19, 66 a 25). CATASILLOGISMO CATASTROPE (ingl.
Catastrophe; franc. Ca- tastrophe; ted. Katastrophe). Ricorre a questa no-
zione ogni teoria che cerchi di spiegare lo sviluppo di una realtà qualsiasi
mediante rivolgimenti radi- cali e totali che avverrebbero periodicamente. Così
Cuvier (Discours sur les révolutions du globe, 1812) spiegava l’estinzione
delle specie animali fossili mediaesa dai primi cristiani) ma basta che essa
valga come un « mito ». Cfr. ATTIVISMO; MITO. CATECHISMO (ingl. Catechism;
franc. Caté- chisme; ted. Katechismus). Kant distinse il metodo dell’interrogatorio
(o erotematico) in metodo ca- techetico per il quale ci si rivolge soltanto
alla memoria di chi viene interrogato e in metodo dia- logico o socratico col
quale ci si rivolge a ciò che è contenuto nella ragione dell’interrogato ed è
perciò suscettibile di essere reso esplicito o svilup- pato (Mer. der Sitten,
II, Intr., $ 18 nota). Egli ritenne tuttavia indispensabile un C. morale che
avrebbe dovuto precedere il C. religioso ed essere indipen- dente da esso
(/bid., $ 51). Il positivismo ottocen- tesco mostrò una certa predilezione per
C. filosofici o filosofico-politici. Ne compilò uno il St.-Simon (C. degli
industriali, 1823-24) e uno famoso Augusto Comte (C. positivista, 1852). Ciò
avvenne perchè il positivismo si presentò spesso come una religione «
scientifica » che avrebbe dovuto soppiantare la re- ligione tradizionale.
CATEGOREMATICO (lat. Categoremata; ingl. Categorematic; franc. Catégorematique;
te- desco Kategorematisch). Nella grammatica e nella logica medievale sono
dette così le parti del discorso di per se stesse significanti, come il
soggetto o il predicato, mentre sono dette sincategorematiche (v.) le altre.
L'espressione deriva probabilmente dalla distinzione, fatta dagli Stoici, tra «
discorso per- fetto» che è quello di senso compiuto (per es., « Socrate scrive
+) e discorso imperfetto che manca di qualche cosa (per es., « Scrive» che fa
nascer la domanda «Chi?+) (Diog. L., VII, 63). Nella forma che poi divenne un
luogo comune nella CATEGORIA logica medievale, la distinzione si può vedere per
la prima volta nel trattato anonimo del sec. x1I, De generibus et speciebus,
edito da Cousin ((Euvres inédites d’Abélard, pag. 531). Essa è poi costante-
mente ripetuta nella logica posteriore (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 1.05).
CATEGORIA (gr. xamyopla; lat. Praedica- mentum; ingl. Category; franc.
Catégorie; ted. Kate- gorie). In generale, qualsiasi nozione che serva come
regola per l’indagine o per la sua espressione lingui- stica, in un campo
qualsiasi. Storicamente, il primo significato attribuito alle C. è realistico:
esse sono considerate come determinazioni della realtà e in secondo luogo come
nozioni che servono a inda- gare e a comprendere la realtà stessa. Così le in-
tese Platone che le chiamò « generi sommi» ed enumerò cinque di tali generi,
cioè l’essere, il mo- vimento, la quiete, l’identità e l’alterità (Sof., 254
seguenti). Come alcuni di questi generi si legano assieme tra loro ed altri no,
così le parti del di- scorso, cioè le parole, si legano assieme e quando tale
mescolanza corrisponde a quella reale il discorso è vero, altrimenti è falso
(/bid., 263 seguenti). Questa corrispondenza tra la realtà e il discorso, per
il tramite delle determinazioni ca- tegoriali, è anche la base della teoria di
Ari- stotele. Questi, tuttavia, parte da un punto di vista linguistico: le e
qualche volta il luogo dove sta o il tempo, ne segue che tutti questi sono modi
dell’essere » (Met., V, 7, 1017a 23 sgg.). Questo concetto di C. come di
determinazione appartenente all’essere stesso e di cui il pensiero debba
servirsi per conoscerlo ed esprimerlo in pa- role, è durata lungamente; e per
molto tempo le scuole filosofiche o i filosofi furono dissenzienti solo
rispetto al numero e alla distinzione delle ca- tegorie. Così gli Stoici le
ridussero a quattro: la sostanza, la qualità, il modo d’essere e la relazione
(StmpL., /n car., f. 16 d). Plotino ritornò ai cinque generi sommi platonici
(Enn., VI, 1, 25). Nel Me- dicevo, la sola alternativa alla dottrina del fonda-
mento reale delle C. è il carattere puramente verbale di esse, sostenuto dal
nominalismo. Ockham, af- ferma recisamente che le C. non sono che segni delle
cose, segni semplici dai quali possono essere costituiti « complessi » sia veri
che falsi (De corpore Christi, 35; In Sent., I, d. 30, q. 2, I). Pertanto la
loro distinzione non implica una pari distinzione tra gli oggetti reali giacchè
non sempre a concetti o a parole distinti corrispondono cose distinte. Le C. di
sostanza, qualità e quantità, per quanto di- stinte come concetti, significano
la medesima cosa (Quodi., V, q. 23). Questa negazione radicale della realtà
delle C., dipende dalla negazione totale che il nominalismo medievale faceva di
ogni realtà uni- versale. Questo punto di vista equivale a conside- rare le C.
come semplici nomi che si riferiscono a classi di oggetti. La dottrina di Kant
non ha niente a che fare con questo nominalismo per quanto si sottragga
ugualmente al realismo della concezione classica. Le C. sono per Kant i modi in
cui si manifesta l’attività dell’intelletto, la quale consiste essenzial- mente
« nell’ordinare diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune »,
cioè nel giudicare. Esse pertanto sono le forme del giudizio, cioè le forme in
cui il giudizio si esplica indipendentemente dal suo contenuto empirico. Per
questo le C. pos- sono essere ricavate dalle classi del giudizio enu- merate
dalla logica formale. «In tal modo, dice Kant, sorgono precisamente tanti
concetti puri del- l’intelletto, che si applicano a priori agli oggetti
dell’intuizione in generale, quante funzioni lualità, divenire, forza,
finalità, personalità) come determinazioni e specificazioni di essa (Essai de
critique générale, I, 1854, pag. 86 sgg.), E Cohen ha considerato come C.
fondamentale quella del sistema, perchè l’unità dell’oggetto, su cui si fonda
l’unità della natura, è un'unità sistematica (Logik, pag. 339). Ma per quanto
non ci sia stato filosofo d’ispirazione kantiana che non abbia voluto dare la
sua tavola delle C., il concetto kantiano della C. è rimasto immutato per tutta
la parte della filosofia moderna che trae la sua ispirazione da Kant. Tut-
tavia tale concetto non è il solo nella filosofia moderna e contemporanea.
Quello tradizionale di C. come «determinazione dell'essere» è stato ri- preso
dall’idealismo romantico e in particolare da Hegel. Questi considera le C. come
« determina- zioni del pensiero » e fa merito a Fichte di aver affermato
l’esigenza della loro « deduzione» cioè della dimostrazione della loro
necessità (Enc., $ 43). Ma in realtà per Hegel le determinazioni del pen- siero
sono, nel contempo, le determinazioni della realtà (per l’identità da lui posta
di realtà e ragione); e abitualmente egli chiama « momenti » più che C., queste
determinazioni. L'unica C. che egli riconosca veramente come tale è la stessa
Realtà-pensiero, cioè l’Autocoscienza, l’Io o la Ragione. Nella Fe- nomenologia
(I, cap. V, $ 2) egli dice: «L’Io è la sola pura essenzialità dell’ente o la C.
semplice. La C., che altrimenti aveva il significato di essere essenzialità
dell’ente, essenzialità indeterminata- mente dell’ente in generale o dell’ente
di contro alla coscienza, è ora essenzialità o semplice unità dell'ente in
quanto questo è soltanto realtà pen- sante: ossia la C. consiste in ciò che
autocoscienza ed essere sono la medesima essenza ». Il che vuol CATEGORIA dire
che la C. dev'essere considerata non come una determinazione dell’essere in
generale, ma come la coscienza, e quindi la realtà stessa. Questa teoria
dell'Io o della Coscienza o dello Spirito come dell'unica C. è rimasta poi un
luogo co- mune di tutte le forme dell’idealismo romantico. Simmetrica e opposta
a quella di Hegel è la dot- trina di Heidegger, per il quale la C. è la deter-
minazione, non dell’autocoscienza o dell’Io, ma dell'essere delle cose.
Heidegger distingue infatti gggetti dell’intenzionalità della co- scienza. 3°
In qualche altra corrente della filosofia contemporanea, per es.,
nell’empirismo logico, le C. vengono invece considerate come le regole con-
venzionali che presiedono all’uso dei concetti. Così fa, per es., Ryle che
chiama «tipo o categoria lo- gica di un concetto l’insieme dei modi in cui, per
convenzione, è lecito servirsi del termine rispettivo » (Concept of Mind,
Intr.; trad. ital., pag. 4). Questa è certamente la nozione meno dogmatica e
più gene- rale di C., che la filosofia abbia finora prospettato: contiene
tuttavia ancora un certo dogmatismo, perchè limita le C. a quelle già stabilite
dall’uso linguistico comune, negando implicitamente la va- lidità di ogni nuova
proposta. Eppure scienziati e fsi parla di «errore C.» per indicare lo scambio
di una cate- goria con un’altra (per es., RyLE, Concept of Mind, I, $ 2)
CATEGORICO (gr. xatnyopix6g; ingl. Catego- rical; franc. Catéporique; ted.
Kategorisch). In gene- rale, una proposizione o un ragionamento non limi- tato
da condizioni. Si cominciò a chiamare C. il sillogismo aristotelico (SESTO E.,
/pot. Pirr., II, 163) dopo che gli Stoici ebbero elaborato la teoria del ra-
gionamento ipotetico (v. ANAPODITTICO). Molto pro- babilmente gli Stoici
consideravano assorbita la 117 teoria aristotelica del sillogismo dalla loro
teoria dei ragionamenti ipotetici, come consideravano assorbita nella loro
teoria degli assiomi o proposizioni la teoria aristotelica dell’inzerpretazione
(v.). Ma la logica posteriore (specialmente gli Aristotelici) semplice- mente
aggiunse le determinazioni stoiche a quelle aristoteliche, parlando così di una
proposizione C. e di una proposizione ipotetica, di sillogismo C. e di
sillogismo ipotetico. Questa terminologia fu in- trodotta da Marciano Capella
(De nuptiis, $ 404 seguenti) e da Boezio nella tradizione latina. Dice Boezio:
«I Greci chiamano proposizioni C. quelle che sono pronunziate senza alcuna
condizione mentre sono condizionali quelle del tipo ‘se è giorno, c’è luce’,
che i Greci chiamano ipotetiche ». Corrispondentemente il sillogismo C. o «
predica- tivo » è quello che è formato da proposizioni C., mentre quello che
consta di proposizioni ipotetiche, si dice ipotetico cioè condizionale (De
syll. hypot., I, in P. L. 64, col. 833). Questa terminologia si è conservata
lungo tutta la tradizione logica dell’occidente e fu accettata da Kant (Crit.
R. Pura, Analitica dei concetti, $ 9). Kant ha a sua volta esteso la
distinzione stessa ap- plicandola agli imperativi, cioè alle massime della
volontà. Egli ha chiamato C. l’imperativo della moralità, che non è sottoposta
ad alcuna condizione e ha quindi una « necessità incondizionata vera- mente
oggettiva » e che per conseguenza vale per tutti gli esseri ragionevoli quali
che siano i loro desideri (Grundlegung zur Met. der Sitten, 11) (v.
IMPERATIVO). CATENOTEISMO (ingl. Kathenotheism). Ter- mine inventato dallo
storico delle religioni Max Miller per indicare la dottrina che c’è un solo Dio
per volta, cioè il monoteismo dei Veda secondo i quali un Dio solo per volta
governa il mondo, mentre le altre divinità aspettano il loro turno. CAUSA
ESEMPLARE. L’idea in Dio delle cose che intende creare (v. IDEA). CAUSALITAÀ
(gr. altia, altiov; lat. Causa; ingl. Causality; franc. Causalité; ted.
Causalitàt). Nel suo significato più generale, la connessione tra due cose, in
virtù della quale la seconda è uni- vocamente prevedibile a partire dalla
prima. Sto- ricamente questa nozione ha assunto due forme fondamentali: 1° la
forma di una connessione ra- zionale, per la quale la causa è la ragione del
suo effetto, che è perciò deducibile da essa. In questa concezione l’azione
della causa viene spesso de- scritta come quella di una forza che genera o pro-
duce immancabilmente l’effetto; 2° la forma di una connessione empirica o
temporale, per la quale l’effetto non è deducibile dalla causa, ma è tuttavia
prevedibile in base ad essa per la costanza e uni- formità del rapporto di
successione. Questa conce- zione elimina dal rapporto causale l’idea di forza.
Ad entrambe queste forme è comune la nozione della prevedibilità univoca cioè
infallibile dell’ef- fetto, a partire dalla causa, e perciò pure la nozione
della necessità del rapporto causale. 1° La prima forma della nozione di causa
può dirsi che cominci con Platone, il quale considera la causa come il
principio per il quale una cosa è, o diventa, ciò che è. In tal senso egli
afferma che la vera causa di una cosa .è ciò che per la cosa è «il meglio»,
cioè l’idea o lo stato perfetto della cosa stessa e, per es., la causa del due
è la dualità, di ciò che è grande la grandezza, di ciò che è bello la bellezza;
e in generale il bene è causa di ciò che c’è di bene nelle cose e delle cose
stesse (Fed., 97c sgg., spec. 101c). Accanto a queste cause «prime » o « divine
» Platone ammise poi le con- cause che sono le limitazioni che l’opera creativa
del demiurgo incontra e costituiscono gli elementi di necessità del mondo
stesso (Tim., 69 a). Ma la prima vera analisi della nozione di causa si trova
in Aristotele. Per primo Aristotele afferma (Fis., I, 1, 184 a 10) che
conoscenza e scienza consistono nel rendersi conto delle cause e non sono nulla
fuori di questo. Ma nello stesso tempo egli nota che, se chiedere la causa
significa chiedere il perchè di una cosa, questo perchè può essere diverso e ci
sono quindi varie specie di cause. In un primo senso, è causa ciò di cui una
cosa è fatta e che rimane nella cosa, per es., il bronzo è causa della statua e
l’argento della coppa. In un secondo senso, la causa è la forma o il modello,
cioè l’essenza ne- cessaria o sostanza, (v.) di una cosa. In questo senso è
causa dell’uomo la natura razionale che lo definisce. In un terzo senso, è
causa ciò che dà inizio al mutamento o alla quiete: e, per es., l’autore di una
decisione è la causa di essa, il padre è causa del figlio e in generale ciò che
produce il mutamento è causa del mutamento. In un quarto senso, la causa è il
fine e, per es., la salute è la causa per cui si passeggia (/bid., II, 3, 194b
16; Met.,, V, 2, 1013 ione di un effetto, come nel caso di due buoi che tirano
l’aratro. La cooperante è infine la causa che ar- reca una piccola forza in
virtù della quale l’effetto si produce con facilità: come quando a due che
portano con fatica un peso si aggiunge un terzo che aiuta a sostenerlo. Ma la
causa per eccellenza è, per gli Stoici, quella sinettica, e in questo senso Dio
è causa e costituisce il principio attivo del mondo (Diog. L., VII, 134;
SENECA, Ep., 65, 2). CAUSALITÀ La filosofia medievale poco o nulla ha innovato
al concetto della struttura causale (perchè sostan- ziale) del mondo. Il suo
contributo maggiore è l’elaborazione del concetto di causa prima in un senso
diverso da quella aristotelica, cioè non come tipo di causa fondamentale ma
come primo anello ddel Joro naturalismo. Così Pomponazzi intende riportare
anche gli eventi più straordinari e miracolosi all’ordine necessario della
natura; e si avvale, per farlo, del determinismo astrologico degli Arabi (De
incantationibus, 10). La nozione di un ordine causale del mondo (qualche volta
ricondotto a Dio come a prima causa), se- condo il concetto neo-platonico e
medievale, forma anche il presupposto e lo sfondo del primo organiz- zarsi
della scienza con Copernico, Keplero e Galilei. Questo sfondo viene espresso in
termini meccani- stici da Hobbes e in termini teologici da Spinoza, ma rimane
lo stesso. Hobbes ritiene che il rapporto causale si riduce all’azione di un
corpo sull’altro e che perciò la causa sia ciò che genera o distrugge un certo
stato di cose in un corpo (De corp., IX, 1). La causa perfetta, cioè da cui
l’effetto infallibil- mente segue è l’aggregato di tutti «gli accidenti attivi»
quanti sono: con essa l’effetto è già dato (Ibid., IX, 3). La concatenazione
dei movimenti costituisce l’ordinamento causale del mondo. Dal suo canto
Spinoza, come vede in Dio la sola so- stanza, così vede in lui la sola causa;
dalla quale tutte le cose e gli eventi del mondo (i « modi» della Sostanza)
derivano con necessità geometrica (Er., I, 29). La necessità causale che per
Hobbes è una concatenazione dei movimenti, per Spinoza è una concatenazione di
ragioni, cioè di verità che costituiscono una catena ininterrotta. D'altronde
il carattere meccanico della C. non diminuisce, agli occhi di Hobbes, la natura
razionale di essa: chè anzi Hobbes vede nel meccanismo la sola spiega- zione
razionale del mondo, nel corpo e nel movi- mento i due soli princìpi di
spiegazione, e non ri- conosce altre realtà fuori di essi. Ciò accade perchè in
Hobbes, come in Spinoza, prevale l’identifica- zione accettata da Cartesio di
causa con ragione. La causa è ciò che dà ragione dell’effetto, ne di- mostra o
giustifica l’esistenza o le determinazioni. Così Cartesio la concepisce quando,
definendo ana- litico il metodo da lui adoperato, afferma che esso «fa vedere
come gli effetti dipendano dalle cause » (Secondes Réponses). Il che vuol dire
che la causa è ciò che consente di dedurre l’effetto. Che spie- gare mediante
la causa significhi « dar ragione » di ciò che esiste, è il significato di chiamava
principio del determinismo assoluto. « Il principio assoluto delle scienze
sperimentali, egli diceva (Introduction, I, 2, 7) è un determinismo necessario
e cosciente nelle condizioni dei fenomeni. Se un fenomeno naturale, quale che
sia, è dato, mai uno sperimentatore potrà ammettere che vi sia una variazione
nell’espressione di quel feno- meno, senza che nello stesso tempo siano soprav-
venute condizioni nuove nella sua manifestazione: in più egli ha la certezza 4
priori che queste varia- zioni sono determinate da rapporti rigorosi e ma-
tematici. L'esperienza ci mostra soltanto la forma dei fenomeni; ma il rapporto
di un effetto con una causa determinata è necessario e indipendente dal-
l’esperienza, e forzatamente matematico e assoluto ». Ma nonostante queste
affermazioni così recise di uno dei maggiori scienziati e metodologi della
scienza dell’800, la scienza stessa seguì un altro corso, rispetto
all’elaborazione e all’uso della no- zione di causalità. I progressi del
calcolo delle pro- babilità, alcune teorie fisiche (specialmente la teoria
cinetica dei gas), poi la meccanica quantistica, fe- cero un posto sempre
maggiore alla nozione di probabilità e da ultimo, appunto la meccanica
quantistica tende a sostituire l’uso di questa no- zione a quella di C. che
pareva indispensabile agli scienziati e ai metodologi dell’800. Si può dire che
l’ultima manifestazione filosofica della teoria classica della C. è la dottrina
di Nicolai Hartmann che, pur considerando la realtà divisa in piani negandolo
alle cose, osservò che l’unico legame accertabile tra le cose è una certa
connessione temporale e che, per es., diciamo che la combustione è causata dal
fuoco unicamente perchè sopravviene insieme col fuoco (AVERROÈ, Destructio
destructionum, I, dub. 3). Con altri in- CAUSALITÀ 121 tenti Ockham nel xiv
secolo anticipava la critica di Hume affermando che la conoscenza di una cosa
non porta con sè a nessun titolo la cono- scenza di una cosa diversa sicchè «
una proposizione come “il calore riscalda’ in nessun modo si può dimostrare per
sillogismo, ma la conoscenza di essa si può ottenere solo per esperienza;
giacchè se non si esperimenta che alla presenza del calore segue il calore in
un’altra cosa, non si può sapere che il calore produce calore più di quanto si
sappia che la bianchezza produce bianchezza » (Summa Log., III, 2, 38). Qui è
anticipato chiaramente il punto fondamentale della critica di Hume, cioè
l’indeducibilità dell’effetto dalla causa. Hume co- mincia infatti col negare
proprio che ci sia tra causa ed effetto un tale rapporto. « Noi ci illudiamo,
dice Hume, che se fossimo condotti all'improvviso su questo mondo potremmo
sùbito dedurre che una palla di biliardo può co- municare il movimento ad
un’altra ». Ma in realtà «anche supponendo che mi nasca per caso il pen- siero
del movimento della seconda palla quale risultato del loro urto, io potrei
concepire la pos- sibilità di altri mille avvenimenti differenti, per es., che
entrambe le palle rimanessero ferme o che la prima se ne tornasse indietro
diritta o scappasse da uno dei lati in una direzione qualsiasi. Tutte queste
supposizioni sono coerenti e concepibili; e quella che l’esperienza dimostra
vera non è più coerente e concepibile delle altre». La conclusione è che «
tutti i nostri ragionamenti @ priori non po- tranno mostrare alcun diritto a
questa preferenza a; e che «invano pretenderemmo di predire qualche singolo
avvenimento, o inferire qualche causa o effetto, senza l’aiuto
dell’osservazione e dell’espe- rienza » (/ng. Conc. Underst., IV, 1). L’osservazione
e l’esperienza, tuttavia, con la ripetizione di certi avvenimenti simili, cioè
con le uniformità che ri- velano, fanno nascere l’abitudine a credere che tali
uniformità si verificheranno anche nel futuro e rendono pertanto possibile la
previsione su cui è fondata la vita quotidiana. Ma questa previsione, secondo
Hume, non è giustificata da nulla. Anche dopo che l’esperienza è stata fatta,
la connessione tra causa ed effetto rimane arbitraria (giacchè causa ed effetto
rimangono due avvenimenti distinti) sicchè rimane arbitraria la previsione
fondata su quella connessione. «Il pane che prima mangiavo mi nu- triva; cioè
un corpo con certe qualità sensibili era dotato di segrete forze in quel tempo;
ma ne segue che un altro pane debba nutrirmi pure in un altro tempo e che
qualità sensibili simili debbano essere sempre accompagnate da eguali forze
segrete? La conseguenza non sembra affatto necessaria » (/bid., IV, 2). La
conclusione di Hume è che il rapporto causale è ingiustificabile e che la
credenza in esso si può spiegare solo con l’istinto, cioè col bisogno di vivere
che la richiede. Quest’analisi di Hume ha proposto il problema della C. nella
forma che esso conserva ancora nella filosofia contemporanea. Il criterio
adoperato da Hume per dimostrare l’in- sufficienza della teoria classica è
quello della pre- vedibilità. Il rapporto causale deve rendere pre- vedibile
l’effetto; ma nessuna deduzione @ priori può rendere prevedibile un effetto
qualsiasi; la deduzione è perciò incapace di fondare il rapporto causale. La
ripetizione empiricamente osservabile di una connessione tra due eventi è
allora l’unico fondamento per asserire un rapporto causale e il modo in cui
essa renda possibile tale asserzione è il problemul primo punto ci limiteremo a
riportare l’opinione di Nietzsche, secondo il quale la nozione di causa non è
che la trascrizione simbolica della volontà di potenza, cioè del sentimento
interno di forza o di espansione gioiosa. « Fisiologicamente, dice Nietzsche,
l’idea di causa è il nostro sentimento di potenza, in ciò che si chiama
volontà; e l’idea dell’effetto è il pregiudizio di credere che il sentimento di
potenza sia la stessa potenza motrice. La condizione che accompagna un evento e
che è già un effetto di quest’evento, è proiettata come ‘ ragion sufficiente ’
di esso ». In realtà per Nietzsche l’intera concezione meccanica del mondo non
è che un linguaggio sim- bolico per esprimere « la lotta e la vittoria di certe
quantità di volontà» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 296). Questa connessione
della nozione di C. in quanto forza produttiva con l’esperienza interna
dell’uomo e cioè come trascrizione 0 concettualiz- zazione antropomorfica, fu
sostenuta nell’800 da numerosi filosofi per quanto fosse stata criticata e
rigettata da Hume (Ing. Conc. Underst., VII, 1). Si cercò perciò di «
purificare » la nozione di C. dai suoi riferimenti antropomorfici; e il più
importante tentativo in questo senso fu fatto da Comte. Egli ritenne che l’idea
stessa di causa quale forza pro- duttiva o agente fosse propria di uno stato
sor- passato della scienza, cioè dello stato metafisico; e ritenne invece
propria dello stato positivo la nozione di causa come «relazione invariabile di
successione e di simiglianza tra i fatti ». Tale nozione bastava infatti,
secondo Comte, a rendere possibile il còmpito essenziale della scienza che è
quella di prevedere i fenomeni in vista di poterli utilizzare: il rapporto
costante, una volta riconosciuto e for- mulato in una /egge, rende possibile
prevedere un fenomeno quando si verifica quello con il quale essa è collegato;
e la previsione rende a sua volta possibile agire sui fenomeni stessi (Cours de
Phil. positive, I, cap. I, $ 2). Questo concetto della previ- sione come
còmpito fondamentale della scienza, che Comte derivava da Bacone ma ch’egli ha
fatto am- piamente prevalere nell’indagine moderna, doveva diventare dominante
come criterio della validità e dell'efficacia della scienza e quindi anche
della por- tata e del significato del principio di causalità. E la nozione di
C. e quella di previsione furono da Comte e rimasero, dopo di lui, strettamente
congiunte. Mach che parte da questa congiunzione fra le due nozioni vuole
sostituire al concetto tradizionale di causalità il concetto matematico di
funzione, cioè di « dipendenza dei fenomeni tra loro o più esat- tamente
dipendenza dei caratteri distintivi dei fe- nomeni tra loro» (Analyse der
Empfindungen, 9* ed., 1922, pag. 74). Tuttavia nè Comte nè Mach met- tono in
dubbio il carattere necessitante della C. e il determinismo rigoroso che essa
comporta nel mondo dei fenomeni naturali. Conseguentemente, essi non mettono in
dubbio la prevedibilità certa e infalli- bile dei fatti naturali di cui siano
conosciuti i rap- porti causali. Soltanto gli sviluppi della scienza
contemporanea hanno messo in dubbio queste due cose e hanno perciò provocato la
crisi definitiva della nozione di causalità. Nella seconda metà dell’800 la
formulazione ma- tematica della teoria cinetica dei gas, dovuta a Maxwell e a
Boltzmann, servì a interpretare stati- ticamente il secondo principio della
termodinamica, CAUSALITÀ secondo il quale il calore passa soltanto da un corpo
a temperatura più alta ad un corpo a tem- peratura più bassa. La teoria
cinetica interpretava questo fatto come un caso di probabilità statistica; e
per la prima volta la nozione di probabilità, che era stata fino allora
limitata nel dominio della matematica, veniva utilizzata nel dominio della
fisica. Tuttavia la teoria cinetica dei gas non rap- presentava ancora una
infrazione al principio di C. dominante in tutto il resto della fisica.
Soltanto con gli sviluppi della fisica subatomica e con la scoperta dovuta a
Heisenberg del principio d’in- determinazione (1927) il principio di C. subiva
un colpo decisivo. L’impossibilità, stabilita da tale principio, di misurare
con precisione una gran- dezza senza scapito della precisione nella misura di
un’altra grandezza collegata, rende impossibile predire con certezza il
comportamento futuro di una particella subatomica e autorizza soltanto pre-
visioni probabili, fondate su accertamenti statistici, del comportamento di
tali particelle. In conse- guenza di ciò, la fisica tende oggi a considerare
gli stessi rapporti di prevedibilità nel cao-temporale degli eventi da un lato
e la classica legge causale dall’altro, rappresentano due aspetti
complementari, escluden- tisi a vicenda, degli avvenimenti fisici (Die phy-
sikalischen Prinzipien der Quantumtheorie, IV, $ 3). Nel 1932 von Neumann così
riassumeva lo stato della questione: «In fisica macroscopica, non c’è alcuna
esperienza che provi il principio di C., per- chè l’ordine causale apparente
del mondo macro- scopico non ha altra origine all’infuori della legge dei
grandi numeri e ciò del tutto indipendentemente dal fatto che i processi
elementari (che sono i veri processi fisici) seguano o meno leggi di C.... È
solo alla scala atomica, nei processi elementari, che la questione della C. può
realmente essere og- getto di discussione; ma, sola asserzione circa la realtà,
la cui validità possa essere asserita con più che probabilità ». Questi
sviluppi della scienza hanno reso inutili le discus- sioni dei filosofi circa
il fondamento, la portata e i limiti del principio di causa. Questo principio
non viene più adoperato, nè nella sua forma classica nè nella sua forma moderna:
il concetto del sapere o della scienza come « conoscenza delle cause» è entrato
in crisi ed è stato praticamente abbandonato dalla scienza stessa. Una nuova
terminologia si va formando, nella quale i termini di condizione (v.) e
condizionamento (v.), definibili mediante i pro- cedimenti in uso nelle varie
discipline scientifiche, prendono il posto del venerando e ormai inservibile
concetto di causa. CAUSA STRUMENTALE (la divinità è perciò moderno e collegato
con l’orientamento pan- teistico; come appare chiaro dalla osservazione di
Hegel (/. c.) che C. sui è equivalente a effectus sui. CAVERNA, IDOLI DELLA. V.
Ipoti. CAVERNA, MITO DELLA. Il mito esposto da Platone nel VII libro della
Repubblica, secondo il quale, la condizione degli uomini nel mondo è simile a
quella di schiavi legati in una C. che pos- sono scorgere solo le ombre,
proiettate sul fondo, delle cose e degli esseri che sono al di fuori. La
filosofia è, in primo luogo, l’uscita dalla C. e l’os- servazione delle cose
reali e del principio della loro vita e della loro conoscibilità, cioè del Sole
(il bene [v.]); e, in secondo luogo, il ritorno alla C. e la partecipazione
alle opere e ai valori propri del mondo umano (Rep., 519 c-d). CAVILLO (lat.
Cavillatio; ingl. Cavil). Il ter- mine fu proposto da Cicerone come traduzione
della parola greca sophisma che fu in séguito tra- dotta comunemente con
fallacia (v.) (De Orat., II, 54, 217; cfr. Seneca, Ep., 111; QUINTILIANO, Inst.
Or., IX, 1, 15). Il termine veniva ancora ri- cordato in questo senso nel sec.
xvm (cfr. JUNGIUS, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 1, 16). CELANTES. Parola
mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il sesto modo della prima figura
del sillogismo e precisamente quello che con- siste di una premessa universale
negativa, di una premessa universale affermativa e di una conclu- sione
universale negativa, come nell’es.: « Nessun animale è pietra, Ogni uomo è
animale, Dunque nessuna pietra è uomo + (Pietro Ispano, Surumul. logic., 4.08).
CELARENT. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il secondo modo
della prima figura del sillogismo, precisamente quello che con- siste di una
proposizione universale negativa, di una proposizione universale affermativa e
di una conclusione universale negativa, come, ad es., « Nessun animale è
pietra, Ogni uomo è animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPaNO,
Summul. logic., 4.07). CERTEZZA (gr. BeBawrhg; lat. Certitudo; in- glese
Certitude, Certainty; franc. Certitude; tedesco Gewissheit). La parola ha due
significati fondamen- tali: 1° la sicurezza soggettiva della verità di una
conoscenza; 2° la garanzia che una conoscenza offre della sua verità. La parola
ha avuto, nel suo uso store concetti di C. vengono perciò sempre chiariti as-
sieme e complementarmente, nella tradizione filo- sofica. S. Tommaso distingue
due modi di con- siderare la certezza. Il primo consiste nel conside- rare la
causa di essa e sotto questo aspetto la fede è più certa della sapienza, della
scienza e dell’in- telletto perchè si fonda sulla verità divina, mentre queste
tre cose si fondano sulla ragione umana. Nel secondo modo, la C. si può
considerare dalla parte dell’oggetto (subiectum) e in questo modo è più certo
l’oggetto che più s’adatta all’intelletto umano ed è meno certa la fede (S.
7%., II, 2, q. 4, a. 8). Ovviamente, la C. considerata nella sua causa è la C.
soggettiva cioè la sicurezza soggettiva della verità della credenza mentre la
C. considererto che è costituito dall’insieme delle conoscenze ap- prestate da
quelli che Vico chiama «filologi», cioè dagli storici, dai critici, dai
grammatici, che si sono occupati dei costumi, delle leggi e dei linguaggi dei
popoli (/bid., degn. 10). Ma in generale l’identifica- zione tra C. e verità è
rimasta salda nella filosofia moderna. Kant ha chiamato C. la credenza oggetti-
vamente sufficiente cioè sufficientemente garantita come vera (Crir. R. Pura,
Canone della ragion pura, sez. 3). Egli ha distinto inoltre la C. empirica, che
può essere originaria, cioè connessa con la pro- pria esperienza storica o
derivata da un’esperienza altrui; e la C. razionale che si distingue da quella
empirica per la «coscienza della necessità» e si può quindi chiamare apodittica
(Logik, Intr., $ IX). Hegel stesso ha accettato l’identificazione di C. e di
conoscenza e ha così illustrato i due aspetti, soggettivo e oggettivo, della C.
sensibile: « Nella C. sensibile, un momento è posto come ciò che semplicemente
e immediatamente è, come l’es- senza: e questo è l’oggetto. L'altro momento è
posto come l’inessenziale e mediato, che non è in sè ma mediante qualcosa
d’altro: e questo è l’Io, un sapere che sa l’oggetto soltanto perchè l’oggetto
è, un sapere che può essere o anche non essere » (Phaenomen. des Geistes, I, A,
1). Analoga- mente i due significati sono stati distinti e accettati CHIAREZZA
E DISTINZIONE 125 da Husserl che ha considerato il fenomeno della C. come
originario, connesso con lo stesso atteggia- mento della Parola mnemonica usata
dagli Sco- lastici per indicare il primo dei quattro modi del sillogismo di
seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale
negativa, di una premessa universale affermativa e di una conclusione
universale negativa come nell’esempio: « Nessuna pietra è animale, Ogni uomo è
animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.11).
CESARISMO (ted. Casarismus). Spengler ha così chiamato « quella specie di
governo che, mal- grado tutte le forme del diritto pubblico, è ancora
totalmente sprovvisto di forma nella sua natura interna ». Esso si verifica
alla fine di certi periodi quando le istituzioni politiche fondamentali sono
morte, per quanto minuziosamente conservate nelle loro apparenze: in questi
periodi niente ha signi- ficato tranne il potere personale esercitato dal Ce-
sare. «È il ritorno di un mondo, che ha raggiunto la sua forma, al primitivo, a
ciò che è cosmicamente astorico » (Der Untergang des Abendlandes, ll, 4, 2, $
14). CHIACCHIERA (ted. Gerede). Secondo Hei- degger uno dei modi d’essere
dell’uomo nella vita quotidiana ed anonima (insieme con la curiosità [v.] e
l’equivoco [v.]). La C. non è un termine dispre- giativo ma indica un fenomeno
positivo che co- stituisce uno dei modi (l’inautentico) di comprendere il mondo
e di viverci dentro. La C. rompe il rap- porto del linguaggio coi fatti. Sicchè
ciò che viene detto acquista un carattere d’autorità e si implica che «la cosa
stia appunto così come si dice » (Ste questo farsi è la chiarificazione.
CHILIASMO (ingl. Chiliasm; franc. Chiliasme; ted. Chiliasmus). C. o
millenarismo si chiama ogni credenza nell’avvento di un radicale rinnovamento
del genere umano e nell’instaurazione di uno stato definitivo di perfezione.
L°Apocalisse di S. Gio- vanni è il maggiore documento di una credenza del
genere che fu abbastanza frequente nei primi tempi del Cristianesimo e si
ripresentò spesso an- che nel Medioevo. Gioacchino da Fiore (sec. x) preconizzò
l'imminente avvento di una terza epoca della storia umana, quella dello Spirito
Santo (Con- cordia Novi et Veteris Testamenti, IV, 35). Kant ha parlato di un C.
filosofico « che spera in uno stato di pace perpetua, fondata in una lega delle
nazioni come repubblica mondiale » (Religion, I, 3). CI (ted. Da). Secondo
Heidegger, il ci dell’Es- serci (Dasein) indica non solo il fatto che l’Esserci
(= l’uomo) si trova qua o là, cioè in qualche luogo dello spazio, ma
specialmente l’apertura dell’uomo alla spazialità, cioè al mondo in generale
(Sein und Zeit, $ 28). In altri termini «Esserci» significa essere nel mondo; e
l’essere nel mondo è carat- terizzato dalla situazione emotiva e dalla compren-
sione (v.). CHIARIFICAZIONE CIBERNETICA (ingl. Cybernetics). La pa- rola
significa propriamente arte del pilota, ma è stata usata dall’americano Wiener
per designare «lo studio dei messaggi, e particolarmente dei mes- saggi che
effettivamente comandano, ai fini della costruzione delle macchine
calcolatrici» (C., or Con- trol and Communication in the Animal and the Ma-
chine, 1947). In senso più generale la C. è intesa oggi come lo studio di
«tutte le possibili mac- chine », indipendentemente dal fatto che alcune di
esse siano o non siano state prodotte dall'uomo 0 dalla natura. E in questo
senso essa offre lo schema nel quale tutte le macchine individuali possono
essere ordinate, poste in relazione e comprese (cfr. ad es. W. Ross AsHBy, An
Introduction to C., 1957). Le macchine di cui si occupa la C. sono tuttavia gli
automi (v.) cioè quelle capaci di eseguire ope- razioni che, nel corso della
loro esecuzione, pos- sono essere corrette in modo da rispondere meglio al loro
scopo. Questa correzione si chiama retro- azione (feedback). Poichè essa è la
caratteristica fondamentale delle operazioni dell’uomo o di qual- siasi essere
intelligente, tali macchine sono anche dette pensanti o cervelli elettronici
perchè il loro funzionamento è affidato alle proprietà fisiche del-
l’elettrone. Lo schema del loro funzionamento si può scorgere nella più
semplice operazione di un essere umano. Se, avendo visto un oggetto in una
certa direzione (cioè avendone ricevuto un mes- saggio visivo), stendo il
braccio per afferrarlo e sbaglio la direzione o la distanza, subito l’infor-
mazione di questo sbaglio rettifica il movimento del mio braccio e mi consente
di dirigerlo esatta- mente verso l’oggetto: sia l’operazione, sia la cor-
rezione dell’operazione stessa sono in questo caso guidati da messaggi cioè da
informazioni ricevute o trasmesse dal sistema nervoso che dirige il mo- vimento
del braccio. La teoria dell’informazione fa perciò parte integrante della C. o
comunque è strettamente collegata con essa. Nella C. possono essere distinti
gli aspetti seguenti: 1° lo schema generale dell’informazione; 2° la misura
della quan- tità d’informazione; 3° le condizioni che rendono possibile
l’informazione; 4° gli scopi dell’informa- zione. 1° Lo schema di ogni informazione
sembra co- stituito essenzialmente da tre elementi: il mes- saggio emesso, la
trasmissione, e il messaggio ricevuto. Ma in realtà le cose sono più complicate
perchè il messaggio emesso (per es., una frase pronunciata in italiano o
l’insieme di punti e linee che costituiscono un messaggio telegrafico) è già
l’espressione o la traduzione o, come anche si dice, la messa in codice di ciò
che chi lo emette (l’emittente) intende trasmettere. Dall'altro lato, il
messaggio ricevuto dev’essere compreso cioè ritra- dotto o decodificato per
essere registrato dal rice- vente e guidarne la condotta. Così il messaggio
telegrafico trasmesso mediante combinazioni di punti e linee dev'essere
decodificato o ritradotto in pa- role o la frase pronunciata in italiano deve
esser compresa secondo le regole e il dizionario della lingua italiana e non
apporterà alcuna informa- zione a chi non conosce l’italiano. Già in tutti
questi passaggi sono possibili equivoci, errori di emissioni, di trasmissioni,
di codificazione e deco- dificazione nonchè disturbi vari dovuti all’interfe-
renza di rumori o di altri fattori meccanici. 2° Proprio quest’ultima
osservazione ha dato l’avvio alla teoria matematica dell’informazione con un
teorema proposto da C. E. Shannon nel 1948 (cfr. SHANNON e WEAVER, The
Mathematical Theory of Communications, 1949) Shannon osservava che un messaggio
inviato attraverso un canale qualsiasi subisce, nel corso della trasmissione,
deformazioni diverse, per cui al suo arrivo una parte delle in- formazioni che
conteneva è andata perduta. Egli stabili l'analogia tra questa perdita e
l’entropia (v.) che è la funzione matematica esprimente la degra- dazione
dell’energia che si verifica (in base al se- condo principio della
termodinamica) in ogni tra- sformazione del lavoro meccanico in calore in
quanto la trasformazione inversa (del calore in lavoro meccanico) non è mai
completa. In base a questa analogia la quantità di informazione, tra- smessa
può essere calcolata come entropia negativa giacchè, nella trasmissione dei
messaggi, come nella trasformazione dell’energia, l’entropia negativa de-
cresce continuamente perchè quella positiva (per- dita d’informazione o
degradazione di energia) cresce continuamente. Sulla base di questa ana- logia,
il calcolo delle probabilità, di cui si avvale la termodinamica, può essere
adoperato, con op- portuni accorgimenti, per determinare le formule in cui la
misura della quantità di informazione può essere espressa nei singoli casi, che
variano a se- conda del numero e della frequenza dei simboli adoperati, della
loro possibilità di combinazione, dell’interferenza dei fattori di disturbo
nella tra- smissione dei simboli stessi e così via. In quest’ul- timo caso, si
prendono in considerazione i simboli detti ridondanti che hanno lo scopo di
prevedere e correggere gli errori della trasmissione prima che essi si
producano, in modo che il funzionamento della trasmissione sia corretto in
anticipo dalla previsione dei disturbi, col processo della retro- azione. In
generale si può dire che più un mes- saggio è improbabile, maggiore è
l’informazione che esso trasmette. Perciò la quantità minima di informazione si
ha quando l’informazione lascia la scelta soltanto tra due possibilità
ugualmente probabili. Questa quantità minima è stata assunta come unità di
misura dell’informazione ed è stata chiamata bif (abbreviazione
dell’espressione inglese binary digit = cifra binaria). 3° Il concetto e il
calcolo dell’informazione si- tuano l’informazione stessa nel dominio della
pro- babilità (v.). Questo vuol dire che l’informazione è possibile solo in un
mondo che non è nè neces- sariamente ordinato, nè necessariamente disordinato.
In un mondo necessariamente ordinato, tutto sa- rebbe infallibilmente
prevedibile e l’informazione sarebbe inutile. In un mondo necessariamente di-
sordinato, cioè puro frutto del caso, nessun ordine sarebbe possibile quindi
nessuna informazione tra- smissibile. L’informazione trasmette infatti un or-
dine determinato di simboli e la misura dell’infor- mazione è la misura di un
ordine. Un messaggio telegrafico consiste, per es., di una certa combi- nazione
di punti e linee che, se comunica un’in- formazione, ha un ordine determinato,
scelto tra i moltissimi che sono resi possibili dall’alfabeto Morse. La misura
dell’informazione è data, come si è visto, dall’entropia negativa cioè da una
fun- zione che esprime la diminuzione dell’entropia che è il disordine (cioè la
distribuzione casuale) degli elementi di un sistema qualsiasi. Pertanto le con-
dizioni della C., cioè dell’uso teoretico e pratico della teoria
dell’informazione, possono essere rica- pitolate nel modo seguente: a) La
negazione di ogni tipo o forma di ne- cessità in tutte le situazioni in cui
l’informazione prende posto. b) La negazione di ogni conoscenza assoluta cioè
totale, definitiva ed eseste condizioni dell’informazione (e quindi della C.
che l’adopera per i più diversi scopi), sono implicitamente o esplicitamente
ammesse da tutti gli scienziati che in qualsiasi campo si avvalgono di questa
disciplina; e costituiscono il fondamento filosofico di essa. Esse sono
riassunte nel passo seguente di F. C. Frick: « Informazione e ignoranza, scelta
previsione e incertezza, sono tutte intima- mente correlate... AI confine della
completa cono- scenza e della completa ignoranza, sembra intuiti- vamente
ragionevole parlare di gradi di incertezza. Più vasta è la scelta, più esteso è
l’insieme delle alternative che si aprono davanti a noi, più incerti noi siamo
circa come procedere e di maggiore in- formazione abbiamo bisogno per prendere
la nostra decisione » (Information Theory, in Psychology: A Study of a Science,
22 ediz., Sigmund Koch, 1959, pag. 614-15). 4° Il quarto aspetto della C. è
costituito dagli usi e dagli scopi che essa può avere nei più diversi campi
dell’attività umana: a) In primo luogo la C. è un potente stru- mento per la
spiegazione e la previsione dei feno- meni. Uno dei suoi successi più clamorosi
si è avuto nel campo della generica (v.), dove ha reso possibile spiegare la
trasmissione dei caratteri ere- ditari mediante le varie combinazioni degli
elementi di un alfabeto genetico, costituito dagli acidi desos- siribonucleici,
costituenti la doppia elica del DNA (Watson e Crick, 1953). La teoria
dell’evoluzione (v.), sull’impianto darwiniano, considera l’evoluzione stessa
come un processo di variazione a caso e di sopravvivenza selettiva: due
concetti che sono (come si è visto) quelli fondamentali della teoria
dell’informazione. Nella psicologia, nell’antropo- logia, nella sociologia tali
concetti sono adoperati a spiegare ogni forma di organizzazione e sono ora
generalizzati in una teoria dei sistemi, applicabile a tutti questi campi
(cfr., ad es., W. BUCKLEY, Sociology and Modern Systems Theory, 1967, e
relativa bibl.). b) In secondo luogo la C. è utilizzata per la costruzione di
macchine sempre più complesse, alle quali sono affidate operazioni e compiti,
ritenuti, sino a poco tempo fa, propri dell’uomo. Sui limiti e le possibilità
di queste macchine, i pareri di scien- ziati e filosofi sono discordi. C'è chi ritiene
che, in un futuro più o meno prossimo, esse possano sostituirsi all'uomo nella
soluzione di tutti i suoi problemi e anche nelle scelte decisive che concer-
nono l’avvenire o la sopravvivenza del genere umano. Altri avanzano dubbi su
questa possibilità illimitata, che sembra fra l’altro contraddetta dal teorema
di Gédel (v. MATEMATICA) che tra le sue implicazioni, ha anche quella che non è
possibile costruire una macchina che risolva ogni problema. Si insiste,
inoltre, sulla differenza tra l’uomo e la macchina dovuta alla presenza
nell’uomo del fat- tore coscienza (v.). Raymond Ruyer ha, per es., af- fermato
che « senza coscienza non c’è informazione » e che perciò se il mondo fisico è
quello delle mac- chine fossero abbandonati a se stessi, « tutto spon- CICLO
DEL MONDO taneamente diverrebbe disordine e ci sarebbe la prova che non c’è mai
stato ordine vero, ordine consistente o, in altri termini che non c'è mai stata
informazione» (La cybernétique et l’origine de l’information, 1954). Si
insiste, anche da più parti, su fondamenti vari (spesso di natura meta- fisica
o morale) sulla differenza fra l’uomo e la macchina, ma in generale viene
riconosciuto che le macchine hanno gli stessi limiti dell’uomo, sep- pure a un
grado inferiore, e che si distinguono dall’uomo per l’enorme « complessità »
del cervello umano e per la capacità di quest’ultimo di pre- vedere in misura,
corrispondentemente maggiore, gli avvenimenti futuri. Wiener ha insistito
sull’esi- genza di una simbiosi fra l’uomo e la macchina, per la quale è
necessario, da parte dell’uomo, avere una chiara idea degli scopi che deve
prefiggersi nella programmazione e nell’uso delle macchine. Una macchina
infatti può, eseguendo il suo pro- gramma, mettere in atto operazioni che, per
l’in- sorgere di circostanze impreviste, possono rivolgersi contro gli
interessi e la vita stessa dell’uomo. Anche una macchina che può imparare e
prendere deci- sioni sulla base di una conoscenza acquisita, ha osservato
Wiener, non sarà obbligata a decidere nel senso in cui avremmo deciso noi
stessi o al- meno in modo per noi accettabile: « Per colui che non ha coscienza
di ciò, addossare il problema della propria responsabilità alla macchina (sia
che questa possa apprendere o no) vorrà dire affidare la propria responsabilità
al vento e vedersela tornare indietro tra i turbini della tempesta » (7he Human
Use of Human Beings, 1950, cap. XI; cfr. pure God & Golem, Inc., 1964). I
problemi della C. si colle- gano così strettamente, oltre che a quelli dell’on-
tologia e della gnoseologia, anche a quelli dell’etica. CICLO DEL MONDO (gr.
xixdog; ingl. Co- smic Cycle; franc. Cycle cosmique; ted. Kosmic Cyklus). La
dottrina secondo la quale il mondo ritorna, dopo un certo numero di anni, al
caos primitivo dal quale uscirà di nuovo per ricomin- ciare il suo corso sempre
uguale. La dottrina è suggerita ai più antichi filosofi dalle vicende ci-
cliche constatabili: l’alternarsi del giorno e della notte, delle stagioni,
delle generazioni animali, ecc. La nozione del C. cosmico si trova nell’orfismo,
nel pitagorismo, in Anassimandro (HyP., Refut. omn. haeres., I, 6, 1), in
Empedocle (Fr. 17, Diels), in Eraclito (Fr. 5, Diels); ed inoltre negli Stoici
secondo i quali: «Quando nel loro moto gli astri siano tornati allo stesso
segno e alla latitudine e longitudine in cui ciascuno era al principio, ac-
cade, nel C. dei tempi, una conflagrazione e distru- zione totale; poi di nuovo
si ritorna dal principio allo stesso ordine cosmico e di nuovo muovendosi gli
astri ugualmente, ogni avvenimento accaduto nel precedente C. torna a ripetersi
senza alcuna differenza. Vi sarà infatti di nuovo Socrate, di nuovo Platone e
di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; le stesse
cose credute e gli stessi argomenti discussi, ed ogni città e villaggio e
campagna ritornerà ugualmente. Questo ritorno universale si effettuerà non una
sola volta ma molte volte e all’infinito » (NEMESIO, De nat. hom., 38). Nella
filosofia moderna questa dottrina è stata ripresa da Federico Nietzsche: per il
quale l'eterno ritorno è il sì che il mondo dice a se stesso, la vo- lontà
cosmica di riaffermarsi e di essere se stessa, quindi l’espressione cosmica di
quello spirito dio- nisiaco che esalta e benedice la vita. «Il mondo, dice
Nietzsche, si afferma da sè, anche nella sua uniformità che rimane la stessa
nel corso degli anni, si benedice da sè, perchè è ciò che deve eter- namente
ritornare, perchè è il divenire che non conosce sazietà nè disgusto nè fatica»
(Wille zur Macht, ed. e fuoco) che compongono i corpi sublunari; sicchè il C.
che si muove di movimento circolare, che non ha l’opposto, è incorruttibile e
ingenerabile (De cael., Il, 1 sgg.). La dottrina dell’incorruttibilità dei C.
ha dominato tutta la fisica antica e medie- 9 — ABDAGNANO, Dizionario di filosofia,
vale. Nell’antichità fu forse messa in dubbio da Teofrasto (cfr. STEINMETZ, Die
Physik des Theo- phrast, 1964, pag. 158 sgg.). Nel Medioevo il primo a metterla
in dubbio fu Ockham nel sec. xiv, il quale nega la diversità tra la materia che
com- pone i corpi celesti e la materia che compone i corpi sublunari e ammette
come sola differenza tra questi e quelli il fatto che la materia dei corpi
celesti non può essere trasformata per l’azione di alcun agente creai e senza
entrare a far par- te dell’esistenza soggettiva (PAi/., III, pag. 137). Una
cosa, una persona, una dottrina, una poesia possono valere come simboli o C.
della trascendenza; simboli e C. sono anche le siruazioni-limite (v.).
CINEMATOGRAFICO, MECCANISMO (franc. Mécanisme cinématographique). Così Bergson
chiamò il procedimento del pensiero nei riguardi del movimento: il pensiero
prenderebbe sul movi- mento istantanee immobili alle quali aggiungerebbe un
movimento artificiale esterno. Su questo pro- cedimento sarebbe fondata
«l'illusione meccani- stica » (Évol. Créatr., cap. IV). CINICA, FILOSOFIA
(ingl. Cynicism; fran- cese Cynisme; ted. Cynismus). La dottrina di una delle
scuole socratiche e precisamente di quella fondata da Antistene di Atene (sec.
rv a. C.) nel Ginnasio Cinosarge. Proprio da questo Ginnasio i Cinici
probabilmente derivarono il loro nome; oppure, come altri dicono, lo derivarono
dal loro ideale di vita conforme alla semplicità (e alla sfac- ciataggine)
della vita canina. La tesi fondamentale del cinismo è che l’unico fine dell’uomo
è la feli- cità e la felicità consiste nella virtù. Fuori della virtù non
esistono beni sicchè fu proprio dei Cinici il disprezzo per le comodità, gli
agi e i piaceri e l’ostentazione del più radicale disprezzo per le con-
venzioni umane e in generale per tutto ciò che allontana l’uomo dalla
semplicità naturale di cui gli animali dànno l’esempio. La parola « cinismo » è
rimasta nel linguaggio comune per l’appunto a designare una certa
sfacciataggine. 130 CIRCOLO (gr. xixdo, Sdandoc bro; lat. Cir- culus; ingl.
Circle; franc. Cercle; ted. Zirkelbe- weiss). La dimostrazione in circolo o
reciproca è, secondo Aristotele, quella che consiste nel dedurre dalla
conclusione e da una delle due premesse di un sillogismo (quest’ultima assunta
nel rapporto di predicazione inverso) l’altra conclusione del sil- logismo
stesso (An. Pr., II, 5, 57b sgg.). Aristo- tele ammette la piena validità di
questo procedi- mento e ne stabilisce i limiti e le condizioni a proposito di
ciascuna figura del sillogismo. Esso pertanto non ha niente a che fare col « C.
vizioso + o «petizione di principio », da lui enumerata fra i sofismi extra
dictionem (cioè non dipendenti dal- l’espressione linguistica) e che consiste
nell’asgismo è un diallele perchè in esso la premessa maggiore, per es., «Tutti
gli uomini sono mortali » presuppone accertata la con- clusione « Socrate è
mortale » (/pot. Pirr., II, 195 seguenti). Questa critica trascura un punto
fonda- mentale della logica di Aristotele e cioè che le premesse del sillogismo
non sono stabilite per induzione ma esprimono la causa o sostanza ne- cessaria
delle cose. Per es., quando si dice « Tutti gli uomini sono mortali» non si
esprime l’osser- vazione che Tizio, Caio, Sempronio sono mortali, bensì un
carattere che appartiene alla sostanza o essenza necessaria dell'uomo ed è
perciò la causa o ragion d’essere della conclusione. Il C. viene solitamente
assunto come segno della incapacità di dimostrare. Hegel osservò tuttavia che «
La filosofia forma un C. +: perchè essa, in ognuna delle sue parti, deve
prendere le mosse da qual- cosa di indimostrato, che è invece il risultato di
qualche altra sua parte (Fi/. de/ dir., $ 2, Zusatz). A sua volta Rosmini
(Logica, 1854, pag. 274 n) parlò di un «C. solido» per cui la conoscenza della
parte suppone quella del tutto e reciproca- mente. E Gentile rifacendosi a tali
esempi a sua volta ritenne che il diallele o C., quale Sesto Em- pirico l’ha
mostrato in atto nel sillogismo, è la CIRCOLO caratteristica propria del «
pensiero pensato », cioè del pensiero come oggetto di se stesso. « Questo
diallelo, egli disse, che è stato sempre lo spauracchio del pensiero, sarà,
anzi è, la morte del pensiero pen- sante; ma è la vita, la stessa legge
fondamentale del burgo (1559-73), metodo che consisteva prevalen- temente nello
spiegare ogni singolo passo mediante il senso totale della Scrittura.
CLASSIFICAZIONE CLAVIS UNIVERSALIS. Questo termine fu usato tra il °500 e il
”600 per indicare la tecnica della memoria e dell’invenzione, che ha il suo
precedente più illustre nell’ Ars magna di Lullo e il suo sbocco più importante
nella Caratteristica universale di Leibniz (cfr. PaoLo Rossi, Clavis
universalis, 1960) (v. CARATTERISTICA; COMBINATORIA; MNEMONICA). CLINAMEN. V.
DECLINAZIONE. COCCODRILLO, DILEMMA DEL. Vedi DILEMMA. COERENZA (ingl.
Coherence; franc. Cohé- rence; ted. Zusammenhang). 1. L'ordine, la con-
nessione, l'armonia di un sistema di conoscenza. In questo senso Kant
attribuiva alle conoscenze a priori il còmpito di mettere ordine e C. nelle
rappresentazioni sensibili (Crit. R. Pura, 1* ediz., Intr., $ 1). E in tal
senso la C. è stata assunta da alcuni idealisti inglesi come criterio della
verità. Secondo Bradley, ad es., la realtà è una Coscienza assoluta che
abbraccia, nella forma di una C. ar- moniosa, tutto il molteplice disperso e
contraddit- torio dell’apparenza sensibile (Appearance and Rea- lity, 2* ediz.,
1902, pag. 143 sgg.). La C. in questo senso è assai più della semplice
compatibilità (v.) fra gli elementi di un sistema: implica, infatti, non solo
l'assenza della contraddizione, ma la presenza di connessioni positive che
stabiliscano armonia tra gli elementi del sistema. In questa accezione il
termine non ha significato logico. 2. Lo stesso che compatibilità. Questo
significato è assunto frequentemente dal termine italiano e da quello francese,
giacchè in queste lingue il termine compatibilità non si presta a esprimere il
carattere del sistema che è privo di contraddizione, ma de- signa piuttosto il
carattere di non contraddittorietà reciproca degli enunciati. COESISTENZA
(ingl. Coexistence; fr.
Coexis- tence; ted. Mitsein o
Mitdasein). Nell’esistenzia- lismo contemporaneo s’intende con questo termine
il modo specifico in cui l’uomo è con gli altri uomini nel mondo: modo che è
diverso da quello in cui egli si trova ad essere, nel mondo, con le altre cose.
Questo significato specifico del termine è dovuto a Heidegger che ha distinto
la presenza delle cose come mezzi o strumenti utilizzabili dal con-esserci
(Mif- dasein), o C. degli altri con l’Io. La stretta connes- sione della C. con
l’esistenza fa sì che non vi possa essere comprensione di sè senza la
comprensione degli altri. « Nella comprensione dell’essere propria
dell’Esserci, dice Heidegger, è implicita la com- prensione degli altri, e ciò
perchè l’essere dell’Es- serci è coesistenza » (Sein und Zeit, $ 26). COGITO.
Si abbrevia in questa parola l’espres- sione cartesiana « Cogito ergo sum
(Discours, IV; Méd., II, 6 che esprime l’autoevidenza esi- stenziale del
soggetto pensante, cioè la certezza che il soggetto pensante ha della sua
esistenza in quanto tale. Si tratta di un movimento di pensiero che è stato
ripresentato varie volte nella storia, sia pure per fini diversi. S. Agostino
si av- valse di esso per confutare lo scetticismo accade- mico, cioè per
dimostrare che non si può rimaner fermi al dubbio o alla sospensione
dell’assenso. Chi dubita della verità è certo di dubitare, cioè di vivere e di
pensare; consegue dunque nel dubbio stesso la certezza che lo rapporta alla
verità (Contra Acad., III, 11; De Trin., X, 10; Solil., II, 1). Da S. Agostino
lo stesso atteggiamento di pensiero passa in alcuni Scolastici; per es., in S.
Tommaso: « Nessuno, egli dice, può pensare con assenso [cioè credere] di non
essere; giacchè, in quanto pensa qualcosa, percepisce di essere» (De ver., q.
10, a. 12, ad. 7). Contemporaneamente a Cartesio il principio è ripreso da
Campanella (Mer., I, 2, 1). Per quanto questo movimento di pensiero sia stato
fatto servire a fini diversi (S. Agostino lo utilizza per dimostrare la trascendenza
della Verità [che è Dio stesso] e la presenza di essa all’anima umana;
Campanella lo utilizza per dimostrare la priorità di una « nozione innata di sè
» su ogni altra specie di conoscenza; e Cartesio per giustificare il suo metodo
dell’evidenza) e il suo preciso significato sia quindi diverso da un filosofo
all’altro, poche volte si è tuttavia dubitato della sua validità generale. Ad
ogni filosofia che faccia appello alla coscienza (v.) come allo strumento della
ricerca filosofica, il C. deve apparire indubitabile perchè in realtà esso non
è che la formulazione del postulato metodo- logico di una tale filosofia. Ma
anche filosofie che non riconoscono tale postulato fanno uso del C. e lo
riconoscono valido. Così fa, per es., Locke che vede in esso « il più alto
grado di certezza + (Saggio, IV, 9, 3). E così fa Kant che vede in esso la
stessa appercezione pura (v.) o coscienza riflessiva. Nella filosofia
contemporanea, Husserl assume esplici- tamente il C. come punto di partenza
della sua filosofia (/deen, I, $ 46; Méd. cart.,8 1) e ricorre ad esso
continuamente nel corso delle sue analisi, con- siderandolo come la struttura
stessa dell’esperienza vissuta (Erlebniss) o coscienza. Heidegger stesso non
mette in dubbio la validità del C. per quanto rimproveri a Kant di aver
ristretto con esso l’io a un «soggetto logico», isolato, «soggetto che accom-
pagna le rappresentazioni in un modo ontologica- mente del tutto indeterminato»
(.Sein und Zeit, $ 64). Di fronte a una così ampia accettazione, le cri- tiche
sono state assai scarse. Si può pensare alla critica di Vico; ma è facile
vedere che questa non è veramente una critica del Cogito. Vico nega che la
«coscienza» del proprio essere possa costituire la «scienza » di esso 0 almeno
il principio di questa scienza. La scienza infatti è conoscenza di causa e il
C. cartesiano sarebbe principio di scienza solo nel caso che la coscienza fosse
la causa dell’esistenza (De antiquissima Italorum sapientia, I, 3). Ma con ciò
Vico non nega che il C. costituisca una certezza valida, anzi si preoccupa di
correggerlo affermando che Cartesio avrebbe dovuto dire non «io penso dunque
sono + ma * Io penso dunque esisto » (Prima risposta al Giornale dei
letterati,83). La critica di Kier- kegaard si rivolge alla portata, più che alla
validità, del C. cartesiano: «Il principio di Cartesio ‘io penso, dunque sono’
è, al lume di logica, un gioco di parole; poichè quell’ io sono * non significa
altro, logicamente, se non ‘io sono pensante’ ovvero ‘io penso» (Diario, V, A,
30). In altri termini, secondo Kierkegaard, la proposizione cartesiana è
puramente tautologica, giacchè il suo presupposto è l’identità dell’esistenza
con il pensiero. Una tau- tologia però è ancora una proposizione valida. Nel
1868 Peirce rispondeva negativamente alla questione «se abbiamo una
autocoscienza intuitiva », nella quale la parola autocoscienza stava per cono-
scenza della propria esistenza. Peirce non affrontava la validità del C. ma con
prove psicologiche e storiche credeva di poter concludere che +« non c'è
necessità di supporre un’autocoscienza intui- tiva, dal momento che
l’autocoscienza può fa- cilmente essere il risultato di un’inferenza + (Coll.
Pap., 5.263). Neppur questa è così, propriamente parlando, una critica del
cogito. Pertanto la più semplice e decisiva critica a questa no- zione si può
ritenere quella di Nietzsche: « ‘Si pensa, dunque c’è qualcosa che pensa ’: a
questo si riduce l’argomentazione di Cartesio. Ma questo significa soltanto
ritenere come vera a priori la nostra credenza nell’idea di sostanza. Dire che,
quando si pensa, bisogna che ci sia qualcosa ‘che pensi * è semplicemente la
formulazione dell’abitu- dine grammaticale che all’azione aggiunge un attore.
In breve qui non si fa altro che formulare un po- stulato logico-metafisico, in
luogo di contentarsi di constatarlo... Se si riduce la proposizione a questo:
‘Si pensa, dunque ci sono pensieri” ne risulta una semplice tautologia e la
‘realtà del pensiero’ ri- mane fuori questione sicchè, in questa forma, si è
portati a riconoscere l’ ‘apparenza’ del pen- siero. Ma Cartesio voleva che il
pensiero non fosse una realtà apparente, ma fosse un in sè» (Wille zur Macht,
ed. 1901, $ 260). Queste considerazioni di Nietzsche costituiscono una critica,
che molti filosofi contemporanei accetterebbero, del principio del cogito. Ad
essa infatti fa esplicito riferimento Carnap che sostanzialmente la ripete. «
L'esistenza dell’io, egli dice, non è un originario stato di fatto del dato.
Dal C. non segue il sum; da ‘Io sono co- sciente’ non segue che io sono ma
soltanto che vi è un’esperienza cosciente (Er/ebniss). L’io non 136
COINCIDENTIA appartiene all’espressione delle fondamentali espe- rienze
vissute, ma viene costituito più tardi, essen- zialmente allo scopo di
delimitare il suo àmbito da quello dell'altro... Al posto dell’espressione di
Descartes bisognerebbe porre quest'altra: ‘Questa esperienza cosciente; quindi
c’è un’esperienza co- sciente ’; ma questa sarebbe certamente una pura
tautologia » (Der /ogische Aufbau der Welt, 1928, $ 163). Questa critica è però
ben lungi dall’essere condivisa anche dagli stessi empiristi logici e Ayer, per
es., riconferma sostanzialmente la validità del principio cartesiano come
verità logica, pur limi- tandone la portata. « Se qualcuno pretende di sa- pere
che egli esiste o che è conscio, la sua pretesa deve essere valida
semplicemente perchè il suo es- sere valida è una condizione del suo essere
fatta » (Problem of Knowledge, 1956, pag. 53). La posi- zione di Nietzsche su
questo punto era più radicale e, probabilmente, più corretta (v. COSCIENZA).
COINCIDENTIA OPPOSITORUM. Espres- sione adoperata per la prima volta da Niccolò
Cusano per esprimere la trascendenza e l’infinità di Dio: il quale sarebbe C.
del massimo e del mi- nimo, del tutto e del nulla, del creare e del creato,
della complicazione e dell’esplicazione, in un senso che non può essere inteso
ed afferrato dall’uomo (De docta ignor., I, 4; De coniecturis, II, 1). Nello
stesso senso si servirono dell’espressione Reuchlin (De arte cabalistica, 1517)
e Giordano Bruno che se ne avvale per definire l’universo ch'egli identifica
con Dio. L’universo « comprende tutte contrarietà di nell’esser suo in unità e
convenienza» (Della causa [v.}). COLLETTIVISMO (ingl. Collectivism; fran- cese
Collectivisme; ted. Kollektivismus). 1. Questo termine è stato coniato nella
seconda metà dell’800 per indicare il socialismo non statalista di fronte
a quello statalista. Furono collettivisti
in questo senso il socialismo riformista d’anteguerra ed è collettivista il
laburismo inglese in quanto vuole una società senza squilibri di classe, quindi
col- lettivizzata; ma non controllata con la forza da una élite privilegiata
che goda di un livello di vita radicalmente diverso da quello della
popolazione. 2. In senso più vasto, s'intende per C. ogni dot- trina politica
che si opponga all’individualismo e che in particolare sostenga l’abolizione
della pro- prietà privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. In
questo senso sono collettivistici sia il socialismo che il comunismo, in tutte
le loro forme. COLLIGAZIONE (ingl. Colligation; franc. Col- ligation; ted.
Kolligation). Operazione descrittiva in- vocata da Whewell (Novum organum
renovatum, 1840, II, cap. 1 e 4) per spiegare il modo in cui si possono
raccogliere un certo numero di dettagli in una sola proposizione. Stuart Mill
(Logic, III, 2, 4) riprese questa nozione collegandola a quella di indu- zione.
« L’asserzione che i pianeti si muovono in el- lissi fu un modo di
rappresentare fatti osservati, quin- di una C.; l’asserzione che essi sono
attratti verso il Sole è l’asserzione di un nuovo fatto, inferito per induzione
». La parola è caduta in disuso nella lo- gica contemporanea. COLPA (lat.
Culpa; ingl. Guilt; franc.
Culpabi- lité; ted. Schuld). Originariamente,
termine giuridico per indicare l’infrazione di una norma compiuta «
involontariamente », cioè senza averla progettata; in contrapposto al delitto
(dolus) che è la trasgres- sione progettata. Ecco come Kant esprime la cosa: «
Una trasgressione involontaria ma imputabile si chiama colpa; una trasgressione
volontaria (cioè unita con la coscienza che si tratta proprio di trasgressione)
si chiama delitto » (Mer. der Sitten, I, Intr., $ 4). Per Heidegger la colpa è
«un modo d’essere dell’Esserci » cioè una determinazione es- senziale
dell’esistenza umana in quanto tale. Egli distingue due significati di esser
colpevole (corri- spondentemente ai due significati del tedesco Schw/d che
significa debito e colpa): l’essere in debito verso qualcuno e l’esser causa,
autore od occa- sione di qualche cosa. « In questa forma di ‘ aver C. * in
qualcosa si può ‘esser colpevole ’ senza ‘ essere in debito” con qualcuno o
essergli debitore. E, rovesciando si può dovere qualcosa a qualcuno senza
averne la C. (esserne la causa)» (Sein und Zeit, $ 58). In un senso analogo,
Jaspers ha posto la C. tra le situazioni-limiti dell’esistenza umana, cioè tra
quelle situazioni alle quali l’uomo non può sfuggire (Phil., II, pag. 246
sgg.). COMBINATORIA, ARTE (lat. Ars combi- natoria). Con il nome di ars
combinatoria Leibniz designa il progetto, o meglio l’ideale, di una scienza
che, partendo da una characteristica universalis (vedi CARATTERISTICA), ossia
da un linguaggio simbolico che assegnasse un segno ad ogni idea primitiva,
combinasse in tutti i modi possibili questi segni primitivi, ottenendo così
tutte le possibili idee. Il progetto, derivante in parte dalle idee esposte da
R. Lullo nella Ars Magna, aveva già sedotto molti pensatori del *500 e °600
(tra gli altri, Agrippa di Nettesheim, A. Kircher, P. Gassendi, G. Dalgarno) e
venne parzialmente coltivato anche da continuatori di Leibniz, come Wolff e
Lambert. G. P. COME SE (ted. A/s ob). Espressione che ricorre frequentemente
nelle opere di Kant per indicare il carattere ipotetico o semplicemente
regolarivo di certe affermazioni. Per es., le cose in sè possono essere pensate
per analogia «come se fossero so- stanze, cause, ecc. + (Crit. R. Pura,
Dialettica, V, d). L’imperativo categorico ordina di agire « come se l’essere
razionale fosse un membro legislatore nel regno dei fini » (Grundlegung zur
Met. der Sitten, II). Noi dobbiamo trattare le massime della libertà «come se
fossero leggi della natura » (/bid., III). La facoltà del giudizio considera
gli oggetti naturali « come se la finalità della natura fosse intenzionale »
(Critica del Giud., $ 68). Il come se kantiano non è una mera finzione: è
semplicemente l’interpretazione, in termini di operazioni o di comportamenti,
di proposizioni il cui senso letterale e metafisico ap- pare al di là della
confutazione e della conferma, perciò inesistente. Come finzione interpretò
invece il come se Hans Vaihinger nella sua Filosofia del come se (1911); la cui
tesi è che tutti i concetti e le cate- gorie, i principi e le ipotesi di cui si
avvalgono le scienze e la filosofia, sono finzioni (v.) prive di vali- dità
teoretica, spesso intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute
solo in quanto utili. Un altro kantiano Paolo Natorp, aveva ristretto il come
se al dominio dell’arte, la quale rappresente- rebbe le cose come se ciò che è
dovesse ancora essere o come se ciò che deve essere fosse anche in realtà (Die Religion
innerhalb der Grenzen der Humanitàt, 1894). COMICO (gr. yedotoy; lat. Comicus; ingl. Comic; franc. Comique; ted. Komisch). Ciò che fa
ridere, o la possibilità di far ridere, mediante la risolu- zione impreveduta
di una tensione o di un contrasto. La più antica definizione del C. è quella di
Aristo- tele, che lo considerò come « qualcosa di sbagliato e di brutto che non
procura nè dolore nè danno » (Poet., 5, 1449a 32 sgg.). Lo «sbagliato» come
carattere del C. significa il carattere imprevisto, perchè non ragionevole,
della soluzione, che il C. presenta, di un contrasto o di una situazione di
tensione. Queste notazioni sono rimaste sostan- zialmente le stesse nella
storia della filosofia. Hobbes ha insistito sul carattere inaspettato del C., e
lo ha connesso con la coscienza della propria supe- riorità (De homine, XII, $
7). Alla tensione e quindi alla soluzione inaspettata di essa riduce il C.
Kant: «In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve
esserci qualcosa di assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso
non può trovare alcun piacere). Il riso è un’affe- zione che deriva da
un’aspettazione tesa, la quale d'un tratto si risolve in nulla. Proprio questa
ri- soluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l'intelletto,
indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità » (Crif. del Giud., $
54). L’Illu- minismo vide nel C., e nel riso che lo esprime, un correttivo
contro il fanatismo e la manifestazione di quel « buon umore » che Shaftesbury
considerava come il miglior correttivo del fanatismo stesso (Letter on
Enthusiasm, II). Hegel invece lo con- siderava come l'espressione di un
possesso so- disfatto della verità, della sicurezza che si prova di sentirsi al
di sopra delle contraddizioni e di non essere in una situazione crudele o
disgraziata. Lo identificava, in altri termini, con una felicità sicura di sè,
che può perciò sopportare anche lo scacco dei suoi progetti. E in ciò egli lo
distingueva dal semplice risibile, in cui vedeva «la contraddi- zione per la quale
l’azione si distrugge da sè e lo scopo si annulla realizzandosi » (Vorlesungen
liber Aesthetik, ed. Glockner, III, p. 534). Questa nozione hegeliana del C. è
tuttavia un’idealizzazione ro- mantica del fenomeno, più che un’analisi di
esso; è l’esagerazione di quel sentimento di superiorità che già Aristotele
notò trovarsi nel C. quando considerò la commedia come «imitazione di uo- mini
ignobili» (Poer., 5, 1448, 32). La nozione tradizionale del C. esce
riconfermata dall’analisi che ne ha fatto Bergson (Le rire, 1900), la quale
rimane fino ad oggi la più ricca e precisa. Egli nota che il C. si ha quando un
corpo umano fa pensare a un semplice meccanismo; o quando il corpo prende il
sopravvento sull’anima o la forma sor- passa la sostanza e la lettera lo spirito;
o quando la persona ci dà l’impressione di una cosa; tutti casi, questi, nei
quali il C. è posto in un’aspetta- tiva che viene delusa con una soluzione
imprevista e, come avrebbe detto Aristotele, sbagliata. Allo stesso modo, il C.
delle situazioni o delle espres- sioni che si ha quando una situazione può
inter- pretarsi in due modi differenti o per l’equivocità delle espressioni
verbali; è perciò sempre uno sbaglio, una soluzione irragionevole data ad una
aspettativa di soluzione. Al C., Bergson attribuisce anche un potere educativo
e correttivo. « Il rigido, il bell'e fatto, il meccanismo in opposizione al-
l'agile, a ciò che è perennemente mutevole, al vi- vente, la distrazione in
opposizione alla previsione, infine l’automatismo in opposizione all’attività
libera, ecco ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere » (/bid., cap.
II, in fine). COMINCIAMENTO (lat. Inceptio; ingl. Be- ginning; franc. Début; ted. Anfang). Propriamente, l’inizio di una
cosa nel tempo: che può coincidere o no col principio (v.) o con l’origine (v.)
della cosa stessa. Questa distinzione è importante in taluni casi: per es.,
secondo S. Tommaso la creazione, come C. del mondo nel tempo, è materia di
fede, ma non lo è come produzione dal nulla da parte di Dio (S. 7h., I, q. 46,
a. 2). Hegel ha affermato che il C. della filosofia è relativo, nel senso che
ciò che appare come C. è, da un altro punto di vista, ri- sultato (Fil. del
dir, $ 2, Zusatz). Comunque, l’Assoluto si trova, secondo Hegel, piuttosto nel
risultato che nel C. perchè questo « come dapprima e immediatamente vien
pronunziato, è solo l’uni- versale », e l’universale in questo senso è solo
l’astratto che non può valere come concretezza e totalità; per es., le parole
«tutti gli animali» che esprimono l’universale di cui si occupa la zoologia,
non possono valere come l’intera zoologia (Phae- nom. des Geistes, Intr., II,
1). Con tutto ciò, la filosofia ha spesso cercato il C. assoluto da far
coincidere con lo stesso « principio » di essa: di qui la ricerca del « primo
principio » del filosofare. COMMUTATIVO (lat. Commutativus; inglese
Commutative; franc. Commutatif; ted. 1° Ausgleichend; 2° Kommutativ). 1. Gli
Scolastici hanno chiamato C. perchè ha luogo negli scambi (commufationes) la
specie di giustizia che Aristotele chiamava « cor- rettiva » (vò Stopfwrwxdy
Sixatov): la quale, a diffe- renza della giustizia distributiva, che dà a
ciascuno secondo i suoi meriti, serve a pareggiare i vantaggi e gli svantaggi
in tutti i rapporti scambievoli tra gli uomini, sia volontari che involontari
(Et. Nic., V, 4, 1131 b 25) (v. GIUSTIZIA). 2. Proprietà C. o legge C. si dice
l’assioma (0 postulato) per il quale x o y = y o x. Questa legge è a fondamento
dell’addizione e della moltiplica- zione nell’aritmetica e della teoria dei
numeri reali. Algebra « non C.» è stata chiamata la teoria delle matrici dovuta
all’inglese Arturo Cayley (1821-95) che è stata utilizzata dalla meccanica dei
quanti; perchè essa non obbedisce alla legge C. conside- rando come unità
schiere di numeri (quali sarebbero, per es., quelli scritti sui quadrati di una
scacchiera). COMPARATIVO (ingl. Comparative; francese Comparé; ted.
Vergleichend). Questione C. chia- mano i logici tradizionali quella nella quale
si domanda se qualcosa sia minore o maggiore, mi- gliore o peggiore, ecc., di
un’altra; per es.: « Se la giustizia sia da preferirsi alla fortezza »
(JuNGIUS, Logica, V, 2, 42). La Logica di Porto Reale chiamò C. le proposizioni
che istituiscono un confronto del genere (ARNAULD, Logique, II, 10, 3): e questa
espressione rimane nella logica tradizionale (con- fronta B. ERDMANN, Logik, I,
$ 40, 229). COMPASSIONE (gr. &xeoc; lat. Commise- ratio; ingl. Pity; franc.
Compassion; ted. Mileid). La partecipazione alla sofferenza altrui in quanto è
qualcosa di diverso da questa stessa sofferenza. Quest'ultima limitazione è
importante perchè la C. non consiste nel provare la stessa sofferenza che la
suscita. L'emozione suscitata dal dolore di un’altra persona si può chiamare C.
solo se è il sentimento di una solidarietà più o meno attiva, ma che non ha
niente a che fare con un’identità di stati emotivi tra chi ha C. e chi è
compassionato. Aristotele de- finì la C. come «il dolore causato dalla vista di
qualche male, distruttivo o penoso che colpisce uno che non lo merita e che
possiamo aspettarci possa colpire noi stessi o qualche nostro caro + (Ret., II,
8, 1385 b). Definizione che viene ripetuta quasi alla lettera da Hobbes
(Leviazh., I, 6), Car- tesio (Passions de l’dme, III, $ 185), Spinoza (Er.,
III, 22 scol.). La C. è, secondo Adamo Smith, un caso tipico della simpatia che
costituisce la struttura di tutti i sentimenti morali (Theory of Moral Senti-
ments, III, 1). Per Schopenhauer, la C. è l'essenza stessa di ogni amore e
solidarietà fra gli uomini, perchè amore e solidarietà si spiegano soltanto
sulla base del carattere essenzialmente doloroso della vita (Die Welt, I, $
66-67). Di fronte a questa tradizione, ce n°è un’altra, che vede nella C. un
elemento negativo della vita morale. Questa seconda tradizione s’inizia dagli
Stoici (StoBEO, Ec/., II, 6, 180), passa attraverso Spinoza. Questi ritiene che
«nell'uomo che vive secondo ragione la C. è per se stessa cattiva ed inutile »,
perchè non è altro che dolore: onde «l’uomo che vive secondo ragione si sforza
per quanto può di non essere toccato dalla C.» come neppure dall’odio, dal riso
o dal disprezzo, perchè sa che tutto deriva dalla necessità della natura divina
(Ef., IV, 50, corol. schol.). Questa valu- tazione trova la sua estrema
espressione nell’invet- tiva di Nietzsche contro la C.: «Questo istinto
depressivo e contagioso indebolisce gli altri istinti che vogliono conservare
ed aumentare il valore della vita; esso è una specie di moltiplicatore e di
conservatore di tutte le miserie, perciò uno degli strumenti principali della
decadenza dell’uomo » (Anticristo, Ap. 7). Il tratto comune di queste con-
danne della C. è di considerarla come in se stessa miseria o dolore, anzi,
secondo l’espressione di Nietzsche, come qualcosa che conserva o molti- plica
miseria e dolore. Scheler ha mostrato l’equi- voco di questo presupposto che in
realtà confonde la C. (che è simpatia e partecipazione emotiva) con il contagio
emotivo. Al contrario, nota Scheler, «la C. è assente tutte le volte che c’è
contagio della sofferenza, giacchè allora la sofferenza non è più quella di un
altro ma la mia, ed io credo di poter- mici sottrarre evitando il quadro o
l’aspetto della sofferenza in generale» (Sympathie, cap. II, $ 3). Per
l’appunto quest’avvertenza fondamentale si è tenuta presente nel caratterizzare
la C. al principio di questo articolo. COMPATIBILITÀ (ingl. Consistency;
francese Compatibilité; ted. Widerspruchslosigkeit). L'assenza di
contraddizione come condizione di validità dei sistemi deduttivi. «Ogni verità,
diceva Aristotele, dev'essere in accordo con se stessa sotto tutti i rapporti »
(An. Pr., I, 32, 47 a 8). Tuttavia soltanto nella matematica moderna, da
Hilbert in poi, la C. interna di un sistema deduttivo è diventata l’unico
criterio di validità del sistema stesso. Da questo punto di vista si dice che
c’è C. in un sistema nel quale non vi è nessun teorema la cui negazione sia un
teorema; o nel quale non ogni enunciato sia un teorema. Questa seconda formula
è ancora più generale (cfr. A. CHURCH, Introduction to Ma- thematical Logic,
1956, $ 17). La dimostrazione della C. diventa, da questo punto di vista, la
di- mostrazione stessa della validità di un sistema nonchè dell’esistenza (v.)
delle entità cui esso fa riferimento. E la dimostrazione della C. dovrebbe, nel
pensiero di Hilbert, non fare riferimento a un infinito numero di proprietà
strutturali delle for- mule o a un infinito numero di operazioni con- formi. La
dimostrazione dovrebbe essere, in questo senso, finitistica perchè solo in
questo caso sarebbe assoluta. Ma appunto la non possibilità di una as- soluta
dimostrazione della C. dei sistemi deduttivi fu provata dal teorema di Gédel
(1931). Il teorema di Gédel non esclude che si possa provare la C. di un
sistema deduttivo assumendo la C. di un altro sistema deduttivo, preso come
modello; ma a sua volta la validità del modello non potrà essere di- mostrata.
La C. « assoluta » è pertanto stata espulsa dal dominio delle matematiche ad
opera del teo- rema di Gédel, che stabilisce per ciò stesso i limiti del
cosiddetto formalismo. Nessun sistema forma- listico infatti può offrire la
garanzia della propria assoluta compatibilità. Cfr. W. V. O. QuINE, Me- thods of Logic, 1950; J.
LADRIÈRE, Les limitations internes des formalismes, 1957; B. NagEL-J. R. NEW- MANN, Godel’s Proof, 1958 (v. MATEMATICA,
PROVA). COMPITO (gr. tpyov; lat. Officium; ingl. Task; franc. Téche; ted.
Aufgabe). La limitazione della attività propria di una persona o di una cosa,
tale da garantire il risultato migliore dell’attività stessa. In questo senso,
Platone intendeva per C. di una cosa «ciò che soltanto la cosa stessa sa fare o
almeno sa fare meglio di ogni altra» (Rep., I, 353 a): e si serviva di questa
nozione per definire la virtù (v.). Nello stesso senso e per lo stesso fine si
avvaleva della nozione Aristotele quando, per definire che cosa è la felicità,
si domandava qual è «il C. dell’uomo »; e rispondeva che il C. dell’uomo è
l’attività dell'anima conforme a ragione o non indipendente dalla ragione (Et.
Nic.,I, 6,1098 a 7). Il concetto ritorna frequentemente, con lo stesso significato,
nella filosofia contemporanea (v. Fun- ZIONE; OPERAZIONE). COMPLEMENTARITÀ
(ingl. Complemen- tarity; franc. Complémentarité; ted. Komplementdr- heit). Con
espressione desunta dalla geometria (si chiamano complementari due angoli la
cui somma è uguale ad un angolo retto) si dicono complemen- tari due concetti
opposti che però si correggono reciprocamente e si integrano nella descrizione
di un fenomeno. Così si sono, per es., chiamati com- plementari i concetti di
onda e di corpuscolo per la descrizione dei fenomeni ottici, nella moderna
meccanica quantistica. Il principio di C. formulato da Bohr esprime poi
l’incompatibilità della mecca- nica quantistica con la concezione classica
della causalità (v.). Esso viene espresso così: « Una descri- zione
spazio-temporale rigorosa e una sequenza cau- sale rigorosa di processi
individuali non possono es- sere realizzate simultaneamente, o l’una o l’altra
deve essere sacrificata » (D’ABrO, New Physics, pag. 951). COMPLESSO (gr.
cvurerdeyutvov; lat. Com- plexum; ingl. Complex; franc. Complexe; tedesco
Komplex). Gli Stoici, che introdussero il termine, intesero per esso le
proposizioni composte cioè costituite o da una sola proposizione presa due
volte (ad es., «se è giorno, è giorno +) o da proposizioni diverse legate
assieme da uno o più connettivi (ad es.: «È giorno e c’è luce», «Se c’è giorno,
c’è luce», ecc.) (Sesto E., Adv. Math., VIII, 93; Dioc. L., VII, 72). Nella
logica medievale il ter- mine veniva generalizzato e s’intese per esso o un
termine composto da voci diverse come « uomo bianco », «animale ragionevole »,
ecc., o la propo- sizione semplice composta dal nome e dal verbo (per es., « l’uomo
corre », ecc.). In tal caso l’opposto di complesso, indicato con il termine
incomplexum (cioè «semplice +) è o il termine isolato o qual- siasi termine
della proposizione anche se composto da due o più termini (come, ad es., il
soggetto « uomo bianco + nella proposizione « l’uomo bianco corre +) (OckHAM,
Expositio super artem veterem, fol. 40 b). Queste nozioni ricorrono in forma
poco diversa in Vincenzo di Beauvais (Speculum doctrinale, 4) ed in Armando di
Beauvoir (De declaratione difficilium ter- minorum, I, 1). Cfr. TomMaso, S.
Th., II, 2, q. 1, 4.2. COMPLICAZIONE, ESPLICAZIONE (la- tino Complicatio,
Explicatio). Termini adoperati da Cusano per indicare il rapporto tra l’essere
e le sue manifestazioni, in quanto tali manifestazioni sono contenute
nell’essere e l’essere si spiega o manifesta in esse. Cusano dice che l’unità
infinita è « la C. di tutte le cose »; che il movimento è « l’espli- cazione
della quiete +; e che Dio «è la C. e l’espli- cazione di tutte le cose e, in
quanto è la C. di esse, tutte le cose sono in lui mentre, in quanto è l’espli-
cazione, egli stesso è in tutte le cose ciò che esse sono » (De Docta Ign., II,
3). COMPORTAMENTISMO (ingl. Behaviorism; franc. Comportamentisme; ted.
Behaviorismus). L’in- dirizzo della psicologia contemporanea che ténde a
restringere la psicologia stessa allo studio del com- portamento (v.)
eliminando ogni riferimento alla « coscienza », allo « spirito » e in generale
è ciò che non può essere osservato e descritto in termini oggettivi. Il
fondatore di questo indirizzo si può scorgere in Ivan Pavlov, l’autore della
teoria dei riflessi condizionati, che, per la prima volta, ha impiantato
ricerche psicologiche che prescindevano
da qualsiasi riferimento agli «stati
soggettivi» o « stati interni ». « Dobbiamo noi forse, si doman- dava Pavlov
nel 1903, per comprendere i nuovi 140 fenomeni, penetrare nell’essere interiore
dell'animale, rappresentarci a modo nostro le sue sensazioni, i suoi sentimenti
e desideri? Per lo sperimentatore scientifico, la risposta a quest’ultima
domanda può essere, a me sembra, una sola: un mo categorico » (I riflessi
condizionati, 1950; trad. ital., pag. 17). Nel laboratorio di Pavlov (come egli
stesso racconta Ubid., pag. 129)) fu vietato, perfino con multe, di servirsi di
espressioni psicologiche come «il cane indovinava, voleva, desiderava, ecc. +;
e Pavlov non esita a definire « disperata » da un punto di vista scientifico la
situazione della psicologia come scienza degli stati soggettivi (/bid., pag.
97). Tuttavia il primo che enunciò chiaramente il programma del C. fu J. B.
Watson in un libro intitolato // comporta- mento, introduzione alla psicologia
comparata pub- blicato nel 1914. Da Watson questo indirizzo ri- cevette anche
il nome (Behaviorismo) e la pretesa fondamentale di limitare l’indagine
psicologica alle reazioni oggettivamente osservabili. La forza del C. consiste
appunto nell’esigenza metodologica che esso ha fatto valere: esigenza per la
quale non si può scientificamente parlare di ciò che sfugge a ogni possibilità
di osservazione oggettiva e di con- trollo. Il C. è stato spesso interpretato,
da un punto di vista polemico, come la negazione della « co- scienza » o dello
« spirito » o degli « stati interni », ecc. In realtà esso è semplicemente la
negazione del- l'introspezione come legittimo strumento d’inda- gine: una
negazione che era già stata fatta da Comte (v. INTROSPEZIONE). Esso è, in più,
il deli- berato riconoscimento del comportamento come oggetto proprio
dell’indagine psicologica. Nelle sue prime manifestazioni il C. rimase legato
all’indi- rizzo meccanistico, per il quale lo stimolo esterno è la causa del
comportamento, nel senso che io rende infallibilmente prevedibile; Pavlov stesso
sot- tolineava questa infallibilità (/bid., pag. 133). Ma questo presupposto,
di natura ideologica, è stato oggi abbandonato dal C., che ha permeato profon-
damente di sè l'indagine antropologica moderna (psicologia, sociologia, ecc.)
(v. PSICOLOGIA). COMPORTAMENTO (ingl. Behavior; fran- cese Comportement; ted.
Verhalten). Ogni risposta di un organismo vivente ad uno stimolo, che sia: 1°
oggettivamente osservabile con un mezzo qual. siasi; 2° uniforme. Il termine C.
è stato introdotto da Watson verso il 1914 ed è ormai diventato di uso corrente
nel significato ora esposto. Origina- riamente esso servì a sottolineare
polemicamente l’esigenza che la psicologia e in generale ogni con- siderazione
scientifica delle attività umane o animali assumesse a suo proprio oggetto
elementi osserva- bili oggettivamente, cioè non accessibili solo alla
«intuizione interna» o alla «coscienza». Attual- mente il termine è diventato
di uso generale. Esso va tenuto distinto: 1° da azione, perchè a diffe- renza
di questa il C.: a) è una manifestazione non di un particolare principio, per
es., della volontà o dell’attività pratica, ma dell’intero organismo animale;
5) è costituito unicamente da elementi osservabili e descrivibili in termini
oggettivi; c) è uniforme, cioè costituisce la reazione abituale e costante
dell'organismo a una situazione determi- nata; 2° da atteggiamento, che è il C.
specificamente umano includente quindi elementi anticipatori e nor- mativi
(progetto, previsione, scelta, ecc.); 3° da con- dotta, che può mancare del
carattere di uniformità. COMPOSIZIONE (ingl. Composition; fran- cese
Composition; ted. Komposition). Nei logici me- dievali (per es., Pietro Ispano,
Summul. Log., 7.25) compositio designa il paralogismo o fallacia (v.) de-
rivante da un uso sintattico che rende ambigua la frase. È quindi una specie di
anfibolia (v.). G. P. COMPOSSIBILE (franc. Compossible; tedesco Kompossibel).
Leibniz ha chiamato con questo ter- mine il possibile che si accorda con le
condizioni di esistenza dell’universo reale cioè la possibilità reale. Il
possibile è ciò che è concepibile in quanto privo di contraddizione, il C. è
ciò che può essere reale. « È vero che ciò che non è, non è stato e non sarà,
non è affatto possibile, se possibile è preso per compossibile... Può darsi che
Diodoro, Abelardo, Wicleff e Hobbes abbiano avuto questa idea in testa senza
ben chiarirla » (Op., ed. Erd- mann, pag. 719). V. PossiBILE. COMPRENDERE (lat.
/ntelligere; ingl. Un- derstanding;
franc. Comprendre; ted. Verstehen). La nozione del C. come attività conoscitiva
specifica, diversa dalla conoscenza razionale e dalle sue tecniche esplicative,
può essere considerata in due fasi storiche distinte, la prima nella filosofia
me- dievale o nella scolastica in generale, la seconda nella filosofia
contemporanea. 1. L’intera Scolastica s’impernia sul problema di « C. » la
verità rivelata. Ma sul valore di questo C. gli stessi scolastici non sono
stati d’accordo. Alcuni hanno identificato il C. con la conoscenza razionale e
con la sua tecnica dimostrativa; e la comprensi- bilità dei dogmi è apparsa da
questo punto di vista come la possibilità di dimostrarli, cioè di equipa- rarli
a verità razionali. Anselmo e Abelardo sem- brano d’accordo nell’intendere così
l'intelligere che essi ritengono indispensabile alla fede stessa. È ovvio che
in questo caso l’intelligere non è affatto un C. nel senso specifico del
termine. Una sfera specifica dell’intelligere come comprendere, nella sua
diversità dalla conoscenza dimostrativa fu de- lineata invece da S. Tommaso nel
suo tentativo di determinare il còmpito della ragione di fronte alla fede.
Questo còmpito consiste: 1° nel dimostrare i preamboli della fede; 2° nel
chiarire, mediante si- militudini, le verità della fede; 3° nel controbattere
le obiezioni che si fanno contro tali verità (In Boer. De Trin., a. 3).
Ovviamente la seconda e la terza parte di questo còmpito, che non sono di
natura dimostrativa, costituiscono la sfera del compren- dere. E difatti,
secondo S. Tommaso, le fonda- mentali verità di fede, la Trinità,
l’Incarnazione, la Creazione, sono comprensibili in questo senso: non sono
dimostrabili (nel quali caso sarebbero verità di ragione) ma possono essere
chiarite con analogie e, specialmente, sostenute contro le obie- zioni. Questa posizione
tomistica costituisce la mi- gliore e più diffusa soluzione di quel problema
del C. nato sul piano della Scolastica. Essa veniva ancora difesa nel sec. xvm
da Leibniz contro le obiezioni di Bayle e di Toland. Secondo Leibniz, il dogma
è « incomprensibile » solo nel senso che non si può dimostrare; ma si può dire
che esso s'accorda con la ragione nel senso «che si può mostrare al bisogno che
non c’è contraddizione tra il dogma e la ragione, confutando le obiezioni di
coloro che pretendono che il dogma stesso è un’assurdità » (Théod., $ 60). 2.
Nella filosofia contemporanea, la distinzione della sfera del C., da quella del
conoscere razionale, è nata dall’esigenza di distinguere il procedimento
esplicativo delle scienze morali o storiche da quello delle scienze naturali.
Tale esigenza nacque dalla difficoltà di applicare la tecnica causale, propria
della scienza naturale dell’800, al dominio degli eventi umani, quali sono i
fatti storici, e in generale all'uomo ed ai rapporti interumani. In base a quella
tecnica, si ritiene come « razionalmente spie- gato » ciò di cui si può
mostrare la genesi causale necessaria, cioè di cui si può mostrare che accade
in modo necessario o infallibilmente prevedibile quando ne è data la causa
(v.). Il carattere neces- sario della genesi causale, in quanto conforme a una
legge immutabile, e il carattere di uniformità meccanica che gli eventi
causalmente spiegabili as- sumono per effetto di tale legge, rendono assai
diffi- cile trasferire questo tipo di spiegazione al mondo dell’uomo; e rendono
difficile spiegare i fatti sto- rici e in genere ogni fatto che consista in un
rap- porto con l’uomo. L'applicazione della tecnica causale a tali fatti
implicherebbe la loro riduzione a casi di uniformità meccanica, dovuti all’azione
di leggi necessitanti. Sicchè quando negli ultimi decenni del sec. xIx le
scienze storiche, o, come allora si di- ceva, le « scienze dello spirito », che
avevano ormai raggiunta una sufficiente saldezza di metodi e una grande
ricchezza di risultati, cominciarono a proporsi il problema del loro metodo e
cercarono di chiarirlo criticamente, apparve chiara l’esigenza di agganciare
questo metodo a tecniche e procedure diverse da quelle in uso nelle scienze
naturali. In tal senso il « C.» come procedura propria delle scienze dello spi-
rito, fu contrapposto allo « spiegare », fondato sulla causalità e proprio
delle scienze naturali. Il primo a formulare chiaramente questa distin- zione
fu Dilthey nella sua /nsroduzione alle scienze dello spirito (1883). Dilthey osservò
che i nostri rapporti con la realtà umana sono completamente diversi dai nostri
rapporti con la natura. La realtà umana, quale appare nel mondo storico
sociale, è tale che noi possiamo comprenderla dal di dentro, perchè possiamo
rappresentarcela sul fondamento dei nostri propri stati. La natura, al
contrario, è muta e rimane sempre qualcosa di esterno. Pertanto nelle scienze
dello spirito, che hanno appunto per og- getto la realtà umana, il soggetto non
si trova di fronte ad una realtà estranea, ma a se stessa, perchè uomo è colui
che indaga e uomo colui che viene indagato. «Il C., dice Dilthey, è un
ritrovamento dell’io nel tu... Il soggetto del sapere è qui iden- tico con il
suo oggetto e questo è il medesimo in tutti i gradi della sua oggettivazione »
(Gesammelte Schriften, VII, pag. 191). Da questo punto di vista Dilthey additò
come strumento proprio del C. l’Er- lebnis, cioè l'esperienza vissuta o
rivivente che per- mette di cogliere la realtà storica nella sua indivi-
dualità vivente e nei suoi caratteri specifici. Dopo Dilthey, nella corrente
dello storicismo tedesco che continua l’opera sua, il C. rimane l’organo della
co- noscenza storica e in generale della conoscenza inter- personale, in quanto
non suscettibile di spiegazione causale. Tuttavia sulla natura stessa del C.
non c’è accordo. Rickert intende per C. l’afferrare « il senso di un oggetto,
cioè il rapporto dell’oggetto stesso con un valore determinato » (Die Grenzen
der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1896- 1902). Simmel
considera il C. come diretto a ri- produrre la vita psichica di un’altra
personalità e quindi come l’atto di proiezione mediante il quale il soggetto
conoscente attribuisce un suo stato rap- presentativo, o volitivo, ad un'altra
personalità (Die Probleme der Geschichtsphilosophie, 1892, pa- gina 17). A sua
volta Max Weber, pur insistendo sulla diversità della spiegazione storica e
della spie- gazione causale, volle colmare o diminuire l’abisso che si stava
formando tra i due procedimenti, affermando che la spiegazione storica è essa
stessa una spiegazione causale; ma una spiegazione cau- sale specifica, che
mira a riconoscere il nesso par- ticolare e singolare fra determinati fenomeni
e non la loro dipendenza da una legge universale. «Il nostro bisogno causale, egli
scrive, può trovare nell’analisi dell’atteggiamento umano una sodisfa- zione
qualitativamente diversa, che implica al tempo stesso un'intonazione
qualitativamente diversa del concetto di razionalità. Per la sua
interpretazione noi possiamo proporci lo scopo, almeno fondamen- talmente, non
solo di rendere l’atteggiamento stesso penetrabile come possibile in rapporto
al nostro sa- pere nomologico, ma anche di comprenderlo, cioè di scoprire un
motivo concreto che possa venire rivissuto internamente e che noi accertiamo
con un diverso grado di precisione, secondo il materiale delle fonti »
(Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschafts- lehre, 1951, pag. 67). Tuttavia, il
concetto di cau- salità individuale, sul quale Weber insisteva, è poco solido
giacchè la causa, come ciò che rende infalli- bilmente prevedibile l’effetto,
ha con l’effetto stesso un rapporto necessario e costante, perciò essenzial-
mente uniforme, e universale. L'esigenza prospettata da Weber di eliminare o
diminuire il contrasto tra la spiegazione scientifica e la comprensione sto-
rica o inter-umana, potè trovare sodisfazione solo dopo che la scienza stessa
ebbe abbandonato il concetto classico di causalità. Frattanto, l’esigenza d’una
tecnica conoscitiva che fosse diversa dalla tecnica esplicativa causale veniva
frequentemente riconosciuta in sociologia. Znaniecki invocava un « coefficiente
umanistico » nella ricerca sociologica e sottolineava l’importanza della
esperienza vicariante come fonte di dati sociologici (Method of Sociology,
1934, pag. 167). Sorokin riteneva inapplicabile il metodo causale
all’interpretazione dei fenomeni cul- turali (Socia/ and Cultural Dynamic,
1937, pag. 26). E Maclver a sua volta riconosceva l’inapplicabilità della
formula causale della meccanica classica alla condotta umana (Socia! Causation,
1942, pag. 263). I filosofi a loro volta, non trovando posto per il comprendere
tra le attività razionali che sem- bravano monopolizzate dalle tecniche della
spiega- zione causale, avevano finito col connetterlo con la vita emotiva. Così
fecero, principalmente, Scheler e Heidegger, ai quali si devono tuttavia le più
importanti determinazioni della nozione del com- prendere. A Scheler, tale
nozione serve per fondare i rapporti umani — che sono poi quelli per cui l'io
riconosce l’altro io — non su una inferenza o sulla proiezione che l’io faccia
delle proprie espe- rienze interne nell’altro, ma sulla base dei fenomeni
espressivi. Così Scheler afferma che «l’esistenza delle esperienze interne, dei
sentimenti intimi degli altri, ci è rivelata dai fenomeni di espressione: cioè
ne acquistiamo la conoscenza non in séguito a un ragionamento, ma in modo
immediato, me- diante una ‘ percezione * originaria e primitiva. Noi percepiamo
il pudore di qualcuno ne/ suo rossore, la gioia re/ suo riso » (Sympathie, I,
cap. II). Perciò non è vero che degli altri conosciamo in primo luogo il corpo
e che solo a partire da esso infe- riamo l’esistenza di altri spiriti. Soltanto
il medico e il naturalista conoscono soltanto il corpo perchè fanno artificialmente
astrazione dai fenomeni di espressione che sono la manifestazione primaria e
immediata degli altri spiriti: ma proprio tali fe- nomeni sono alla base della
comprensione emotiva. Questa dev'essere, secondo Scheler, distinta dalla
fusione emotiva perchè implica l’alterità dei senti- menti. Per es., la
sofferenza del mio vicino e la mia comprensione simpatetica di essa, sono due
fatti differenti, e questa differenza appunto stabi- lisce la possibilità della
comprensione: mentre non ba niente a che fare con questa il fatto che io e il
mio vicino soffriamo della stessa sofferenza. Le analisi di Scheler hanno
contribuito a fissare i punti seguenti: 1° il C. non implica l’identità delle
persone tra cui intercede o l'identità dei loro stati d’animo o sentimenti;
implica piuttosto l’a/terità fra le persone e tra i loro stati rispettivi; 2°
la comprensione è fondata sul rapporto simbolico che esiste tra le esperienze
interne e la loro espressione: rapporto che costituisce una specie di « gramma-
tica universale », valevole per tutti i linguaggi espres- sivi, la quale
fornisce il criterio ultimo della com- prensione inter-umana. Come Scheler,
Heidegger connette il fenomeno della comprensione soprattutto alla sfera
emotiva; ma aggiunge all’analisi di questo fenomeno una notazione d’importanza
fondamen- tale, connettendolo con la nozione di possibilità. Heidegger,
difatti, considera la comprensione come essenziale all’esistenza umana
(all’Esserci) giacchè essa significa che l’esistenza è essenzialmente pos-
sibilità di essere, esistenza possibile. « Usiamo so- vente l’espressione ‘C.
qualcosa’ nel senso di ‘essere in grado di far fronte a qualcosa ’, ‘ esser
capace di’, ‘poter qualcosa ’... Nella compren- sione è riposto essenzialmente
il modo d'essere dell’Esserci in quanto poter essere. L’Esserci non è una
semplice presenza che, aggiuntivamente, pos- segga il requisito di potere
qualcosa, ma al contrario è primariamente un essere possibile ». Pertanto « la
comprensione ha in sè la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto »
(Sein und Zeit, $ 31). Come possibilità e progetto l’esistenza umana possiede
una trasparenza a se stessa che Heidegger chiama visione e che è la prima
manifestazione della comprensione. L’intuizione e il pensiero sono invece due
lontani derivati della comprensione stessa (/bid., $ 31). È abbastanza chiaro
che il riferimento del C. alla vita emozionale, effettuato da Scheler e Hei-
degger, era motivato dal fatto che la vita razionale sembrava ad essi occupata
da tecniche che poco o nulla avevano a che fare col comprendere. I risultati
ottenuti da Scheler e Heidegger, tuttavia, sono molto importanti: i primi
negativamente, con- sentendo di sottrarre il C. alla sfera dell’immediato e
dell’inesprimibile, e i secondi positivamente perchè connettono il C. stesso
con la nozione di possibi- lità. Nell’analisi di Heidegger, il C. non solo è
stato generalizzato, perchè è stato reso applicabile alle cose oltrecchè alle
persone; ma anche, con ciò stesso, ha cessato di essere antagonista col
concetto di spiegazione. Comprensione e spiegazione possono infatti essere
identificate dalla nozione di possibilità ed essere entrambe intese come
dichiarazione della 4 possibilità di... »: dove ciò che è lasciato in so- speso
può essere riempito, nei diversi campi d’inda- gine, da diverse specie di
progetti e previsioni. Ma questo avvicinamento tra spiegazione e comprensione e
questa loro unificazione nel concetto di « possibi- lità di... » venivano
sanciti dagli stessi sviluppi delle scienze della natura, che abbandonavano la
no- zione classica di causalità e pertanto si disanco- ravano dalla tecnica
esplicativa causale. La fisica relativistica e la teoria dei quanti compivano
il passo decisivo verso l’eliminazione dell’antitesi tra spiegazione e
comprensione. Come nota Carnap, nella meccanica quantica « C. un’espressione,
un enunciato, una teoria, significa la capacità di usarla per la descrizione di
fatti noti o per la previsione di fatti nuovi» (Foundations of Logic and Mathe-
matics, 1939, $ 25). La « capacità di» è dunque ciò che esprime il significato
della comprensione nella fisica stessa. Ma la possibilità della previsione pro-
babile è anche tutto ciò cui si riduce oggi la spiega- zione scientifica (vedi
SPIEGAZIONE). In tal modo la differenza radicale che sembrava stabilita salda-
mente dalla metodologia scientifica dell’800 tra scienza dello spirito e
scienza della natura, è venuta a sparire. Ciò che questi due gruppi di
discipline cercano di fare, nei confronti dei loro oggetti ri- spettivi, è
fondamentalmente la stessa cosa: deter- minare le possibilità di descrizione o
di anticipa- zione (progettazione, uso, fruizione) che i loro oggetti
comportano. COMPRENSIONE (ingl. Understanding; fran- cese Compréhension; ted.
Verstehen). L'atto o la capacità di comprendere (v.). COMPRENSIONE (ingl.
Comprehension; fran- cese Compréhension; ted. Inhalt). 1. La logica di Porto
Reale introdusse la distinzione tra C. ed estensione del concetto: distinzione
grosso modo identica a quella che verrà espressa da Stuart Mill con la coppia
connotazione-denotazione o dalla logica moderna con la coppia
intensione-estensione. Diceva infatti Arnauld: « Nelle idee universali è
importante distinguere bene due cose, la C. e l’estensione. Chiamo C. dell’idea
gli attributi che essa include in sè e che non possono essere tolti senza
distruggerla; così la C. dell’idea di triangolo contiene estensione, figura,
tre linee, tre angoli e l'eguaglianza di questi tre angoli con due retti, ecc.
Chiamo estensione dell’idea i soggetti ai quali quest'idea conviene; quelli che
si chiamano anche gli inferiori di un termine generale che, nei rispetti di
essi, è chiamato superiore; così l’idea del trian- golo in generale si estende
a tutte le diverse specie dei triangoli » (Logique, I, 6). Questa distinzione tro-
vava qualche precedente nella logica medievale ma era stata approssimativamente
espressa solo a partire dal sec. xvi (per es., da CAJETANUS, /n Porphyrii
Praed., ed. 1579, I, 2, pag. 37; cfr. HAMILTON, Lectures on Logic, I, 1866,
pag. 141). Alla di- stinzione stessa era connessa la determinazione del
rapporto inverso che c'è tra C. ed estensione così definite: a misura che la C.
s’impoverisce, cioè diventa più generale, l’estensione si arricchisce, cioè il
concetto si applica a più cose; e reciproca- mente. Queste distinzioni e
notazioni riprese dalla logica, specialmente tedesca, dell’800 (cfr., per es.,
LoTzE, Logik, 1843, $ 15) rimasero costanti e fu- rono talora, specialmente da
scrittori inglesi, espresse mediante la coppia sinonima connotazione-denota-
zione. A parte il tentativo di distinguere la C. dalla connotazione (v.) come
la sfera di tutte le note possibili, oltre quelle espressamente connotate dalla
definizione, la nozione di C. è rimasta costante nella logica dell’800. 2.
Talvolta nella logica contemporanea la C. è assunta come analoga della
denotazione o esten- sione, invece che della connotazione o intensione. Così
Lewis definisce la C. di un termine come: «la classificazione di tutte le cose
consistentemente pensabili alle quali il termine correttamente si ap- plichi »
dove per «consistentemente pensabile » si intende ogni cosa l’asserzione della
cui esistenza non implichi, esplicitamente o implicitamente, una
contraddizione. In questo significato, il termine si distinguerebbe da
denotazione o estensione perchè questa è la classe di tutte le cose reali o
esistenti alle quali il termine correttamente si applica. La de- notazione
sarebbe perciò inclusa nella C.; ma non viceversa. La C. di « quadrato »
include non solo i quadrati esistenti (che sono denotati) ma tutti i qua- drati
possibili o imaginabili, salvo quelli rotondi (Ana- Iysis of Knowledge and
Valuation, 1950, pag. 39-41). COMUNE, SENSO. V. SENSO COMUNE. COMUNI, NOZIONI
(gr. xoîvar two; lat. Notiones communes). Gli Stoici chiamarono con
quest’espressione i concetti universali o anti- cipazioni (v.) che si formano
nell’uomo natural- mente, cioè non come prodotti di un'istruzione specifica
(Aezio, P/ac., IV, 11). L'espressione fu adoperata negli E/ementi di Euclide,
per designare i princìpi evidenti, che in séguito furono detti as- siomi (v.
ASSIOMA). COMUNICAZIONE (ingl. Communication; franc.
Communication; ted. Kommunikation). Filo- sofi e sociologi si servono oggi di questo
termine per designare il carattere specifico dei rapporti umani in quanto sono,
o possono essere, rapporti di partecipazione reciproca o di comprensione. Per-
144 tanto il termine viene ad essere sinonimo di « coe- sistenza » o di « vita
con gli altri » e indica l’insieme dei modi specifici in cui la coesistenza
umana può atteggiarsi; purchè si tratti di modi « umani », cioè nei quali una
certa possibilità di partecipazione e di comprensione sia salva. In questo
senso, la C. non ha niente a che fare con la coordinazione e con l’unità. Le
parti di una macchina, ha osser- vato Dewey, sono strettamente coordinate e
for- mano un'unità ma non formano una comunità. Gli uomini formano una comunità
perchè comuni- cano, cioè perchè possono reciprocamente parteci- pare dei loro
modi d'essere, che così acquistano nuovi e imprevedibili significati. Questa
partecipa- zione dice che un rapporto di C. non è un semplice contatto fisico o
uno scontro di forze. Il rapporto tra il predatore e la sua preda, per es., non
è un rap- porto di C., anche se talora può intercorrere fra gli uomini. La
comunicazione in quanto caratteri- stica specifica dei rapporti umani, delimita
la sfera di tali rapporti a quelli nei quali un certo grado di libera
partecipazione può essere presente. Il rilievo del concetto di C. nella
filosofia contemporanea è dovuto: 1° all’avvenuto abbandono, da parte di essa,
della nozione romantica di Autocoscienza in- finita, Spirito Assoluto o
Superanima: nozione che implicando l’identità di tutti gli uomini rende ov-
viamente inutile il concetto stesso di C. interumana; 2° al riconoscimento che
i rapporti interumani implicano l’alterità tra gli uomini stessi e sono
rapporti possibili; 3° al riconoscimento che tali rapporti non si aggiungono in
un secondo mo- mento alla realtà già costituita delle persone, ma entrano a
costituirla come tale. In questi termini il concetto di C. entra in filosofie
disparate. Secondo Heidegger il concetto di C. deve essere inteso «in un senso
ontologicamente largo », cioè come «C. esistenziale ». «In quest’ultima si
costituisce l’articolazione dell’essere insieme com- prendente. Essa realizza
la partecipazione della si- tuazione emotiva comune e della comprensione
propria dell’essere insieme. La C. non è il trasferi- mento di esperienze
vissute (quali possono essere, ad es., opinioni e desideri) dall’intimo di un
sog- getto all’intimo di un altro. L’'esserci insieme è già essenzialmente
rivelato nella situazione emo- tiva comune e nella comune comprensione » (Sein
und Zeit, $ 34). In altri termini, per Heidegger, C. è già coesistenza perchè
la compartecipazione emotiva e la comprensione degli uomini tra di loro entrano
a costituire la realtà stessa dell’uomo, l'essere dell’Esserci. Jaspers, che è
sostanzialmente d’accordo con Heidegger, da questo punto polemizza contro le
scienze empiriche (psicologia, antropologia, sociologia) che pretendono di
analizzare i rapporti di comunicazione. Il loro difetto è, secondo Ja- spers,
che esse debbono limitarsi a considerare i rapporti umani, non quelli
possibili; mentre la C. è per l’appunto possibilità di rapporti. In questo
senso essa può essere chiarita soltanto dalla filo- sofia (Phil., II, cap.
III). Al contrario Dewey, che condivide con Heidegger e Jaspers la veduta che
la C. costituisce essenzialmente la realtà umana, la considera come una forma
speciale dell’azione reciproca della natura e ritiene pertanto che possa e
debba essere studiata dall’indagine empirica (Experience and Nature, cap. V).
Se la filosofia dell’800, per il prevalere delle
concezioni assolutistiche (lo stesso positivismo par- lava dell’Umanità come di
un tutto) climinava la nozione di C., la filosofia del ’600 e del *700 aveva
elaborato la nozione, ma per rispondere ad un diverso problema. Il problema era
quello della « C. delle sostanze +, cioè della sostanza anima con la sostanza
corpo, e reciprocamente, problema nato col cartesianesimo, che aveva distinto
per la prima volta in modo netto le due specie di sostanze. Lo stesso Cartesio
aveva ammesso come valida la nozione corrente di un’azione reciproca fra le due
sostanze, che egli riteneva si toccassero nella glan- dola pineale (Passions de
l’ame, I, 32). Dall’altro lato gli Occasionalisti avevano ritenuto impossibile
l’azione di una sostanza finita sull’altra, perchè nessuna sostanza finita può
agire cioè esser causa; ed avevano pertanto ritenuto che Dio stesso inter-
viene a stabilire il rapporto tra l’anima e il corpo, o tra i vari corpi, o tra
le varie anime, servendosi dell’occasione offertagli dal mutamento avvenuto in
una sostanza per produrre mutamenti nelle altre sostanze. Era questa la teoria
delle cause occasio- nali sostenuta, fra gli altri, da Malebranche (Re- cherche
de la vérité, III, II, 3). Leibniz ritenne la prima teoria impossibile, la
seconda miracolosa, in- tese la C. come armonia prestabilita (v.) e la estese a
intendere il rapporto fra tutte le parti dell’uni- verso, cioè fra tutte le
monadi che lo compongono: l'armonia è prestabilita da Dio in modo tale che a
ogni stato di una monade corrisponde uno stato delle altre monadi (Op., ed.
Gerhardt, IV, pag. 500- 501). Ovviamente la dottrina di Leibniz non è una
soluzione del problema della C.; essa, anzi, ha lo scopo di rendere la C.
stessa inutile, garantendo il rapporto preordinato delle monadi fra di loro.
Leibniz stesso nota che la sua dottrina fa dell'anima una specie di macchina
immateriale (/bid., pag. 548). Questo tratto rivela quanto la sua dottrina sia
lon- tana dalla nozione contemporanea di C.: la quale, come si è detto, non è
mai automatica e non può sussistere tra gli automi o tra le parti di un automa.
COMUNISMO (ingl. Communism; franc. Com- munisme; ted. Kommunismus). L'ideologia
politica che trova il suo programma nel Manifesto dei co- CONATO munisti
pubblicato da Marx ed Engels nel 1847; come è stato sviluppato nelle opere di
Marx ed Engels nonchè di Lenin e Stalin. Tale ideologia può essere riassunta
nei capisaldi seguenti: 1° la dipendenza della personalità umana dalla società
storicamente determinata cui essa appartiene, di- pendenza per la quale essa è
nulla fuori e indi- pendentemente dalla società stessa; 2° la dipendenza della
struttura di una società storicamente deter- minata dai rapporti di produzione
e di lavoro che sono propri di tale società e che determinano tutte le
manifestazioni di essa: moralità, religione, filo- sofia, ecc., oltrecchè le
forme della sua organizza- zione politica. Questi due punti costituiscono la
dottrina del materialismo storico (v.); 3° il carattere permanente e necessario
della lotta di classe in ogni e qualsiasi società capitalistica, cioè in ogni
società nella quale i mezzi di produzione siano proprietà di privati; 4° il
necessario, inevitabile trapasso dalla società capitalistica, dopo che essa ha
raggiunto il suo maximum di concentrazione della ricchezza in poche mani e di
immiserimento e livellamento di tutti i lavoratori, nella società socialista
che possiede ed esercita direttamente i mezzi di produzione, ed è perciò senza
classi; 5° l’esistenza di un periodo di trapasso tra la so- cietà capitalistica
e la società comunistica durante il quale il proletariato s’impadronirà del
potere dello Stato e lo eserciterà, come aveva fatto il capitalismo, nel
proprio interesse. Questo sarà il periodo della dittatura del proletariato. Di
questi capisaldi il C. russo ha soprattutto sottolineato l’ultimo che, nelle
opere di Marx ed Engels, rimaneva secondario. E l’ha sottolineato
trasformandolo, nel senso d'intendere la dittatura del proletariato come
dittatura del partito comu- nista, e affidando al partito stesso la funzione di
avanguardia del proletariato. Il partito diviene in tal modo lo strumento
fondamentale per la rea- lizzazione della società nuova e pretende di subor-
dinare a sè, controllare e dirigere, ogni azione di- retta a questo scopo. Tale
preminenza del partito, già teorizzata da Lenin, fu portata agli estremi da
Stalin, con l’affermazione della necessaria « par- titicità » della scienza,
dell’arte, della filosofia e in ge- nerale di ogni attività intellettuale:
partiticità che non significa altro se non la subordinazione di tali atti- vità
agli interessi del partito, quali si trovino ad essere interpretati o stabiliti
dai dirigenti di esso. COMUNITÀ (ingl. Community; franc. Com- munauté;
ted. Gemeinschaft). 1.
Kant aveva chia- mato con questo termine la terza categoria della relazione e
precisamente quella dell’azione reci- proca, nonchè la corrispondente terza
analogia del- l’esperienza (o principio della C.) così espressa: «Tutte le
sostanze, in quanto possono essere per- 10 — AuHnagnano, Dizionario di
filosofia. 14cepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in un'azione
reciproca universale ». Egli annotava a questo proposito: « La parola
Gemeinschaft ha un doppio significato che può indicare tanto communio quanto
anche commercium. Noi qui ce ne serviamo nel secondo senso, come comunione
dinamica senza la quale anche quella spaziale (communio spatiî) non potrebbe
mai essere cono- sciuta empiricamente » (Crit. R. Pura, Analitica dei principi,
33 analogia). In quest’applicazione il ter- mine non ha avuto fortuna. 2. Esso
invece è stato adoperato dal Romanti- cismo, a partire da Schleiermacher, per
indicare la forma di vita sociale caratterizzata da un or- ganico, intrinseco,
perfetto legame tra i suoi membri. In tal senso la C. è stata contrapposta alla
società in un’opera di FERDINANDO TONNIES, C. e Società, pubblicata nel 1887.
«Tutto ciò che è fiducioso, intimo, vivente esclusivamente insieme, diceva Tòn-
nies, è compreso come la vita in comunità. La società è ciò che è pubblico, è
il mondo; al con- trario ci si trova in C. con i propri cari sin dalla nascita,
legati ad essi nel bene e nel male. Nella società si entra come in una terra
estranea. Si mette l’adolescenza in guardia contro la cattiva società, ma
l’espressione ‘cattiva C.’ suona come una contraddizione» (Gemeinschaft und
Gesellschaft,1, 1). Così espresso questo concetto contiene ovvie conno- tazioni
valutative per le quali si presta poco ad un uso oggettivo: giacchè è
abbastanza chiaro che non esiste nessuna pura C. e nessuna pura società e che
il bisogno di operare una distinzione in questo senso è suggerito non
dall’osservazione ma dall'aspira- zione a un ideale. Pertanto nell’uso dei
sociologi posteriori (tra i quali Simmel, Cooley, Weber, Dur- kheim, e altri)
questo significato si è venuto trasfor- mando sino ad assumere quello corrente
nella socio- logia contemporanea di distinzione fra relazioni sociali di tipo
/ocalistico e relazioni di tipo cosmo- politico: che è una distinzione puramente
descrittiva fra comportamenti legati alla C. ristretta in cui si vive e
comportamenti orientati o aperti verso una più larga società (R. K. MERTON,
Social Theory and Social Structure, 1957, pag. 393 sgg.). CONATO (lat.
Conatus). Si indicò con questo nome nel Rinascimento l’ormé stoica (Dioc. L.,
VII, 85) cioè l’isrinto (v.) o la tendenza di ogni essere alla propria
conservazione. Questo concetto trovò la sua forma classica in Spinoza, secondo
il quale « lo sforzo di conservarsi è la stessa essenza della cosa» (£f., IV,
22, cor.). Esso «si chiama volontà quando si riferisce alla sola mente; quando
si riferisce insieme alla mente e al corpo si chiama appetito, il quale perciò
è l’essenza stessa dell’uomo » (Ibid., III, 9, Scol.). Nello stesso senso adoperava
la parola Vico: «La matura cominciò ad esistere per un atto di C.; in altri
termini, il C. è la na- tura (come anche le Scuole dicono) in fieri, in
procinto di giungere all’esistenza» (De antiquis- sima Italorum sapientia, 4, $
1). Hobbes dette un nuovo concetto del termine: intese per C. il mo- vimento
istantaneo cioè «il movimento in uno spazio e tempo minore di ogni spazio o
tempo dato » (De corp., 15, $ 2). Leibniz in un primo tempo ha inteso il C.
nello stesso senso: « Il conatus, egli disse, sta al movimento come il punto
allo spazio, cioè come l’unità all’infinito: è l’inizio o la fine del movimento
» (Hypothesis Physica Nova, 1671, Op., ed. Gerhardt,
IV, pag. 229). Ma in
sè- guito identificò il C. con la forza attiva cioè con l'energia cui egli
ridusse la materia stessa: « La forza attiva, che si suole anche dire
senz'altro forza, non è da concepirsi come la semplice po- tenza volgare della
scuola, cioè come una ricetti- vità di azione, ma implica un conatus, cioè una
tendenza all’azione, cosicchè, se non c’è impedi- mento, ne deriva l’azione »
(Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 100). Lo stesso concetto si
trova in Wolff (Cosm., $ 149) (v. SFORZO). CONCAUSA (gr. avvartia). Platone
indicò con questo termine la causa naturale che concorre con quella ideale alla
formazione delle cose del mondo (Tim., 68 e). CONCETTO
(gr. x6y06; lat. Conceptus; in-
glese Concept; franc. Concept; ted. Begriff). In generale, ogni procedimento che renda possibile la
descrizione, la classificazione e la previsione degli oggetti conoscibili. Così
inteso, il termine ha significato generalissimo e può includere ogni specie di
segno o procedura semantica, quale che sia l’oggetto cui si riferisce, astratto
o concreto, vicino o lontano, universale o individuale, ecc. Si può avere un C.
del tavolo come del numero 3, dell’uomo come di Dio, del genere e della specie
(i cosiddetti universali [v.]) come di una realtà individuale, per es., di un
periodo storico o di una istituzione storica (il « Rinascimento » o il «
Feudalesimo +). Per quanto il C. sia normalmente indicato da un nome, esso non
è il nome, giacchè differenti nomi possono esprimere lo stesso C. o differenti
C. possono essere indicati, per equivo- cazione, dallo stesso nome. Il C.
inoltre non è un elemento semplice o indivisibile ma può essere costituito da
un insieme di tecniche simboliche estremamente complesse; come è il caso delle
teorie scientifiche che possono anche essere chiamate C. (il C. della
relatività, il C. di evoluzione, ecc.). Il C. non si riferisce neppure
necessariamente a cose o fatti reali giacchè ci possono essere C. di cose
inesistenti o passate o la cui esistenza non è veri- ficabile o ha un senso
specifico. Infine, l’allegato carattere di universalità soggettiva o validità
inter- soggettiva del C. è in realtà semplicemente la sua comunicabilità di
segno linguistico: la funzione prima e fondamentale del C. essendo quella
stessa del linguaggio cioè la comunicazione. La nozione di C. dà origine a due
problemi fonda- mentali: quello circa la natura del C. e quello circa la
funzione del C. stesso. Questi due problemi pos- sono coincidere ma non
coincidono necessariamente. A) ll problema della natura del C. ha avuto due
soluzioni fondamentali: 1° per la prima il C. è l'essenza delle cose e
precisamente la loro essenza necessaria, ciò per cui non possono essere in modo
diverso da ciò che sono; 2° per la seconda soluzione il C. è un segno. 1° La
concezione del C. come essenza è quella del periodo classico della filosofia
greca: nel quale il C. è assunto come ciò che si sottrae alla diversità o al
mutamento dei punti di vista o delle opinioni, perchè si riferisce a quei
tratti che, essendo costi- tutivi dell’oggetto stesso, non vengono alterati da
un mutamento di prospettiva. Nei primordi della filosofia greca, il C. è
apparso come il termine con- clusivo di una ricerca, che prescinde, per quanto
è possibile, dalla mutevolezza delle apparenze, per puntare a ciò che l'oggetto
è «realmente», cioè nella sua «sostanza » o «essenza ». Questa ricerca è
apparsa ai Greci come il còmpito proprio del- l’uomo quale animale ragionevole,
cioè come il còmpito proprio della ragione; e infatti C. e ra- gione vengono
designati dai Greci con lo stesso termine, /ogos. Aristotele attribuisce a
Socrate il merito di aver scoperto « il ragionamento induttivo e la definizione
dell’universale, due cose che en- trambe riguardano il principio della scienza
» (Mer., XIII, 4, 1078 b). Lo stesso merito viene a Socrate riconosciuto da
Senofonte (Mem., IV, 6, 1): So- crate ha mostrato come il ragionamento
induttivo porti alla definizione del C.; e il C. esprime l’es- senza o la natura
di una cosa; ciò che la cosa veramente è. Platone fa dell’universale socratico
la realtà stessa. Il bello, il bene, il giusto sono sostanze cioè realtà, anzi
realtà nel senso forte del termine, realtà assolute. Platone adopera gli stessi
termini (sostanza, specie, forma o semplice- mente enti) per indicare le realtà
ultime come sono «in se stesse» e come sono «in noi» (cioè come C.). La mente
umana contiene «la verità degli enti » (Men., 86 a-b); essa trova già come sue
le sostanze che costituiscono la struttura fon- damentale della realtà (Fed.,
76 d-e). Aristotele non fa su questo punto che riprodurre, e articolare in una
dottrina assai più complessa, il punto di vista platonico. Il C. (Jogos) è ciò
che circoscrive o definisce la sostanza o l’essenza necessaria di una cosa (De
an., II, 1, 412 b 16): perciò esso è indi- pendente dal generarsi e corrompersi
delle cose e non può esser prodotto o distrutto da tali processi (Met., VII,
15, 1039 b 23). In altri termini, il C. è per Aristotele identico con la
sostanza, che è la struttura necessaria dell’essere, ciò per cui ogni essere
non può essere diverso da ciò che è (vedi SOSTANZA). Queste determinazioni sono
rimaste ti- piche della concezione del C. come essenza. Ri- spetto ad esse, il
carattere dell’universalità appare secondario e derivato: per universale, dice
Aristo- tele, intendo «ciò che inerisce al soggetto in ogni caso e per sè e in
quanto un soggetto è quello che è » (An. post., I, 4, 73 b 25 sgg.). Ora, «ciò
che inerisce al soggetto in ogni caso e di per sè, ecc.» non è altro che
l’essenza necessaria del soggetto stesso, quel che esso non può non essere:
sicchè l’universalità è per Aristotele la sostanzialità o necessità del
concetto. Perciò Aristotele dice che ci può essere C. anche dell’individuo (del
« sinolo » o composto di materia e forma) per quanto non dell’individuo
considerato nella sua materia che è indeterminata, quindi indefinibile, e che,
per es., il C. di un uomo è l’anima (Mer., VII, 11, 1037 a 26); distingue C.
comuni e C. propri (De an., II, 3, 414 b 25); e parla di « C. materiali »,
quali sono le emozioni le quali sono definite mediante i movimenti del corpo
che le suscitano (/bid., I, 1, 403 a 25). Nell’àmbito di quest’identificazione
del C. con l'essenza, non costituisce innovazione decisiva il far derivare,
come fa Epicuro, il C. stesso dalle sensazioni; giacchè questa derivazione, per
il ca- rattere necessariamente veridico delle sensazioni, garantisce la realtà
del C. (Drogo. L., X, 32). Dal- l’altro lato la disputa medievale sugli
universali (v.) — con la quale parola s'intendono i C. di genere e di specie —
è in realtà la disputa tra le due con- cezioni fondamentali del C., quella
platonico-aristo- telica e quella stoica: il realismo rappresenta la prima di
tali concezioni, il nominalismo la seconda. Non fa meraviglia che la Scolastica
la quale è nata e si è sviluppata, dal punto di vista logico e gnoseologico,
sotto il segno del neo-platonismo agostiniano e dell’aristotelismo, abbia
scelto pre- valentemente la soluzione realistica del problema degli universali,
affermando la realtà del C. come elemento costitutivo o essenziale della realtà
stessa. S. Tommaso dice: « Poichè ogni conoscenza è per- fetta nella misura in
cui c’è simiglianza tra il cono- scente e il conosciuto, occorre che nel senso
ci sia la simiglianza della cosa sensibile quanto agli accidenti di essa, ma
nell’intelletto ci sia la simi- glianza della cosa intesa quanto all'essenza di
essa » (Contra gent., IV, 11). Il C. « penetra nel- l'interno della cosa »
(/bid., IV, 11) coglie l’essenza o la sostanza di essa giacchè non è altro che
questa sostanza asrrarta dalla cosa stessa. Attraverso l’in- terpretazione
della sostanza aristotelica, come es-senza necessaria, Duns Scoto riafferma la
stessa tesi: il C. ha per oggetto una « natura comune» che è il quod quid erat
esse di Aristotele. Essa «non è così universale come il C., nè così indi-
viduale come la cosa, ma è a fondamento dell’uno e dell’altra » (Op. Ox., II,
d. 3, q. 1, n. 7). Questo realismo non subisce mutamenti importanti nep- pure
nella filosofia moderna. L’identità di C. e realtà, forse presupposta da
Cartesio, è resa espli- cita da Spinoza: «Il circolo esistente nella natura e
l’idea del circolo esistente, la quale è anche in Dio, sono una sola e medesima
cosa, che si mani- festa per diversi attributi » (Er., II, 7, Scol.). Un
realismo del C., limitato tuttavia alla realtà feno- menica (che è poi la sola
accessibile all'uomo) è la stessa dottrina di Kant. Difatti se i C. empirici si
riferiscono alle cose solo per il tramite di una sensazione, i C. puri o
caregorie entrano a costi- tuire le cose stesse in quanto percepite, cioè appa-
renti nell’esperienza. I C. puri o categorie sono infatti, nello stesso tempo,
«forme dell’intelletto » e «condizione degli oggetti fenomenici ». Essi cioè
entrano a costituire gli stessi oggetti fenomenici, cioè gli oggetti di ogni
esperienza possibile (Critica R. Pura, Analitica dei concetti, $ 10). La
dottrina fondamentale del kantismo è per l’appunto il ca- rattere costitutivo dei
C. puri, carattere sul quale si fonda lo stesso carattere rappresentativo dei
C. empi- rici (Zbid., $ 16, nota). Indubbiamente, per Kant il C. non è tutta la
realtà e non è creativo della realtà stessa: costituisce l’ordine necessario,
per cui la realtà si rivela all’indagine scientifica come sotto- posta a leggi
immutabili. Ma appunto per ciò costi- tuisce la struttura ossea, o l’ossatura
necessaria, della realtà empirica, cioè della sola realtà che l'uomo possa
indagare e conoscere. Da questo punto di vista, l’intero armamentario del
criticismo sembra sia diretto a riconfermare la tesi classica,
platonico-aristotelica, sulla natura del C.: la sua identità con la sostanza
necessaria della realtà. E questa stessa tesi, senza le limitazioni del fenome-
nismo kantiano, si trova nell’Idealismo romantico: che però accentua la
funzione creativa del C. e iden- tifica il C. stesso col Principio razionale
infinito, creatore e organizzatore della realtà stessa. È un luogo comune della
filosofia hegeliana che il C. non è una pura rappresentazione soggettiva ma è
l’es- senza stessa delle cose, il loro «in sè ». «La natura di ciò che è, è di
essere, nel proprio essere, il proprio C., dice Hegel; e in ciò sta, in
generale, la necessità logica » (Phénom. des Geistes, Pref., $ 3). L’Idea
assoluta o infinita, la Ragione autocosciente che è la sostanza del mondo, non
è altro che « il C. come C.» (Enc., $ 213). «Il C., dice ancora Hegel — non ciò
che si ode spesso chiamare in tal modo ed è soltanto un’astratta determinazione
148 intellettualistica — è unicamente ciò che ha realtà, in maniera cioè da
darsi esso stesso la realtà» (Fil. del Dir., $ 1). Nella concezione hegeliana,
la struttura necessaria della realtà è divenire e pro- gresso e si è posta come
Ragione infinita e crea- trice. Per quanto grande la distanza possa apparire
tra questa e la concezione classica, essa non lo è dal punto di vista della
teoria del C.; per Hegel, come per Aristotele, il C. è l’essenza necessaria
della realtà, ciò che fa sì che essa non possa esser diversa da quella che è.
Nella filosofia contempo- ranea l’idealismo ha ripreso l’interpretazione he-
geliana del C. come realtà necessaria o necessità reale. Croce, per es.,
l'intende come sviluppo, dive- nire e sistema, attività razionale e concreta,
spirito o ragione (Logica come scienza del C. puro, 1908). Un ritorno alla
forma classica che l’interpreta- zione del C. aveva assunto in Aristotele si
può invece considerare la fenomenologia di Husserl. Husserl condivide la
polemica del logicismo mo- derno contro lo psicologismo che vede nel C. una
formazione psichica (v. PsicoLoGIsMo). Formazione psichica è, per es., la
rappresentazione di numero che varia da momento a momento e da un indi- viduo a
un altro; ma il C. di numero è sempre quello, ed è un’entità intermporale. I C.
devono perciò essere ritenuti identici con le essenze ed è anzi meglio parlare,
anzichè di C., di essenze (che sono oggetti) e, dal lato soggettivo, di «
visione delle essenze » come atto analogo al percepire sensibile (Ideen, I, $$
22-23). Così in quella che è l’ultima formulazione storica dell’interpretazione
del C. come realtà necessaria, il termine stesso di C. viene ab- bandonato come
improprio, analogamente a quanto accade negli sviluppi della seconda
interpretazione del concetto. 2° Per tale seconda interpretazione, il C. è un
segno dell’oggetto (quale che sia) e si trova con esso in rapporto di
significazione. Per questa inter- pretazione, che si presenta per la prima
volta negli Stoici, la dottrina del C. diventa una teoria dei segni. Non ci può
essere segno, secondo gli Stoici, nè delle cose evidenti nè delle cose
assolutamente oscure; ci può essere soltanto delle cose oscure per il momento
od oscure per loro natura. A queste due specie di cose corrispondono due specie
di segni: 1° i segni rammemorativi che si riferiscono alle cose oscure per il
momento; 2° i segni indica- tivi che si riferiscono alle cose oscure per
natura. Un segno rammemorativo si ha, per es., quando si dice «Se c’è fumo, c’è
fuoco»? non vedendo ancora fuoco. Un segno indicativo è, per es., un movimento
del corpo, in quanto esprima uno stato dell'anima. Per segno s’intende poi «una
proposizione che, essendo antecedente in una con- nessione vera, è
discopritrice del conseguente ». In CONCETTO altri termini si ha un segno, se
si ha una propo- sizione condizionale del tipo «Se... allora», la quale
soddisfi a due condizioni: 1° deve cominciare dal vero e finire nel vero, cioè
sia l’antecedente che il conseguente devono essere veri; 2° deve es- sere
discopritiva, cioè deve dire qualcosa non im- mediatamente evidente. Ad es.,
«Se è giorno, c’è luce », detto quando è giorno, non è ancora un segno; mentre
è un segno la proposizione: «Se questa ha latte, allora ha partorito» dove
l’ante- cedente è discopritore del conseguente (/por. Pirr., II, 97 sgg.; Adv.
Dogm., II, 141 sgg.). Questa dottrina stoica dei segni (sulla quale v. SIGNIFI-
CATO) è rimasta il modello della seconda alternativa fondamentale che la
dottrina del C. ha storicamente trovato. Trasmessa da Boezio alla Scolastica
la- tina, essa trova la sua prossima tappa nella logica di Abelardo (x secolo)
il quale accentuando il carattere predicativo del C., negò che esso potesse
essere considerato sia come una cosa (res) sia come un nome (vox) — giacchè nè
la cosa nè il nome (che è pure una cosa) possono essere predicati di un’altra
cosa — e considerò il C. stesso come un sermo (discorso). A differenza della
vox, il sermo implica il riferimento semantico ad una realtà significata,
riferimento che la Scolastica po- steriore chiamerà suppositio. La realtà
significata non è, secondo Abelardo, nè una sostanza univer- sale nè una classe
di cose singole ma lo sraro comune in cui convengono un gruppo di cose. In
questo senso Abelardo dice che «la causa comune» dell’universale «uomo» è lo
status di uomo che non è nè una cosa nè una sostanza ma piuttosto ciò in cui
tutti gli uomini con- vengono in quanto tali (Philosophische Schriften, ed.
Geyer, pag. 19-20). La dottrina fu poi ripresa dalla logica terministica che
trovò Ia sua formula- zione scolastica nelle Summulae Logicales di Pietro
Ispano (verso la metà del 1200). Nelle Summu/ae la funzione del termine, sia
universale sia par- ticolare, viene definita mediante la nozione di
supposizione (v.) per la quale i termini stanno in luogo della cosa supposta,
sicchè, per es., nella proposizione « l’uomo corre», il termine « uomo » sta
per Socrate, Platone, e così via (Sumunulae Log., 6.03). La Scolastica del ’300
segna il defi- nitivo abbandono del realismo o formalismo che era prevalso in
S. Tommaso e Duns Scoto, e un ritorno della teoria stoica del concetto. Questo
è chiamato intfentio animae come ogni altro atto o elemento di conoscenza
(giacchè la conoscenza si riferisce sempre a qualcosa d’altro da sè) ed è
definito come «segno predicabile di più cose». Secondo Ockham, il C. possiede
inoltre un altro carattere fondamentale: è un segno naturale. Egli dice:
«L’universale è duplice. Uno è l’universale naturale che è un segno predicabile
di più cose; al modo in cui il fumo naturalmente significa il fuoco, il gemito
dell’infermo il dolore, e il riso l’interna gioia. Tale universale è solo
un’intenzione del- l’anima, giacchè nessuna sostanza fuori dell’anima e nessun
accidente fuori dell’anima è un universale siffatto... L'altro è l’universale
istituito ad arbitrio (per voluntariam institutionem); e in questo senso la
voce profferita, che tuttavia è una qualità nume- ricamente una, è universale
perchè è un segno isti- tuito arbitrariamente per significare più cose» (Summa
Log., I, 14). La funzione logica del C. è quella della supposizione, per la
quale il C. stesso, in tutti i complessi in cui entra, sta per le cose si-
gnificate; quanto alla realtà che il C. stesso pos- siede nell'anima come
infentio animae, Ockham non si mostra interessato a decidere; e sembra anzi
inclinare alla dottrina estrema che il C. non ha nell’anima alcuna realtà ma
esiste soltanto in essa obiective cioè a titolo di rappresentazione o di
immagine (In Sent., I, d. 2,q.8E). La dottrina di Ockham è tipica della posizione
empiristica ri- spetto alla natura del C., posizione che ha costan- temente due
capisaldi: 1° la natura segnica del C.;
2° la sua connessione causale con le
cose, delle quali sarebbe il naturale prodotto nell’uomo. Questa dottrina si
ritrova infatti in Locke (Saggio, III, 3, $$ 6-9), in Berkeley (Principles of
Human Knowledge, Intr., $ 12 sgg.) e in Hume (7rearise, I, 1, 7). Hume invoca
l’abitudine per spiegare la genesi psicologica del C. (/bid., I, 1, 7); James
Mill invoca la legge dell’associazione psicologica (Analysis of the Phe- nomena
of the Human Mind, 2* ed., 1869, I, pa- gina 78 sgg.) e così fa pure Stuart
Mill (Exami- nation of Phil. of Hamilton, pag. 393). È proprio dell’empirismo
assumere la spiegazione psicologica della genesi del C. come giustifica- zione
della sua validità: cioè ritenere dimostrata la validità del C. e la
legittimità del suo uso per aver mostrato il modo in cui esso viene a formarsi
nell'uomo con l’azione dell’astrazione (come ri- teneva Locke) o della associazione
psicologica, come ritengono gli Empiristi della prima metà dell’800. Ma già
Kant aveva insistito sulla diffe- renza tra le due cose distinguendo la «
derivazione fisiologica » dei C. tentata da Locke, dalla « dedu- zione » dei C.
stessi, cioè dalla dimostrazione della loro validità (Crir. R. Pura, $ 13). La
distinzione tra validità logica e realtà psicologica dei C. si mantiene in
tutte le scuole del neo-criticismo te- desco contemporaneo (e soprattutto dalla
Scuola di Marburgo cui appartengono Cohen, Natorp e Cassirer) ed era stata
riaffermata come indispen- sabile alle formulazioni del pensiero matematico e
in generale del pensiero scientifico, da Bolzano nella sua Dottrina della
scienza (1837). L’elabora- 149 zione matematica della logica portava ad
insistere sulla natura oggettiva, non psicologica, del C., come sulla sua
natura simbolica. Questi due aspetti del C. vengono sottolineati da Frege. In
uno scritto del 1890 egli asseriva che « il C. è qualcosa di oggettivo, che non
viene costruito per opera nostra »; e che pertanto una proposizione come «Il
numero 3 è un numero primo +» è « qualcosa di completamente indipendente dalla
circostanza che noi vegliamo, o dormiamo, viviamo 0 no; qualcosa che vale e
varrà oggettivamente sempre, non importando se esistano o esisteranno esseri
che riconoscano 0 no questa verità » (Ueber das Tràgheitsgesetz, 1890, in
Aritme- tica e logica, ed. Geymonat, pag. 211-12). Da questo punto di vista,
Frege definiva il C. come «il significato di un predicato » (Ueber Begriff und
Gegenstand, 1892, $ 2; ed. Geymonat, pag. 199); e definiva il significato
stesso come l’oggetto de- signato dal segno distinguendo il significato dal
senso che denota « il modo in cui l’oggetto ci vien dato» (Ueber Sinn und
Bedeutung, 1892, $ 1, ed. Gey- monat, pag. 216 sgg.). Queste notazioni di Frege
sono molto importanti perchè segnano
l’inizio della risoluzione, avvenuta in buona parte della filosofia
contemporanea, della nozione di C. nella nozione di significato. Già Husserl
(che tuttavia sosteneva un realismo concettualistico) considerava i C. come
significati (Bedeutungen: cfr. Ideen, I, $ 10). «Termini o significati » chiama
i C. Dewey che sotto questo titolo procede a classificarli (Logic, cap. XVIID.
E R. Carnap identificando, nello stesso senso di Frege, il C. con l'oggetto
intendeva per esso « tutto ciò su cui possono formularsi proposizioni » (Der
logische Aufbau der Welt, 1928, $ 5). Dell’avvenuta identificazione tra C. e
significato dava atto nel 1942 Susan K. Langer mostrando la convergenza di
molte correnti della filosofia contemporanea verso il riconoscimento del
simbolismo nella scienza, nell’arte, nella filosofia e in generale in tutte le forme
culturali umane (Philosophy in a New Key, 1942, cap. III). Quine ha indicato
esattamente il punto critico della trasformazione delia nozione di C. quando ha
detto « il significato è ciò che l’es- senza diventa quando ha fatto divorzio
dall’oggetto di riferimento e si è sposata con la parola » (From a Logical
Point of View, II, 1). È tuttavia da notare che il termine C. o signifi- cato
viene più frequentemente riferito a indicare la connotazione che la
denotazione. Così Carnap negli ultimi scritti ha inteso per concetto la
proprietà o l'attributo o la funzione (Introduction to Semantics, 1942; 2»
ediz., 1959, $ 37). Ciò costituisce una ec- cezione alla terminologia proposta
da Frege, ecce- zione tuttavia che è raccomandata dai logici (con- fronta A.
CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 01, e n. 17). V. SIGNIFICATO. B)
La funzione del C. può essere concepita in due maniere fondamentali diverse,
cioè come finale e come strumentale. Funzione finale attribuisce al C.
l’interpretazione di esso come essenza: giacchè per questa interpretazione il
C. non ha altra fun- zione se non di esprimere o rivelare la sostanza delle
cose. La funzione si identifica da questo punto di vista con la natura stessa
del concetto. Quando invece si ammetta la teoria simbolica del C., si ammette
con ciò anche la strumentalità di esso; e questa strumentalità può essere
chiarita e de- scritta nei suoi molteplici aspetti. Gli aspetti prin- cipali
sono i seguenti: 1° La prima funzione attribuita al C. è quella di descrivere
gli oggetti dell'esperienza per con- sentirne il riconoscimento. Era questa la
funzione principale che Epicurei e Stoici attribuivano alle anticipazioni (o
prolessi). Secondo gli Epicurei, l’anticipazione è « una comprensione o retta
opi- nione o pensiero o nozione universale insita in noi come memoria di ciò
che ci è spesso apparso fuori di noi» (Dioc. L., X, 33). Questa funzione
descrittiva o riconoscitiva del C. viene spesso sotta- ciuta in quanto è la più
ovvia. Recentemente G. Berg- mann ha chiamato I C. parole-caratteri (Character-
Words) per indicare la loro funzione descrittiva o referenziale (Philosophy of
Science, 1957, pag. 13). 2° La seconda funzione attribuita al C. è quella
economica. A questa funzione si lega il carattere classificatorio del C.
stesso. «La varietà delle rea- zioni biologicamente importanti, ha detto E.
Mach, è molto minore della varietà degli oggetti esistenti. Perciò l’uomo è
stato condotto a classificare i fatti nei concetti. Lo stesso procedimento si
ripro- duce quando, in una professione, si affrontano fatti che non offrono più
interessi biologici imme- diati » (Erkenniniss und Irrtum, 1905, cap. VIII;
trad. franc., pag. 136). Sotto questo aspetto, i C. sono «segni riassuntivi e
indicativi delle reazioni possibili dell'organismo umano nei confronti dei
fatti » (Mechanik, 1883, pag. 510). È questo il ca- rattere su cui hanno fatto
leva alcuni filosofi per negare il carattere teoretico dei C. scientifici a
van- taggio di una forma superiore o privilegiata di conoscenza. Così Bergson
ha contrapposto al C., semplice schema economico ai fini dell'azione,
l'intuizione (Évolution Créatrice, 88 ediz., 1911, pag. 247 sgg.). Croce ha chiamato
per questo mo- tivo i C. scientifici pseudo-concetti riservando il nome di C.
alla Ragione stessa (Logica, cap. II). 3° La terza funzione del C. è quella di
orga- nizzare i dati dell’esperienza in modo tale da sta- bilire tra essi
connessioni di natura logica. Un C., soprattutto un C. scientifico, non si
limita, di re- gola a descrivere e classificare i dati empirici ma rende
possibile la loro derivazione deduttiva CONCETTO-CLASSE (DuHEM, La théorie
physique, pag. 163 sgg.). È questo l’aspetto per cui la formulazione
concettuale delle teorie scientifiche ténde all’assiomatizzazione: la
generalizzazione e il rigore dell’assiomatizzazione tendono a portare al limite
il carattere logicamente organizzativo del concetto. 4° La quarta funzione del
C., ritenuta oggi quella fondamentale nelle scienze fisiche, è la previ- sione.
Come già riconoscevano gli Stoici, lo scopo di un segno è in generale quello di
prevedere; e il nome di anticipazione, che Epicurei e Stoici davano al C.,
esprime appunto questa funzione. Per essa, il C. è un mezzo o procedimento
anticipatorio o proget- tante. Per Dewey, esso anticipa o progetta la solu-
zione di un problema esattamente formulato (Logic, XX, $ 1; trad, ital, pag.
516; cfr. XXIII, $ 1; pag. 599). Per altri la funzione anticipatoria del C. è
lo strumento di cui la scienza si serve « per predire l’esperienza futura alla
luce dell'esperienza passata »
(Quine, From a
Logical Point of View, II, 6). Alle
funzioni della organizzazione e della previ- sione adempiono oggi i tipi
fondamentali dei C. scientifici che non sono nè descrittivi nè classifica-
tori: cioè i modelli, i C. matematici e i costrutti. I modelli costituiscono
semplificazioni o idealiz- zazioni dell’esperienza e si ottengono portando al
limite caratteri o attributi propri degli oggetti em- pirici. Sono modelli in
questo senso i C. di velocità istantanea, di sistema isolato, di gas perfetti e
in generale i modelli meccanici. I C. matematici sono semplicemente occasioni
per introdurre speciali procedimenti di calcolo e in questo senso sono
strumenti di previsione. Il C. di «onda di probabilità », proprio della mec-
canica quantistica, appartiene a questa specie: come appartengono a questa
specie quelli di «campo tensoriale », « spazio CUTvo ?, ecc. Infine i costrutti
(v.) sono C. di entità che non sono date nell'esperienza e non somigliano
neppure ad oggetti dati, e la cui esistenza consiste sempli- cemente nella
possibilità di essere usate come stru- menti di previsione nel contesto di una
teoria. Sono esempi di costrutti i C. di campo, di elet- trone, di etere, ecc. (P. W. BRIDGMANN, The Logic of
Modern Physics, 1927, cap. II; M. K. MUNITZ, Space Time and Creation, 1957, IV,
2). CONCETTO-CLASSE (ingl. Class-Concept).
Termine introdotto nella Logica da Russell (The Principles of Mathematics):
designa il C. me- diante cui si definisce una c/asse (v.), o, più esattamente,
la funzione proposizionale « Fx» le cui radici formano la classe, in modo che
con- dizione necessaria e sufficiente perchè un in- dividuo a sia un elemento
di una classe (« appar- tenga alla classe +) definita mediante una funzione
«Fx+è che la proposizione « Fa» sia vera. G.P. CONCETTUALISMO (ingl.
Conceptualism; franc. Conceptualisme; ted. Conceptualismus). Nome che gli
storici ottocenteschi della filosofia medievale hanno dato a quella corrente
della Scolastica me- dievale che gli Scolastici stessi chiamavano nomi- nalismo
(v.); ciò allo scopo di distinguere il nomi- nalismo estremo di Roscellino, per
il quale il concetto universale è una semplice vox o ffatus vocis dal
nominalismo di Abelardo, per cui l’univer- sale stesso è un discorso (sermo)
predicabile di più cose e dal nominalismo posteriore che s’ispira ad Abelardo
(v. NOMINALISMO; UNIVERSALI). CONCEZIONE (ingl. Conception; franc. Con-
ception; ted. Konzeption). Questo termine designa (come quelli corrispondenti
di percezione e di ima- ginazione), sia l’atto del concepire, sia l'oggetto
concepito; ma, a preferenza, l’atto di concepire an- zichè l’oggetto, per il
quale va riservato il termine concetto (v.). Hamilton faceva già questa
osserva- zione (Lectures on Logic, I, pag. 41) che talora è ripetuta nella
filosofia contemporanea: «Appena un concetto è simbolizzato per noi la nostra
imagina- zione lo riveste di una C. privata e personale, che possiamo
distinguere solo per un processo di astra- zione dal concetto pubblico e
comunicabile + (Susan K. LAnGER, Philosophy in a New Key, cap. IID. CONCLUSIONE
(lat. Conclusio; ingl. Con- clusion; franc. Conclusion; ted. Schluss). Mentre
in Apuleio e Boezio conclusio è il termine mediante il quale si designa la
totalità di un discorso dimostra- tivo, nei Logici medievali esso è usato come
tra- duzione del ovurépacpa aristotelico e della trupopà stoica, cioè per
indicare la proposizione terminale del discorso dimostrativo stesso (cfr.
PIETRO ISPANO: « Est enim conclusio argumento vel argumentis ap- probata
propositio »; Summul. Log., 5.02). Nella filo- sofia moderna e contemporanea ha
mantenuto lo stesso senso. Solo nei filosofi tedeschi Sck/uss è spesso usato
per indicare l’intero sillogismo. G. P. CONCOMITANZA (ingl. Concomitance; fran-
cese Concomitance; ted. Konkomitanz). Uno dei quattro metodi della ricerca
sperimentale enumerati da Stuart Mill e precisamente quello detto delle «
variazioni concomitanti » espresso con la seguente regola: « Un fenomeno che
vari in qualche maniera
ogni volta che un altro fenomeno vari in
qualche particolare maniera è la causa o l’effetto di questo fenomeno o è
connesso con esso da qualche fatto di causazione » (Logic, III, 8, $ 6). A
questo metodo Mach ridusse tutti i procedimenti della scienza. «Il metodo delle
variazioni, egli disse, consiste nello studiare per ciascun elemento la
variazione che si trova legata alla variazione di ciascuno degli altri
elementi. Importa poco che tali variazioni si producano da sè o che noi le
provochiamo volon- tariamente; le relazioni saranno scoperte dall’os-
servazione o dall’esperimento» (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad. franc.,
pag. 28-29) (v. Con- CORDANZA; DIFFERENZA; RESIDUI). CONCORDANZA, METODO DELLA
(in- glese Method of Agreement; franc. Méthode de con- cordance; ted. Methode
der Uebereinstimmung). Uno dei quattro metodi della ricerca sperimentale enu-
merati da Stuart Mill e precisamente quello espresso dalla regola seguente: «
Se due o più casi del feno- meno che si sta investigando hanno un’unica cir-
costanza in comune, la circostanza nella quale sola tutti i casi concordano è
la causa, o l’effetto, del fenomeno dato » (Logic, III, 8, $ 1). Un caso del
metodo della C. è la combinazione di esso con quello di differenza,
combinazione che è retta dalla seguente regola: «Se due o più casi nei quali il
fenomeno ha luogo hanno solo una circostanza in comune, mentre due o più casi
nei quali esso non ha luogo non hanno in comune se non l’as- senza della
circostanza, la circostanza nella quale sola i due insieme di casi
differiscono, è l’effetto o la causa, o una parte indispensabile della causa
del fenomeno + (/bid., $ 4) (v. CONCOMITANZA; DIF- FERENZA; RESIDUI).
CONCRESCENZA (ingl. Concrescence). White- head ha visto nell’evoluzione
emergente (o crea- trice) un « processo di C. + al quale contribuiscono
egualmente l’aspetto fisico e l’aspetto spirituale, indissolubilmente uniti ed
entrambi attivi (Process and Reality, pag. 151). CONCRETO (ingl. Concrete; franc. Concret; ted. Konkret). Il contrario
di astratto (v.). I filosofi designano abitualmente col termine elogiativo di
C. ciò che s’adegua al loro criterio di realtà. Perciò C. non è sempre
l’individuale, il singolo, la cosa o l’essere esistente, come si potrebbe
credere e come è, forse, l’uso comune del termine. Per Hegel il C. è
l’Universale, la Ragione, l’Infinito, mentre l’astratto è appunto l'individuo,
l’oggetto sin- golo, ecc. « L’astratto è il finito, il C. è la Verità,
l’Oggetto infinito », dice Hegel (Philosophie der Re- ligion, ed. Glockner, II,
pag. 226; cfr. Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, I, pag. 52 sgg.). Così
Croce ha parlato di un «universale C.» e Gentile del « pensiero C. ». Per
Bergson il C. è la durata reale, cioè la vita della coscienza nella sua
immediatezza. Si può dire che il termine non ha altra funzione che quella di
qualificare onorificamente la realtà, vera o supposta, che si intende
privilegiare. CONCREZIONE (ingl. Concrezion). Parola co- niata da G. Santayana
per indicare la crescita do- vuta all’unificazione di più cose. Così le C.
formate da un’associazione per simiglianza sono idee o es- senze 0 «C. di
discorso»; mentre le C. costituite dal- l’associazione per contiguità sono
cose. (Cfr. special- mente Reason in Common Sense, 1905, pag. 161 sgg.). CONCUPISCENZA
(lat. Concupiscientia; in- glese Concupiscence; franc. Concupiscence; ted. Ge-
liste). È, secondo S. Tommaso (che rinvia alla defini- zione aristotelica del
piacere, Rer., I, 11, 1369 b 33) il desiderio del piacere (delectatio). Il
piacere si può provare sia per un bene spirituale, sia per un bene sensibile, e
il primo appartiene solo all’anima, il se- condo all’anima e al corpo insieme:
la C. designa il desiderio di questa seconda specie di piacere, cioè il
desiderio sensibile (S. 7h., II, 1, q. 30, a. 1). CONCUPISCIBILE. Una delle
parti del- l’anima, secondo Platone (v. FACOLTÀ). CONCURSUS DEI. Si designò con
questa espressione, negli ultimi tempi della Scolastica, la parte dovuta a Dio
nella produzione e nel compor- tamento delle sostanze finite. La dottrina domi-
nante nella Scolastica è quella esposta da S. Tom- maso: che la causa prima,
cioè Dio, è più efficiente delle cause seconde che derivano il loro potere solo
da essa (S. 7A., II, 1, q.19,a. 4). Ma nell’ultima fase della Scolastica e
precisamente ai principi del sec. xIv, si cercò di limitare la portata della
causalità divina, per evitare che si attribuissero a Dio stesso le im-
perfezioni e i mali del mondo. Così Durando di St.-Pourgains e Pietro Aureolo
ritennero che il concorso di Dio con la creatura è solo generale e mediato; che
Dio crea le sostanze e dà loro la forza di cui hanno bisogno, ma dopo ciò le
lascia fare e si limita a conservarle nel loro essere, senza aiutarle nelle
loro azioni. Nell’età post-cartesiana, sia gli occasionalisti, sia Spinoza, sia
Leibniz ri- tornarono alla nozione tradizionale dell’intera e piena causalità
divina nel mondo. Leibniz, in par- ticolare, riespose a suo modo la dottrina
del con- corso divino, distinguendo, oltre il concorso straor- dinario o
miracoloso, un concorso immediato e un concorso speciale: il primo che consiste
nel fatto che l’effetto non solo dipende da Dio ma che Dio concorre a produrlo
non meno della causa seconda di esso; e il secondo che è diretto non sol- tanto
all’esistenza della cosa ma anche al suo modo di esistere e alle sue qualità,
giacchè ciò che nella cosa c’è di perfetto non può dipendere che da Dio (Op.,
ed. Erdmann, pag. 653). CONDILLACHISMO. V. Sensismo. CONDIZIONALE (gr. cvwupévoy
délwpa; lat. Propositio hypothetica; ingl. Conditional; fran- cese
Conditionnel; ted. Bedingt). Una relazione tra due stati di cose o due
proposizioni, indicata dal connettivo se... allora. Questa relazione fu
studiata per la prima volta nella scuola di Megara e inter- pretata in due modi
diversi da Filone e da Diodoro Crono. Filone affermava che la relazione è vera
quando non comincia dal vero e finisce nel falso. Diodoro affermava invece che
essa è vera quando non comincia dal vero nè finisce nel falso. La condizione
posta da Diodoro per la validità del C. era perciò assai più ristretta di
quella posta da Filone giacchè per quest’ultimo una proposi- zione vera segue
da ogni cosa (anche dal falso). Per es., la relazione «Se è notte, è giorno »,
posto che sia giorno, è vera secondo Filone perchè comincia dal falso (cioè ha
l’antecedente falso) «è notte», ma finisce nel vero (cioè ha il conseguente
vero) « è giorno ». Secondo Diodoro, invece, è falsa perchè ammette di
cominciare dal vero, posto che sopraggiunga la notte, e di finire nel falso «è
giorno » (Sesto EMPIRICO, Adv. Math., VIII, 113- 117; Cicer., Acad., IV, 143).
Le interpretazioni di Filone e di Diodoro corrispondono perciò rispettiva-
mente a quelle che oggi si chiamano implicazione materiale e implicazione
formale (v. IMPLICAZIONE): giacchè Filone interpretava il C. «se è giorno, c'è
luce » come se dicesse «0 non è giorno o c’è luce », mentre Diodoro
l’interpretava come se di- cesse «ora c’è giorno, dunque ci dev'essere luce »,
ammettendo una connessione causale tra l’antece- dente e il conseguente. E
difatti Filone ammetteva una tavola di verità che è identica a quella del-
l’implicazione materiale. Il C. è vero in tre casi e falso in un caso. È vero
se comincia dal vero e finisce nel vero: « Se è giorno, c’è luce »; è vero se
comincia dal falso e finisce nel falso: «Se la terra vola, la terra ha le ali».
È vera se co- mincia dal falso e finisce nel vero: «Se la terra vola, la terra
esiste». È falsa solo quando co- mincia dal vero e finisce nel falso: « Se è
giorno, è notte», posto che sia giorno. E così la relazione: «Se è giorno, io
discorro », è vera secondo Filone, posto che io discorra, ma falsa secondo
Diodoro. La dottrina di Filone fu sostanzialmente accettata dagli Stoici (Dio.
L., VII, 73) e fu discussa nella logica medievale (che utilizzò la trascrizione
che ne aveva fatta Boezio) come dottrina della conseguenza (v.). Nella logica
moderna, la dottrina è stata ripresa da Frege (a partire dal Begriffsschrift,
1879) e da Peirce a partire dal 1885; secondo il quale, il prin- cipale
vantaggio dell’interpretazione di Filone è quello che essa consente di
esprimere le proposi- zioni categoriche e le proposizioni condizionali nella
stessa forma. Così, per es., la proposizione « Ogni uomo è ragionevole» si può
esprimere dicendo: « Per ogni oggetto x qualsiasi, è vero che o x non è un uomo
o x è ragionevole » (PEIRCE, Coll. Pap., 3. 43945). Il concetto di C. è oggi il
più delle volte consi- derato equivalente a quello di implicazione (v.). Quine
ha tuttavia proposto una distinzione oppor- tuna tra i due concetti:
l’implicazione dovrebbe essere intesa come relazione tra proposizioni e il C.
come relazione tra oggetti o stati di fatto. Così si dovrebbe dire « ‘Se piove”
implica ‘la terra si bagna ’ », mentre il C. sarebbe « Se piove, la terra si
bagna » (Methods of Logic, 1952, $ 7). CONDIZIONATO (ingl. Conditioned; fran-
cese Conditionné; ted. Bedingt). Ciò la cui possi- bilità dipende da altro.
Riflesso C. ha chiamato Pavlov il riflesso prodotto da uno stimolo artifi-
ciale (v. AZIONE RIFLESSA). Kant nella discussione delle antinomie della ragion
pura (Crif. R. Pura, Dialettica trascendentale, cap. II) ha usato la parola
come sinonimo di cau- sato. Hamilton (Lectures on Metaphysics, 1859- 1860) ha
inteso per C. il relativo; e in questo senso ha detto che « pensare è
condizionare » perchè ciò che si pensa o si conosce è quello che è rispetto
alle facoltà umane, non assolutamente. Lo
stesso significato è attribuito alla parola da Mansel (Phil. of the
Conditioned, 1866). CONDIZIONE (ingl.
Condition; franc. Con- dition; ted. Bedingung). In generale, ciò che rende possibile la previsione
probabile di un evento. La nozione si è formata nell’età moderna, dapprima
attraverso il tentativo di liberare la nozione di causa dalle sue implicazioni
antropomorfiche, poi attraverso l’esigenza di liberarla dal suo carattere
necessitante. Claude Bernard, che tuttavia credeva nel carattere necessitante
della causa (v. Causa- LITÀ), diceva: «L’oscura nozione di causa deve essere
confinata all’origine delle cose: non ha senso che quando si parla della causa
prima o causa finale. Nella scienza, deve far posto alla nozione di rapporto o
di condizione » (Lecons sur les phéno- ménes de la vie, II, pag. 396 sgg.).
Dall'altro lato, Stuart Mill, osservando che la successione invaria- bile in
cui la causalità consiste, raramente si trova tra un conseguente e un singolo
antecedente ma c’è il più delle volte tra un conseguente e la somma di di-
versi antecedenti, che sono tutti richiesti « a produrre il conseguente, cioè
affinchè siano certamente seguiti da esso», aggiungeva: «In tali casi è cosa
assai comune mettere in evidenza uno solo degli ante- cedenti sotto la
denominazione di causa, chiamando gli altri soltanto condizioni» (Logic, III,
10, 3). La C. sarebbe così ciò che per suo conto non basta a produrre l’effetto,
cioè: non rende certo il veri- ficarsi dell’effetto. Il che corrisponde all’uso
della parola C. nell'espressione (di origine giuridica) conditio sine qua non,
nella quale la C. significa una clausola o riserva da cui dipende l’intera va-
lidità dell'atto giuridico, sebbene indubbiamente non sia la causa di esso.
Alla parola è pertanto connesso il significato di una limitazione di possi-
bilità tale che ciò che cade fuori delle possibilità così limitate elimini o
renda non-possibile l’og- getto condizionato. In riferimento a questo signi-
ficato, la parola viene usata da Kant. Per quanto l'opera di Kant sia diretta a
difendere il principio di causalità necessaria come forma o struttura og-
gettiva della natura, essa fa un uso frequente della nozione di C. in un
significato che non è ricondu- cibile a quello di causa e che Kant non si è
fermato di proposito a delucidare. L’uso kantiano è in- dicato da espressioni
come le seguenti, che s’in- contrano frequentemente nella Critica della Ragion
Pura: « C. della possibilità dei fenomeni », « C. sog- gettiva della
sensibilità », « C. della possibilità di ogni esperienza », «C. formale di
tutti i fenomeni in generale» (il tempo), «C. soggettive del pen- sare » (le
categorie), « C. a priori per cui è possibile l’esperienza » (le categorie),
ecc. In queste e simili espressioni ciò che vi è di importante è la connes-
sione tra « C.» e « possibilità ». Kant qualche volta dice semplicemente « C.+,
qualche volta dice « C. della possibilità »; e le due espressioni s’equival-
gono. Il che vuol dire che, secondo Kant, dire che «x è la C. di y» o dire che
«x rende possi- bile y » significa la stessa cosa. Ciò che rende pos- sibile
qualcosa (per es., la conoscenza o l’esperienza o il fenomeno) è la C. di
questo qualcosa. Questa definizione, certamente non data mai esplicitamente ma
neppure soltanto implicita, della nozione nel- l’opera di Kant, costituisce il
punto decisivo della elaborazione filosofica di essa. Un passo ulteriore nello
stesso senso è stato effettuato da Max Weber nella sua ricerca sul significato
del principio di causalità per le scienze storiche (1905). Per quanto Weber
adoperi di preferenza la parola causa e parli di spiegazione causale, ciò che
egli dice si riferisce più precisamente alla nozione di C.; e serve a collegare
questa nozione con quella di « possibilità oggettiva » (v. PossiBILITÀ) che è
in- dispensabile, secondo Weber, alla conoscenza sto- rica. «Il giudizio sulla
possibilità oggettiva, dice Weber, ammette per sua essenza gradazioni; e si può
raffigurare la relazione logica in esso impli- cita con l’aiuto dei princìpi
che sono applicati nell’analisi del calcolo delle probabilità. Le com- ponenti
causali, al cui ‘possibile’ effetto si rife- risce il giudizio, possono
concepirsi isolate rispetto a tutte le C. che si possono in genere concepire
con esse cooperanti. Ci si può chiedere allora come il complesso di queste C.,
insieme alle quali le com- ponenti isolate erano prevedibilmente adatte a pro-
durre la conseguenza possibile, si comporta rispetto a quelle altre C., insieme
alle quali non l'avrebbero ‘ prevedibilmente * prodotta » Xritische Studien auf
dem Gebiet der Kulturwissenschaftlichen
Logik, 1906; trad. ingl. in Methodology of Social Science, pag. 181-82).
Ciò che qui Weber chiama « com- ponente causale » che sarebbe concettualmente
iso- lata per formulare un giudizio di possibilità og- gettiva, cioè un
giudizio sul corso che gli eventi avrebbero potuto prendere se, per l’appunto,
quella componente causale fosse intervenuta, non è altro che una C. di
possibilità, nel senso kantiano del termine. Aggiunge Weber: « Noi possiamo
enun- ciare giudizi generalmente validi intorno al fatto che una maniera di
reagire identica, in certe carat- teristiche da parte di persone che affrontano
deter- minate situazioni, è favorita a un grado maggiore o minore e possiamo
stimare il grado al quale un certo effetto è favorito da certe C. » (/bid.,
pag. 183). In queste parole il concetto della C. come limita- zione di
possibilità oggettive e quindi prevedibilità probabile dell’evento, è
chiaramente espresso. Gli sviluppi della fisica che hanno segnato il tra- collo
della nozione di causa (v. CAUSALITÀ) esigono la sostituzione del determinismo
condizionale al determinismo causale classico. Nel campo biologico, è facile
osservare come solo il concetto di C. è in grado di esprimere i rapporti
funzionali consi- derati da tale scienza; e, per es., quello tra stimolo e
risposta, che oggi non può più essere tradotto in termini di causalità, cioè di
previsione infallibile, e può essere invece espresso in termini di condizio-
nalità, cioè di previsione probabile (v. AZIONE RIFLESSA). Il concetto di C. è
inoltre largamente usato nella sociologia, nella teoria dell’informa- zione,
nella cibernetica e in generale nella teoria dell’organizzazione o dei sistemi,
perchè consente di conciliare la nozione dell’ordine con un certo grado di
contingenza o di casualità nelle relazioni fra gli elementi che entrano a
comporlo. Così Wiener ha scritto: « Un’idea significante di orga- nizzazione
non può essere ottenuta in un mondo nel quale ogni cosa è necessaria e niente è
con- tingente » (/ am a Mathematician, New York, 1956, pag. 322). W. Ross
Ashby, ha ritenuto sotto questo aspetto essenziale l’idea di condizionalità
secondo la quale nello spazio di possibilità di interazione, dato da un insieme
di elementi, ogni organizzazione reale degli elementi è costretta a qualche
sub- insieme di interazioni. Il converso dell’organizza- zione è l'indipendenza
degli elementi (in Principles of Self-Organization, ed. H. von Foerster e G. W. Zopf,
New York, 1962, pag. 217). Un
certo grado di libertà nella relazione reciproca delle parti è essenziale ad
ogni organizzazione o sistema; e dove non si fosse scelta fra un insieme di
alternative non ci sarebbe neppure un’organizzazione qualsiasi (J. ROTHSTEIN,
Communication, Organization and Science, 1958, pag. 35). Il concetto di C. sta
così prendendo il posto, nelle discipline più disparate, di quello di causa.
CONDOTTA (ingl. Conduct; franc.
Conduite; ted. Berragen). Ogni
risposta dell’organismo vivente ad uno stimolo, che sia oggettivamente osserva-
bile, anche se non abbia carattere di uniformità: nel senso che vari o possa
variare nei confronti di una situazione determinata. Per questa mancanza di
uniformità, la C. si differenzia dal comporta- mento (v.); e l’uso del termine
diventa utile, giacchè altrimenti non si distingue da comportamento.
CONFERMABILITÀ. V. TESrABILITÀ; VE- RIFICABILITÀ. CONFESSIONE (lat. Confessio;
ingl. Con- fession; franc. Confession; ted. Beichte). La parola significa in
generale: riconoscere una cosa per quella che è (corrispondentemente al
significato del verbo greco éfoporoyetv usato nella traduzione greca della
Bibbia). Pertanto essa viene adoperata S. Agostino sia a indicare il
riconoscimento di Dio come Dio (della verità come verità) sia il riconoscimento
dei propri peccati come tali. S. Ago- stino dice: « Mi comandi di lodarti e di
confes- sarti » rivolgendosi a Dio (Conf., I, 6, 9-10); e dice pure: « Ha (la
casa dell’anima mia) cose che of- fendono i tuoi occhi, lo confesso, lo so»
(Ibid. I, 5, 6). Il significato indicato comprende i due usi del termine
distinti dagli studiosi (cfr. M. PELLE- aRINO, Le C. di S. Agostino, Roma,
1956, pag. 9-10). Esso consente inoltre di spiegare: 1° la composi- zione delle
Confessioni le quali solo in parte con- tengono l’esposizione delle vicende
biografiche di S. Agostino, ma che dal X Libro in poi sono pura- mente
teoretiche, cioè sono dedicate al riconosci- mento della Verità come tale
attraverso la solu- zione dei dubbi e delle difficoltà che si frappongono al
riconoscimento stesso; 2° la coincidenza dell’at- teggiamento di chi si
confessa, cioè riconosce in se stesso la verità, con l’atteggiamento del
ritorno a sè e del ripiegamento dell’uomo su se stesso che è proprio della
ricerca agostiniana, come di quella neo-platonica (v. COSCIENZA).
CONFIGURAZIONISMO (ingl. Configuratio- nism). Lo stesso che Gestaltismo (v.
PERCEZIONE; PSICOLOGIA, C).
CONFLAGRAZIONE (gr. èxmipoore; lat. Con-
ffagratio; ingl. Conflagration; franc.
Conflagration; ted. Weltbrand). Secondo
Eraclito (Dioc. L., IX, 1, 8) e gli Stoici (Sroseo, Ec/., I, 304), la
catastrofe finale che chiude un ciclo del mondo con la di- struzione totale di
esso ad opera del fuoco. CONFLITTO (ingl. Conflict; franc. Conflit; ted.
Wiederstreit). Contraddizione, opposizione o lotta di principi, proposizioni o
atteggiamenti. Kant chiamò « C. di tesi » le anrinomie (v.). Hume aveva parlato
di un C. tra la ragione e l'istinto: l’istinto che porta a credere, la ragione
che mette in dubbio ciò che si crede (Treatise, I, Introduzione). CONFUSIONE.
V. DIsTINZIONE. CONFUTAZIONE (gr. &eyxos; lat. Confu- tatio; ingl.
Confutation; franc. Réfutation; ted. Wi- derlegung). Il metodo adoperato da
Socrate che consiste nel porre in luce ia contraddizione a cui CONNOTAZIONE 155
conduce l’asserzione dell’interlocutore e, perciò con- sente di liberare
l'interlocutore stesso dalla presun- zione di sapere. Questo procedimento fu
sempre ritenuto da Platone come la propedeutica indispen- sabile della ricerca
scientifica (Apol., 21a sgg.; Men., 84a-c; Sof., 230b sgg.). Aristotele definì
la C. come «la dimostrazione del contraddittorio » (El. Sof., I, 165a 2): cioè
come il sillogismo che ha come conclusione la proposizione che nega un’altra
conclusione (la quale così è « confutata »). Le C. (elenchi) sofistiche non
sono, secondo Ari- stotele, vere C.; e le due classi di esse (quelle che
utilizzano il modo di esprimersi e quelle che ne prescindono) sono non già
dimostrazioni negative, ma artifici o trucchi verbali che hanno lo scopo di ridurre
al silenzio l’avversario e di aver la meglio su di lui. CONGETTURA
(gr. elxaola.; lat. Conjectura; ingl.
Conjecture; franc. Conjecture; ted. Conjectur).
Secondo Platone, il più basso grado del conoscere
sensibile, quello che ha per oggetto le ombre e le imagini delle cose; al modo
in cui l’opinione, nello stesso grado sensibile, ha per oggetti le cose stesse
(Rep., VI, 510a Slle). Niccolò Cusano riprese la parola per indicare la natura
di tutta la conoscenza umana: la quale, come C., sarebbe una conoscenza per
alterità, cioè che rinvia a ciò che è altro da sè, la verità come tale, e solo
per tale rinvio è in rapporto con la verità e partecipa di essa. «La C. è
un’asserzione positiva che par- tecipa per alterità alla verità in quanto tale
» (De Conjecturis, I, 13). Nell’uso moderno questo ter- mine è sinonimo di
/potesi (v.). CONGIUNZIONE
(lat. Conjunctio; ingl. Con- junction; franc. Conjonction; ted. Konjunktion). Nella Logica scolastica è una propositio hypothetica
formata da due categorie unite dal segno «et» (« Socrates currit et Plato sedet
v). Nella Logica contemporanea è una proposizione molecolare formata da due (o
più) atomiche unite dal segno 4 v + 0 «4.» (tp.Q?). In entrambe le Logiche,
condizione necessaria e suffi- ciente per la verità di una C. è che entrambe le
proposizioni componenti siano vere. G. P. CONGRUENZA (lat. Congruentia; ingl.
Con- gruence; franc. Congruence; ted. Uebereinstimmung). Adeguazione. Per es.,
« ricompensa congrua » cioè adeguata al lavoro o al merito. In geometria, la C.
è la coincidenza delle figure per sovrapposi- zione sullo stesso piano. La
definizione della C. è fondamentale per la scelta di una geometria. Dice Reichenbach:
« La scelta di una geometria è arbi- traria solo finchè non si è specificata la
definizione della congruenza. Una volta stabilita tale definizione, diventa una
questione empirica il problema di quale geometria si adatta allo spazio fisico
» (cfr. A. Ein- steîn; Philosopher-Scientist, a cura di P. A. Schilpp, 1949,
pag. 295). Whitehead ha generalizzato questo concetto: « La C., egli ha detto,
è un esempio par- ticolare del fatto fondamentale del riconoscimento nella
percezione. Noi riconosciamo: non sempli- cemente nel senso di paragonare un
fattore natu- rale offerto dalla memoria con un fattore rivelato dalla
sensazione immediata, bensì nel senso che il riconoscimento prende posto nel
presente, senza alcun intervento della pura memoria » (The Concept of Nature,
1920, cap. VI; trad. ital., pag. 113). CONGRUISMO. È la dottrina controriformi-
stica della grazia efficace, cioè adeguata al merito. CONNATURA (ingl.
Connature). Sostantivo creato da Spencer per analogia con gli aggettivi «
connaturato » o « connaturale ». Secondo Spencer (Psychology, II, $ 289) una
delle tre idee (insieme con la coestensione e la coesistenza), implicita nel
ragionamento quantitativo e precisamente quella della identità delle cose
quanto alle loro specie; mentre la coestensione significa l’identità nella
quantità di spazio occupata e la coesistenza l’iden- tità nel tempo di
presentazione alla coscienza. CONNETTITVI (ingl. Connectives; franc. Con-
nectifs). Nella logica contemporanea, si chiamano così i simboli impropri (o
sincategorematici [v.])) che, combinati con uno o più costanti, formano o
producono una nuova costante. Le costanti o forme unite dai C. si chiamano
operandi. Un C. si chiama singolare, binario, ternario, ecc., a seconda del
numero dei suoi operandi. I C. sono quelli espressi dalle parole e, 0, non,
se... allora. Si adopera comunemente la giustapposizione degli operandi per
denotare la congiunzione: così «‘p.qg’* significa « p e g*. Si adopera il segno
v per de- notare la disgiunzione inclusiva; così « p v g» si- gnifica «p 09 o
entrambi ». Si adopera il segno + per denotare la disgiunzione esclusiva; così
«p + g » significa « p o g ma non entrambi». Si adopera il segno — per indicare
la negazione: così « — p+ significa « non p». Per il C. se... allora, v. ConDI-
ZIONALE, IMPLICAZIONE. Le notazioni citate sono le più comuni, ma non sono le
sole. Per altri sistemi di simboli vedi le note al $ 05 della Introduction to
Mathematical Logic, 1956, di CHURCH. CONNOTAZIONE (lat. Connotatio; inglese
Connotation; franc. Connotation). L'aggettivo con- notativus compare nella
logica della tarda Scolastica a proposito di una distinzione dei nomi in
assoluti e connotativi. Secondo Ockham, sono assoluti i nomi che non
significano qualche cosa principal- mente e qualche altra cosa secondariamente,
per es., il nome « animale ». Sono invece connotativi i nomi che significano
qualche cosa in linea primaria e qualche cosa in linea secondaria: per es., i
nomi relativi, quelli che appartengono al genere della quantità e anche nomi
come «uno», «bene», « vero », « intelletto », « potenza », ecc. (Summa Log., I,
10). Questa distinzione divenne abituale nella logica posteriore. Nell’età
moderna la distinzione fu ripresa da James Mill nella sua Analisi dei feno-
meni dello spirito umano (1829) che usava la parola «connotare » in ogni caso
in cui il nome, che in- dica direttamente una cosa (la quale costituisce perciò
il suo significato) include anche un riferi- mento a qualche altra cosa. L’uso
della parola fu radicalmente mutato da Stuart Mill, il quale ado- però la
parola per esprimere «il modo in cui un nome concreto generale serve a
designare gli attri- buti che sono impliciti nel suo significato ». Con-
seguentemente Mill distinse la C. dalla denotazione: «Ogni volta che i nomi
dati agli oggetti apportano qualche informazione, cioè ogni volta che essi,
propriamente, hanno un significato, il significato risiede non in ciò che essi
denotano, ma in ciò che essi connotano. I soli nomi di oggetti che non con-
notano niente sono i nomi propri; e questi, stretta- mente parlando, non hanno
significato » (Logic, I, 2, $ 5). In questo senso i nomi degli attributi sono
connotativi, perchè la parola « bianco » non denota tutti gli oggetti bianchi,
ma connota l’attributo della bianchezza. Nomi connotativi sono anche « il primo
imperatore di Roma » o « l’autore dell’Iliade +, ecc. Questo concetto di C.
corrispondeva a quello che la Logica di Porto Reale aveva designato col termine
di comprensione (v.). Alla coppia compren- sione-estensione della Logica di Porto
Reale corri- sponde perciò la coppia C.-denorazione della Lo- gica di Stuart
Mill e quella intensione-estensione (v.) della logica leibniziana e
contemporanea. Qualche volta, tuttavia, è stato fatto il tentativo di distin-
guere C. da comprensione, adottando entrambi i termini. Così J. N. Keynes
(Forma! Logic, I, 2) e Goblot (Traité de logique, $ 72) dettero a «C.» il
significato più ristretto di ciò che è compreso nella definizione convenzionale
di un termine, e a « comprensione » il significato più ampio di com- prensione
totale che includa tutte le determinazioni non escluse dalla definizione
stessa. Questa distin- zione tuttavia non è stata seguita e il termine mo-
derno di intensione comprende entrambi i signifi- cati proposti per
comprensione e connotazione. CONOSCENZA (gr. visow; lat. Cognitio; ingl.
Knowledge; franc. Connaissance; ted. Erkennt- niss), In generale, una tecnica per
l’accertamento di un oggetto qualsiasi, o la disponibilità o il pos- sesso di
una tecnica siffatta. Per tecnica di accer- tamento va intesa una qualsiasi
procedura che renda possibile la descrizione, il calcolo o la pre- visione
controllabile di un oggetto; e per oggetto va intesa qualsiasi entità, fatto,
cosa, realtà o proprietà, che possa essere sottoposto a una tale procedura.
Tecnica in questo senso è l’uso normaledi un organo di senso come la messa in
opera di complicati strumenti di calcolo: entrambi questi procedimenti
consentono infatti accertamenti con- trollabili. Non è da presumersi che tali
accertamenti siano infallibili ed esaurienti: cioè che sussista una tecnica di
accertamento tale che, una volta adope- rata nei confronti di una C. x, renda
inutile il suo ulteriore impiego nei confronti della stessa C., senza che
questa perda nulla della sua validità. La controllabilità delle procedure di
accertamento, grossolane o raffinate che siano, significa la ripe- tibilità
delle loro applicazioni, sicchè una C. « ac- certabile » o più semplicemente
una «C.+ rimane tale solo finchè sussiste la possibilità dell’accer- tamento.
Le tecniche di accertamento possono avere, tuttavia, i più diversi gradi di
efficacia e possono, al limite, avere efficacia minima o nulla: in questo caso,
decadono di diritto dal rango di conoscenze. « La C. di x» significa infatti
una pro- cedura che è in grado di fornire qualche informa- zione controllabile
intorno a x cioè che consenta di descriverlo, calcolarlo o prevederlo in certi
li- miti. La disponibilità o il possesso di una tecnica conoscitiva designa la
partecipazione personale a questa tecnica. «Io conosco x» significa (salvo
limitazioni) che sono in grado di porre in opera una procedura che rende
possibile la descrizione, il calcolo o la previsione di x. Il significato
perso- nale o soggettivo di C. è perciò da ritenersi secon- dario e derivato:
il significato primario è quello oggettivo e impersonale su esposto. Questo
signi- ficato primario consente pure di distinguere age- volmente la credenza
dalla C.: la credenza (v.) è l’impegno alla verità di una nozione qualsiasi,
anche non accertabile; la C. è una procedura di accertamento o la
partecipazione possibile ad una tale procedura. Come procedura di accertamento,
ogni opera- zione conoscitiva è diretta ad un oggetto e ténde a instaurare con
l’oggetto stesso un rapporto dal quale emerga una caratteristica effettiva di
esso. Pertanto le interpretazioni della C. che sono state date nel corso della
storia della filosofia si possono considerare come interpretazioni di questo
rapporto e come tale ricondurre a due alternative fondamen- tali: 1° per la
prima di esse, quel rapporto è una identità o simiglianza (intendendosi per
simiglianza un’identità debole o parziale) e l'operazione cono- scitiva è una
procedura di identificazione con l'oggetto o di riproduzione di esso; 2° per la
se- conda alternativa, il rapporto conoscitivo è una presentazione dell’oggetto
e l’operazione conosci- tiva una procedura di trascendenza. 1° La prima
interpretazione è quella più co- munemente ricorrente nella filosofia
occidentale. Essa si può a sua volta dividere in due fasi di- CONOSCENZA 157
verse: A) nella prima di esse, l’identità o la simi- glianza con l’oggetto
viene intesa come identità o simiglianza degli elementi della C. con gli
elementi dell’oggetto: per es., dei concetti o delle rappre- sentazioni con le
cose; 8) nella seconda fase, invece, l’identità o la simiglianza viene
ristretta all’ordine dei rispettivi elementi: nel qual caso l’operazione del
conoscere consiste nel riprodurre, non già l’og- getto, ma i rapporti
costitutivi dell’oggetto stesso cioè l’ordine dei suoi elementi. Nella prima
fase la C. è considerata come un’immagine o ritratto del- l'oggetto; nella
seconda fase, sta con l’oggetto nello stesso rapporto in cui una carta
geografica sta col paesaggio che rappresenta. A) La prima fase costituisce la
forma nella quale la dottrina della C. come identificazione è apparsa nel mondo
antico. I presocratici la espres- sero col principio che « il simile conosce il
simile », per cui Empedocle affermava che conosciamo la terra con la terra,
l’acqua con l’acqua, ecc. (Fr. 105, Diels). Varianti di questo principio
possono essere considerati sia l’affermazione di Eraclito « ciò che si muove
conosce ciò che si muove » (ARIST., De an., I, 2, 405 a 27) sia quella di
Anassagora secondo la quale «l’anima conosce il contrario col con- trario »
(TEOFR., De sens., 27). Quest'ultima infatti sembra alludere più ad una
condizione della C. — che presuppone la diversità, come dirà Aristo- tele (De
an., II, 5, 417a 16) — che allo stesso atto conoscitivo, come ìndica la
giustificazione che gli viene data: «il simile infatti non può subire l’azione
del simile ». Ma furono Platone e Aristo- tele che stabilirono su solide basi
questa interpre- tazione della conoscenza. L’incontro del simile col simile,
l'omogeneità, sono i concetti di cui Platone si serve per spiegare i processi
conoscitivi (7im., 45 c, 90c-d): conoscere significa rendere simile il pensante
al pensato. Di conseguenza, i gradi di C. si modellano sui gradi dell'essere:
non si può co- noscere con certezza cioè con « saldezza » ciò che non è saldo
perchè la C. non fa che riprodurre l’oggetto; sicchè « ciò che assolutamente è,
è asso- lutamente conoscibile, mentre ciò che non è in nessun modo, in nessun
modo è conoscibile» (Rep., 477 a). In tal modo all'essere, Platone fece
corrispondere la scienza, che è la C. vera; al non essere l’ignoranza e al
divenire, che sta in mezzo tra l'essere e il non essere, l’opinione che sta in
mezzo tra la C. e l’ignoranza. E distinse i seguenti gradi della C.: 1° la
supposizione o congettura che ha per oggetto ombre ed immagini delle cose
sensibili; 2° l’opinione creduta ma non verificata che ha per oggetto le cose
naturali, gli esseri viventi e in generale il mondo sensibile; 3° la ragione
scien- tifica che procede per via d’ipotesi ed ha per oggetto gli enti
matematici; 4° l'intelligenza filosofica che procede dialetticamente ed ha per
oggetto il mondo dell’essere (Zbid., VI, 509-10). Ognuno di questi gradi di C.
è la copia esatta del suo oggetto ri- spettivo: sicchè non c’è dubbio che
conoscere sia per Platone stabilire in ogni caso con l'oggetto un rapporto
d’identità o che si avvicini quanto più possibile all’identità. In forma ancora
più rigorosa questo punto di vista veniva realizzato da Aristo- tele. Secondo
Aristotele, la C. in atto è identica con l’oggetto conosciuto: è cioè la stessa
forma sen- sibile dell’oggetto, se si tratta di C. sensibile; è la stessa forma
intelligibile (o sostanza) dell’oggetto se si tratta di C. intelligibile (De
an., II, 5, 417 a). La facoltà sensibile e l’intelletto potenziale sono,
s’intende, semplici possibilità di conoscere; ma quando queste possibilità si
realizzano, per l’azione delle cose esterne la prima, per l’azione dell’intel-
letto attivo la seconda, s’identificano con i rispettivi oggetti e, per es.,
l’udire un suono (sensazione in atto) s’identifica con il suono stesso come
l’in- tendere una sostanza s’identifica con la sostanza stessa. Aristotele può
affermare perciò in generale che «la scienza in atto è identica col suo oggetto
» (De an., III, 7, 431 a 1). Questa dottrina aristotelica si può considerare
come la forma tipica dell’interpretazione della C. come identità con l’oggetto.
Tale interpretazione domina, con l’eccezione degli Stoici, il corso ulte- riore
della filosofia greca. Per Epicuro il flusso dei simulacri (eidola) che si
staccano dalle cose e si imprimono sull’anima serve appunto a garantire la
simiglianza delle immagini con le cose (Ep. @ Erod., 51). E Plotino si avvale
dello stesso concetto per chiarire la natura della conoscenza. La C. si ha
quando la parte dell'anima con cui si conosce si unifica e fa tutt'uno con l'oggetto
conosciuto. Se l’anima e quest’oggetto rimangono due, l’og- getto rimane
esterno all’anima stessa e la cono- scenza di esso rimane inoperante. Solo
l'unità dei due termini costituisce la conoscenza vera (Enn., III, 8, 6). Nella
filosofia cristiana la stessa inter- pretazione prevale, ed è anzi il
fondamento delle più caratteristiche speculazioni teologiche e antro-
pologiche. Secondo S. Agostino, l’uomo può co- noscere Dio in quanto egli
stesso è immagine di Dio. Memoria, intelligenza e volontà, nella loro unità e
distinzione reciproca, riproducono nel- l’uomo la trinità divina di Essere,
Verità e Amore (De Trin., X, 18). Questa nozione, pur variando nei particolari
dominò l’intera teologia medievale e fu anche il fondamento dell’antropologia.
Ma da essa derivava una conseguenza importante per la C. che l’uomo ha delle
cose inferiori a Dio. Il riconoscimento dell’origine divina dei poteri umani
(in quanto immagini dei poteri divini) rende i poteri umani relativamente
indipendenti dagli altri oggetti conoscibili e accentua l’importanza del sog-
getto conoscente. Per Aristotele, la facoltà sen- sibile e l’intelletto
potenziale non sono che i loro stessi oggetti «in potenza»: non hanno nessuna
indipendenza di fronte a questi oggetti. Ma S. Ago- stino afferma invece che
«ogni C. (noritia) deriva insieme dal conoscente e dal conosciuto» (/bid., XIX,
12), mettendo così sullo stesso piano l’oggetto conosciuto e il soggetto
conoscente come condi- zione della conoscenza. S. Tommaso, pur sanzio- nando
esplicitamente il principio che ogni C. av- viene per assimilationem (Contra
Gent., II, 77) o per unionem (In Sent., I, 3, 1) della cosa conosciuta e
dell’oggetto conoscente, afferma che «l’oggetto conosciuto è nel conoscente
secondo la natura del conoscente stesso » (De Ver., q. 2, a.1; S. Th., I, q.
83, a. 1); e così il peso del soggetto viene a bilan- ciare nel conoscere il
peso dell’oggetto. Questo punto di vista porta a temperare la tesi aristotelica
secondo la quale la C. in atto è l’oggetto stesso. S. Tommaso, commentando
l’affermazione aristo- telica che « l’anima è tutte le cose » (De an., III, 8,
431 b 20) la attenua nel senso che l’anima non è le cose ma le specie delle
cose. Ma la specie non è altro che la forma della cosa: C. è quindi astra-
zione: astrazione della forma dalla materia indivi- duale, dell’universale dal
particolare. La specie deli- mita così, per S. Tommaso, il confine
dell'identità tra il conoscente e il conosciuto;ma il conoscere rimane
identità. A sua volta, S. Bonaventura, pur rimanendo fedele al principio
agostiniano di un lumen directivum che l’uomo attinge direttamente da Dio e da
cui derivano certezza e verità, ammette che il materiale della C. è costituito
da specie che sono immagini, similitudini 0 « quasi pitture » delle cose stesse
(/n Sent., I, d. 17, a. 1, q. 4). Se l’ultima scola- stica segna il prevalere
di una diversa interpreta- zione del conoscere (v. oltre), il Rinascimento con-
serva in generale l’interpretazione della C. come identità o simiglianza.
Cusano dice esplicitamente che l’intelletto non intende se non si assimila a
ciò che deve intendere (De mente, 3; De lglobi, 1; De venatione sapientiae, 29)
e Ficino dice che la C. è l’unione spirituale con qualche forma spirituale
(Theol. Plat., III, 2). I naturalisti non si esprimono in modo diverso: Bruno
riprende il principio presocratico che ogni simile si conosce col simile; e
Campanella afferma « noi conosciamo ciò che è, perchè ci rendiamo simili ad
esso » (Mer., I, 4, 1). Il pitagorismo dei fondatori della nuova scienza,
Leonardo, Copernico, Keplero, Galilei, ha un presupposto analogo: il
procedimento matema- tico della scienza si giustifica perchè la natura stessa
ha struttura matematica: nel senso che, come Galilei dice, i caratteri in cui è
scritto il libro della natura sono triangoli, cerchi, ecc. (Opere, VI, pag.
232). CONOSCENZA Nella filosofia moderna, la dottrina che il cono- scere è
un’operazione di identificazione assume tre forme principali, a seconda che
tale operazione si ritiene effettuata mediante: a) la creazione che il soggetto
fa dell'oggetto; 5) la coscienza; c) il lin- guaggio. a) L’idealismo romantico
e le sue diramazioni contemporanee hanno affermato la tesi che cono- scere
significa porre, cioè produrre o creare, l’og- getto: tesi la quale consente di
riconoscere nell’og- getto stesso la manifestazione o l’attività del soggetto.
Questa tesi fu per la prima volta affer- mata da Fichte. « La rappresentazione
in generale, egli disse, è inconfutabilmente un effetto del Non-io. Ma nell’Io
non può esserci assolutamente nulla che sia un effetto; perchè l’Io è quel che
esso si pone e non v’è nulla in lui che non sia posto da lui. Quindi quello
stesso Non-io dev'essere un ef- fetto dell’Io, anzi dell'Io assoluto e così non
ab- biamo un’azione sull’Io dal di fuori ma solo una azione dell’Io su se
stesso» (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, D. Da questo punto di vista il
Non-io, cioè l’oggetto, non è che l’Io stesso cioè il soggetto: l’identità con
l’oggetto è così garan- tita dalla stessa definizione della conoscenza. La
quale, ovviamente, è una definizione arbitraria che non ha effetto sulla
riuscita o meno degli effettivi atti di C. e non serve perciò nè a dirigere nè
a chiarire questi atti. Il principio affermato da Fichte fu tuttavia tra quelli
che costituirono i pilastri del movimento romantico (v. ROMANTICISMO); e uno
dei luoghi comuni più perniciosi e stucchevoli, quello del «potere creativo
dello spirito », trova in esso la sua origine. Di esso Schelling non faceva che
chiarire il significato quando affermava: « Nello stesso fatto del sapere —
quando io so — l’ogget- tivo e il soggettivo sono così uniti che non si può
dire a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo:
sono entrambi contem- poranei e costituiscono un tutto unico » (System des
transzendentalen Idealismus, Intr., $ 1). Il concetto del conoscere come
processo di unificazione domina da un capo all’altro la filosofia di Hegel. La
protago- nista di questa filosofia, l’Idea, è la coscienza che si realizza,
gradualmente e necessariamente, come unità con l’oggetto. Dice Hegel: « L'Idea
è in primo luogo uno degli estremi di un sillogismo in quanto è il concetto che
ha come scopo innanzitutto se stesso come realtà soggettiva. L’altro estremo è
il limite del soggettivo, il mondo oggettivo. I due estremi sono identici
nell’essere l’Idea. L’unità loro è in primo luogo quella del concetto che
nell’uno di essi è soltanto per sè, nell’altro soltanto in sè; in se- condo
luogo, la realtà è astratta nell’uno, mentre nel-
l’altro è nella sua esteriorità completa.
Questa unità viene ora posta per mezzo del conoscere » (Wissen- CONOSCENZA
schaft der Logik, III, 3, cap. II; trad. ital., pag. 282). Il conoscere è così
il processo che unifica il mondo soggettivo con il mondo oggettivo; o meglio
che porta alla coscienza l’unità necessaria dei due. Tutte le forme
dell’idealismo contemporaneo si attengono a questa dottrina. Croce la introduce
chiamando «concreto» il concetto: per il qual carattere si dovrebbe escludere
che esso sia « uni- versale e vuoto», « universale e inesistente» ed ammettere
che esso comprende in sè « l'atto logico universale » e il « pensamento della
realtà » che è poi la stessa realtà (Logica, 4° ediz., 1920, pag. 29). Gentile
affermava: « Conoscere è identificare, su- perare l’alterità come tale »
(Teoria generale dello Spirito, 2, $ 4). A sua volta Bradley, più critica-
mente, considerava questa identificazione come un ideale-limite irrealizzabile
in noi, ma realizzato nella Coscienza assoluta nella quale C. ed essere, verità
e realtà coincidono (Appearance and Reality, pag. 181). 5) Lo spiritualismo
moderno in tutte le sue manifestazioni considera il conoscere come un rap-
porto interno della coscienza cioè come un rapporto della coscienza con se
stessa. Questa interpreta- zione garantisce l’identità del conoscere con l’og-
getto: giacchè l’oggetto, da questo punto di vista, non è che la coscienza
stessa o almeno un suo prodotto o una sua manifestazione. Schopenhauer così
esprimeva questa dottrina: « Nessuno può mai uscire da sè per identificarsi
immediatamente con cose diverse da sè: tutto ciò di cui egli ha C. si- cura,
quindi immediata, si trova dentro la sua coscienza » (Die Welt, II, cap. I).
Coscienza, senso intimo, introspezione, intùito, intuizione, sono i termini che
la filosofia moderna, a partire dal Romanticismo, adopera per indicare la C.
carat- terizzata dall’identità con il suo oggetto, perciò privilegiata nella
sua certezza. La considerazione di base è qui che, se il soggetto non può co-
noscere ciò che è altro da sè, la sola C. vera e originaria è quella che esso
ha di se stesso. Su questa base Maine de Biran vedeva nel « senso intimo » la
sola C. possibile e ne interpretava le testimonianze come verità metafisiche
(Essais sur les fondements de la psychologie, 1812). Altre volte, la coscienza,
anche detta intùito o intuizione, è in- terpretata come la rivelazione che Dio
fa all'uomo o di un suo attributo fondamentale (per es., del- l'essere, come
afferma ROSMINI, Nuovo saggio, $ 473) o del suo stesso processo creativo, come
fa Gioberti (Znrr. allo studio della fil., II, pag. 183). In modo analogo,
l’intuizione di cui parla Bergson come « visione diretta dello spirito da parte
dello spirito » (La Pensée et le Mouvant, pag. 37) è una procedura privilegiata
di C., nella quale il termine oggettivo è identico con il soggettivo. E quando
Husserl ha voluto chiarire il modo d’essere privi- legiato della coscienza, ha
chiamato « percezione immanente » quella che la coscienza ha delle proprie
esperienze vissute: perchè l’oggetto di essa appar- tiene alla stessa corrente
di coscienza a cui appar- tiene la percezione (/deen, I, $ 38). La percezione
immanente, cioè la coscienza è, su questa base, considerata da Husserl assoluta
e necessaria: in essa «non vi è posto per discordanza, apparenza, possibilità
di essere altra cosa. Essa è una sfera di assoluta posizione + (/bid., $ 46).
La esemplifi- cazione fin qui data può bastare per questo punto di vista, che è
molto diffuso nella filosofia contem- poranea ma, nonostante la varietà delle
sue espres- sioni, altrettanto uniforme. c) Il positivismo logico ha
paradossalmente trasportato nel linguaggio, in cui esso vede la vera e propria
operazione conoscitiva, la dottrina del carattere identificatorio di questa
operazione. Witt- genstein afferma che «la proposizione può essere vera o falsa
solo in quanto è una imagine (Bild) della realtà » (Tractatus, 4.06). Che la
proposizione sia un’imagine della realtà, Wittgenstein lo prova così: «Io
infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata se capisco la
proposizione. E capisco la proposizione senza che il suo senso mi venga
spiegato » (/bid., 4.021). A prima vista, egli aggiunge, «non sembra che la
proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta, sia una imagine della
realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista
una imagine della musica nè la nostra scrittura fo- netica (a lettere) sembra
un’imagine del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si di-
mostrano, anche nel senso ordinario del termine, come imagini di ciò che
rappresentano» (/bid., 4.011). L’insistenza sulla nozione di imagine in- dica
chiaramente che Wittgenstein condivide la vecchia interpretazione del conoscere
come opera- zione di identificazione. Egli infatti dice: « Ci deveessere
qualcosa di identico nell’imagine e nel-l’oggetto raffigurato affinchè quella
possa essere l’imagine di questo » (/bid., 2.161). Ma questo qualcosa di
identico è « la forma di raffigurazione » (Ibid., 2.17). E la forma di raffigurazione
è «la possibilità che le cose stiano l’una rispetto all’altra come stanno tra
loro gli elementi dell’imagine » (Ibid., 2.151). E questo sembra rinviare alla
inter- pretazione 8) del rapporto identificatorio. B) La seconda fase della
dottrina della C. come identificazione nasce con la filosofia moderna e
precisamente con Cartesio. Il principio carte- siano che l’idea è il solo
oggetto immediato della C. e che perciò l’esistenza dell’idea nel pensiero non
dice nulla sull’esistenza dell’oggetto rappresentato, metteva ovviamente in
crisi la dottrina del cono- scere come identificazione con l'oggetto: l’oggetto
è infatti, in questo caso, chiaramente irraggiungi- bile. Cartesio aveva
continuato a concepire l’idea come «quadro» o «imagine» della cosa (Méd., TIM);
ma già in lui compare la tendenza (cfr. Re- gulae, V) a scorgere nella C., più
che l'assimilazione o l’identità dell’idea coll’oggetto conosciuto, l’as-
similazione e l’identità dell’ordine delle idee con l’ordine degli oggetti
conosciuti. Malebranche, il quale ammette che l’uomo vede direttamente in Dio
le idee delle cose e considera perciò fortemente problematica la realtà delle
cose stesse, ammette tuttavia questa realtà come fondamento dell’ordine e della
successione delle idee nell’uomo; ordine e successione non avrebbero senso,
egli pensa, se non coincidessero con l’ordine e la successione delle cose cui
le idee si riferiscono (Entretien sur la Métaphy- sique, I, 6-7). Spinoza che
ammette tre generi di C. (la percezione sensibile e l’imaginazione; la ra-
gione con le sue nozioni comuni e universali; la scienza intuitiva) ritiene che
solo i due ultimi con- sentano di distinguere il vero dal falso perchè tolgono
l’idea dal suo isolamento e la collegano con le altre idee, situandola
nell’ordine necessario che è la stessa Sostanza divina (Er., II, 44). Locke che
definisce la C. come « la percezione dell’accordo e del legame o del disaccordo
e del contrasto delle idee tra di loro » (Saggio, IV, 1, 2) esige, affinchè
essa sia reale, che « le idee rispondano ai loro ar- chetipi » (Zbid., IV, 4,
8) e perciò definisce la verità come «l’unione o separazione di segni, secondo
che le cose significate da esse concordino o discor- dino tra di loro» (/bid.,
IV, 5, 2). Locke ritiene che questo riferimento ad oggetti reali non sia
indispensabile alla C. matematica e a quella mo- rale, mentre lo è alla « C.
reale » che ha per oggetto sostanze (/bid., IV, 4, 12). Per Leibniz, accanto
alla C. @ priori, fondata sui princìpi costitutivi dell’intelletto c'è una C.
rappresentativa la quale consiste nella simiglianza delle rappresentazioni con
la cosa (Nouv. Ess., IV, 1, 1). Ma l’una e l’altra C. fanno dell'anima «uno
specchio vivente, per- petuo dell’universo » perchè entrambe sono fon- date sul
legame che tutte le cose create hanno tra loro sì che « ciascuna sostanza
semplice ha rapporti che esprimono tutti gli altri » (Monad., 56). In tutte
queste notazioni, sebbene non venga negato il ca- rattere di simiglianza o di
imagine degli elementi conoscitivi, la C. viene intesa propriamente come
identità con l’ordine oggettivo. L'oggetto di essa è propriamente quest'ordine
e il conoscere è l’ope- razione che ténde a identificare o identificarsi con
esso e non già con gli elementi singoli tra i quali intercede. A questo proposito
la « rivoluzione co- pernicana » di Kant non consiste nell’innovare ra-
dicalmente questo concetto di C., quanto nell’am- mettere che l’ordine
oggettivo delle cose si modella CONOSCENZA sulle condizioni della C. e non
viceversa. Le ca- tegorie sono infatti considerate da Kant come « concetti che
prescrivono leggi a priori ai fenomeni e perciò alia natura come insieme di
tutti i feno- meni » (Crit. R. Pura, $ 26). I fenomeni non es- sendo « cose in
se stesse » ma « rappresentazioni di cose » devono per essere tali esser
pensati e così sottostare alle condizioni del pensiero che sono appunto le
categorie. L’ordine oggettivo della na- tura non è quindi altro, secondo Kant,
che l’ordine stesso dei procedimenti formali del conoscere in quanto
quest'ordine si è incorporato in un con- tenuto oggettivo che è il materiale
sensibile dell’in- tuizione. Da questo punto di vista il conoscere non è
un’operazione di assimilazione o di identi- ficazione, ma di sintesi; e come
tale va considerato sotto l’altra rubrica, della C. come trascendenza. Tutta
questa fase della dottrina della C. come assimilazione, per cui l’oggetto
dell’assimilazione è l'ordine, si può considerare come situata fra la prima e
la seconda interpretazione principale del conoscere: cioè tra l’interpretazione
del conoscere come assimilazione e l’interpretazione del cono- scere come
trascendenza. 2° Per la seconda interpretazione fondamentale, la C. è
un’operazione di trascendenza. Secondo questa dottrina, conoscere significa
venire in pre- senza dell’oggetto, puntare su di esso 0, col termine preferito
dalla filosofia contemporanea, trascendere verso di esso. La C. è allora
l'operazione in virtù della quale l’oggetto stesso è presente: o presente per
così dire in persona o presente in un segno che lo renda rintracciabile o
descrivibile o prevedi- bile. Questa interpretazione non si fonda su alcuna
assunzione di carattere assimilatorio o identificatorio: i procedimenti del
conoscere non mirano, per essa, a convertirsi con l’oggetto stesso del
conoscere. Mirano piuttosto a rendere presente questo oggetto come tale o a
stabilire le condizioni che rendono possibile la sua presenza, cioè consentono
di pre- vederla. La presenza dell’oggetto o la predizione di questa presenza,
ecco la funzione effettiva della C., secondo questa interpretazione. Per la
prima volta, tale interpretazione compare negli Stoici. Essi chiamavano
evidenti le cose che «vengono di per se stesse alla nostra C.+ come, per es.,
l’esser giorno; e chiamavano « oscure » quelle che sfuggono solitamente alla C.
umana. Tra queste ultime, distinguevano poi quelle oscure per natura, che non
cadono mai sotto la nostra evidenza, e quelle oscure momentaneamente ma
evidenti per natura (per es., la città di Atene a chi non vi risiede). Queste
due ultime specie di cose si comprendono per mezzo di segni; mediante segni
indicativi le cose oscure per natura (come, per es., il sudore si assume come
segno degli invisibili pori) CONOSCENZA e mediante segni rammemorativi le cose
evidenti per natura ma oscure momentaneamente (come il fumo è un segno del
fuoco) (SESTO EMP., Adv. Dogm., II, 141; /pot. Pirr., II, 97-102). Sono
riconoscibili in questa impostazione due tesi fondamentali, e cioè: 1° la C.
evidente consiste nella presenza della cosa, per cui la cosa «si manifesta da
sè» o «si comprende da sè » cioè si comprende come cosa, quindi come altro da
chi la comprende; 2° la C. non evidente avviene per mezzo di segni che rin-
Viano alla cosa stessa senza avere una qualsiasi identità o simiglianza con
essa. Questa dottrina degli Stoici è rimasta per lunghi secoli inoperante, come
una possibilità che la storia della filosofia ha trascurato. Comincia a
riaffac- ciarsi soltanto nella Scolastica del ’300, coi pen- satori che
criticano la dottrina della species come intermediaria della conoscenza. La
species, come si è visto, è una tesi tipica della dottrina dell’assi-
milazione: essa è infatti insieme l’atto della C. e l'atto dell’oggetto (come
forma o sostanza di que- st’ultimo). Ma Duns Scoto aveva distinto una C. «che astrae
dall’esistenza attuale della cosa » e che chiamava astrattiva, e una « C. della
cosa in quanto esiste ed è presente nella sua esistenza attuale » che aveva
chiamata inzuitiva (Op. Ox., II, d. 3, q. 9, n. 6). Ora la C. intuitiva (che è
da un latoquella sensibile, dall’altro quella intellettuale che ha per oggetto
la sostanza o natura comune, per es., la natura umana) non ha bisogno di specie
perchè ad essa è direttamente presente la cosa in persona. Solo la C.
astrattiva, cioè la C. intellettuale del-l'universale, ha bisogno di specie
(/bid., I, d. 3, q. 7, n. 2). A questa dottrina fa riferimento la Scolastica
del ’300. Durando di St.-Pourgains af- ferma che la specie è inutile perchè
l’oggetto stesso è presente al senso, e, attraverso il senso, anche all'intelletto
(Zr Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10); e che pertanto la C. universale non è che C.
confusa, nel senso che chi ha la C. universale, per es., della rosa, conosce
confusamente ciò che è intuito di- stintamente da chi vede la rosa che gli è
presente (Ibid., IV, d. 49, q. 2, n. 8). Per Pietro Aureolo l'oggetto della C.
è la stessa cosa esterna che as- sume, per opera dell’intelletto, un essere
intenzio- nale od obiettivo che non è diverso dalla stessa realtà individuale
della cosa (In Sent., I, d. 9, a. 1). Ockham a sua volta trasforma la teoria
scotistica della C. intuitiva in una teoria dell’esperienza ed afferma
l’immediata presenza della cosa alla C. in- tuitiva. «In nessuna C. intuitiva,
nè sensibile nè intellettiva, egli dice, la cosa si costituisce in un essere
intermedio tra la cosa stessa e l’atto di co- noscere; ma la cosa medesima
immediatamente e senza intermediario tra sè e l’atto, è vista ed ap- presa »
(In Sent., I, d. 27, q. 3, I). La C. intuitiva 11 — ABBAGNANO, Disionario di
filosofia. perfetta, che ha per oggetto una realtà attuale o presente, è
l’esperienza (/bid., II, q. 15, H); quella imperfetta, che concerne un oggetto
passato, de- riva sempre da un’esperienza (/bid., IV, q. 12, Q). A sua volta,
la C. astrattiva, che prescinde dalla realtà o irrealtà dell’oggetto deriva da
quella in- tuitiva ed è una intentio o signum. Ockham ripro- duce così
l’interpretazione degli Stoici: quando la realtà non è presente alla C. «in
persona», si annuncia o si manifesta nel segno. La validità del segno
concettuale, che a differenza di quello lin- guistico non è arbitrario o
convenzionale ma na- turale, deriva dal fatto che esso è prodotto natu-
ralmente, cioè causalmente, dall’oggetto stesso, sicchè la sua capacità di
rappresentare l'oggetto non è altro che questa sua connessione causale con esso
(Quodi., IV, q. 3). Ockham si avvale poi per illustrare la funzione logica del
segno di quel concetto della suppositio che era stato elaborato dalla logica
del ’200 (v. SEGNO; SUPPOSIZIONE). Nel sec. xv i capisaldi di questa dottrina
venivano riprodotti da Hobbes: per il quale la sensazione, che è il fondamento
di ogni C., è il manifestarsi della cosa attraverso il movimento da essa
impresso all’organo di senso (Leviath., I, 1; De Corp., 25,82). Alla causalità
della cosa esterna, cui questi filosofi attribuiscono la C., Berkeley
sostituiva la causalità di Dio: la teoria che le cose conosciute sono segni
mediante i quali Dio parla ai sensi o all’intelli- genza dell’uomo per
istruirlo su ciò che deve fare (Principles of Knowledge, $ 108-09) è una
trascrizione teologica di questa dottrina della conoscenza. Nel frattempo, con
il cartesianesimo e specialmente con Locke, si era venuto formando il concetto
della C. come operazione unificatrice: unificatrice di idee, cioè di stati che
cadono dentro la coscienza, ma ilcui collegamento corrisponde o deve
corrispondere a quello delie cose [v. 1° B)]. Eliminata da Berkeley la sostanza
materiale e da Hume ogni specie di sostanza, il collegamento tra le idee veniva
ad esaurire la funzione dell’attività conoscitiva. Così Hume ritiene che ogni
operazione conoscitiva sia un'operazione di connessione fra le idee: operazione
di connessione è il ragionamento per il quale si mostra il legame che le idee
hanno tra loro, indipen- dentemente dalla loro esistenza reale; operazione di
connessione tra le idee è la C. della realtà di fatto. Nel primo caso la
connessione è certa perchè non dipende da nessuna condizione di fatto; nel
secondo caso si fonda sulla relazione di causalità. Ma questa stessa relazione
non ha altro fondamento che la ripetizione di una certa successione di eventi e
l'abitudine che tale ripetizione determina nel- l’uomo (/ng. Conc. Underst.,
IV, 1). Questo concetto della C. come operazione di connessione o di
collegamento, che non ha più niente a che fare con l’identificazione o
l’assimila- zione con l'oggetto, è detta da Kant operazione di sintesi. La
sintesi è in generale « l’atto di riunire diverse rappresentazioni e
comprendere la loro molteplicità in una C.» (Crit. R. Pura, $ 10). Ma la
sintesi conoscitiva non è solo, per Kant, una operazione di collegamento tra
rappresentazioni: è anche un’operazione di collegamento con l’og- getto di
queste rappresentazioni per il tramite del- l’intuizione. «Se una C. deve avere
una realtà oggettiva, dice Kant, cioè riferirsi a un oggetto e avere in esso
significato e senso, l’oggetto deve, in un modo qualsiasi, poter essere dato.
Senza di questo, i concetti sono vuoti, e se anche con essi si pensa, in fatto
questo pensiero non conosce nulla ma soltanto gioca con le rappresentazioni.
Dare un oggetto, se questo a sua volta non deve essere opinato indirettamente
ma rappresentato immediatamente nell’intuizione, non è altro che connettere la
sua rappresentazione con l’esperienza (sia questa reale o possibile) » (Ibid,
Analitica dei princìpi, cap. II, sez. ID. Pensare un oggetto e conoscere un
oggetto non sono dunque la stessa cosa. «La C. comprende due punti: in primo
luogo un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria) e in
secondo luogo l’in- tuizione con cui esso è dato +» (/bid., $ 22). L’in-
tuizione ha questo privilegio: che essa si riferisce immediatamente all’oggetto
e che per mezzo di essa l'oggetto è dato (/bid., $ 1). Sicchè non c’è dubbio
che l’operazione del conoscere ténda a rendere pre- sente l’oggetto nella sua
realtà: un oggetto, s'intende, che è fenomeno, giacchè la « cosa in sè » è, per
de- finizione, estranea a ogni rapporto conoscitivo. Senza questa limitazione
relativistica, che a Kant, come a tutta la filosofia illuministica, era
suggerita dall’impostazione cartesiano-lockiana della analisi della C., il
concetto della C. come dell’operazione del riferirsi o del rapportarsi con
l’oggetto e perciò pure del processo per cui l’oggetto si offre o si presenta
in persona, diventa, nella filosofia con- temporanea, proprio della
fenomenologia e delle correnti che ad essa fanno capo. « Ad ogni scienza, dice
Husserl, corrisponde un campo oggettivo come dominio delle sue indagini e a
tutte le sue C., cioè ai suoi corretti enunciati, corrispondono determi- nate
intuizioni che ne costituiscono il fondamento di legittimità; in quanto in esse
gli oggetti del campo si presentano in datità personale e, almeno par-
zialmente, in datità originaria » (/Zdeen, I, $ 1). Così l’esperienza, che
abbraccia tutta la C. naturale, è un'operazione intuitiva attraverso la quale
unoggetto specifico, la cosa, è data nella sua realtà originaria. L’esperienza
è in questo senso un atto fondante, non sostituibile da un semplice immagi- nare.
Dall’altro lato, la C. geometrica, che non CONOSCENZA ricerca realtà ma
possibilità ideali, ha come suo atto fondante la visione dell’essenza: tale
visione, esattamente come la percezione empirica, rende at- tuale e presenta in
persona un oggetto: che però non è la cosa dell’esperienza ma l’essenza (/bid.,
$ 8). Considerando la C. da un punto di vista più generale si può dire che
«ogni specie di essere ha per essenza i suoi modi di darsi e quindi il suo
metodo di C. » (/bid., $ 79); e la ricerca fenomeno- logica è, nel progetto di
Husserl, l’analisi di questi modi d’essere come « modi di datità ». In modo
ana- logo, per N. Hartmann la conoscenza è un processo di trascendenza che ha
il suo termine nell’essere «in sé » (Metaphysik der Erkenntnis, 1921, 48 ediz.,
1949, pag. 43 sgg.). In questa impostazione la contrapposi- zionetraartività e
passività nellaconoscenza (contrap- posizione che, nata da Kant, era stata
assunta come motivo polemico dal Romanticismo a cominciare da Fichte) ha
perduto ogni significato. Non è più que- stione di distinguere nel conoscere
l’aspetto attivo, che Kant chiamava « spontaneità intellettuale » dal-
l'aspetto passivo che per Kant era quello della sen- sibilità. Non si tratta
neppure di ridurre l’intera C. alla attività dell'io come ha fatto Fichte e con
lui la intera filosofia romantica, che ha considerato come « infinita » cioè
senza limiti e quindi creatrice questa attività e come tale l’ha esaltata. La
prospettiva storica, che lo stesso Romanticismo ha fatto pre- valere, del contrasto
fra la concezione « classica » cioè antica e medievale per la quale
l’operazione del conoscere sarebbe dominata dall’oggetto, di fronte a cui
l’oggetto è passivo; e la concezione moderna o romantica per la quale la C.
sarebbe attività del soggetto e manifestazione del suo potere creatore, questa
prospettiva stessa appare ora fitti- zia. Si tratta infatti di una prospettiva
interna al Ro- manticismo e di un contrasto che esso ha teorizzato come motivo
polemico. Nè la filosofia antica nè le moderne concezioni oggettivistiche
pretendono stabilire o presuppongono la « passività » del sog- getto
conoscente. Al soggetto conoscente appar- tiene certamente l'iniziativa del
conoscere, anzi questa iniziativa definisce per l’appunto la sua soggettività.
Ma questo non implica nè attività nè passività nel senso stabilito da Fichte.
L'iniziativa del soggetto è invece diretta proprio a rendere presente o
manifesto l’oggetto, a rendere evidente la realtà stessa, a far parlare i
fatti. Ciò che si chiama, con termine abbreviativo, conoscere, è un insieme di
operazioni, talora molto diverse tra loro, che, in campi diversi mirano a far
emergere, nelle loro caratteristiche proprie, certi oggetti specifici. Da
questo punto di vista lo stesso « problema della C. + come sl è venuto
configurando nella seconda metà dell’800, sulla base dell’impostazione
romantica o della polemica contro di essa, come problema CONOSCENZA
dell’attività o della passività dello spirito o dei caratteri di quella sua
«categoria eterna» che sa- rebbe l’attività teoretica, è un problema che si è
dissolto sotto l’azione della fenomenologia da un lato e della filosofia della
scienza e del pragma- tismo dall'altro lato. Nell’àmbito della fenomeno- logia,
Heidegger parla infatti di un annullamento del problema della conoscenza. Il
conoscere non può essere inteso come ciò per cui l’Esserci (cioè l’uomo) « va
da un dentro a un fuori della sua sfera interiore, sfera in cui sarebbe in un
primo tempo incapsulato: al contrario l’Esserci, conformemente al suo modo d'essere
fondamentale è già sempre fuori, presso l’ente che gli viene incontro in un
mondo già sempre scoperto » (Sein und Zeit, $ 13). Secondo Heidegger, il
conoscere è un modo d’es- sere dell’essere-nel-mondo cioè del trascendere del
soggetto verso il mondo. Esso non è mai soltanto un vedere o un contemplare.
Dice Heidegger: «L'essere nel mondo, in quanto prendersi cura, è penetrato e
stordito dal mondo di cui si prende cura » (/bid., $ 13). Il conoscere è in
primo luogo la sospensione del prendersi cura cioè delle atti- vità comuni
della vita di ogni giorno come il ma- nipolare, il commerciare, ecc. Questa
sospensione rende possibile il semplice « osservare che è di volta in volta il
soffermarsi presso un ente, il cui essere è caratterizzato dal fatto che è
presente, che è qui». In questo fermarsi di ogni commercio e utilizzazione, si
realizza la percezione della sem- plice presenza. Il percepire si concretizza
nelle forme dell’interpellare e del discutere intorno a qualcosa in quanto
qualcosa. Sul fondamento di questo interpretare in senso larghissimo, il perce-
pire si fa un determinare. Il percepito o il determi- nato può essere espresso
in proposizioni, nonchè ritenuto e conservato in quanto asserito. Questo ri-
tenimento percettivo d’una asserzione intorno a... è una aniera di essere nel
mondo e non può es- sere considerato come un procedimento in virtù del quale un
soggetto riceverebbe immagini da qualche cosa, immagini che sarebbero di con-
seguenza sperimentate come «interne» sì da far sorgere il problema della loro
concordanza con la realtà «esterna » (/bid., $ 13). Il « problema della C. » e
il « problema della realtà » (v. REALTÀ) come formulati dalla filosofia
dell'’800 sono quindi eli- minati da Heidegger. Tutte le manifestazioni o i
gradi del conoscere: l’osservare, il percepire, il determinare, l’interpretare,
il discutere, il negare e l’asserire, presuppongono il rapporto dell’uomo con
il mondo e sono possibili solo sulla base di questo rapporto. Questa
convinzione è oggi condivisa da filosofi di provenienza diversa, per quanto
venga spesso rivestita da terminologie differenti. Il fondamento che la
suggerisce è sempre lo stesso: l’abban- dono del presupposto che gli « stati
interni » (idee, rappresentazioni, ecc.) siano gli oggetti primari di conoscenza
e che solo a partire da essi possano essere (se mai) inferiti oggetti di altra
natura. La rinuncia a questo presupposto è, per es., esplicita nel pragmatismo
di Dewey, per il quale la C. è semplicemente il risultato di un’operazione di
ri- cerca o più precisamente è l’asserzione valida cui tale operazione mette
capo. Da questo punto di vista, l’oggetto della C. non è un’entità esterna da
raggiungere o da inferire ma è «quel gruppo di distinzioni o caratteristiche
connesse che emerge come costituente definito di una situazione risolta ed è
confermato nella continuità dell’indagine » (Logic, cap. XXV, II; trad. ital.,
pag. 666). Poichè frequentemente vengono usati, in una certa inda- gine,
oggetti costituiti in indagini precedenti, questi ultimi sono talora intesi
come oggetti esistenti o reali indipendentemente dall’indagine stessa. In
realtà sono indipendenti dall’indagine in cui ora entrano, ma sono oggetti solo
in virtù di un’altra in- dagine di cui sono il risultato. Eppure, questo sem-
plice equivoco è, secondo Dewey, la base della con- cezione «rappresentativa»
della conoscenza. «L'atto di riferirsi a un oggetto, che è un oggetto
conosciutosolo in virtù di operazioni affatto indipendenti dal- l’atto stesso
di riferimento, è considerato ai fini di una teoria della C. come costituente
per se medesimun caso di C. rappresentativa » (Logic, pag. 667). Queste idee
hanno agito e continuano ad agire potentemente nella filosofia contemporanea e
sono alla base di quella dissoluzione del problema della C. che è una delle sue
caratteristiche. La dissoluzione di questo problema si è operata in favore da
un lato della logica, dall’altro della metodologia delle scienze. Quest'ultima
specialmente è l’erede, nella filosofia contemporanea, di quanto rimane di va-
lido in problemi che venivano solitamente trattati dalla teoria della
conoscenza. Il tratto fondamentale che forma l’oggetto della metodologia delle
scienze è oggi il carattere operativo e anticipatorio dei pro- cedimenti della
scienza. Accenneremo qui soltanto ai primi riconoscimenti storici di questi
caratteri rinviando la loro trattazione più dettagliata alla voce MeroDoLOGIA.
Essi sono riconosciuti dalla scienza solo nella misura in cui si riconosce che
lo scopo fondamentale di essa non è la descrizione ma la previsione. Questo
fine aveva riconosciuto alla scienza già Francesco Bacone; e nella filo- sofia
moderna esso viene riaffermato da Augusto Comte. Tuttavia solo più tardi gli
scienziati stessi lo riconoscono ed assumono esplicitamente. Ciò cominciò a verificarsi
quando Mach riprese la tesi che l’oggetto della C. è un gruppo di sensa- zioni.
« Un colore, dice Mach, è un oggetto fisico fintanto che noi consideriamo, per
es., la sua di- pendenza dalle fonti luminose (altri colori, calore, spazio,
ecc.); ma se lo consideriamo nella sua di- pendenza dalla retina, esso è un
oggetto psicologico, una sensazione. Non la sostanza, ma la direzione della
ricerca è diversa nei due campi» (Analyse der Empfindungen, 1900; 9° ed. 1922,
pag. 14). Da questo punto di vista non sono i corpi che gene- rano le
sensazioni ma piuttosto i complessi di sensazioni che formano i corpi: questi
infatti non sono che simboli per indicare tali complessi. Con questo
sembrerebbe che Mach inclini verso una teoria rappresentativa della conoscenza.
Ma in realtà, nella sua teoria del concetto, il carattere operativo della C.
viene chiaramente riconosciuto. Il concetto scientifico è difatti, secondo
Mach, un segno riassuntivo delle reazioni possibili dell’orga- nismo umano a un
complesso di fatti. Una legge naturale è, per es., una restrizione delle
possibilità di aspettazione cioè una determinazione della pre- visione
(Erkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XXIII. Gli stessi concetti erano stati
presentati da Hertz nei suoi Principi della meccanica (1894), pur senza
l’abbandono totale della concezione pittorica della conoscenza. « Il più
diretto e in un certo sensoil più importante problema che la nostra C. della
natura deve renderci capace di risolvere, diceva Hertz, è l’anticipazione degli
eventi futuri in modo che possiamo disporre le nostre faccende presenti in
accordo con questa anticipazione. Come base per la soluzione di questo
problema, noi facciamo uso della nostra C. degli eventi già accaduti, ot-
tenuta attraverso l’osservazione causale e l’esperi- mento preordinato.
Nell’effettuare così inferenze dal passato al futuro adottiamo costantemente il
procedimento seguente: ci formiamo imagini o simboli degli oggetti esterni e la
forma che diamo a tali simboli è che le necessarie conseguenze della immagine
pensata sono sempre le immagini delle necessarie conseguenze nella natura delle
cose rap- presentate » (Prinzipien der Mechanik, Intr.). Lo sviluppo ulteriore
della scienza ha eliminato il residuo di concezione rappresentativa che ancora
rimaneva nelle dottrine di Mach e di Hertz. Già nel 1930 uno dei fondatori
della meccanica quan- tistica, Dirac, poteva affermare: «Il solo oggetto della
fisica teorica è di calcolare risultati che pos- sono essere messi a confronto
con l’esperimento ed è affatto inutile che sia data una descrizione sod-
disfacente dell’intero sviluppo del fenomeno +» (7he Principles of Quantum
Mechanics, 1930, pag. 7). A questo punto la teoria della C. si è completa-
mente risolta nella metodologia delle scienze. Questo significa che, mentre il
problema della C. come problema di un oggetto « esterno » da raggiungere a
partire da un qualche dato « interno » si è andato dissolvendo, si è proposto
in sua vece il problema della validità delle procedure effettive dirette al-
l’accertamento e al controllo degli oggetti nei campi diversi di indagine.
CONOSCENZA DI SÈ. Il sapere obiettivo, cioè non immediato nè privilegiato, che
l’uomo può acquisire intorno a se stesso. Il termine ha
quindi un significato diverso da
autocoscienza (v.) che è la coscienza assoluta o infinita, e anche da coscienza
(v.) che implica sempre un rapporto imme- diato e privilegiato dell’uomo con se
stesso, perciò una C. diretta e infallibile, per quanto incomunica- bile, di
sè. Come invito a una tale C. di sè (e non alla coscienza) Platone interpreta
il socratico motto «Conosci te stesso +: nel Carmide difatti, esso è
interpretato come invito al «saper di sapere +, cioè alla determinazione e
all’inventario di ciò che si sa. « Nè noi stessi ci mettiamo a fare quello che
non sappiamo, ma cerchiamo le persone competenti e ci affidiamo ad esse; nè
permettiamo a quelli che dipendono da noi di far altro da quello che possono
far bene e di cui abbiano scienza + (Carm., 171 c). Kant affermò che noi
possiamo conoscere noi stessi solo allo stesso titolo in cui conosciamo le
altre cose, cioè solo come fenomeni; difatti la C. di sè richiede, secondo
Kant, come ogni altra specie di C., due condizioni e cioè: 1° un elemento unificatore
a priori che in questo caso è l’io penso o appercezione pura (v.); 2° un
molteplice empirico dato che è quello del senso interno (Crif. R. Pura, $ 24).
Coloro che negano la realtà della coscienza riconoscono che la C. di sè non si
diversifica per modalità e certezza dalla C. degli altri o delle altre cose
(RyLE, Concept of Mind, cap. VI).
CONOSCENZA, TEORIA DELLA (inglese
Epistemology, rar. Gnoseology; franc. Gnoséologie, rar. Épistémologie; ted.
Erkenntnistheorie, rar. Gno- seologie). La teoria della C. è detta pure, in
italiano, gnoseologia o, più raramente, epistemologia. In tedesco il termine
Groseologie, coniato dal wolf- fiano Baumgarten ha avuto poca fortuna mentre il
termine Erkenntnistheorie usato dal kantiano Reinhold (Versuch einer neuen
Theorie des mensch- lichen Vorstellungsvermògens, 1789) fu comunemente
accettato. In inglese il termine Epistemology fu intro- dotto da J. F. Ferrier
(/nstitutes of Metaphysics, 1854) ed è il solo comunemente adoperato;
Gnoseology è assai raro. In francese, si adopera comunemente Gno- séologie, più
raramente Épistémologie. Tutti questi nomi hanno lo stesso significato: non
indicano, come spesso ingenuamente si crede, una disciplina filosofica
generale, come la logica o l’etica o l’este- tica, ma piuttosto la trattazione
di un problema che nasce da un presupposto filosofico specifico cioè nell’àmbito
di un determinato indirizzo filoso- fico. Tale indirizzo è quello
dell’idealismo (nel senso 1°, v. IpeALISMO); e il problema la cui tratta- zione
è il tema specifico della teoria della C. è quello della realtà delle cose o in
generale del «mondo esterno ». La teoria della C. poggia su due presupposti: 1°
che la C. sia una « categoria » dello spirito, una « forma » dell’attività
umana o del «soggetto », che possa essere indagata in univer- sale e in
astratto cioè prescindendo dai partico- lari procedimenti conoscitivi di cui
l'uomo dispone fuori e dentro la scienza; 2° che l’oggetto im- mediato del
conoscere sia, come aveva ritenuto Cartesio, soltanto l’idea o
rappresentazione; e che l’idea sia un’entità mentale, esista cioè solo « dentro
» la coscienza o il soggetto che la pensa. Si tratta quindi di vedere: 1° se a
questa idea corrisponde una qualsiasi cosa o entità «esterna» cioè esi- stente
« al di fuori » della coscienza; 2° se, nel caso che a tale domanda si risponda
negativamente, ci sia una differenza, e quale, tra idee irreali o fantastiche e
idee reali. Sono i problemi che aveva già dibattuto Berkeley, che sono ripresi
da Fichte nella Dottrina della scienza (1794) e che costitui- scono il tema
dominante di una ricca letteratura filosofica, specialmente tedesca, dalla
seconda metà dell’800 ai primi decenni del ’900. Per la sua stessa origine e
impostazione, la teoria della C. è ideali- stica. Anche le soluzioni cosiddette
« realistiche » sono in realtà forme di idealismo in quanto le en- tità che esse
riconoscono come « reali » sono, assai spesso, coscienze o contenuti di
coscienze. La cosid- detta Scuola di Marburgo (Ermanno Cohen, 1842- 1918; Paolo
Natorp, 1854-1924) identificava la teoria della C. con la logica e riduceva a
tre le discipline filosofiche fondamentali: logica, etica, ed estetica. Il
Problema della C. nella filosofia e nella scienza del- l’epoca moderna (4
voll., 1906-50) di Ernesto Cassirer (1874-1945) è la più importante opera
dedicata al problema della C. in questo significato tradizionale. La teoria
della C. ha perduto il suo primato e anche il suo significato dacchè si è
cominciato a dubitare della validità di uno dei suoi presupposti: cioè che il
dato primitivo della C. sia « interno » alla coscienza o al soggetto e che
pertanto la co- scienza o il soggetto debbano saltar fuori di sè (il che è per
principio impossibile) per afferrare l'oggetto. Di questo presupposto Kant,
nella « Con- futazione dell’idealismo » aggiunta alla seconda edi- zione della
Critica della Ragion Pura (1787) aveva già mostrato l'infondatezza. Gli
analisti contem- poranei, rigettano anche il primo presupposto della teoria
della C. e cioè che la C. sia una forma o categoria universale che possa essere
indagata come tale: essi infatti assumono come oggetto d’inda- gine i
procedimenti effettivi o il linguaggio della scienza, non già la «C.» in
generale. Pertanto la teoria della C. è venuta a perdere il suo signi-ficato
nella filosofia contemporanea ed è stata so- stituita da un’altra disciplina,
la metodologia (v.), che è l’analisi delle condizioni e dei limiti di validità
dei procedimenti di indagine e degli strumenti linguistici del sapere
scientifico. CONSAPEVOLEZZA (ingl. Awareness). In generale, la possibilità di
fare attenzione ai propri modi d'essere e alle proprie operazioni e di
esprimerli col linguaggio. Tale possibilità è la sola base di fatto su cui è
stata edificata la nozione filosofica di co- scienza. Nell’antichità Platone e
Aristotele, che non ebbero il concetto di coscienza, conobbero e de- scrissero la
C. (v. COSCIENZA). CONSEGUENTE (ingl. Consequent; francese Conséquent; ted.
Konsequent). In Logica, il secondo termine di una conseguenza (v.). CONSEGUENZA
(gr. dxo)ovdla; lat. Corse- quentia; ingl. Consequence; franc. Conséquence;
ted. Konsequenz). Per quanto Aristotele si avvalga del verbo corrispondente a
questo sostantivo per significare che la conclusione segue dalle premesse del
sillogismo (v.), il termine stesso fu introdotto dagli Stoici per indicare la
proposizione condizio- nale (v. ConpizionaLe). Il latino conseguentia fu
introdotto da Boezio come sinonimo di « proposi- zione ipotetica »
(condizionale). La C. può essere, secondo Boezio o accidentale come quando si
dice «Quando il fuoco è caldo, il cielo è rotondo »; o naturale, come quando si
dice « Quando c’è un uomo, c'è un animale» o «Se la Terra sarà dal lato
opposto, ci sarà l’eclisse di Luna». In que- st’ultimo esempio, la C. poggia
sulla « posizione dei termini » nel senso che l’essere la Terra all’op-
posizione è la causa dell’eclissi di Luna (De Syllo- gismis Hypotheticis, P.
L., 64°, 835 B). Abelardo riserva il termine C. alle connessioni necessarie che
sono vere ab aeterno come « Se è uomo, è animale » (Dialectica, ed. De Rijk,
19707, pag. 160). Ockham distinse dalla C. intesa in questo senso, che egli
chiamava formale e che esprime una connessione necessaria o intrinseca dalla C.
materiale che con- nette estrinsecamente due proposizioni, come quando si dice
« Un uomo corre, dunque Dio esiste », che è valida perchè il conseguente è necessario;
o « Un uomo è un asino, quindi Dio non esiste», che è valida perchè
l’antecedente è impossibile (Sum. Log., III, HI, 1). Il termine venne usato in
significati simili o analoghi a questi nei trattati dei logici nei secoli
successivi; ma la sua trattazione è stata spesso intrecciata (o confusa) con
quella di proposizione ipotetica (v.) o di condizionale (v.). Nella logica
contemporanea l’ha usato Carnap (Logical Syntax of Language, $ 14) per indicare
una relazione più estesa di quella di derivabilità, della quale, in un secondo
momento, l’ha considerato sinonimo (/n- troduction to Semantics, $ 37). Ma,
come « condi- zionale », il termine è oggi confluito in quello di implicazione
(v.).
CONSENSO UNIVERSALE (lat. Consensus
gentium). Aristotele fa nella sua opera spesso ri- ferimento all’* opinione di
tutti» come prova o controprova della verità; e nell’Etica Nicomachea (X, 2,
1172b 36) esplicitamente dice «Ciò a cui tutti consentono, noi diciamo che è
così: giacchè ri- gettare una credenza siffatta significa rinunziare a ciò che
è più degno di fede ». Gli Stoici a loro volta insistettero sul valore del C.
universale: onde l’im- portanza che ebbero per loro le « nozioni comuni »
appunto per il fatto che si formano ugualmente in tutti gli uomini, o
naturalmente o per effetto del- l'educazione (Diog. L., VII, 51). Tuttavia solo
gli Eclettici fecero del C. comune il criterio della ve- rità; e Cicerone
esprimeva appunto il loro punto di vista quando affermava: «In ogni argomento,
il C. di tutte le genti è da ritenersi come legge di natura » (Tuscu/., I, 13,
30). La filosofia moderna che prende le mosse da Cartesio ha inteso instau-
rare una critica radicale del sapere comune ed ha perciò smesso di vedere, nel
comune C. che sor- regge questo sapere, una garanzia o un valore di verità.
Solo raramente pertanto essa fa appello al consensus gentium. Un appello ad
esso, è tuttavia la scuola scozzese del Senso Comune che fa capo a Tommaso Reid
(1710-96). Essa è soprattutto in polemica contro lo scetticismo di Hume, e per
superarlo ricorre al C. universale che appoggerebbe le idee, criticate da Hume,
di sostanza, causa, ecc. (Ricerca sullo spirito umano secondo i principi del
senso comune, 1764) (v. Senso COMUNE). L'appello al consenso comune ha spesso
costituito una prova del- l’esistenza di Dio (v. Dro, Prove DI). Dall'altro
lato esso è servito anche da fondamento alla nozione di diritto naturale (v.
Diritto). Ma questi e altri usi eventuali non modificano la sostanza della
nozione,che è il tentativo di mettere al riparo dalla critica conoscenze o
pregiudizi che si ritengono assoluta- mente validi ma di cui sarebbe sempre
oltremodo difficile provare l'effettiva universalità. CONSEQUENTIS (FALLACIA).
È la fa/- lacia (v.), consistente nel supporre indebitamente che una
consequentia (v.) o implicazione sia recipro- cabile, il che normalmente non
accade: «se da A segue 2, allora da 2 segue A». (ARISTOTELE, E/. Sof., 5, 167 b
1; Prerro Ispano, Summul. Log., 7. 58; ecc.). G. P. CONSERVAZIONE. V. Conato.
CONSIGNIFICANTE (lat. Consignificans). Lo stesso che sincategorematico (v.).
CONSPECIE (ingl. Conspecies). Termine ado- perato da Hamilton per indicare le
specie coordi- nate dello stesso genere che sono differenti ma non CONSENSO
UNIVERSALE contraddittorie e quindi costituiscono nozioni di- screte o
disgiunte talvolta dette anche disparate (v.) (Lectures on Logic, I, pag. 209). CONSUETUDINE (ingl.
Custom; franc. Cou- tume; ted. Gewohnheit).
1. Lo stesso che abitudine (v.). 2. Nel senso sociologico, qualsiasi
atteggiamento o schema o progetto di comportamento che sia partecipato da più
membri di un gruppo. In questo senso adoperava la parola Vico: « È un detto
degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la C. è simile al re e la
legge al tiranno; che deesi inten- dere della consuetudine ragionevole e della
legge non animata da ragion naturale » (Scienza Nuova, 1744, degnità, 104). Nel
linguaggio contemporaneo si intendono per C. le usanze (folkways), le con-
venzioni e i costumi (mores) che si differenziano tra di loro per la diversa
intensità delle sanzioni che li rafforzano. CONSUSTANZIAZIONE (lat. Consubstan- tiatio; ingl.
Consubstantiation; franc. Consubstantia- tion; ted. Konsubstantiation). L’interpretazione del sacramento dell’altare che
consiste nell’ammettere che la sostanza del pane e del vino rimane insieme con
quella del corpo e del sangue di Cristo, come soggetto dei suoi accidenti. Tale
dottrina, che fu sempre combattuta dalla Chiesa, fu difesa ai prin- cìpi del
sec. xrv da Ockham in due scritti intitolati De Sacramento Altaris e De Corpore
Christi e ve- niva accettata da Lutero. CONTEMPLATIVA, VITA (gr. Bewpnrwds
Bloc; lat. Vira contemplativa; ingl. Theoretical life; franc. Vie théorétique;
ted. Theoretisches Leben). L’ideale di una vita dedicata esclusivamente alla
conoscenza. W. Jaeger (Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita,
1928, in Aristotele, trad. ital., pag. 363 sgg.) ha sostenuto che
l’attribuzione di una vita puramente C. ai filosofi presocratici mediante
aneddoti e fatterelli (come quello di Ta- lete che camminando con gli occhi
alle stelle cade nel pozzo mentre la servetta di Tracia ride di lui) è la
proiezione nel passato del punto di vista pla- tonico-aristotelico che esaltò
la vita C. al disopra di quella pratica e la riconobbe come sola degna del
filosofo, e in generale dell’uomo. Si può dubi- tare dell’esattezza di questa
tesi per ciò che con- cerne la filosofia platonica: che--difficilmente po-
trebbe dirsi una filosofia contemplativa, avendo un dichiarato intento
politico. Ma essa è certamente esatta per ciò che riguarda Aristotele (v.
FILOSOFIA; SAPIENZA). Una conseguenza dell’ideale contem- plativo della vita fu
il disprezzo per la banausia (v.), cioè per il lavoro manuale; un’altra
conseguenza fu la riconosciuta superiorità delle scienze cosiddette teoretiche
su quelle cosiddette pratiche e in generale dell’attività teoretica. «
Quest’attività, dice Aristo- tele, è di per se stessa la più alta: giacchè
l’intelli- CONTESTO genza è la cosa più alta che è in noi; e, fra le cose
conoscibili, le più alte sono quelle di cui l’intelli- genza si occupa ».
Pertanto la vita teoretica è una vita superiore all’umana. « L’uomo non deve,
come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale
le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto è possibile, immortale e far di
tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è poco di
quantità, supera per potenza e valore tutte le altre cose» (Er. Nic., X, 7,
1177 b 31). Aristotele esplicitamente contrap- poneva nel capitolo citato
dell’Erica la vita teo- retica e quella del politico e del guerriero che,
tuttavia, secondo gli antichi, erano le più alte. Su questa nozione doveva
imperniarsi l’intera filosofia post-aristotelica, dagli Epicurei ai
Neo-platonici, intenta ad esaltare la figura del «saggio?, cioè appunto
dell'uomo la cui vita si compendia o si esaurisce nella contemplazione. La
filosofia medie- vale continua questa tradizione. Se il Misticismo (v.) vede
nella vita C. il fine dell’uomo e nella via per arrivarci l’unica attività che
abbia un valore, l’in- tera Scolastica ritiene, con S. Tommaso (S. 7h., II, 1,
q. 3, a. 5), che la vita C. è non solo la beati- tudine ultima e perfetta che
si otterrà nell’altra vita, ma anche la minore e imperfetta beatitudine che si
può attingere in questa. Una delle caratteristiche dell’Umanesimo e del
Rinascimento è la rottura di questa tradizione e il riconoscimento del valore
della vita pratica o attiva, del lavoro e dell’attività mondana. E la Riforma,
almeno su questo punto, coincide col Rinascimento. Bacone affermava, su questa
linea, il carattere pratico e attivo della stessa conoscenza (scire est posse,
Nov. org., I, 3) nel senso che essa è diretta a stabilire il dominio dell’uomo
sulla natura. Le analisi degli Empiristi inglesi nel *6-700 mostravano la
connessione tra la conoscenza e l’esperienza vissuta dell’uomo e, con Hume, la
subordinazione della prima alla se- conda. Il "700, secolo dell’Illuminismo
vede nella conoscenza essenzialmente uno strumento d’azione, un mezzo per agire
sul mondo e per migliorarlo: l’ideale della vita C. sembra abbandonato. Esso
tuttavia ritorna a prevalere nel Romanticismo; per il quale la conoscenza è il
punto finale di arrivo; e la vita C. è perciò il culmine del processo co-
smico, quello nel quale tale processo raggiunge, con la consapevolezza, la sua
realtà ultima. Hegel chiudeva la sua Enciclopedia delle scienze filosofiche con
la frase: « L’Idea, eterna in sè e per sè, si attua, si produce e gode se
stessa eternamente, come Spi- rito assoluto »; e aggiungeva, come suggello alla
sua opera, il passo di Aristotele (Mer., XI, 7) in cui si parla della vita
divina come « pensiero del pensiero ». Questa rinascita dello spirito C., che
si è manifestato in tutte le direzioni in cui il Roman- ticismo ha agito, ha
trovato tuttavia, dalla metà dell’800 ad oggi, dure smentite. Marx ha contrap-
posto alla filosofia C., la non-filosofia della prassi, impegnata a
trasformare, più che a conoscere, la realtà stessa (Tesi su Feuerbach, 1845, $
3, 11). Nietzsche ha insistito sul carattere di rinunzia e di indebolimento
vitale della vita C. e del disinteresse teoretico (Die froeliche Wissenschaft,
$ 345). Le filo- sofie dell’azione e il pragmatismo hanno insistito su la
subordinazione della conoscenza stessa all’azione e alle sue esigenze. Infine
l’esistenzialismo ha visto nelle stesse situazioni dette conoscitive, modi
d’es- sere dell’uomo nel mondo, rendendo priva di senso la stessa distinzione
tra vita C. e vita pratica. Il riconoscimento dell’illegittimità di questa
distin- zione è forse il tratto più caratteristico della filo- sofia
contemporanea. Da un lato infatti il conoscere, in tutti i suoi gradi e forme,
implica la messa in opera di metodi, tecniche o strumenti che sono inerenti
alla situazione umana nel mondo e pos- sono perciò dirsi di natura pratica.
Dall'altro, la stessa vita C. non è che una delimitazione dei propri interessi
alla sfera di certi problemi anzicchè a certi altri; ed è perciò un pratico,
scelto e deliberato, indirizzo di vita. Da questo punto di vista, l’esal-
tazione della vita teoretica appare piuttosto come una deformazione
professionale del filosofo, che privilegia la propria attività come più alta
fra tutte. CONTENUTO. V. COMPRENSIONE. CONTESTO (ingl. Context; franc.
Contexte; ted. Kontext). L'insieme degli elementi che condi- zionano, in un
modo qualsiasi, il significato di un enunciato. Il C. è definito nel modo
seguente da Ogden e Richards: « Un C. è l’insieme di entità (cose od eventi)
correlate in un certo modo; queste entità hanno ciascuna un carattere tale che
altri insiemi di entità possono avere gli stessi caratteri ed essere connessi
dalla stessa relazione; ricorrono quasi uniformemente » (The Meaning of
Meaning, 108 ediz., 1952, pag. 58). Questa definizione sembra alquanto
macchinosa ma è resa più chiara dalla spiegazione che segue: « Un C. /etterario
è un gruppo di parole, incidenti, idee, ecc., che in una data oc- casione
accompagna o circonda ciò che si dice che abbia un C., laddove un C.
determinante è un gruppo di questa specie che non solo ricorre ma è tale che
uno almeno dei suoi membri è de- terminato, dati gli altri » (/bid., pag. 58,
n. 1). Da altri autori C. è chiamato Kinsieme delle presup- posizioni che
rendono possibile afferrare il senso di un enunciato. Dice S. K. Langer: « Il
nome di una persona, come tutti sappiamo, porta alla mente un certo numero di
eventi nei quali essa figura. In altri termini, una parola mnemonica stabilisce
un C. nel quale essa si presenta a noi; e in uno stato di innocenza noi la
usiamo aspettandoci che sarà compresa con il suo C.» (Philosophy in a New Key, ed.
Penguin Books, cap. V, pag. 110). In
ogni caso, esso è l'insieme linguistico di cui l’enun- ciato fa parte e che
condiziona (in modi e gradi che no essere diversissimi) il suo significato.
CONTESTUALISMO (ingl. Contextualism). La corrente del pragmatismo che accentua
la mo- bilità temporale degli eventi e li considera perciò in stretto rapporto
con gli altri eventi che insieme appar- tengono allo stesso contesto. (Cfr. S. C. PEPPER, Aes- thetic
Quality: A Contextualistic Theory of Beauty, New York, 1938; L.E. HAHN, A
Contextualistic Theory of Perception, Berkeley and Los Angeles, 1942). CONTIGUITÀ, ASSOCIAZIONE PER (in- glese Association
by Contiguity; franc. Association par contiguité; ted. Berùhrungs-Association).
Una delle forme dell’associazione delle idee, note già ad Aristotele (De
memoria, 2, 451 b 20) (v. Associa- ZIONE DELLE IDEE). CONTINGENTE (lat.
Contingens; ingl. Con- tingent; franc. Contingent; ted. Kontingent). 1. Gli
Scolastici latini tradussero con questo termine il termine aristotelico
èvSey6pevov (De int., 12, 20 b 35). Boezio, al quale si deve la determinazione
di buona parte della terminologia filosofica latina, già osservava che
possibile e contingens significano la stessa cosa salvo forse per il fatto che
non esiste il privativo di contingens, che dovrebbe essere incon- tingens, come
invece esiste il privativo di possibile che è impossibile (De interpretatione,
{II}, V; P. L., 64°, col. 582-83). Tuttavia nella tradizione scolastica, e
soprattutto per influsso della filosofia araba, il ter- mine C. è venuto ad
assumere un significato spe- cifico, diverso da ciò che si intende sotto
possibile; e precisamente è venuto a significare ciò che pur essendo possibile
«in sè», cioè nel suo concetto, può invece esser necessario rispetto ad altro,
vale a dire a ciò che lo fa essere. Per es., un evento qualsiasi del mondo è C.
nel senso che: 1° con- siderato di per sè, potrebbe verificarsi o non veri-
ficarsi; 2° si verifica necessariamente per la sua causa. Da questo punto di
vista, mentre il possibile, non solo non è necessario in sè, ma neppure è ne-
cessariamente determinato ad essere, il C. è invece il possibile che può essere
necessariamente deter- minato e perciò può essere necessario. La nozione di C.
è pertanto ambigua e poco coerente: tuttavia l’uso di essa nella filosofia
antica e moderna è abbastanza esteso. Questo uso è stato introdotto dal
necessitarismo arabo e specialmente da Avi- cenna. « Se una cosa non è
necessaria in rapporto a se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possi-
bile in rapporto a se stessa ma necessaria in rapporto a una cosa diversa »
(Mer., II, 1, 2). Ciò che è pos- sibile rimane sempre possibile in rapporto a
se stesso, ma gli può accadere di essere in modo necessario in virtù di una
cosa diversa da sè (/bid., II, 2, 3). In tal modo tutto ciò che è o esiste, da
Dio all’in- fima cosa naturale, esiste necessariamente, secondo Avicenna. Ma
mentre Dio e le realtà prime sono necessarie in sè, le cose finite sono
necessarie « per altro », giacchè in se stesse sono possibili; e in questo
senso sono contingenti. Questa nozione è rimasta sostanzialmente immutata in
tutta la filosofia Sco- lastica e anche nella filosofia moderna che però si
avvale di essa molto più limitatamente. S. Tom- maso che definisce il C. come
possibile, vale a dire come «ciò che può essere o non essere + riconosce che
già in esso si possono trovare elementi di ne- cessità (S. 74., I, q. 86, a.
3). Duns Scoto riproduce la nozione di Avicenna del C. difendendola dalla
accusa di contraddizione (Op. Ox., 1, d. 8, q. 5, a. 2, n. 7). L’intera nozione
ricompare con tutta la chiarezza desiderabile nella dottrina di Spinoza:
secondo il quale una cosa non può dirsi C. se non per un difetto della nostra
conoscenza (Er., I, 33, scol. 1) giacchè in realtà non c’è nulla di C. e ogni
cosa è determinata dalla natura divina ad essere e ad operare in un certo modo
(/bid., I, 29). La Scolastica parlava anche di «verità C.+ che sono quelle che
si riferiscono a eventi C. (per es., OckHam, In Sent., prol., q. 1, Z). Di tali verità C. Leibniz diceva che esse si
distinguono dalle verità necessarie come i numeri incommensurabili dai com-
mensurabili: cioè nel senso che come nei numeri incommensurabili si può
ottenere la loro risolu- zione alla comune misura, così nelle verità necessarie
si può ottenere la loro riduzione a verità identiche. La cosa invece
richiederebbe un progresso infinito per le verità C. (o di fatto), progresso
che può essere solo effettuato da Dio (Op., ed. Erdmann, pag. 83). In un senso
analogo si parla oggi di « contingenza logica +, nel senso che le proposizioni
empiriche non possono essere certificate vere o false da un qualsiasi carattere
logico di esse: così fa C. I. Lewis (Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 340). Nello stesso senso usa il termine Carnap (Meaning and
Necessity, $ 39) (v. MODALITÀ; POSSIBILE). 2. Nella filosofia contemporanea,
soprattutto in quella francese a partire dall'opera di Boutroux, La contingenza
delle leggi di natura (1874), il ter- mine C. è diventato sinonimo di «
non-determinato » cioè di libero e imprevedibile; e designa special- mente ciò
che di libero in questo senso si trova o agisce nel mondo naturale. In questo
senso
adopera il termine Bergson. «La parte
della con- tingenza, egli dice, è grande nell’evoluzione. C., il più delle
volte, sono le forme adottate, o piuttosto inventate. C., relativamente ad
ostacoli incontrati in tal luogo e in tal momento, la dissociazione della
tendenza primordiale in diverse tendenze comple- mentari che producono linee
divergenti di evolu- zione. C. gli arresti e i ritorni » (Év. créatr., 115 edi-
zione, 1911, pag. 277). In questo senso contingenza si identifica con libertà
ed entrambe si oppongono a necessità; mentre la possibilità è secondo Bergson
soltanto l’immagine che la realtà, nella sua auto- creazione C. cioè
«imprevedibile e nuova, proietta di se stessa nel suo proprio passato » (La
Pensée et le Mouvant, pag. 128). L'uso del termine « con- tingenza » in questo
significato caratterizza le cor- renti del cosiddetto indererminismo (v.)
contempo- raneo: le dottrine filosofiche che interpretano la natura in termini
di libertà e di finalità cioè in ter- mini di spirito. A questo significato si
riconduce anche l’uso che del termine ha fatto Sartre, inten- dendo per
contingenza il fatto che la libertà « non può non esistere ». La contingenza è
perciò la li- bertà nel rapporto dell’uomo con il mondo (L’érre et le néant,
pag. 567). CONTINGENTISMO. La parola non ha rife- rimento al significato
tradizionale o classico di con- tingenza, ma al significato contemporaneo di
questo termine in quanto è sinonimo di libertà (in senso infi- nito o
incondizionato). Pertanto il termine si riferisce soprattutto alle varie forme
dello spiritualismo (v.) che affermano la presenza e l’azione, nello stesso
mondo della natura, di un Principio libero (divino). CONTINGENZA (lat.
Contingentia). Una delle prove dell’esistenza di Dio è quella detta a con-
tingentia mundi (v. Dio, PROVE DI). CONTINUO (gr. ouveyés; lat. Continuum;
ingl. Continuous; franc. Continu; ted. Sterig). La nozione di C. è di natura
schiettamente matema- tica, per quanto i filosofi abbiano contribuito ad
elaborarla e se ne siano spesso serviti. La prima definizione esplicita del C.
è quella data da Ari- stotele (che forse riprende un concetto di Anassa- gora,
Fr. 3, Diels) secondo il quale esso è «ciò che è divisibile in parti sempre
divisibili » (Fis., VI, 2, 232b 24) e che perciò non può risultare di elementi
indivisibili, cioè di atomi (/bid., VI, 1, 231 a 24). Con questo concetto si
alterna però in Aristotele l’altro, più intuitivo e meno mate- matico, secondo
il quale il C. è una specie del «contiguo », nel senso che sono continue le
cose i cui limiti si toccano e dal cui contatto scaturisce una certa unità
(Mer., XI, 12, 1069 a 5 sgg.). Quest’ul- timo concetto si trovava in Parmenide
(Fr., 8, 24, Diels): e non viene utilizzato dal pensiero moderno. L'unico a
richiamarlo è Peirce che esplicitamente si rifà ad Aristotele dichiarando non
del tutto soddisfa- cente la definizione del C. data da Cantor (Chance, Love
and Logic, II, 3; Coll. Pap. 4, 121 sgg.). La prima definizione è quella che ha
dominato la tradizione della matematica sino a Leibniz. Leibniz ha sottolineato
per primo l’importanza filosofica della «legge di continuità » e ha di nuovo
definito il continuo. Secondo la legge di continuità, il ri- poso può essere
considerato come un movimento che svanisce dopo essere stato continuamente di-
minuito. Analogamente l’eguaglianza come una ineguaglianza che svanisce, come
accadrebbe nel caso di una diminuzione continua del maggiore di due corpi
disuguali, di cui il minore conservasse la sua grandezza (7héod., II, $ 348).
La legge di continuità consiglia inoltre di ammettere infiniti gradi nella
costituzione e nell’azione delle sostanze che compongono l’universo. « Ciascuna
di queste sostanze, dice Leibniz, contiene nella sua natura una legge di
continuità della serie delle sue ope- razioni » (Op., ed. Erdmann, pag. 107).
La legge di continuità vale ugualmente nel mondo delle rappresentazioni, nel
quale « le percezioni notevoli vengono per gradi da quelle che sono troppo pic-
cole per essere notate» (Nouv. Ess., Introduzione). Quanto al C. stesso, Leibniz
lo definì nel senso che in esso «la differenza di due casi può essere diminuita
al di sotto di ogni grandezza data» (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI,
pa- gina 129). È questo il concetto a cui si rifà Kant: «La proprietà delle
quantità, per la quale in esse non c’è parte che sia la più piccola possibile
(cioè una parte semplice) si dice la continuità di esse » (Crit. R. Pura,
Anticipazioni della percezio- ne). Nella matematica moderna due tappe impor-
tanti nella definizione del C. sono quelle costituite dai postulati di Dedekind
(Conrinuità e numeri razionali, 1872) e di Cantor (nei Mathematische Annalen,
dal 1878 al 1883). Il postulato di De- dekind suona così: « Divisi tutti i
punti di una retta in due classi, in modo tale che ogni punto della prima
preceda ogni punto della seconda, esiste un punto e un punto solo che segna la
divi- sione di tutti i punti in due classi e della retta in due segmenti». Il
postulato di Cantor è invece più ristretto: « Date su una retta r due classi C
e C’ di punti tali che: 1° ogni punto di C sia a sinistra di ogni punto di C‘;
2° preso un qualsiasi segmento y, si possa trovare un segmento minore di y di
cui un estremo sia un punto di C e l’altro un punto di C°; esiste allora sulla
retta r un punto di separazione delle due classi ». Russell ha espresso lo
stesso concetto nei riguardi del movimento, af- fermando: « L'intervallo tra
due istanti qualsiasi o due posizioni qualsiasi è sempre finito, ma la
continuità del movimento nasce dal fatto che, per quanto vicine siano le due
posizioni considerate, o i due istanti, c’è un’infinità di posizioni ancora |
più vicine, occupate a istanti che sono egualmente ' più vicini » (Scientific
Method in Philosophy, 1926, V; trad. franc., pag. 111). Queste definizioni del
C. hanno tuttavia un carattere paradossale in quanto sembra che vogliano far
nascere il C. dall’imagine stessa del discontinuo, cioè da un insieme di
istanti o di punti o di posizioni. Negli ultimi tempi esso ha fatto nascere
accese discussioni tra i matematici, alcuni dei quali sono propensi a ritornare
ad una nozione « intuitiva» del C., assunto talora come concetto originario. Il
Brouwer (1954), vede il C. in una « approssimazione che procede più o meno liberamente
» (cfr. From Frege to Gòdel, ed. by J. van Heijenoort, 1967, pag. 342). L’uso
filosofico della nozione di C. ha tuttavia poco o nulla a che fare con queste
speculazioni matematiche. Tra i pensatori moderni, uno di quelli che più
utilizza la nozione è Mach che la chiarisce nel modo seguente: «Se un intelletto
investigante si è abituato a collegare nel pensiero due fatti, a e b, cercherà,
per quanto è possibile, di tener ferma questa abitudine anche in circostanze
al- quanto diverse: in generale ogni volta che si pre- senti a, verrà pensato
anche 5. Questo principio che ha la sua radice nella tendenza all’economia e
che si presenta particolarmente chiaro ai grandi pensatori, noi lo chiamiamo
principio della conti- nuità » (Analyse der Empfindungen, IV, $ 1; trad. ital.,
pag. 71). Come si vede, la continuità è qui ricon- dotta al principio humiano
dell’abitudine, non chia- rita concettualmente. Dall’altro lato Dewey, che
considera la legge di continuità come « il postulato fondamentale di una teoria
naturalistica della lo- gica » determina la nozione di continuità più ne-
gativamente e per immagini che in modo rigoroso. Dice infatti che essa
«significa comunque esclu- sione della completa rottura da un lato e della sem-
plice ripetizione o identità dall’altro; nega la riducibilità del ‘più alto’ al
‘più basso”, come nega le separazioni e gli spacchi netti. Il crescere e
svilupparsi di una natura vivente dal seme alla maturità, illustra bene il
significato della parola » (Logic., cap. Il; trad. ital., pag. 59). Qui, come
si vede, oltre al ricorso all’imagine dell’organismo vivente, non ci sono che
due determinazioni nega- tive, cioè l’esclusione: 1° della divisione; 2° del-
l’unità, tra le parti del continuo. In senso ancora più impreciso la parola è
usata quando si parla della continuità dell’evoluzione, dello sviluppo, del
progresso, o della storia. A proposito di quest’ul- tima, in particolare, la
continuità sembra assunta, il più delle volte, a significare la permanenza di
certi elementi o motivi o fattori, e quindi una certa unità o somiglianza tra
le varie fasi di essa. La «continuità della storia della filosofia », per es.,
viene intesa, il più delle volte, come la permanenza, attraverso di essa, di
certe nozioni, o direttive, o princìpi generali. Dall'altro lato, se si
riflette che quello che Dewey chiama «il postulato naturali- stico della
continuità » tra biologia e logica è l’azione condizionatrice che le situazioni
biologiche eser- citano sull’impostazione e lo sviluppo delle inda- gini, si
vede sùbito come la nozione di permanenza non sia adatta a definire un concetto
sufficiente- mente generalizzato della continuità. Sotto questo rispetto, e
limitatamente all’uso che la parola ha nel linguaggio filosofico e comune
odierno, si può dire che in generale sì parla di continuità tra due cose ogni
qualvolta è possibile riconoscere tra queste due cose una relazione qualsiasi.
Pertanto relazioni di causalità o di condizionamento, di contiguità o di so-
miglianza possono essere assunte come segni o prove o manifestazioni di
continuità; come dall’altro lato possono essere assunte come tali anche
relazioni di opposizione o di contrarietà o di contrasto o di lotta, dal
momento che neanche tali forme di relazione implicano un taglio netto tra le
cose che oppongono, e cioè la mancanza di una relazione qualsiasi. CONTRADDIZIONE
(gr. &vripaas; lat. Con- tradictio; ingl. Contradiction; franc.
Contradiction; ted. Widerspruch). Aristotele (Anal. Post., I, 2, 72 a 12-14) la
definisce come un" opposizione che di per sè esclude una via di mezzo +»;
in Anal. Pr., I, 5, 27a 29, detto rapporto è precisato come rapporto tra
proposizione universale negativa e particolare affermativa, universale
affermativa e par- ticolare negativa. Queste infatti (40, E/) sono le coppie
delle propositiones contradictoriae nel cosid- detto «quadrato di Psello » dei
testi medievali di Lo- gica. Essenziale alle coppie di contraddittorie è che
non possono essere nè entrambe vere ( principio di C.) nè entrambe false
(principio di terzo escluso). G.P. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI (gr. dElwpa tic
dviiphoewe; lat. Principium con-
tradictionis; ingl. Principle of Contradiction; francese Principe de
contradiction; ted. Satz der Wider- spruchs). Nato come principio ontologico, il prin- cipio di C.
passò nel campo della logica solo nel sec. XVIII, per divenire, in questo
stesso secolo, una delle « leggi fondamentali del pensiero ». Come principio
ontologico, esso fu esplicitamente ammesso per la prima volta da Aristotele che
lo assunse a fondamento della « filosofia prima » o metafisica. Secondo
Aristotele, tale principio serve in primo luogo a delimitare il dominio proprio
di questa scienza, permettendo di astrarre il suo oggetto, l’essere come tale,
da tutte le determinazioni con le quali è congiunto, in modo analogo a quello
in cui gli assiomi della matematica e della fisica consentono di astrarre i
loro oggetti (rispettiva- mente la quantità e il movimento) dalle altre de-
terminazioni con cui vanno congiunti (Mer., IV, 3). Aristotele tuttavia dà
costantemente del principio una duplice formulazione. Una è quella strettamente
‘ontologica che egli esprime dicendo: « Niente si- multaneamente può essere e
non essere + (/bid., III, 2, 996 b 30; IV, 2, 1005 b 24); l’altro è quello
CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI che si potrebbe chiamare logica e che si esprime
dicendo: « È impossibile per la stessa cosa e nello stesso tempo inerire e non
inerire ad una stessa cosa nello stesso rispetto » (/bid., IV, 2, 1005 b 20);
oppure dicendo: « È necessario che ogni asserzione sia o affermativa o negativa
» (/bid., III, 2, 996 b 29). Aristotele ritiene che il principio sia indimo-
strabile, ma che esso possa essere difeso polemi- camente contro i suoi
negatori, tra i quali considera i Megarici, i Cinici, i Sofisti e gli
Eraclitei, mo- strando che, se essi affermano qualcosa di deter- minato, negano
la negazione di questo qualcosa e così si avvalgono del principio (/bid., IV,
4). Il valore del principio pertanto è da Aristotele stabilito nei confronti di
ciò che è determinato (réde ti). « Se la verità, dice Aristotele, ha un signi-
ficato, necessariamente chi dice uomo dice animale bipede: giacchè questo
significa uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che l’uomo non sia
animale bipede: la necessità significa in- fatti proprio questo, che è
impossibile che l’essere non sia » (/bid., IV, 4, 1006 b 28). Così il principio
di C., riferendosi all’essere determinato, consente di astrarre da questo
essere ciò che c’è di necessario: la sostanza o l'essenza sostanziale:
nell’esempio dell’uomo, l’animale bipede che è appunto la so- stanza o
l’essenza sostanziale o la definizione del- l’uomo stesso. In tal modo, il
principio di C. porta a fare della filosofia prima, che è la scienza del-
l'essere in quanto essere, la teoria della sostanza Dice Aristotele: « Ciò che
da tempo e anche ora, e sempre abbiamo cercato, ciò che sempre sarà un problema
per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che cosa è la sostanza?»
(/bid., VII, 1, 1028 b 2). Il significato che il principio di C. ha nella
metafisica di Aristotele è perciò realizzato nelle nozioni fondamentali di
questa metafisica, che sono quelle di sostanza (v.), di essenza neces- saria
(v. ESssENZA) e di causa (v. CAUSALITÀ). Ma il principio possiede anche, per lo
stesso Aristotele una portata logica. Aristotele dice che, per quanto il principio
di C. non sia assunto espressamente da nessuna dimostrazione, esso è a
fondamento del sillogismo in quanto, sia che si ponga la no- zione di uomo, sia
che si ponga la nozione di non-uomo, purchè si ammetta che l'uomo è animale,
risulterà sempre vero affermare che Callia è animale e non non-animale; e
afferma pure che esso è a fon- damento della riduzione all’assurdo (An. Post.,
I, 1I, 77 a 10). La struttura sillogistica è così sorretta, sia nella sua forma
positiva sia in quella negativa, dal principio di C.: il che non fa meraviglia,
dato che per Aristotele la struttura sillogistica riproduce la struttura
sostanziale dell’essere (v. SILLOGISMO). Nella forma datagli da Aristotele, il
principio è rimasto lungamente a fondamento della metafisica classica. Le
discussioni del sec. xi intorno al modo di esprimerlo più semplice ed economico
portarono alla formulazione della massima che in séguito si chiamò principio di
identità (v.) ma non scossero la supremazia del principio di contraddi- zione.
Cartesio (Princ. Philos., I, 49) e Locke (Saggio, I, 1, 4) ancora lo
ammettevano come ve- rità indubitabile; ma già ignoravano completamente il suo
valore ontologico, che per Aristotele era primario. Ma colui che fa passare
definitivamente il principio di C. nella sfera della logica è Leibniz: che lo
considerò esclusivamente come il fondamento delle verità di ragione, mentre
riteneva che le ve- rità di fatto fossero fondate sul principio di ragion
sufficiente (Monad., $$ 31-32). Questi due princìpi erano, secondo Leibniz, a
fondamento di tutte le verità e quindi di tutto l’edificio della conoscenza
umana (Nouv. Ess., IV, 2, 1). Wolff ancora inclu- deva il principio di C.
nell’ontologia; ma lo con- siderava tuttavia come un principio naturale della
mente umana (Onr., 8 27). E Baumgarten trovava per esso la formula classica: A
+ non-A = O e lo chiamava il principio assolutamente primo, ponen- dolo a capo
della sua ontologia (Mer., 8 7). Kant preferiva esprimerlo, in uno dei suoi
primi scritti, con la formula: «Ciò di cui l’opposto è falso, è vero »
(Principiorum Primorum Cognitionis Meta- physicae Nova Dilucidatio, 1755, I,
prop. II, scol.). Più tardi nella Critica della Ragion Pura lo espri- meva
dicendo: « A_ nessuna cosa conviene un pre- dicato che la contraddica » e lo considerava
come « principio generale pienamente sufficiente di ogni conoscenza analitica
», eliminando tuttavia da esso la determinazione temporale che era contenuta
nel- l’espressione aristotelica; perchè, egli diceva, «in quanto principio
semplicemente logico non deve limitare le sue espressioni ai rapporti di tempo
» (Crit. R. Pura, Analitica dei Princìpi, cap. II, sez. I). Questo era
sostanzialmente lo stesso punto di vista di Leibniz. Dopo di Kant il principio
di C. fu con- siderato come una delle «leggi fondamentali del pensiero» (KRuG,
Logik, 1832, pag. 45; FRIES, System der Logik, 1837, pag. 121; HAMILTON,
Lectures on Logic, I, pag. 72): una qualifica onorifica, con la quale i
principi logici sono stati a lungo contrasse- gnati e che ancora viene talvolta
adoperata. Un ritorno all’uso metafisico del principio di C. fu dovuto a Fichte
e a Hegel. Si trattava, ora, della metafisica soggettivistica dell’idealismo,
per la quale nulla c’è fuori dell’Autocoscienza razionale. Fichte chiamava il
principio di C. « principio dell’opposi- zione »; lo esprimeva con la formula
«—P A non= A+ (che si legge « non-A non uguale ad 4 ») e riteneva che
esprimesse l’atto con cui l’Io oppone a se stesso un non-Io cioè una realtà o
una cosa (Wissen- schaftslehre, 1794, $ 2). Hegel considerava il prin- cipio di
C., con quello di identità, «la legge del- l’intelletto astratto » (Enc., $
115). E contrapponeva ad esso la legge della «ragione speculativa » che sarebbe
«Ogni cosa si contraddice in se stessa ». Questa legge sarebbe la radice di
ogni movimento e di ogni vita e il fondamento stesso della dialet- tica
(Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, I, pag. 545-46). Ma dall’altro lato la
dialettica (v.) è l'identità degli opposti: sicchè la C., se è la radice della
dialettica (cioè del movimento e della vita) non è tutta la dialettica la quale
anzi procede con- tinuamente conciliando e risolvendo le C. e sta- bilendo al
di là di esse ciò che Hegel stesso chiama identità o unità (cfr. Wissenschaft
der Logik, I, pag. 100). Nello stesso senso Gentile parlava del principio di
identità come della « legge fondamen- tale del pensiero» nel campo della
«logica del- l’astratto » (Sistema di logica, 1922, II, ,$89; mentre parlava
della unità dello Spirito con se stesso o con la realtà. Queste e simili
critiche del principio di C. (come degli altri princìpi logici) sono
inconcludenti. Da un lato esse mirano a un uso assai più dogmatico e metafisico
dei princìpi stessi, di quello che criticano: giacchè tendono ad avvalersi di
essi per spiegare «il movimento e la vita » della realtà intera. Dall'altro,
esse prendono a bersaglio mulini a vento; giacchè quando Leibniz e Kant
affermavano che il principio di C. è il fonda- mento delle verità identiche o
analitiche non intende- vano dire che esso è il fondamento di verità del ge-
nere « un pianeta è un pianeta », « il magnetismo è il magnetismo », « lo
spirito è lo spirito », come Hegel riteneva (Enc., $ 115), ma alludevano alle
verità ma- tematiche e logiche in quanto riducibili a tautologie. La rinuncia a
considerare i principi logici come princìpi della logica o addirittura come «
leggi fon- damentali del pensiero» si ha invece veramente nella logica
matematica moderna. Già nell’opera di G. Boole (Laws of Thought, 1854), i
princìpi logici sono spariti come assiomi della logica e sostituiti, in questa
loro funzione, dalla definizione delle operazioni logiche fondamentali,
modellate sulle operazioni dell’aritmetica. Lo stesso prin- cipio di C. era
considerato da Boole come un teo- rema derivato da una più fondamentale
espressione logica (/bid., cap. III, prop. IV, ed. Dover, pag. 49). Da Boole in
poi i princìpi che si assumono a fon- damento della logica sono semplicemente
le defi- nizioni delle funzioni, delle costanti e variabili logiche, dei
connettivi e degli operatori. I cosid- detti princìpi logici che ancora sono
onorati tal- volta del nome di « leggi» sono ridotti o a tauto- logie nel
calcolo delle proposizioni (cfr., per es., REICHENBACH, The Theory of
Probability, $ 4), o a teoremi dello stesso calcolo (cfr., per es., A. CHURCH,
Introduction to Mathematical Logic, $ 26. 13). CONTRAPPASSO Questo non vuol
dire che la consistenza formale di un discorso, la compatibilità reciproca
delle as- serzioni che lo costituiscono, è diventata meno importante. Ma vuol
dire soltanto che tale compa- tibilità è definita, per ogni sistema
linguistico, dalle regole di trasformazione o di inferenza, di implicazione o
di sinonimia che sono esplicitamente assunte nel sistema stesso o a cui esso fa
tacito riferimento. Il principio di rolleranza (v.) nella forma che gli ha dato
Carnap afferma: « Non è affar nostro stabilire proibizioni ma solo arrivare a
conven- zioni ». Questo significa che «in logica non c'è morale e che ognuno è
libero di costruirsi la sua propria logica, cioè la sua forma di linguaggio,
come desidera. Tutto ciò che deve fare, se egli vuol discuterne, è dichiarare
chiaramente i suoi me- todi e dare, invece di argomenti filosofici, le regole
sintattiche del suo discorso » (CARNAP, The Logical Syntax of Language, $ 17).
CONTRAPPASSO. V. TAGLIONE. CONTRAPPOSIZIONE (gr. dvri0eow; la- tino
Contrapositio; ingl. Contraposition; franc. Con- traposition; ted.
Kontraposition)i. Una delle forme della conversione (v.) delle proposizioni e
preci- samente quella che consiste nel negare il contrario della proposizione
convertita sì da avere, ad es., da «ogni uomo è animale », « ogni non-animale è
non-uomo » (cfr. ARIST., Top., II, 8, 113 b sgg.). CONTRARIETÀ (gr. èvavriétns;
lat. Contra- rietas; ingl. Contrariety; franc. Contrariété; tedesco
Kontrarietàt). 1. Una delle quattro forme dell'oppo- sizione (v.) e
precisamente quella che intercede tra «quei termini che dentro lo stesso genere
distano massimamente tra loro » (ARIST., Car., 6, 6a 17). Sono in opposizione
contraria il vero e il falso, il bene e il male, il caldo e il freddo, ecc.
Aristo- tele osserva che i contrari si escludono assoluta- mente e che non
esiste tra essi nozione intermedia, quando almeno uno di essi deve appartenere
al- l’oggetto: per es., non c’è termine intermedio tra malattia o sanità perchè
l’organismo animale deve essere necessariamente o sano o malato. C'è in- vece
termine intermedio tra il bianco e il nero tra ciò che eccelle e ciò che è
dappoco, ecc., perchè nessuno di tali caratteri deve necessariamente ap-
partenere ad un oggetto (/bid., 10, 11 b 32 sgg.). Cfr. Pietro Ispano, Summul.
Logic., 3.32. 2. In quanto distinta dalla sub-contrarietà (v.), la C. è la
relazione tra la proposizione universale affermativa (s ogni uomo corre +) e la
proposizione universale negativa (« nessun uomo corre +). Con- fronta
ARISTOTELE, De Int., 7, 17b 4; Pierro Ispano, Sumunul. Logic., 1.13.
CONTRATTUALISMO (ingl. Contractualism; franc. Contractualisme; ted.
Kontraktualismus). La dottrina che riconosce come origine o fondamento
CONTRATTUALISMO dello Stato (o in generale della comunità civile) una
convenzione o stipulazione (contratto) fra i suoi membri. Questa dottrina è
assai antica, e, molto probabilmente, i suoi primi sostenitori fu- rono i
Sofisti. Aristotele attribuisce al Sofista Li- cofrone (scolaro di Gorgia) la
dottrina che «la legge è una mera convenzione (synsheke) e una garanzia dei
mutui diritti »: alla quale dottrina Ari- stotele oppone che in questo caso
essa «non sa- rebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini » (Pol.,
III, 9, 1280b 12). Questa dottrina fu ri- presa da Epicuro, secondo il quale lo
Stato e la legge sono risultato di un contratto che ha il solo scopo di
facilitare i rapporti fra gli uomini. « Tutto ciò che nella convenzione della
legge si dimostra vantaggioso rispetto alle necessità che derivano dai rapporti
reciproci, è giusto per sua natura, sia o non sia per tutto lo stesso. Nel caso
che sia fatta una legge che si dimostri non rispondente ai bisogni dei rapporti
reciproci, essa allora non è giusta » (Mass. cap., 37). Ad una concezione
simile si rifaceva Carneade nel famoso discorso sulla giu- stizia che tenne a
Roma. «Per qual ragione si sarebbero costituiti svariati e differenti diritti
se- condo ogni popolo, se non per il fatto che ciascuna nazione sancì per se
stessa ciò che ritenne vantag- gioso per sè?» (Cicer., Rep., III, 20).
Eclissato nell’età medievale dalla dottrina della origine divina dello Stato e
in generale della comu- nità civile, il C. risorge nell’età moderna e diventa,
insieme col giusnaturalismo, un potente strumento di lotta per la
rivendicazione dei diritti umani. Le Vindiciae contra tyrannos pubblicate dai
Cal- vinisti a Ginevra nel 1579 riprendono la dottrina del contratto per
rivendicare il diritto del popolo di ribellarsi al re, quando egli venga meno
ali impegni del contratto originario. Nello stesso spi- rito Giovanni Altusio
generalizzò la dottrina del contratto adoprandola a spiegare ogni forma di
associazione umana. Il contratto non è soltanto contratto di governo che regola
le relazioni fra un reggitore e il suo popolo, ma è anche contratto so- ciale
in senso più ampio come tacito accordo che è a fondamento di ogni comunità
(consociatio) e che fa che gli individui diventino conviventi, cioè partecipi
dei beni, dei servizi, e delle leggi valide nella comunità (Politica methodice
digesta, 1603). Alla difesa del potere assoluto fecero servire la dottrina del
contratto Hobbes e Spinoza. Così Hobbes enunciava la formula base del
contratto: «Io trasmetto il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo o a
quest’assemblea, solo a patto che tu ceda il tuo diritto alla stessa maniera»
(Leviath., II, 17). Questa, dice Hobbes, è « l’origine di quel grande
Leviathano o, per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale al quale
dobbiamo, dopo che al Dio immortale, la nostra pace e difesa: poichè, per
quest’autorità conferitagli dai singoli componenti lo Stato ha tanta forza e
potere, che può disciplinare la volontà di tutti per la conquista della pace
interna e per l’aiuto scambievole contro i ne- mici esterni» (/bid., II, 17). A
sua volta Spinoza ritiene che lo Stato costituito dal consenso comune abbia un
diritto che è limitato soltanto dalla sua forza, la quale è la stessa « potenza
della moltitu- dine » (Tractatus politicus, 2, 17). Più frequentemente,
tuttavia, il C. viene adope- rato a dimostrare la tesi che il potere politico è
necessariamente limitato. In questo senso l’intesero Grozio e Pufendorf, e
specialmente Locke che l'usòa difendere la rivoluzione liberale inglese del
1688. Diceva Pufendorf: «Se prendiamo a considerare una moltitudine di
individui che godono di libertà e di uguaglianza naturale e vogliono procedere
alla istituzione di uno Stato, è necessario prima di tutto che questi futuri
cittadini contraggano tra loro singolarmente un patto col quale manifestino la
volontà di unirsi in associazione perpetua e di provvedere con deliberazioni e
ordini comuni alla propria salvezza e sicurezza. Questo patto può essere o
semplice o condizionato: il primo si ha quando uno si obbliga a partecipare
all’associazione qualunque sia la forma di governo approvata dalla maggioranza;
il secondo quando aggiunge la con- dizione che la forma di governo sia da lui
stesso approvata » (De iure naturae, 1672, VII, 2, 6. A sua volta Locke parla
del contratto come dell’ac- cordo degli uomini « di unirsi in una società poli-
tica » e perciò lo definisce come « il patto che esiste o deve necessariamente
esistere tra individui che si associano o fondano uno Stato»(Two Treatises of
Go- vernment, 1690,1I,899). Criticato da Hume il C.trovò in Rousseau
un’interpretazione che equivalse so- stanzialmente alla sua negazione. Difatti
il C. pre- suppone che gli individui come tali abbiano « diritti naturali » a
cui rinunziano, per acquistarne altri, col contratto sociale. Rousseau ritiene
che gli indi- vidui come tali siano assolutamente privi di diritti e che essi
abbiano diritti solo come cittadini di uno Stato. Gli uomini, dice Rousseau,
diventano uguali « per convenzione e diritto legale +; perciò « il diritto di
ciascun individuo al suo stato particolare è sempre subordinato al diritto
supremo della comu- nità » (Contrat social, 1762 I, 9). Già a Rousseau il
contratto originario appariva più come un mezzo per rendere « legittimo » il vincolo
sociale che come una realtà (/bid., I, 1); la stessa cosa venne chia- ramente
affermata da Kant: «L’atto col quale il popolo stesso si costituisce in uno
Stato o piuttosto la semplice idea di questo atto che sola permette di
concepirne la legittimità è il contratto originario, secondo il quale tutti
(omnes ef singuli) nel popolo depongono la loro libertà esterna per riprenderla
di nuovo sùbito come membri di un corpo comune » (Met. der Sitten, I, $ 47).
Difficilmente, oggi l’idea fondamentale del C., così com'è stata elabo- rata
dagli scrittori del ’700, può essere assunta come un valido strumento per
comprendere il fon- damento dello Stato e in generale della comunità civile.
Tuttavia, tra il xvi e il xvin secolo l’idea contrattualistica ha avuto una forza
di liberazione notevole nei confronti della consuetudine e della tradizione,
nel campo politico. Solamente oggi, con l’uso che le scienze e la filosofia
fanno di concetti come convenzione, stipulazione e impegno, la no- zione di
contratto potrebbe forse essere ripresa per un’analisi della struttura delle
comunità umane imperniata sulla nozione delle reciprocità degli im- pegni e del
carattere condizionale delle stipulazioni da cui traggono origine diritti e
doveri. CONTRAZIONE (lat. Contractio; ingl. Con- traction; franc. Contraction;
ted. Kontraction). Ter- mine adoperato da Duns Scoto per indicare il
determinarsi e il restringersi della « natura co- mune » (per es., la natura
umana) a un individuo determinato, ad esse hanc rem (Op. Ox., II, d. 3, q. 5,
n. 1). Utilizzando nello stesso senso (cfr. De docta ignor., II, 4: «La C. si
dice rispetto a qualcosa, per es., ad essere questo o quello +) l’espressione
scolastica, Cusano ha chiamato il mondo un « Dio contratto » nel senso che esso
è, come Dio, il mas-simo, l’unità, l’infinità, ma contratte cioè deter- minate
e individualizzate in un molteplice di cose singole (/bid., II, 4). Nella tarda
Scolastica, certo per influenza dello scotismo, la parola fu talora adoperata
ad indicare il determinarsi del genere nelle specie e della specie negli
individui. CONVENIENZA. V. Accorpo.CONVENZIONALISMO (ingl. Conventiona- lism;
franc. Conventionalisme; ted. Konventiona- lismus). Ogni dottrina secondo la
quale la verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta
all’accordo comune o alla stipulazione (ta- cita o espressa) di coloro che si
servono delle proposizioni stesse. L’antitesi tra ciò che è valido «per
convenzione » e ciò che è valido « per na- tura» fu familiare ai Greci.
Democrito dice: «Il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, il colore, sono tali
per convenzione; solo gli atomi e il vuoto sono tali in verità » (Fr. 125,
Diels). E il contrasto stesso, limitato al campo politico, fu uno dei temi
soliti dei Sofisti, soprattutto di quelli dell’ultima gene- razione, che
trovano la loro voce nei Dialoghi di Platone. Polo nel Gorgia, Trasimaco nella
Repub- blica, sostengono che le leggi umane sono pure convenzioni dirette a
impedire ai più forti di avva- lersi del diritto naturale che è connesso alla loro
forza. È secondo natura che il più forte domini CONTRAZIONE il più debole; e
questo accade di fatto quando un uomo dotato di natura idonea spezza le ca-
tene della convenzione e da servo diventa padrone (Gorg., 484 A). Che la legge
morale e giuridica fosse convenzione, fu dottrina sostenuta dagli Scet- tici
(Sesto E., /pot. Pirr., I, 146). Il contrattualismo del xv e xviu secolo ha
resa familiare l’idea che lo Stato, e in generale la comunità civile, come pure
le norme e i valori che da essa traggono ori- gine, sono i prodotti di una
convenzione o stipula- zione originaria. Accennando appunto a questa dottrina,
Hume notava che la convenzione in questo senso deve essere intesa, non come una
promessa formale, ma come «un sentimento dell’interesse comune, che ognuno
trova nel suo cuore » (/ng. Conc. Morals, App. 3); e aggiungeva « Così due
uomini muovono le vele di una barca con co- mune accordo per il comune
interesse, senza al- cuna promessa o contratto; così l'oro e l'argento sono
fatti misure dello scambio; così il discorso, le parole, la lingua sono fissati
dalle convenzioni e dall’accordo umano » (/bid., App. 3). Con queste parole,
forse per la prima volta, il concetto di convenzione veniva adoperato fuori del
campo politico. Ma un'estensione del C. al dominio conoscitivo si verifica solo
nella seconda metà dell’800 quando, con la scoperta delle geometrie non
euclidee, il carattere di verità evidente degli assiomi geometrici è venuto a
cadere. Dice Poincaré: « Gli assiomi geometrici non sono nè giudizi sintetici @
priori nè fatti sperimentali. Sono convenzioni. La nostra scelta fra tutte le
convenzioni possibili è guidata da fatti sperimentali; ma resta libera ed è
limitata soltanto dalla necessità di evitare la contraddi- zione » (La science
et l’hypothèse, II, cap. III). Lo stesso Poincaré si rifiutava tuttavia di
riconoscere a tutta la scienza il carattere convenzionale e di- fese
polemicamente, contro Le Roy, tale esten- sionedel C. (La valeur de la science,
1905). Lo sviluppo ulteriore della matematica ha tut- tavia consentito di
estendere il punto di vista di Poincaré a tutta la matematica. L'opera di
Hilbert portava a vedere nelle matematiche sistemi ipo- tetico-deduttivi nei
quali si deducono le conseguenze implicite in certe proposizioni originarie o
assiomi, secondo regole che gli assiomi stessi implicitamente o esplicitamente
definiscono. Poteva così essere for- mulata la tesi fondamentale del C.
moderno: le proposizioni originarie, da cui muove qualsiasi si- stema
deduttivo, sono convenzioni. Il che vuol dire: 1° non possono dirsi nè vere nè
false; 2° pos- sono essere scelte in base a determinati criteri che lasciano
tuttavia una certa latitudine alla scelta stessa. Per opera del Circolo di
Vienna (v.) e del- l’empirismo logico, il C. assumeva la forma, che
COPERNICANA, RIVOLUZIONE ha attualmente, di una tesi generale sulla struttura
logica del linguaggio. La Costruzione logica del mondo (1928) di Rudolf Carnap
costituisce la prima presentazione di questa tesi che era stata tuttavia
preparata dal Tractatus logico-philosophicus di Witt- genstein. «La logica,
dice Carnap, compresa in essa la matematica, consiste di stipulazioni conven-
zionali sull’uso dei segni e di tautologie che si fondano su queste
stipulazioni » (Logische Aufbau der Welt, $ 107). A questa tesi Carnap ha dato
successivamente il nome di « principio di tolleranza delle sintassi » perchè si
tratta di un principio che, mentre rende inoperanti tutti i divieti, consiglia
di stabilire distinzioni convenzionali. «In logica, dice Carnap, non c'è
morale. Ciascuno può costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di
linguaggio. Se vuol discutere con noi deve solo indicare come lo vuol fare,
dare determinazioni sintattiche invece di argomenti filosofici » (Logische
Syntax der Sprache, 1934, $ 17). Questa tesi si può dire oggi largamente
accettata, anche fuori del- l’empirismo logico. La seconda opera di Witt-
genstein, /nvestigazioni filosofiche (1953) l’ha por- tato all’estremo,
affermando che ogni linguaggio è una specie di « giuoco » che parte da
determinati presupposti di natura convenzionale; e riconoscendo la fondamentale
equivalenza dei giochi linguistici. Prescindendo da quest’ultima tesi e
assumendo il C. nella limitazione in cui viene solitamente mantenuto, cioè
relativa al campo della struttura logica del linguaggio, occorre sottolineare
il fatto che esso non implica per niente, come talora si crede, la perfetta
arbitrarietà delle convenzioni linguistiche. Si possono riassumere come segue i
capisaldi del C. contemporaneo: 1° la scelta delle proposizioni iniziali di un
sistema deduttivo (assiomi [v.] o postulati [v.]) deve ubbidire a criteri
limitativi, che hanno lo scopo di garantire la riproponibilità della scelta
stessa ai fini dello sviluppo deduttivo; 2° la determinazione delle regole di
deduzione, delle operazioni, delle procedure è egualmente sog- getta ad una
scelta limitata, sempre in vista della riproponibilità di tali regole,
procedure od ope- razioni; 3° le scelte di cui ai n. 1° e 2° costituiscono: a)
oggettivamente, il campo d’indagine comune su cui i ricercatori si possono
muovere; b) soggetti- vamente, l'impegno comune degli stessi ricercatori.
CONVENZIONE. V. CoNVENZIONALISMO. CONVERGENZA, LEGGE DI (ingl. Con- vergency
law). Così Whitehead ha chiamato il cri- terio usato dal senso comune e dalla
scienza per ottenere generalizzazioni fondate sull’osservazione. «Se A e B sono
due eventi ed A’ è parte di A, B' è parte di 8, allora sotto molti aspetti le
relazioni tra le parti A’ e 8’ saranno più semplici che le relazioni fra A e 8.
Questo principio regola tutti gli sforzi per raggiungere un’esatta osser- vazione
» (Organization of Thought, 1917, pag. 146 seguenti; The Concept of Nature,
1920; trad. ital., pag. 73). CONVERSIONE (gr. dvriotpopi; lat. Con- versio;
ingl. Conversion; franc. Conversion; tedesco Umkehriing). In Aristotele (Anal.
Pr., I, 1, 2) e nei trattati successivi di Logica classica (aristote- lica), è
l’operazione con la quale da un enunciato se ne ricava un altro (considerato
equivalente, ma la cosa è assai problematica) mediante scambio delle posizioni
rispettive dei termini (soggetto e predicato). Naturalmente ciò non è sempre
pos- sibile, e a volte si può fare solo introducendo un mutamento nel
quantificatore (« tutto » e « qualche »). Precisamente: la proposizione
universale afferma- tiva (per es., «tutti gli uomini sono mortali +) si
converte, per accidens, in una particolare afferma- tiva («qualche mortale è
uomo +); la particolare affermativa e l’universale negativa si convertono
simpliciter, ossia mediante semplice scambio dei termini; la particolare
negativa non può conver- tirsi. O. P. CONVINZIONE (ingl. Conviction; francese
Conviction; ted. Ueberzeugung). Termine
di ori- gine giuridica che designa un insieme di prove sufficiente a
«convincere» il reo, cioè a farlo ri-conoscere come tale. Nell’uso comune il
termine significa una credenza che ha sufficiente base og- gettiva per essere
ammessa da chiunque. In questo senso è definita da Kant: «Quando una credenza è
valida per ognuno, solo a patto che sia dotato di ragione, il fondamento di
questa credenza è oggettivamente sufficiente ed essa si chiama C.» (Crit. R.
Pura, Canone della R. Pura, sez. III). Il carattere oggettivo della C.
contrasta col ca- rattere soggettivo della persuasione (v.). Cfr. PE- RELMANN e
OLBRECHTS-TYTECA, Traité de l’argu- mentation, 1958, $ 6. COORDINAZIONE (ingl.
Coordination; fran- cese Coordination; ted. Koordination). Il rapporto tra
oggetti che sono situati nello stesso ordine o rango in un sistema di
classificazione; per es., due generi o due specie sono tra loro coordinati ma
non sono coordinati un genere e una specie. Coordinate si dicono gli insiemi
ordinati di nu- meri che servono a designare entità geometriche (punti, linee,
ecc.): oppure le caratteristiche che si utilizzano per distinguere od ordinare
varie classi di oggetti. COPERNICANA, RIVOLUZIONE (inglese Copernican
Revolution; franc. Révolution coperni- cienne; ted. Kopernikanische
Revolution). Si suole chiamare con questo nome il mutamento di pro- spettiva
realizzato da Kant: il quale invece di sup- porre che le strutture mentali
dell’uomo si modellinosulla natura, suppose che l’ordine della natura si
modella sulle strutture mentali. Il riferimento a Copernico fu fatto da Kant
stesso nella Prefazione alla seconda edizione (1787) della Critica della Ragion
Pura. Dewey ha osservato a questo propo- sito che quella di Kant è stata
piuttosto una rivo- luzione tolemaica perchè ha fatto della conoscenza umana la
misura della realtà. La rivoluzione C. dovrebbe consistere nel riconoscere che
lo scopo della filosofia non è quello di essere o di descrivere la totalità del
reale, ma quello più modesto di ri- cercare i valori che possono essere
assicurati e divisi da tutti, perchè connessi con i fondamenti della vita sociale (The Quest for
Certainty, 1930, pag. 295). COPULA
(ingl. Copula; franc. Copule; ted. Ko- pula). L’uso predicativo dell’essere
(v.). CORAGGIO (gr. avBpsta; lat. Fortitudo; in- glese Courage; franc. Courage; ted. Muth). Una delle quattro virtù enumerate da Platone e
che furono poi dette cardinali (v.) e una delle virtù etiche (v.) di
Aristotele. Platone la definisce come «l’opinione retta e conforme alla legge
su ciò che si deve e su ciò che non si deve temere» (Rep., IV, 430 b).
Aristotele la definisce come il giusto mezzo tra la paura e la temerarietà (Et.
Nic., III, 6, 1115a 4). Ma come virtù che costituisce la saldezza della
deliberazione, il C. viene in qualche modo privilegiato e considerato una delle
virtù principali. Così fece Aristotele (/bid., III, 7). Cice- rone affermava: «
Virtù deriva da vir (uomo) ed è soprattutto virile, cioè proprio dell’uomo, il
co- raggio, di cui due sono i principali attributi: di- sprezzo della morte e
disprezzo del dolore » (Tusc., II, 18, 43). La stessa cosa è ripetuta da S. Tommaso
(S. 7A., II, II, q. 123, a. 2). In senso biologico- filosofico il coraggio è
stato definito da K. Gold- stein: «Il C., nella sua forma più profonda è unsì
detto alla lacerazione dell’esistenza accettata come una necessità affinchè si
possa portare a compi- mento la realizzazione dell’essere che ci è proprio ».
In questo senso il C. è il contrario déll’angoscia (v.) ed è un atteggiamento
orientato verso il possibile non ancora realizzato nel presente (Der Aufbau des
Organismus, 1934, pag. 198). CORNUTO, ARGOMENTO (gr. xeparivng; lat. Cornutus).
Così è chiamato il sofisma di Eu- bulide: «Ciò che non hai perduto, lo hai:
manon hai perduto le corna, dunque le hai» (Diog. L., VII, 187). COROLLARIO
(gr. nspwopa; lat. Corollarium; ingl. Corollary; franc. Corollaire; ted.
Korollar).Ciò che si deduce da una dimostrazione precedente, come una specie di
sovrappiù o guadagno extra (EucLIDE, E/., III, 1); oppure una specie di
propo-sizione intermediaria tra il teorema e il problema (PaPPO, 648, 18 sgg.;
ProcLo, /n Eucl., pag. 301 F). Il termine fu esteso al linguaggio filosofico da
Boezio (Phil. Cons., III, 10). Nel primo senso il C. fu talora chiamato
consectarium (JuNGIUS, Logica ham- burgensis, IV, 11, 13). La differenza tra
teorema e C. è trascurata dalla logica contemporanea. CORPO (gr. oòua; lat.
Corpus; ingl. Body; franc.
Corps; ted. Kòrper). L’oggetto
naturale in generale, cioè: qualsiasi oggetto possibile della scienza naturale.
Come già notava Aristotele (De cael., I, 1, 268 a 1) tutto ciò che appartiene
alla natura è costituito da C. e grandezze o da cose che hanno C. e grandezza o
dai princìpi delle cose che li hanno. La più antica e famosa definizione di C.
è quella data dallo stesso Aristotele: « C. è ciò che ha estensione in ogni
direzione» (Fis., III, 5, 204 b 20); e che «in ogni direzione è divi- sibile »
(De cael., I, 1, 268a 7). Per «ogni dire- zione » Aristotele intende l’altezza,
la larghezza e la profondità: il C. che possiede tutte e tre queste dimensioni
è perfetto nell’ordine delle grandezze (Ibid., I, 1, 268a 20). Questa
definizione è rimasta costante per molti secoli. Essa venne accettata dagli
Stoici (Diog. L., VII, 1, 135) che aggiungevano ad essa la solidità; e da
Epicuro che aggiungeva ad essa l’impenetra-bilità (Sesto E., /por. Pirr., III,
39 sgg.). La tradi. zione scolastica la riproduce egualmente (per es., S. Tommaso, S. Th., I, q. 18,
a. 2). E Cartesio non fa che riassumere questa
tradizione con la sua de- finizione del C. come sostanza estesa. Egli dice: «La
natura della materia o del C. in generale non consiste nell’essere dura o
pesante o colorata o qualsiasi altra cosa che affetti i nostri sensi ma
soltanto nell’essere una sostanza estesa in lun- ghezza, larghezza e
profondità» (Princ. Phil., II, 4). Questa definizione non contiene nulla di
nuovo rispetto a quella tradizionale; e non con- tengono nulla di nuovo la
definizione spinoziana che la riproduce (Spinoza, £r., I, 15, schol.), nè
quella di Hobbes (De Corp., VIII, $ 1). Un’innovazione al concetto di C. è
apportata solo da Leibniz. Questi distingue il « C. matema- tico » che è lo
spazio e che contiene solo le tre dimensioni, dal « C. fisico » che è la
materia e che contiene, oltre l’estensione, « la resistenza, la den- sità, la
capacità di riempire lo spazio e l’impene- trabilità: la quale ultima consiste
in ciò che un C. è costretto, da un altro C. sopravveniente, a cedere o a
fermarsi» (Op., ed. Erdmann, pag. 53). Da questa nozione di C. Leibniz è
portato a negare che il C. sia «sostanza»: ciò che in esso c’è di reale è soltanto
la capacità (vis) di agire e di subire un’azione (/bid., ed. Erdmann, pag.
445). Que- st’ultima è forse la ripresa di una vecchia defini- CORPO zione
(Sesto Empirico l’attribuisce a Pitagora, Adv. Math., IX, 366). Ma, nel
significato che Leibniz le conferisce, essa aprì la via all'elaborazione del
concetto scientifico di C. come «massa», quale si ebbe nella fisica newtoniana:
la massa essendo il rapporto tra la forza e l’accelerazione impressa, è
interamente esprimibile in termini di « capacità di agire e di subire un’azione
+, secondo la defi- nizione di Leibniz. Lungo questa linea di sviluppo che da
Leibniz muove alla fisica classica e dalla fisica classica alla fisica della
relatività, la nozione di C., attraverso quella di massa, conduce alla nozione di
campo (v.). Per la fisica contemporanea un C. è soltanto una « certa intensità
del campo» (EinsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III; tra- duzione ital.,
pag. 253). La filosofia, tuttavia, non ha seguito da vicino questo sviluppo che
la nozione ha subito nel do- minio della fisica. Nel mondo moderno e contem-
poraneo, essa ci offre, a proposito della nozione di C., le alternative
seguenti: 1° L'alternativa idea- listica per la quale i C. sono «
rappresentazioni », O « percezioni +, o «idee +, o complessi di tali cose.
Quest’alternativa introdotta da Berkeley e accet- tata da Hume, è stata la più
diffusa nella filosofia moderna e domina tuttora la filosofia contempo- ranea.
Per quanto grande sia la sua importanza in tali filosofie, quest’alternativa
non è importante dal punto di vista della nozione di C. perchè essa implica,
semplicemente, che i C. non esistono e perciò ne elimina il problema. 2°
L’alternativa che consiste nel ritenere i C. come utensili o stru- menti o
mezzi di cui si avvale l’uomo nel mondo e perciò nel caratterizzarli mediante
le possibilità di azione e reazione che essi offrono all’uomo.
Quest'alternativa è propria della filosofia contem- poranea, nella quale essa è
stata introdotta dal- l’esistenzialismo e dallo strumentalismo americano. In
questo significato però la nozione di C. si iden- tifica con quella di cosa,
sotto il qual termine essa viene più comunemente designata. Per esso si può
quindi vedere la voce Cosa. CORPO (gr. oiwsua; lat. Corpus; ingl. Body; franc. Corps; ted.
Leib). La più antica e diffusa concezione del C.
è quella che lo considera lo strumento dell’anima. Ora, ogni strumento può
essere o positivamente apprezzato per la funzione che compie e perciò elogiato
od esaltato; o criti- cato perchè non risponde bene al suo scopo o perchè
implica limitazioni e condizioni. L’una e l’altra vicenda è toccata al C. nella
storia della filosofia; la quale ci offre sia la condanna totale del C. come
tomba o prigione dell’anima, secondo la dottrina degli Orfici e di Platone
(Fed., 66 b seguenti), sia l’esaltazione del C. fatta da Nietzsche (« Colui che
è desto e cosciente, dice: sono tutto C. 12 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia.
177 e nulla all’infuori di esso», A/so sprach Zarathustra, I, Gli odiatori del
C.). Nella prima direzione, il mito, esposto nel Fedro platonico, della caduta
dell'anima nel C., viene ripreso dalla Patristica orientale e specialmente da
Origene (De princ., II, 9, 2). Scoto Eriugena, ai princìpi della Scolastica, lo
riprodu- ceva (De divis. nat., II, 25). Anche questa concezione presuppone la
nozione della strumentalità del C.: nello stato di caduta, dovuto al peccato,
l’anima ha bisogno del C. e le è indispensabile valersi dei suoi servizi. Ma
ovviamente la più compiuta e tipica formulazione della dottrina della strumen-
talità è quella di Aristotele, per il quale il C. è «un certo strumento
naturale» dell'anima come la scure lo è del tagliare; sebbene il C. non sia si-
mile alla scure in quanto « ha in se stesso il prin- cipio del movimento e
della quiete» (De an., II, 1, 412 b 16). Il materialismo, come non implica ne-
cessariamente la negazione della sostanzialità del- l’anima (v.), così non implica
neppure la negazione della strumentalità del C.; anche se l’anima è corporea,
il C. può avere, rispetto ad essa, una funzione strumentale. Così riteneva
Epicuro che attribuiva al C. la funzione di preparare l’anima ad esser causa
della sensazione (Ep. a Erod., 63 seguenti); e così ritenevano gli Stoici per i
quali l'anima è ciò che domina o in vari modi utilizza l'organismo corporeo
(AEzio, Plac., IV, 21). Nè è diversa la concezione del C. nel materialismo di
Hobbes, il quale affermando che «lo spirito non è altro che un movimento in
certe parti del C. organico » (Z7/ Objections contre les Méd. carté- siennes,
4) riconosce con ciò stesso la strumentalità del C. rispetto a quel « movimento
» che è l’anima. Nè il più grossolano materialismo dell’800 per cui l'anima
sarebbe un prodotto del cervello come la bile del fegato o l’urina dei reni,
obbedisce a uno schema interpretativo diverso: il cervello, come il fegato e i
reni, è pur sempre uno strumento per la produzione di qualcosa. Dall'altro lato
lo spiritua- lismo, quello, per es., dei Neoplatonici, ammette ugualmente la
dottrina della strumentalità: «Se l’anima è sostanza, dice Plotino, essa sarà
una forma separata dal C. o, come meglio si direbbe, ciò che si serve del C.»
(Enn., I, 1, 4). La dottrina «della strumentalità domina l’intera filosofia
medie- vale. Dice S. Tommaso: «Il fine prossimo del C. umano è l’anima
razionale e le operazioni di essa. Ma la materia c’è in vista della forma e gli
strumenti ci sono in vista delle azioni dell’agente + (S. 7h., I, q. 91, a. 3).
Un’eccezione a questa dot- trina è costituita dalla teoria della « forma di
cor- poreità » che fu propria dell’agostinismo (v.) me- dievale e che
consisteva nel riconoscere al C. organico una sua forma o sostanza
indipendente. Ma l’ab- bandono definitivo del concetto della strumentalità 178
del C. si ha soltanto con il dualismo cartesiano. Si crede comunemente che la
separazione istituita da Cartesio tra anima e C. come tra due sostanze diverse
abbia avuto come conseguenza di stabilire l'indipendenza dell’anima rispetto al
corpo. In realtà, la sua prima conseguenza è stata quella di stabilire
l'indipendenza del C. rispetto all’anima: un punto di vista che, prima di
Cartesio, non si era mai presentato. Difatti la strumentalità del C. suppone
che il C. non possa far nulla senza l’anima, al modo in cui la scure non serve
a nulla se non è impugnata da qualcuno. Ma il riconoscimento che l’anima e il
C. sono due sostanze indipendenti, implica, come dice Cartesio, che «tutto il
calore e tutti i movimenti che sono in noi appartengono solo al C., in quanto
non dipendono dal pensiero affatto » (Passions de l’éme, I, 4). Da questo nuovo
punto di vista, il C. appare come una macchina, una macchina che cammina da sè.
«Il C. di un uomo vivente, dice Cartesio, differisce da quello di un morto
proprio come un orologio o un altro automa (per es., una macchina che si muove
da sè) quando è caricato e contiene in se stesso il prin- cipio corporeo dei
movimenti per i quali è stato progettato insieme con tutti i requisiti per
agire, differisce dallo stesso orologio o dalla stessa macchina quando è rotta
o quando il principio del suo movimento cessa di agire» (/bid., $ 6).
Quest’affermazione della realtà indipendente del C. come automa non è tanto una
tesi metafisica, quanto una tesi metodologica che prescrive la di- rezione e
gli strumenti delle indagini dirette alla realtà del «C.». E proprio in questo
senso ha agito storicamente la tesi cartesiana, che ha for- nito per lungo
tempo il presupposto teorico delle indagini scientifiche sui corpi viventi. Dal
puntodi vista filosofico, tuttavia, il dualismo cartesiano aveva lo svantaggio
di dar luogo ad un problema che era sconosciuto alla classica concezione del C.
come strumento: cioè al problema del rapporto tra anima e corpo. La concezione
classica, infatti, già con la definizione del C. come strumento del- l’anima e
dell'anima come forma o ragion d’essere del corpo, risolveva a suo modo tale
problema giacchè in realtà queste definizioni non sono che soluzioni postulate del
problema stesso. Ma col dualismo di anima e C. il problema emergeva alla luce
in tutta la sua crudezza. Come e perchè le due sostanze indipendenti si
combinano a for- mare l’uomo? E come l’uomo che è, sotto un certo aspetto, una
realtà unica, può risultare dalla com- binazione di due realtà indipendenti? La
filosofia moderna e contemporanea ha apprestato quattro soluzioni di questo
problema. 18 La prima di esse consiste nel negare la di- versità delle sostanze
e nel ridurre la sostanza cor-
CORPO porea alla sostanza spirituale.
Così ha fatto Leibniz che ha concepito il C. vivente come un insieme di monadi,
cioè di sostanze spirituali, raggruppate intorno ad una «entelechia dominante»
che è l’anima dell’animale (Monad., $ 70). Da questo punto di vista «Il C. è un
aggregato di sostanze e non è una sostanza esso stesso » (Op., ed. Erdmann,
pag. 107). Sostanza è soltanto l’anima. Questa soluzione di Leibniz è il
modello di numerose altre che sono state date nel corso della filosofia moderna
e contemporanea, soprattutto dalle cor- renti dello spiritualismo (v.).
L'espressione classica di questo punto di vista si può trovare nel Mfi-
crocosmo di Lotze. Varianti di questa stessa soluzione possono essere
considerate le dottrine di Schopenhauer e Bergson. Schopenhauer identifica il
C. con la volontà cioè con quella che egli ritiene il noumeno o la sostanza del
mondo, di cui la rappresentazione è il feno- meno. Egli dice: «Il mio C. e la
mia volontà sono tutt'uno. Oppure: ciò che io chiamo mio C. come rappresentazione
intuitiva, lo chiamo mia volontà in quanto ne sono conscio in maniera del tutto
di- versa, non paragonabile ad alcun’altra. Oppure: il mio C. è l’oggettività
della mia volontà. Op- pure: prescindendo dal fatto che il mio C. è rap-
presentazione, esso non è altro che volontà» (Die Welt, I, $ 18). A sua volta
Bergson, ripren- dendo parzialmente la vecchia tesi, afferma che «il nostro C.
è uno strumento d’azione e di azione solamente +». Esso non contribuisce
diretta- mente alla rappresentazione e in generale alla vita della coscienza:
serve solo a selezionare imagini in vista dell’azione, cioè a rendere possibile
la percezione che consiste appunto in tale selezione. Ma la coscienza, che è
memoria, è indipendente da esso (Matiére et Mémoire, spec. Résumé et
Conclusion; ed. di Genève, pag. 232 sgg.). Ovvia- mente l’ultimo risultato di
quest’analisi di Bergson è la riduzione del C. alla percezione (come della
coscienza alla memoria): cioè la negazione di ogni realtà propria del C.
stesso. 2 La seconda soluzione, assai prossima alla prima, considera il C. come
un segno dell’anima. Questa è veramente dottrina assai antica che Pla- tone
(Crat., 400 b) attribuisce agli Orfici: ma la sua prevalenza si ha nel
Romanticismo. Dice Hegel: «L’anima nella sua corporalità, del tutto formata e
resa sua propria, sta come soggetto singolo per sè; e la corporalità è per tal
modo l’esteriorità in quanto predicato nel quale il soggetto si riconosce solo
a sè. Questa esteriorità non rappresenta sè ma l’anima; ed è il segno di questa
» (Enc., $ 411). Da questo punto di vista il C. è la « manifestazione esterna »
o la «realizzazione esterna » dell’anima: esprime cioè l’anima nella forma di
un'esteriorità che non è come tale reale ma soltanto « simbolica ». Residui di
questa concezione si possono trovare in tutte le dottrine le quali vedono nel
C. un com- plesso di fenomeni espressivi. 3% La terza soluzione consiste nel
negare la diversità delle sostanze ma non quella tra anima e C. e perciò nel
considerare l’anima e il C. come due manifestazioni di una stessa sostanza.
Spinoza ha dato a questa soluzione la sua forma tipica considerando l’anima e
il C. come modi o mani- festazioni dei due attributi fondamentali dell’unica
Sostanza divina, il pensiero e l’estensione. «In- tendo per C., egli ha detto,
un modo che in una certa, determinata guisa esprime l’essenza di Dio in quanto
è considerato come cosa estesa +? (£r., II, def. 1). Pertanto «l’idea del C. e
il C., ossia la mente e il C., formano un solo e medesimo individuo che viene
concepito ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto l’attributo
dell’estensione » (Ibid., \I, 21, schol.). Questa dottrina ovviamente implica
che l’ordine e la connessione dei fenomeni corporei corrispondano perfettamente
all’ordine e alla connessione dei fenomeni mentali e che per- tanto si possa,
ricostruendo l’ordine e la connes- sione degli uni, rendersi conto dell’ordine
e della connessione degli altri. Per questo vantaggio che l’ipotesi spinoziana
sembra offrire nonchè per il fatto che essa esclude la possibilità di mescolare
e confondere le due serie di fenomeni assumendo per es., come causa di un
fenomeno corporeo un fenomeno mentale o viceversa, la dottrina di Spi- noza ha
fornito il modello di quella dottrina del parallelismo psico-fisico (v.) che ha
presieduto alla formazione della psicologia scientifica moderna cd è servita
come ipotesi di lavoro per la psicologia stessa sino ad alcuni decenni fa. 48
La quarta soluzione consiste nel conside- rare il C. come una forma di
esperienza o come un modo d’essere vissuto, che abbia tuttavia un carattere
specifico accanto ad altre esperienze o modi d’essere. I precedenti di questa
soluzione sono le dottrine, cui si è accennato a proposito della soluzione 18,
di Schopenhauer e Bergson. Ma mentre tali dottrine hanno ancora risonanze idea-
listiche e implicano la riduzione del C. a spirito, l’ipotesi di cui ora ci
occupiamo non ha signifi cato idealistico ed evita tale riduzione. Questa
soluzione ha trovato la sua forma tipica nella fenomenologia di Husserl;
secondo il quale il C. è l’esperienza che viene isolata o individuata dopo
successivi atti di riduzione fenomenologica. « Nella sfera di ciò che mi
appartiene (dalla quale si è eli- minato tutto ciò che rinvia ad una
soggettività estranea) ciò che chiamiamo natura pura e semplice, non possiede
più il carattere di essere oggettivo e perciò non dev’essere confuso con uno
strato astratto dal mondo stesso o dal suo significato immanente. Fra i C. di
questa natura ridotta a ‘ ciò che mi appartiene * io trovo il mio proprio C.
che si distingue da tutti gli altri per una particola- rità unica: è il solo C.
che non è soltanto un C. ma il mio C.; è il solo C. all’interno dello strato
astratto, ritagliato da me nel mondo al quale, conformemente all’esperienza, io
coordino, in modi diversi, campi di sensazione; è il solo C. di cui dispongo in
modo immediato come dispongo dei suoi organi » (Méd. Cart., $ 44). In tal modo
il C. viene considerato come un’esperienza vivente, con- nesso con possibilità
umane ben determinate. In modo analogo il fisiologo Kurt Goldstein ha di-
stinto spirito, anima e C. come processi diversi ma connessi, i quali prendono
significato e rilievo solo nella loro connessione. Tali processi sono in realtà
comportamenti diversi dell’organismo vi- vente. In particolare il C. è «
un’imagine fisica de- terminata e multiforme » che si può descrivere come un
fenomeno di espressione o come un insieme di atteggiamenti o come fenomeni che
fanno capo a tutti gli organi possibili. Se lo spirito è l’essere dell’organismo
e precisamente il suo essere nel mondo, il complesso degli atteggiamenti
vissuti, l’anima è il suo avere, cioè la sua capacità cono- scitiva; e il C. è
il divenire, che non abbiamo e non siamo, ma che accade in noi. Questo divenire
è sostanzialmente un «dibattito col mondo» at- traverso il quale l’uomo
accumula le sue espe- rienze e forma le sue capacità (Der Aufbau des
Organismus, 1927, pag. 206 sgg.). Da questo punto di vista il C. non è che un
comportamento o me- glio un elemento o una condizione del compor- tamento
umano. Affine a questa concezione è la dottrina di Sartre per la quale il C. è
l’esperienza di ciò che è « oltrepassato » e « passato ». « In ciascun progetto
del Per-sè [cioè della coscienza], in cia- scuna percezione, il C. è là: esso è
il passato imme- diato in quanto affiora ancora nel presente che lo fugge.
Questo significa che esso è, ad un tempo, punto di vista e punto di partenza:
un punto di vista, un punto di partenza che io sono e che in- sieme oltrepasso
verso ciò che ho da essere » (L’étre et le néant, 1945, pag. 391-92).
Merleau-Ponty ha messo in luce con tutta chiarezza le tesi implicite in questo
punto di vista. Il C. non è un oggetto, una cosa. « Sia che si tratti del C.
altrui, sia che si tratti del mio, non ho altro modo di conoscere il C. umano
che viverlo, cioè assumere sul mio conto il dramma che mi attraversa e
confondermi con esso ». Ma quest'esperienza vissuta dal proprio C. non ha nulla
a che fare col « pensiero del C.» o con «l’idea del C.» che ci formiamo per
rifles- sione attraverso la distinzione del soggetto e del- l'oggetto.
Quell’esperienza ci rivela un modo di esistenza «ambiguo»: se cerchiamo di
pensare il C. come un fascio di processi in terza persona (per es., come
«visione», «mobilità », « sessua- lità ») ci accorgiamo che queste funzioni non
sono legate fra loro e col mondo esterno da un rapporto di causalità, ma sono
tutte fuse e confuse in un unico dramma. Descartes, d’altronde, nota Merleau-
Ponty, aveva già distinto il C. quale è concepito per gli usi della vita dal C.
che è concepito dall’in- telletto (Phénoménologie de la perception, pag. 231;
cfr. CARTESIO, Opera, III, pag. 690). È da osservare che questa riduzione, così
caratteristica della filo- sofia contemporanea, del C. a un comportamento, o a
un modo d'essere vissuto, non ha alcun signi- ficato idealistico: non implica
la negazione della realtà oggettiva del C. stesso o la sua riduzione a spirito,
o a idea, o a rappresentazione. Al con- trario, questa interpretazione della
nozione di C. ba accentuato l’oggettività della sfera di feno- meni in cui il
C. consiste: sfera di fenomeni che essa ha cercato di definire in termini di
pos- sibilità di esperienza o di accertamento, secondo un orientamento
fondamentale della filosofia con- temporanea nei confronti della realtà in
generale (v. REALTÀ). CORPOREITÀ, FORMA DI (lat. Forma corporeitatis). Secondo
la tradizione agostiniana della Scolastica (v. AGOSTINISMO), è quella realtà
che il corpo possiede come corpo organico, indi- pendentemente dalla sua unione
con l’anima e che lo predispone a tale unione. Così la nozione è definita da
Duns Scoto (Op. Ox., IV, d. 11, q. 3; Rep. Par., IV, d. 11, q. 3). Si tratta di
una nozione caratteristica dell’agostinismo e usata come arma polemica contro
l’aristotelismo per il quale il corpo, come materia, è potenza e pertanto non
ha sostan- zialità o forma. CORRELAZIONE (gr. tà rmpéc ti dvrelgeva; lat.
Korrelatio; ingl. Correlation; franc. Corrélation; ted. Correlationi. Una delle
quattro forme di op- posizione enumerate da Aristotele e precisamente quella
che intercorre tra termini correlativi, come la metà e il doppio. Gli opposti
correlativi non si escludono a vicenda perchè anzi si richiamano l’uno con
l’altro nel senso che il doppio si dice della metà e la metà del doppio. Sono
termini correlativi anche lo scibile e la scienza che si di- cono l’uno in
rapporto all’altro (Car., 10, l1lb 23 sgg.). Nella logica scolastica questo
rapporto fu espresso dicendo che in esso il soggetto e il ter- mine possono
scambiarsi: sicchè, ad es., Davide è il soggetto della relazione di paternità
mentre è il termine della relazione di filiazione, che ha in Salomone il suo
soggetto; e reciprocamente Salo- mone è il termine della paternità che è in
Davide (cfr., ad es., JunGIUS, Logica, I, 8, 6). Hamelin, intendeva sostituire,
nella dialettica hegeliana, la C. alla contraddizione: gli opposti di questa
dialet- tica sono per lui opposti correlativi, non opposti contraddittori
(Essai sur les Éléments principaux de la Représentation, 1907, pag. 35).
CORRETTIVA, GIUSTIZIA. V. ComMuta- CORRISPONDENZA (lat. Adaeguatio; inglese
Correspondence; franc. Correspondance; ted. Ùber- einstimmung o Korrespondenz).
La dottrina secondo la quale la verità consiste nell’adeguazione o nel-
l'accordo o nella C. di termine a termine, tra il pensiero o la conoscenza o le
proposizioni lingui- stiche da un lato, la realtà o i fatti dall'altra. È
questo il criterio di verità presupposto dalla filo- sofia classica ed espresso
dalla definizione scola- stica di verità come adeguazione dell’intelletto e
della cosa (v. VERITÀ). CORRUZIONE (gr. pBopà; lat. Corruptrio; ingl.
Corruption; franc. Corruption; ted. Vergehen). Secondo Aristotele costituisce,
insieme col suo op- posto, la generazione, l'attualità di una delle quattro
specie di movimento e precisamente del movimento sostanziale, in virtù del
quale la sostanza si genera o si distrugge. «La corruzione, dice Aristotele, è
un mutamento che va da qualcosa al non essere di questo qualcosa, ed è assoluta
quando va dalla sostanza al non essere della sostanza, specifica quando va
verso la specificazione opposta + (Fis., V, 1, 225a 17). Per la dottrina della
C. dell’uomo v. CADUTA; PECCATO ORIGINALE. CORSO DELLE NAZIONI. Così chiamò
Vico la «costante uniformità » dimostrata, pur nella varietà dei costumi, dalla
storia dei diversi popoli in quanto si lascia dividere nelle «tre età che
dicevano gli Egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi
e degli uomini» (Scienza nuova, IV) (v. RICORSI). COSA (gr. mpéyua; lat. Res;
ingl. Thing; fran- cese Chose; ted. Ding).
Questo termine ha, nel di- scorso comune, come in quello filosofico, due si-
gnificati fondamentali: 1° quello generico per cui designa qualsiasi oggetto o
termine, reale o irreale, mentale o fisico, ecc., con cui, in un modo qual-
siasi, si abbia a che fare; 2° quello specifico per cui denota gli oggetti
naturali in quanto tali. 1° Nel primo significato, la parola è uno dei termini
più frequenti del linguaggio comune e viene anche abbondantemente adoperata dai
filo- sofi. « C. » può essere il termine di un atto di pen- siero o di
conoscenza oppure d’imaginazione o di volontà; di costruzione o di distruzione,
ecc. Si può parlare di una C. che è nella realtà come pure di una C. che è
nell’imaginazione, o nel cuore, o nei sensi, ecc. Sicchè si può dire che in
questo significato C. significa un termine qual- siasi di un qualsiasi atto
umano o, più esattamente, un qualsiasi oggetto con cui in un modo qualun- que
si abbia a che fare. Questo è il significato racchiuso nella parola greca
pragma. 2° Nel suo più ristretto significato, la C. è l'oggetto naturale che è
detto anche «corpo» o «sostanza corporea ». L’uso del termine in questo secondo
significato è piuttosto recente. Si può forse far risalire a Cartesio che però
accanto all’espres- sione « C. corporee» (choses corporelles) adopera anche «
C. che pensa » (chose qui pense) mostrando così d'intendere la parola nel
significato che è tra- dizionalmente proprio di sostanza (Méd., II, passim).
Locke preferì la parola « sostanza » (« Le idee delle sostanze sono quelle
combinazioni di idee semplici di cui si assume che rappresentino C. particolari
e distinte, sussistenti di per se stesse », Saggio, II, 12, $ 6). E solo con
Berkeley si può dire che il termine C. ha soppiantato definitivamente quello di
sostanza: « Le idee impresse nei sensi dall’autore della natura, egli dice,
sono chiamate C. reali e quelle eccitate dall’imaginazione, essendo meno
regolari, vivide e costanti, sono più propriamente chiamate idee o imagini
delle C. che esse copiano o rappresentano » (Principles, I, $ 33). Da questo
punto in poi il termine C. diviene assai frequente per indicare il corpo o
l'oggetto naturale in gene- rale. Kant lo estende ancora di più, distinguendo
le cose quali appariscono a noi, cioè sottoposte alle condizioni della nostra
sensibilità (spazio e tempo), e le C. in generale o C. in sé (v.) (Critica R.
Pura, $ 8). Ma egli fissa anche il significato del termine nella sua
trattazione dello schematismo trascendentale, dove fa della cosalità o realtà
(Sach- heit, Realitàt) lo schema fondamentale della cate- goria di qualità, nel
senso che «C. in generale è ciò che corrisponde ad una sensazione in generale »
{Ibid., Schematismo dei concetti puri). Da questo punto in poi, la storia della
nozione di C. si può dividere in due filoni fondamentali a seconda che. a tale
nozione venga riconosciuto o negato un suo significato specifico. Possiamo
perciò distinguere: a) L'indirizzo per il quale l’essere della C. viene risolto
nell’essere in generale. Così, per l’idea- lismo empirico per il quale l’essere
è rappresenta- zione o idea, la C. è rappresentazione o idea o un complesso di
rappresentazioni o di idee. Questa dottrina, che è quella di Berkeley, è stata
innume- revoli volte riprodotta nella filosofia moderna e contemporanea. Per
l’idealismo assoluto o roman- tico, per il quale la realtà è la ragione stes-
sa, la C. è un concetto della ragione; e infatti Hegel la considera come una
categoria logica (Enc., $ 125 sgg.; Wissenschaft der Logik, ed. Glock- ner, I,
pag. 602 sgg.). Il significato autonomo della nozione non è salvato dalla
modificazione, proposta da Stuart Mill, della tesi dell’empirismo classico.
Secondo Stuart Mill, le C. sono « possi- bilità di sensazioni» (Examination of
Hamilton’s Phil., pag. 190 sgg.); ma ciò non delimita speci- ficamente il modo
d'essere delle cose. Nè lo deli- mità la concezione di Mach, che definisce le
C. come complessi di sensazioni (Analyse der Emp- findungen, 9* ediz., 1922,
pag. 14); anche se le « sensazioni » di cui parla Mach non sono deter-
minazioni soggettive, ma elementi neutri che en- trano a comporre sia le C. sia
la mente. Questo punto di vista è stato riprodotto da Russell secondo il quale
« una C. è un séguito determinato di appa- renze, in un legame continuo le une
con le altre secondo certe leggi causali» (Scientific Method in Phil., 1926,
IV; trad. franc. pag. 86). La connessione del modo d°’essere delle C. con
l’azione umana, connessione sulla quale, come ve- dremo sùbito, si fonda la
nozione positiva di C., è messa in luce da Bergson, ma è utilizzata da lui solo
allo scopo di negare la realtà delle cose. « Non ci sono C., ci sono soltanto
azioni », egli ha detto (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 270). Le C. sono
creazioni dell’intelligenza in quanto funzione pra- tica, che solidifica il
divenire sostituendo la stabi- lità fittizia di « C.» o di «stati» alla
continuità e fluidità della coscienza (/bid., pag. 269 sgg.; 296). In questa
dottrina le C. si riducono ad azioni e l’azione alla durata reale della
coscienza; si ha cioè, sia pure con una certa consapevolezza dei problemi
inerenti, la solita riduzione della C. ad uno stato soggettivo. E il
significato di tale riduzione della C. a elementi soggettivi comunque
qualificati (sensazioni, rappresentazioni, idee, azioni, ecc.) è semplicemente
questo: che non esistono cose. b) L’indirizzo per il quale l’essere della C. ha
un significato specifico. Su tale significato ha in- sistito, dal punto di
vista fenomenologico, Husserl affermando che esiste « una diversità
fondamentale tra l’essere come esperienza vissuta e l’essere come C. »; e che
pertanto « una C. non può essere data in nessuna possibile percezione o altra
modalità di coscienza in generale » (/deen, I, $ 42). Il modo d'es- sere
specifico della C., consiste nel fatto che essa è data in un numero indefinito
di apparizioni ma rimane trascendente come un’unità che è al di là di queste
apparizioni, e che tuttavia si manifesta in un nòcciolo di elementi ben
determinati, circon- dati da un orizzonte di altri elementi più indeter- minati
(/bid., $ 44). L’essere della C. si contrappone così a quello delle esperienze
vissute o della co- scienza (v.). Questa contrapposizione è presupposta da
tutti i tentativi della filosofia contemporanea di determinare in modo
specifico l’essere della cosa. Fd è significativo che tali tentativi siano
partitda due punti di vista indipendenti e apparentemente contrastanti, quello
del naturalismo strumentali- stico da un lato, e quello della filosofia esistenziale
dall'altro. Mead ha mostrato il collegamento della nozione di C. col « mondo
dell’azione ». Le C. s’inseriscono in una fase ben determinata di tale mondo
cioè in quella che intercede tra l’inizio di un’azione e la sua consumazione
finale. In altri termini è nella fase della manipolazione che compare o si
costi- tuisce la C. fisica; la quale tuttavia è universale nel senso che
appartiene all’esperienza di tutti (Mind, Self and Society, pag. 184-85). Dewey
a sua volta ha mostrato la stretta connessione del modo d’essere delle C. con
l'indagine. « Le C., egli ha detto, esistono come oggetti per noi soltanto in
quanto siano state preliminarmente determinate quali risultati d’indagini.
Quando vengono usate nell’avviare nuove ricerche su muove situazioni problematiche,
esse sono conosciute come oggetti solo in virtù di indagini anteriori che
giustificano la loro asseribilità. Nella nuova situazione gli oggetti sono
mezzi per attingere la conoscenza di qualche altra C.» (Logic, VI; trad. ital.,
pag. 175). Dewey ha affermato recisamente il carattere strumentale delle C. ed
in generale di tutti gli oggetti di cono- scenza. Sia le « C. immediate » sia
gli oggetti della scienza fisica « costituiti da un ordine matematico-
meccanico » sono «mezzi per assicurarci o per evitare determinati oggetti
immediati » (Experience and Nature, pag. 141). Queste determinazioni di Mead e
Dewey sono presentate come risultati di ana- lisi empiriche. Heidegger presenta
le sue determina- zioni come risultati di un'analisi esistenziale: la nozione
di C. viene da lui chiarita come un ele- che la scoperta della natura». Si può
certamente cercare di vedere che C. sia la natura a prescindere
dall’utilizzabilità delle cose. Ma in questo caso la natura rimane
incomprensibile « come COSA IN SÈ ciò che muove e ténde, ciò che ci assale e ci
im- prigiona » (Sein und Zeit, $ 15). Indubbiamente Heidegger è riuscito a
determinare anche meglio dello strumentalismo americano il modo d’essere
strumentale delle cose, la categoria dell’utilizzabi- lità che lo definisce. A
sua volta Lewis ha messo in luce le implicazioni logiche che un simile con-
cetto della C. porta con sè. « Ascrivere una qualità oggettiva a una C., egli
ha detto, significa impli- citamente la predizione che se agisco in certi modi,
una certa esperienza specificabile avrà luogo: se io addento questa mela, il
suo gusto sarà dolce; se la mangio, sarà digerita e non mi avvelenerà, ecc.
Queste e altrettali proposizioni ipotetiche costitui- scono la mia conoscenza
della mela che ho in mano » (Mind and the World-Order, cap. V, ed. Dover, pag.
140). Le espressioni della forma Se... allora si riferiscono a possibilità che
trascendono l’esperienza attuale e che sono proprie dell’uomo come essere
attivo. e Il significato della conoscenza, ha detto ancora Lewis a questo
proposito, dipende dal significato di una possibilità che non è attuale.
Possibilità e impossibilità, quindi necessità e con- tingenza, compatibilità e
incompatibilità, e varie altre nozioni fondamentali, richiedono che vi de- vono
essere proposizioni ‘Se... allora ’, proposi- zioni la cui verità o falsità è
indipendente dalla condizione affermata nella loro clausola antece- dente »
(/bid., pag. 142 n) (v. IMPLICAZIONE). L’oriz- zonte logico del concetto di C.
elaborato dalla filosofia contemporanea è pertanto quello della possibilità,
che è espresso dalle proposizioni con- dizionali. Ciò è confermato dai
risultati delle ri- cerche sperimentali effettuate dalla psicologia tran-
sazionale, che conducono a vedere nella C. una certa « classe di possibilità »
che costituisce una pro- gnosi generalizzata, sulla base dell’esperienza pas-
sata, degli usi o dei comportamenti possibili di un oggetto (Exp/orations in
Transactional Psychology, a cura di F. P. Kilpatrick, 1961, cap. 21; trad.
ital., pag. 495-96). COSA IN SÈ (ingl.
Thing in itself; franc. Chose en soi; ted. Ding an sich). Ciò che la C. è indipen- dentemente
dal suo rapporto con l’uomo, per il quale è un oggetto di conoscenza. Nè
l’espressione nè la nozione sono proprie ed originarie di Kant come comunemente
si crede; ma rappresentano «la convinzione dominante di tutta la filosofia del
sec. xvIm+ (CassiRER, Erkennrnissproblem, VII, 3; trad. ital., II, pag. 470
sgg.). L’origine della no- zione può tuttavia esser fatta risalire a Cartesio che
nei Principi di filosofia (II, 3) così si esprime: «Sarà sufficiente osservare
che le percezioni dei sensi si riferiscono soltanto all’unione del corpo umano
con lo spirito e che mentre ordinariamente ci mostrano quello che dei corpi
esterni ci possa nuocere o giovare, non ci insegnano affatto, se non
occasionalmente e accidentalmente, che C. tali corpi siano in se stessi ».
Questa distinzione tra le «C. in se stesse» e le «C. rispetto a noi?, cioè come
oggetti delle nostre facoltà sensibili, diventa un luogo comune nella filosofia
dell'Illuminismo. D’Alembert (É/ém. de Phil., $ 19), Condillac (Lo- gique, 5),
Bonnet (Essai analytique, $ 242), la ri- petono quasi con le stesse parole, e
Maupertuis (Lettres, IV) la esprime in termini che a Scho- penhauer dettero
l’idea che Kant lo avesse pla- giato. « Una volta che si è convinti, dice Mau-
pertuis, che tra le nostre percezioni e gli oggetti esterni non sussiste alcuna
somiglianza nè alcuna relazione necessaria, si dovrà concedere anche che tali
percezioni non sono altro che semplice appa- renza. L'estensione, che siamo
soliti considerare come il fondamento di tutte le altre proprietà, ec che pare
costituire la loro intima verità, è in se stessa null’altro che fenomeno ».
(Cfr. SCHOPEN- HAUER, Die Welt, II, pag. 57). Su questo punto, come su molti
altri, Kant non ha fatto che ispirarsi all’indirizzo generale dell’Il-
luminismo. Tuttavia il suo concetto della C. in sè non rimane nella sua
dottrina, com’è nel resto dell’Illuminismo, un semplice memento della limi-
tazione della conoscenza umana e un monito per distogliere l’uomo dalle
indagini metafisiche. Si chiarisce invece, più precisamente, come uno stru-
mento tecnico per circoscrivere i limiti della cono- scenza umana. Da un capo
all’altro della Critica della Ragion Pura Kant ripete che la conoscenza umana è
conoscenza di fenomeni, non di C. in sè, giacchè essa si fonda non già su di
una intuizione intellettuale (per la quale aver presenti le C. signi-
ficherebbe crearfe) ma su una inzuizione sensibile, alla quale le C. sono date
sotto certe condizioni (spazio e tempo). In accordo con questo indirizzo
fondamentale, Kant, dopo aver stabilito la possi- bilità del concetto di C. in
sè (o noumeno), passa a distinguere una dottrina positiva e una dottrina
negativa dei noumeni. « Il concetto di un noumeno, egli dice, cioè di una C.
che dev’essere pensata non come oggetto dei sensi ma come cosa in sè
(unicamente per l’intelletto puro), non è per niente contraddittorio; giacchè
non si può, della sensibi- lità, asserire che sia l’unico modo di intuizione ».
Posto ciò, se s'intende per noumeno « l’oggetto di una intuizione non sensibile
», cioè creatrice o di- vina, si ha il concetto di noumeno in senso posi- tivo.
Ma in realtà questo concetto rimane vuoto; perchè il nostro intelletto non può
estendersi al di là dell’esperienza se non problematicamente, cioè non con
l’intuizione nè col concetto di una intuizione possibile. Pertanto, «il
concetto di nou- meno è solo un concetto limite (Grenzbegriff) per
circoscrivere le pretese della sensibilità e di uso perciò puramente negativo »
(Crif. R. Pura, Ana- litica dei principi, cap. III). Questa funzione pu-
ramente negativa della C. in sè è rimasta un capo- saldo della dottrina
kantiana della conoscenza: perchè è rimasta a garantire, in tale dottrina, il
carattere finito (cioè non creativo) della conoscenza umana. Tuttavia la
filosofia post-kantiana segna una ra- pida liquidazione di questo concetto. Già
le Lerzere sulla filosofia kantiana (1786-87) di Reinhold, che davano del criticismo
un’esposizione sulla quale si è per lungo tempo modellata l’interpretazione del
criticismo stesso, riducendo il fenomeno a rap- presentazione, rendevano dubbia
o problematica la funzione della C. in sè; la quale veniva poi recisa- mente
negata, in base alla sua inconoscibilità, da Schulze e Maimon. Ma colui che
cominciò a trarre le conseguenze di questa negazione fu Fichte: il quale vide
che, eliminata la condizione limitativa costituita dalla C. in sè, la
conoscenza umana di- veniva creatrice non solo della forma ma anche del
contenuto della realtà che ne costituisce l'oggetto; e si trasformava in quella
« intuizione intellettuale » che Kant attribuiva solamente a Dio, facendo del
soggetto di essa, cioè dell’Io, un principio infinito (Wissenschaftslehre,
1794, $ 4). Queste tra- sformazioni segnano il passaggio dal criticismo, che è
filosofia di stampo illuministico, al roman- ticismo (v.) che è una filosofia
dell’infinito. Il ro- manticismo segnava il tramonto definitivo della dottrina
della C. in sè, che era stata l’insegna del- l’illuminismo perchè ad esso era
servita ad esprimere la limitazione fondamentale della conoscenza umana. La
nozione di /nconoscibile (v.) che il positivismo evoluzionistico paragonò
talvolta alla C. in sè, è in realtà completamente diversa. In primo luogo,
difatti, ha una funzione opposta a quella della C. in sè: serve a offrire alla
metafisica e alla reli- gione un loro dominio di competenza specifica piuttosto
che a restringere le pretese della cono- scenza scientifica. In secondo luogo,
conseguente- mente, l’Inconoscibile viene definito positivamente dalla sfera di
quei problemi che la scienza lascia insoluti, più che negativamente dai limiti
intrinseci della scienza stessa. Quanto alla filosofia contem- poranea che ha ripristinato
o viene ripristinando la dottrina del limite della conoscenza, questo li- mite
è inteso da essa come garantito dalla portata dei metodi o dei criteri che
presiedono alla validità della conoscenza; essa perciò non ha più bisogno
dell’illuministica « C. in sè» per imporre modera- zione alle pretese
conoscitive dell’uomo. COSALE, ENUNCIATO (ingl. 7hing-sen- tence). Nella
semiotica contemporanea, un enun- ciato che non designa segni ma cose. Lingua
C.: una lingua costituita interamente di enunciati C. (Morris, Foundations of
the Theory of Signs, 1938, $ 5). Predicati C.: termini che designano proprietà
osservabili cioè tali che possono essere determinate dalla osservazione diretta
(CarNAP, Testability and Meaning, 1936-37, in Readines in the Phil. of Science,
1953, pag. 69 sgg.). COSCIENTE (lat. Conscius; ingl. Conscious; franc. Conscient;
ted. Bewusst). Questo aggettivo viene comunemente adoperato nel senso della
con- sapevolezza (v.); l’uso filosofico di esso corrisponde tuttavia a quello
del termine « coscienza »: onde, per es., «spirito cosciente» significherà
l’atteggia- mento dell’autoriflessione o della ricerca interiore. COSCIENZA
(gr. cuveldnow; lat. Conscientia; ingl. Conscioussness = C. teorica, Conscience
= C. morale; franc. Conscience; ted. Bewusstsein = C. teorica, Gewissen = C.
morale). L’uso filosofico di questo termine ha poco o nulla a che fare col si-
gnificato comune di esso come consapevolezza (v.) che l’uomo ha dei propri
stati, percezioni, idee, sentimenti, volizioni, ecc., consapevolezza per la
quale diciamo che un uomo che designa il
rapporto tra una classe e un’altra classe; e si distinguono queste specie di
copule dall’operatore (o quantificatore) esistenziale (v. OPERATORE). Comunque,
la carat- teristica fondamentale di questa concezione dell’E. predicativo è la
sua massima generalità: le altreinterpretazioni della copula possono infatti
essere considerate come casi speciali di relazione e come tali analizzati.
Altri casi possono inoltre sempre essere presi in considerazione. Proprio
questa dot- trina della copula rende possibile la dottrina della proposizione
come funzione: per essa infatti il pre- dicato diventa la funzione e il
soggetto la variabile della funzione stessa (v. FUNZIONE). 2° Il significato
esistenziale. — Il secondo signifi- cato fondamentale di E., cioè quello
esistenziale va a sua volta distinto in due significati subordinati e cioè: I,
come esistenza in generale; II, come esi- stenza privilegiata. I. L’E. può
significare in primo luogo l’esi- stenza nel significato 1° cioè nel
significato generale e indeterminato ma specificabile o definibile in base a un
criterio qualsiasi. Proprio in questo senso Aristotele dice che «l’E. si dice
in molti modi » (Mer., VI, 2, 1026a 32) e che si può per- fino dire che il non
E. è (/bid., VII, 4, 1030 a 23). Ma assunto in questo senso il significato di
E. coin- cide con quello di esistenza (nel senso 1°): e la sua trattazione si
troverà sotto questa voce. II. In secondo luogo l’E. può significare la
esistenza privilegiata o primaria: cioè l’esistenza nella sua modalità primaria
e fondamentale, dalla quale dipendono tutte le sue manifestazioni deter-
minabili. Il precedente significato di E. (2°, I) è assunto il più delle volte
come preparazione ed annuncio di questo secondo significato. L’E. si dice in
molti modi, ma uno solo è il suo significato primario e fondamentale. Questo è
il punto di vista di Aristotele (Mer., VII, 4, 1030 a 21). E appunto dal
rapporto tra i significati molteplici di cui l’E. appare a prima vista rivestito
e il significato unico e fondamentale a cui essi devono essere ricondotti nasce
il cosiddetto « problema dell’E.». Questo è il problema del significato
primario dell’E.: cioè di quel significato unico e semplice che si presume VE.
abbia ma che rimane più o meno nascosto nella molteplicità dei suoi aspetti
apparenti. La ricerca metafisica, nella sua impostazione classica, s’impernia
intorno a questo problema. Si tratta di vedere se c’è un significato primario
dell’E.: pri- mario in primo luogo nel senso che esprima meglio degli altri
l’esistenzialità dell’E. e in secondo luogo nel senso che gli altri significati
possano essere ricondotti ad esso come al loro fondamento o principio.
L’indagine sul problema dell’E. muove verso la determinazione di un significato
che risponda a questi due requisiti. Ma la disputa cui essa dà luogo non è
paragonabile alla « battaglia di giganti » di cui parlava Platone (Sof., 246);
nella quale di fronte ai giganti, o « figli della terra » che affermano che
ogni realtà è corpo, stanno gli dèi, che affer- mano l’incorporeità dell’E. e
lo riducono alle forme ideali. Un significato dell’E. non è difatti sufficien-
temente stabilito dal carattere di corporeità o dalla negazione di questo
carattere: giacchè un essere che si ritenga corporeo può avere gli stessi
caratteri ESSERE formali di un E. che si ritenga incorporeo: come era appunto
il caso dell’E. di cui parlavano le due schiere protagoniste della «battaglia
dei giganti». È ben vero che i caratteri formali dell’E., quelli che si mettono
in evidenza come soluzione del problema dell’E. cioè come determinazione del
si-
gnificato primario dell’E., sono
costantemente rica- vati dalla considerazione di una sfera particolare dell’E.
o almeno di un gruppo di enti o di un ente che in qualche modo si privilegia e
si pone come esemplare. Ma è pur vero che in ogni caso si può ottenere una
risposta al problema dell’E. solo se tra i caratteri della sfera o del gruppo o
dell’ente considerato, si sceglie quello suscettibile di generaliz- zazione
cioè adatto ad essere riferito anche alle altre sfere o gruppi o enti. In
questo senso Platone obiettava ai materialisti che essi devono dire che cosa
c’è di comune fra le cose corporee e quelle incorporee, posto che si dica che
entrambe sono (Ibid., 247 d). Ma se nel problema dell’E. si scorge la ricerca
di un significato primario formale — cioè generalizzabile — dell’E. stesso, si
può dire che ogni soluzione del problema non fa che privilegiare, cioè assumere
come primaria e fondamentale, una modalità determinata dell’essere. Ora poichè
le mo- dalità con cui Il’E. può essere enunciato o asserito sono tre cioè la
necessità, la possibilità e l’asserto- rietà tre pure sono in teoria le
possibili soluzioni del problema dell’essere. Ma poichè (come ve- dremo)
l’assertorietà si riduce alla necessità, si pos- sono storicamente riscontrare
due soluzioni fonda- mentali che risultano abbastanza evidenti dietro la
apparente molteplicità e disparità delle soluzioni proposte. Per la prima di
queste soluzioni, che in- dicheremo con « l’E. primario è la necessità; per la
seconda, che indicheremo con f l°E. primario è la possibilità. La soluzione a
corrisponde a quella che nel significato predicativo è l’interpretazione A; la
soluzione f corrisponde alle interpretazioni B e C. Un ulteriore carattere
distintivo delle due soluzioni, che però dev'essere considerato secon- dario,
perchè non sempre è presente, è il seguente. La prima di esse non prende in
considerazione, nella ricerca del significato dell’E., il fatto stesso di
questa ricerca. La seconda di essa può prendere in considerazione questo fatto
e ritenerlo importante per la determinazione del significato dell’essere. Così
fanno Platone e gli esistenzialisti. a) L’interpretazione dell’E. secondo la
moda- lità della necessità è quella prevalente nella meta- fisica classica. La
tesi famosa di Parmenide « L’E. è e non può non essere» (Fr. 4, Diels)
stabilisce come significato fondamentale dell’E. la necessità, il non poter non
essere: la quale rispetto al tempo è eternità (cioè contemporaneità, fotum
simul), ri- spetto al molteplice è unità, rispetto al divenire(cioè al nascere
e perire) è immutabilità (Fr. 8, 2-4, Diels). Di questi caratteri, anche
Aristotele privilegia quello della necessità. Il principio di con- traddizione,
da lui posto a fondamento della « filo- sofia prima » cioè della scienza
dell’E. in quanto E., è da lui inteso come il principio che postula la ne-
cessità dell’E., che si realizza nella sostanza. Dice Aristotele: « Se la
verità ha un significato, neces- sariamente chi dice uomo dice animale bipede:
giacchè questo significa uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che
l’uomo non sia ani- male bipede: la necessità significa infatti proprio questo
che è impossibile che l’E. non sia» (Mer., IV, 4, 1006 b 30). L’aspetto per cui
è necessario che un E. sia (che è il solo aspetto per cui l’E. è oggetto di
scienza giacchè dell’E. accidentale non c'è scienza, /bid., VI, 2, 1027 a) è la
sostanza del- l’essere. « Uno solo, dice Aristotele, è il significato dell’E. e
questo è la sostanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa non è altro che
indicare l’E. proprio di essa » (/bid., IV, 4, 1007 a 26). La sostanza è
pertanto, secondo Aristotele, il senso primario dell’E.; ed è pure il senso
fondamentale, quello a cui gli altri significati dell'E. possono essere
ricondotti; giacchè appunto come aspetto o manifestazione della sostanza
Aristotele considera ogni distinta o distinguibile determinazione dell’E.
(4bid., VII, 17) (v. SOSTANZA). Questo punto di vista aristotelico è rimasto
deci- sivo per lo sviluppo ulteriore del problema dell’es- sere. Il significato
primario e fondamentale dell’E. è rimasto, e ancora rimane per una larga zona
della filosofia, quello della necessità, con gli attri- buti, che reca seco,
della immutabilità, eternità, unità, ecc. Anche quando questi attributi sono
stati riferiti (come dal neoplatonismo antico e arabo e dall’aristotelismo
medievale) non più alla struttura formale dell'’E. ma ad un ente privile-
giato, e cioè non a tutte le sostanze ma alla sostanza più alta cioè a Dio, la
derivazione delle altre so- stanze da questa o la loro partecipazione ad essa è
stata intesa come derivazione e partecipazione della necessità e dei suoi
attributi. Così, secondo S. Tommaso, la partecipazione delle cose create all'E.
di Dio è partecipazione alla perfezione e al- l’immutabilità di Lui (S. 7h., I,
q. 65, a. 1). Ma il concetto che ha dominato la metafisica medievale e,
attraverso di essa, quella moderna e contemporanea, è quello esposto da
Avicenna nel sec. xi: la neces- sità dell’E. come tale. Tutto l’E. in quanto
tale è necessario. « Se una cosa non è necessaria in rap- porto a se stessa,
diceva Avicenna, bisogna che sia possibile in rapporto a se stessa, ma
necessaria rispetto a una cosa diversa » (Mer., II, 1, 2). La proprietà
essenziale di ciò che è possibile è proprio questa: aver bisogno di un’altra
cosa che lo faccia esistere in atto. Ma appunto per questo ciò che esiste in
atto, esiste sempre necessariamente: sol- tanto che la necessità gli deriva
talvolta da altro (4bid., II, 2, 3). Gli stessi concetti venivano espressi da
Algazel (Mer., I, I, 8) e divennero la base della scolastica giudaica e
cristiana. Nel mondo moderno, il concetto dell’E. come necessità ha trovato le
sue riaffermazioni principali in Spinoza e Hegel. Spinoza ha visto l’E. di Dio
nella necessità e lE. delle cose nella necessità con cui derivano dalla
sostanza divina (Er., I, 8, scol. II). Ed Hegel ha espresso lo stesso concetto
nel suo aforisma famoso che è la base dell’intera sua filosofia: « Ciò che è
razionale è reale; e ciò che è reale è razionale ». La razionalità del reale è
la sua necessità per la quale esso, nelle sue deter- minazioni fondamentali,
non può essere che quello che è. Perciò Hegel dice che « intendere ciò che è, è
il còmpito della filosofia poichè ciò che è, è la ragione » (Fil. del dir.,
Pref.). Perciò, ancora, nonc’è un dover E., un ideale, una perfezione che sia
diversa dall’E. e nel cui nome si sia autorizzati a criticare o a dar lezioni
all’E. stesso. « Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente e la
ragione come realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa e in
questa non lascia tro- vare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astra-
zione, che non si è liberata e non si è fatta con- cetto » (Zbid., Pref.). In
altre parole solo per una falsa astrazione si distingue ciò che dovrebbe es-
sere da ciò che è, la razionalità dall’E. reale: il che vuol dire che l’E.
reale è tutto quel che deve essere e che la sua modalità, il suo senso
primario, è questa necessità. D'altronde l’intera filosofia di Hegel è diretta
appunto a mostrare la necessità delle determinazioni dell’E.: cioè a mostrare
come l’E. è, nella sua realtà, tutto ciò che dev'essere (Enc., $ 1). La
necessità rimane il carattere primario dell’E. in concezioni filosofiche
disparate. Quando Fichte dice che l’E. e l’attività dell’io sono la me- desima
cosa, egli riconosce come carattere essen- ziale di questa attività la
necessità con cui essa pone se stessa e il non io (Wissenschaftslehre, 1798, $
1). Che l’E. si concepisca come «Co- scienza » o come « Materia », non fa
differenza: le determinazioni qualitative non influiscono sulla sua
determinazione formale primaria. L’Assoluto degli idealisti (Green, Bradley,
ecc.) come la materia dei materialisti sono, l’uno e l’altro, E. necessari. Ne-
cessaria è la Storia di cui parla Croce, come ne- cessario è l’Atto puro di cui
parla Gentile. «La necessità dell’E. coincide con la libertà dello spi- rito »
(Teoria generale, XII, $ 20), diceva Gentile. Lo stesso Rosmini che aveva posto
l’idea dell’E., intesa come «E. possibile», a fondamento della, conoscenza
umana, vede nella necessità e nell’uni- versalità i caratteri primari dell’E.
(Nuovo saggio $ 428-29). E Husserl afferma con molta energia la
necessità di quell’E. che egli riconosce
come pri- mario cioè dell’E. della coscienza: « Alla tesi del mondo, che è
accidentale, si contrappone la tesi del mio puro io e del vivere dell’io, che è
necessaria e indubitabile. Ogni data cosa, anche se è presente in carne ed
ossa, può non essere; ma un’espe- rienza vissuta data in carne ed ossa non può
non essere. Questa è la legge essenziale che de- finisce questa necessità e
quella accidentalità » (Ideen, I, $ 46). Una caratteristica tipica di questa
concezione dell’E. o, come meglio si direbbe un suo teorema fondamentale, è
quella identificazione di E. e ra- zionalità che è assunta da Hegel come
principio della sua filosofia. Talvolta questa identificazione è stata intesa
come immanentismo (v.) intendendosi con questa parola l’immanenza dell’E. nella
co- scienza. Per quanto anche questa sia una tesi he- geliana, non ha tuttavia
nulla a che fare con l’altra. Quella fu espressa per la prima volta da
Parmenide che, appunto in questo senso, identificò 1’E. con il pensare (Fr. 5;
Fr. 8, 34-36, Diels). Certamente la tesi di Parmenide non aveva nulla a che
fare con l’immanentismo perchè la nozione di coscienza non era neppur nata (v.
CosciENZA): esprimeva soltanto il carattere razionale della necessità on-
tologica. Questo stesso carattere veniva espresso da Aristotele con la dottrina
che la determinazione
fondamentale della sostanza è l’essenza
necessaria, che è la ragion d'essere (/ogos) della cosa (De part. an., I, 1,
639 b 15). E Rosmini considerava lE. possibile come la forma stessa della
ragione (Nuovo saggio, $ 396). Il teorema in questione mentre esprime la
necessità dell’E. postula, dall’altro lato, un corrispondente concetto della
ragione in gene- rale (v. RAGIONE). Sembra che si sottragga a questa tradizione
la ontologia di Nicolai Hartmann che assume come significato primario dell’E.
non la necessità ma l’effettualità (Wirklichkeit) alla quale sarebbero ri-
ducibili possibilità e necessità. L’effettualità è la terza alternativa della
modalità dell’E., quella del- l’assertorietà. L'E. al quale il dover essere e
il poter essere si riducono è, secondo Hartmann, l’E. semplicemente esistente,
nella sua pura effet- tualità o attualità, 1’E. che nel dominio della realtà di
fatto si presenta «così e non altrimenti» cioè come esistenza analoga alla
materia. Ma gli enun- ciati in cui si esprime, secondo Hartmann, la ridu- zione
del necessario e del possibile all’attuale fanno vedere come in realtà
l’effettualità non sia che ancora e sempre necessità. Quegli enunciati sono
infatti i seguenti; 1° ciò che è realmente possibile è anche realmente
effettuale; 2° ciò che è realmente ESSERE effettuale è anche realmente
necessario; 3° ciò che è realmente possibile è anche realmente necessario. E
negativamente: 4° ciò il cui E. è realmente im- possibile è anche realmente
ineffettuale; 5° ciò che è realmente ineffettuale è anche realmente impossi-
bile; 6° ciò il cui non E. è realmente possibile è anche realmente impossibile
(Mboglichkeit und Wirk- lichkeit, 1938, pag. 126). Così il primato dell’asser-
torietà non ha un significato diverso dal primato della necessità. L’ontologia
di Hartmann ha vo- luto prospettare la terza soluzione teoricamente possibile
del problema dell’E.; ma questa soluzione si dimostra identica, nella sua
stessa enunciazione, con l’interpretazione, propria della vecchia meta- fisica,
dell’E. come necessità. R) La concezione dell’E. primario come pos- sibilità è
stata per la prima volta formulata da Platone. Essa è presentata da Platone
come rispon- dente a due esigenze fondamentali: in primo luogo a quella che si
renda conto perchè si dice che «sono » sia le cose corporee sia quelle
incorporee (Sof., 247 d); e in secondo luogo che si tenga conto del fatto che
l’E. è o può essere conosciuto (/bid., 248 e). La prima esigenza esclude che la
materialità o l’immaterialità possano entrare nella definizione dell’E. La
seconda esclude che possano entrare nella definizione dell’E. determinazioni
necessarie; per es., che l’E. sia necessariamente immobile (cioè che «tutto sia
immobile »), o che l’E. sia
necessariamente in movimento (cioè che «
tutto sia in movimento +), ecc. (/bid., 249 d). Posto ciò, Pla- tone afferma
che l’essere non è altro che possi- bilità (Sivauu) e che pertanto si deve dire
che è qualsiasi cosa si trovi in possesso di una qualsiasi possibilità o di
fare o di subire, da parte di qualche altra cosa, anche insignificante, una
azione anche minima e anche per una sola volta (/bid., 247 e). La possibilità
in questo senso non ha nulla a che fare con la potenza di Aristotele. La
potenza in- fatti è tale solo nei confronti di una attualità che, essa sola, è
l’E. primario (v. ATTO). Ma per Pla- tone per l’appunto l’E. primario è
possibilità. E possibilità sono i rapporti reali tra gli enti: questi non si
mescolano tutti insieme, nè evitano assolutamente di mescolarsi ma presentano
deter- minate possibilità di rapporti. Come avviene per le lettere
dell’alfabeto e per i suoni, che alcuni possono mescolarsi e altri no, così
avviene anche per tutte le cose: sicchè è còmpito della filosofia non già enunciare
la tesi universale della necessità o dell’impossibilità della comunicazione, ma
stu- diare in particolare quali sono le cose che possono (#0£Xew) unirsi tra
loro e quali no (/bid., 252-53). Questa concezione non dà luogo ad una
metafisica simmetrica e opposta a quella che interpreta l’E. come necessità:
non dà luogo ad alcuna metafisica. ESSERE 345 Questo è il suo tratto
caratteristico. Difatti, se l’E. è possibilità, esso non ha determinazioni
univoche necessitanti: non è necessario che esso sia uno e non molti,
immutabile e non mutevole, immobile e non in movimento, eterno e non temporale,
ecc. Di due determinazioni opposte o contraddittorie, non è necessario che una
gli appartenga e l’altra no: entrambe possono appartenergli in determinate ma diverse
condizioni. Non è possibile quindi elen- care, una volta per sempre, le
determinazioni uni- voche dell’essere. Platone aveva raggiunto questa
conclusione nel Parmenide; in questo dialogo si mostra che l’E. non è uno o
molti, ma uno e molti assieme, nel senso che può esser uno come esser molti
(144 e); e che lo stesso vale per le altre sue determinazioni eventuali. La
sconcertante chiusa di questo dialogo è che « l’uno, sia o non sia, esso stesso
e le altre cose, rispetto a se stesso e tra loro, tutte, e in tutto, sono e non
sono, appaiono e non appa- iono » (166 c): le quali parole riconoscono la pos-
sibilità di determinazioni opposte dell’E. ed esclu- dono che esso possa dirsi
«uno» o «molti» o anche semplicemente «E.» in un senso unico ed assoluto. Da
questo punto di vista, una metafisica che sia l'elenco sistematico delle
determinazioni univoche ed assolute dell’E. è manifestamente un non senso.
Nell’àmbito della concezione in esame pertanto non possiamo aspettarci di
trovare formulazioni si- stematiche, analoghe o corrispondenti alla filosofia
prima di Aristotele cioè alla metafisica classica. Al contrario possiamo dire
che questa concezione tènde ad affacciarsi ogniqualvolta la determinazione
delle caratteristiche universali e necessarie dell’E. tènde a cedere il posto
alla ricerca empirica: quest’ultima è ricerca di possibilità, non di
determinazioni ne- cessarie. Da questo punto di vista può dirsi che la
tradizione empiristica della filosofia è l’erede e la rappresentante maggiore
di quella concezione del- l’E. che ha trovato la sua prima formulazione nel
Sofista platonico. Una possibilità può essere deter- minata unicamente sulla
base dell'esperienza cioè dell’osservazione dei fatti, mai per via puramente
razionale o a priori. Attribuire all’E. il significato della possibilità
significa aprire la via a indagini specifiche, dirette a determinare, in ogni
caso, di quale possibilità si tratti. Sul fondamento della concezione a, le
determinazioni dell’E., anche se mutano, è necessario che mutino, sicchè il
muta- mento è sin da principio determinato e assoluta- mente prevedibile. Per
la concezione f, invece, ogni determinazione, in quanto determinazione
possibile, può essere accertata soltanto da un’in- dagine ad hoc. Sappiamo che
gli Stoici vedevano il significato del- l’E. nella possibilità di agire o di
subire un’azione e perciò chiamavano enti solamente i corpi (PLUTARCO, Comm.
Not., 30, 2, 1073; Diog. L., VII, 56); ma questo principio, se li indirizzò
verso il materialismo, non costituì per essi la base di un empirismo coe-
rente. L’empirismo invece si affaccia tutte le volte che compare la negazione
del teorema fondamentale della concezione opposta cioè la negazione della
riducibilità dell’E. a predicato. Questa negazione si può assumere come teorema
tipico di questa con- cezione, com’è teorema tipico dell’altra l’identifi-
cazione di E. e razionalità. Sul finire della scola- stica, Ockham formulava la
tesi che l’E. o il non E. di una cosa si può attingere solo con una « cono-
scenza intuitiva » che è la stessa esperienza (/n Sent., II, q. 15 H; /bid.,
Prol., q.1Z); e in tal modo poteva affermare l’irriducibilità dell’E. a una
determinazione concettuale e il suo significato di possibilità. « Alla
questione se /a cosa esista, egli dice, si può rispondere solo quando si
conosca se la cosa esiste: il che accade se si conosce una proposizione nella
quale l’E. esistenziale sia pre- dicato del soggetto. Ora una tale proposizione
dubitabile... in nessun modo si può conoscere con evidenza, se la cosa significata
dal soggetto non si conosce intuitivamente ed in sè: per es., se essa non è
percepita da un senso particolare o se non è un intelligibile nonsensibile che
sia visto dall’in- telletto in modo analogo a quello in cui la facoltà visiva
esterna vede l’oggetto visibile. Sicchè nessuno può conoscere con evidenza che
il bianco è o può essere se non ha visto un qualche oggetto bianco; e sebbene
io possa credere a coloro che mi raccon- tano che c’è il leone o il leopardo e
così via, non conosco tuttavia con evidenza queste cose » (Summa Log., III, 2).
Qui il senso primario dell’E. è posto nella possibilità dell’esperienza.
Conseguentemente Ockham riconosce la necessità solo alle proposi- zioni
condizionali (« Se l’uomo è, l’uomo è un animale ragionevole +), mentre nega
che una qual- siasi proposizione affermativa possa essere neces- saria. Tutte le proposizioni
affermative sono contin- genti giacchè la proposizione « L'uomo è animale
ragionevole» sarebbe falsa per falsa implicazione, se l’uomo non ci fosse
(Quodl., V, q. 15). Queste nota- zioni implicano due tesi fondamentali: 1° l’E.
non è riducibile a un predicato; 2° l’E. è una possibi- lità che può essere
espressa solo da una proposizione contingente. Quest'ultima tesi rivela la
modalità primaria che le notazioni di Ockham attribuiscono all’E.: questa
modalità è la possibilità. L'em- pirismo classico del Sei-Settecento si attiene
a questa stessa modalità. Locke contrappone la cer- tezza delle proposizioni
universali, che però non
riguardano la realtà, alla contingenza
delle propo- sizioni particolari che concernono l’esistenza. « Le proposizioni
universali, della cui verità o falsità possiamo avere una conoscenza certa, non
riguar- 346 dano l’esistenza; le affermazioni o negazioni parti- colari, che
non sarebbero certe se venissero rese generali, si riferiscono soltanto
all’esistenza, di- chiarando esse soltanto l’accidentale unione o se- parazione
delle idee in cose esistenti, idee che, nella loro natura astratta, non hanno
tra loro nes- suna unione o ripugnanza conosciuta» (Saggio, IV, 9, 1).
Pertanto, con la sola eccezione dell’esi- stenza di Dio, conosciuta attraverso
la dimostrazione cioè attraverso il rapporto che essa ha con altre esistenze,
l’esistenza è conosciuta secondo Locke in modo contingente e immediato,
attraverso un rapporto diretto con l’oggetto: rapporto che è in- tuizione nel
caso dell’esistenza del proprio io, sen- sazione nel caso dell’esistenza delle
cose. Ciò esclude che l’esistenza sia un predicato o che comunque possa essere
ridotta a una determinazione concet- tuale. « Non essendovi, dice Locke,
nessuna con- nessione necessaria di qualsiasi altra esistenza, tranne quella di
Dio, con l’esistenza di alcun uomo particolare, ne consegue che nessuno in par-
ticolare può conoscere l’esistenza di un altro essere se non quando, operando
questo su di lui, fa in
modo di essere da lui percepito. Il fatto
che si abbia l’idea di una cosa nella nostra mente non dimostra l’esistenza di
quella cosa più che il ritratto di un uomo faccia testimonianza dell’essere
egli nel mondo o che le visioni di un sogno costituiscano di per sè una storia
veridica » (/bid., IV, 11, 1). Questo con- cetto della sensazione come organo
di conoscenza di ciò che esiste non è altro che il vecchio concetto stoico
della rappresentazione catalettica: che è quella che « deriva da un ente sussistente
ed è impressa e marcata da esso in modo da essere conforme con esso » (Diog.
L., VII, 46; Sesto EMPIRICO, Ad. Math., VII, 248). La dottrina equivale a
definire l’E. delle cose come possibilità del manifestarsi di esse alla
percezione o della percezione medesima. La definizione dell’E. come possibilità
viene espli- citamente ripresa dalla filosofia tedesca del ’700 e in
particolare da Wolff. Dice Wolff: « Ente è ciò che può esistere e
conseguentemente la cui esi- stenza non ripugna» (Ontol., $ 134). Ma poichè ciò
che può esistere è possibile, ciò che è possibile è l’ente (Ibid., $ 135). Ma
in questa definizione tutto dipende ovviamente dal significato di possi- bile.
E Wolff riprende a questo proposito un con- cetto che rimonta forse a Duns
Scoto (In Sent., I, d. 2, q. 7) e si trova già formulato in Leibniz (Théod.,
II, $ 224): « possibile è ciò che non implica contraddizione, vale a dire ciò
che non è impossi- bile » (Onrol., $ 85). Da questo punto di vista, la
possibilità era definita come semplice assenza della impossibilità, cioè come
necessità negativa. La con- cezione dell’E. in termini di possibilità era
pertanto, in questa dottrina, una semplice apparenza. Kant ESSERE ha, con molta
fermezza, visto che cosa si nascon- deva dietro questa apparenza. «Il gioco di
pre- stigio, egli ha detto, per cui la possibilità logica del concetto (che non
si contraddice) si scambia con la possibilità trascendentale delle cose (per
cui al concetto corrisponde un oggetto) può gabbare e contentare soltanto gli
inesperti ». La « possibilità reale » è quella data da una intuizione sensibile
cioè dall’esperienza attuale o possibile (Critica R. Pura, Analitica dei
princìpi, cap. III). Per con- seguenza «E. non è un predicato reale cioè un
concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa... Se
io dico Dio è o c’è un Dio, non affermo un predicato nuovo del con- cetto di
Dio, ma soltanto il concetto in sè con tutti i suoi predicati e l’oggetto in
relazione col mio concetto. Entrambi devono avere esattamente lo stesso
contenuto e però nulla si può aggiungere di più al concetto che esprime
semplicemente la possibilità quando ne penso l’oggetto come dato (con
l’espressione: ‘ Egli è ”)» (/bid., L'ideale della
ragion pura, sez. IV). Da questo punto di
vista risulta chiaro il carattere limitato e condizionale di ogni possibilità
od E. e pertanto il carattere fittizio o fantastico di una « possibilità
assoluta » cioè di una possibilità che valga sotto ogni aspetto (Ibid.,
Analitica dei principi, Confutazione dell’idea- lismo). Nella filosofia
contemporanea fanno rife- rimento a questa interpretazione del significato del-
l’E. le seguenti dottrine: a) le teorie che nella matematica, nella fisica e in
generale nella scienza definiscono l’esistenza come modo d°E. particolare, per
es., come « as- senza di contraddizione» o « possibilità di costru- zione » o «
possibilità di verificazione ». La modalità non necessaria dell’E. che risulta
così definita è evidente (v. ESISTENZA); b) le forme dell’empirismo che
riconoscono l’E. soltanto agli oggetti di esperienza possibile. La possibilità
della sperimentazione e dell’osserva- zione definisce in questo caso il
significato dell’E. (v. ESPERIENZA); c) le teorie filosofiche che affermano il
primato della possibilità. Tali teorie trovano il loro prece- dente nella
filosofia di Kierkegaard che per primo ha proposto una interpretazione
dell’esistenza umana in termini di possibilità (v. ESISTENZA, 3). Dall’altro
lato lo stesso punto di vista si può riconoscere in qualche aspetto della
fenomenologia di Husserl e nelle dottrine che si rifanno ad essa. Per quanto
Husserl privilegi l'E. della coscienza e lo ritenga, a differenza della realtà
delle cose, necessario, l’ana- lisi fenomenologica è per lui un’analisi di
possibi- lità: per essa, come ha detto Heidegger (Sein und Zeit, $ TO): «la
possibilità sta più in alto della realtà ». Dice Husserl: « Il fatto che una
natura, ESTASI che un mondo della cultura e degli uomini, con le loro forme
sociali, ecc., esistano per me significa che le esperienze corrispondenti mi
sono possibili, cioè che, indipendentemente dalla mia esperienza reale di
questi oggetti, io posso a ogni istante rea- lizzarli e svilupparli in un certo
stile sintetico. Questo significa poi che altri modi di coscienza che
corrispondono a queste esperienze come atti di pensiero indistinto, ecc., sono
possibili per me e che la possibilità di essere confermate o invalidate per
mezzo di esperienza di un tipo che è stabilito in anticipo è inerente a questi
atti» (Cart. Med., $ 37). Come risulta da questo significativo passo l’analisi
fenomenologica è un’analisi in termini di possibilità: il che vuol dire: la
possibilità è il signi- ficato primario che essa attribuisce all’essere. Lo stesso
accade nell’esistenzialismo. Heidegger ha detto: « L’esserci, in quanto
comprensione, progetta il suo E. in possibilità » (Sein und Zeit, $ 32); e in
realtà tutte le analisi di Heidegger hanno per loro tema le possibilità
dell’Esserci le quali costi- tuiscono il tema dell’analitica esistenziale. Allo
stesso modo, per Jaspers, le possibilità oggettive costituiscono l’esistenza
stessa (Phil., $ 18); e Sartre afferma che « il possibile è una struttura del
per-sè cioè della coscienza » (L’étre et le néant, pag. 34). È vero che per
Sartre da questa struttura si distin- guerebbe l’E. in sè cioè l’E. del
fenomeno che non sarebbe nè possibile nè necessario, ma semplice- mente
esistente. Senonchè Sartre attribuisce a questo stesso E. il carattere della
contingenza e non ri- tiene possibile una analisi dell’E. in sè se non a
partire dall’E. per sè cioè dalla coscienza: il primato della possibilità è
quindi evidente in questa dottrina. È tuttavia da osservare che uno dei
caratteri della concezione in esame è il rifiuto esplicito o l'abbandono del
tentativo di una soluzione sem- plice e globale del problema dell’E. e pertanto
della trattazione « metafisica » di questo problema. Il riconoscimento del
significato dell’E. come pos- sibilità esige infatti che si passi
immediatamente alla considerazione e allo studio delle possibilità stesse, nei
campi specifici nei quali esse trovano il loro condizionamento e quindi la loro
«realtà ». Non è pertanto possibile svolgere una metafisica della possibilità,
sul modello o in sostituzione della metafisica classica della necessità. Un
tentativo di questo genere non avrebbe come risultato che il ritorno puro e
semplice alla metafisica della neces- sità: come è stato mostrato dallo stesso
Heidegger che, una volta abbandonato il terreno dell’analisi esistenziale per
l’elaborazione del « problema del- l’E. in generale » è ritornato alle tesi
classiche della metafisica tradizionale col riconoscimento della ne- cessità
dell’E. (EinfUhrung in die Metaphysik, Tù- bingen, 1953). 347 ESSERE GETTATO.
V. DeIEzIONE; EFFET- TIVITÀ. ESSERE, GRANDE (franc. Grand Étre). Così Comte ha
chiamato l’umanità come prima per- sona della trinità positivistica, della
quale il Grande Feticcio, cioè la Terra, e il Grande Mezzo, cioè lo Spazio,
sarebbero la seconda e la terza persona (Synthèse subjective ou système
universel des con- ceptions propres è l’humanité, 1856). ESSERE PER SÈ. V. Per
sè. ESSOTERICO. V. EsotERICO. ESTASI (gr. txotaow; lat. Exrasis; inglese
Ecstasy; franc. Extase; ted. Ekstase). 1. La fase ultraintellettuale
dell’ascesa mistica verso Dio: cioè la fase nella quale la ricerca
intellettuale di Dio cede il posto al sentimento di una stretta comu- nione con
lui o addirittura di una identificazione. La parola (che nel linguaggio comune
significa, oltrecchè spostamento, intontimento o agitazione) fu adoperata nel
senso sopra enunciato dagli indi- rizzi religiosi della filosofia alessandrina
e special- mente dai neoplatonici. Filone caratterizzava lE. come «
trasformazione dell’intelligenza » e precisa- mente come trasformazione operata
non già dalla intelligenza stessa ma direttamente da Dio (All. leg., II,
31-32). Plotino caratterizza l’E. come l’aboli- zione dell’alterità tra colui
che vede e la cosa vista e come l’identificazione totale ed entusiastica del-
l’anima umana con Dio. « Questo non è più una visione, egli dice, ma un modo
diverso di vedere: estasi e semplificazione e dedizione di se stesso e
desiderio di contatto e quiete e comprensione di congiunzione » (Enr., VI, 9,
11). Il linguaggio del- l’amore e specialmente dell’amore inteso come unità (v.
AMORE) è spesso adoperato dai Mistici per de- scrivere lo stato di estasi. Così
fa Plotino frequen- temente (per es., Enz., VI, 7, 34). Così faranno i Mistici
medievali, ai quali la nozione arriva so- prattutto attraverso le opere del
falso Dionigi l’Areopagita. Questi vede il grado più alto della ascesa mistica
nella deificazione (v.) cioè nella tra- sformazione dell’uomo in Dio (De
mystica theol., I, 1). A questo modo intende l’E. anche Bernardo di Chiaravalle
(sec. x1) che la chiama anche excessus mentis e la considera come il supremo
grado della contemplazione: quello nel quale l’anima si unisce con Dio come una
goccia d’acqua caduta nel vino si dissolve in esso ed assume il sapore ed il
colore
del vino (De diligendo Deo, 11, 28). Allo
stesso modo considerano l’E. i Mistici di S. Vittore. Se- condo Ricardo, essa è
il culmine dell’ultimo grado dell’ascesa a Dio cioè della alienazione della
mente da se stessa (De praeparatione ad contemplationem, V, 2). E S.
Bonaventura a sua volta vede nell’estasi l’elevazione di sè al di sopra di sè,
sino alla fonte dell'amore superintellettuale. Essa è uno stato di 348
ignoranza dotta, nel quale l’oscurità dei poteri conoscitivi diventa luce
soprannaturale (2revilo- quium, V, 6). La nozione passava senza mutamenti ai
Mistici tedeschi del xrv secolo (Eckhart, Su- sone, Tauler). Giordano Bruno
usava la termi- nologia mistica dell’E. (raptus mentis, excessus mentis) nel
suo dialogo Degli eroici furori per in- dicare il congiungimento
dell’intelletto «eroico » con «il proprio oggetto che è il primo vero o la
verità assoluta » (I, 4): la quale è poi la natura stessa. Nell’età moderna
l’E. in questo senso ha attratto soprattutto l'attenzione degli psicologi e
degli psi- chiatri; i quali non hanno saputo scorgere nessuna differenza,
tranne che nel contenuto intellettuale, tra l’E. religiosa e l’E. determinata
da condizioni anor- mali della vita psichica o da droghe (cfr. J. H. LEUBA, The
Psychology of Religious Mysticism, 1925, spe- cialmente cap. IX). Secondo
Pierre Janet, l’E. è in ogni caso caratterizzata da tre cose: 1° dalla
soppressione quasi completa della attività motrice e da una disposizione
all’immobilità; 2° da un’at- tività più o meno grande del pensiero interno; 3°
da un grande sentimento di gioia (De /° Angoisse à l’Extase, 1928, pag. 497).
2. Da Heidegger e Sartre sono state chiamate E. (nel senso letterale del
termine, come « esser fuori » o «uscir fuori») le tre determinazioni del tempo
cioè il passato, il presente o il futuro in quanto ognuna di esse muove o va
verso l’altra, il pre- sente verso il passato, il presente verso il futuro, il
futuro verso il presente. Dice Heidegger: « La temporalità è l’originario fuori
di sè in sè e per sè. Noi chiamiamo i fenomeni caratterizzati come av- venire,
passato e presente, le E. della temporalità » (Sein und Zeit, $ 65). In séguito
Heidegger ha visto nelle E. temporali le manifestazioni dell’Essere (Was ist
Metaphysik?, 6* ediz., 1951, pag. 14). Ana- logamente Sartre parla del «
rapporto estatico in- terno» come della «sorgente della temporalità » (L’étre
et le néant, pag. 256) (v. TEMPO, 3). ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA (in- glese
Thesis of Extensionality; franc. Thèse d'exten- sionalité). Così è stata
chiamata da Russell (Principia Mathematica, 1°, pag. XIV, 659 sgg.) e da Carnap
(Logische Syntax der Sprache, 1937, $ 67; tradu- zione ingl., pag. 245 sgg.) la
tesi che « per ogni sistema non estensionale vi è un sistema estensio- nale nel
quale il primo può esser tradotto ». Poichè i più importanti enunciati
intensionali sono quelli modali, la tesi in questione afferma la traducibilità
degli enunciati modali in enunciati non modali. Per es., gli enunciati « A è
possibile », « A = non — A è impossibile», «A o non A è necessario», «A è
contingente» equivarrebbero rispettivamente ai seguenti enunciati: «‘A’ non è
contraddittorio», ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA «"A= non A°' è
contraddittorio», «‘A o non A* è analitico », «‘A’ è sintetico» (Logische
Syntax der Sprache, $ 69; trad. ingl., pag. 250 sgg.). Lo stesso Carnap
tuttavia presentava la tesi dell’E. come una semplice supposizione, per quanto
plau- sibile, e la esprimeva paradossalmente, con un enunciato modale: « Un
linguaggio universale della scienza può essere estensionale» (/bid., $ 67; tra-
duzione ingl., pag. 245). Anche in sèguito Carnap non si è pronunciato sulla
validità della tesi (Mean- ing and Necessity, 1957, $ 32). ESTENSIONE (gr. Suotaoi;
lat. Exfensio; ingl. Extension; franc. Extension; ted. Ausdehnung). Il
carattere fondamentale dei corpi fisici, in quanto dotati delle tre dimensioni
dello spazio. In base a tale carattere Aristotele definiva il corpo (Phys.,
III, 5, 204b 20). Cartesio non fece che espri- mere questo stesso concetto
quando vide nell’E. «la natura della sostanza materiale, come il pen- siero
costituisce la natura della sostanza pensante + (Princ. Phil., I, 53). Spinoza
fece dell’E. uno degli attributi fondamentali di Dio cioè della Natura (Er.,
II, 2). Ma già Ockham nel xiv secolo aveva messo in luce il carattere
fondamentale dell’E. come attributo dei corpi. « È impossibile, egli scriveva,
che la materia sia senza E.: non c’è materia che non abbia parte distante da
parte, onde sebbene le parti della materia possano unirsi tra loro come, per
es., quelle dell’acqua o dell’aria, tuttavia mai possono esistere nel medesimo
luogo. Ora la di- stanza reciproca delle parti della materia è l'E.» (Summulae
Physicorum, I, 19). Appunto come carat- teristica del corpo, l’E. è, secondo
Hobbes, lo spazio reale cioè la grandezza stessa del corpo, distinta dallo
spazio imaginario che è lo spazio puro e semplice o spazio vuoto (De corp., 8,
4). Le nota- zioni di Leibniz non sono molto diverse. L'E. è insieme con
l’antitipia (v.), uno dei caratteri fonda- mentali della materia. Essa è la
continuità nello spazio per cui le sue modificazioni costituiscono la varietà
delle grandezze e delle figure (Op., ed. Erdmann, pag. 463). Locke identificava,
come già Cartesio, l’E. con lo spazio (Saggio, II, 13, 3). Con Berkeley l’E.
comincia ad essere ridotta a un fenomeno soggettivo. L'E. è dichiarata da Ber-
keley un'idea, la quale esiste in quanto è percepita (Principles of Knowledge,
I, $ 9): un'affermazione che Hume ribadì dicendo che l’E. non è altro che una
copia di qualche impressione (7rearise, I, 2, 3). Questa soggettivazione
dell’E., che l’empirismo set- tecentesco fa dal punto di vista della intuizione
sensibile, è operata dall’idealismo romantico dal punto di vista della ragione
speculativa. Schelling pretende di dimostrare a priori perchè «la materia debba
necessariamente considerarsi come estesa se- condo tre dimensioni »: ed
effettua questa sedicente ESTERIORITÀ, dimostrazione deducendo le tre
dimensioni dello spazio dal modo di operare della forza di attrazione e di
repulsione (System des transzendentale Idea- lismus, 1800, III, 2, Deduzione
della materia, Cor.). In modo analogo Maine de Biran riteneva di poter dedurre
« necessariamente» l’idea di E. dall’idea dello sforzo e della resistenza che
esso implica, nel senso che l’E. sarebbe una « continuità di resi- stenza »
(Fond. de la Psychologie, CEuvres, ed. Na- ville, II, pag. 272). E un tentativo
simile è quello di Bergson, che cerca di intendere l’E. come il movimento
opposto a quello della vita cioè come il movimento per il quale l’io,
abbandonandosi alla fantasticheria, si sparpaglia in una molteplicità di
sensazioni esterne l’una all’altra. L’E. sarebbe la distensione dello sforzo dell'io
(Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 220). Concetti simili a quelli esposti da
Schelling, Maine de Biran e Bergson sono assai comuni nella filosofia della
seconda metà dell'800 e dei primi decenni del nostro se- colo. Ma questo tipo
di speculazione ha perduto ogni interesse filosofico o scientifico negli ultimi
decenni, per i mutamenti che sono sopravvenuti, ad opera della fisica
relativistica, nella nozione di corpo (v.). La nozione di corpo come
particolare intensità di un campo di energia non ha più bi- sogno di essere
definita in termini di E.; o, se si preferisce, l’E. può essere intesa soltanto
come la possibilità della misura dell’intensità di energia in un dato campo.
ESTENSIONE ED INTENSIONE. Vedi INTENSIONE ED ESTENSIONE. ESTENSIVO ED INTENSIVO
(ingl. Exten- sive and
Intensive; franc. Extensif et intensif; te- desco Extensiv und intensiv). La distinzione fra grandezza E. e grandezza intensiva
è stata fatta da Kant. Secondo Kant è E. « quella quantità nella quale la
rappresentazione delle parti rende possi- bile la rappresentazione del tutto (e
perciò neces- sariamente la precede)»; per es., le parti dello spazio o del
tempo sono quantità E. in questo senso perchè le quantità spaziali o temporali
sono sempre intuite come aggregati o molteplicità di parti precedentemente
date. La quantità intensiva invece è quella « che è appresa soltanto come unità
e in cui la molteplicità può essere rappresentata solo per approssimazione alla
negazione = 0». Cioè la quantità intensiva è quella che ha sempre gradi; per
es., il rosso ha un grado che per quanto piccolo non è mai minimo e così il
calore, la pesan- tezza, ecc. Queste sono le qualità continue 0, come Kant dice
con termine newtoniano, fiuenti (Critica R. Pura, II, 2, sez. 3, Assiomi
dell’intuizione). ESTERIORITÀ, INTERIORITÀ (inglese Exterlority, Interiority;
franc. Extériorité, Intério- rité; ted. Aeusserlichkeit, Innerlichkeit). Il
tema filo- INTERIORITÀ 349 sofico del contrasto tra interiorità ed E. nasce
con- temporaneamente con la nozione di coscienza (v.) ed esprime il contrasto
tra ciò che è estraneo alla coscienza e ciò che le è proprio. La predicazione
popolare stoica ha per la prima volta sfruttato ampiamente questo tema: il
quale ricorre continua- mente nelle pagine di Epitteto, Marco Aurelio e Seneca.
Dice Epitteto: « Stato e contrassegno del- l’uomo comune si è nè benificio nè
danno aspet- tarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e
contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o
temere da sè mede- simo » (Manuale, 48). E Marco Aurelio: « Le cose per se
stesse non arrivano a toccar l’anima, nè vi banno alcun accesso, nè possono
mutarla o ri- muoverla. È invece l’anima che da sè sola si muta e si muove; e
quali sono i giudizi che essa stima degna di sè fare intorno alle cose esterne,
tali essa fa che siano per lei le dette cose » (Ricordî, V, 19). Se- neca
contrappone «la gioia che nasce dall’interno » a quella che deriva dalle cose
esterne (Ep., 23). Neoplatonismo e Cristianesimo operarono l’iden- tificazione
dell’interiorità con la sfera della coscienza e dell’E. con la sfera del mondo
cui appartengono le cose naturali e gli altri esseri. Il tema del con- trasto
tra interiorità ed E. divenne così il tema classico di ogni filosofia che
facesse appello alla coscienza come a una sfera di realtà privilegiata sia per
la sua certezza sia per il suo valore. Il lin- guaggio comune ha accolto i
significati filosofici delle due parole che significano in esso proprio la
contrapposizione da ciò che è coscienza e ciò che non lo è. La metafisica dello
spiritualismo (v.) e il metodo dell’introspezione (v.) utilizzano ugual- mente
questo tema tradizionale. Sarebbe molto fa- cile mostrare il carattere
puramente metaforico, e perciò l’assenza di significato preciso, delle espres-
sioni in cui ricorrono i termini in questione o i corrispondenti aggettivi. «
Realtà interna » e « realtà esterna », « mondo interno » e «mondo esterno »,
«oggetti interni» e «oggetti esterni» sono espres- sioni, che propriamente
parlando, non hanno senso sia perchè non vien fatto riferimento all'àmbito
chiuso rispetto al quale un «esterno» e
un « in- terno » si può determinare, sia perchè tale àmbito chiuso, quando
viene determinato, non è spaziale perchè è la coscienza stessa. Hegel ha fatto
un uso abbondante di questi termini che, attraverso la sua opera appunto, sono
penetrati nella terminologia filosofica. Egli identificava l'interno con la «
ragion d’essere» e l’esterno con la sua manifestazione (Enc., $ 138-39). Ma
aveva il buon senso di ag- giungere: « L’uomo, com'è esteriormente cioè nelle
sue azioni (di certo non nella sua E. soltanto cor- porea) è interno; e
quand’egli è solo interno — cioè virtuoso, morale, solo in intenzioni, disposi-
350 zioni, ecc. — e il suo esterno non è con ciò identico, allora l’uno è così
vuoto come l’altro » (Ibid., $ 140). ESTETICA (ingl. Aesthetics; franc.
Esthétique; ted. Aesthetik). Con questo termine si designa la scienza
(filosofica) dell’arte e del bello. Il nome è stato introdotto da Baumgarten
verso il 1750 in un libro (Aesthetica) nel quale si sosteneva la tesi che
oggetto dell’arte sono le rappresentazioni con- fuse ma chiare, cioè sensibili
ma « perfette », mentre oggetto della conoscenza razionale sono le rappre-
sentazioni distinte (i concetti). Il nome significa propriamente « dottrina
della conoscenza sensibile +; e Kant, che pure parla (nella Critica del
giudizio) di un giudizio estetico che è per l'appunto il giudizio sull’arte e
sul bello, chiama «E. trascendentale » (nella Critica della Ragion Pura) la
dottrina delle forme a priori della conoscenza sensibile. Già per Kant il nome
E,, riferito all’arte e al bello, ha tuttavia cessato di aver riferimento alla
dottrina di Baumgarten; ed oggi il nome designa qualsiasi analisi, indagine,
speculazione che abbia per og- getto l’arte ed il bello, a prescindere da ogni
dot- trina o indirizzo specifico. Si è detto «l’arte e il bello» perchè le
indagini dirette all’uno e all’altro di questi due oggetti coin- cidono o
almeno sono strettamente intrecciate nella filosofia moderna e contemporanea.
Non così ac- cadeva invece nella filosofia antica, dove le nozioni di arte e di
bello erano ritenute diverse e reciproca- mente indipendenti. La dottrina
dell’arte era chia- mata dagli antichi, col nome del suo stesso oggetto,
poetica cioè arte produttiva, e produttiva di ima- gini (PLAT., Sof., 265 a;
ARIST., Ret., I, 11, 1371 b 7); mentre
il bello (in quanto non incluso nel novero degli oggetti producibili) cadeva
fuori della poetica e veniva considerato a parte (v. BeLLO). Così per Platone
il bello è la manifestazione evidente delle Idee (cioè dei valori) ed è perciò
la più facile e ovvia via d’accesso a tali valori (Fedr., 250 e); mentre l’arte
è imitazione delle cose sensibili o degli eventi che si svolgono nel mondo
sensibile e costituisce
piuttosto un rifiuto di muovere al di là
dell’appa- renza sensibile verso la realtà e i valori (Rep., X, 598 c).
Aristotele, a sua volta ritiene che il bello consiste nell’ordine, nella
simmetria e in una gran- dezza che si presti ad essere facilmente abbracciata
dalla vista nel suo complesso (Poet., 7, 1450b 35 sgg.; Met., XIII, 3, 1078 b
1); mentre riprende e fa sua la teoria dell’arte come imitazione, pur
sottraendola, con la nozione della catarsi, a quella specie di confinamento
alla sfera sensibile cui Pla- tone l’aveva condannata (v. oltre). A partire dal
*700 le due nozioni dell’arte e del bello appaiono connesse come oggetti di
un’unica investigazione; e la connessione fu operata mediante ESTETICA il
concetto del gusto inteso come facoltà di di- scernere il bello, sia dentro che
fuori dell’arte. La ricerca di Hume sulla Regola del gusto (1741) suppone già
questa identificazione come la suppone quella di Burke, Sull’origine delle idee
del sublime e del bello (1756; cfr. V, 1), e il saggio di G. SPAL- LETTI, Sopra
la bellezza (1765; cfr. $ 19-20). Ma fu soprattutto Kant a stabilire l'identità
dell’artistico e del bello affermando che « la natura è bella quando ha
l’apparenza dell’arte »; e che «l’arte non può essere detta bella se non quando
noi, pur essendo coscienti che è arte, la consideriamo come na- tura » (Crit.
del Giud., $ 45). Finalmente Schelling
invertiva il rapporto tradizionale tra
arte e natura, facendo dell’arte la regola della natura invece che della natura
la regola dell’arte. L’arte è difatti per Schelling la necessaria e perfetta
realizzazione di quella bellezza che la natura attinge solo in modo parziale e
casuale (System des transzendentalen Idea- lismus, 1800, VI, $ 2; cfr. lo
scritto « Le arti figu- rative e la natura», 1807, in Werke, VII, pag. 289 e
seguenti). Tuttavia un tentativo di separare la scienza del- l’arte dalla
dottrina del bello è stato fatto più recentemente in Germania, allo scopo di
istituire su basi positive una «scienza generale dell’arte » (E. UTITZ,
Grundlegung der allgemeinen Kunstwissen- schaft, 2 voll., Stuttgart, 1914 e
1920; M. Dessorr, Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Stutt- gart,
1923). Tale scienza avrebbe dovuto avere come oggetto l’arte nei suoi aspetti
tecnici, psico- logici, morali e sociali, lasciando invece all’E. la
considerazione, per essa tradizionale, del bello: con- siderazione peraltro ritenuta
insufficiente a dar conto di tutti i fenomeni artistici, in quanto l’arte dei
primitivi, per es., e buona parte dell’arte mo- derna sembrano sfuggire alla
categoria del bello. Queste considerazioni tuttavia non sono apparse decisive.
La nozione di « bello » è abbastanza estesa nell’uso comune e anche in quello
colto (proprio dei critici d’arte e dei filosofi) per qualificare qual- siasi
opera d’arte riuscita, anche se rappresenta cose o persone che, per se stesse,
non potrebbero dirsi « belle » in base ai canoni correnti. Non si è ravvisato
pertanto l’opportunità di una separazione tra l’E. come scienza filosofica del
bello e la scienza dell’arte come
tale (cfr. B. C. HevL, New Bearines in Esthetics and Art Criticism, 1943, pag.
20 sgg.). D'altronde, problemi di ordine
psicologico, sociale, morale, ecc., sono sempre più largamente dibattuti nel
dominio stesso dell’E. e non pare che esigano una sede a parte per la loro
trattazione. La pro- posta in questione perciò è servita soltanto a sotto-
lineare l’esigenza che l’E. includa sempre più am- piamente tali problemi nella
sua considerazione. Più fortuna ha avuto la proposta di Paul Valéry ESTETICA di
distinguere dall’E. una poetica che dovrebbe consistere, secondo le sue parole,
« nell’analisi com- parata del meccanismo dell'atto dello scrittore e delle
altre condizioni meno definite che quest’atto sembra esigere» (Variéré, 1944,
V, pag. 292). Col nome di poetica si indica oggi spesso l’insieme delle
riflessioni che un artista fa sulla propria atti- vità o sull'arte in generale;
e se con l’uso di questa parola non s'intende alludere a una forma di E.
minore, depotenziata o provvisoria, l’uso stesso non suscita obiezioni. La
storia dell’E. presenta una grande varietà di definizioni dell’arte e del
bello. Sebbene ognuna di queste definizioni abbia di regola la pretesa di
esprimere in modo assoluto l’essenza dell’arte, si va facendo oggi strada
l’idea che la maggior parte di esse esprimano tale essenza solo dal punto di
vista di un particolare problema o gruppo di pro- blemi. È, per es., abbastanza
chiaro che la defini- zione dell’arte come imitazione è la soluzione di un
problema totalmente diverso da quello di cui la definizione dell’arte come
piacere si presenta come soluzione: difatti, la prima concerne il rap- porto
tra l’arte e la natura, la seconda il rapporto tra l’arte e l’uomo. Le teorie
E. non possono perciò essere presentate se non in riferimento ai problemi
fondamentali di cui sono (0 pretendono essere) la soluzione; e occorre
preliminarmente prospettare quali sono tali problemi per poter accennare, a
proposito di ciascuno di essi, alle soluzioni più importanti che sono state o
sono attualmente pro- poste. Ora i problemi fondamentali intorno ai quali si
possono raggruppare tutti quelli che si dibattono nel dominio dell’E. e che
pertanto consentono di orientarsi nella varietà degli indirizzi di questa
scienza sono tre e precisamente: 1° il rapporto tra l’arte e la natura; 2° il
rapporto tra l’arte e l’uomo; 3° il compito dell’arte. 1° Molte definizioni
dell'arte sono determina- zioni del rapporto tra l’arte e la natura (o in ge-
nerale la realtà). Poichè si può intendere l’arte come dipendente dalla natura,
o indipendente da essa o condizionata da essa, si possono distinguere tre
diverse concezioni dell’arte sotto questo profilo e cioè: a) l’arte come
imitazione; b) l’arte come creazione; c) l’arte come costruzione. a) La più
antica definizione dell’arte nella filosofia occidentale, quella di imitazione,
è intesa a subordinare l’arte alla natura o alla realtà in ge- nerale. Platone
insiste sulla passività dell’imitazione artistica: il pittore non fa che
riprodurre l’apparenza dell’oggetto costruito dall’artigiano (Rep., 598 b); il
poeta non fa che copiare l’apparenza degli uo- mini e delle loro attività senza
intendersi veramente delle cose che imita e senza la capacità di effet- tuarle
(/bid., 599 b). Per Aristotele, il valore del- 351 l’arte deriva dal valore
dell’oggetto imitato: per es., devono essere propri dell'oggetto che la
tragedia imita, cioè del mito, i caratteri che garantiscono alla tragedia la
sua riuscita. « Come i corpi degli esseri viventi devono, per essere belli,
avere una grandezza che possa facilmente nel suo insieme essere abbracciata
dallo sguardo, così il mito deve avere un’estensione che possa facilmente
essere ab- bracciato nel suo insieme dalla mente» (Poer., VII, 1451 a 2).
All’artista appartiene tutt’al più, da questo punto di vista, il merito
dell’opportuna scelta dell’oggetto imitato; ma, scelto l’oggetto, egli altro
non può che riprodurlo nelle sue carat- teristiche proprie. Non fa differenza
che l’oggetto imitato sia una cosa naturale o un'entità trascen- dente o
intelligibile: la passività dell’imitazione ri- mane. Così Seneca dice che
quando l’artista tiene rivolto lo sguardo a un esemplare da lui stesso
concepito, quest’esemplare è in realtà contenuto nella mente divina (Zp., 65):
cioè non è creato. Allo stesso modo Plotino osserva: «Se qualcuno disprezza le
arti perchè non fanno che imitare le cose naturali, bisogna dire in primo luogo
che le stesse cose naturali imitano altre cose e in secondo luogo bisogna
sapere che le arti non imitano di- rettamente gli oggetti visibili ma si
rivolgono alle regioni dalle quali essi dipendono e così sono in grado di far
molte cose per conto loro e di aggiun- gere ciò che manca alle cose naturali»
(Enn., V, 8, 2). Così, secondo Plotino ciò che l’arte aggiunge alla natura è da
essa attinto alla realtà superiore (intelligibile) cui tiene rivolto lo
sguardo. La teoria dell’imitazione si trova ancora oggi difesa e seguita dai
sostenitori del realismo dell’arte, soprattutto nei paesi comunisti o tra
coloro che si ispirano all’ideologia comunista. Ma spesso l’interpreta- zione
che si dà dell’imitazione le toglie proprio quel carattere di passività che la
caratterizzava nella sua formulazione classica. Così Lukacs, che definisce
l’arte come « rispecchiamento della realtà », intende poi questa realtà come il
risultato del rap- porto reciproco tra la natura e l’uomo: rapporto che è
mediato dal lavoro e dalla società in ogni suo momento storico. Perciò vede
nell'arte «il modo di espressione più adeguato e più alto del- l’autocoscienza
dell’umanità» (Astherik I, 1963, cap. VII, $ III; trad. it. pag. 575). È, da
questo punto, di vista l’imitazione non si distingue dalla creazione. b) Il
concetto dell’arte come creazione è proprio del Romanticismo e fu fatto valere
in tutta la sua forza da Schelling. « In che cosa il pro- dotto E., egli
diceva, si distingua dal comune prodotto artigiano è facile giudicare perchè
ogni creazione E. è nel suo principio assolutamente /i- bera, in quanto
l’artista può essere spinto ad essa 352 solo da una contraddizione che si trovi
nella parte più alta della sua natura, mentre ogni altra crea- zione è
occasionata da una contraddizione che è esterna a chi crea e ha perciò il suo
scopo fuori di sè » (System, cit., VI, $ 2). Per Schelling l’arte è la stessa
attività creatrice dell’Assoluto perchè il mondo è un « poema » (/bid., VI, $
3) e l’arte umana è una continuazione, specialmente attraverso il genio,
dell’attività creatrice di Dio. Questo concetto ve- niva ripreso da Fichte
negli scritti del secondo pe- riodo e cioè nei Caratteri del tempo presente
(1806), nell’Essenza del dotto (1805) e nella Destinazione del dotto (1811) (cfr.
PAREYSON, L'E. dell’idealismo tedesco, 1950, pag. 388 sgg.). Come si vede, la
tesi romantica dell’arte come creazione si com- pone di due tesi diverse: I,
l’arte è originalità assoluta e i suoi prodotti non si lasciano ricondurre alla
realtà naturale; II, come originalità assoluta, l'arte è parte (o continuazione
o manifestazione) dell’attività creativa di Dio. Sono queste le tesi
fondamentali che Hegel illustrò nelle sue Lezioni di Estetica. « Si potrebbe
imaginare, egli disse, che l’artista debba raccogliere nel mondo esterno le
forme migliori e riunirle o debba fare una scelta delle fisionomie, delle
situazioni, ecc., per trovare le forme più adatte al suo contenuto. Ma quando
egli abbia così raccolto e trascelto, non ha ancora fatto nulla: giacchè l’artista
dev'essere creatore e nella sua propria fantasia, con la conoscenza delle forme
vere e con un senso profondo e una viva sensibilità, deve spontaneamente e di
un sol getto formare ed esprimere il significato che lo ispira» (Vorlesungen
iîiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 240). Dall’altro lato, proprio per
questo suo carattere di creazione, l’arte appartiene alla sfera dello Spirito
assoluto ed è, con la religione e la filosofia, una delle manifestazioni o
realizzazioni di esso nel mondo. «L'arte, dice Hegel, in quanto si occupa del
vero come dell’assoluto oggetto della coscienza appartiene alla sfera assoluta
dello spi- rito e si colloca perciò, in base al suo contenuto. sullo stesso
piano della religione e della filosofia, Giacchè anche la filosofia non ha
altro oggetto che Dio ed è così essenzialmente una teologia razionale e un
perpetuo culto divino al servizio della verità » (Ibid., I, pag. 147-48). Croce
non fece, su questo punto, che ripetere, quasi alla lettera, la dottrina di
Hegel. « Come posizione e risoluzione di pro- blemi (fantastici o estetici)
l’arte non riproduce alcunchè di esistente, ma produce sempre alcunchè di
nuovo, forma una nuova situazione spirituale, e perciò non è imitazione ma
creazione. Del pari creazione è il pensiero il quale anch’esso non con- siste
in altro che in posizione e risoluzione di problemi (logici o filosofici o
speculativi che si dicano); e non mai in riproduzione di oggetti o di ESTETICA
idee » (Nuovi Saggi di E., 1920, DB: 156). Nello stesso senso Gentile ha
scritto: « E difficile rinun- ziare a vedere nell’artista un libero spirito
creatore. Ci saranno pure difficoltà, pel pensiero comune, a rendersi chiaro
conto di questa creatività dell’uomo; ma, ancorchè oscura, quest'idea
dell’artista che crea un mondo suo, è fitta profondamente in ogni uomo che si
accosta all’opera d’arte» (Fil. del- l’arte, 1931, II, $ 4). Nell’àmbito della
concezione
romantica dell’arte, il principio che
l’arte è crea- zione appare come una verità evidente. Il corollario principale
di questa concezione è la scarsa importanza attribuita ai mezzi tecnici della
espressione e l’insistenza sulla natura « spirituale » cioè coscienziale
dell’arte. Diceva a questo propo- sito Hegel: «L’opera d’arte raggiunge solo
alla superficie l’apparenza della vita giacchè nel suo fondo essa è pietra,
legno, tela, 0, nel caso della poesia, lettere e parole. Ma questo aspetto
della esistenza esterna non è quello che costituisce l’opera d’arte; l’opera
d’arte si origina dallo spirito, appar- tiene al dominio dello spirito, ha
ricevuto il bat- tesimo dello spirito ed esprime soltanto ciò che si è formato
sotto l’ispirazione dello spirito » (Vor/e- sungen ilber die Aesthetik, ed.
Glockner, I, pag. 55). Croce a sua volta ha confinato nel dominio della «
pratica » e considerato come semplice espediente di comunicazione la tecnica
espressiva dell’arte: «L'artista, che abbiamo lasciato vibrante di im- magini
espresse che prorompono per infiniti canali da tutto l’esser suo, è uomo intero
e perciò anche uomo pratico; e, come tale, avvisa ai mezzi di non lasciar
disperdere il risultato del suo lavorio spi- rituale e di rendere possibile e
agevole, per sè e per gli altri, la riproduzione delle sue imagini; onde
promuove atti pratici, che servono a quel- l’opera di riproduzione. Questi atti
pratici sono guidati, come ogni atto pratico, da conoscenze e perciò si dicono
tecnici; e, come pratici, distin- guendosi dalla intuizione che è teorica,
paiono esterni a questa e perciò si dicono fisici; e tanto più facilmente
prendono questo nome, in quanto vengono dall’intelletto fissati ed astratti »
(Breviario di E., in Nuovi Saggi di E., II, pag. 39-40). E Gentile ribadiva: «
Posto che l’elemento estetico consista nella soggettività sentimentale che
informa di sè un pensiero, la rappresentazione in cui questo pensiero si
sviluppa e attua, riguarda unicamente i mezzi tecnici dell’espressione. Alfieri
è lo stesso poeta nei sonetti e nelle tragedie, ecc.» (Fil. del- l’arte, VII, $
8). c) Il concetto dell’arte come costruzione si ha quando non si considera
l'attività E. nè come pura ricettività nè come pura creatività ma come un
incontro tra la natura e l’uomo o come un prodotto complesso in cui l’opera
dell’uomo si ESTETICA aggiunge, senza distruggerla, a quella della natura.
Questo fu propriamente il concetto che dell’arte ebbe Kant: che concepì
l’attività E. come una forma del giudizio riffettente: cioè della facoltà che
fa scorgere la subordinazione delle leggi naturali alla libertà umana o il
finalismo della natura rispetto all'uomo. Il finalismo della natura non è
secondo Kant nè «un concetto della natura» nè « un con- cetto della libertà »:
cioè non appartiene propria- mente nè soltanto alla natura nè soltanto
all’uomo, ma all'incontro tra la natura e l’uomo dovuto al fatto che l’uomo
deve realizzare proprio nella na- tura i suoi fini e perciò prova un sentimento
di piacere (cioè di liberazione da un bisogno) quando questa realizzazione gli
appare possibile: quando cioè la natura gli si dimostra adatta a servire i fini
umani (Cri. del Giud., Intr., V). Nello stesso concetto dell'attività E., Kant
includeva così quello di un incontro tra il meccanismo naturale e la libertà
umana: incontro per il quale l’arte non prescinde dalla natura ma la subordina
a sè e l’uomo gode di questa subordinazione come di un bisogno appagato. Il
concetto col quale Kant più frequentemente espresse il carattere costruttivo
(nè imitativo nè creativo) dell’arte fu quello di giuoco. Come attività
liberale o non mercenaria, l’arte è « un semplice giuoco cioè un’occupazione di
per se stessa piacevole che non abbisogna di altro scopo » (/bid., $ 43). E la
nozione di giuoco fu poi adoperata per definire alcune singole arti,
specialmente l’eloquenza, la poesia e la musica (Ibid., $ 51). Lo stesso
significato ha il concetto di giuoco nella dottrina di Schiller. L'uomo,
essendo insieme natura e ragione, è dominato da due ten- denze contrastanti, la
tendenza materiale e la ten- denza formale: e queste tendenze sono conciliate
dalla tendenza al giuoco, che mira a realizzare la forma vivente cioè la
bellezza (Uber die aesthetische Erziehung des Menschen, 1793-95, XV; trad.
ital., pag. 71). La tendenza al giuoco armonizza la li- bertà umana con la
necessità naturale. « Con libertà illimitata, dice Schiller, l’uomo può
congiungere le cose che la natura separò e può separare quelle che la natura
congiunse... Ma possiede tale diritto di sovranità solo nel mondo dell’apparenza,
nel- l’irreale regno dell’imaginazione e solo finchè si astiene
scrupolosamente, nel campo della teoria, dall’affermarne l’esistenza e, nella
pratica, dal voler produrre da esso un’effettiva esistenza» (/bid., XXVI, pag.
134). L'apparenza E. (o sfera del giuoco) è pertanto il dominio in cui l'uomo e
la natura collaborano insieme, la natura limitando e condizionando la libertà
umana e la libertà umana, dal canto suo, procedendo a comporre e unificare i
dati naturali. Questo è proprio il concetto della costruzione che, 23 —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 353 non mancò di fare qualche apparizione
nella stessa E. romantica del sec. xx. Il più grosso (se non il più grande)
monumento di questa E., l’E. 0 Scienza del bello (1846-57) di F. T. Vischer,
pur assumendo come principio proprio del mondo dell’arte l’Idea hegeliana, cioè
la Ragione autocosciente, conside- rava l’Idea stessa in lotta incessante con
ostacoli e influenze che Vischer complessivamente chiamava il «regno del caso».
Tutta la vita dello spirito è secondo Vischer « la storia dell’'annullamento e
del- l'assimilazione del caso » (Aesthetik oder Wissen- schaft des Schbnen, $
41): ma soltanto nella bellezza, il caso non è distrutto ma assimilato e
organizzato. Ciò equivaleva a vedere nell’arte un’opera, non di creazione, come
Hegel l'aveva concepita, ma di costruzione condizionata. Nell’E. contemporanea
il concetto dell’arte come costruzione domina il campo. Esso è stato esplici-
tamente difeso da Valéry che, sul fondamento di esso, ha affermato l’eccellenza
dell'architettura su tutte le altre arti. « Colui che costruisce o crea, ha
scritto Valéry, impegnato com°’è con il resto del mondo e con il movimento
della natura che tendono perpetuamente a dissolvere, a corrompere o a
rovesciare quel che egli fa, deve ravvisare un terzo principio che egli tenta
di comunicare alle proprie opere e che esprime la resistenza che vuole sia da
questi opposta al proprio destino di perituro. Crea insomma la solidità e la
durata » (Eupalinos; trad. ital., pag. 142). Lo stesso concetto si trova
variamente ripetuto nelle considerazioni estetiche di molti poeti contemporanei
(v. POESIA) e Dewey lo esprime nella forma più propria di collaborazione o
contrasto tra il fare e il subire: « L'arte nella sua forma accomuna in una
stessa relazione il fare e il subire, l'energia che esce ed entra, che fa sì
che un’esperienza sia esperienza. Il prodotto è un’opera d’arte E. a causa
dell’eliminazione di tutto ciò che non contribuisce alla mutua organizzazione
dei fat- tori sia dell’azione che della ricezione reciproca e a causa della
selezione propria di quegli aspetti e tratti che contribuiscono alla loro
interpretazione + (Art as Experience, 1934, cap. III; trad. ital., pa- gina
60). L. Pareyson nello studiare la formazione dell’opera d’arte e nel darne la
teoria ha delineato i caratteri della costruzione artistica. « Fare inven-
tando insieme il modo di fare; considerare la riu- scita come criterio a se
stessa; produrre l’opera inventandone la regola individuale; far coincidere
l’invenzione con la produzione; l’ideazione con la realizzazione, il
concepimento con l’esecuzione; ope- rare in modo che l’opera d’arte sia insieme
la legge e il risultato della propria formazione: ecco tante espressioni
equivalenti a designare il processo for- mativo dell’arte e a indicare la
coincidenza di tentativo e organizzazione nel procedimento arti- 354 stico»
(E., 1954, pag. 126). Il teorema fonda- mentale di questa concezione dell’arte
è l’identità della produzione artistica con la sua tecnica: al modo in cui la
distinzione radicale tra tecnica e produzione è il teorema caratteristico della
conce- zione dell’arte come creazione. La cosiddetta arte astratta che più
delle altre insiste sull’identità di tecnica e produzione è, nel suo complesso,
una manifestazione di questo modo d’intendere l’arte. 2° Il secondo problema
fondamentale dell’E. è quello del rapporto tra l’arte e l’uomo cioè della
situazione o posizione dell’arte nel sistema delle facoltà o delle categorie
spirituali. Si possono distinguere a questo proposito tre concezioni fon-
damentali: 4) quella che considera l’arte come co- noscenza; 8) quella che la
considera come attività pratica; C) quella che la considera come sensibilità.
A) Che l’arte appartenga alla sfera della co- noscenza sembra suggerito dalla
dottrina aristote- lica per quanto (come si vedrà) Aristotele abbia
esplicitamente attribuito l’arte alla sfera dell’atti- vità pratica. Ma egli
osserva che l’arte ha origine da quella tendenza all’imitazione che è un
aspetto del desiderio di conoscere (Poet., IV, 1448 b 5); e a proposito della
poesia, in un luogo famoso, afferma che essa è più filosofica della storia
(/bid., 9, 1451 b 5): il che sembra voler dire che essa ha maggior valore
teoretico della storia in quanto è più vicina alla prima scienza teoretica. Ma
fu so- prattutto il Romanticismo a insistere sul valore conoscitivo dell’arte,
scorgendo in essa addirittura con Schelling, «l’organo generale della filosofia
» in quanto l’arte fa cogliere quell’« Identità della attività cosciente e
dell’inconscia +, che è Dio stesso o l'Assoluto (System, cit., VI, 1). Hegel
faceva ar- retrare l’arte di un passo, ponendola al di sotto della filosofia e
della religione; ma ne riconfermava il valore teoretico attribuendola alla
sfera di quello « Spirito assoluto » che è la più alta conoscenza (o «
autocoscienza +) che l’Assoluto può attingere di sè (Enc., $ 556). L’E. di
Croce e tutte quelle che su di essa si modellano seguono questa attribuzione.
Fin dalla prima formulazione della sua dottrina, Croce insistette sulla
definizione dell’arte come primo grado del conoscere cioè « conoscenza
intuitiva o del particolare » (E., 1902, cap. I). E ha sempre insistito sulla
tesi che l’arte è «una teoresi, un conoscere », che riannoda il particolare
all’universale e perciò ha sempre un’impronta di universalità e totalità (La
poesia, 1936). Questa stessa tesi è anche il presup- posto dell’E. di Gentile:
nella quale la definizione dell’arte come sentimento significa soltanto la
ridu- zione dell’arte a pensiero « inattuale » cioè che non ancora si è
realizzato in un oggetto (La filosofia del- l’arte, 1931, cap. IV). La stessa
dottrina bergso- niana dell’arte, formulata a proposito della funzionedel
comico, riduce l’arte all’intuizione che è l’or- gano della conoscenza
filosofica (Le rire, 1908, pag. 160). Infine quell’indirizzo di critica delle
arti figurative che è stato chiamato della « visibilità pura » perchè vede
nelle forme e nei gradi di quelle arti forme e gradi del vedere ha condiviso
talora questa nozione dell’arte come conoscenza. Così ha detto, ad es., K.
Fiedler: « Solo verità e conoscenza appaiono l’unica occupazione degna
dell’uomo e se si vuole assegnare all’arte un posto fra le più alte tendenze
dello spirito occorre indicarle come fine solo lo slancio alla verità, la
spinta al conoscere » (Aphorismen, in
Schriften Uber Kunst, 1914, II, 8, pag.
147 sgg.). B) L'attribuzione dell’arte alla sfera dell’at- tività pratica è la
tesi esplicita di Aristotele. Data la grande divisione tra scienze feoretiche o
conosci- tive, che hanno per oggetto il necessario, e scienze pratiche che
hanno per oggetto il possibile, l’arte appartiene, secondo Aristotele, al
dominio pratico e costituisce l’oggetto della poetica cioè della scienza della
produzione, mentre l’altra suddivisione della pratica è la scienza dell’azione
(Et. Nic., VI, 4, 1140a 1). Nonostante la potente suggestione di Aristotele (o
forse perchè tale suggestione è stata annullata dall’altra di cui si è detto),
la concezione dell’arte come attività pratica è ritornata solo ra- ramente
nella storia dell’estetica. Può essere com- presa in questa rubrica la
concezione dell’arte come giuoco. Questa fu esposta per la prima volta da H.
Spencer che considerò l’arte come un giuoco che si è svincolato dal suo scopo
di addestramento biologico ed è diventato fine a se stesso (Principles of
Psychology, 1855, $ 535-36). Con alcune varianti la teoria fu ripresa da K.
Groos che riportò l’arte alla «esperienza sensoria del giuoco » (Spiele des
Menschen, 1889). Ma è stato soprattutto Nietzsche a insistere sul carattere
pratico dell’arte, vedendo in essa una manifestazione della volontà di potenza.
L’arte è condizionata secondo Nietzsche, da un sentimento di forza e di
pienezza, quale si verifica nell’ebrezza. La bellezza è l’espressione di una
vo- lontà vittoriosa, di una coordinazione più intensa, di un’armonia di tutti
i voleri violenti, di un equi- librio perpendicolare infallibile. « L'arte,
dice Nietz- sche, corrisponde agli stati di vigore animale. È da una parte l’eccesso
di una costituzione florida che trabocca nel mondo delle imagini e dei
desideri; dall’altra, l’eccitamento delle funzioni animali, me- diante le
imagini e i desideri di una vita intensi- ficata; è una esaltazione del
sentimento della vita e uno stimolante della vita» (Wille zur Macht, ed. 1901,
$ 361). Essenziale all’arte è la perfezione dell’essere, l'avviamento
dell’essere alla pienezza; l’arte è essenzialmente l’affermazione, la
divinizza- zione dell’esistenza. Lo stesso stato apollineo (v.) non è che la
risultanza estrema dell’ebrezza dio- nisiaca: è il riposo di certe sensazioni
estreme di ebrezza. C) L'attribuzione dell’arte alla sfera della sensibilità è
una tesi platonica, che ricompare nel 700 con segno di valore mutato. Platone
aveva confinata l'arte nella sfera dell’apparenza sensibile e l’aveva
caratterizzata con il rifiuto ad uscire da questa sfera mediante l’uso del
calcolo e della mi- sura (Resp., X, 602c-d). Ma nel 700 la nozione dell’arte
come sensibilità non è più diminuzione o condanna: l’arte appare come la
perfezione della sensibilità stessa. La nascita e l’elaborazione del concetto
di gusto (v.), parallela alla nascita e alla elaborazione della categoria del
sentimento (v.) con- diziona il nuovo apprezzamento della sfera sensi- bile,
che è proprio della filosofia del 700, e la assegnazione, a tale sfera, del
mondo dell’arte. Baumgarten riteneva che «il fine dell’E. è la per- fezione
della conoscenza sensibile in quanto tale» e che questa perfezione è la
bellezza (Aesthetica, 1750-58, $ 14). È ben vero che egli considerava le
rappresentazioni E. come rappresentazioni chiarema confuse e così poneva una
differenza solo di grado tra esse e le rappresentazioni razionali (che sono
chiare e distinte): il che, come Kant ebbe spesso ad osservare, non è una
distinzione suffi- ciente tra sensibilità e intelligenza (Cri. R. Pura, $ 8;
cfr. Crit. del Giud., Intr., $ III. Ma è pur vero
che, sia pure con concetti imperfetti,
Baumgarten aveva di mira proprio la rivendicazione dell’auto- nomia della sfera
sensibile. Alla stessa sfera ridu- ceva Vico la poesia, in polemica con quanto
« del- l'origine della poesia si è detto prima da Platone, poi da Aristotele,
infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri, Castelvetri » (Sc. Nuova, 1744, II, Della
metafisica poetica). La tesi di questi autori era, secondo Vico, che la poesia
fosse «sapienza riposta » cioè « me- tafisica ragionata ed astratta»; mentre la
tesi di Vico è che la poesia fu metafisica «sentita ed im- maginata » quale
poteva essere propria di uomini «ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti
sensi e vigorosissime fantasie » (/bid., 1744, II, Della me-tafisica poetica).
Ora, secondo Vico metafisica (cioè conoscenza) e poesia sono tra loro
totalmente op- poste: quella purga la mente dei pregiudizi della fanciullezza,
questa tutta ve l’immerge e rovescia dentro; quella resiste al giudizio dei
sensi, questa ne fa principale sua regola; quella infievolisce la fantasia,
questa la richiede robusta; infine quella non dà che pensieri astratti e scevri
d’ogni pas- sione; questa invece non dà che pensieri concreti e corpulenti, che
muovono con straordinaria vio- lenza gli animi umani (Sc. Nuova Prima, 1725,
IIl, 26, in Opere, ed. Ferrari, IV, pag. 227). La fantasia, che è l’organo
della poesia, è definita da Vico come la facoltà che « altera e contraffà» le
cose (Sc. Nuova, 1744, III, Dell’inarrivabile facultà poetica d’Omero); e in
generale la fantasia è tanto più robusta quanto è più debole il raziocinio
(Ibid., I, Elementi, 36). Kant infine segnava l’atto ufficiale di nascita della
«facoltà del sentimento » e a tale facoltà attribuiva il giudizio E. cercando
di deter- minarne conseguentemente i caratteri (Crir. del Giud., Intr., $ IID.
E a tale facoltà l’arte è stata più comunemente assegnata nell’E.
contemporanea. Secondo Santayana «la bellezza è un piacere con- siderato come
la qualità di una cosa » ed è perciò sempre « un’emozione, un’affezione della nostra
na- tura volitiva e valutativa » (The Sense of Beauty, 1896, $ 11). Per Dewey
ugualmente l’arte è « una forma di sentimento» (Art as Experience, 1934, cap.
IV). 3° Il terzo punto di vista dal quale possono essere considerate le teorie
estetiche è quello del còmpito che attribuiscono all’arte. Tutte le teorie
cadono in due gruppi fondamentali che rispetti- vamente considerano l’arte: «)
come educazione; 8) come espressione. Come educazione, l’arte è strumentale;
come espressione, è finale. a) La teoria dell’arte come educazione è di gran
lunga la più antica e la più diffusa. Platone condannò l’arte imitativa perchè
la ritenne non educativa ed anzi anti-educativa (Rep., X, 605 a-c); ma accettò
e difese quelle forme artistiche in cui vide utili strumenti d’educazione
(/bid., III, 395 c). Aristotele affermava che «la musica non va pra- ticata per
un unico tipo di beneficio che da essa può derivare ma per usi molteplici,
poichè può ser- vire per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo
luogo per il riposo, il sollevamento del- l’anima e la sospensione delle
fatiche » (Polir., VIII, 7, 1341 b, 35). Ciò che egli dice per la musica vale,
ovviamente, per tutte le arti; ed altrettanto ovviamente la catarsi (v.) e il
divertimento sono anch’essi procedimenti educativi. Il concetto del- l’arte
come educazione è durato per tutto il Me- dioevo e non è stato sensibilmente
mutato o innovato dalle discussioni estetiche del Rinascimento. La
accentuazione del carattere catartico dell’arte non è che l’accentuazione della
sua strumentalità edu- cativa. Di questa non dubitava neppure Vico che
insisteva sui «tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare
favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi al-
l’eccesso, per conseguire il fine, ch’ella si ha pro- posto, d’insegnar il
volgo a virtuosamente operare com’essi [i poeti] l’insegnarono a sè medesimi »
(Sc. Nuova, II, Della metafisica poetica). Questo è ancora il punto di vista
tradizionale che fa dell’arte uno strumento di perfezionamento morale. Ma la
stessa teoria dell’arte come conoscenza appartienall’àmbito di una concezione
strumentale o educa- tiva dell’arte. Hegel ha espresso la cosa con tutta la
chiarezza desiderabile. Cercando di determinare lo scopo dell’arte nella introduzione
delle sue Le- zioni di E. egli elimina le teorie che lo scopo del- l’arte sia
l’imitazione o l’espressione (nel qual caso sarebbe vera la formula dell’arte
per l’arte) o il perfezionamento morale, per insistere sul punto che scopo
dell’arte è l’educazione alla verità at- traverso la forma sensibile di cui
l’arte riveste la verità stessa: e che il perfezionamento morale è una
conseguenza inevitabile dell’educazione teo- retica. « Bisogna ammettere, dice
Hegel, che l’arte debba rivelare la verità nella forma della rappre- sentazione
sensibile, che debba rappresentare la opposizione riconciliata [tra forma
sensibile e con- tenuto di verità] e che pertanto abbia il suo scopo finale in
se stessa, in questa rappresentazione e manifestazione » (Vorlesungen ilber die
Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 89). Ma l’educazione allaverità non è meno
educazione dell’educazione mo- rale; e il compito dell’arte è secondo Hegel
quello di produrre la morte dell’arte cioè il passaggio a quelle forme
superiori di rivelazione della Verità assoluta che sono la religione e la
filosofia (/bid., III, pag. 579 sgg.). Con qualche attenuazione o confusione
questo punto di vista è stato ripetuto da Croce il quale riconosce che la
conoscenza E. si conserva nella conoscenza filosofica come si con- serva
nell’arte l’esigenza morale o la coscienza del dovere (Breviario di E., III).
Alle teorie che vedono nell’arte uno strumento educativo ai fini della mo- rale
e della conoscenza si sono aggiunte ora quelle che vedono in essa uno strumento
di educazione politica. Sono queste le dottrine che parlano del- l'impegno
(engagement) politico dell’arte e che esi- gono che l’artista assuma una
precisa direttiva politica, che coordini la sua opera con le classi 0 i gruppi
sociali più estesi e meno privilegiati (o con i partiti che li rappresentano o
pretendono rap- presentarli) e le aiuti nello sforzo di liberazione e perciò di
conquista e di conservazione del potere politico. Questa tesi che è propria
delle dottrine estetiche che si ispirano all’ideologia comunista non è,
filosoficamente parlando, più scandalosa delle dottrine tradizionali, che
pongono come còmpito dell’arte l'educazione morale o conoscitiva. Vero è che la
politica ha esigenze più mutevoli e più ar- bitrarie della morale o della conoscenza:
sicchè l’engagement politico rischia di limitare in modo assai più drastico
dell’engagement morale o cono- scitivo le direzioni in cui si possono compiere
o sviluppare i tentativi artistici e perciò di bloccare in anticipo tentativi
che potrebbero riuscire fe- condi. Ma l’autonomia, cioè il carattere finale,
non strumentale dell’arte, non è garantita neppure dalldottrina che vede
nell’arte un impegno conoscitivo o morale. 8) La teoria dell’espressione
consiste nel vedere nell’arte una forma finale delle esperienze, delle attività
o in generale degli atteggiamenti umani (v. EsprESSIONE). Il proprio
dell’atteggia- mento espressivo è che esso prospetta come fine ciò che per
altri atteggiamenti vale come mezzo. Per es., il vedere, che è un mezzo per orientarsi
nel mondo e per servirsi delle cose, diventa un fine nell’arte sicchè il
pittore non vuol altro che vedere e far vedere. Perciò anche si dice che
l’espressione chiarifica e trasporta su un altro piano il mondo comune della
vita: le emozioni, i bisogni e anche le idee o i concetti che dirigono
l’esistenza umana. Ha detto Dewey: «L'emozione che fu elaborata in ultimo da
Tennyson nella composizione In Me- moriam non era identica col sentimento di
dolore che si manifesta con il pianto e con un aspetto abbattuto: la prima è un
atto di espressione, la seconda di sfogo. Tuttavia è evidente la continuità
delle due nozioni, cioè il fatto che l’emozione E. è l’emozione originaria,
trasformata attraverso il materiale oggettivo al quale è stato affidato il suo
sviluppo e il suo compimento » (Art as Experience, 1934, cap. IV; trad. ital.,
pag. 94-95). Da questo punto di vista l’arte non è natura ma, come dice Dewey
«natura trasformata dalla sua entrata in nuove relazioni + (/bid., 1934, cap.
IV; trad. ital., pag. 94-95); o, come anche si potrebbe dire, ritorno alla
natura. E non fa meraviglia che spesso, dal Rinascimento all’Impressionismo, il
ritorno alla na- tura sia servito a rinnovare profondamente e con successo lo
stile e il gusto dell'arte. La concezione dell’arte come espressione è forse
adombrata nelle affermazioni di coloro che insi- stono sul carattere teoretico
o contemplativo del- l’arte. Ma è malamente adombrata quando (come fa Croce,
Breviario di E., III) nello stesso tempo si ironizza sulla formula dell’arte
per l’arte che è la migliore definizione del carattere espressivo del- l’arte.
Su questa formula hanno insistito poeti ed artisti moderni, che si sono avvalsi
di essa per difendere l’arte da ogni tentativo di asservimento o manipolazione
a fini che esigerebbero la sua completa subordinazione e le toglierebbero ogni
li- bertà di movimento. I testi relativi sono riportati nella voce Poesia. La
formula che essi difendono dev'essere a tutt'oggi considerata come la migliore,
cioè più efficace, difesa dell’attività E. e delle con- dizioni della sua
fecondità. Infatti poichè questa attività, come ogni altra, procede per
tentativi e ben poco si può dire in anticipo sul valore di un tentativo, il
prescriverne alcuni e bandirne altri, in nome di una funzione morale o
conoscitiva o po- litica dell’arte, significherebbe aumentare enorme- ETÀ mente
il rischio di un insuccesso totale, giacchè nulla garantisce che il tentativo
più promettente non sia fra quelli eliminati o condannati in anti- cipo. Il
carattere espressivo dell’arte significa pure che le possibilità di vedere, di
contemplare, di go- dere, che l’arte realizza, le nuove aperture sul mondo che
essa dischiude, quando riescono espresse nell’opera, rimangono a disposizione
di chiunque sia in condizione di intendere l’opera stessa. L’espres- sione è
per natura sua comunicazione. La capacità di giudicare le opere d’arte di un
certo stile si chiama gusto; e il gusto tènde a diffondersi e a divenire uni-
forme in periodi di tempo determinati o in deter- minati gruppi d’individui. Ma
indubbiamente le possibilità comunicative di un’opera d’arte riuscita sono
praticamente illimitate e sono anche relativa- mente indipendenti dal gusto
dominante. Questo significa che non tutti devono necessariamente ve- dere in un’opera
d’arte la stessa cosa o goderla allo stesso modo. Le risposte individuali di
fronte ad essa possono essere innumerevoli e presentare o meno tra loro
uniformità di gusti. Ma l’importante non è quest’uniformità, ma la possibilità
lasciata aperta a nuove interpretazioni, a nuovi modi di fruire dell’opera
stessa. Quelli che godono di una stessa opera d’arte (per es., gli ascoltatori
di un pezzo di Beethoven) non sono come i membri di una setta o gli adepti di
una stessa credenza. Costituiscono tuttavia una comunità legata insieme da un
interesse comune, e aperta nel tempo e nello spazio. ESTETISMO (ingl.
Aestheticism; franc. Esthé- tisme; ted. Asthetizismus). Ogni dottrina o atteg-
giamento che ritenga fondamentale e primari i valori estetici e riduca o subordini
ad essi tutti gli altri (anche e soprattutto quelli morali). In tal senso si
può chiamare E. sia una dottrina come quella di Novalis o di Schelling che vede
nell’arte la rivelazione dell’Assoluto; sia un atteggiamento come quello di
Oscar Wilde o di D'Annunzio, che dia la prevalenza ai valori estetici nella
let- teratura e nella vita. L'E. fu caratterizzato da Kierkegaard come l’at-
teggiamento di chi vive nell’istante, cioè vive per cogliere ciò che vi è
d’interessante nella vita tra- scurando tutto ciò che è banale, insignificante
e meschino. L’uomo estetizzante perciò evita la ri- petizione, che implica
sempre monotonia e toglie l'interessante alle vicende più promettenti. Il
sim-bolo o l’incarnazione dell’E. è perciò Don Giovanni il seduttore. Lo sbocco
finale della vita estetizzante è, secondo Kierkegaard, la noia e quindi la
dispe- razione (Werke, II, pag. 162). ESTRAPOLAZIONE (ingl. Extrapolation;
franc. Extrapolation; ted. Extrapolation). 1. Il cal- colo dei valori di una
funzione per argomenti che 357 sono al di là di quelli per i quali i valori
della funzione sono già conosciuti. 2. Le stesso che analogia (v.). ESTREMO
(gr. tè toyarov; lat. Extremum; ingl.
Extreme; franc. Extréme; ted. Aeusserste).
Ciò che è primo o ultimo in una qualsiasi serie. Così il termine fu inteso da
Aristotele il quale notò che gli E. non sono sostanze ma limiti (Mer., XIV, 3,
1090 b 9). In questo senso si dice che il punto è l’E. della linea, la linea
del piano e il piano del solido. Nello stesso senso si parla di una specie E.
(ultima) che è quella più vicina all’individuo (/bid., III, 3, 998b 15). E.
(ultimo) è anche il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti
(Fis., VIII, 2, 244 b 4). E. sono pure i due termini del sillogismo che
compaiono nella conclusione e il cui rapporto viene stabilito ad opera del
termine medio (An. pr., I, 4, 25b 30). La parola si può dire abbia conservato a
tutt'oggi lo stesso signi- ficato (v. ULTIMO). ESTRINSECO, INTRINSECO (ingl.
Extrin- sical, Intrinsical; franc. Extrinsèque, Intrinséque; ted. Aeusserlich,
Innerlich). In generale si dice in- trinseco ciò che appartiene all’essenza o
alla natura di una cosa, E. ciò che le è estraneo. Secondo la logica
tradizionale, è intrinseco ad un oggetto il carattere che entra nella definizione
dell’oggetto stesso; per es., la razionalità, se l’uomo viene de- finito
«animale ragionevole ». Dal punto di vista di una logica che non si fondi sulla
nozione di essenza necessaria o di sostanza (v.), le determina- zioni E. od
intrinseco hanno un significato molto più elastico perchè diventano relative ai
vari signi- ficati di un oggetto qualsiasi (v. SIGNIFICATO). , ETÀ (gr. yévoc;
lat. Aetas; ingl. Age;
franc. Age; ted. Zeitalter). La nozione della
successione di E. diverse nella storia degli uomini sulla Terra è stata spesso
utilizzata dai filosofi. Il suo primo documento letterario, nel mondo
occidentale, è probabilmente quello lasciatoci da Esiodo nelle Opere e giorni.
Esiodo distingueva cinque E. del mondo: 1° L’E. dell’oro, nella quale gli
uomini vivevano come di- vinità, privi di inquietudini, al riparo dalla fatica
e dalla miseria e nell’abbondanza di tutti i beni; 2° lE. dell'argento,
inferiore alla prima nella quale gli uomini difettavano soprattutto di saggezza
e sirifiutavano di onorare gli dèi; 3° l’E. de/ bronzo, nella quale gli uomini
furono soprattutto guerrieri, violenti e brutali; 4° l’E. degli eroi, che
furono invece saggi e forti e perciò furono chiamati se- midei; e infine 5° lE.
degli uomini, soggetti a ogni sorta di mali e inquietudini, ma che godono anche
di beni (Op., 109-79). Queste cinque E. furono ridotte a tre da Platone. Nel
Critia, facendo la storia della guerra tra l’Atlantide e l’Attica, Pla- tone
narra che gli dèi un tempo si divisero a sorte 358 tutta la terra e colonizzarono
così le diverse regioni, allevando gli uomini come i pastori allevano oggi le
greggi. Ma Efesto ed Atena che avevano avuto da governare l’Attica, cioè la
regione « natural- mente adatta alla virtù e al pensiero» vi fecero nascere,
quali autoctoni, uomini eccellenti nei quali istillarono la nozione di una
ordinata costituzione politica. Di questi uomini si sono serbati solo i nomi
mentre i fatti « per l’estinzione di quelli che ne avevano ereditato il ricordo
e per la lunghezza dei tempi, caddero nell’oblio ». E fra questi nomi Platone
enumera quelli di Cecrope, Eretteo, Erit- tonio, Erisittone, come degli eroi
che si ricordano anteriori a Teseo. Quando a questa E. degli eroi è successa
l’E. degli uomini, di quella non è rimasta che un’oscura tradizione; giacchè
gli uomini, ri- masti sprovvisti per molte generazioni delle cose necessarie
alla vita, sono stati per molto tempo dominati dalla cura dei bisogni e hanno
trascurato gli eventi anteriori e remoti (Crifia, 109 b sgg.). In questo
racconto le tre E. degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini sono chiaramente
distinte. Vico riprendendo nel sec. xvm questa divisione delle E. umane,
l’attribuirà (Sc. Nuova, Idea dell’opera) all’erudito romano Marco Terenzio
Varrone che l’avrebbe esposta nella sua grande opera Rerum divinarum et
humanarum libri andata perduta; ma ricavava probabilmente la notizia da Diodoro
Si- culo (Bibliotheca Historica, I, 44). La dottrina delle E. costituisce,
nell’antichità greca, un'autentica interpretazione della storia nella sua totalità
e precisamente un’interpretazione della storia come decadenza (v. STORIA).
Quando, nella filosofia moderna, viene ripresa da Vico, essa perde il suo
carattere pessimistico per assumere un ca- rattere ottimistico e progressivo.
Inoltre il fonda- mento della divisione delle E. muta: non è più
storico-mitico, come ancora nel racconto platonico, ma antropologico: ciascuna
E. segnerebbe il pre- valere di una particolare facoltà umana sulle altre.
Secondo Vico, infatti, la successione delle E. è determinata dal fatto che «gli
uomini prima sen- tono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo
perturbato e commosso, finalmente riflet- tono con mente pura » (Sc. Nuova,
1744, degn. 53). In base a questo principio si differenziano e si suc- cedono
le varie età. Ognuna di esse è contrassegnata da una specifica natura umana:
quella divina è robusta di sensi e debole di raziocismo; quella eroica è nobile
e saggia; quella umana intelligente e modesta, benigna e ragionevole, «la quale
rico- nosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere ». A queste tre
specie di natura corrispondono poi tre specie di costumi, di diritti naturali,
di go- verni, di lingue, ecc. (v. STORIA, 3 d). Nel Ro- manticismo, Fichte ha
ripreso la concezione delle ETÀ E. del mondo. Nello scritto intitolato
Caratteri fondamentali dell’E. contemporanea (1806), Fichte distinse cinque E.
della storia umana. La prima sarebbe quella dell’istinto, in cui la ragione
governa la vita senza la partecipazione della volontà. La seconda è l’E.
dell’autorità (o degli eroi) in cui l’istinto della ragione si esprime in
personalità potenti che impongono la ragione con la forza. La terza è la
liberazione dall’istinto e la rivolta contro l’autorità. La quarta è quella in
cui la ra- gione riconosce la propria legge nel libero arbitrio e accetta una
disciplina universale. La quinta è quella in cui la legge della ragione cessa
di essere un semplice ideale per diventare pienamente reale nel mondo
giustificato e santo, nell’autentico regno di Dio (Werke, VII, pag. 7 sgg.).
Più semplice- mente Hegel distingueva tre E. corrispondenti al progressivo
svegliarsi dello spirito alla consapevo- lezza del suo potere creativo. Nella
prima E. lo spirito «è ancora tuffato nella naturalità » per cui «uno solo è
libero ». È questa l’E. rappresentata dal mondo orientale. La seconda E. è
quella in cui lo spirito viene a conoscenza, ma solo imperfetta- mente e
parzialmente, della sua libertà per cui in essa «alcuni sono liberi». Questa
seconda E. è rappresentata dal mondo greco-romano. Nella terza E. lo spirito si
eleva « dalla libertà particolare alla pura universalità (l’uomo come tale è
libero) al- l’autocoscienza e all’autosentimento dell’essenza della
spiritualità » Questa E. è rappresentata dal mondo cristiano-germanico (Phil.
der Geschichte, ed. Lasson, pag. 136-37). Una divisione delle E. si può vedere
anche nella «legge dei tre stati» enunciata da Augusto Comte nel Corso di
filosofia positiva (1830): legge secondo la quale « ciascuna delle nostre
concezioni principali, ciascuna branca delle nostre conoscenze, passa
successivamente per tre stati teorici differenti: lo stato teologico o
fittizio; lo stato metafisico o astratto; lo stato scientifico 0 positivo ».
Questi stati ricorrerebbero, ugualmente, secondo Comte, nello sviluppo dell’in-
dividuo; il quale sarebbe « teologo nell’infanzia, me- tafisico nella
giovinezza e fisico nella virilità » (Phil. pos., I, Jez. I, $ 2). Con il
progredire della conoscenza storica nel mondo moderno e contem- poraneo la
nozione di E. caratterizzabili con pochi tratti mitici o antropologici e
succedentisi secondo una regola costante è caduta in disuso: essa infatti
contrasta con l’indirizzo individuante della moderna indagine storica. Si fa
invece frequente riferimento alla nozione di epoca (v.) che è quella di un
periodo storico caratterizzato da un avvenimento imma- nente e fondamentale.
Nella nozione di E., quello che importa è la legge secondo cui le E. si succe-
dono. Nella nozione di epoca, quello che importa è l'avvenimento che dà il
carattere al periodo. Le due nozioni andrebbero tenute distinte. Non sempre
tuttavia lo sono nell’uso corrente; e si parla di «E.» della tecnica mentre si
dovrebbe parlare di «epoca » della tecnica. ETERE (gr. al0n6; lat. Aether; ingl. Ether; franc.
Éther; ted. Ether). Il termine, che Empe- docle usò
(Fr., 100.5, Diels) come equivalente di aria e Anassagora (Fr., 15, Diels) come
equivalente di fuoco, fu adoperato da Aristotele a indicare la sostanza che
compone i cieli, in quanto si diffe- renzia, per la sua ingenerabilità,
incorruttibilità e inalterabilità, dai quattro elementi che costituiscono le
cose sublunari. Aristotele attribuisce l’uso di questo termine, che ritiene il
più adatto ad indicare i cieli come sedi della divinità, ad una tradizione
assai antica. « Gli uomini, egli scrive, volendo in- dicare che il primo corpo
è alcunchè di diverso dalla terra, dal fuoco, dall’aria e dall’acqua, chia-
marono il più alto luogo con il nome di E., derivato dal fatto che esso ‘corre
sempre’ per un’eternità di tempo. Anassagora tuttavia, fraintese malamente il
nome, scambiando l’E. per il fuoco » (De Cuel., I, 3, 270b 20). L’E. fu poi
chiamato, ma non da Aristotele « quinto corpo » o « quinta sostanza » o «quinto
elemento» (P/acit., I, 3, 22; 2, 25, 7; 2, 6, 2). Dell'E. fa menzione nello
stesso senso di Aristotele l’Epinomide attribuito a Platone (981 c, 984 b). Gli
Stoici a loro volta identificarono l’E. con il fuoco di Eraclito,
attribuendogli però la stessa funzione e la stessa dignità che Aristotele. «
Più in alto di tutti c’è il fuoco, che chiamano E., dal quale è costituita sia
la prima sfera immobile dei cieli sia le altre sfere mobili » (Dio. L., VII,
137). Cicerone così illustrava questa teoria stoica: 4 Dall’E. sorgono
innumerevoli astri fiammeggianti di cui primo è il Sole che tutto illumina con
la sua luce splendente ed è molte volte più grande e più esteso dell'intera
Terra, poi gli altri astri di smisu- rata grandezza » (De nat. deor., II, 36,
92; Acad., I, 7, 25). La nozione rimane fissata nella tradizione medievale in
questi termini, finchè si credette alla differenza di natura tra sostanza
celeste e sostanza sublunare: differenza che fu per la prima volta negata da
Cusano (De docta ignor., II, 12). Il nome fu riesumato da Fresnel (nei primi
de- cenni dell’800) per designare un ipotetico mezzo elastico che facesse da
supporto alle onde luminose. L’ipotesi dell’E. è stata mantenuta nella fisica
sino a che la teoria della relatività generale di Einstein l’ha resa inutile.
ETERNITÀ (gr. didiémne, alby; lat. Aeter- nitas; ingl. Eternity; franc. Éternité; ted. Ewigkeit). Il termine ha due
significati fondamentali: 1° du- rata indefinita nel tempo; 2° intemporalità
come contemporaneità. La filosofia greca ha conosciuto entrambi questi
significati. Eraclito ha espresso primo, affermando che il mondo «era da
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo che si accende a inter- valli e a intervalli
si spegne » (Fr., 30, Diels). Par- menide invece ha espresso il secondo: «
L’essere non era nè sarà ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo » (Fr.,
8, Diels). Platone ha espli- citamente contrapposto i due significati: « Della
sostanza eterna, egli dice, noi diciamo a torto che era, che è, e che sarà,
mentre ad essa in verità non compete che l’è ed invece l’era ed il sarà si
devono predicare solo della generazione che pro- cede nel tempo» (Tim., 37 e).
Aristotele ha utiliz- zato entrambi i concetti. Da un lato infatti il mondo
fuori del quale non c’è nè spazio nè vuoto nè tempo abbraccia l’intera
estensione del tempo ed è eterno (De Caelo, I, 9, 279 a 25). L’E. in questo
senso è durata (x\&v). Dall'altro lato, le sostanze immobili, i motori dei
cieli, sono eterni in un altro senso: nel senso di essere fuori del tempo. «
Gli enti eterni (tà «el &vra) in quanto eterni, dice Aristotele, non sono
nel tempo: infatti non sono abbracciati dal tempo nè il loro essere è misurato
dal tempo; il segno di questo è che essi non subiscono affatto l’azione del
tempo, non essendo nel tempo » (Fis., IV, 12, 221b 3). Questa distinzione
aristotelica è rimasta classica. Plotino identificò l’E. («lwv) col modo
d'essere proprio del mondo intellegibile cioè con «ciò che persiste nella sua
identità, che è sempre presente a se stesso nella sua totalità, che non è ora
questo e poi quello ma è, tutto insieme, perfezione indivi- sibile, come quella
di un punto in cui s’uniscano tutte le linee senza che si spandano al di fuori:
un punto che persista in se stesso nella sua identità e non subisca
modificazioni, che esista sempre nel presente, senza passato nè futuro, ma sia
ciò che è e lo sia sempre » (Enn., III, 7, 3). Plotino ripete a questo
proposito la notazione parmenidea e pla- tonica: eterno è ciò che non era nè
sarà ma soltanto è. S. Agostino impostava la sua analisi del tempo sulla
contrapposizione tra il tempo e l’E. (Conf., XI, 11; De civ. dei, XI, 4, 6). E
Boezio esprimeva correttamente la distinzione tra i due concetti di E.: «Ciò
che subisce la condizione del tempo, egli diceva, anche se, come Aristotele
credette del mondo, non ha nè principio nè fine, e anche se la sua vita si
prolunga nell’infinità del tempo, non ancora tuttavia si può legittimamente
credere eterno. Infatti la sua vita pur essendo infinita non comprende nè
abbraccia la propria intera durata giacchè non comprende e non abbraccia ancora
il futuro e non abbraccia più il passato. Pertanto solo ciò che abbraccia e
possiede ugualmente nella sua totalità la pienezza di una vita senza limiti,
sicchè non gli manchi nulla dell’avvenire e nulla gli sia sfuggito del passato,
solo questo è l’essere che si deve rite- nere eterno: necessariamente esso si
possiede in- teramente nel presente e possiede nel presente l’infinità del
tempo » (Phil. Cons., V, 6, 6-8). Dopo Boezio la distinzione è diventata un
luogo comune della filosofia. S. Tommaso fissava con accuratezza la relativa
terminologia. L’E. come «totale simul- taneo e perfetto possesso di una vita
senza limiti » è caratterizzata: 1° dall'assenza del principio e della fine; 2°
dall’assenza di successione in quanto è un eterno presente. La durata (aevum) invece
è propria delle cose che sono soggette al movimento locale e per il resto sono
immutabili, come è il cielo; ed è perciò qualcosa di intermedio fra l’E. e il
tempo (S. 7A., I, q. 10, a. 1, 5). Questo concetto dell’E. è rimasto proprio
anche del razionalismo moderno. Spinoza identifica l’E. con l’esistenza stessa
della Sostanza in quanto implicita nell’es- senza di essa e quindi necessaria.
E chiarisce: « Una tal esistenza in quanto verità eterna è con- cepita come
l’essenza della cosa; e però essa non può essere spiegata per mezzo della
durata o del tempo, anche se la durata si concepisca senza prin- cipio e senza
fine » (£r., I, def. 8, chiar.). Pertanto concepire le cose sotto l’aspetto
dell’E. (sub specie aeternitatis) significa concepirle come manifesta- zioni
dell’essenza divina e derivate necessariamente dalla sua natura (/bid., V, 30).
Leibniz afferma, contro Locke, la precedenza di una «idea dell’as- soluto » che
sarebbe a fondamento della nozione dell’E. (Nouv. Ess., II, 14, 27). E l’intera
filosofia hegeliana è concepita dal punto di vista di un’E. così intesa. Hegel
nega che l’E. possa essere intesa negativamente come astrazione o negazione del
tempo o come se venisse dopo il tempo (Enc., $ 258). L'E. è per lui il forum
simul delle determina- zioni dell’Idea. « L’Idea, eterna in sè e per sè, si
attua, si produce e gode se stessa eternamente come spirito assoluto » (/bid.,
$ 577). « Intemporalità » e «presente eterno» sono le espressioni che più
frequentemente ricorrono, anche nella filosofia contemporanea, quando si avvale
della nozione di eternità. L’ultima espressione è quella che ricorre, per es.,
nell'opera di Lavelle, Il tempo e l’E. (1945) come in molti altri idealisti e
spiritualisti contemporanei. Già però McTaggart aveva osservato che concepire
l’E. come « eterno presente » è una metafora non del tutto appro- priata perchè
significa fare pur sempre riferimento al tempo, dato che il presente è una
parte del tempo e suppone passato e futuro. E aveva per suo conto proposto di
considerare l’eterno come situato nel futuro, alla fine o alla consumazione dei
tempi (in Mind, 1909, pag. 355). Ed è infatti oggi abbastanza chiaro che la
concezione 2 dell’E., quale è stata espressa, con impressionante unifor- mità,
da Parmenide a noi, non è altro che un’ima- gine ridotta del tempo: è il tempo
stesso ridotto ad una delle sue determinazioni e precisamente alla
contemporaneità (il totum simul) che, come oggi tutti sanno, è non solo
temporalità ma temporalità misurabile. Quanto alla concezione dell’E. come
aevum, cioè come durata temporale indefinita, essa va incontro a quelle
obiezioni che già Kant esponeva nella sua critica alla cosmologia razionale del
xviri secolo (v. COSMOLOGIA). ETEROGENEITÀ, LEGGE DI. V. Omo- GENEITÀ.
ETEROGENESI DEI FINI (ted. Herero- gonie der Zwecke). Wundt ha chiamato col
nome solenne di «legge dell’E. dei fini» l'osservazione non molto peregrina che
i fini che la storia realizza non sono quelli che gli individui o le comunità
si propongono, ma sono piuttosto la risultante della combinazione, del rapporto
e del contrasto delle volontà umane tra loro e con le condizioni oggettive (Ethik, 1886, pag. 266;
System der Phil., 1889, I, pag.
326; II, pag. 221 sgg.). Si può ricordare che Vico aveva espresso lo stesso
concetto in una pa- gina famosa: « Perchè pur gli uomini hanno essi fatto
questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa
Scienza, dappoichè disperammo di ritruovarla da filosofi e da filologi); ma
egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle
volte tutta con- traria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi
uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini
più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa
Terra » (Sc. Nuova, 1744, Concl. dell’opera). ETEROLOGICO. V. AuroLocico.
ETERONOMIA. V. AUTONOMIA. ETEROZETESI (lat. Heterozetesis). Lo stesso che
/gnoratio Elenchi (v.). ETICA (gr. tà
}0wd; lat. Erhica; ingl. Ethics; franc.
Éthique; ted. Erhik). In generale, la scienza della condotta. Esistono due
concezioni fondamen- tali di questa scienza e cioè: 1 quella che la con- sidera
come scienza del fine cui la condotta degli uomini dev’essere indirizzata e dei
mezzi per rag- giungere tale fine; e deduce sia il fine che i mezzi dalla
natura dell’uomo; 2* quella che la considera come la scienza del movente della
condotta umana e cerca di determinare tale movente in vista di di- rigere o
disciplinare la condotta stessa. Queste due concezioni, che si sono variamente
intrecciate nel- l’antichità e nel mondo moderno, sono profonda- mente diverse
e parlano due linguaggi diversi. La prima parla infatti il linguaggio
dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e per con- seguenza
della « natura » o «essenza » 0 « sostanza » dell’uomo. La seconda parla invece
dei « motivi + o delle «cause» della condotta umana o delle ‘ forze » che la
determinano e pretende di attenersi al riconoscimento dei fatti. La confusione
tra questi due punti di vista eterogenei è stata resa possibile dal fatto che
entrambi si presentano abitualmente nella forma apparentemente identica di una
defini- zione del bene. Ma l’analisi della nozione di bene (v.) mostra sùbito
l’ambiguità che essa cela: giacchèbene può significare o ciò che è (per il
fatto che è) o ciò che è oggetto di desiderio, di aspirazione, ecc.: e questi
due significati corrispondono esattamente alle due concezioni dell’E. sopra
distinte. Difatti è propria della concezione 18 la nozione del bene come realtà
perfetta o perfezione reale, mentre è propria della concezione 23 la nozione
del bene come oggetto di appetizione. Sicchè quando si af- ferma «Il bene è la
felicità», la parola «bene» ha un significato completamente diverso da quello
che essa trova nell’affermazione «Il bene è il piacere ». La prima asserzione
(nel senso in cui essa è fatta, per es., da Aristotele e da S. Tom- maso)
significa: «La felicità è il fine della con- dotta umana, deducibile dalla
natura razionale del- l’uomo »j mentre la seconda asserzione significa: «Il
piacere è il movente abituale e costante della condotta umana ». Poichè il
significato e la portata delle due asserzioni sono pertanto completamente
diversi, la distinzione tra etiche del fine ed etiche del movente deve essere
tenuta continuamente pre- sente nelle discussioni sull’etica. Tale distinzione,
mentre spacca in due la storia dell’E., consente di riconoscere come
irrilevanti molte delle discus- sioni di
cui essa è tessuta e che non hanno altra base se non la confusione fra i due
significati 1° Entrambe le dottrine etiche elaborate da Platone, cioè sia
quella che trova la sua migliore espressione nella Repubblica sia quella che
trova la sua migliore espressione nel Filebo, si inscrivono nella prima delle
concezioni che abbiamo distinto. L'E. esposta nella Repubblica è infatti un’E.
delle virtù; e le virtù sono funzioni dell'anima (Rep. I, 353b) le quali sono
determinate dalla natura dell'anima e dalla divisione delle sue parti (/bid.,
IV, 434 e). Il parallelismo tra le parti dello Stato e le parti dell'anima
consente a Platone di deter- minare e definire le virtù particolari nonchè
quella che le comprende tutte: la giustizia come rispon- denza di ogni parte
alla sua funzione (/bid., 443 d). Analogamente, l’E. del Filebo procede in
primo luogo a definire il bene come forma di vita mista di intelligenza e di
piacere; e consiste nel determi- nare la misura di questa mescolanza (Fil., 27
d). L'E. di Aristotele è poi il prototipo stesso di questa concezione.
Aristotele procede a determinare il fine della condotta umana (la felicità)
ricavandolo dalla natura razionale dell’uomo (Er. Nic., I, 7); e pro- cede poi
a determinare le virtù che sono la con- dizione della felicità. A sua volta
l’E. degli Stoici, con la sua massima fondamentale del « vivere se- condo
ragione» intende dedurre le regole della condotta dalla natura razionale e
perfetta della realtà (StoBEO, Ec/., II, 76, 3; Dios. L., VII, 87). Il
misticismo neoplatonico pose come fine della condotta umana il ritorno
dell’uomo al suo prin- cipio creatore e l’immedesimarsi con esso. Secondo
Plotino, questo ritorno è «la fine del viaggio» dell’uomo; è un allontanamento
da tutte le cose esterne, «la fuga di uno solo verso uno solo» cioè dell’uomo
nel suo isolamento verso l'Unità divina (Enn., VI, 9, 11). Per quanto diverse
siano le dottrine cui si è fatto cenno, nelle loro interne articolazioni, la
loro im- postazione formale è identica. Esse procedono: a) a determinare la
natura necessaria dell’uomo; b) a dedurre da tale natura il fine cui dev'essere
indirizzata la sua condotta. Tutta l’E. medievale
si mantiene fedele a questo schema. Così,
ad es., l’intera E. di S. Tommaso è dedotta dal principio « Dio è l’ultimo fine
dell’uomo» (S. 7h., II 2, q. 1, a. 8): principio dal quale si deduce la
dottrina della felicità e quella della virtù. Si può scorgere una istanza
critica contro questa impostazione nel punto di vista di Duns Scoto e molti
Scolastici del ’300: che le norme morali sono fondate sul puro e sem- plice
comando divino, tranne appunto la norma che impone di ubbidire a Dio, che
sarebbe la sola « naturale » (Op. Ox., III, d. 37, q. 1; cfr. OCKHAM, In Sent.,
II, q. SH). E difatti questo appello al- l’arbitrio divino è il risultato della
riconosciuta impossibilità di dedurre dalla natura dell’uomo il fine ultimo
della sua condotta (Op. Ox., IV, d. 43, q. 2, n. 27, 32). Ma con ciò non è
tuttavia aperta alla ricerca etica un’alternativa diversa. Nella filosofia
moderna i Neoplatonici di Cam- bridge riprendono la concezione stoica di un or-
dine dell’universo che vale anche a dirigere la condotta dell’uomo; e pertanto
insistono sull'inna- tezza delle idee morali come in generale di tutte le idee
generali o direttive di cui l’uomo è in possesso (CupwortH, The True Intell.
System, 1678, I, 4; MORE, Enchiridion, 1679, III). E la filosofia roman- tica
ha dato la forma più radicale a questa con- cezione dell’etica. Fichte esige
che l’intera dottrina morale sia dedotta dalla « autodeterminazione del- 1’Io »
(Sitrenlehre, Intr., $ 9). Il fine della morale è perciò da lui posto
nell’adeguamento dell’io empi- rico all’Io infinito, adeguamento che non è mai
completo e perciò provoca un progresso all’infinito, la progressiva liberazione
dell’io empirico dai suoi limiti (/bid., in Werke, II, pag. 149). Secondo
Hegel, il fine della condotta umana, che è nello stesso tempo la realtà nella
quale tale condotta trova la 362 sua integrazione e la sua perfezione, è lo
Stato. Perciò l’E. è per Hegel una filosofia del diritto. Lo Stato è «la
totalità etica », Dio che si è realiz- zato nel mondo (Fil. del Dir., $ 258,
Zusatz). Lo Stato è il culmine di quella che Hegel chiama « eti- cità »
(Siftlichkeit) cioè la moralità che trova corpo e sostanza in istituzioni
storiche che la garantiscono; mentre la « moralità » (Moralitàt) di per se
stessa è semplicemente intenzione o volontà soggettiva del bene. Ma a sua volta
il bene non è altro che « l’es- senza della volontà nella sua sostanzialità e
uni- versalità » ovvero «la libertà realizzata, l’assoluto scopo finale del
mondo » (/bid., $ 139-42): cioè lo Stato stesso. Sicchè si può dire che per
Hegel la moralità non è che l’intenzione o la volontà sog- gettiva di
realizzare ciò che si trova realizzato nello Stato. Il concetto dello Stato è
il punto di partenza e il punto di arrivo dell’E. di Hegel. Conforme all’E.
tradizionale del fine è l’E. di Ro- smini, secondo la quale il bene si
identifica con l’essere, sicchè la massima fondamentale della con- dotta si può
formulare così: « Volere o amare l’essere ovunque lo si conosca, secondo
l’ordine che esso presenta all’intelligenza » (Princ. della scienza morale, ed.
naz., pag. 78). Ma sia che la realtà si definisca come Essere sia che si
definisca come Spirito o Coscienza, la struttura delle dottrine morali che
pretendono dedurre la morale dal fine mostrano una grande uniformità di
procedimenti e di conclusioni. Si considerino, per es., nella filo- sofia
contemporanea, l’E. di Green e quella di Croce. Secondo Green, la Coscienza
infinita, cioè Dio, è ab aeterno tutto ciò l’uomo ha la possibilità di
diventare: e cioè il Bene o Fine supremo che è l’oggetto della buona volontà
umana: bene che la ragione ha il compito di concepire e di porre come a
fondamento della sua legge (Prolegomena to Ethics, 3* ediz., 1890, pag. 198,
214). Volere il bene significa perciò volere la Coscienza assoluta, cercare di
realizzare quello che è presente in essa. Allo stesso modo per Croce l’attività
etica è « vo- lizione dell’universale »; ma l’universale «è lo Spi- rito, è la
Realtà in quanto è veramente reale, cioè in quanto unità di pensiero e volere;
è la Vita in quanto è còlta nella sua profondità come unità stessa; è la
Libertà, se una realtà così concepita è perpetuo svolgimento, creazione,
progresso » (Filo- sofia della pratica, 1909, pag. 310). Agire moralmente
significa perciò volere lo Spirito infinito, assumerlo come Fine:
un'impostazione dell’E. che (come quella di Fichte, Hegel, Green) non si
distingue dall’E. tra- dizionale che (come quella di Platone, Aristotele, S.
Tommaso e Rosmini) fa appello alla Realtà o all’Essere. Una forma più complessa
e moderna della stessa E. del fine si può scorgere nella dottrina di Bergson.
ETICA Bergson ha distinto una morale chiusa e una mo- rale aperta. La morale
chiusa è ciò che s’intende comunemente con questo termine. Essa corrisponde nel
mondo umano a ciò che è l’istinto in certe società animali: tènde cioè al fine
di conservare le società stesse. « Supponiamo un istante, dice Bergson, che la
natura abbia voluto all’altra estremità della linea [cioè all’estremità della
linea evolutiva del- l’intelligenza in quanto diversa da quella dell’istinto]
ottenere società in cui una certa latitudine fosse lasciata alla scelta
individuale: essa avrà fatto sì che l’intelligenza ottenga qui risultati
paragona- bili, quanto alla loro regolarità, a quelli dell’istinto nell’altra:
avrà fatto ricorso ad abitudini. Ciascuna di queste abitudini, che si potranno
chiamare ‘mo- rali” sarà contingente; ma il loro insieme, cioè l’abitudine di
contrarre abitudini, essendo alla base stessa delle società, avrà una forza
paragonabile a quella dell’istinto sia come intensità che come regolarità »
(Deux Sources, I; trad. ital., pag. 23). Dall’altro lato però c’è la morale dei
profeti e degli innovatori, dei mistici e dei santi. Questa è la mo- rale in
movimento, fondata sull’emozione, sul- l’istinto, sull’entusiasmo: una morale
che è un impulso di rinnovamento coincidente con lo stesso slancio creatore
della vita. Questa dualità di forze è a fondamento di ogni morale secondo
Bergson. « Pressione sociale e slancio di amore non sono che due manifestazioni
complementari della vita, normalmente applicate a conservare all’ingrosso la
forma sociale che fu caratteristica della specie umana fin dall’origine, ma
eccezionalmente capaci di trasfigurarla grazie a individui di cui ognuno
rappresenta, come avrebbe fatto l'apparizione di una nuova specie, uno sforzo
di evoluzione crea- trice » (/bid., pag. 101). Bergson ha così dedotto
dall’ideale del rinnovamento morale l’esistenza di una forza destinata a
promuovere tale rinnova- mento; come ha dedotto dal concetto di una « so- cietà
chiusa » la sua nozione della morale corrente. La sua E. pertanto obbedisce
alla classica impo- stazione dell’E. del fine. Quando nella filosofia
contemporanea la nozione di valore (v.) ha cominciato a sostituire quella di
bene, la vecchia alternativa tra l’E. del fine e l’E. della motivazione ha
assunto una forma nuova. Il valore infatti si sottrae all’alternativa propria
della nozione di bene che può essere interpretata in senso oggettivo (come
realtà) o in senso sogget- tivo (come termine di appetizione). Il valore
possiede un modo d'essere oggettivo nel senso di poter essere inteso o appreso
indipendentemente dall’appeti- zione; ma è nello stesso tempo dato in una
qualche forma di esperienza specifica. Il valore viene per- tanto costantemente
riconosciuto dotato di tre ca- ratteri: @) l’oggettività; 5) la semplicità, per
cui e indefinibile e indescrivibile nel senso in cui lo è una qualità sensibile
elementare; c) la necessità 0 la problematicità. Quest’ultima è per l’appunto
l’alternativa che sostituisce nell'àmbito della no- zione di valore quella tra
soggettività e oggettività propria della nozione di bene. Ora le dottrine che
riconoscono la necessità del valore cioè la sua as- solutezza, eternità, ecc.,
hanno una stretta parentela con le dottrine etiche tradizionali del fine;
mentre le dottrine che riconoscono la problematicità del valore sono
strettamente imparentate con le dot- trine etiche della motivazione. Le
dottrine di Scheler e Hartmann sono tra quelle che affermano la ne- cessità del
valore. Scheler ha elaborato la sua «E. materiale dei valori» proprio allo
scopo di rendere l’E. immune da quel relativismo cui con- duce un’E. materiale
del bene cioè un’E. che vede nel bene il semplice oggetto dell’appetizione. Se-
condo Scheler, le appetizioni (o aspirazioni o im- pulsi o desideri) hanno i
loro fini in se stesse cioè «in un contemporaneo o precedente sentimento dei
loro componenti axiologici ». I fini dell’appetizione possono diventare scopi
della volontà, quando ven- gono rappresentati e scelti e così divengono un
dover essere reale, cioè i termini di un’esperienza oggettiva. Ma i valori sono
dati anteriormente e indipendentemente sia dai fini che dagli scopi e anche
sono date indipendentemente da tali fini e scopi le preferenze dei valori, cioè
la loro gerarchia. « Possiamo infatti, dice Scheler, sentire i valori, anche
morali, nella comprensione degli altri, senza che essi vengano fatti oggetto di
aspirazione o siano immanenti ad una aspirazione. Similmente possiamo preferire
o posporre un valore ad un altro, senza con ciò scegliere tra le aspirazioni
che si dirigono a tali valori. Tutti i valori possono es- sere dati e preferiti
senza alcuna aspirazione 1 (For- malismus, pag. 32). In altri termini, l’E. non
è fondata nè sulla nozione del bene nè su fini imme- diatamente presenti alla
aspirazione e su scopi deliberatamente voluti ma sull’intuizione emotiva,
immediata e infallibile dei valori e dei loro rapporti gerarchici; intuizione
che è alla base di ogni aspi- razione, desiderio e deliberazione volontaria.
Hart- mann ha espresso in modo più scolasticamente chiaro ed efficace la stessa
concezione dell'etica. «C’è, egli dice, un regno di valori sussistente in sè,
un autentico ‘ mondo intellegibile * che sta al di là della realtà come al di
là della coscienza, una sfera ideale etica, non costruita, inventata o sognata,
ma effettivamente esistente e afferrabile nel feno- meno del sentimento
axiologico, la quale sussiste accanto a quella ontica reale e a quella
gnoseolo- gica attuale (Erhik, 1926, pag. 156). L’«essere in sè » dei valori
sottolinea la loro indipendenza dalla stessa intuizione axiologica in cui sono
dati e perciò la loro necessità e assolutezza che, nell’in- tenzione di
Hartmann, dovrebbe sbarrare la strada al «relativismo axiologico di Nietzsche»
(/bid., pag. 139). Tuttavia il « relativismo axiologico di Nietzsche » ha la
stessa struttura formale, cioè la stessa impo- stazione, dell’E. di Hartmann e
in generale del- l’E. tradizionale del fine, perchè si fonda anch’esso su una
gerarchia assoluta di valori. Scheler e Hart- mann ritengono che tale
gerarchia, come i valori stessi, sia completamente indipendente dalla scelta
umana, e che ogni scelta anzi la presupponga, sia o no ad essa conforme. Ma
questa è precisamente anche la credenza di Nietzsche. Soltanto che, per
Nietzsche, tale gerarchia è diversa: è una gerarchia dei valori vitali, dei
valori in cui s’incarna la Vo- lontà di Potenza. «I valori morali, dice
Nietzsche, hanno occupato fino ad oggi il rango superiore; chi potrebbe
dubitare di essi? Ma togliamo a questi valori il loro posto e muteremo tutti i
valori: ca- povolgeremo il principio della loro gerarchia pre- cedente» (Wille
zur Macht; trad. franc. Bianquis, III, 503). L’immoralismo di Nietzsche, il suo
« relati- vismo axiologico», per il quale egli si fa critico della morale
corrente e vede in essa forme camuffate di egoismo ed ipocrisia, è
semplicemente la proposta di una nuova tavola dei valori fondata sul prin-
cipio dell’accettazione entusiastica della vita, sulla preminenza dello spirito
dionisiaco. È proprio per questo che Nietzsche intende sostituire alle virtù
della morale tradizionale le nuove virtù în cui si esprime la volontà di
potenza. È virtù ogni passione che dice sì alla vita ed al mondo: «la fierezza,
la gioia e la salute, l’amore sessuale, l’inimicizia e la guerra, la
venerazione, le belle attitudini, le buone maniere, la volontà forte, la
disciplina dell’intel- lettualità superiore, la volontà di potenza, la rico-
noscenza verso la terra e verso la vita; tutto ciò che è ricco e vuol dare,
vuol gratificare la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla » (/bid., $
479). Nietzsche ha dedotto così da quella che egli ha ritenuta la
narradell’uomo, cioè dalla volontà di potenza, la tavola dei valori morali, che
dovreb- bero indirizzare alla realizzazione della stessa vo- lontà di potenza
in un mondo di superuomini. La struttura della sua dottrina non è perciò
diversa da quella di molte altre che, utilizzando lo stesso procedimento,
tendono a conservare e giustificare le tavole dei valori tradizionali,
deducendole dalla natura dell’uomo o dalla struttura dell'essere. 2° La seconda
concezione fondamentale dell’E. è quella che si configura come una dottrina del
movente della condotta. La caratteristica di questa concezione è che in essa il
bene non viene definito in base alla sua realtà o perfezione ma solo come
oggetto della volontà umana o delle regole che la dirigono. Sicchè mentre nella
prima concezione le norme sono derivate dall’ideale che si assume come proprio
dell’uomo (la perfezione della vita razio- nale secondo Aristotele, lo Stato
secondo Hegel, la società chiusa o aperta secondo Bergson, ecc.); nella seconda
concezione si mira anzitutto a deter- minare il movente dell’uomo, cioè la
regola alla quale egli ubbidisce in linea di fatto; e conseguen- temente si
definisce come bene ciò a cui si tènde in virtù di quel movente o che è
conforme alla regola in cui esso si esprime. Così quando Prodico formulava la
sua morale nella forma di proposizioni condizionali o imperativi ipotetici,
dava luogo a un’E. del movente che è tra le prime che siano state proposte.
Egli diceva: «Se vuoi che gli dèi ti siano benevoli, devi venerare gli dèi. Se
vuoi essere amato dagli amici, devi beneficare gli amici. Se desideri essere
onorato da una città, devi essere utile alla città. Se aspiri ad essere
ammirato da tutta la Grecia, devi sforzarti di far bene alla Grecia, ecc.»
(Senor., Memor., II, i, 28). Allo stesso modo un’E. del movente è quella a cui
mira Protagora quando riconosce che il rispetto reci- proco e la giustizia sono
le condizioni per la so- pravvivenza dell’uomo. Questo è il senso del mito di
Prometeo, che Platone fa esporre a Protagora nel dialogo omonimo (Pror., 322
c). E lo scritto sofistico che va sotto il nome di Anonimo di Giam- blico
ribadisce questo punto di vista. « Se anche ci fosse, come non c’è, un uomo
invulnerabile, insen- sibile, con un corpo e un’anima d’acciaio, solo
alleandosi alle leggi e al diritto e rafforzandole e usando la sua forza per esse
e per ciò che le favorisce, egli potrebbe salvarsi, giacchè altrimenti non po-
trebbe resistere » (Anon. Jambl., 6, 3). In queste formulazioni, ciò che si
ténde a mettere in luce è il meccanismo dei moventi che sono a fondamento delle
regole del diritto e della morale: per soprav- vivere, l'uomo si conforma a
tali regole e non può agire altrimenti. In tali formulazioni il movente della
condotta umana è il desiderio o la volontà di sopravvivere. In altre
formulazioni del genere, questo movente è il piacere. Aristippo affermava che
solo il piacere è desiderato di per se stesso; e vedeva la conferma di questo
nel fatto che sin da bambini gli uomini, senza deliberata volontà, cercano il
piacere e quando lo hanno raggiunto non cercano altro, mentre fuggono il dolore
che ne è l’opposto (Diog. L., II, 88). Lo stesso signi- ficato di semplice
riconoscimento di quello che è, in linea di fatto, il movente della condotta
umana ha il principio dell’E. di Epicuro: « Piacere e do- lore sono le due
affezioni che si ritrovano in ogni animale, l’una favorevole l’altra contraria,
attra- verso le quali si giudica ciò che si deve scegliere e ciò che si deve
fuggire » (Diog. L., X, 34).Questa concezione dell’E. è rimasta assente per
tutto il Medioevo e viene ripresa soltanto nel Ri- nascimento. Lorenzo Valla la
ripresentò per primo nel De voluptate, affermando che il piacere è l’unico fine
dell’attività umana e che la virtù non consiste in altro che nella scelta del
piacere (De vol., II, 40). E Telesio ripresentava l’altra alternativa tradizio-
nale della stessa concezione, derivando le norme dell’E. dal desiderio, che è
in ogni essere, della propria conservazione (De rer. nat., IX, 2). In modo
rigoroso e sistematico Hobbes poneva questo stesso principio a fondamento della
morale e del diritto. «Il primo dei beni, egli scrive, è la conservazione di
sè. La natura infatti ha provveduto perchè tutti desiderino il proprio bene; ma
affinchè possano essere capaci di questo, bisogna che desiderino la vita, la
salute e la maggiore sicurezza possibile di queste cose per il futuro. Di tutti
i mali invece il primo è la morte, specialmente se si accompagna con il
tormento; giacchè i mali della vita possono essere tanti che, se non si prevede
vicina la loro fine, fanno annoverare la morte tra i beni» (De hom., XI, 6). In
questa tendenza alla propria con- servazione e in generale al conseguimento di
tutto ciò che giova, Spinoza vide la stessa azione ne- cessitante della
Sostanza divina. «La ragione, egli dice, non richiede nulla contro la natura,
ma ri- chiede di per sè, innanzi tutto, che ognuno ami se stesso, ricerchi
l’utile che sia veramente tale per lui e desideri tutto quello che conduce
l’uomo a una perfezione maggiore; e in modo assoluto che ciascuno si sforzi,
per quanto è in lui, di conservare il proprio essere. Il che è, di necessità
così vero, quanto è vero che il tutto è maggiore della parte + (Et., IV, 18,
scol.). Locke e Leibniz erano d’ac- cordo sullo stesso fondamento dell’etica.
Diceva Locke: « Poichè Dio ha messo un legame indisso- lubile fra la virtù e la
pubblica felicità, e ha reso la pratica dellavirtù necessaria alla
conservazione della società umana e visibilmente vantaggiosa per tutti coloro
con cui hanno a che fare le persone dabbene, non bisogna meravigliarsi se
ciascuno vuole non solamente approvare queste regole, ma altresì raccomandarle
agli altri, essendo persuaso che, se le osserveranno, ne verranno vantaggi a
lui stesso » (Saggio, I, 2, 6). E Leibniz a sua volta riconosceva come
fondamento della morale il prin- cipio «Seguire la gioia ed evitare la
tristezza », ritenendolo tuttavia affidato più all’istinto che alla ragione
(Nouv. Ess., I, 2, 1). Come si vede, l’E. del ’600 e del *700 manifesta un alto
grado di uniformità: non solo essa è una dottrina del mo- vente ma anche la sua
oscillazione fra la «ten- denza alla conservazione» e la «tendenza al pia-
cere» come base della morale non implica una diversità radicale giacchè il
piacere stesso non è che l’indice emotivo d’una situazione favorevole alla
conservazione (v. EMozioNE). Ciò con cui una E. siffatta è in opposizione
radicale, è l’E. del fine, cioè l'’E. nella sua impostazione tradizionale pla-
tonico-aristotelico-scolastica. La caratteristica fon- damentale della
filosofia morale inglese del °700, la quale ha un’importanza tutta particolare
nella storia dell’E., consiste nell’aver portato alla luce e nell'aver assunto
come tema principale di discus- sione per l'appunto il contrasto tra l’R. del
movente e l’E. del fine: un contrasto che apparve come quello tra ragione e
sentimento. Dice Hume: « C°è una controversia nata da poco, molto più degna di
esame, intorno ai fondamenti generali della morale: se essi cioè siano derivati
dalla ragione o dal senti mento: se giungiamo alla loro conoscenza per via di
un séguito di argomenti e di induzioni o per via di un sentimento immediato e
di un fine senso in- teriore » (Ing. Conc. Morals, I). Hume afferma che il
primo ad accorgersi di questa distinzione è stato Lord Shaftesbury; e in realtà
Shaftesbury parlò di un senso morale che è una specie di istinto naturale o
divino, specificazione nell’uomo del prin- cipio d’armonia che regola
l’universo (Caratteri stiche di uomini, maniere, opinioni e tempi, 1711). Già
Hutchinson interpretava il senso morale come tendenza diretta a realizzare «la
massima felicità del maggior numero possibile di uomini » (Ricerca sulle idee
di bellezza e di virtà, 1725, III, 8): una formula che sarà fatta propria da
Beccaria e da Bentham. E fu Hume a trovare la parola che espri- meva questo
nuovo indirizzo: il fondamento della morale è l’urilità. In altri termini
l’azione buona è quella che procura « felicità e soddisfazione» alla società; e
l’utilità piace perchè risponde a un bi- sogno o tendenza naturale: quello che
inclina l’uomo a promuovere la felicità dei suoi simili (7g. Conc. Morals, V,
2). La ragione e il sentimento entrano perciò egualmente nella morale, secondo
Hume: «La ragione ci istruisce sulle diverse direzioni del- l’azione, l’umanità
ci fa stabilire la distinzione a favore di quelle che sono utili e benefiche »
(/bid., App. I. Il sentimento di umanità, cioè la tendenza a godere della
felicità del prossimo, è perciò, se- condo Hume, il fondamento della morale
cioè il movente fondamentale della condotta umana. Alcuni anni più tardi Adamo
Smith chiamerà simpatia questo stesso sentimento in quanto è proprio di uno
spettatore imparziale che guardi e giudichi la propria e altrui condotta (The
Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1). Che la dottrina morale di Kant abbia
voluto inserirsi proprio in questa tradizione ed essere una dottrina del
movente, non del fine, risulta chiaro dal fatto che essa risponde alle
caratteristiche fon- damentali di una dottrina del movente. Difatti in primo
luogo Kant ritiene che «il concetto del bene e del male non dev'essere
determinato prima della legge morale (di cui apparentemente dovrebbe es- sere
il fondamento) ma soltanto dopo di essa e attraverso di essa » (Crit. R. Prat.,
I, 1, 3). Questo vuol dire che Kant condivide la concezione 2 del bene, che
corrisponde a un’E. del movente. In se- condo luogo è appunto in base ai
moventi (Bestim- mungsgriinde) che Kant classifica le diverse conce- zioni
fondamentali del principio della moralità (Ibid., I, 1, $ 8, nota 2). In terzo
luogo, la legge morale è considerata da Kant come un fatto (Factum) perchè «non
si può dedurre da precedenti dati della ragione, per es., dalla coscienza della
libertà » ma s'impone per se stessa come un sic volo, sic iubeo (Ibid., $ 7).
In tal modo Kant ha trasferito dal «sentimento » alla « ragione » il movente
della condotta, utilizzando l’altro corno del dilemma proposto dai moralisti
inglesi. Con questo ha vo- luto garantire la categoricità della norma morale
cioè quell’assolutezza del comando per cui essa si distingue dagli imperativi
ipotetici delle tecniche e della prudenza. Per questa esigenza l’E. kantiana
condivide indubbiamente con la concezione 1 del- l’E., la preoccupazione
fondamentale di ancorare la regola della condotta alla sostanza razionale
dell’uomo. Ma se si prescinde da questa preoccu- pazione assolutistica (che va
messa sul conto del «rigorismo » kantiano), l'E. di Kant si presenta assai
affine a quella dei moralisti inglesi del '700 (verso i quali d'altronde Kant,
negli scritti precri- tici, non ha celato le sue simpatie) non solo nella sua
impostazione fondamentale ma anche nei suoi risultati. Se il sentimento, cui si
appellavano i mo- ralisti inglesi era la tendenza alla felicità altrui, la
ragione cui si appella Kant è l’esigenza di agire secondo una massima che gli
altri possono far propria. Per quanto questa formula possa apparire più
rigorosa, e nello stesso tempo più astratta, di quelle adoperate dai filosofi
inglesi, il suo signi- ficato è lo stesso. Ciò che l’una e le altre intendono
suggerire come principio o movente della condotta è il riconoscimento
dell’esistenza di a/ri uomini (o come voleva Kant di altri «esseri razionali +)
e l’esigenza di comportarsi nei loro confronti sulla base di questo
riconoscimento. La formula kan- tiana dell’imperativo per la quale si deve trattare
l'umanità, nella propria persona come nell’altrui, sempre anche come fine e mai
soltanto come mezzo, non è che un’altra espressione di questa stessa esigenza,
che i moralisti inglesi chiamavan « senso morale » o «senso di umanità +».
Sfortunatamente, gli sviluppi che la filosofia morale di Kant ha su- bito da
Fichte in poi hanno fatto leva più frequen- temente sul suo armamentario
dogmatico e asso- lutistico anzichè sulla sua impostazione fondamentale e sulla
sostanza dei suoi insegnamenti morali. Tali insegnamenti, come l’impostazione
da cui dipen- dono, sono in accordo con l’E. settecentesca, cioè con
l’indirizzo morale dell’Illuminismo; ma non è in accordo con tale indirizzo la
contrapposizione stabilita da Kant fra il mondo morale e il mondo naturale e
perciò tra l’E. e la scienza della natura. Questo contrasto deriva alla
dottrina di Kant proprio dall’armamentario assolutistico della sua E. cioè da
quell’aspetto per cui essa divenne la crea- tura prediletta dei metafisici
moralisti dell’800 e il pretesto per innumerevoli (e inoperanti) disquisi-
zioni intorno all’assolutezza del dovere e all’accesso, che esso consentirebbe,
a una Realtà superiore in- condizionata (quella del « noumeno +) senza nessun
rapporto con quella fenomenica e condizionata della natura. Ancora oggi,
nell’E. di Kant, amici e avversari vedono, il più delle volte, esclusivamente
questo aspetto: i primi per esaltarla come l’anco- raggio sicuro di tutte le
certezze concernenti la vita morale, i secondi per condannarla come il ba-
luardo delle illusioni metafisiche nel campo morale. Ma una considerazione di
quest’E. che si sottragga a tali alternative e la scorga nel quadro dell’E.
set- tecentesca, di cui condivise l’impostazione e che pretese fondare con
necessità rigorosa, consente forse una più adeguata valutazione di essa. Può
infatti aprire la via ad una utilizzazione delle ana- lisi kantiane in vista di
una impostazione dell’E. come tecnica della condotta, indipendente da pre-
supposti metafisici. Nel frattempo, l’E. del movente assumeva, nel clima
positivistico, la pretesa di valere come scienza esatta della condotta. Già
Helvétius diceva: « Ho creduto che si deve trattare la morale come tutte le
altre scienze e fare una morale come una fisica sperimentale » (De l’esprit, 1758,
I, pag. 4). Ma questa pretesa caratterizza soprattutto l’utilitarismo dell’800
che ha il suo caposcuola in Bentham. Secondo Bentham, i soli fatti su cui si
possa far leva nel dominio morale sono i piaceri e i dolori. La condotta
dell’uomo è determinata dall’attesa del piacere o del dolore; e questo è
l’unico possibile motivo di azione. Su questi fondamenti la scienza della
morale diventa esatta come la matematica, sebbene sia assai più intricata ed
estesa (/ntroduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789, in
Works, I, pag. V). Da questo punto di vista, coscienza, senso morale,
obbligazione morale sono concetti fittizi o «non entità». La realtà che tali
concetti celano è il calcolo dei piaceri e dei dolori sul quale riposa il
comportamento morale del- l’uomo: calcolo di cui Bentham volle stabilire i
princìpi, fornendo la tavola completa dei moventi di azione, tavola che doveva
servire come guida per ogni futura legislazione. In realtà l’opera di Bentham
ispirò l’azione riformatrice del liberalismo inglese e ancor oggi i suoi
principi rimangono in- corporati nella dottrina del liberalismo politico.
L’utilitarisjmo di Giacomo Mill e di Giovanni Stuart Mill non è che la difesa,
l’illustrazione delle tesi fondamentali di Bentham. Il positivismo si ispirò
allo stesso punto di vista: la morale dell’al- truismo, di cui si fece
banditore Comte e che ha il suo principio nella massima «Vivere per gli altri
», è affidata anch'essa, quanto alla sua realiz- zazione, a istinti simpatici
che, secondo Comte, l’educazione può sviluppare gradualmente sino a renderli
predominanti sugli istinti egoisti (Caté- chisme positiviste, 1852, pag. 48).
L’E. biologica di Spencer fa proprie queste tesi. Spencer vede nella morale
l’adattamento progressivo dell’uomo alle sue condizioni di vita. Ciò che
all'uomo sin- golo appare come dovere od obbligazione morale è il risultato
delle esperienze ripetute e accumulate attraverso il succedersi di innumerevoli
generazioni: è l’insegnamento che tali esperienze hanno fornito all'uomo nel
suo tentativo di adattarsi sempre meglio alle sue condizioni vitali. Spencer
prevede anche una fase in cui le azioni più elevate, richieste per lo
svolgimento armonico della vita, saranno fatti così comuni come lo sono ora le
azioni infe- riori cui ci spinge il semplice desiderio; in quella fase, perciò,
l’antitesi tra egoismo e altruismo sarà priva di senso (Data of Ethics, $ 46).
Si può dire che l’E. dell’evoluzionismo non è che l’espressione, nei termini
dell’ottimismo positivistico, di quell’E. fon- data sul principio
dell’autoconservazione che Telesio e Hobbes avevano reintrodotta nel mondo
moderno. Nella filosofia contemporanea questa concezione dell’E. non ha
realizzato mutamenti o progressi sostanziali. Bertrand Russell si è limitato a
ripro- porla nella forma più semplice e rozza, affermando che «l’E. non
contiene affermazioni vere o false, ma consiste di desideri di una certa specie
generale » (Religion and Science, 1936). Dire che qualcosa è un bene o un
valore positivo è un altro modo di dire « Mi piace »; e dire che qualcosa è
cattivo significa esprimere ugualmente un atteggiamento personale e soggettivo.
Russell ritiene tuttavia possibile in- fluire sui propri desideri rafforzandone
alcuni e deprimendone o distruggendone altri. E ritiene pure che ciò va fatto
se si vuol mirare alla felicità o al- l'equilibrio della vita. Ma è chiaro che
questa po- sizione è contraddittoria: se l’E. non ha a che fare che con
desideri, manca ogni motivo o criterio per agata o per far prevalere sugli
altri uno di essi. andato perduto, nell’E. di Russell, uno degli aspetti
fondamentali dell’E. inglese tradizionale: l’esigenza di un calcolo di tipo
benthamiano cioè di una disciplina delle scelte fra i desideri o per meglio
dire fra le alternative possibili di condotta. Eppure proprio a questo punto di
vista così muti- lato si è agganciata la concezione dell’E. prevalente nel
positivismo logico, secondo la quale i giudizi etici non fanno che esprimere «i
sentimenti di chi parla ed è perciò impossibile trovare un criterio per
determinare la loro validità » (Aver, Language, Truth and Logic, pag. 108; cfr.
STEVENSON, Ethics and Language, pag. 20). Questo non è altro ovvia- mente che
lo stesso punto di vista di Russell, se- condo il quale l’E. ha da fare con
desideri e non con asserzioni vere o false; è un punto di vista che segna la
rinuncia alla comprensione dei feno- meni morali piuttosto che un passo
qualsiasi verso questa comprensione. Più fecondo si presenta il punto di vista
di Dewey la cui E. si collega con la nozione di valore. Dewey condivide con
buona parte della filosofia del valore (v.) la credenza che i valori siano, non
solo oggettivi ma anche semplici e perciò indefinibili; ma non condivide con
essa la credenza che siano assoluti o necessari. I valorisono, secondo Dewey,
qualità immediate su cui perciò non c’è nulla da dire; solo in virtù di un
procedimento critico e riflessivo possono essere preferiti o posposti (Theory
of Valuation, 1939, pag. 13). Ma essi sono fuggitivi e precari, negativi e
positivi e anche infinitamente diversi nelle loro qualità. Di qui l’importanza
della filosofia che, come una « critica delle critiche +, ha in primo luogo lo
scopo di interpretare gli eventi per farne stru- menti e mezzi della
realizzazione dei valori; ed in secondo luogo quello di rinnovare il
significato dei valori stessi (Experience and Nature, pag. 349 sgg.). Questo
còmpito della filosofia è condizionato dalla rinuncia alla credenza nella
realtà necessaria e nel valore assoluto. « Abbandonare la ricerca della realtà
e del valore assoluto e immutabile può sem- brare un sacrificio. Ma questa
rinuncia è la condi- zione per impegnarsi in una vocazione più vitale La
ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti, perchè
connessi ai fondamenti della vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia
troverà non rivali ma coadiutori gli uomini di buona volontà » (The Quest for
Certainty, pag. 295). Queste considerazioni di Dewey circoscrivono certamente
il quadro in cui deve muoversi la ricerca etica con- temporanea, ma non offrono
ancora a questa ricerca strumenti efficaci. Manca ancora, nell’E. contem-
poranea una teoria generale della morale che cor- risponda alla teoria generale
del diritto (v.) cioè una teoria che consideri la morale come una tecnica della
condotta e si applichi a considerare le carat- teristiche di questa tecnica e
le modalità con cui essa si realizza in gruppi sociali diversi. Ovviamente, una
teoria generale della morale non partirebbe da un impegno preventivo nei
confronti di una deter- minata tavola dei valori: il suo impegno
sarebbesemplicemente quello di considerare la costituzione delle tavole dei
valori che si offrono allo studio storico e sociologico della vita morale e di
scoprire, se è possibile, le condizioni formali o generali di tale
costituzione. Ma essa potrebbe (e dovrebbe) ampiamente utilizzare l’E. del °700
e in generale l’E. della motivazione e presentarsi come la con- tinuazione di
tale concezione. A proposito dei rapporti tra morale e diritto, va qui
riaffermato ciò che si dice a proposito del diritto e cioè che tali rapporti
possono essere di- versamente configurati, ma mai specificati come rapporti di
eterogeneità o indipendenza reciproca. L’E., come tecnica della condotta,
sembra a prima vista più estesa del diritto come tecnica della coe- sistenza.
Ma se si riflette che ogni specie o forma della condotta è una forma o specie
della coesi- stenza, o reciprocamente, si vede sùbito come la distinzione dei
due campi sia pura materia di opportunità per delimitare particolari problemi o
gruppi di problemi o campi specifici di considera- zione o di competenza. ETICHE, VIRTÙ (gr. Oral
dpetal; lat. Vir- tutes morales; ingl. Ethical Virtues; franc. Vertus morales; ted. Ethische Tugenden). Sono,
secondo Aristotele, le virtù che corrispondono alla parte appetitiva
dell'anima, in quanto è moderata o guidata dalla ragione (Zf. Nic., I, 13,
1102b 16) e che consistono nel giusto mezzo (v. MEDIETÀ) tra due estremi di cui
uno è vizioso per eccesso, l’altro per difetto (/bid., II, 6, 1107 a 1). Le
virtù E. sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magna- nimità, la
mansuetudine, la franchezza, e infine la giustizia che è la maggiore di tutte
(/bid., III-V). Cfr. le singole voci. i ETICITÀ (ted. Sitrlichkeit). Hegel ha
distinto dalla moralità, che è la volontà soggettiva cioè individuale o privata
del bene, l’E. che è la realiz- zazione del bene stesso in realtà storiche o
istitu- zionali, che sono la famiglia, la società civile e lo Stato. L’E., dice
Hegel, «è il concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura
dell’autoco- scienza + (Fil. del dir., $ 142). Le istituzioni etiche hanno una
realtà superiore a quella della natura perchè si tratta di una realtà «
necessaria e interna » (Ibid., $ 146). La più alta manifestazione dell’E., lo
Stato, è Dio stesso che è entrato nel mondo, un « Dio reale » (/bid., $ 258,
Zusatz). Questa di- stinzione tra moralità ed E. è stata ripetuta soltanto
nell’àmbito della scuola hegeliana. ETICO-RELIGIOSE, ANTINOMIE (te- desco
Ethisch-religiose Antinomien). Le antitesi in cui si esprime il conflitto tra
il punto di vista etico e il punto di vista religioso. Esse sono state enun-
ciate da Nicolaj Hartmann nel modo seguente: x 1° l’etica è radicata nell’al di
qua, la religione 368 tènde a un’esistenza che è al di là di questa; 2° l’etica
si rivolge all’uomo, la religione a Dio; 3° l’etica af- ferma l’autonomia dei
valori, la religione li subor- dina alla volontà di Dio; 4° l’etica si fonda
sulla li- bertà umana, la religione trasferisce ogni iniziativa a Dio (Erhik,
1926; 3* ediz., 1949, pag. 811-17). ETIOLOGIA (ingl. Etiology; franc.
Étiologie; ted. Aetiologie). La ricerca 0 determinazione delle cause di un
fenomeno. Il termine è usato quasi esclusivamente in medicina. ETNOGRAFIA
(ingl. Ethnography; francese Ethnographie; ted. Ethnographie). Lo stesso che
EtnoLOgiA. Talvolta, il primo stadio della ricerca antropologica:
l’osservazione e la descrizione, il la- voro sul campo (Lévi-STrAUSS,
Anthropologie structu- rale, 1958, cap. XVII). ETNOLOGIA (ingl. Ethnology;
franc. Ethno- logie; ted. Ethnologie). Una delle discipline del ceppo
sociologico. Essa ha per oggetto i modi di vita di gruppi sociali ancora
esistenti o dei quali comunque si conservi un’abbondante documenta- zione. L’E.
si dirige soprattutto a studiare la cul- tura dei popoli « primitivi ». Essa
non si distingue dalla sociologia se non per l’accentuata tendenza dei suoi
cultori a insistere sui caratteri individuali dei gruppi sociali studiati e
pertanto a prescindere dai problemi sociologici generali. Lévi-Strauss con-
sidera l’E. come il primo passo, dopo la descrizione etnografica, verso la
sintesi antropologica: la sintesi etnologica può essere geografica, storica o
sistema- tica (Anthropologie structurale, 1958, cap. XVID. ETOLOGIA (dal gr.
606; ingl. Ethology; fran- cese Éthologie; ted. Ethologie). Termine coniato da
Wundt per designare lo studio storico descrittivo dei costumi e delle
rappresentazioni morali (Logik, Il, 2, 369). E. comparata è lo studio
comparativo dei comportamenti animali sia nel loro aspetto ontogenetico che in
quello filogenetico (K. LORENZ, in Phisiological Mechanism in Animal Behaviour,
1950; N. TinBERGEN, The Study of Istinct, 1951). ETOLOGIA (dal gr. $00g; ingl.
Etho/ogy; fran- cese Éthologie; ted. Ethologie). Termine coniato da Stuart Mill
per designare la scienza che studia le leggi della formazione del carattere.
Tali leggi de- riverebbero da quelle generali della psicologia, ap- plicate
però alle influenze che le circostanze am- bientali hanno sulla formazione del
carattere. L’E. si distinguerebbe dalla sociologia in quanto la prima sarebbe
la scienza del carattere individuale, la seconda la scienza del carattere
sociale o collettivo (Logic, VI, 5, $ 3). La parola non ha avuto fortuna,
mentre è stata quasi universalmente accettata, per designare la stessa scienza,
la parola caratterologia (v.). EUBULIA (gr. ebfovMa; lat. Eubulia). È, se-
condo Aristotele, la buona deliberazione cioè il corretto giudizio sulla
rispondenza dei mezzi al fine. Il deliberare bene è proprio dei saggi e la sag-
gezza costituisce appunto il giudizio vero intorno alla rispondenza dei mezzi
al fine (Er. Nic., VI, 9, 1142 b 5). Nello stesso senso la definisce S. Tom-
maso (S. 7h., I, II, q. 57, a. 6). EUCOSMIA (gr. eòxoo pla). Comportamento
ordi- nato, buona condotta (cfr. ARIST., Po/.,IV,1299b 16). EUCRASIA (gr.
eòxpuota). Temperamento. Pro- priamente, giusta mescolanza degli elementi che
compongono il corpo (ARIST., De part. an., 673 b 25; GALENO, VI, 31, ecc.).
EUDEMONIA. V. FELICITÀ. EUDEMONISMO (ingl. Eudemonism; fran- cese Eudémonisme;
ted. Eudamonismus). Ogni dot- trina che assume la felicità come principio e
fon- damento della vita morale. Sono eudemonistiche in questo senso l’etica di
Aristotele, l’etica degli Stoici e dei Neoplatonici, l’etica dell’empirismo
inglese e dell’Illuminismo. Kant ritiene che l’E. sia il punto di vista
dell’egoismo (v.) morale, cioè della dottrina « di chi restringe tutti i fini a
se stesso e non vede nessun utile fuori di ciò che giova a lui » (Antr., I, $
2). Ma questo concetto dell’E. è troppo ristretto perchè nel mondo moderno, a
partire da Hume, la nozione di felicità ha un significato sociale, quindi non
coincide con egoismo od egocentrismo (v. FELICITÀ). EUNOMIA (gr. ebvopia). Il
«buon ordine umano » contrapposto alla Aybris cioè all’atteggia- mento di chi
disconosce i limiti degli uomini e il posto subordinato che essi hanno nel
mondo (PLAT., Sof., 216 b). EUPRASSIA (gr. eòrpabla). Il comportarsi bene cioè
ordinatamente o secondo le leggi. Senofonte designa con questa parola l’ideale
morale di So- crate (Mem., III, 9, 14). Aristotele adopera la stessa parola in
opposizione a disprassia che indica la con- dotta disordinata (Et. Nic., VI, 5,
1140 b 7). EURISTICA. Parola moderna coniata dal verbo greco ebploxw = trovo:
ricerca o arte della ri- cerca. Diversa da Eristica (v.). EUTASSIA (gr.
eòvatta). La condotta bene or- dinata o conforme all’ordine cosmico. È un
concetto stoico (Stoicorum Fragmenta, III, 64), che Cicerone si è fermato ad
illustrare (De Officis, I, 40, 142). EUTIMIA (gr. eòtvula; lat. Tranquillitas).
Era il titolo di una delle opere di Democrito e signifi- cava la soddisfazione
tranquilla, diversa dal piacere, che consiste nell’assenza di timori, di
superstizioni e di emozioni (Dio. L., IX, 45). I latini tradussero il termine
con tranquillitas (SENECA, De tranquilli- tate animi, II, 3). EVANGELO ETERNO
(lat. Evangelium aeternum). Origene adoperò questa espressione per designare la
rivelazione delle verità più alte che Dio fa ai sapienti in tutte le epoche del
mondo e che è in grado di integrare e correggere la rivelazione conte- nuta
nell’E. storico (De princ., IV, 1; InJohann., 1,7). EVEMERISMO (ingl.
Euhemerism; francese Evhémérisme; ted. Evhemerismus). La dottrina di Euevemero
o Evemero di Messina (sec. rv-II1 a. C.), autore di una Sacra Scrittura
tradotta in latino da Ennio, nella quale si voleva dimostrare che gli dèi sono
uomini coraggiosi o illustri o potenti diviniz- zati dopo la morte (CiceR., De
nat. deor., I, 119). EVENTO (ingl. Event; franc. Événement; te- desco
Geschehen). Nella fisica contemporanea, una porzione del continuo
spazio-temporale. In questo senso, una cosa, per es., un corpo, è un evento. Il
concetto fu chiarito da Einstein nel 1916 (Teoria spec. e gen. della
relatività, $ 27). Da allora è apparso come un concetto fondamentale della
fisica: l’E. è, propriamente parlando, l’oggetto specifico della fi- sica,
quello a cui si riferiscono i suoi mezzi di os- servazione: esso è
caratterizzato dalle tre coordinate spaziali e dalla coordinata temporale. « Il
mondo degli E. può venir descritto dinamicamente mediante una imagine che muti
col tempo, prospettata sullo sfondo dello spazio tridimensionale. Ma può anche
venir descritto mediante un’imagine statica, pro- iettata sullo sfondo del
continuo spazio temporale a quattro dimensioni. Dal punto di vista della fisica
classica, le due imagini, la dinamica e la statica, sono equivalenti. Ma dal
punto di vista della rela- tività, l’imagine statica è più conveniente e più
obiettiva » (EINSTEIN-INFELD, Evolution of Physics, III; trad. ital., pag.
218). Generalizzando il concetto di Einstein, Whitehead ha parlato di «E.
punti- formi» che sono quelli che possiedono una posi- zione l’uno rispetto
all’altro. Tali E. entrerebbero a costituire i punti di un sistema
spazio-temporale. Ogni sistema avrebbe un particolare gruppo di punti propri
cioè una propria definizione della « posizione assoluta » (Concept of Nature,
1920, cap. 5). Queste notazioni si riferiscono al tentativo di Whitehead di
tradurre la fisica contemporanea in una metafisica evoluzionistica. Dal suo
canto P. W. Bridgmann ha messo in dubbio l’importanza della nozione di E., non
ritenendo che tutti i ri- sultati delle misure fisiche possano essere espressi
in termini di coincidenze spazio-temporali. Per es., egli nota, la differenza
fra un elettrone negativo e uno positivo non è contemplata nella specificazione
delle coordinate (Logic of Modern Physics, 1927, cap. III; trad. ital., pag.
153). Ma nonostante queste riserve, il concetto di evento continua ad avere
un’importanza fondamentale nella fisica contempo- ranea ed essere considerato
dai fisici come la mi- gliore caratterizzazione dell’oggetto proprio di essa.
EVIDENZA (gr. &vépyew; lat. Evidentia; in- glese Evidence; franc. Évidence;
ted. Evidenz). Il presentarsi o manifestarsi di un oggetto qualsiasi 24 —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 369 come tale. Così intendevano l’E. gli
antichi, e spe- cialmente gli Epicurei e gli Stoici che l’assumevano come
criterio di verità. Gli Epicurei identificavano l’E. con l’azione stessa degli
oggetti sugli organi di senso (Dioc. L., X, 52). Gli Stoici intendevano per E.
il presentarsi o darsi delle cose ai sensi o all’intelligenza, in modo che esse
risultino s com- prese » (Sesto E., /p. Pirr., II, 7). La rappresenta- zione
catalettica (v.) è appunto la rappresentazione evidente. Da questo punto di
vista l’E. non è un fatto soggettivo ma oggettivo: non è legata alla chiarezza
e distinzione delle idee, ma al presentarsi e manifestarsi dell’oggetto (quale
che sia). Sicchè gli stessi Scettici non rifiutano ciò che si presenta come
evidente, per quanto evitino l’asserzione re- lativa (Sesto E., /pot. Pirr.,
II, 10). Cartesio ha invece dato luogo al concetto sog- gettivo dell’evidenza.
La «regola dell’E.», che egli espone nel Discorso prescrive «di non accettare
mai alcuna cosa per vera a meno che non la si riconosca evidentemente per tale;
cioè di evitare diligentemente la precipitazione e la prevenzione; e di non
comprendere nei propri giudizi se non ciò che si presenta così chiaramente e
distintamente al proprio spirito, da non aver alcuna occasione di metterlo in
dubbio» (Disc., II). In questa regola l’E. è stata ridotta alla chiarezza e
distinzione (v.) delle idee e i problemi relativi si sono spostati dal dominio
dell’oggetto al dominio dell'idea, ripre- sentandosi però in quest’ultimo come
problemi og- gettivi. Cartesio stesso aveva (soprattutto nelle Re- gole per la
direzione dello spirito) collegato l’E. con la facoltà dell’intuizione: con la
quale parola aveva inteso, non già la testimonianza dei sensi o il giu- dizio
dell’imaginazione, ma «la concezione ferma di uno spirito puro e attento, che
nasce dalla sola luce della ragione e che, essendo più semplice, è anche più
sicura della deduzione » (Regulae ad di- rectionem ingenii, III). L’E. sarebbe
così il carattere dell’intuizione e costituirebbe la certezza propria di
quest’ultima; allo stesso modo che la necessità razionale costituisce la
certezza della deduzione. Questi concetti hanno dominato buona parte della
filosofia moderna; anche perchè sono stati accet- tati sia da Locke, che fa
dipendere dall’intuizione dell'accordo o del disaccordo tra le idee « tutta la
certezza e l’E. della nostra conoscenza » (Saggio, IV, 2, 1); sia da Leibniz
(Nouv. Ess., IV, 11, 10). Il carattere soggettivo dell’E. e la sua connessione
con una facoltà umana più o meno misteriosa e miracolosa detta intuizione, sono
rimasti in tutta la filosofia moderna; e soltanto la filosofia con- temporanea
ha mostrato di ritornare all’antico con- cetto dell’E. oggettiva. La critica
dell’E. come «una mistica voce che da un mondo migliore ci gridi: qui è la
verità!» 370 è stata fatta da Husserl; il quale ha trovato per l’E. la
definizione di « riempimento dell’intenzione ». Questa significa che l’E. si ha
quando l’intenzione della coscienza, diretta ad un oggetto, viene riem- pita
dalle determinazioni per cui l’oggetto stesso si individua, si definisce e da
ultimo appare presente alla coscienza stessa in carne ed ossa (Logische
Untersuchungen, II, $ 39; Ideen, I, $ 145; Erfahrung und Urteil, pag. 12). Di
conseguenza per tutta la filosofia contemporanea che si ispira alla fenomeno-
logia, l’E. ha riacquistato il suo carattere oggetti- vistico, tornando a
designare il presentarsi o manifestarsi di un oggetto come tale, qualunque sia
l’oggetto e quali che siano i metodi con cui s'intende certificare o garantire
la sua presenza o manifestazione. In questo senso Scheler ha parlato di «E.
preferenziale» per indicare quei rapporti gerarchici oggettivi dei valori che
guidano e sugge- riscono le scelte umane (Formalismus, pag. 87). Nello stesso
senso si dicono talvolta evidenti pro- posizioni analitiche o tautologiche la
cui verità risulta dai loro stessi termini, come, ad es., «Il triangolo ha tre
lati ». EVOLUZIONE (ingl. Evolution; franc. Évo- lution; ted. Evolution). La
parola conserva ancora il suo senso generico di sviluppo (v.); ma più spesso è
adoperata a designare una particolare dottrina che si chiama «teoria dell’E.».
Ora con questa espressione si possono intendere due cose diverse: 1° la teoria
biologica della trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra: che è
l’ipotesi fonda- mentale delle discipline biologiche da un secolo a questa
parte; 2° la teoria metafisica dello sviluppo progressivo dell’universo nella
sua totalità: che è un’ipotesi ammessa o presupposta da molte dot- trine
filosofiche moderne e contemporanee. Per quanto questi due significati abbiano
storicamente agito l’uno sull’altro, è opportuno tenerli distinti. Per il
secondo, v. la voce EVOLUZIONISMO. Il termine E. è stato probabilmente
introdotto da Spencer nel suo saggio sul Progresso del 1857; ma la parola
stessa, come il concetto, non avrebbero avuto la fortuna che hanno avuto senza
i successi del tras- formismo biologico, che si iniziarono con l’Origine delle
specie di Carlo Darwin (1859). L’opera di Darwin (come è anche dimostrato dal
suo successo senza precedenti) era, da un certo punto di vista, piuttosto una
conclusione che un principio: la con- clusione di un lungo lavoro di ricerche e
di vari tentativi di generalizzazione. La dottrina tradizionale
dell’immutabilità (o fissità) delle specie viventi era stata il riflesso, nel dominio
biologico, della dot- trina della sostanza (v.) cioè della dottrina della
necessità della struttura ontologica del mondo. Questa dottrina fu fatta
prevalere da Aristotele nel mondo della filosofia e della scienza antica e
EVOLUZIONE medievale; e si spiega così perchè l’ipotesi di una trasformazione
della specie, affacciata, sia pure in forma fantastica, da Anassimandro (Ps.
PLUT., Strom., 2) e da Empedocle (Fr., 56-61, Diels) non abbia lasciato
traccia. Tutte le forme sostanziali sono, secondo la metafisica aristotelica,
immutabili perchè necessarie: il che vuol dire che non possono essere nè create
nè distrutte. Come forme sostan- ziali, le specie viventi condividono tali
caratteri- stiche. Questo principio aristotelico, con la sola correzione della
creazione da parte di Dio, ha co- stituito per molti secoli l’impalcatura
generale della ricerca filosofica e scientifica. Soltanto a partire dagli inizi
del sec. xvi alcuni naturalisti comin- ciarono a considerare la possibilità
della trasfor- mazione delle specie biologiche. Ipoteticamente ammetteva questa
possibilità Buffon, che pur si di- chiarava esplicitamente partigiano della
fissità della specie (Histoire naturelle, 1749-1804). Dallo stesso Buffon, Kant
trasse probabilmente l’ispirazione per l’ipotesi, da lui prospettata (nel 1790)
nella Critica del giudizio ($ 80), di una «reale parentela » delle forme
viventi e di una loro derivazione da una « madre comune », nonchè di uno
sviluppo continuo della natura dalla nebulosità primitiva agli uomini. Queste
tuttavia erano solo intuizioni generiche, non suffragate da un sistema
coordinato di osservazioni. Il primo a prospettare in forma scientifica la dot-
trina del trasformismo biologico fu Gian Battista Lamarck nella sua Philosophie
zoologique (1809): egli tuttavia fondava l’E. degli organismi sulle dif-
ferenze prodotte in questi dall’uso maggiore o mi- nore degli organi:
differenze che si sarebbero poi fissate con l’eredità. Si sa oggi che i
mutamenti che nascono dalle abitudini non possono essere eredi- tati; pertanto
il merito di Lamarck non è quello di aver scoperto il principio dell’E. ma
quello di aver insistito sulla dottrina generale e su qualche aspetto
importante di essa, come quello dell’adat- tamento all’ambiente. Soltanto
l’Origine delle specie (1859) di Carlo Darwin ha fondato la moderna teoria
dell’E. biologica. La teoria di Darwin ammette due ordini di fatti: 1°
l’esistenza di piccole variazioni organiche che si verificano negli esseri
viventi a intervalli irregolari di tempo; variazioni che in parte, per la legge
della probabilità, sono vantag- giose agli individui che le presentano; 2° la
lotta per la vita che si verifica tra gli individui viventi, per la tendenza di
ogni specie a moltiplicarsi se- condo una progressione geometrica. Quest'ultimo
presupposto era suggerito a Darwin dalla dot- trina di Malthus (Essay on
Population, 1798). Da questi due ordini di fatti segue che gli individui presso
i quali si manifestino mutamenti organici vantaggiosi hanno maggiori
probabilità di soprav- vivere nella lotta per la vita; e in virtù del principio
EVOLUZIONE 371 di eredità ci sarà in essi un’accentuata tendenza a lasciare in
eredità ai loro discendenti i caratteri accidentali. Questa è la /egge della
selezione naturale che Darwin ritenne come la principale molla del- l’E. (Or.
delle specie, IV, 18). Mentre la teoria di Darwin da un lato subiva gli
attacchi dei partigiani della vecchia metafisica, dall’altro veniva estesa e
generalizzata in una teoria dell’E. cosmica, nuove ipotesi, in contrasto col principio
della selezione naturale, venivano pre- sentate circa il come l’E. avrebbe
luogo. Da un lato i neo-lamarkiani (fra i quali specialmente il francese Giard
[1846-1908] e l’americano Cope [1840-97] insistettero sulla relazione
dell’organismo all'ambiente, attribuendo a questa relazione la ca- pacità di
produrre le novità organiche che sareb- bero poi trasmesse con l’eredità.
Dall'altro lato i neo-darwiniani, che si raccolsero specialmente in- torno al
biologo tedesco Weissmann (1834-1914), insistettero sull’importanza della
selezione naturale come unico principio dell’evoluzione. Entrambi questi
indirizzi, nello sforzo di dimostrare la loro tesi, produssero fatti e
osservazioni nuove in favore della teoria generale dell’E.; ma nessuno di essi
riuscì, si può dire, a dimostrare la falsità della tesi dell’altro. Che
l’adattamento all’ambiente (tesi dei lamarkiani) e la selezione naturale (tesi
dei dar- winiani) abbiano funzioni importantissime nell’E. della vita, risulta
ormai certo; ciò che non risulta è che l’uno porti alla esclusione dell’altra.
In questa incertezza, si sono inserite le nuove forme del vitalismo (v.) cioè
della dottrina che, ritenendo la vita non spiegabile in linea di principio con
fattori fisico-chimici, riconosce a fondamento di essa un principio spirituale
che agisca finalisticamente. Il vitalismo insiste su quello che sembra un
carattere fondamentale dell’E. biologica: il finalismo. Il fina- lismo, che è
strettamente collegato con la dottrina della struttura sostanziale del mondo
cioè con la metafisica aristotelica, è la parte più dura a morire di questa
metafisica. Il suo campo privilegiato è, come già notava Kant, proprio quello
dei fenomeni vitali. Questi fenomeni non sembrano verificarsi a caso. Anche
quando De Vries osservò la subitanea e casuale apparenza di nuove varietà di
piante e assunse questo fatto come la base reale dell’E. (Teoria delle
mutazioni, 1901), il carattere casuale e arbitrario dell’intero processo
evolutivo sembrò difficile a difendersi. Da questa difficoltà hanno attinto la
loro forza le teorie vitalistiche. La più famosa fra tali teorie nel mondo
contemporaneo è quella di Bergson, che attribuisce l’E. allo slancio vitale
cioè ad una grande corrente di coscienza che è lanciata nella materia e ténde a
dominarla, riuscendovi meglio in una direzione, peggio in un’altra, e
progredendo soprattutto nelle due dire- zioni fondamentali dell’istinto degli
artropodi e dell’intelligenza dell’uomo (Év. créatrice, 1907). Ma la teoria
bergsoniana dell’E., per quanto rigetti l’idea di un piano totale predisposto o
predeter- minato (che sarebbe, dice Bergson, «un mecca- nismo rovesciato +) è
ancora finalistica e soggiace alla stessa obiezione che Bergson stesso fa al
vita- lismo: di assumere a principio di spiegazione la ignoranza della
spiegazione. Come ha notato Huxley, attribuire l’E. a un é/an vital non spiega
la storia della vita più che attribuire il movimento di una macchina a vapore
ad un é/an locomotifnon spieghi il funzionamento della macchina stessa. Il
ricorso a un termine metafisico, che non fa che coprire una zona di ignoranza
mascherandola come sapere e quindi distogliendo o scoraggiando la ricerca
positiva diretta a diminuirla, è anche evidente nelle altre forme del vitalismo
contemporaneo. Così Driesch ricorre all’entelechia, un vecchio concetto
aristotelico, cui attribuisce la funzione direttiva nella costruzione del-
l'organismo (Philosophie des Organischen, 1908-09). Gli studi di genetica (v.)
hanno avviato la teoria dell’E. su un terreno positivo di ricerche. La teoria
stessa è diventata il quadro complessivo degli stru- menti e delle direzioni
possibili della ricerca biolo- gica, evitando la dogmatizzazione di princìpi
par- zialmente provati, che era stata la caratteristica della fase precedente.
I capisaldi della odierna teoria dell’E. possono essere così ricapitolati: 1°
La separazione dell’idea dell’E. dall’idea di progresso. L’E. non è
necessariamente progresso, tanto meno progresso unilineare, necessario e co-
stante. Quale che sia il criterio che si scelga per giudicare il corso dell’E.,
si troverà che la storia della vita fornisce esempi non solo di progressi,
rispetto a questo criterio, ma anche di regressi e di degenerazioni. Huxley ha
suggerito come criterio obiettivo di progresso quello della dominazione
successiva di un gruppo biologico: criterio che por- terebbe a costituire una
successione di età: « Età degli invertebrati +, « Età dei pesci +, « Età degli
an- fibi », « Età dei rettili», « Età dei mammiferi», ed «Età dell’uomo » (E.,
The Modern Synthesis, 1942). Ma anche questa successione di età non è del tutto
oggettiva perchè è ovviamente suggerita dal cri- terio dell’approssimazione
all’uomo. Altre linee di progresso possono essere definite in base all’espan-
sione vitale o all’'adattamento all’ambiente: criteri che suggeriscono
l’ordinamento delle specie animali secondo la misura in cui esse realizzano
meglio l’una o l’altra di queste due cose. Un altro criterio che i biologi
adoperano spesso è la cosiddetta legge di Willinston secondo la quale « le
parti di un organismo tendono a ridursi nel loro numero e a specializzarsi
nella loro funzione» cioè tendono verso la semplificazione più che verso la
compli- 372 cazione. Altri indicano come criterio l’energia generale
dell’organismo o il livello del processo vitale (SEWERTZOFF, Morphologische
Gesetzmdssig- keiten der E., 1931). Ognuno di questi criteri porta a costruire
un ordine determinato delle specie vi- venti, o dei loro maggiori gruppi,
ordine coincidente solo parzialmente e occasionalmente con quelli ri- sultanti
dagli altri criteri. 2° L'esigenza che i fattori invocati a spiegare l’E.
spieghino non solo ciò che avviene a disegno nell’organizzazione della vita ma
anche ciò che avviene a caso, non solo l’adattamento ma anche la mancanza di
adattamento e in generale non solo gli aspetti favorevoli e progressivi delle
trasforma- zioni vitali ma anche quelli sfavorevoli e negativi. La prima
conseguenza di questo punto di vista è il riconoscimento che è inutile e
scientificamente illegittimo privilegiare un fattore evolutivo, per es., la
selezione naturale e considerarlo come l’unico e fondamentale secondo quanto
hanno fatto i neo- darwinisti. La seconda conseguenza è l’abbandono completo
del punto di vista finalistico, che esige la presenza di uno scopo finale
nell’E. (cfr., per es., J. B. S. HALDANE, The Causes of E., 1932). 3°
L'eliminazione di ogni pregiudizio necessi- taristico nella considerazione del
ciclo vitale delle specie biologiche: la loro nascita, sviluppo e morte non
obbedisce a schemi prestabiliti e tanto meno si modella sul ciclo
dell'organismo singolo. Nor- malmente, un tipo di organizzazione persiste fino
a quando i suoi rapporti di adattamento all’am- biente continuano ad essere
possibili. Talvolta, la stessa specificità dell'adattamento produce l’estin-
zione, giacchè rende l’organismo inadatto ad af- frontare i mutamenti
dell’ambiente di portata mag- giore dell’usuale. In questo caso, ovviamente, la
estinzione del gruppo è provocata dalla stessa ten- denza all’adattamento, che
è un fattore di soprav- vivenza. 4° Finalente — ed è la caratteristica più
importante della teoria generale dell'’E. — l’uso della nozione di possibilità
consente di evitare le dogmatizzazioni presentate dalle alternative: ordine-
disordine, fine-caso e così via. La vita tende a sfruttare le possibilità che
le sono offerte. Qualche scienziato ha considerato l’incremento della somma
totale della materia vivente nel mondo come la principale legge dell’E. (A. J.
Lorka, in Human Biology, 1945, pag. 167 sgg.). Ciò vuol dire che la vita sembra
appigliarsi a tutte le possibilità di- sponibili. Simpson parla a questo
proposito della « natura essenzialmente opportunistica del processo dell’E. »
(The Meaning of Evolution, 1949, cap. 12). Tuttavia neanche nello sfruttamento
delle opportu- nità che gli si offrono, tale processo appare perfet- tamente
sistematico. Opportunità evidenti non sonostate sfruttate e gli intervalli fra
le specie viventi non sempre sono stati riempiti. « La regola che tutte le
opportunità della vita tendono a essere utilizzate non è senza eccezioni.
L’estinzione dei dinosauri precedette di molto la rioccupazione di molti dei
loro modi di vita da parte dei mammiferi e non pare che tutti siano stati
ancora rioccupati. Gli ittiosauri furono estinti per molti milioni di anni
prima che i delfini e i loro parenti abbiano affer- rato questa opportunità.
Non vi è ragione evidente per la quale il modo di vita degli ammoniti, untempo
così numerosi, non possa essere ora seguito da gruppi ugualmente abbondanti ma
che invano si cercherebbero oggi nel mare. Si sono estinti molti tipi che hanno
lasciato aperto un modo di vita, un'opportunità che nonèstataimmediata- mente
afferrata perchè nessun altro gruppo ha una base strutturale o una riserva di
mutazioni ap- propriate al cambiamento» (/bid., pag. 185-86). Tuttavia il
numero altissimo delle possibilità uti- lizzate spiega i prodotti più riusciti
e complessi dell’E.: per es., fra le innumerevoli risoluzioni del problema
della fotoricezione due soluzioni riusci- rono meglio: l’occhio dell’octopus
(che è un mol- lusco) e quello dell'uomo. Ma anche gli altri fun- zionano
benissimo al loro proprio livello. Questo dimostra che la complessità di un
organo non è stata progettata in anticipo come un piano da rea- lizzare ma è il
prodotto dello sfruttamento di possi- bilità favorevoli che si sono presentate.
S° Le caratteristiche specifiche dei fenomeni vitali non vengono ignorate o
trascurate dalla teoria dell’E.; ma tuttavia non vengono assunte come
fon-damento per affermare la tesi della « irriducibilità » o della
«originalità» della vita. Tale tesi infatti sconsiglierebbe dal continuare a
sottoporre i fe- nomeni della vita agli strumenti oggettivi di inda- gine di
cui la scienza dispone e per conseguenza fermerebbe la ricerca biologica.
Questa pertanto utilizza gli strumenti a sua disposizione e ritiene «spiegato »
solo ciò che può essere raggiunto con l’aiuto di tali strumenti. È questo un
materia- lismo metodico che ha poco o nulla a che fare colmaterialismo
dottrinale dell’800 (v. GENETICA; VITA; VITALISMO). EVOLUZIONISMO (ingl.
Evolutionism; fran- cese Évolutionnisme; ted. Evolutionismus). Con questo
termine bisogna intendere non già la teoria generale dell'evoluzione come
quadro fondamentale delle ri- cerche biologiche (per la quale v. EVOLUZIONE),
ma il complesso delle dottrine filosofiche che vedono nell’evoluzione il tratto
fondamentale di ogni tipo o forma di realtà e perciò il principio adatto a
spiegare la realtà nel suo complesso. L’E. è in altri termini una dottrina metafisica,
concernente la realtà come un tutto; e per quanto si avvalga dello ipotesi e
dei risultati della teoria biologica del- l'evoluzione, la sua tesi va molto al
di là di tutto ciò che ogni possibile teoria scientifica può legitti- mamente
convalidare. In questo senso, l’E. è stato assunto come schema fondamentale di
molte me- tafisiche, sia materialistiche sia spiritualistiche. Il tratto
fondamentale che queste metafisiche scorgono nell'evoluzione è il progresso.
Per esse, evoluzione significa essenzialmente progresso. Così fu certa- mente
per Spencer che iniziò la serie delle meta- fisiche evoluzionistiche con un
saggio pubblicato nel 1857 col titolo Progresso. Il progresso investe, secondo
Spencer tutti gli aspetti della realtà. « Sia che si tratti, egli dice nel
saggio citato, dello svi- luppo della Terra, sia che si tratti dello sviluppo
della vita alla sua superficie o dello sviluppo della società o del governo o
dell’industria o del com- mercio o del linguaggio o della letteratura o della
scienza o dell’arte, sempre in fondo ad ogni pro- gresso è la stessa evoluzione
che va dal semplice al complesso attraverso differenziazioni succes- sive». Nei
Primi principi Spencer dava dell’evo- luzione questa definizione: «L'evoluzione
è una integrazione di materia e una concomitante dissi- pazione di movimento;
durante la quale la materia passa da una omogeneità indefinita e incoerente ad
una eterogeneità definita e coerente; e durante la quale il movimento
conservato soggiace ad una trasformazione parallela » (First Principles, $
145). Questa determinazione dell’evoluzione come pas- saggio dall'omogeneo
indifferenziato all’eterogeneo differenziato era indubbiamente suggerita a
Spencer dall’evoluzione biologica, che sembra andare dal- l’ameba agli
organismi superiori. Il senso generale dell’evoluzione è ottimistico, secondo
Spencer. La evoluzione è un progresso e per di più un progresso necessario che,
per ciò che riguarda l’uomo, ter- minerà soltanto con «la più grande perfezione
e la più completa felicità » (/bid., $ 176). A differenza di ciò che è accaduto
nella teoria dell’evoluzione biologica, la quale ha ben presto svincolato la
nozione di evoluzione da quella di progresso, nel- l’E. filosofico il senso
ottimistico e necessaristico della nozione di progresso continua per molto
tempo a costituire il tratto fondamentale dell’evo- luzione. Sia l’E.
materialistico sia lE. spiritualistico condividono questo tratto. Nessuno di
questi indirizzi riesce ad una riela- borazione del concetto in questione.
Quando Ar- digò definisce l'evoluzione come « il passaggio dal- l’indistinto al
distinto » (Opere, 1884, II, pag. 350) assumendo perciò come modello evolutivo
lo svi- luppo psichico anzichè quello biologico, i tratti formali
dell'evoluzione non sono mutati: essa è sempre, e soltanto, progresso
universale necessario. L’E. materialistico trovò nel biologo tedesco Er- nesto
Haeckel il suo maggiore rappresentante. Gli Enigmi del mondo (1899)
costituirono per i primi decenni del nostro secolo il catechismo di questo
materialismo, che vedeva in tutte le forme della realtà gradi di evoluzione,
progressivamente ordi- nati, della materia. Dall’altro canto, l’E. spiritua-
listico, che vede nelle varie forme della realtà gradi di sviluppo di un
principio spirituale, si iniziò con Guglielmo Wundt, che riconobbe questo
principio spirituale nella volontà (System der Phil., 1889). Un pensiero
analogo ispirava l’opera del francese Alfredo Fouillée il quale vedeva
nell’idea-forza il substrato dell’evoluzione (L’E. des idées-forces, 1890). Ma
indubbiamente la più notevole manife- stazione dell’E. spiritualistico è la
dottrina di Bergsoe ha visto nell’evoluzione il prodotto di uno slancio vitale
che è coscienza, libertà e crea- zione (Évolution créatrice, 1907). In un senso
ana- logo C. Lloyd Morgan parlò di Evoluzione emergente (1923): intendendo che
ogni fase dell'evoluzione non è la semplice risultante meccanica delle fasi
precedenti, ma contiene un elemento nuovo che denuncia il carattere progressivo
e creativo della evoluzione stessa. Ma il concetto dell’evoluzione come
progresso costituisce anche lo sfondo o il presupposto di altre dottrine che
tuttavia non assumono l’evoluzione come tema fondamentale delle loro
elaborazioni. Così la nozione di evoluzione emergente è assunta da Alexander
nel suo libro Spazio, Tempo e Deità (1920) per spiegare lo sviluppo complessivo
della realtà di cui spazio e tempo (che stanno tra loro come materia e spirito)
sarebbero la sostanza. E il concetto di processo assunto come fondamentale da
Whitehead (Process and Reality, 1929) non è che lo stesso concetto di
evoluzione, contaminato col concetto hegeliano di divenire; mentre l’evoluzione
in senso naturalistico è lo sfondo di tutta l’opera di Santayana (cfr.
specialmente il Realm of Mind, 1940). Questi richiami devono essere considerati
solo come esemplificativi della vastissima diffusione che l’E. ha avuto nel
dominio della filosofia mo- derna e contemporanea, e quindi in tutte le forme
della vita intellettuale. La credenza che la realtà è un processo unico, continuativo,
e necessaria- mente progressivo si legge fra le righe di dottrine filosofiche
disparatissime ed ha potentemente in- fluenzato l’impostazione di ricerche
storiche, so- ciologiche, morali, ecc. Questa credenza tuttavia non è
suffragata da nulla; e nell'unico dominio in cui una teoria dell'evoluzione è
suffragata da prove di fatto, cioè nel dominio biologico, l’evolu- zione ha
perso proprio i caratteri che i filosofi hanno dimostrato di apprezzare
maggiormente in essa: l’unità, la continuità, la necessità e il pro- gresso.
Nessuno di tali caratteri viene oggi assunto 374 nel contesto dell'evoluzione
biologica. Pertanto l’ipo- tesi che la realtà costituisca un processo fornito
di tali caratteri non trova riscontro nel sapere scienti- fico ed è da considerarsi
come una pura ipotesi metafisica, al di là di ogni possibile, sia pure indi-
retta, verifica. Quest'ipotesi tuttavia continua a ri- scuotere un certo
successo presso scienziati-filosofi. Così Teilhard de Chardin ha riconosciuto
nell’evo- luzione il postulato generale al quale ogni teoria o ipotesi o
sistema deve adeguarsi; e conseguente- mente ha considerato l’evoluzione della
sostanza vivente sparsa sulla terra come quella di un solo gigantesco
organismo. Il termine finale dell’evo- luzione sarebbe allora un « Punto
Omega?» e cioè una « Super Coscienza universale » formata da una pluralità
unificata di pensieri individuali che si combinano e si rafforzano nell’atto di
un Pensiero EX PRAECOGNITIS ET PRAECONCESSIS unanime (Le phenomène humaine, 1955).
Il carattere metafisico dell'evoluzione è evidente in questa e simili
speculazioni. EX PRAECOGNITIS ET PRAECON- CESSIS. Formula con cui s’abbrevia il
principio esposto da Aristotele agli inizi degli Analitici po- steriori: « Ogni
dottrina e ogni disciplina discorsiva nasce da una conoscenza preesistente »
(An. Post., I, 1, 7la 1). Boezio sottolineava l’importanza di questa massima
(P. L., 64°, col. 741) che diveniva un luogo comune della scolastica. Locke
riteneva fallace la massima, convinto com’era che il fondamento della
conoscenza sia la conoscenza intuitiva (Saggio, IV, 2, 8). Ma Leibniz
rivendicava, contro Locke la va- lidità della massima, in quanto esprime il
pro- cedimento delle matematiche (Nouv. Ess., IV, 2, 8). EXTRAPOLAZIONE. V.
ESTRAPOLAZIONE. F F. Nella Logica medievale, i sillogismi i cui nomi mnemonici
cominciano con questa lettera, sono riducibili al quarto modo della prima
figura (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20).FABBRICAZIONE (franc.
Fabrication). L’at- tività propria dell’intelligenza, secondo Bergson. Questa è
infatti «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare utensili
per fare altri uten- sili, e di variarne indefinitamente la F. +». Da questo
punto di vista, la vera definizione dell’uomo non è Homo sapiens ma Homo faber
(Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 151; Pensée et Mouvant, 3* ediz., 1934, pag.
97). FABULAZIONE (franc. Fabulation). Bergson ha così chiamata la facoltà o
l’atto creatore di finzioni o superstizioni, nel quale consiste essen-
zialmente la religione statica: che cerca, appunto mediante finzioni più o meno
consolanti, di difen- dere la vita contro il potere disgregatore dell’intel-
ligenza (Deux Sources, cap. Il). FACOLTÀ (gr. duyîic eidoc o pépiov; lat. Fa-
cultas; ingl. Faculty; franc. Faculté; ted. Vermògen). 1. S'intendono con
questo nome i poteri dell’anima cioè le specie o parti in cui si possono
classificare e dividere le sue attività o i princìpi cui tali atti- vità sono
attribuite. La distinzione fra i poteri del- l’anima, c pertanto la nozione
stessa di potere in quanto riferita all'anima, nascono dall’ovvia con-
siderazione della diversità delle operazioni che si attribuiscono all’anima
stessa e dal fatto che tali operazioni possono venire in contrasto fra
loro.Proprio su questo fondamento Platone distinse tre poteri, che egli
chiamava specie (et3n, Rep., IV, 440 e) dell’anima: il potere razionale che è
quello per cui l’anima ragiona e domina gl’impulsi cor- porei; il potere
concupiscibile o irrazionale che è quello appunto che presiede agli impulsi, ai
desideri, ai bisogni e concerne il corpo; e il potere irascibile che è un
ausiliario del principio razionale e si sdegna e lotta per ciò che la ragione
ritiene giusto (Rep., IV, 439-40). Aristotele distinse invece: a) la parte
(uéprov) vegetativa che è la potenza nutritiva e riproduttiva propria di tutti
gli esseri viventi a cominciare dall’uomo; 5) la parte sensitiva che comprende
la sensibilità e il movimento ed è propria dell’animale; c) la parte
intellettiva (dianoetica), che è propria dell’uomo. Il principio più elevato
può far le veci di quelli inferiori, ma non viceversa. Così nell’uomo l’anima
intellettiva compie anche le funzioni che negli animali sono compiute dal-
l’anima sensitiva e nelle piante da quella vegetativa (De an., II, 2, 413 a 30
sgg.). A sua volta il prin- cipio dianoetico o anima intellettiva si divide in
due parti che sono rispettivamente la parte appe- titiva o pratica (la volontà)
e la parte intellettiva o contemplativa (l’intelletto) (/bid., III, X, 433a 14;
Et. Nic., VI, 1, 1139a 3; Pol., 1133 a).Questa partizione aristotelica doveva
rimanere, per lunghi secoli, la più accettata e diffusa. Gli Stoici tuttavia ne
avevano proposta un’altra, consistente di quattro princìpi: a) il principio
direttivo o ege- monico che è la ragione; 5) i sensi; c) il seme o principio
spermatico; d) il linguaggio (Dio. L., VII, 157; Sesro E., Adv. Math., IX,
102). Nella filosofia medievale la partizione aristotelica, che finisce col
prevalere sul finire della Scolastica, e che è ripetuta da molti pensatori (per
es., da Al- berto Magno, S. Tommaso, Duns Scoto, Ockham) s’intreccia con quel
tipo di partizione che era stato inaugurato da S. Agostino e che consiste nel
rite- nere le parti dell'anima modellate sulla Trinità di- vina. S. Agostino
aveva infatti distinto tre facoltà dell’anima, memoria, intelligenza e volontà,
cor- rispondenti alle tre persone della Trinità definite 376 rispettivamente
come Essere, Verità e Amore (De trin., X, 18). Questa partizione o partizioni
analoghe, s'incontrano frequentemente nella Scolastica (è ri- petuta, per es.,
da S. AnseLMO, Monol., 67). Da Cartesio in poi la sola partizione ammessa fu
quella che Aristotele aveva riconosciuta propria dell'anima intellettiva o
dianoetica, tra volontà (o appetizione o desiderio) ed intelletto vero e
proprio: cioè la partizione fondata sull’uso pratico e sull’uso teo- retico
della ragione. Per Cartesio infatti l’anima è soltanto l’anima «razionale »
giacchè le funzioni vegetativa e sensitiva non appartengono nè al- l’anima
razionale nè ad altra specie di anima in quanto sono funzioni meccaniche, che
vengono esplicate dal meccanismo corporeo (Discours, V). La partizione tra
intelletto e volontà viene enunciata da Cartesio (Passions de l’dme, I, 17)
come quella tra le azioni dell'anima, che comprendono tutti i desideri, tra i
quali Cartesio fa rientrare la volontà (Ibid., 18), e le passioni che comprendono
« tutte le specie di percezioni o forme di conoscenza ». partizione viene
meglio chiarita dall’uso che Cartesio ne fa nella sua teoria dell’errore.
Questo dipende dal concorso di due cause, dell’intelletto e della volontà. Con
l'intelletto l’uomo non afferma nè nega nulla, ma concepisce soltanto le idee
che può affermare o negare. L’atto dell’affermazione o della negazione è
proprio della volontà. Ora, la volontà è libera: come tale è assai più estesa
del- l’intelletto e può quindi affermare o negare anche ciò che l’intelletto
non riesce a percepire chiara- mente e distintamente (Méd., IV; Princ. Phil.,
I, 34). Con ciò la distinzione fra intelletto e volontà veniva stabilita e
rimaneva sino a Kant un dato comune- mente accettato. Spinoza nega bensì che esistano
nell’anima F. separate adducendo che esse « o sono fittizie o sono entità
metafisiche o sono universali che noi formiamo dalle cose particolari» (Et.,
II, 48). Ma questo significa per lui che « volontà e intelletto sono la
medesima cosa» (/bid., 49,
coroll.): col che la distinzione viene
polemicamente presupposta. Locke stesso la riconosce quando, a proposito
dell’idea di forza, afferma che la volontà e l'intelletto sono le due forze che
spiegano i mu- tamenti che avvengono nel nostro spirito (Saggio, II, 21, $
5-6). Leibniz dice che i due princìpi agenti nella monade sono la percezione e
l’appetizione (Monad., $ 14-15). Cristiano Wolff a sua volta riconosceva nella
conoscenza e nell’appetizione le due funzioni fondamentali dello spirito umano
e sulla base di questa partizione modellava quella della filosofia nelle due
branche fondamentali, filo- sofia teoretica o metafisica e filosofia pratica
(Log., Disc. Prael., $ 60-62). Kant, traendo le somme dalle analisi degli em-
piristi inglesi interponeva tra l’intelletto e la volontà FALANSTERIO una terza
F. che chiamava « sentimento di piacere e dispiacere». Con ciò le F. dell'anima
venivano portate a tre (F. di conoscere, F. del sentimento, F. di desiderare)
(Crif. del Giud., Introd., IX) e questa partizione diventava classica e venne
spesso appoggiata da una presunta testimonianza della co- scienza (v. EMOZIONE,
SENTIMENTO). Nessuna tuttavia di queste dottrine implicava che le F. dell'anima
fossero poteri distinti ed indipen- denti. Come già gli antichi, sia Cartesio
(Regulae, XII, 79) sia Locke (Saggio, II, 21, 6); sia Leibniz (Nouv. Ess., II,
21, 6) riconoscono esplicitamente che la divisione delle F. è un’astrazione che
non distrugge l’unità dell’attività mentale. Sicchè non rappresenta una grande
novità la critica di Herbart alla dottrina delle F. e la sua tesi che le F.
stesse (intelletto, sentimento e volontà) sono semplici «concetti di classe»
mediante i quali si ordinano i fenomeni psichici (Einleitung in die Phil., $
159). La psicologia associazionistica condivideva questo punto di vista ma
manteneva la stessa tripartizione (per es., Barn, Mental and Moral Science,
1868, pag. 2; Logic, II, 275) e il Neo-criticismo della Scuola di Marburgo
(Cohen, Natorp) riconosceva soltanto tre scienze filosofiche, la logica,
l’estetica e l’etica, corrispondenti appunto alle tre attività dello spirito.
Soltanto nella psicologia e nella filosofia contem- poranea, specialmente per
influenza del comporta- mentismo e della teoria della forma, la dottrina delle
parti dell'anima, comunque intesa, ha perso la sua importanza e non costituisce
più tema di indagine e di dibattiti. Come oggetto d’indagine, infatti, il
comportamento implica la messa in opera simultanea e la fusione di tutti i
principi o parti di- stinti o distinguibili nell'attività dell'anima o della
coscienza o dell’organismo, sicchè tali distinzioni di- ventano prive
d’interesse e si parla di « comporta- mento razionale + o « comportamento
emotivo + in
un senso in cui la distinzione stessa non
ha più nulla da fare (v. COMPORTAMENTISMO; COMPOR- TAMENTO). 2. Nel significato
più generale, lo stesso che Potere (v.). FALANSTERIO (ingl. Phalanstery;
francese Phalanstère). Termine adoperato da Carlo Fourier per designare
l’organizzazione sociale utopistica da lui preveduta: un gruppo di circa 1600
persone vi- venti a regime comunistico, con libertà di rapporti sessuali e
regolamentazione della produzione e del consumo dei beni (Trattato di
associazione dome- stica e agricola o teoria dell'unità universale, 1822).
FALLACIA (gr. o6piopa; lat. Fallacia; ingl. Fal- lacy; franc. Sophisme; ted.
Fallacie). Termine con cui gli Scolastici indicarono il «sillogismo sofi- stico
» di Aristotele. F., disse Pietro Ispano, è la FANATISMO idoneità a far credere
che sia ciò che non è me- diante qualche fantastica visione; cioè, l’apparenza
senza esistenza (Summul. log., 7.03). Aristotele aveva diviso i ragionamenti
sofistici in due grandi classi cioè in quelli attinenti al modo di esprimersi o
come dicono gli Scolastici, in dictione e in quelli indipendenti dal modo di
esprimersi o extra dic- tionem. I primi sono sei e cioè: l’equivocazione,
l’anfibologia, la composizione, la divisione, l’accen- tuazione, la figura
dictionis. I secondi sono sette e precisamente: l’accidente, il secundum quid,
l’igno- rantia elenchi, la petizione di principio, la non causa pro causa, il
conseguente, l'interrogazione multipla (EI. Sof., 4). La dottrina delle F. fu
una delle parti meglio coltivate della logica medievale ma ha perso quasi ogni
importanza nella logica moderna. Una buona metà delle Sumunulae logicales (sec.
xm) di Pietro Ispano è dedicata alla confutazione delle fallacie. Ma già nella
Logica di Portoreale si de- dica ad essa un solo capitolo (il XIX della parte
III) che è la ventesima parte circa dell’intera trattazione. Nella logica
contemporanea questa parte della trat- tazione è completamente sparita: giacchè
non pos- sono essere ridotti a sofismi le antinomie (v.) di cui essa tratta. Sotto
i nomi dei singoli sofismi si troverà ciò che la logica antica e medievale
inten- deva per essi. G. P.-N. A. FALLIBILISMO (ingl. Fallibilism). Termine
creato dal Peirce per indicare l'atteggiamento del ricercatore che ritiene
possibile l’errore a ogni istante della sua ricerca e perciò cerca di
migliorare i suoi strumenti di indagine e di controllo (Coll. Pap., 1.13;
1.141-52). Dewey ha sottolineato l’impor- tanza di questo atteggiamento (Logic,
cap. II; trad. ital., pag. 79). E. Popper l’ha fatto proprio, contrapponendolo
a quello del « verificazionismo + e definendolo come il procedimento che
consiste nel formulare conget- ture e sottoporle a confutazioni, anche in base
aosservazioni empiriche, con la rinuncia ad ogni pretesa di certezza nel campo
della scienza (Co- njectures and Refutations, 1965, pag. 228 sgg.). FALSIFICABILITÀ
(ingl. Falsifiability; fran- cese Falsificabilité; ted. Falschungsmòglichkeit).
È il criterio suggerito da Karl Popper per l’accogli- mento delle
generalizzazioni empiriche. Il metodo empirico, secondo Popper, è quello che «
esclude quei modi di evadere la falsificazione che sono logi- camente
ammissibili ». Da questo punto di vista, le asserzioni empiriche sono
decidibili solo in un senso cioè nel senso della falsificazione, e possono
essere sottoposte a prova solo da tentativi sistematici di coglierle in fallo.
In tal modo l’intero problema del- l’induzione e della validità delle leggi di
natura sparisce (Logic of Scientific Discovery, $ 6). Cfr. ESPERIENZA;
VERIFICAZIONE. 377 FALSO (gr. veu8nc; lat. Falsum; ingl. False; franc. Faux;
ted. Falsch). V. FALLIBILISMO; VERITÀ. FAMIGLIA (ingl. Family; franc. Famille;
te- desco Familie). Interessa qui registrare soltanto l’uso logico e
metodologico di questo concetto, che è recentissimo. Una «F. di concetti» è un
in- sieme di concetti fra i quali intercorrono relazioni diverse, non
riducibili tuttavia a un unico concetto o principio. È precisamente quello che
si verifica tra i membri di una F. umana, i quali non sempre hanno un’unica proprietà
in comune; e anche quando l’hanno, essa non assomma o esaurisce l’intera
somiglianza familiare. L’uso di questa no- zione implica perciò l'impegno a
cercare sempre nuovi rapporti fra i concetti, senza che sia neces- sario
ridurre tali rapporti ad un unico tipo. Il primo a proporre e adoperare la
nozione in questione è stato WITTGENSTEIN, Philosophical Investigations, $ 110.
Quest'opera è stata pubblicata soltanto nel 1953; ma già da alcuni anni i suoi
concetti fondamentali erano noti e del concetto di F. si era avvalso Waismann
nella sua /ntroduzione al pensiero matematico (Einfihrune in das mathema-
tische Denken, 1936; trad. ital., 1939). Cfr. sullo stesso concetto: ABBAGNANO,
Possibilità e libertà, 1956, passim. FANATISMO (ingl. Fanaticism; franc. Fana-
tisme; ted. Fanatismus). Questa parola (da fanum = = tempio) fu adoperata a
partire dal 700 scambie- volmente con entusiasmo (v.) per indicare lo stato di
esaltazione di chi si crede invasato da Dio e quindi immune dall’errore e dal
male. Nell'uso moderno e contemporaneo, «F.» ha finito per soppiantare «
entusiasmo » per indicare la certezza di chi parla in nome di un principio
assoluto e pertanto pretende per le sue parole questa stessa assolutezza. Già
Shaftesbury diceva: « Ed è questo [l'entusiasmo] che ha fatto nascere la
denomina- zione di F. nel senso originale in cui l’usavano gli antichi, di
apparizione che rapisce la mente» (Letter on Enthusiasm, 7; trad. ital, Garin,
pa- gina 78-79). In realtà già Cicerone parlava di « filo- sofi superstiziosi e
quasi fanatici» (De div., 2, 57, 118). Leibniz chiamava fanatica la filosofia
che at- tribuisce tutti i fenomeni a Dio «immediatamente per miracolo» (Nouv.
Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 204). Ma certo la migliore defì-
nizione filosofica del F. fu data da Kant. Nel senso più generale, F. «è una
trasgressione, intrapresa secondo princìpi, dei limiti della ragione umana ».
C'è poi il F. morale che è «l’oltrepassare i limiti che la ragione pura pratica
pone all'umanità, vie- tando di porre il motivo determinante soggettivo delle
azioni conformi al dovere, cioè il movente mo- rale di esse, in qualche altra
cosa che non sia la legge stessa ». Il F. morale consiste nella pretesa di 378
fare il bene per ispirazione, per entusiasmo, per un impulso naturalmente
benefico della propria natura; e perciò nel sostituire alla virtù, che è «
l'intenzione morale in lotta», «la santità del creduto possesso della purezza
perfetta delle intenzioni della volontà » (Crit. R. Prat., I, 1, 3). Il
fanatismo in questo senso è stato sempre l'oggetto polemico dell’opera di Kant
che ne ha individuate e combattute le ma- nifestazioni principali, nel suo
sforzo di determinare i limiti dei poteri umani e la validità di tali poteri
nei loro limiti. In uno scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel
pensare, Kant poneva in guardia contro la pretesa di superare i limiti della
ragione appellandosi a facoltà o poteri che si pre- tendono «superiori ». I
suoi riferimenti polemici andavano a Jacobi e Mendelssohn; ma egli vedeva la
stessa pretesa nello spinozismo e contro spino- zismo e fanatismo, ribadiva
l’esigenza di determi-nare con precisione i limiti della ragione. Queste
osservazioni di Kant appaiono, a chi le consideri oggi, come una critica
anticipata del Romanticismo che fu, sotto questo rispetto, il grande ritorno
dello spinozismo. Tuttavia Hegel stesso parlò di F., limitandolo però al campo
politico e religioso. Nel campo politico « il F. vuole una cosa astratta non
un’organizzazione »: il suo esempio è la Rivo- luzione francese (Fil. del Dir.,
$ 5, Zusatz). Nel campo religioso, il F. consiste nella subordinazione dello
Stato alla religione sicchè il suo motto è in questo campo: « Ai religiosi non
sia data alcuna legge » (/bid., $ 270, Zusatz). Ma Hegel non si accorge che la
stessa onnipotenza dello Stato, da lui teorizzata, è un fanatismo. La parola F.
ha conservato oggi il significato di atteggiamento o punto di vista o dottrina
che, in qualsiasi campo o dominio, trascuri o ignori i limiti dell’uomo. L’età
contemporanea ha cono-
sciuto un’altra più sinistra forma di F.:
il F. poli- tico che pur non essendo una novità dal punto di vista dottrinale
ha operato nel dominio politico l’abolizione dei limiti umani con la
conseguente esaltazione o divinizzazione di punti di vista poli- tici e di
individui che li incarnavano. La parola stessa F. ha perduto, nel dizionario di
alcuni movi- menti politici, la connotazione negativa che aveva fin
dall’antichità, per significare il pregio di una fedeltà a tutta prova,
incurante di obiezioni come di limiti. L'esperienza ha mostrato come questa fe-
deltà è la più fragile di tutte e si capovolge, alla prima occasione, nel suo
contrario. Come già di- ceva Kant, la ragionevolezza, col riconoscimento dei
limiti che essa implica, è la sola garanzia di ogni autentico impegno teoretico
o pratico. FANTASIA (ingl. Fancy; franc. Fantaisie; te- desco Phantasie). 1. Lo
stesso che immagina- zione. FANTASIA 2. A partire dal sec. xvm l’uso
contemporaneo dei due termini F. e immaginazione favoriva una distinzione di
significati secondo la quale « F.» co- minciò a indicare un’immaginazione
sregolata o sbrigliata. Già nella Logica di Portoreale si dice che
l’immaginazione è «la maniera di concepire le cose mediante l’applicazione del
nostro spirito alle immagini che sono dipinte nel nostro cervello » (che è un
concetto cartesiano esposto nella Re- gula XII), e si distinguono queste
immagini, che sono le idee delle cose dalle immagini « dipinte nella fan- tasia
» (I, 1). Si contrappongono, in altri termini le immagini che sono idee,
proprie dell'immagina- zione, alle immagini fittizie, proprie della fantasia.
Analogamente Kant diceva che la F. è « l’immagina- zione in quanto produce
immagini senza volerlo +; onde è «un fantastico » colui che è abituato a ri-
tenere tali immagini per esperienze interne o esterne (Antr., I, $ 28). E
osservava: « Noi giochiamo spesso e volentieri con l'immaginazione; ma
l'immagina- zione, in quanto è F., gioca altrettanto spesso, e talvolta male a
proposito, con noi » [/bid., $ 31, a)]. In questo senso la F. è
un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Questo è uno dei significati che la
parola ha conservato a tutt'oggi soprattutto nel linguaggio comune, per il
quale la F. è «la pazza di casa». 3. Accanto a questo significato, il
Romanticismo ne ha elaborato un altro per il quale la F. viene intesa come
immaginazione creatrice, diversa di qualità più che di grado dalla comune
immagina- zione riproduttiva. In tal senso Hegel vedeva nella F.
«l'immaginazione simboleggiante, allegorizzante e poetante» quindi «creatrice»
(Enc., $ 456-57). I Romantici esaltarono la F. così intesa. Per No- valis essa
è «il massimo bene» (Fragmente, 535). «La F., egli diceva, è il senso
meraviglioso che può sostituire per noi tutti i sensi. Se i sensi esterni
sembra che sottostiano a leggi meccaniche, la F. evidente- mente non è legata
al presente nè al contatto di sti- moli anteriori » (/bid., 537). In tal modo,
il carattere disordinato o ribelle dell’immaginazione fantastica che faceva
apparire questa forma dell’immagina- zione inferiore alle altre durante il sec.
xvm, diventa nel xrx un elemento positivo, un pregio, il contras- segno di una
libertà creatrice. L'estetica romantica si è attenuta a questa valutazione
della fantasia. Dice Croce: « L'estetica del sec. xx foggiò la di- stinzione,
che si ritrova in non pochi dei suoi filo- sofi, tra F. (che sarebbe ìa
peculiare facoltà arti- stica) e immaginazione (che sarebbe facoltà extra
artistica). Ammucchiare immagini, trasceglierle, ta- gliuzzarle, combinarle,
presuppone nello spirito la produzione e il possesso delle singole immagini; e
la F. è produttrice laddove l’immaginazione è sterile e adatta a combinazioni
estrinseche e non FATTO a generare l’organismo e la vita » (Breviario di este-
tica, 1913, pag. 35-36). In un senso analogo Gentile chiamava F. l’attività
artistica come puro senti- mento o «inattuale forma subiettiva » dello spirito
(Fil. dell’arte, $ 5). Ma in questo significato roman- tico la F. cessa di
essere un'attività o un’operazione umana, definibile o descrivibile nelle sue
possibilità e nei suoi limiti per diventare, come manifestazione di un’attività
infinita, essa stessa infinita, e situarsi perciò al di là di ogni possibilità
di analisi e di accertamento. Si tratta, in altri termini, di un con- cetto
magico-metafisico che non può essere utiliz- zato fuori del clima romantico che
lo creò o pre- dilesse. FANTASMA. V. IMMAGINE. FAPESMO. Parola mnemonica usata
dagli Sco- lastici per indicare l’ottavo dei nove modi del sillo- gismo di
prima figura e precisamente quello che ha per premesse una proposizione
universale afferma- tiva e una proposizione universale negativa e per
conclusione una particolare negativa come nel- l'esempio: « Ogni animale è
sostanza, Nessuna pietra è animale, Dunque qualche sostanza non è pietra +
(Pietro Ispano, Summul. logic., 4.09; ARNAULD, Logique, III, 8). FATALISMO
(ingl. Fatalism; franc. Fatalisme; ted. Fatalismus). Già Leibniz aveva distinto
dal fato stoico e cristiano il «fato maomettano +? o «destino alla turca»
secondo il quale «gli effetti accadrebbero anche se se ne evitasse la causa,
essendo dotati di necessità assoluta » (Op., ed. Erd- mann, pag. 660, 764).
Wolff adoperava, per indicare questa dottrina, che egli attribuì a Spinoza, il
ter- mine F. nello scritto De differentia nexus rerum sapientis et fatalis
necessitatis (1723) che è per l'appunto diretto contro Spinoza. In realtà però
tutte leconcezioni del fato (o destino), elaborate dai filosofi ammettono che
di esso fanno parte, come cause che determinano bensì altre cause ma sono a
loro volta determinate dalle antecedenti, le stesse azioni umane dirette ad
evitare o a rag-giungere certi risultati. F. è perciò un termine po-lemico col
quale i filosofi abitualmente designano quella forma di necessitarismo che non
condividono. Più esattamente, il termine può essere adoperato a designare, non
una dottrina filosofica, ma un at-teggiamento: l'atteggiamento di chi si
abbandona al corso degli eventi senza cercare di modificarlo e senza reagire.
FATO (ingl. Fate; franc. Fatalité; ted. Fatum). Il destino nel significato 1°
del termine, come ne- cessità sconosciuta, perciò cieca, che domina gli esseri
del mondo in quanto parti dell’ordine totale. La nozione di fato venne a
distinguersi da quella di destino quando si volle accentuare l’inclusione, fra
le cause che costituiscono quest’ultimo, dellavolontà e dell’azione umana.
Leibniz contrappose, in questo senso al fato maomettano (fatum maho-metanum),
che considera gli eventi futuri indipen- denti da ciò che l’uomo può volere e fare,
la nozione di destino (o di provvidenza) per la quale ciò che avverrà nel
futuro è anche, almeno in parte, deter- minato dall’azione umana (7héod., I, $
55). In un senso analogo Kant contrappone il F. alla neces- sità condizionale,
quindi intelligibile della natura (Crit. R. Pura, Postulati del pensiero
empirico). La nozione di F. è nella filosofia moderna una nozione polemica, che
non viene ritenuta valida da coloro che l’adoperano: perciò è alquanto bastarda
in filosofia. Essa non ha questo significato deteriore nell’espressione amor
fati, che è la definizione mo- derna del destino (v.). E al suo significato
deteriore ha anche cercato di sottrarla Peirce: «Il F., egli ha detto,
significa semplicemente ciò che siamo sicuri si avvererà e che non può essere
in nessun modo evitato. È una superstizione supporre che una certa specie di
eventi sia sottoposta al F. e lo è anche supporre che la parola F. non possa
mai essere liberata dal suo carattere superstizioso. È il F. di noi tutti di
morire» (Chance, Love and Logic, I, cap. 2, $ 4, nota; trad. ital., pag. 41).
FATTICITÀ (ingl. Factuality; ted. Tatsachlich- keit). Husserl ha chiamato con
questo termine il modo d’essere del fatto, in quanto essenzialmente «casuale»
cioè in quanto può essere diverso da ciò che è (Zdeen, I, $ 2). Heidegger ha
distinto « la F. del factum bru- tum di una semplice presenza» cioè di una cosa
dalla effettività (v.) dell’esistenza (Sein und Zeit, $ 29). FATTIZIO (ingl.
Factitious; franc. Factice; te- desco Gemacht). Termine che si adopera quasi
esclusivamente in riferimento alla classificazione car- tesiana delle idee in
innate, avventizie e fattizie: queste ultime sono le idee «fatte e inventate»
da noi (Med., III). FATTO (ingl. Fact; franc. Fait; ted. Tatsache). In
generale, una possibilità oggettiva di verifica- zione, di accertamento o di
controllo e perciò pure di descrizione o di previsione: oggettiva nel senso che
ognuno può farla propria nelle condizioni adatte. « È un F. che x» significa
che x può essere verificato o accertato da chiunque sia in possesso dei mezzi
adatti o può essere descritto o previsto in modo controllabile. La nozione di
F. è una no- zione moderna, più ristretta e specifica che non quella di realtà;
ed è nata soprattutto per indicare gli oggetti della ricerca scientifica, che
devono poter essere riconosciuti da qualsiasi ricercatore capace. Il F. si
presenta perciò, quanto alla sua validità, indipendente da opinioni e
pregiudizi e anche da giudizi e valutazioni che non siano quelli inerenti
all'uso degli strumenti adatti per accertarlo. Esso si presenta così fornito di
due caratteristiche fon-damentali: a) il riferimento a un metodo appro- priato
di accertamento o di controllo; 5) l’indipen- denza dalle credenze soggettive o
personali di chi adopera il metodo stesso. Per l’appunto in vista di queste due
caratteristiche, la «capacità di guar- dare i fatti» o «di tener conto dei
fatti» o «di accettare i fatti per quello che sono » è oggi con- siderata come
uno dei requisiti fondamentali non soltanto dello scienziato e in generale del
ricerca- tore, ma di ogni cittadino. Nonostante l’importanza che la nozione ha
as- sunto nella cultura moderna, l’attenzione dei filo- sofi si è solo
raramente portata su di esso. La storia delle analisi di questa nozione è assai
magra. Si può dire che s’inizi nel 1600, quando, con la distinzione tra «
verità di ragione» e « verità di F.» si comincia anche a distinguere, almeno
implicita- mente, la sfera propria del fatto. Questa distinzione è stata fatta
per la prima volta da Hobbes: « Vi sono, egli diceva, due specie di conoscenza,
di cui una è la conoscenza di F., l’altra la conoscenza della conseguenza di
un'affermazione dall’altra. La prima non è altro che senso e memoria ed è cono-
scenza assoluta, come quando vediamo un F. ac- cadere o lo ricordiamo; e questa
è la conoscenza richiesta in una testimonianza. L’altra è chiamata scienza ed è
condizionale... » (Leviath., I, 9). Come Hobbes, Leibniz e Hume sono d’accordo
nel ri- tenere che tale sfera è l’esperienza. Secondo Leibniz, le verità di F.
sono contingenti mentre quelle di ragione sono necessarie perchè fondate sul
principio di contraddizione sicchè il loro contrario è impos- sibile (Nouv.
Ess., IV, 2, 1). Secondo Hume, delle verità di F. «è possibile sempre il
contrario, poichè non implica mai contraddizione ed è concepito dallo spirito
con la stessa facilità e chiarezza che se fosse conforme alla realtà » (Zng.
Conc. Underst., IV, 1). Sia Leibniz che Hume sono infine d’accordo nel ritenere
che il fondamento della verità di F. è il principio di causalità. Da questa
analisi risulta perciò che il fatto è: a) una realtà contingente, attinta o
testimoniata dall’esperienza; è) una realtà fondata su una certa connessione
causale. Una no- zione di fatto così configurata è quella che pro- priamente
oggi si direbbe la nozione di avvenimento cioè di una realtà contingente,
appartenente al- l'ordine della natura. Quest'ultima qualifica è quella che
viene espressa dal ritenere la verità di F. fon- data sul principio causale.
Pertanto questa non è ancora una nozione di F. sufficientemente estesa, cioè
tale da poter valere nei confronti dell’intera estensione della ricerca
scientifica: per essa le ve- rità matematiche non sarebbero verità di fatto.
L’estensione della nozione fu realizzata da Kant. Secondo Kant, «i fatti sono
gli oggetti dei concetti di cui si può provare la realtà oggettiva, sia me-
FATTO diante la ragione, sia mediante l’esperienza: nel primo caso, in base a
dati teoretici o pratici, in ogni caso per mezzo di una intuizione corrispon-
dente » (Crit. Giud., $ 91). Sono fatti in questo senso, secondo Kant, le
proprietà geometriche delle gran- dezze in quanto possono essere dimostrate a
priori; le cose o le qualità delle cose che possono essere provate mediante
l’esperienza o mediante testimo- nianze; ed anche l’idea della libertà, la cui
realtà come una specie particolare di causalità si può mostrare a partire
dall’esperienza morale (/bid., $ 91). Questa analisi di Kant è importante
perchè: a) consente di distinguere nettamente la nozione di F. da quella di
avvenimento come nozione più gene- rale, corrispettiva della possibilità d’uso
di qual- siasi strumento di accertamento. Da questo punto di vista
l'avvenimento è una specie particolare di F., precisamente è un F. naturale; b)
consente di rico- noscere il carattere empirico del F. come alcunchè di diverso
dal suo confinamento alla sfera della sensibilità: la ragione stessa ha a che
fare con fatti che non le sono esterni e imposti dall'esterno, ma che trova in
se stessa, come condizioni del suo fun- zionamento. Da questo punto in poi, la
nozione di F. viene talora avvicinata a quella di fenomeno, talaltra a un
elemento o condizione della ragione. Si avvicina il F. al fenomeno quando si
parla di « F. bruto » o «grezzo» o di «mero F.», giacchè si allude in tal caso
al dato immediato, alla semplice o grosso- lana apparenza così come si presenta
prima facie. Ma è chiaro che non si può procedere molto oltre sulla via di
questa identificazione. Il F. non è il fenomeno: per es., la spezzatura di un
bastone nell'acqua è un fenomeno ma non un fatto. È pure un fenomeno il moto
apparente dei cieli che sin dagli inizi l'astronomia cercò in vari modi di
ridurre a « F.». Il F. implica una sistemazione o interpretazione del fenomeno
per la quale il fenomeno stesso cambia faccia, diventa suscettibile di essere
descritto, previsto e controllato. Lo stesso Comte che adopera il più delle
volte scambievol- mente le due parole sembra talora accennare ad una
distinzione come nel passo seguente: « Questo F. generale (cioè la
gravitazione) ci è presentato come una semplice estensione di un fenomeno che
ci è eminentemente familiare e che perciò conside- riamo come perfettamente
conosciuto, la pesantezza dei corpi alla superficie della terra » (Phil. Pos.,
I, $ 4). Ma nell’ambito stesso del positivismo, Claude Bernard accentuò la
subordinazione dei fatti alla ragione. « Senza dubbio, egli scrisse, io ammetto
che i fatti sono le sole realtà che possano dare la formula all’idea
sperimentale e nello stesso tempo servirle di controllo; ma ciò alla condizione
che la ragione li accetti... Nel metodo sperimentale,come dappertutto, il solo
criterio reale è la ragione. Un F. non è niente di per se stesso, vale soltanto
per l’idea che gli si connette o per la prova che fornisce » (Intr. à l’étude
de la médecine expérimental, I, 2, 7). Questa interpretazione del fatto sembrò
confermata quando si vide la parte preponderante che nella costruzione del «F.
scientifico» ha la teoria (P. DUHEM, La théorie physique: son objet et sa structure,
1906). La stretta connessione del F. con l'attività ra- zionale, espressa in
vari modi, viene in generale riconosciuta nella filosofia contemporanea. La fe-
nomenologia ha elaborato la nozione di stato di cose (Sachverhalt) come
l’oggetto corrispondente di ogni giudizio valido e ha considerato come un fatto
lo stato di cose in cui è coinvolta un’esistenza indi- viduale. In questo senso
una cosa non è un F.: ma è un F. che questa cosa esista che abbia questo o quel
carattere, ecc. (HussERL, /deen, I, $ 6). La no- zione di stato di cose è stata
ripresa da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus che però ha con-
cepito in diversa maniera il rapporto di esso col fatto perchè ha visto nello «
stato di cose» l’ele- mento semplice che entra a comporre il fatto. Lo stato di
cose sarebbe perciò il « F. atomico » il com- ponente elementare dei fatti
(Tracr., 2). Quel che c’è di caratteristico in queste notazioni è la
definizione del fatto (o dei suoi componenti) come oggetto del giudizio o della
proposizione valida. Lo stato di cose o F. atomico non è, secondo Wittgenstein
che l’oggetto di una proposizione elementare (/bid., 4, 21). S’intende perciò
come, sulla linea di sviluppo di questa concezione, i fatti siano stati
addirittura identificati con le proposizioni. L’identificazione è stata
proposta da Ducasse (in «Journal of Philo- sophy +, 1940, pag. 701-11) e
accettata da Carnap,nel senso che un F. sarebbe una proposizione che sia: 1°
vera; 2° contingente; 3° dotata di un certo grado di completezza cioè di
determinazione (Mean- ing and Necessity, $ 6, 1). Bisogna avvertire che, per
Carnap, il termine proposizione non signi- fica nè un’espressione linguistica,
nè un avveni- mento mentale o soggettivo ma qualcosa di ogget- tivo che può o
meno trovare esempi in natura ed è pertanto paragonabile a « proprietà »
(/bid., $ 6). La « proposizione vera + che Carnap identifica col F. significa
perciò semplicemente un « oggetto valido » o un reale « stato di F. ». Il
chiarimento che deriva da queste riduzioni linguistiche è puramente ver- bale;
e, se può riuscire di qualche utilità in una trattazione logica, poco o nulla
dice intorno alla natura e ai caratteri del fatto. Denuncia, al più la tendenza
a ricondurre il F. stesso a condizioni concettuali o linguistiche. Dall’altro
lato, il pragma- tismo con Dewey ha insistito sul carattere « opera- zionale »
del F.: nel senso che i F. «sono soltanto risultati di operazioni e di
osservazioni compiute con l’aiuto degli organi sensoriali e di strumenti
ausiliari prodotti dalla tecnica, e perciò vengono scelti e ordinati
nell’espresso intento di farli servire come dati per una ricerca ordinata
(Logic, VI, 5, $ 4). L’analisi contemporanea della nozione ignora pertanto
l’antitesi tra fatti e ragione. L'eliminazione di questa antitesi si fa
indubbiamente sentire anche nell’elaborazione del concetto di ragione (v.). Per
ciò che riguarda la nozione di F., esso, nei con- fronti della ragione, si
viene a configurare come una condizione limitativa delle scelte razionali. In un
campo determinato, per es., nella fisica, un F. è ogni possibile oggetto di
osservazione cioè ogni stato o situazione che può essere accertata e con- trollata
con gli strumenti di cui dispone la fisica. Ma i fatti fisici in questo senso
sono i limiti o le condizioni dell’attività razionale nel campo della fisica
cioè di ogni costruzione teoretica o ipotesi. Allo stesso modo, nel campo della
logica, le im- plicazioni analitiche o tautologiche valgono come fatti, cioè
come condizioni o limiti della ricerca logica (AsBAGNANO, Possibilità e
libertà, VI, 7). In generale si può dire che mentre il F. è una « pos- sibilità
di accertamento » che in ogni campo assume l’aspetto specifico dovuto agli
strumenti d’indagine disponibili nel campo stesso, esso è pure, nei con- fronti
della ragione, la condizione di altre possi- bilità cioè di scelte o di
operazioni che a loro volta si determinano o specificano secondo la natura dei
singoli campi d’indagine. FAUSTISMO (ted. Faustismus). Secondo Spen- gler, il
carattere della cultura occidentale, in quanto si contrappone all’apollinismo
della cultura antica. L’anima faustiana ha come suo simbolo lo spazio puro
illimitato. Faustiane sono, secondo Spengler, la dinamica di Galilei, la
dogmatica cattolica e protestante, le grandi dinastie con la loro politica di
gabinetto, il destino di Lear e l’ideale della Madonna dalla Beatrice di Dante
alla fine del se- condo Faust di Goethe (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $
6). Ovviamente si tratta di una caratteriz- zazionearbitrariaefantastica. FAVOLA
(lat. Fabula; ingl. Fable; franc.
Fable; ted. Fabel). Dal Rinascimento in poi la
convinzione che le « F. antiche » avessero un valore di sintomo o di
rivelazione indiretta della verità condusse a una reinterpretazione degli
antichi miti che furono talora piegati (come si vede nelle opere di Bruno) a
significati filosofici particolari. Sul valore delle F. stesse Bacone e Vico
segnano gli atteggiamenti fon- damentali. Bacone pensava che le F. sono qual-
cosa di intermedio tra il silenzio e l’oblio delle età perdute e la memoria e
l'evidenza delle età più vicine di cui possediamo testimonianze scritte. « Le
F., egli scrisse, non sono nè un prodotto delle 382 loro età nè frutto
dell’invenzione poetica ma quasi sacre reliquie e tenui aure di tempi migliori,
che dalla tradizione delle nazioni più antiche sono ar- rivate fino alle trombe
e ai flauti dei Greci» (De sapientia veterum, 1609, Pref.). Bacone propendeva pertanto
a scorgere nelle F. un significato allegorico che vi sarebbe stato
intenzionalmente racchiuso. Che è per l’appunto la tesi negata e combattuta, il
secolo dopo, da Vico: secondo il quale le F. sono tali soltanto dal punto di
vista dei dotti, mentre per i popoli primitivi che le crearono erano nar- razioni
vere. «I filosofi, dice Vico, diedero alle F. interpretazioni fisiche o morali
o metafisiche o di altre scienze, come l’oro o l’impegno o il capriccio ne
riscaldasse le fantasie; sicchè essi piuttosto con le loro allegorie erudite le
finsero favole. I quali sensi dotti i primi autori di quelle F. non intesero,
nè per la loro rozza ed ignorante natura potevano intendere: anzi per questa
stessa loro natura con- cepirono le F. per narrazioni vere... delle loro divine
ed umane cose» (Sc. Nuova, II, Della metafisica poetica). Questa idea di Vico è
rimasta a fonda- mento della moderna filosofia delle forme simbo- liche (v.
MITO). FEDE (gr. riot;
lat. Fides; ingl. Faith; fran- cese Foi; ted. G/aube). La credenza religiosa, cioè la fiducia nella
parola rivelata. Se la credenza in generale è l'impegno nei confronti di una
nozione qualsiasi, la F. è l’impegno nei confronti di una nozione che si
ritiene rivelata o testimoniata dalla divinità. In questo senso usava già la
parola Sesto Empirico parlando di quei ragionamenti che sem- brano dipendere «
dalla F. e dalla memoria » come il seguente: « Se un Dio ti ha detto che costui
di- venterà ricco, costui diventerà ricco. Ma questo Dio qui (e indico,
supponiamo, Zeus) t’ha detto che costui diventerà ricco. Dunque diventerà ricco
». In questi casi, nota Sesto, assentiamo alla conclu- sione non per la
necessità delle premesse ma in quanto abbiamo F. nella dichiarazione della
divi- nità (Ip. Pirr., II, 141). S. Paolo ha riassunto le caratteristiche
fondamentali della F. religiosa nelle celebri parole: « F. è sostanza delle
cose sperate e argomento delle non parventi» (Mebr., 11, 1). S. Tommaso ha
chiarito nel modo seguente le pa- role di S. Paolo: « In quanto si parla di
argomento, si distingue la F. dall’opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle
quali cose manca la ferma adesione dell’intelletto al suo oggetto. In quanto si
parla di cose non parventi, si distingue la fede dalla scienza e
dall’intelletto, nei quali qualcosa diventa appa- rente. E in quanto si dice
sostanza delle cose sperate si distingue la virtù della F. dalla F. nel comune
significato [cioè dalla credenza in generale] la quale non è diretta alla
beatitudine sperata » (S. 7H., Il, 2, q. 4, a. 1). Gli Scolastici si attennero,
con poche
FEDE varianti, a questa descrizione della
fede. Col misti- cismo tedesco del xrv secolo cominciò ad affac- ciarsi la
dottrina del carattere privilegiato della F. come via d’accesso originale,
diretta e immediata alle realtà supreme e specialmente a Dio. Maestro Eckhart
vede nella F. il mezzo attraverso il quale l’uomo raggiunge la realtà ultima di
sè e di Dio: la F., egli dice è la nascita di Dio nell’uomo. Questo tema
ritornava nella cosiddetta « filosofia della F. + del sec. xvi: Hamann e Jacobi
attribuiscono alla F. lo stesso sfarus privilegiato, la stessa capacità di
mettere l’uomo direttamente a contatto, scavalcando i limiti e le incertezze
della ragione, con le realtà ultime e specialmente con Dio. Per quanto Jacobi
includa nella F. religiosa anche la parte che pro- priamente spetta alla
credenza («Noi crediamo, egli dice, di avere un corpo; crediamo all’esistenza
delle cose sensibili », Werke, IV, 211; III, 411), è sul carattere religioso
della F. che egli fonda la certezza privilegiata di essa: ogni F., egli dice, è
necessariamente F. della rivelazione e questa è necessariamente F. in Dio, cioè
religione (Ibid., Il, 274, 284 sgg.). I Romantici spesso riconfer- marono
questo status privilegiato della fede. Così fece Fichte che esaltò la F. nelle
opere popolari del secondo periodo, per es., nella Missione del- l’uomo (1800)
dove afferma che «la F., dando realtà alle cose, impedisce ad esse di essere
vane illusioni: è la sanzione della scienza» e ripete la parola di Jacobi: «
Tutti nasciamo nella F. » (Werke, II, pag. 254-55). Accenti analoghi risuonano
ta- lora negli scritti di Schelling (Werke, I, 10, 183) e Novalis dice che la
scienza è soltanto una delle metà e la F. è l’altra metà (Fragmente, 391).
Verso la fine della Scolastica si era cominciato ad accentuare un altro aspetto
della F.: il suo ca- rattere pratico che non consiste nella sua dipendenza dalla
volontà ma nella sua capacità di dirigere l’azione. Duns Scoto fu il primo ad
insistere su questo carattere: « La F., egli dice, non è un abito speculativo
nè il credere è un atto speculativo, nè la visione che segue al credere è una
visione spe- culativa, ma pratica » (Op. Ox., prol., q. 3). Per « pratico» Duns
Scoto intende ciò che serve a di- rigere la condotta e perciò egli chiama
pratica l’intera teologia in quanto le verità che essa in- segna non sono
teoretiche cioè necessarie e dimo- strabili ma servono unicamente a dirigere
l’uomo verso la beatitudine eterna (/bid., prol., q. 4, n. 42). La stessa
antitesi tra l’hkabitus della F. e quello della scienza era ammessa da Ockham
che riteneva i due abiti incompatibili tra di loro e osservava che chi crede a
qualcosa di cui ha dimenticato la dimostrazione non si può dire veramente che
ha «F.» perchè l’oggetto della sua credenza è pur sempre la dimostrazione (/r
Sent., III, q. 8 R). FEDE ANIMALE Nel mondo moderno il carattere pratico della
F. veniva difeso da Spinoza. «La F., egli dice, con- siste nell’avere, nei
confronti di Dio, quei senti- menti tolti i quali viene tolta l’obbedienza a
Dio, e che sono posti necessariamente quando è posta tale obbedienza » (7ract.
Theol.-Pol., 14). La F. è perciò l’insieme delle credenze che condizionano l'obbedienza
alla divinità, secondo Spinoza. Ed è questo un concetto che doveva essere
ripreso da Kant, per il quale la credenza teoricamente insuffi- ciente può,
soprattutto nel suo aspetto pratico, esser detta fede. Kant generalizza il
concetto pratico della F., riconoscendo in essa l’atteggiamento im- pegnativo
che può dirigere sia l’abilità, cioè l’atti- vità che ha in vista fini
arbitrari e accidentali, sia la moralità che ha in vista fini assolutamente ne-
cessari. La F. che dirige l’abilità è la F. prammatica la quale difficilmente
spinge il suo impegno sino alla scommessa. C’è invece una F. dortrinale che è
più impegnativa ma che neppure arriva alla cer- tezza della F. morale.
Quest'ultima specie di F., dà una certezza che non si può comunicare e non è
quindi di natura logica ma è una « certezza mo- rale» che poggia su fondamenti
soggettivi. « Così io non devo dir mai: è moralmente certo che c’è un Dio,
ecc., ma: io sono moralmente certo, ecc. Cioè: la F. in Dio e in un altro mondo
è talmente intrecciata col mio sentimento morale che, come non corro rischio di
perdere questo, così non temo che quella possa essermi tolta» (Crit. R. Pura,
Canone della Ragion Pura, sez. 3). La F. religiosa può essere secondo Kant o
«F. religiosa pura » che è la stessa F. morale o «F. storica» che è F. nelle
leggi statutarie cioè nelle leggi che indicano il modo in cui Dio vuol essere
onorato ed obbedito (Religion, III, I, $ 6). Ciò che gli Scolastici chiamavano
il carattere pratico della F. è diventato per Kant (e per i mo- derni) il
carattere impegnativo della F. stessa cioè il carattere per il quale la F. è
innanzi tutto un atto esistenziale, una direzione impressa alla vita dell’individuo,
capace di trasformarla e non priva di rischio. Questi tratti appaiono chiari
nell'ultima grande teoria della F. che la filosofia ha elaborato: quella di
Kierkegaard. Kierkegaard ritiene che il cristianesimo ha invertito il rapporto
tra F. e scienza. Nell’antichità classica la F. è qualcosa di inferiore alla
scienza perchè si rapporta al verosi- mile; nel cristianesimo la F. è superiore
alla scienza perchè indica la certezza più alta, una certezza che si rapporta
al paradosso, quindi all’inverosimile: essa è «la coscienza dell’eternità, la
certezza più appassionata che spinge l’uomo a sacrificare tutto, anche la vita»
(Diario, X*, A 635). Il carattere im- pegnativo della F. consiste nel suo
legame con l’esistenza: aver F. significa esistere in un certo 383 modo. « Per
aver F., dice Kierkegaard, è necessaria una situazione e questa situazione
dev’essere pro- dotta con un passo esistenziale dell’individuo » (Ibid., X*, A
114). Questo passo segna la rottura col mondo e col suo ideale di
intelligibilità. Che cosa è credere? È volere (ciò che si deve e perchè si
deve) in obbedienza riverente e assoluta, difen- dersi contro i pensieri vani
di voler comprendere e contro le vane immaginazioni di poter compren- dere »
(/bid., X!, A 368). Da questo punto di vista la F. non è fatta di certezze, ma
di decisione e di rischio. La F., dice Kierkegaard in Timore e tre- more, è la
certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sè e di un nascosto
rapporto con Dio. L’uomo può pregare Dio che gli conceda la F.; ma la possibilità
di pregare non è in se stessa un dono divino? Così c’è nella F. una
contraddizione ineliminabile che la rende paradossale. L'uomo è posto di fronte
al bivio: credere e non credere. Da un lato è lui che deve scegliere e
dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perchè Dio è tutto e da Lui deriva
anche la fede. Questo concetto è stato so- stanzialmente ripreso da Karl Barth
che ha inter- pretato la F. come l’inserzione della Eternità nel tempo, della
Trascendenza nell’esistenza (Commento all’Epistola ai Romani, 1919).
All’iniziativa divina attribuisce la F. anche Rudolf Bultmann che, tut- tavia
ha affermato l’esigenza di liberare la F. stessa, e in particolare quella
cristiana, dai miti cosmo- logici con i quali essa tradizionalmente si presenta
unita e di procedere alla sua demitizzazione (v.). E andando oltre su questa
strada, Dietrich Bon- hoeffer ha addirittura contrapposto la F. alla religione
(v.), considerata come un’espressione mi- tica o contingente della F. e
divenuta inaccetta- bile nell’età contemporanea dominata dal razio- nalismo,
dalla scienza e dalla tecnologia. Da questo punto di vista si accentua il
carattere pratico della F. che diventa una morale naturale ed umana, che si
fonda sull’unità del mondo e di Dio, dell’umanità e di Cristo (£tica, 1949;
Resistenza e Resa, 1951). A questo concetto della F., intesa come azione
rinnovatrice del mondo umano, si ispira il panteismo umanistico dei co-
siddetti « nuovi teologi » (v. Dio e Dio, MORTE DI). Da un punto di vista
filosofico ha insistito sul- l’identità di esistenza e fede Karl Jaspers che
tuttavia ha continuato a riconoscere nella F., sulle orme di Kierkegaard, un
rapporto diretto con la Trascendenza (Der Philosophische Glaube, 1948). FEDE
ANIMALE (ingl. Animal Faith). Così Santayana chiamò la credenza nella realtà in
quanto prodotta nell’uomo da esperienze animali: fame, sesso, lotta, ecc.
(Scepricism and Animal Faith, 1923) (v. CREDENZA). 384 FEDE, FILOSOFIA DELLA
(ted. G/aubens- philosophie). Con questo nome o con quello di « filosofia del
sapere immediato » si indica la filo- sofia di un gruppo di filosofi tedeschi
della seconda metà del 700 che fecero parte dello Sturm und Drang (v.). Le
principali figure di questa filosofia furono G. G. Hamann (1730-88), detto «il
mago del Nord +»; G. G. Herder (1744-1803) e F. E. Ja- cobi (1743-1819) al
quale si deve l’espressione « filosofia della F.». Questa filosofia accettava
da Kant la dottrina dei limiti della ragione solo per affermare la superiorità
della F. sulla ragione. Essa considerava la F. come un rapporto immediato,
quindi non soggetto a incertezze o a dubbi, con le realtà supreme e
specialmente con Dio. Jacobi espresse queste idee nelle Lerrere sulla dottrina
di Spinoza a Mosé Mendelssohn (1785), e nello scritto David Hume e la F.
(1787). Hegel nella logica del- l’Enciclopedia considerò la dottrina di Jacobi
come «Terza posizione del pensiero rispetto all’oggetti- vità » e criticò
l'immediatezza nella quale vide il carattere fondamentale della F. di cui
parlava Jacobi (Enc., $ 61-74). FEDE E SCIENZA. V. SCOLASTICA. FEDELTÀ (ingl.
Loyalty). La volontaria, pra- tica, completa devozione di una persona ad una
causa. Così definì la F. Royce nel suo libro Filo- sofia della F. (1908) assumendola
come principio generale dell’etica. La F. include infatti la solida- rietà con
gli altri individui o meglio con una co- munità di individui e contiene il
criterio per giudicare del valore delle cause giacchè consente di ricono- scere
come cattiva una causa che renda impossibile o neghi la F. altrui. La F. alla
F. fu quindi ritenuta da Royce il criterio della vita morale. FELAPTO. Parola
mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il secondo dei sei modi del
sil- logismo di terza figura e precisamente quello che consiste di una premessa
universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una con-
clusione particolare negativa come nell’esempio: « Nessun uomo è pietra, Ogni
uomo è animale, Dunque qualche animale non è pietra» (Pretro Ispano, Summul. logic.,
4.14). FELICITÀ (gr. evdaruovia; lat. Felicitas; inglese Happiness; franc.
Bonheur; ted. Glickseligkeit). In generale uno stato di soddisfazione dovuto
alla propria situazione nel mondo. Per questo rapporto con la situazione, la
nozione di F. si differenzia da quella di beatitudine (v.) la quale è l'ideale
di una soddisfazione indipendente dal rapporto dell’uomo col mondo e perciò
ristretta alla sfera contempla- tiva o religiosa. Il concetto di F. è umano e
mon- dano. Così è nato nella Grecia antica, dove Talete riteneva felice « colui
che ha un corpo sano, buona fortuna e un’anima bene educata» (Dioc. L., I, FEDE,
FILOSOFIA DELLA 1, 37). La buona salute, la fortunata riuscita della vita e il
successo della propria formazione, che co- stituiscono gli elementi della F.,
sono inerenti alla situazione dell’uomo nel mondo e fra gli altri uomini.
Democrito, in modo pressocchè analogo, definiva la F. come «la misura del
piacere e la proporzione della vita», cioè come il tenersi lontani da ogni
difetto e da ogni eccesso (F7., 191, Diels). Comunque, F. e infelicità
appartengono all’anima (Fr., 170, Diels) giacchè solo l’anima «è la dimora
della nostra sorte » (Fr., 171, Diels). La connessione che è stata spesso
stabilita tra F. e piacere ha lo stesso significato, cioè è connessione tra lo
stato definito come F. e il rapporto col proprio corpo, con le cose e con gli
uomini. La tesi che la F. sia il sistema dei piaceri, fu espressa con tutta
chiarezza da Aristippo che distinse anche il piacere dalla felicità. Solo il
piacere è il bene perchè solo esso viene desiderato di per se stesso e quindi è
il fine in sè. « Il fine è il piacere particolare, la F. è il sistema dei
piaceri particolari, in cui si sommano anche i passati e i futuri » (Diog. L.,
II, 8, 87). Egesia che negava la possibilità della F., la negava proprio per il
fatto che i piaceri sono troppo rari e labili (Ibid., II, 8, 94). Dall’altro
lato, Platone negava che la F. consistesse nel piacere e la riteneva in- vece
connessa con la virtù. «I felici sono felici per il possesso della giustizia e
della temperanza e gli infelici, infelici per il possesso della cattiveria », egli
dice nel Gorgia (508 b) e nel Convito (202 c) sono detti felici «coloro che
posseggono bontà e bellezza ». Ma giustizia e temperanza sono virtù; «
possedere bontà e bellezza » significa ancora es- sere virtuosi; e la virtù non
è altro, secondo Pla- tone, se non la capacità dell'anima di adempiere al
proprio compito, cioè di dirigere l’uomo nel modo migliore (Rep., I, 353 d
sgg.). Sicchè anche la nozione platonica della F. è relativa alla situa- zione
dell'uomo nel mondo, e ai compiti che qui lo attendono. Quanto ad Aristotele,
egli ha bensì insistito sul carattere contemplativo della F. nel suo grado
eminente, cioè della beatitudine (v.), ma ha dato della F. una nozione più
estesa defi- nendola come « una certa attività dell’anima svolta conformemente
a virtù » (Er. Nic., I, 13, 1102 b); la quale non esclude, ma include la
soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni mondane. Le per- sone felici,
secondo Aristotele, devono possedere tutte e tre le specie di beni che si
possono distinguere, cioè quelli esterni, quelli del corpo e quelli del- l’anima
(/bid., 1153 b 17 sgg.; Pol., VII, 1, 1323 a 22). È vero tuttavia che «i beni
esteriori, come ogni strumento, hanno un limite entro il quale adem- piono la
loro funzione di essere utili, come mezzi, ma oltre il quale diventano dannosi
o inutili per chi li possiede. E che i beni spirituali invece, FELICITÀ 385
tanto più sono abbondanti tanto più sono utili ». Ma in generale si può dire
che « Ciascuno merita tanta F., per quanto virtù, senno e capacità di agire in
conformità egli possiede e si può chiamare a testimonio la divinità che è
felice e beata non per beni esteriori ma di per se stessa, per quello che è per
natura » (Po/., VII, 1, 1323 b 8). La F. è perciò più accessibile al saggio che
più facilmente basta a se stesso (Er. Nic., X, 7, 1177 a 25) ma è ciò a cui in
realtà devono tendere tutti gli uomini e le città. L'etica post-aristotelica si
occupa invece esclu- sivamente della F. del saggio; la netta divisione degli
Stoici tra saggi e pazzi rende infatti ovvia- mente inutile occuparsi di questi
ultimi. Il saggio è colui che basta a se stesso e che perciò trova in sè
esclusivamente la sua F. che meglio si direbbe beatitudine. Plotino rimprovera
alla nozione ari- stotelica di F. che, consistendo essa per ogni essere nel
compiere la sua funzione e nel raggiungere il proprio fine, può applicarsi
benissimo non solo agli uomini ma anche agli animali e alle piante (Enn., I, 4,
1 sgg.). E agli Stoici Plotino rimpro- vera l’incoerenza di porre la F.
nell'indipendenza dalle cose esterne e nello stesso tempo di additare come
oggetto della ragione proprio queste cose stesse. Per Plotino, la F. è la vita
stessa; perciò mentre appartiene a tutti gli esseri viventi, appar- tiene nel
grado più eminente alla vita più completa e perfetta che è quella
dell’intelligenza pura. Il saggio, in cui tale vita si realizza, è bene a se
stesso: non ha bisogno che di se stesso per essere felice e non cerca le altre
cose o almeno le cerca solo perchè sono indispensabili alle cose che gli appar-
tengono (per es., al corpo) e non a lui stesso. La F. del saggio non può essere
distrutta nè dalla cat- tiva fortuna nè dalle malattie fisiche e mentali nè da
alcuna circostanza sfavorevole, come non può essere aumentata dalle circostanze
favorevoli (/bid., I, 4, 5 sgg.): è perciò la stessa beatitudine di cui godono
gli Dei. La filosofia medievale ha ribadito e fatto propri questi concetti,
talora adattando ad essi (come ha fatto S. Tommaso) la stessa dottrina
aristotelica: e solo estendendoli alla generalità degli uomini. Dali’ Umanesimo
in poi la nozione di F. comincia a essere strettamente legata — com'era già
stata per Cirenaici ed Epicurei — con quella di piacere. Il De voluptate di
Lorenzo Valla è imperniato su questa connessione; e tale connessione si
accentua nel mondo moderno. Essa trova concordi Locke e Leibniz. Locke dice che
la F. «è il massimo pia- cere di cui siamo capaci e l’infelicità è la massima
pena; e l’infimo grado di ciò che può essere chia- mato F. è di essere tanto
liberi da ogni pena e di aver tanto piacere presente da non poter essere 25 —
ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. contenti con meno » (Saggio, II, 21, 43). E
Leibniz: «Io credo che la F. sia un piacere durevole, ciò che non potrebbe
accadere senza un progresso con- tinuo verso nuovi piaceri » (Nouv. Ess., II,
21, 42). La nozione della F. come piacere o come somma o meglio come «sistema»
di piaceri, secondo la espressione del vecchio Aristippo, comincia con Hume ad
acquistare un significato sociale: la F. diventa piacere diffusibile, il
piacere del maggior numero e in questa forma la nozione di F. diventa la base
del movimento riformatore inglese dell’800. Nel frattempo Kant, che riteneva
impossibile porre la F. a fondamento della vita morale, ne chiariva tuttavia
efficacemente la nozione senza ricorrere a quella di piacere. « La F., dice
Kant, è la condizione di un essere razionale nel mondo al quale, nel- l’intero
corso della sua vita, tutto avvenga secondo il suo desiderio e la sua volontà »
(Crif. R. Pratica, Dialettica, Sez. 5). Si tratta perciò di un concetto che
l’uomo non trae dagli istinti e non deriva da ciò che in lui è animalità, ma
che egli si forma in modi diversi e che cambia spesso e spesso arbitra-
riamente (Crit. del giud., $ 83). Kant ritiene che la F. faccia parte
integrante del sommo bene, il quale è per l’uomo la sintesi di virtù e
felicità. Ma come tale il sommo bene non è realizzabile nel mondo naturale; e
non è realizzabile sia perchè nulla garantisce in questo mondo la perfetta pro-
porzione tra moralità e F. in cui il sommo bene consiste; sia perchè nulla
garantisce quel soddisfa- cimento pieno di tutti i desideri e tendenze del-
l’essere razionale in cui la F. consiste. Nel mondo naturale pertanto la F. è
dichiarata da Kant impos- sibile e rinviata in un mondo intelligibile che è «il
regno della grazia » (Crif. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. II, sez. 2).
Kant ha avuto il merito, in primo luogo, di enunciare in modo rigoroso la
nozione di F. e in secondo luogo quello di mo- strare che tale nozione è
empiricamente impossibile, cioè irrealizzabile. Non è possibile infatti che
siano soddisfatte rutte le tendenze, inclinazioni, volizioni dell’uomo perchè
da un lato la natura non si preoc- cupa di venire incontro all’uomo in vista di
tale soddisfazione totale e dall’altro perchè gli stessi bisogni e inclinazioni
non rimangono mai fermi nella quiete dell’appagamento (Crir. del giud., $ 83). Ricondotta
al concetto di soddisfazione assoluta e totale — sul quale insiste anche Hegel
(Enc., $ 479- 480) — la F. diviene l’ideale di uno stato o condizione
inattingibile, salvo che in un mondo soprannaturale e per intervento di un
principio onnipotente. Non fa quindi meraviglia che tutta quella parte della
filosofia moderna che è passata attraverso il filtro del kantismo abbia
trascurato la nozione di F. e non se ne sia avvalsa per l’analisi di ciò che
l’esistenza umana è e deve essere. Tut- 386 tavia l’empirismo inglese aveva
iniziato con Hume (come già si è detto) un nuovo sviluppo in senso sociale della
nozione, sviluppo che è proprio del- l’utilitarismo. Hume aveva osservato che «
nel far le lodi di qualche persona benefica e umana » non si manca mai di
mettere in luce « la F. e la soddisfa- zione che derivano alla società umana
dalla sua azione e dai suoi buoni uffici » (/ng. Conc. Morals, II, 2). E
pertanto aveva identificato ciò che è mo- ralmente buono con ciò che è utile e
benefico. Dopo di lui Bentham riprendeva, come fondamento della morale, la
formula di Beccaria: « La massima F. possibile del maggior numero possibile di
per- sone + formula a cui si ispirarono anche James Mill e Stuart Mill,
accentuandone sempre più il carat- tere sociale. Non si trova in questi autori
un con- cetto rigoroso di F.; ma non si trova neppure in essi
quell’irrigidimento e assolutizzazione della no- zione che essa aveva subito in
Kant e che l’aveva resa inservibile. Essi sanno anche che la F., di- pendente
com'è da condizioni e circostanze ogget- tive oltrecchè dagli atteggiamenti
dell’uomo, non può appartenere all'uomo nella sua singolarità, ma all'uomo in
quanto è membro di un mondo sociale. E se collegano la F. col piacere,
distinguono pia- cere da piacere, ammettendo l’identificazione solo per
l’ambito di quei piaceri che sono socialmente partecipabili. Nella tradizione
culturale inglese e americana, la nozione di F. è rimasta viva in questa forma
e ha ispirato oltrecchè il pensiero filosofico, il pensiero sociale e politico.
Il principio della mas- sima felicità è rimasto per lungo tempo la base del
liberalismo moderno di stampo anglosassone. La Costituzione americana ha
incluso fra i diritti na- turali e inalienabili dell’uomo « la ricerca della F.
». A questa tradizione si collega Bertrand Russell, che è stato uno dei pochi a
difendere oggi la nozione di F., sia pure in un libro a carattere popolare (La
Conquista della F., 1930). Ciò che Russell ag- giunge di nuovo alla nozione
tradizionale di F. (oltre alla persuasiva analisi che egli fa delle odierne
situazioni di «infelicità »), è una condizione che ritiene indispensabile, cioè
la molteplicità degli in- teressi, dei rapporti dell’uomo con le cose e con gli
altri uomini, perciò l’eliminazione dell’ ego- centrismo », della chiusura in
se stessi e nelle proprie passioni. Si tratta di una condizione che pone la F.
al polo opposto di quella autosufficienza del saggio in cui gli antichi ponevano
il grado più alto di essa. Dall’altro lato i filosofi, non riuscendo più a uti-
lizzare la nozione di F. come fondamento o prin- cipio della vita morale, si
sono, di regola, disinte- ressati della nozione stessa. A questo disinteresse ha
contribuito anche la tendenza, nata dal Roman- ticismo e per lungo tempo
dominante, ad esaltare l’infelicità, il dolore, gli stati di turbamento e di
FENOMENICO, FENOMENOLOGICO insoddisfazione come esperienze positive e intrin-
secamente gioiose. La F. difatti, nei gradi e nelle forme in cui si può
ritenere realizzabile, è uno stato di calma, una condizione di equilibrio
almeno re- lativo, di soddisfazione parziale e tuttavia effettiva, che è
direttamente l’opposto della irrequietudine romantica. La filosofia
contemporanea non si è finora fermata ad analizzare la nozione di F. nei limiti
in cui essa può servire a descrivere situazioni umane effettive e ad
orientarle. E tuttavia che si tratti di una nozione importante è dimostrato
dalla importanza che alcune nozioni negative come « fru- strazione »,
«insoddisfazione +, ecc., hanno nella psicologia individuale e sociale, normale
e pato- logica. Queste nozioni e altre analoghe indicano infatti l'assenza più
o meno grave di quella con- dizione di almeno relativo soddisfacimento che la
parola F. tradizionalmente designa. E l’importanza di esse per l’analisi di
stati o condizioni più o meno patologici denuncia l'importanza che la
corrispon- dente nozione positiva ha per le condizioni normali della vita
umana. FENOMENICO, FENOMENOLOGICO (ingl. Phenomenal, Phenomenological; franc.
Phéno- ménal, Phénoménologique; ted. Phinomenal, Phano- menologisch). La
distinzione fra i due aggettivi, che non vanno confusi, è stata bene espressa
da Hei- degger: « Per fenomenico s’intende ciò che è dato ed esplicabile nel
processo con cui il fenomeno viene incontro, per cui si parla di ‘strutture
feno- meniche ’. Fenomenologico è invece tutto ciò che è inerente al modo del
mostrare e dell’esplicare e tutto ciò che esprime la concettualità implicita in
questa ricerca » (Sein und Zeit, $ 7). In altri termini si può parlare di «
oggetto fenomenico » o « realtà fenomenica +», ma si deve parlare di « ricerca
feno- menologica » di «epoché fenomenologica?, ecc. L’aggettivo F. qualifica
l’oggetto che si rivela nel fenomeno, l’aggettivo fenomenologico qualifica il manifestarsi
dell’oggetto nella sua « essenza » nonchè la ricerca che rende possibile questo
manifestarsi. FENOMENISMO (ingl. Phenomenalism; fran- cese Phénoménisme; ted.
Phinomenalismus). La dot- trina che la conoscenza umana è limitata ai fenomeni,
nel significato 2° del termine. La parola designa sia le filosofie che tuttavia
ammettono l’esistenza di una realtà diversa del fenomeno (come quelle di Kant o
di Spencer) sia le filosofie che negano ogni realtà che non sia il fenomeno
(Renouvier, Hodgson). Il termine è stato coniato nell’800. Ma la filosofia
fenomenistica è nata nel ’700 ed è la filosofia del- l’Hluminismo. FENOMENO
(gr. tà pawéueva; ingl. Pheno- menon; franc. Phénomène; ted. Phanomen). 1. Lo
stesso che apparenza (v.). In questo senso il F. è l'apparenza sensibile, che
si contrappone alla realtà, FENOMENOLOGIA della quale per altro può essere
assunto come la manifestazione; o al fatto col quale per altro può essere
considerato identico (v. FATTO). È questo il significato solitamente assunto
dalla parola nel linguaggio comune (anche quando questo allude a un’apparenza
paradossale e insolita, per es., mo- struosa) ed è anche il significato che
ricorre in Bacone (nel De /nterpretatione naturae proemium, 1603), in Cartesio
(Princ. Phil., III, 4),
in Hobbes (De Corp., 25, $ 1) e in Wolff (Cosm., $ 225). 2. A partire dal sec. xvni e in connessione con la
rivalutazione dell’apparenza come manifestazione della realtà ai sensi e
all’intelletto dell’uomo, la parola F. comincia a designare l’oggetto specifico
della conoscenza umana in quanto appunto appare
sotto particolari condizioni,
caratteristiche della struttura conoscitiva dell’uomo. In questo senso la
nozione di F. è correlativa con quella di cosa in sè (v.) e la richiama per
opposizione contraria. A misura che si riconosce che gli oggetti della co- noscenza
si rivelano nei modi e nelle forme proprie della struttura conoscitiva
dell’uomo e che perciò essi non sono le «cose in se stesse» cioè le cose quali
sono o potrebbero essere al di fuori del rap- porto conoscitivo con l’uomo,
l’oggetto della co- noscenza umana si configura come F. cioè come cosa
apparente in quelle condizioni: il che ovvia- mente non vuol dire cosa
ingannevole o illusoria. È la filosofia del ’700 che fa questo passo. Hobbes
che ha in linea di principio rivalutato il F. come apparenza in generale (De
Corp., 25, $ 1; v. Ap- PARENZA) non conferisce alcun significato limita- tivo o
correttivo alla parola F. con cui designa ogni oggetto possibile della
conoscenza umana. Maupertuis che nelle Lettere del 1752 afferma che
l’estensione è un F. come tutte le cose corporee (CEuvres, 1756, II, 198 sgg.)
esprime invece la convinzione, assai comune al suo tempo, di una limitazione
della conoscenza umana; ed è da questa convinzione che ha preso le mosse Kant
per la sua distinzione tra F. e noumeno. Secondo Kant, il F. è in generale
l’oggetto della conoscenza in quanto condizionato dalle forme dell’intuizione
(spazio e tempo) e dalle categorie dell’intelletto. « F. dice Kant è ciò che
non appartiene all’oggetto in se stesso ma si trova sempre nel rapporto di esso
col soggetto ed è inseparabile dalla rappresentazione che questo ne ha.
Giustamente perciò i predicati dello spazio e del tempo sono attribuiti agli
oggetti dei sensi come tali, e in ciò non c’è illusione. AI contrario, se
attribuisco alla rosa in sè il color rosso, a Saturno gli anelli o a tutti gli
oggetti esterni in sè l’estensione, senza considerare il rap- porto di questi
oggetti con il soggetto e senza li- mitare il mio giudizio a questo rapporto,
allora nasce l’illusione » (Crif. R. Pura, Estetica trascen- 387 dentale, $ 8,
Osserv. gen., nota). Tale significato nel quale veniva fissato un diffuso
filosofema del sec. XVI è rimasto come uno dei significati fonda- mentali del
termine e precisamente quello in rap- porto al quale si parla di fenomenismo.
Questo significato è contrassegnato dalla limitazione di va- lidità che importa
nella conoscenza umana. F. è in questo senso non l’oggetto che si manifesta ma
l’oggetto che si manifesta all’uomo nelle particolari condizioni limitative che
questo rapporto con l’uomo implica. 3. Tuttavia nella filosofia contemporanea,
a par- tire dalle Ricerche logiche (1900-01) di Husserl, F. ha cominciato a
indicare non solo ciò che ap- pare o si manifesta all’uomo in particolari
condi- zioni, ma ciò che appare o si manifesta in se stesso, cioè com'è in sè,
nella sua essenza. Vero è che per Husserl il fenomeno in questo senso non è una
manifestazione naturale o spontanea della cosa: esige altre condizioni che sono
quelle poste dalla ricerca filosofica come fenomenologia (v.). Il senso
fenomenologico di F. come «rivelazione di essenza » (HusseRL, /deen, I, Intr.)
si aggiunge perciò al signi- ficato critico di F., senza eliminarlo. Su esso ha
insistito Heidegger considerando il F. come puro e semplice apparire
dell'essere in sè e distinguen- dolo pertanto dalla semplice apparenza
(Erscheinung o blosse Erscheinung): che è l’indizio o l’annunzio dell’essere
(il quale però rimane nascosto) e che perciò è il non manifestarsi o il
nascondersi del- l’essere stesso (Sein und Zeit, $ 7, A). Ovviamente in questo
senso la nozione di F. non si contrappone più a quella di cosa in sè: il F. è
l’in sè della cosa nel suo manifestarsi: il quale pertanto non costi- tuisce
un’apparenza della cosa stessa ma si iden- tifica col suo essere. Possiamo
allora ricapitolare nel modo seguente i tre significati tuttora in uso della
parola F.: 1° l’apparenza grezza (o il fatto bruto) sia che la si consideri o
meno come manifestante la realtà o il fatto reale; 2° l’oggetto della
conoscenza umana, qualificato e delimitato dal rapporto con l’uomo;
3° il rivelarsi dell’oggetto in sè. FENOMENOLOGIA
(ingl. Phenomenology; franc. Phénoménologie; ted. Phanomenologie). La descrizione
di ciò che appare o la scienza che ha come suo compito o progetto questa
descrizione. Il termine è stato probabilmente coniato nella scuola wolfiana.
Lambert lo adopera come titolo della quarta parte del suo Nuovo organo (1764)
ed intende per esso lo studio delle fonti di errore. Qui l’apparenza, di cui la
F. è la descrizione, è intesa come apparenza illusoria. Da Kant invece il
termine viene adoperato per indicare quella parte della teoria del movimento
che considera il movi- mento o la quiete della materia solamente in rap- 388
porto con le modalità in cui essi appaiono al senso esterno (Meraphysische
Anfangsgriinde der Natur- wissenschaft, 1786, Pref.). A sua volta Hegel chiamò
«F. dello spirito» la storia romanzata della co- scienza che, dalle sue prime
apparenze sensibili, giunge ad apparire a se stessa nella sua vera natura cioè
come Coscienza infinita o universale. In questo senso la F. dello spirito è da
lui identificata col «divenire della scienza o del sapere»; ed Hegel scorge in
essa la via attraverso la quale il singolo individuo ripercorre i gradi di
formazione dello Spirito universale, come figure già deposte o tappe di una via
già tracciata e spianata (Phénomen. des Geistes, Pref., ed. Glockner, pag. 31).
Ancora un altro significato dette al termine Hamilton inten- dendo con esso
(Lectures on Logic, 1859-60, I, pag. 17) la psicologia descrittiva e in questo
signi- ficato cioè come pura descrizione dell’apparenza psichica, preparatoria
per la spiegazione dei fatti psichici, il termine è stato frequentemente adope-
rato nella cultura filosofica tedesca della seconda metà del sec. xx e dei
primi anni del ‘900. Eduardo Hartmann intitolò F. della coscienza morale (Phà- nomenologie
des sittliche Bewusstseins, 1879) la rac- colta dei dati empirici della
coscienza morale, in- dipendente dalla loro interpretazione speculativa. Ma
l’unica nozione oggi viva di F. è quella (correlativa al significato 3° di
fenomeno) annun- ziata da Husserl nelle Ricerche logiche (1900-01, II, pag. 3
sgg.) e poi da lui stesso sviluppata nelle opere successive. Husserl medesimo
si è preoc- cupato di eliminare la confusione tra psicologia e fenomenologia.
La psicologia, egli ha detto, è una scienza di dati di fatto; i fenomeni che
essa con- sidera sono accadimenti reali e si inseriscono, in- sieme con i
soggetti a cui appartengono, nel mondo spazio-temporale. La F. invece (che egli
chiama 4 pura » o «trascendentale ») è una scienza di es- senze (perciò
«eidetica +) e non di dati di fatto; ed è resa possibile solamente dalla
riduzione eide- tica che per l'appunto ha il compito di purificare i fenomeni psicologici
dalle loro caratteristiche reali o empiriche e di portarli sul piano della
generalità essenziale. La riduzione eidetica, cioè la trasforma- zione dei
fenomeni in essenze, è anche riduzione fenomenologica in senso stretto perchè
trasforma tali fenomeni in irrealtà (Ideen, I, Intr.). In questo significato,
la F. costituisce un indirizzo filosofico particolare che pratica la filosofia
come ricerca fe- nomenologica cioè avvalendosi della riduzione fe- nomenologica
e della epoché (v.). I risultati fon- damentali cui questa ricerca ha condotto
per opera di Husserl possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° il
riconoscimento del carattere intenzionale della coscienza (v.), per il quale la
coscienza è un movimento di trascendenza verso FENOMENOLOGIA l'oggetto e per il
quale l’oggetto stesso si dà o si presenta alla coscienza «in carne e ossa? o
«in persona +; 2° l’evidenza della visione (intuizione) dell’oggetto dovuta
alla presenza effettiva dell’og- getto stesso; 3° la generalizzazione della
nozione di oggetto, che comprende non solo le cose mate- riali ma anche le
forme categoriali, le essenze e in generale gli «oggetti ideali » (/deen, I, $
15); 4° il carattere privilegiato della « percezione immanente » cioè della
coscienza che l'io ha delle proprie espe- rienze, in quanto apparire ed essere
coincidono perfettamente in questa percezione, mentre non coincidono nella
intuizione dell’oggetto esterno il quale non si identifica mai con le sue
apparizioni alla coscienza ma rimane al di là di esse (/bid., $ 38). Non tutti
questi capisaldi sono accettati dai pen- satori contemporanei che si avvalgono
della ricerca fenomenologica: soltanto il primo di essi cioè il riconoscimento
del carattere intenzionale della co- scienza per cui l’oggetto è trascendente
rispetto ad essa € tuttavia presente «in carne e ossa? trova credito non solo
presso questi pensatori ma in una ampia cerchia di filosofi contemporanei.
Della ri- cerca fenomenologica si è avvalso Nicolai Hart- mann per la
fondazione del suo realismo (v.) meta- fisico; Scheler per la sua analisi delle
emozioni (v.) e Heidegger come metodo per la sua ontologia. Quest'ultimo
esprime con tutta chiarezza il carat- tere proprio della F. quando afferma: «
L’espres- sione ‘ F.’ significa prima di tutto un concetto di metodo. Essa non
caratterizza la consistenza di fatto dell'oggetto dell’indagine filosofica,
bensì il suo come... Il termine esprime un motto che po- trebbe venir formulato
così: alle cose stesse! E ciò in contrapposizione alle costruzioni campate in aria
e ai trovamenti causali; in contrapposizione all’accettazione di concetti solo
apparentemente giustificati ed ai problemi apparenti che si impon- gono da una
generazione all’altra come veri pro- blemi » (Sein und Zeit, $ 7). Pertanto ciò
che la F. mostra è ciò che innanzitutto e per lo più mon si manifesta, ciò che
è nascosto; ma che tuttavia è tale da esprimere il senso e il fondamento di ciò
che innanzitutto e per lo più si manifesta. E in questo senso la F. è la sola
possibile ontologia (Ibid., $ 7 C). In modo analogo la F. viene intesa da
Sartre (L’étre et le néant, Intr., $ 1-2) e da Merleau-Ponty (Phénoménologie de
la perception, Pref.). L'impostazione fenomenologica della filo- sofia non
implica pertanto la riduzione dell'esi- stenza all’apparenza e non si può a
nessun titolo scambiare per fenomenismo (v.). Il concetto stesso di fenomeno
cui si fa riferimento è in questo caso diverso. Essa d’altronde non implica
neppure la eliminazione della differenza tra l’apparire e l’es- sere, sebbene
venga senz’altro eliminato il vecchio FIDEISMO dualismo. Dice, per es., Sartre:
« Il fenomeno d’es- sere esige la transfenomenalità dell’essere. Ciò non vuol
dire che l’essere si trovi nascosto dietro i fe- nomeni (abbiamo visto che il
fenomeno non può mascherare l'essere), nè che il fenomeno sia una apparenza che
rinvia a un essere distinto (solo in quanto apparenza il fenomeno è, esso cioè
si indica sul fondamento dell’essere). Ma l’essere del feno- meno, per quanto
coestensivo col fenomeno, deve sfuggire alla condizione fenomenica — che è
quella per cui si esiste solo in quanto ci si manifesta — e per conseguenza
trascende e fonda la conoscenza che se ne ha» (L’érre et le néant, Intr., $ 2).
Il rapporto tra l’apparenza e l’essere, nell’ontologia fenomenologica, può
essere variamente definito o analizzato, ma tuttavia non si modella sul
rapporto tradizionale di apparenza e realtà. FENOMENO ORIGINARIO. V. UrpHANo-
MENON. FERIO. Parola mnemonica usata dagli Scola- stici per indicare il quarto
modo della prima figura del sillogismo, precisamente quello che consiste di una
premessa universale negativa, di una premessa particolare affermativa e di una
conclusione partico- lare negativa come nell’esempio: « Nessun animale è
pietra, Alcuni uomini sono animali, Dunque al- cuni uomini non sono pietra»
(Pretro IsPano, Summul. logic., 4.07). FERISON. Parola mnemonica usata dagli
Sco- lastici per indicare il sesto dei sei modi del sillogismo di terza figura
e precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una
pre- messa particolare affermativa e di una conclusione particolare negativa
come nell'esempio: « Nessun uomo è pietra, Qualche uomo è animale, Dunque
qualche animale non è pietra» (Pietro IsPaNO, Summa. logic., 4.15). FESPAMO.
Parola mnemonica usata dalla Lo- gica di Portoreale per indicare l’ottavo modo
del sillogismo di prima figura (cioè il Fapesmo) con la modificazione di
assumere per premessa mag- giore la proposizione in cui entra il predicato
della conclusione. L'esempio è il seguente: « Nessuna virtù è una qualità
naturale, Ogni qualità naturale ha Dio come primo autore, Dunque ci sono qua-
lità che hanno Dio per autore, che non sono virtù » (ARNAULD, Logique, III, 8).
FESTINO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il terzo dei
quattro modi della seconda figura del sillogismo e precisamente quello che
consiste di una premessa universale negativa, di una premessa particolare
affermativa e di una conclusione particolare negativa, come nell’esempio:
Nessuna pietra è animale, Qualche uomo è ani- male, Dunque qualche uomo non è
pietra » (Pietro Ispano, Sunmul. logic., 4.11). 389 FETICISMO (ingl. Ferishism;
franc. Fétichisme; ted. Fetichismus). Propriamente la credenza nel po- tere
soprannaturale o magico di particolari oggetti materiali (fericci dal
portoghese fetico = artificiale). Più generalmente, l’atteggiamento di chi
consideri animati gli oggetti materiali, e i tipi di religione o di filosofia
fondati su questa credenza. In questo secondo significato il termine è ora
caduto in disuso perchè sostituito da animismo (v.). I filosofi adoperano la
parola più spesso in senso dispregia- tivo; per es., Mach chiamò F. la credenza
nei con- cetti di causa e di volontà (Popularwissenschaftliche Vorlesungen,
1896, pag. 269). Comte aveva esaltato il F. considerandolo in qualche modo
affine al positivismo: in quanto entrambi vedono in tutti gli esseri una
attività che è analoga o simile a quella umana e così stabiliscono quell’unità
fondamentale del mondo che è espressa nella teoria del Grande Essere (Politique
Positive, III, pag. 87; IV, pag. 44). Kant, dall’altro lato, chiamò F. la
religione magica cioè la religione di chi si serve di certe azioni, che di per
sè non contengono nulla di gradito a Dio cioè di morale, come mezzi per
acquistare il favore divino e per soddisfare i propri desideri. In questo senso
il sacerdozio è « la costituzione di una chiesa in cui regna un culto
feticista, il quale si incontra là dove, non già principi di moralità, ma
coman- damenti statutari, regole di fede e osservanze co- stituiscono il
fondamento e l’essenza del culto» (Religion, IV, sez. 2, $ 3). FICHTISMO. V.
ROMANTICISMO. FIDEISMO (ingl. Fideism; franc. Fidéisme; ted. Fideismus). Si
chiamò con questo termine l’indirizzo filosofico-religioso sostenuto, nei primi
decenni del sec. xrx, dall’abate Bautain, da Huet, da Lamennais e da
quest’ultimo specialmente nell'opera Essais sur l’indifférence en matière de
religion (1817-23): indirizzo che consiste nel contrap- porre alla ragione «
individuale » una ragione « co- mune » che sarebbe una specie di intuizione
delle verità fondamentali comuni a tutti gli uomini. Questa intuizione
troverebbe la sua origine in una rivela- zione primitiva e si trasmetterebbe
mediante la tradizione ecclesiastica; essa sarebbe perciò a fon- damento della
fede cattolica. La dottrina era diretta a giustificare il primato della
tradizione ecclesia- stica. In realtà negava alla chiesa la prerogativa di
essere l’unica depositaria della tradizione au- tentica e negava alla
tradizione l’appoggio della ragione. Dopo la condanna della chiesa (1834), il termine
assunse, presso gli scrittori cattolici, un significato peggiorativo. Si
continuò tuttavia e si continua a usare, per indicare in generale ogni atteggiamento
che veda nella fede uno strumento di conoscenza superiore alla ragione e
indipendente dalla ragione stessa. 390 FIGURA (gr. oyfpua; lat. Figura; ingl.
Figure; franc. Figure; ted. Figur, Gestalt). 1. Con questo termine sono
tradizionalmente chiamate le forme fondamentali del sillogismo, distinte dai
modi (v.) che sono specificazioni di tali forme. Aristotele di- stinse le varie
figure del sillogismo a seconda della funzione del termine medio che è quello
che serve a dimostrare l’inerenza del predicato al soggetto della conclusione.
Nella prima F., il termine medio fa da soggetto nella premessa maggiore e da
pre- dicato nella premessa minore. Nella seconda F., fa da predicato in
entrambe le premesse, una delle quali è negativa, e la conclusione è anche
negativa. Nella rerza F., fa da oggetto in entrambe le premesse e la
conclusione è particolare. La tradizione at- tribuisce a Galeno, il famoso
medico e filosofo aristotelico del rr secolo d. C., la distinzione di una
quarta F., cioè quella nella quale il termine medio funge da predicato nella
premessa maggiore e da soggetto nella premessa minore: i modi di questa F. erano
stati compresi da Aristotele tra quelli della prima. La separazione fu fatta
perchè si definì come premessa maggiore quella che comprende il predi- cato
della conclusione e come premessa minore quella che comprende il soggetto della
conclusione stessa (PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 570 sgg.). Ogni F. si
distingue a sua volta in un certo numero di modi a seconda della qualità e
della quantità delle proposizioni costituenti le premesse e la conclusione:
cioè a seconda che le premesse e la conclusione sono, ciascuna, universale o
partico- lare, affermativa o negativa. Poichè nella Scolastica si adoperò la
lettera A per indicare la proposizione universale affermativa, la lettera E per
indicare quella universale negativa, la lettera Z per indicare la proposizione
particolare affermativa e la let- tera O per indicare laproposizione
particolare ne- gativa (donde i versi: A affirmat, negat E, sed uni- versaliter
ambae, I firmat, negat O, sed particulariter ambae), si formarono parole
mnemoniche per in- dicare i vari modi del sillogismo cioè parole, nelle quali
le prime due vocali indicano le premesse e la terza la conclusione. Così i nove
modi della prima F. furono indicati con le parole: Barbara, Celarent, Darii,
Ferio, Baralipton, Celantes, Debitis, Fapesmo, Frisemorum. I quattro modi della
seconda F. furono indicati con le parole: Cesare, Camestres, Festino, Baroco. I
sei modi della terza F. furono indicati con le parole: Darapti, Felapto,
Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Gli ultimi quattro modi della prima F. sono
quelli che si attribuiscono alla quarta F., quando viene distinta. Le iniziali
delle parole mnemoniche hanno anche un signifi- cato. Tutti i modi indicati da
una parola che co- mincia con 8 sono riducibili al primo modo della prima F.;
quelli indicati da una parola che co- FIGURA mincia con C sono riducibili al
secondo modo della prima F.; quelli indicati da una parola che comincia con D
al terzo e quelli indicati con una parola che comincia con F al quarto modo
della prima F. (cfr. sull’uso delle parole mnemoniche Pietro Ispano, Summ.
Log., 4.18 sgg.). Per i sin- goli modi, v. le relative parole. 2. Con lo stesso
termine, che traduce il tedesco
Gestalt, si indicano le determinazioni
della feno- menologia dello spirito di Hegel. Queste determina- zioni sono «
figure della coscienza » (Phdnomen. des Geistes, pref., ed. Glockner, pag. 36 e
passim) o « gradi della via già tracciata e spianata » dallo Spi- rito
universale; cioè tappe attraverso le quali la coscienza è giunta alla coscienza
di sè come Co- scienza infinita o assoluta. Come è noto, tra le F. della
fenomenologia Hegel include anche crea- zioni fantastiche: il che stabilisce
una differenza fra tali F. e le caregorie che costituiscono l’oggetto
dell’Enciclopedia. Le categorie sono infatti deter- minazioni necessarie e
necessariamente reali. FIGURAE DICTIONIS (FALLACIA). Pa- ralogismo in dictione
(v. FALLACIA), consistente in un erroneo uso grammaticale nelle premesse, che
genera conseguenze paradossali o conseguenze gram- maticalmente impossibili (a
Omnis homo est albus, mulier est homo, ergo mulier est albus»). Cfr. ARI-
STOTELE, Soph. El., 4, 166b 10; Pietro IsPano, Summ. Log., 7.34 sgg.; JunGIUs,
Logica Hamb., VI, 7; ecc. G. P. FILANTROPIA (gr. puav9porta; lat. Philan-
thropia; ingl. Philanthropy; franc. Philanthropie; ted. Philanthropie).
L'amicizia dell’uomo verso l’altro uomo. Così la intesero Aristotele (Et. Nic.,
VIII, 1, 1155, a. 20) e gli Stoici, i quali la attribui- rono al legame
naturale per cui tutta l'umanità costituisce un solo organismo. «Ne deriva,
dice Cicerone, che è naturale anche la reciproca solida- rietà degli uomini tra
loro, per cui necessariamente un uomo non può risultare un estraneo per un
altro uomo, per il fatto stesso che è uomo» (De fin., III, 63). Diogene Laerzio
ne attribuisce il con- cetto anche a Platone, che l’avrebbe diviso in tre
aspetti: il saluto, l’aiuto, l’ospitalità (Diog. L., III, 98). Nel linguaggio
moderno, il significato del termine si è ristretto al secondo degli aspetti di-
stinti da Platone. L'atteggiamento generale di be- nevolenza verso gli uomini è
spesso oggi chiamato altruismo (v.). FILAUTIA. V. AMOR DI sè. FILODOSSIA (gr.
quodotta; lat. Philodoxy; franc. Philodoxie; ted. Philodoxie). La parola (che propriamente
significa «amore di gloria +) fu ado- perata da Platone per indicare gli
«amanti della opinione » in contrapposizione agli « amanti della scienza » che
sono i filosofi. Gli amanti dell’opi- FILOSOFIA nione sono quelli a cui piace
ascoltare belle voci, guardare bei colori, ecc., ma che sono alieni dal considerare
il bello come un essere a sè (Rep., V, 480 a). Kant ha chiamato F.
l’atteggiamento di coloro che rigettano non solo il metodo della cri- tica, da
lui proposto, ma anche il metodo della fondazione di Wolff, che consiste nel
procedere stabilendo i princìpi, definendo i concetti e cercando il rigore
nelle dimostrazioni (Crift. R. Pura, Pre- fazione alla 28 ediz.). FILOGENESI.
V. BiogENETICA, LEGGE. FILOLOGIA (gr. quoroyla; lat. Philologie; ingl.
Philology; franc. Philologie; ted. Philologie). Amore dei discorsi, intendeva
Platone (Teer., 161 a) con questa parola che, nell’età moderna, è passata a
designare la scienza della parola o meglio lo studio storico del linguaggio.
Vico contrappose filo- sofia e F.: « La filosofia contempla la ragione onde
viene la scienza del vero; la F. osserva l’autorità dell’umano arbitrio, onde
viene la coscienza del certo + (Scienza Nuova, degn. 10). Compito dei filo-
logi sarebbe « la cognizione delle lingue e dei fatti dei popoli ». F. e
filosofia si completano nel senso che i filosofi dovrebbero « accertare » le
loro ragioni con l'autorità dei filologi e i filologi dovrebbero «avverare » le
loro autorità con la ragione dei filo- sofi. Nel concetto moderno, la F. è la
scienza che ha per fine la ricostruzione storica della vita del passato
attraverso il linguaggio e quindi i docu- menti letterari di esso. I progetti e
i risultati di questa scienza, così come si è venuta formando soprattutto nel
sec. xIx, vanno perciò molto al di là del modesto compito, al quale avrebbero
vo- luto confinarla i filosofi dell’idealismo romantico. Già Hegel polemizzava
contro «i filologi » cioè gli storici che facevano il loro mestiere, in nome
della storia filosofica, la sola capace di scoprire a priori il piano
provvidenziale del mondo (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 8 sgg.).
Croce nello stesso senso chiamava storia filologica la storia degli storici
alla quale contrapponeva la storia « specu- lativa » che identificava con la
filosofia (CROCE, Teoria e storia della storiografia, 1917; La storia come
pensiero e come azione, 1938). In realtà, la storia filologica è la storia
degli storici, mentre la storia speculativa non è che la concezione
provvidenzialistica del mondo storico, che non ha nulla a che fare con la
storiografia scien- tifica (v. STORIOGRAFIA). L'aggettivo filologico non può
neppure essere applicato a designare forme piatte e mal riuscite di
storiografia giacchè la F. non è per nulla responsabile di esse. E anche quella
funzione di conservazione e di ripristino del ma- teriale documentario e delle
fonti che Nietzsche chiamò storia archeologica (v.) non è un tipo infe- riore
di storia, perchè è possibile solo sul fonda- 391 mento di un interesse
intelligente che guidi le scelte opportune e le faccia servire all’opera della
critica e della ricostruzione storica. FILOSOFEMA (gr. quootpnua; lat. Philoso- phema; ingl.
Philosopheme; franc. Philosophème; ted.
Philosophem). In generale, discorso filosofico. Nella logica di Aristotele
(Top., VIII, 11, 162 a 15) è il «ragionamento dimostrativo». Fuori della
logica: concetto o luogo comune filosofico. In questo secondo senso è usato da
Aristotele stesso (De caelo, II, 13, 294a 19) e dalla tradizione po- steriore.
G. P.-N. A. FILOSOFIA (gr. quocopla; lat. Philosophia; ingl. Philosophy; franc.
Philosophie; ted. Philoso- phie). La disparità delle F. si
riflette ovviamente nella disparità dei significati di « F. » senza tuttavia impedire
di riconoscere in essi alcune costanti. Fra esse, meglio si presta a connettere
e articolare i significati diversi del termine la definizione illu- strata
nell’Eutidemo platonico: la F. è l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo.
Platone osserva che a nulla servirebbe possedere la scienza di conver- tire le
pietre in oro se non si sapesse servirsi del- l'oro; a nulla servirebbe la
scienza che rendesse immortale se non si sapesse servirsi dell’immorta- lità; e
via dicendo. Occorre dunque una scienza nella quale coincidono il fare e il
sapersi servire di ciò che si fa; e questa scienza è la F. (Eurid., 288 e-290
d). Secondo questo concetto, la F. im- plica: 1° il possesso o l'acquisto di
una conoscenza che sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile; 2°
l’uso di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo. Questi due elementi ricorrono
frequen- temente nelle definizioni che sono state date della F. in epoche
diverse e da diversi punti di vista. Essi
si riscontrano, per es., nella
definizione di Cartesio, secondo la quale «questa parola F. significa lo studio
della saggezza e per saggezza non s’intende soltanto la prudenza negli affari
ma una perfetta conoscenza di tutte le cose che l’uomo può cono- scere sia per
la condotta della sua vita sia per la conservazione della sua salute e
l’invenzione di tutte le arti» (Princ. Phil., Pref.). Si ritrovano ugualmente
nella definizione di Hobbes, per la quale la F. è da un lato conoscenza
causale, dal- l'altro utilizzazione di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo
(De Corp., 1, $ 2, 6); e in quella di Kant che definisce il concetto cosmico
della F. (cioè il concetto di essa che interessa necessariamente ogni uomo)
come quello di « una scienza della re- lazione di ogni conoscenza al fine
essenziale della ragione umana» (Crift. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap.
III). Questo fine essenziale è la « feli- cità universale»: la F. pertanto
«riferisce tutto alla saggezza, ma per la via della scienza» (/bid., in fine).
Non diverso significato ha la definizione 392 della F. data da Dewey come
«critica dei valori » cioè « critica delle credenze, delle istituzioni, dei co-
stumi, delle politiche, rispetto alla loro portata sui beni» (Experience and
Nature, pag. 407). Queste definizioni (che si adducono qui solo come esempi) si
lasciano tutte ricondurre alla formula platonica che
abbiamo citato in principio. Quella
formula ha il vantaggio di non assumere nulla circa la natura e i limiti del
sapere accessibile all'uomo o circa gli scopi cui l’uso può essere indirizzato.
Si può per- tanto intendere quel sapere sia come rivelazione o possesso sia
come acquisto o ricerca; e l’uso di esso può essere inteso come diretto alla
salvezza ultra- mondana o terrena dell’uomo come all’acquisto di beni
spirituali o materiali o alla realizzazione di rettifiche o mutamenti nel
mondo. Pertanto quella formula appare adatta ugualmente ad esprimere i compiti
disparati che la F. si è di volta in volta assunti. E, per es., essa esprime
egualmente bene sia il compito delle F. positive o dogmatiche sia quello delle
F. negative o scettiche. Quando lo scetticismo antico si propone di realizzare,
mediante la sospensione dell’assenso, l’imperturbabilità del- l’anima (Sesto
E., /p. Pirr., I, 25-27) non fa che intendere la F. come l’uso di un certo
sapere per conseguire un vantaggio. Analogamente quando, nella F.
contemporanea, Wittgenstein afferma che lo scopo della F. è quello di far
sparire gli stessi problemi filosofici e di eliminare la F. stessa o di «
guarire» da essa (Philosophical Investigations, $ 133) non fa appello ad un
concetto diverso di F.: la liberazione dalla F. è il vantaggio che l’uso del sapere
(che è in questo caso la rettificazione lin- guistica di esso) può procurare. I
due elementi riconoscibili della definizione della F., che si è ritenuta adatta
ad apprestare il quadro delle articolazioni principali del significato del
termine, costituiscono già di per se stessi la prima di tali articolazioni. Si
possono in altri ter- mini distinguere i significati storicamente dati del termine:
1° rispetto alla natura o alla validità del sapere cui la filosofia fa
riferimento; 2° rispetto alla natura dello scopo cui la F. intende indiriz- zare
l’uso di questo sapere. Infine, 3° si possono distinguere i significati del
termine rispetto alla natura del procedimento che si ritiene proprio della filosofia.
I. La filosofia e il sapere. — L’uso del sapere al quale l'uomo, a qualsiasi
titolo, accede, è, in primo luogo, un giudizio sull’origine o la validità di
tale sapere. E a proposito del giudizio sulla va- lidità del sapere, si offrono
subito due alternative fondamentali che stabiliscono la distinzione fra due tipi
diversi ed opposti di filosofia. La prima alter- nativa stabilisce l’origine
divina del sapere: esso è per l’uomo una rivelazione o un dono. La seconda FILOSOFIA
alternativa stabilisce l’origine umana del sapere: esso è un acquisto o una
produzione dell’uomo. La prima alternativa è la più antica e la più fre- quente
nel mondo, dal momento che è quella di gran lunga prevalente nelle F.
orientali. La seconda alternativa è quella sorta in Grecia e di cui il mondo occidentale
moderno è l’erede. A) Secondo la prima alternativa, il sapere è una rivelazione
o illuminazione divina di cui sono stati privilegiati uno o più uomini e che si
tra- smette per tradizione in un gruppo altrettanto pri- vilegiato di uomini
(casta, setta o chiesa). Esso non è quindi accessibile ai comuni mortali se non
per il tramite di coloro che ne sono i depositari; nè è possibile, ai comuni e
non comuni mortali, incre- mentarne il patrimonio o giudicarne la validità. Fa parte
integrante di questa interpretazione dell’ori- gine del sapere la credenza che
anche l’uso di esso a vantaggio dell'uomo — vantaggio che in questo caso è la
«salvezza» — sia dettato o prescritto dalla rivelazione o illuminazione divina.
Sembra dunque che questa interpretazione elimini o renda superfluo il «lavoro »
filosofico che verte appunto su quest’uso. Ma in realtà ciò accade di rado. L'esigenza
di avvicinare la verità rivelata alla co- mune comprensione umana, di adattarla
alle cir- costanze e far sì che essa risponda ai problemi nuovi o mutati che
gli uomini si pongono, di di- fenderla contro negazioni, deviazioni,
incredulità dichiarate o nascoste, fa sì che il lavoro filosofico trovi, in
questa concezione del sapere, un vasto campo per esplicarsi e compiti
molteplici cui far fronte. Tale lavoro rimane però subordinato e ancillare: non
è e non può essere decisivo, quando si tratta delle interpretazioni
fondamentali e delle istanze ultime. Trova nella rivelazione e nella tra- dizione
limiti insuperabili che gli vietano ogni pos- sibilità di sviluppo in direzioni
diverse da quelle che esse determinano. Non può combattere e di- struggere le
credenze stabilite, opporsi radicalmente alla tradizione, promuovere o
progettare rinnova- menti radicali. La sua funzione è quella di con- servare le
credenze stabilite, non di rinnovarle o rettificarle: è perciò una funzione
subordinata e strumentale, priva della autonomia e della dignità di una forza
direttiva. Si è già detto che quasi tutte le F. orientali sono di questa
natura: il che ha fatto talora dubitare che possano chiamarsi filosofie. Ma in
realtà lo stesso mondo occidentale offre frequentemente esempi di F. di questo
genere, per quanto nes- suna di esse presenti in tutto il loro rigore i ca- ratteri
ora esposti. Dal nome del più importante di questi esempi, le forme che questo
tipo di F. ha assunto nel mondo occidentale si possono chia- mare scolastiche.
Una scolastica, a differenza di una FILOSOFIA F. di schietto tipo orientale,
presuppone una F. au- tonoma e si avvale di essa; ma se ne avvale per la difesa
e l'illustrazione di una verità religiosa cioè per confermare o difendere
credenze la cui validità si ritiene stabilita in anticipo e indipendentemente da
ogni conferma o difesa. Una scolastica, come dice la parola stessa, è
essenzialmente uno stru- mento di educazione: serve ad avvicinare l’uomo, per
quanto è possibile, a un sapere ritenuto immu- tabile nelle sue linee
fondamentali, perciò non su- scettibile di essere rettificato o rinnovato. Tra
i compiti, d’altronde molteplici come sono molte- plici le vie di accesso
dell'uomo alla verità e gli ostacoli che si incontrano su queste vie, che una
F. scolastica riconosce a se stessa, non c’è l’eventuale abbandono delle
credenze di cui essa è l’interprete. Le sètte filosofico-religiose del n secolo
a. C. (per es., gli Esseni), le dottrine di Filone di Alessandria (1 secolo d.
C.) e di molti Neoplatonici, la F. isla- mica e giudaica, la Patristica e la
Scolastica nonchè, nel mondo moderno, l’occasionalismo, l’immate- rialismo, la
Destra hegeliana e buona parte dello spiritualismo contemporaneo, sono
scolastiche nel senso ora chiarito: cioè F. che consistono nell’uti- lizzare
una determinata dottrina (il platonismo, l’aristotelismo, il cartesianesimo,
l’empirismo, l’idea- lismo, ecc.) per la difesa e l’interpretazione di cre- denze
che non possono, attraverso questo lavoro, essere revocate in dubbio,
rettificate o negate. Cer- tamente queste diverse scolastiche posseggono gradi di
libertà diversi e tali gradi variano talvolta, per ciascuna di esse, da un
periodo all’altro. S. Tom- maso, per es., mentre conferisce alla « F. umana» una
certa autonomia in quanto riconosce propria di essa la considerazione e lo
studio delle cose create in quanto tali cioè la loro natura e le loro proprie
cause (Contra Gent., II, 4), ritiene tuttavia impossibile che essa possa
contraddire le afferma- zioni della fede cristiana la quale dev’essere assunta come
regola del corretto procedere della ragione (Ibid., 1, 7). Per quanto F. di
questo genere pos- sano conseguire risultati importanti, che entrano a far
parte del patrimonio filosofico comune, il loro ambito è strettamente
delimitato dal problema su cui sono impostate, della difesa delle credenze tradizionali:
le loro possibilità non si estendono alla rettificazione e al rinnovamento di
tali cre- denze. B) Per la seconda alternativa, il sapere è un acquisto o una
produzione dell’uomo. Il fonda- mento di questa concezione è che l’uomo è un «
ani- male ragionevole » e che perciò « tutti gli uomini, come dice Aristotele
all’inizio della Metafisica (980 a 21), tendono per natura al sapere»: ten- dono
vuol dire qui che non solo lo desiderano ma possono conseguirlo. Il sapere, da
questo punto di 393 vista, non è privilegio o patrimonio riservato di pochi;
ognuno può contribuire al suo acquisto e al suo incremento e ha perciò voce in
capitolo per giudicarlo: cioè per approvarlo o rigettarlo. La ricerca e
l’organizzazione del sapere è, da questo punto di vista, il compito
fondamentale della filo- sofia. Quando Tucidide (II, 40) fa dire a Pericle: «Noi
amiamo il bello con moderazione e filoso- fiamo senza timidezza» esprime
certamente l’at- teggiamento dello spirito greco dal quale è nata la F. in
questo secondo significato del termine. Pericle non alludeva a una disciplina
specifica ma alla ricerca del sapere condotta senza impegni pre- giudiziali o
con l’unico impegno di saggiare e mettere a prova ogni credenza possibile. In
questo senso la F. è una creazione originale dello spirito greco e una
condizione permanente della cultura occidentale. Essa è l’impegno che ogni
ricerca, in qualsiasi campo condotta, obbedisca soltanto alle limitazioni o
alle regole che essa stessa riconosca valide in vista della propria possibilità
e della propria efficacia discopritrice o confermatrice. La F. in questo senso
si contrappone alla tradizione, al pregiudizio, al mito, e in generale alla
credenza infondata o non giustificata che i Greci chiamavano opinione. Il
contrasto tra l’opinione e la scienza, tra l’amore dell’opinione e l’amore
della sapienza, è quello su cui più frequentemente insiste Platone nel chiarire
il concetto di F. (Rep., V, 480 a). La F. come ricerca è da Platone
contrapposta da un lato all’ignoranza dall’altro alla sapienza. L'ignoranza è
l’illusione della sapienza e distrugge l'incentivo della ricerca (Conv., 204
a). Dall’altro lato la sa- pienza, che è il possesso della scienza rende
inutile la ricerca: gli Dei non filosofano (/bid., 204 a; Teet., 278 d). La
ricerca definisce lo status proprio della filosofia. Già Eraclito aveva detto:
« È neces- sario che gli uomini filosofi siano buoni indagatori di molte cose»
(Fr. 35, Diels). In quanto ricerca, la F. è «acquisto», come diceva Platone
(Eutid., 288 d), o « sforzo », come dicevano gli Stoici (SESTO EMPIRICO, Adv.
Math., IX, 13) o «attività », come dicevano gli Epicurei (/bid., XI, 169). Ma
se la F. è l’impegno che fa del sapere una ricerca, essa condiziona il sapere
effettivo, che è «conoscenza » o «scienza ». Nel giudizio che la F. stessa dà
su di esso, questo condizionamento può assumere tre forme che definiscono tre
conce- zioni fondamentali della F., quella metafisica, quella positivistica e
quella critica. 1° Per la prima di esse, la F. è l’unico sapere possibile e le
altre scienze, in quanto tali, coincidono con essa o sono parti o preparazione
di essa; 2° per la seconda di esse, la conoscenza è propria delle scienze
particolari e la F. ha il compito di coordinare o unificare i loro risultati;
3° per la terza di essa, la F. è giudizio 394 sul sapere cioè valutazione delle
sue possibilità e dei suoi limiti, in vista del suo uso umano. 1° La prima
concezione della F. è quella me- tafisica, dominante nell’antichità e nel
Medioevo e che ancora oggi è propria di molti indirizzi filosofici. La sua
caratteristica principale è la negazione di ogni possibilità di ricerca
autonoma fuori della filo- sofia. Una conoscenza o è conoscenza filosofica o non
è conoscenza affatto. Si ammette spesso che esista, fuori della F., un sapere
imperfetto, provvi- sorio o preparatorio; ma si nega che tale sapere possegga,
per suo conto, validità conoscitiva. Così Platone da un lato chiama « F.» la
geometria e le altre scienze specialmente in riferimento alla loro funzione
educativa (Teer., 143 d; Tim., 88 c); dall'altro considera tali scienze
(aritmetica e geo- metria, astronomia e musica) come semplicemente
propedeutiche alla F. vera e propria cioè alla dia- lettica, la quale avrebbe
fra l’altro il compito di «scoprire la comunanza e la parentela reciproca delle
scienze e dimostrare le ragioni per cui sono connesse l’una con l’altra »
(Rep., VII, 531 d). Ari- stotele definisce la F. come la «scienza della ve-
rità » (Mer., II, 1, 993b 20) nel senso che essa comprende tutte le scienze
teoretiche cioè la F. prima, la matematica e la fisica e lascia fuori di sè
soltanto l’attività pratica: ma anche questa deve ricorrere alla F. per essere
in chiaro della propria natura e dei propri fondamenti. Sia Platone che
Aristotele ammettono come scienza prima una di-
sciplina determinata, che per Platone è
la dialettica, per Aristotele è la F. prima o teologia; ma questa disciplina
determinata è per essi anche la più ge- nerale. La dialettica infatti, come si
è visto, con- sente di intendere il collegamento e la natura comune delle
scienze; e la F. prima, come scienza dell’es- sere in quanto essere, ha per
oggetto specifico quell’essenza necessaria o sostanza, che è compito di ogni
scienza indagare nel suo campo particolare (De part. anim., I, 5, 645 a 1). Altre
volte, invece, la F. viene risolta nelle discipline particolari senza che nessuna
di esse risulti privilegiata. Così facevano gli Epicurei che la dividevano in
canonica, fisica ed etica (Dio. L., X, 29-30); e gli Stoici che la di- videvano
in logica, fisica ed etica (AEZIO, Plac., I, 2) considerando queste tre parti
unite fra loro come le membra di un animale (Dios. L., VII, 40). Questa
concezione, che identifica l’intero sapere con la F. e si rifiuta di
riconoscere che ci sia o possa esserci un sapere autentico fuori di essa, è sopravvissuta
anche alla costituzione delle scienze particolari in discipline autonome e s’è
conservata sostanzialmente immutata, in certe correnti filoso- fiche, sino ai
giorni nostri. La definizione che Fichte dette della F. come di una «scienza
della scienza in generale» (Uber den Begriff der Wissenschafts- FILOSOFIA lehre
oder der sogenannten Philosophie, 1794, $ 1) non lascia alcuna autonomia alle
scienze particolari perchè, secondo quella definizione, la dottrina della scienza
« deve dare la sua forma non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre
scienze possibili » e costituire così, il « sistema compiuto ed unico nello spirito
umano » (/bid., $ 2). Questa pretesa si è mantenuta inalterata in tutte le
definizioni che l’idealismo romantico ha dato della filosofia. Non altro
significato hanno le notazioni di Schelling, secondo il quale il compito della
F. è di chiarire l'accordo (che è poi identità) dell’oggettivo e del soggettivo
cioè della natura e dello spirito, e nel portare così a compimento la «
tendenza necessaria di tutte le scienze naturali » (System des transzenden- talen
Idealismus, 1800, Intr., $ 1). Esplicitamente Hegel affermava che «le scienze
particolari si oc- cupano degli oggetti finiti e del mondo dei feno- meni »
(Geschichte der Philosophie, Intr., A, $ 2; trad. ital., I, pag. 69); e che
«altra cosa è il pro- cesso di origine e i lavori preparatori di una scienza, altra
cosa la scienza stessa» nella quale quelli scompaiono per essere sostituiti
dalla « necessità del concetto » (Enc., $ 246). Questo vuol dire che sola la F.
è scienza perchè solo essa dimostra «la necessità del concetto », utilizzando e
manipolando a suo modo (come Hegel in realtà fece) il ma- teriale apprestato
dalle cosiddette scienze empi- riche. Pertanto Hegel riservava alla F. il
privi- legio di essere «la considerazione pensante degli oggetti » (/bid., $
2). La conoscenza preliminare o preparatoria è quella che si appoggia su rap- presentazioni;
la conoscenza vera e propria si ha quando, con la F., «lo spirito pensante,
attra- verso le rappresentazioni e lavorando sopra di esse, progredisce alla
conoscenza pensante e al concetto » (Zbid., $ 1). È chiaro che, espresso in questa
forma, il concetto della F. come totalità del sapere è una professione di
superbia filosofica, che era estranea a questo stesso concetto nell’età clas- sica.
In questa età, infatti, quel concetto agiva come lo specifico impegno delle
discipline scientifiche che da esso venivano immesse nella sfera della ricerca disinteressata
e incoraggiate e sorrette nel loro costituirsi concettuale. Ma nella concezione
del- l’idealismo romantico, le scienze particolari ven- gono abbassate alla
funzione di una mera mano- valanza, priva di qualsiasi validità intrinseca. A questa
stessa funzione riducono la scienza sia l’idea- lismo, sia lo spiritualismo. La
definizione della F. come «teoria generale dello spirito » porta Gentile a
considerarla come la coscienza che l'Io assoluto ha di se stesso: coscienza di
cui le conoscenze em- piriche, fondate sulla distinzione dell’oggetto dal soggetto
e degli oggetti tra di loro, è una falsa astrazione (Teoria generale dello
spirito, 1916, ca- FILOSOFIA pitolo 15, $ 2). E nonostante la meno appariscente
formulazione, la definizione data da Croce della F. come « metodologia della
storiografia », implica la stessa superbia filosofica. Per Croce la conoscenza storica
è l’unica conoscenza possibile, dato che la storia è l’unica realtà: pertanto
la riduzione della F. a metodologia di tale conoscenza equivale a negare che
sia conoscenza il sapere scientifico: che, infatti, è, per Croce, non un sapere
ma un insieme di espe- dienti pratici (La storia, 1938, pag. 144; Logica, 1908,
I, cap. 2). Dall'altro lato, lo spiritualismo contemporaneo segue
prevalentemente la stessa strada. Bergson fa dell’intuizione l’organo della F. perchè
vede nell’intuizione « la visione diretta dello spirito da parte dello spirito»
(La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 51) cioè lo strumento per
attingere, immediatamente e infallibilmente, quella « durata reale » che è la
realtà assoluta. Il suo riconoscimento della scienza come conoscenza adeguata
del mondo materiale o delle «cose» è puramente fittizio: nè la materia nè le
cose hanno per Bergson realtà come tali perchè non sono che coscienza e la
coscienza può essere autenticamente conosciuta soltanto dalla coscienza stessa:
« Son- dando la sua propria profondità la coscienza non penetra pure
nell’interno della materia, della vita, della realtà in generale? Si potrebbe
contestarlo solo se la coscienza si aggiungesse alla materia come un accidente,
ma noi crediamo d’aver mostrato che una simile ipotesi è assurda o falsa,
secondo il lato per cui la si prende, contraddittoria in se stessa o
contraddetta dai fatti » (/bid., pag. 156-57). Il concetto della F. come
conoscenza privilegiata (su qualsiasi titolo poi si appoggi il privilegio) non
è che una delle tante espressioni del vecchio concetto della F. come sapere
unico ed assoluto. Le tendenze che si sogliono chiamare « metafi- siche+ del
pensiero moderno sono appunto ca- ratterizzate da questo concetto della
filosofia. Hus- serl così espone l’ideale cartesiano della F. che egli dichiara
di far proprio: « Ricordiamo l’idea diret- tiva delle Meditazioni di Cartesio.
Essa mira a una riforma totale della F. per fare di questa una scienza a
fondamenti assoluti. Questo implica, per Car- tesio, una riforma parallela di
tutte le scienze giacchè queste non sono che membri di una scienza univer- sale
che non è altro che la filosofia. Solo nell’unità sistematica di questa, esse
possono diventare ve- ramente scienze» (Carr. Med., 1931, $ 1). Nella sua
ultima opera Husserl poneva, come prima con- dizione della filosofia: «
un’epoché da qualsiasi as- sunzione delle nozioni delle scienze oggettive, da qualsiasi
presa di posizione critica intorno alla ve- rità o falsità della scienza,
un’epoché persino dal- l’idea direttiva della scienza, dall’idea di una cono- scenza
oggettiva del mondo» (Krisis, $ 35). 395 Alla stessa negazione della scienza
mettono capo, nonostante l’ampio riconoscimento della validità del metodo
scientifico, le considerazioni di Jaspers sulla natura della F., giacchè negano
autonomia di strut- tura e di validità alle scienze particolari (Phil., I, pag.
53 sgg.; Existenzphil., 1938, Intr.). Una svalu- tazione ancora più radicale
delle scienze particolari è effettuata da Heidegger, per il quale i presupposti
della scienza moderna sono l'oblio dell'essere, la ri- duzione dell’uomo a
soggetto e del mondo a rap- presentazione (Brief Qber den « Humanismus», in Platos
Lehre von der Wahrheit, 1947, pag. 88). 2° La seconda concezione della F. come
giu- dizio sul sapere è quella che tende a risolverla nelle scienze
particolari, affidandole talvolta la fun- zione specifica di unificare le
scienze stesse o di raccoglierne i risultati in una « visione del mondo ». L’origine
di questa concezione si può vedere in Bacone; il quale concepì la F. come una
scienza che in primo luogo dividesse e classificasse le scienze particolari e
poi mettesse tali scienze in possesso del loro metodo, del materiale di cui
disporre e delle tecniche con cui utilizzare questo materiale a
vantaggio dell’uomo. Nel De Dignitate et
augmentis scientiarum (1623), abbozzando il piano di una en- ciclopedia delle
scienze su base sperimentale, Bacone affidava alla « F. prima» da lui
considerata come «scienza universale e madre delle altre scienze » il compito
di raccogliere « gli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma
comuni a più scienze (De Augm. Scient., III, 1). Hobbes a sua volta
identificava la F. con la conoscenza scienti- fica. «La F., egli dice, è la
conoscenza acquisita, attraverso il corretto ragionamento, degli effetti o fenomeni
a partire dai concetti delle loro cause o generazioni; o reciprocamente la
conoscenza acqui- sita delle generazioni possibili a partire dagli effetti conosciuti
» (De Corp., 1, $ 2). Da questo concetto della F. come coincidente con la
conoscenza scien- tifica e come impegno di chiarirla ed estenderla derivò
quell’uso inglese del termine sul quale già Hegel richiamava l’attenzione
(Enc., $ 7 e nota; Geschichte der Phil., Intr., A, 2; trad. ital., I, pag. 70) secondo
il quale il termine si applicava non solo alla scienza della natura ma anche a
certi strumenti come termometri, barometri, ecc., nonchè ai prin- cìpi generali
della politica: un uso, quest’ultimo, che si è conservato nei paesi
anglosassoni. Per io stesso Cartesio, la F. comprendeva « tutto ciò che lo
spirito umano può sapere » e così veniva in larga misura a coincidere con le
ricerche scientifiche, che d'altronde Cartesio voleva tutte ricondotte a certi
principi fondamentali (Princ. Phil, Pref.). L'intero Illuminismo condivise il
concetto della F. come conoscenza scientifica. « Filosofo, amatore della
saggezza cioè della verità», diceva Voltaire 396 (Dicr. Phil., art.
Philosophe). E lo stesso Wolff ammetteva, accanto alle scienze « razionali » in
cui divideva la F., corrispondenti scienze empiriche, dotate di un metodo
autonomo, che è quello spe- rimentale. Per es., accanto alla cosmologia
generale o scientifica, Wolff ammette una cosmologia spe- rimentale « che trae
dalle osservazioni la teoria che è stabilita o è da stabilirsi nella cosmologia
scienti- fica » (Cosm., $ 4); e riconosce che è possibile, seb- bene non facile
che l’intera teoria della cosmologia generale sia derivata dalle osservazioni
(Zbid., $ 5). Nell'ambito di questo significato, il positivismo sottolineò la
funzione propria della filosofia di riu- nire e coordinare i risultati delle
scienze singole, in modo da realizzare una conoscenza unificata e generalissima.
Questo fu il compito che alla F. as- segnarono Comte e Spencer. Comte vuole che
accanto alle scienze particolari ci sia uno « studio delle generalità
scientifiche », che egli fa corrispon- dere alla «F. prima» di Bacone. Questo
studio dovrebbe « determinare esattamente lo spirito di ciascuna scienza,
scoprire le relazioni e il concate- namento fra le scienze, riassumere,
possibilmente, tutti i loro princìpi propri nel minimo numero di princìpi
comuni, conformandosi incessantemente alle massime fondamentali del metodo
positivo » (Cours de phil. positive, lez. 1, $ 7; lez. 22, $ 3). Il concetto
della F. come scienza generalizzatrice e unificatrice dei risultati delle altre
scienze è stato ed è largamente diffuso nella F. moderna e contem- poranea. È
stato infatti accettato non solo dalle cor- renti positivistiche ma anche da
dottrine spirituali- stiche; le quali ultime talora hanno aggiunto ad esso una
determinazione o condizione limitatrice: quella generalizzazione e unificazione
deve costi- tuire un'immagine del mondo che soddisfi i bisogni del cuore.
Questa è la definizione appunto che della F. dette Wundt: che riconobbe la sua
fun- zione nella « ricapitolazione delle conoscenze parti- colari in una
intuizione del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell’intelletto e i
bisogni del cuore » (Syst. der Phil., 4* ediz., 1919, I, pag. l; Einleitung in
die Phil., 3* ediz., 1904, pag. 5). Da questo punto di vista la F. «è la
scienza universale che deve unificare in un sistema coerente le cono- scenze
universali fornite dalle scienze particolari »: un concetto che ricorre molto
frequentemente nella letteratura filosofica degli ultimi decenni del se- colo
xrx e nei primi del sec. xx in quanto permette alla F. di utilizzare ampiamente
i risultati che la ricerca positiva consegue sia nel campo delle scienze
naturali sia in quello delle scienze dello spirito. Talvolta si tende ad
accentuare, in questa direzione, il carattere unitario e totalitario di questa
scienza universale; in tal caso, come nella definizione di Wundt, la si
considera come una intuizione o FILOSOFIA visione del mondo. Questo concetto è
una deter- minazione ulteriore del concetto della F. come «scienza universale »
cioè unificatrice e generaliz- zatrice. Dice Mach: « Il filosofo cerca di
orientarsi nell’insieme dei fatti in un modo universale, il più completo
possibile... Solo la fusione delle scienze speciali apporterà la concezione del
mondo verso la quale tendono tutte le specialità » (£r- kenntniss und Irrtum,
cap. 1; trad. franc., pag. 14-15). Dilthey mostrò bene questa connessione tra
la F. e le scienze speciali quando scrisse: « La storia della F. trasmette al
lavoro filosofico sistematico i tre problemi della fondazione, della
giustificazione e della connessione delle scienze particolari, insieme al
compito di affrontare il bisogno inesauribile della riflessione ultima
sull’essere, sul fondamento, sul valore, sullo scopo e sulla loro connessione
nella intuizione del mondo, quali che siano la forma e la direzione incui tale
compito viene eseguito » (Das Wesen der Philosophie, in fine; trad. ital., in
Critica della ragione storica, pag. 487). Il rapporto tra la fondazione e
l’unificazione delle scienze e l’intuizione del mondo (in cui propriamente con-
siste la metafisica) è da Simmel configurato come la distinzione tra i due
limiti che definiscono il campo della ricerca filosofica. «L'uno comprende le
condizioni, i concetti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare i
quali non possono in questa trovare soddisfacimento poichè stanno piut- tosto
già alla sua base; nell’altro questa ricerca particolare viene condotta a
completamento e a connessione e messa in rapporto con questioni e concetti che
non hanno nessun posto entro l’espe- rienza e il sapere oggettivo immediato.
Quella è la teoria della conoscenza, questa è la metafisica del campo
particolare in questione» (Soziologie, 1910, pag. 25; cfr. P. Rossi, Lo
storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, pag. 242 sgg.). Ora il primo di
questi compiti è quello che la F. critica aveva riconosciuto proprio della F.
(v. oltre); il secondo di essi è invece quello che aveva attribuito alla F.
l’indirizzo positivistico che fa capo a Bacone. L’ultima manifestazione di
questo concetto della F. nel pensiero contemporaneo è la nozione di « scienza unificata
», propria del neo-empirismo, alla quale è dedicata l’Enciclopedia
internazionale della scienza unificata (dal 1938 in poi). In quest'opera
tuttavia il concetto stesso di unificazione è incerto ed è inteso in modo
diverso dai suoi diversi sostenitori. Neurath la intende come la combinazione
dei risul- tati delle varie scienze e l’assiomatizzazione di essi in un sistema
unico; Dewey come esigenza di esten- dere il posto e la funzione della scienza
nella vita umana; Russell come unità di metodo; Carnap come unità formale o
linguistica; e Morris come dottrina generale dei segni (Intern. Encycl. of
Unified Science, FILOSOFIA I, 1, pag. 20, 33, 61, 70). Il concetto della
filosofia come unificazione o generalizzazione del sapere scientifico continua
tuttavia a ripresentarsi nel mondo contemporaneo; Whitehead, ad es., lo sostiene
(Adventures of Ideas, 1933, IX, $ 2). 3° La terza concezione della F. come
giudizio sul sapere è quella che si può chiamare critica e che consiste nel
ridurre la F., sotto questo rispetto, a dottrina della conoscenza o a
metodologia. Se- condo questa concezione la F. non accresce la quantità del
sapere stesso: essa perciò, non può propriamente chiamarsi « conoscenza ». Il
suo com- pito è piuttosto di saggiare la validità del sapere, determinando i
limiti e le condizioni di esso: le sue possibilità effettive. L’iniziatore di
questo con- cetto della F. è Locke. Già l’intero Saggio è nato,
come egli avverte nella « Epistola al
lettore» che vi è premessa, dal bisogno di « esaminare la capacità della mente
umana e vedere quali oggetti siano alla sua portata e quali invece superiori
alla sua comprensione ». Più esattamente ancora la F. tende a scoprire «quali
sono le possibilità dell’intelli- genza, quale sia l’estensione di queste
possibilità, a quali cose esse siano in certa misura proporzio- nate e dove il
loro soccorso ci viene a mancare » (Saggio, Intr., $ 4). I limiti delle
capacità umane sono da Locke chiaramente riassunti nel terzo capitolo del libro
IV del Saggio. Ma ancora più chiaramente, per ciò che riguarda la F., tali
limiti risultano dall’ultimo capitolo dell’opera dedicato alla divisione delle
scienze. Si distinguono in esso tre scienze principali: la F. naturale o fisica
il cui compito è «la conoscenza delle cose, quali sono nel loro essere proprio,
e la loro costituzione, le loro proprietà e operazioni »; la F. pratica o etica
che è «l'arte di ben dirigere i nostri poteri e i nostri atti al raggiungimento
di cose buone e utili »; e la dottrina dei segni o semiotica o /ogica il cui
compito è di «considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per
l’intendimento delle cose o per tra- smettere ad altri la sua conoscenza»
(/bid., IV, 21, $ 2-4). In questa divisione delle scienze manca la F.: il che
vuol dire che la F. per Locke non è una scienza nel senso in cui la fisica,
l’etica o la logica lo sono, cioè come conoscenza di oggetti, ma è giudizio
sulla scienza stessa cioè critica. Questo punto di vista costituisce uno dei
filoni principali della F. moderna e contemporanea. Hume riconosceva il compito
della F. accademica o scet- tica, da lui professata, nella «limitazione delle nostre
ricerche a quelle materie che meglio si adat- tano alla ristretta capacità
dell’intelligenza umana » (Ing. Conc. Underst., XII, 3). Da
Kant la limi. tazione della conoscenza è assunta come fondamento della validità
della conoscenza stessa, secondo un concetto che già Locke aveva utilizzato.
Per Kant 397 infatti sia le condizioni a priori della conoscenza (intuizioni
pure, categorie), sia le condizioni @ po- steriori di essa (il dato empirico o
intuizione) de- terminano e limitano le possibilità conoscitive nel senso che
non solo escludono certi campi di indagine ma anche fondano la validità o
l’effettività delle possibilità stesse. Kant esprimeva l’intero campo della F.
con le seguenti domande: 1° che cosa posso sapere?; 2° che cosa devo fare?; 3°
che cosa posso sperare?; 4° che cosa è l'uomo? « La metafisica, aggiungeva
Kant, risponde alla prima questione, la morale alla seconda, la religione alla
terza, e l'antropologia alla quarta; ma in fondo si potrebbe tutto ricondurre
all’antropologia, perchè le tre prime questioni si riportano all’ultima. Il
filosofo deve per conseguenza poter determinare: 1° la sor- gente del sapere
umano; 2° l’ambito dell’uso pos- sibile e utile di tutto il sapere; e infine 3°
i limiti della ragione » (Logik, Intr., IIl). L’obiezione di Hegel contro
questo punto di vista, che « voler conoscere prima che si conosca è assurdo non
meno del saggio proposito di quel tale scolastico di imparare a nuotare prima
di arrischiarsi nel- l’acqua » (Enc., $ 10), è una pura boutade. Giacchè la F.
come critica suppone che si sappia già nuo- tare, che ci sia già un sapere
costituito (quello della scienza), a partire dal quale si possono inda- gare le
possibilità di conoscere e determinare i loro limiti. Della dottrina kantiana,
il neocriticismo contemporaneo ha modificato il punto concernente la religione;
e, mantenendo fermo il concetto della F. come critica del sapere, ha
riconosciuto tre di- scipline filosofiche e precisamente la logica, l’etica e
l’estetica; per logica intendendo, il più delle volte, la teoria della
conoscenza. Questa dottrina veniva difesa dalla cosiddetta scuola di Marburgo
(Cohen, Natorp, Cassirer) nonchè dal criticismo francese (Renouvier,
Brunschvicg). Il primato che la gno- seologia o teoria della conoscenza ha
tenuto nella F. contemporanea (e non solo presso le correnti neocriticistiche)
è una conseguenza del concetto della F. come critica del sapere. La gnoseologia
o teoria della conoscenza (v.) è tuttavia caratterizzata da particolari
presupposti e problemi; pertanto il concetto della F. come critica del sapere
non im- plica l’identificazione della F. con la dottrina della conoscenza o
gnoseologia. Quel concetto rimane infatti, anche dopo la crisi e l’abbandono
della gnoseologia ottocentesca, nella forma di analisi dei procedimenti
effettivi della conoscenza scientifica e determinazione dei loro limiti e della
loro validità. Questa analisi è il tema proprio della merodo- logia (v.). La
metodologia si può pertanto consi- derare l’ultima incarnazione della F. come
critica del sapere. Come parte della metodologia o come ulteriore restrizione
del suo compito, si può in- 398 tendere la definizione della F., come «analisi
del linguaggio » che è stata proposta per la prima volta da Wittgenstein nel
Tractatus logico-philosophicus (1922). Wittgenstein, attribuendo «la totalità
delle proposizioni vere» alla scienza naturale, nega che la F. sia una scienza
naturale: questa parola, egli dice « deve significare qualcosa che sta al di
sopra o al di sotto delle scienze della natura, non a fianco di esse » (7racr.,
4. 111). Compito della F. diventa allora la chiarificazione logica del
linguaggio. «La F. non è una dottrina ma un'attività. Un'opera filosofica
consiste essenzialmente in delucidazioni. Frutto della F. non sono ‘
proposizioni filosofiche * bensì il chiarificarsi delle proposizioni. La F.
deve rendere chiare e delimitare con precisione le idee che altrimenti
sarebbero, per così dire, torbide e confuse » (/bid., 4. 112). II. La filosofia
e l’uso del sapere. — Il secondo punto di vista dal quale possono essere
cercate costanti nei significati storicamente attribuiti alla F. e quindi
effettuare divisioni o articolazioni di tali significati è quello espresso
nella seconda parte della definizione che è stata assunta come punto di
partenza di questo articolo: cioè quello per il quale la F. è l’uso umano del
sapere. Due interpre- tazioni fondamentali sono state storicamente date di
questo aspetto della F., e precisamente: a) quella per cui la F. è
contemplativa e costituisce una forma di vita che è fine a se stessa; 5) quella
per cui la F. è attiva e costituisce lo strumento di modificazione o di
correzione del mondo naturale od umano. Secondo la prima interpretazione, la F.
si esaurisce nell’individuo che filosofa; per la seconda inter- pretazione, la
F. trascende l’individuo e concerne propriamente i rapporti con la natura o con
gli uomini, quindi la vita umana associata. Per servirsi di un termine di
chiaro significato storico, si può chiamare « illuministica » questa seconda
interpre- tazione della filosofia. a) Il concetto della F. come contemplazione
è proprio, in primo luogo, delle F. di tipo orientale che pongono come scopo
della F. la salvezza del- l’uomo. La salvezza è difatti la liberazione da ogni
rapporto con il mondo e pertanto la realiz- zazione di uno stato in cui ogni
attività è impos- sibile o priva di senso. In Occidente, il concetto della F.
come contemplazione non è stata la prima forma che il lavoro filosofico ha
assunto (e che è stata invece quella della «saggezza» cioè della F. attiva e
militante) ma è stata la prima carat- terizzazione esplicita di questo lavoro.
Il fondamento di tale caratterizzazione è la natura « disinteressata » della
ricerca filosofica. Quando Erodoto (I, 30) fa dire da re Creso a Solone: «Ho
udito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per ve- dere molti
paesi» allude ovviamente al carattere FILOSOFIA disinteressato di questi viaggi
che non sono stati intrapresi per scopi di lucro o di politica ma solo a scopo
di conoscenza. Platone stesso contrappo- neva lo spirito scientifico dei Greci
all'amore del guadagno proprio degli Egiziani e dei Fenici (Rep., IV, 435 e). E
che la ricerca del sapere non possa essere subordinata o piegata a fini
estranei è cosa che risulta dalla stessa nozione di questa ricerca, quale
appunto si è venuta configurando nella Grecia antica (cfr. I, B). Ma già nel
racconto riferito a Pitagora che deriva da uno scritto di Eraclide Pontico
(Diog. L., Proemium, 12) col quale si intende giustificare il nome di F., c’è qualcosa
in più della semplice esigenza del disin- teresse della ricerca. Secondo quella
tradizione, riportata da Cicerone nelle Tusculane (V, 9), Pita- gora paragonava
la vita alle grandi feste di Olimpia dove alcuni convengono per affari, altri
per parte- cipare alle gare, altri per divertirsi e alfine alcuni soltanto per
vedere ciò che avviene: questi ultimi sono i filosofi. Qui è sottolineato il
distacco tra il filosofo, interessato solo a vedere, cioè a contem- plare
disinteressatamente, e la comune umanità de- dita alle sue faccende. La
superiorità della contem- plazione sull’azione è pertanto implicita in questo
racconto; che probabilmente aveva lo scopo di nobilitare, col richiamo a
Pitagora, il concetto della F. che si andava formando nella scuola di Aristo- tele.
Il carattere contemplativo della F. (che non ha nulla a che fare con il
carattere disinteressato della ricerca in generale), come una delle risposte possibili
al problema dell’uso umano del sapere, è stato per la prima volta affermato e
giustificato da Aristotele. Quel carattere è infatti fondato sulla natura
necessaria dell’oggetto della F., che è ciò che « non può essere altrimenti da
quello che è» (Et. Nic., VI, 3, 1139b 19). Da questo punto di vista la F. è
sapienza, non saggezza: giacchè la saggezza consiste nel deliberar bene, ma
nulla c’è da deliberare intorno alle cose che non possono essere altrimenti
(/bid., VI, 5, 1140 a 30). Su questa base Aristotele stabilisce un contrasto
tra saggezza e sapienza (v.). Uomini come Anassagora e Talete sono sapienti e
non saggi: essi non indagano sui beni umani, non conoscono ciò che giova a loro
stessi ma solo cose eccezionali, meravigliose, diffi- cili e divine. « Nessuno,
dice Aristotele, delibera intorno a ciò che non può essere altrimenti o in- torno
alle cose che non hanno un fine o il cui fine non è un bene realizzabile »
(/bid., VI, 7, 1041 b 10). Ma qual è, da questo punto di vista, l’uso possibile
del sapere? Uno solo: la realizzazione di una vita contemplativa cioè dedita
alla conoscenza del ne- cessario. L'attività contemplativa è pertanto con- siderata
da Aristotele come la più alta e beatifica: essa fa dell’uomo qualcosa di
superiore all’uomo FILOSOFIA stesso perchè è conforme a ciò che di divino c’è in
lui (/bid., X, 7, 1177 b 26). La dottrina di Ari- stotele ha così fissato i
punti seguenti intorno all’uso umano del sapere: 1° la F., in quanto ha per og-
getto il necessario, non offre all’uomo nulla da fare ed è perciò
contemplazione; 2° la contempla- zione è una forma di vita individuale
privilegiata perchè è la beatitudine stessa. Le due tesi sono ti- piche di
questa concezione della F., che ricorre frequentemente nella storia del
pensiero occidentale. Intanto essa domina tutta la F. greca postaristote- lica;
la quale coltiva l’ideale del «sapiente» cioè di colui nel quale si realizza la
vita contemplativa. Epicurei, Stoici, Scettici e Neoplatonici concordano nel
ritenere che il sapiente solo può esser felice perchè egli soltanto, come puro
contemplante, è autosufficiente. Il fine che questi filosofi attribuiscono alla
F. è individuale e privato: la realizzazione di una forma di vita che chiude il
sapiente in se stesso e nella sua contemplazione solitaria. Anche da questo
punto di vista, ovviamente, la F. è uno sforzo di trasformazione o di
rettificazione della vita umana; perciò non è vera alla lettera l’afferma- zione
di Aristotele che essa non dà nulla da fare. Questa affermazione significa solo
che essa non mo- difica la struttura del mondo, della conoscenza che concerne
il mondo e delle forme di vita associata; mentre può modificare la vita
dell’individuo ren- dendolo sapiente e beato. È facile riconoscere da questi
tratti l’atteggia- mento contemplativo in filosofia. Quando Spinoza dice:
«L'uomo forte considera principalmente che tutte le cose seguono dalla
necessità della natura divina e che quindi tutto ciò che crede molesto e
cattivo e tutto ciò che inoltre appare empio, or- rendo, ingiusto e turpe nasce
dal fatto che egli concepisce le cose stesse torbidamente, parzial- mente e
confusamente » (Er., IV, 73, scol.) esprime, nella sua forma classica, il
concetto contemplativo della filosofia. E quando Hegel afferma che la F., come
la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, giunge
sempre a cose fatte e quindi troppo tardi per dire come deve essere il mondo,
esprime lo stesso concetto (Fil. del Dir., Pref.). Difatti per Hegel, come per
Aristotele e Spinoza, l’oggetto della F. è il necessario; il suo compito è
precisamente quello di mostrare la ne- cessità di ciò che esiste, cioè la
razionalità del reale (Enc., $ 12). Da questo punto di vista la F. è la
giustificazione razionale della realtà: per realtà intendendosi non solo quella
della natura ma anche quella delle istituzioni storico-sociali cioè del mondo umano.
Non molto diverso, era da questo punto di vista il concetto che della F. aveva
Schopenhauer. « Rispecchiare astrattamente, universalmente e limpi- damente in
concetti l’intera essenza del mondo, egli 399 diceva, e così, quale immagine
riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti della ragione: questa
e non altro è F.» (Die Welt, I, $ 68). Nella F. contemporanea il concetto della
F. come contemplazione rimane nella fenomenologia e nello spiritualismo. La
fenomenologia è lo sforzo di rea- lizzare, mediante l’epoché, il punto di vista
di uno « spettatore disinteressato » cioè di un soggetto che non sia a sua
volta sottoposto alle stesse condizioni limitative che egli prende a
considerare. Dice Hus- serl: «L'io della meditazione fenomenologica può divenire
lo spettatore imparziale di se stesso, non soltanto nei casi particolari ma in
generale; e questo ‘se stesso’ comprende ogni oggettività che esista per lui,
tale quale esiste per lui » (Cart. Med., $ 15). E nell’ultima opera Husserl
vede nella filosofia « il movimento storico della rivelazione della ragione universale,
innata come tale nell’umanità » (Krisis, $ 6) e le attribuisce il compito di
portare la ra- gione « alla propria autocomprensione, a una ra- gione che
comprenda concretamente se stessa, che comprenda di essere un mondo, un mondo
che è nella propria verità universale » (/bid., $ 73). Dal- l’altro lato
Bergson, distinguendo la F. come in- tuizione o coscienza della durata
temporale (cioè del divenire della coscienza) dalla scienza come conoscenza dei
fatti, vede nella scienza «l’ausi- liare dell’azione » e nella F. un’attività
contempla- tiva. «La regola della scienza, egli dice, è quella che è stata
posta da Bacone: obbedire per coman- dare. Il filosofo non obbedisce nè
comanda: cerca di simpatizzare » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag.
158). L’idoleggiamento del «sapiente » come di una condizione umana
privilegiata o per- fetta o della F. come della forma finale e conclusiva
dell’essere sono due dei tratti
caratteristici da cui si può riconoscere la concezione della F. come contemplazione.
A questa concezione appartengono le forme dello scetticismo antico e moderno.
Quando Sesto Empirico addita come fine della F. scettica l’imperturbabilità che
essa consente di realizzare (Ip. Pirr., 1, 25); o quando Hume riduce il motivo del
suo filosofare, che ritiene incapace di agire sulle credenze più radicate
dell’uomo, al piacere che ne ricava (7reatise, I, 4, 7; Ing. Conc. Underst., XII,
3); entrambi attribuiscono alla F. una fun- zione contemplativa che si
esaurisce nell’ambito della vita individuale. E nello stesso ambito si esau- risce
la funzione della F. come « terapia » della F., cioè come liberazione dai dubbi
filosofici, della quale parlano Wittgenstein (Philosophical Investiga- tions, $
133) e alcuni filosofi inglesi suoi seguaci (cfr. Revolution in Phil., 1956,
pag. 106, 112 sgg.). Non sembra infatti che questi filosofi attribuiscano alla
terapia filosofica altra funzione se non quella di liberare l’individuo dai
dubbi filosofici e così 400 permettergli di « sentirsi meglio » al modo in cui Hume
si sentiva meglio coi suoi dubbi scettici. 5) Il concetto della F. come
attività direttiva o trasformatrice è già presente nella leggenda dei Sette
Savi che è stata per la prima volta riportata da Platone (Prot., 343 a). I
Sette Savi furono mo- ralisti e politici e i loro motti si riferiscono alla
con- dotta della vita e ai rapporti con gli uomini (v. SAVI). Ma il primo
grande esempio di una F. esplicita- mente concepita allo scopo di trasformare
il mondo umano è quella di Platone, la quale è diretta interamente a modificare
la forma della vita associata e a fondarla sulla giustizia. L'educazione del
filosofo culmina, non già nella visione del bene ma nel «ritorno nella caverna
»: giacchè il filosofo deve porre a disposizione della comunità i risultati
della sua speculazione e utilizzarli per la guida e la direzione di essa. «
Ciascuno di voi, dice Platone, deve a sua volta discendere nella dimora comune
e abituarsi a contemplare gli oggetti nelle tenebre: perchè abituandosi a
queste, vedrà assai meglio di quelli che sono rimasti sempre laggiù e
riconoscerà i caratteri e l'oggetto di ciascuna immagine, perchè ha visto i
veri esemplari della bellezza, della giu- stizia e del bene. Così noi e voi
costituiremo e governeremo la città da svegli e non già sognando, come avviene
ora nella maggior parte delle città per colpa di coloro che si combattono a
causa di ombre e si contendono il potere come se fosse un bene » (Rep., VII,
520c). La F. platonica è intera- mente dominata da questo impegno educativo e politico:
còmpito della F. non è, per Platone, quello di dare a un certo numero di uomini
la beatitudine della contemplazione, ma quello di dare a tutti la possibilità
di vivere secondo giustizia (Ibid., 519 e). Questa concezione attiva della F. è
rimasta per lungo tempo inoperante. Solo nel Ri- nascimento essa fu ripresa
dagli Umanisti che in- tesero la F. come saggezza. Nel De Nobilitate Legum et
Medicinae Coluccio Salutati (1331-1406) diceva: « Molto mi stupisco che tu
sostenga che la sapienza consista nella contemplazione a cui sarebbe serva la
prudenza, che starebbe con essa nel rapporto di un amministratore con il
padrone; e che tu dica che la sapienza è la maggiore delle virtù, propria della
parte migliore dell'anima, cioè dell’intelletto; e che la felicità consiste
nell’operare secondo sapienza. E soggiungi che, essendo la me- tafisica la sola
scienza libera, il filosofo vuole che la speculazione preceda in tutto
l'azione... Ma la vera sapienza non consiste, come tu credi, nella pura
speculazione. Se togli la prudenza non tro- verai nè il sapiente nè la
sapienza... Chiameresti infatti sapiente chi abbia conosciuto cose celesti e
divine ma non abbia provveduto a se stesso, gio- vato agli amici, alla
famiglia, ai congiunti e alla FILOSOFIA patria? ». Nello stesso spirito
Leonardo Bruni nel- l’Isagogicon Moralis disciplinae (1424) affermava la superiorità
della F. morale su quella teoretica. Il successivo affermarsi di questa
concezione at- tiva della F. caratterizza l’inizio dell’età moderna. Gli
umanisti credevano che solo la F. morale fosse attiva; per Bacone è attiva
anche la F. che ha per oggetto la natura perchè è diretta a dominare la natura.
E Bacone non esita a chiamare « pasto- rale » la stessa F. di Telesio, che
molto apprezzava e in parte seguiva, perchè gli sembrava che essa «
contemplasse il mondo placidamente e quasi per ozio» (Works, III, pag. 118).
Hobbes insisteva sulla stessa funzione della F. (De Corp., I, $ 6). Cartesio a
sua volta la riteneva diretta a conseguire la saggezza e la scienza di tutto
ciò che riesce utile o vantaggioso per l’uomo (Princ. Phil, Pref.). Lo stesso
scopo direttivo e correttivo attribuirono alla F. Locke e gli Illuministi. Con
Locke, la F. diventa critica della conoscenza e sforzo di libera- zione
dell’uomo da ignoranze e pregiudizi. E tale si mantiene per l’Illuminismo del
sec. xvi, che vede nella F. lo sforzo della ragione di investire il mondo
umano, liberarlo dagli errori e di farlo progredire. D’Alembert così descriveva
l’azione che la F. esercitava nel suo tempo: « Dai princìpi delle scienze
profane sino ai fondamenti della rivelazione, dalla metafisica sino alle
materie di gusto, dalla musica sino alla morale, dalle dispute scolastiche dei
teologi sino agli oggetti del commercio, dai di- ritti dei princìpi sino a
quello dei popoli, dalla legge naturale sino alle leggi arbitrarie delle
nazioni, in una parola dalle questioni che ci toccano di più a quelle che ci
interessano di meno, tutto è stato discusso e analizzato o almeno agitato. Una
nuova luce su alcuni oggetti, una nuova oscurità su molti altri, sono stati il
frutto o la conseguenza di questa effervescenza generale degli spiriti, come
l’effetto del flusso e riflusso dell'oceano è quello di portare sulla riva
qualcosa e di allontanarne qualche altra » (CEuvres, ed. Condorcet, pag. 218).
Il concetto il- luministico della F. era partecipato da Kant secondo il quale
la F., determinando le possibilità effettive dell’uomo in tutti i campi, deve
illuminare e diri- gere il genere umano nel suo doveroso progresso verso la
felicità universale (Recensione alle « Idee sulla F. della storia » di Herder,
1784-85; cfr. Critica R. Pura, Dottrina trascendentale del metodo, ca- pitolo
III, in fine). Il Romanticismo, insistendo sul carattere ne- cessario, perchè
razionale, dell’essere, ha costituito, nel suo complesso, un ritorno alla
concezione con- templativa della filosofia. Lo stesso positivismo che intendeva
esplicitamente rifarsi alla dottrina baco- niana del sapere come possibilità di
dominio sulla natura, non sempre rimane fedele al riconoscimento FILOSOFIA del
carattere attivo della filosofia. Se per il posifi- vismo (v.) di stampo
sociale (St.-Simon, Proudhon, Comte, Stuart Mill) la F. è prevalentemente uno strumento
di trasformazione della società umana, per il positivismo evoluzionistico la F.
ha più ca- rattere contemplativo che attivo. La difesa del mistero che Spencer
pone tra i compiti della F., cioè il riconoscimento dell’insolubilità dei
cosid- detti problemi ultimi, porta la F. sullo stesso piano contemplativo
della religione. La discussione in- torno alla solubilità o insolubilità dei
cosiddetti « enigmi del mondo + cade interamente sul piano della F.
contemplativa. Il positivismo di Ardigò come il monismo materialistico
(Haeckel) e l’evo- luzionismo spiritualistico (Wundt, Morgan, ecc.) sono
ugualmente contemplativi. In realtà il clima romantico è presente nel
positivismo come nell’idea- lismo e indirizza quello come questo verso il con- cetto
della F. come contemplazione di una realtà necessaria. Contro tale concetto
costituisce una protesta il « nuovo materialismo » di cui si fece partigiano
Marx, polemizzando, dall’altro lato, contro il materialismo teoretico di
Feuerbach. «I filosofi, egli diceva, hanno finora soltanto diver- samente
interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo » (Tesi su Feuerbach, 11).
Ma per quanto Marx insista sull’impegno di trasformazione che deve
caratterizzare la F. come tale, il fonda- mento stesso della F. come
contemplazione rimane saldo nella sua dottrina. Quel fondamento è in-
fatti la necessità del reale; e per Marx
la trasfor- mazione della società, cioè il passaggio dalla società capitalistica
a quella senza classi, avverrà « con la fatalità che presiede ai fenomeni della
natura» (Capit., I, 24, $ 7). Su questa base, il compito della F. appare quello
di una profetica Cassandra anzichè quello di promuovere e orientare la
trasformazione stessa. Sotto questo rispetto, si sottrae talvolta al clima
romantico il neocriticismo. Nella Ucronia Renouvier si propose di eliminare «
l'illusione della necessità preliminare per la quale il fatto compiuto sarebbe
il solo, fra tutti gli altri immaginabili, che avrebbe potuto realmente
accadere» (Uchronie, 2* ediz., 1901, pag. 411). La «F. analitica della storia »
ha, secondo Renouvier, il compito di de- terminare le concatenazioni generali
dei fatti storici per dirigere lo sviluppo della storia stessa (/nir. d la
phil. analytique de l’histoire, 1864, pag. 551-52). Dall'altro lato la
determinazione della F. come «visione del mondo», determinazione che la F.
subì, nella seconda metà del sec. xxx, ad opera di pensa- tori di provenienza
neocriticistica o positivistica, ha un chiaro significato contemplativo. Contro
l’inter- pretazione contemplativa della F. si è invece schie- rato
polemicamente il pragmatismo sin dalla sua origine, che si può vedere nel
saggio Come render 26 — ABBAGNANO, Dirionario di filosofia. 401 chiare le
nostre idee (1878) di C. S. Peirce. In questo saggio Peirce affermava che
l’intera funzione del pensiero è di produrre abitudini d'azione (o credenze) e
che pertanto il significato di un concetto consiste esclusivamente nelle
possibilità d’azione che esso definisce. Ma queste affermazioni di Peirce sono importanti
anche da un altro punto di vista. Peirce negava esplicitamente il presupposto
stesso della F. come contemplazione, cioè il carattere necessario del reale.
Peirce mostrava difatti come la regola- rità e l’ordine degli eventi nonchè i
legami condi- zionali tra gli eventi stessi non hanno niente a che fare con la
necessità, che implicherebbe la possibilità della previsione infallibile
(Chance, Love and Logic, II, cap. 2). La definizione data da Dewey della F.
come « critica dei valori » (Experience and Nature, pag. 407) esprime, proprio
sui presupposti stabiliti da Peirce, la funzione direttiva della filosofia. Se-
condo Dewey, il compito della F. è quello antico, iscritto nel significato
etimologico della parola: ri- cerca della saggezza; dove la saggezza differisce
dalla conoscenza per essere « l'applicazione di ciò che è conosciuto alla
condotta intelligente delle faccende della vita umana » (Problems of Man, 1946,
pag. 7). Non diverso significato ha la definizione data da Morris: « Una F. è
un’organizzazione sistematica che comprende le credenze fondamentali: credenze
sulla natura del mondo e dell’uomo, su ciò che è bene, sui metodi da seguire
nella conoscenza, sul modo in cui la vita dev'essere vissuta» (Signs, Language
and Behavior, 1946, VIII, $ 6; tradu- zione ital, pag. 314). Per Morris,
infatti, come per tutto il pragmatismo, la credenza non è che una regola di
comportamento: e la F., come or- ganizzazione delle credenze fondamentali,
costituisce perciò quello che Sartre ha chiamato «il progetto fondamentale di
vita ». Nell'opera stessa di Sartre si può scorgere il passaggio dalla
concezione con- templativa della F., espressa ne L’éfre er le néant (1943) a
quella attiva o illuministica espressa nella Critique de la raison dialectique
(1960). Nel primo scritto, Sartre progettava una ricerca detta « psica- nalisi
esistenziale » il cui scopo era quello « di met- tere in luce, in una forma
rigorosamente oggettiva, la scelta soggettiva per la quale ciascuna persona si fa
persona cioè si fa annunziare a se stessa ciò che essa è» (L’étre et le néant,
pag. 662). Il risultato di una ricerca di questo genere avrebbe dovuto essere,
secondo Sartre, la classificazione e il con- fronto dei vari tipi di condotta
possibili, quindi il chiarimento definitivo della realtà umana come tale
(/bid., pag. 663). Il carattere contemplativo di una disciplina siffatta è
evidente. Ma nella sua se- conda opera Sartre intende la F. come « totalizza- zione
del sapere, metodo, Idea regolatrice, arma offensiva e comunità di linguaggio »
nonchè come 402 uno strumento che agisce, per trasformarle, sulle società in
decadenza e che può costituire la cultura o addirittura la natura di un'intera
classe (Critique de la raison dialectique, pag. 17). Nel primo caso la F. non
dava nulla da fare agli uomini giacchè l’uomo nulla poteva fare: Sartre
definiva l’uomo come « passione inutile» cioè come passione im- possibile di
essere Dio (L’éfre et le néant, pag. 708). Nel secondo caso, la F. s’inserisce
come forza umana finita ma efficace, nel mondo, e tende a trasformarlo.
Sottratta al destino del fallimento e a quello del successo, la nozione di
progetto si presta ad esprimere il carattere direttivo e operativo che alla F.
attribuiscono gli indirizzi neoilluministici contemporanei. Un progetto difatti
fa leva sulle conoscenze disponibili e ne determina l’uso possi- bile al fine
di garantire l'esistenza e la coesistenza degli uomini. Una F. che progetti in
questo senso (che è poi quello già chiarito da Platone) l’uso umano del sapere
è ovviamente la determinazione di tecniche di vita che possono essere messe a
prova, rettificate o rigettate. III La filosofia e î suoi procedimenti. — Il
terzo punto di vista dal quale si possono individuare costanti di significato
che consentano di ricono- scere articolazioni fondamentali nelle interpreta- zioni
storicamente date del concetto di F., è quello del procedimento o metodo che si
ritiene proprio della filosofia. Da questo punto di vista le F. si possono
distinguere in «) F. sintetiche o creative che procedono producendo
concettualmente il loro oggetto, senza riconoscere limiti o condizioni a questo
lavoro di costruzione; e 8) F. analitiche che riconoscono l’esistenza di defi e
procedono a descrivere o analizzare questi dati stessi. Il carat- tere proprio
delle F. analitiche è la limitazione cui si ritengono sottoposte da parte del
dato, comunque poi intendano la natura di esso. Il carattere proprio delle F.
sintetiche sta invece nel non riconoscere questa limitazione e nel pretendere
che il proprio metodo è interamente costruttivo cioè capace di esaurire senza
residui l’intero oggetto della filosofia. a) Il procedimento sintetico non può
far ap- pello al controllo di situazioni, fatti o elementi che siano
indipendenti da sè; la sua caratteristica è pertanto quella di valere come
controllo a se stesso. Ogni qualvolta una F. assume che la validità dei propri
risultati dipende esclusivamente dalla organizzazione interna della stessa F. e
può essere perciò riconosciuta e stabilita una volta per tutte, senza bisogno
che i risultati stessi siano messi a prova e convalidati da tecniche o
procedure indi- pendenti da essa, il suo metodo può essere ritenuto sintetico.
La sua procedura infatti equivale in questo caso alla creazione o composizione
ex novo del suo oggetto, in una forma che non esige FILOSOFIA conferme nè teme
smentite. La F. di Hegel costi- tuisce l’incarnazione più pura di questo tipo
di filosofia. Quando Hegel dice: « La F. non ha il vantaggio, del quale godono
le altre scienze, di poter presupporre i suoi oggetti come immedia- tamente
dati dalla rappresentazione, e come già ammesso, nel punto di partenza e nel
procedere successivo, il metodo del suo conoscere » (Enc., $ 1), egli afferma
per l’appunto l’esigenza che la F. co- struisca da sè, interamente, il suo
oggetto e il suo metodo. Ma producendo da sè sia l’oggetto che il metodo, essa
non ha neppure da render conto ad altre scienze o ad altri eventuali punti di
vista dei suoi risultati quali che siano. Hegel insiste sul ca- rattere
assolutamente indipendente o incondizionato del suo metodo. «Il metodo (egli
dice, per es.) così come nella scienza il concetto, si svolge da se stesso ed è
soltanto una progressione immanente e una produzione delle sue determinazioni »
(Fil. del Dir., $ 31). E ancora: «La più alta dialettica del concetto è
produrre e intendere la determinazione, non semplicemente come limite o
posizione, ma traendo da essa il contenuto e il risultato posi- tivi; in quanto
unicamente con ciò essa è sviluppo e progresso immanente. Questa dialettica non
è un fare esterno di un pensiero oggettivo ma l’anima propria del contenuto, la
quale fa germogliare i suoi rami e i suoi frutti organicamente » (/did., $ 31).
La differenza tra questo metodo produttivo o, come meglio si direbbe, creativo
del suo oggetto e il metodo analitico, che Hegel riconosce proprio delle
scienze dopo Cartesio, è espressa da Hegel stesso nel modo seguente: « Il
metodo iniziato da Cartesio rifiuta tutti i metodi rivolti a conoscere ciò che
per il suo contenuto è infinito; si abbandona perciò allo sfrenato arbitrio
delle immaginazioni e asserzioni, ad una presunzione di moralità e or- goglio
di sentimento o ad uno smisurato opinare e raziocinare il quale si dichiara nel
modo più ener- gico contro la F. e i filosofemi » (Enc., $ 77). Questa
concezione attribuisce al procedimento filosofico la produzione del suo oggetto
e fa del- l’oggetto, l’infinito stesso cioè l'Assoluto o Dio, che risolve o
annulla in sè ogni fatto o cosa finita. Prima di trovare in Hegel la sua forma
tipica, tale concezione era stata esposta da Fichte come esi- genza che la F.,
quale dottrina della scienza, dia forma sistematica non soltanto a se stessa ma
anche a tutte le altre scienze possibili e garantisca per tutte la validità di
questa forma (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Fichte ri-
teneva infatti che, insieme alla sua forma, la dot- trina della scienza dovesse
produrre anche il conte- nuto; e che il contenuto della dottrina della scienza
racchiudesse in sè ogni possibile contenuto e fosse perciò «il contenuto
assoluto » (/bid., $ 1). Risa- FILOSOFIA lendo ancora più in là, la concezione
del metodo sintetico si può vedere in Spinoza: secondo il quale il procedimento
filosofico (che egli chiama conoscenza intuitiva o terzo genere di conoscenza o
amore intellettuale di Dio) è quello che ha per oggetto la necessità con cui
tutte le cose derivano dalla natura divina. L’amore intellettuale di Dio è lo
stesso amore con cui Dio ama se stesso (£t., V, 36): ciò vuol dire che la
conoscenza della neces- sità con cui le cose derivano da Dio è la conoscenza
stessa che Dio ha di sè. Il procedimento matema- tico dell’Erica acquista, da
questo punto di vista, un rilievo fondamentale nella filosofia di Spinoza: esso
non è un artificio espositivo ma l’adeguazione del metodo della F. al
procedimento necessario con cui le cose derivano da Dio. Considerato in questa
prospettiva, il metodo sintetico si rivela nella sua caratteristica più
appariscente: nella sua pretesa di valere come un colpo d'occhio divino gettato
sul mondo, come la conoscenza stessa che Dio ha di sè e dei suoi effetti
creati. Èfacileallora vedere come questa pretesa sia stata spesso avan- zata
dalla filosofia. « Questa scienza soltanto, di- ceva Aristotele, è divina e lo
è in un duplice senso: perchè propria di Dio e perchè concerne il divino. Essa
sola ebbe in sorte entrambi questi privilegi: Dio infatti appare come la causa
e il principio di tutte le cose e solo o principalmente una scienza siffatta può
essere propria di Dio» (Met., I, 2, 983a 5). Aristotele chiamava pertanto
seologia la F. prima. Vero è che la F. prima è tale per la sua universalità e
che essa è universale solo in quanto è scienza dell’essere in quanto essere
(/bid., VI, 1, 1026 a 30). Ma la stessa scienza dell’essere in quanto essere è
teologia perchè è la scienza della causa o ragion d’essere e questa causa o
ragion d’essere è Dio. La F. aristotelica ha perciò dichiaratamente carat- tere
sintetico e può anzi essere considerata come il primo e classico esempio del
procedimento sin- tetico. Ovviamente, essa non lo è soltanto perchè ha Dio come
oggetto della sua investigazione; ma anche perchè si considera coincidente con
la cono- scenza che Dio ha di sè. E da questo tratto può essere agevolmente
riconosciuta ogni F. sintetica come tale. $) Il procedimento analitico della F.
si rico- nosce negativamente dalla mancanza della pretesa di valere come
conoscenza divina del mondo e positivamente dal riconoscimento di un limite
delle sue possibilità e di un controllo dei suoi risultati. Il procedimento
analitico non è, di conseguenza, la costruzione ex novo del suo oggetto, ma la
ri- soluzione di esso negli elementi che lo lasciano intendere cioè nelle sue
condizioni. In questi ter- mini, la determinazione del procedimento filosofico è
stata fatta da Kant dapprima in uno scritto 403 precritico del 1764 Sulla
distinzione dei principi della teologia naturale e della morale poi nella
seconda parte principale della Critica della Ragion Pura. Nel primo di questi
scritti Kant contrapponeva il me- todo analitico della F. al metodo sintetico
della matematica. « Ad ogni concetto generale, egli di- ceva, si può pervenire
per due strade: o attraverso un collegamento arbitrario dei concetti oppure
iso- lando quelle conoscenze che sono state chiarite per suddivisione. La
matematica arriva sempre alle sue definizioni seguendo la prima strada... Le definizioni
filosofiche invece sono del tutto diverse. Qui il concetto delle cose è già
dato ma in modo confuso e non sufficientemente determinato. Bi- sogna
suddividerlo, confrontare nei vari casi le note che si sono separate con il
concetto dato, per poi determinare e render compiuta questa idea astratta » (Untersuchung
Uber die Deutlichkeit der Grundsatze der natilrlichen Theologie und der Moral,
1, I, $ 1). Nella Critica della Ragion Pura, Kant distinse la conoscenza
filosofica come conoscenza per concetti dalla conoscenza matematica che
consiste nella co- struzione di concetti. La matematica, dice Kant, può costruire
concetti perchè dispone di una intuizione pura che è quella dello spazio-tempo.
Ma la F. non dispone di una intuizione pura ma soltanto di una intuizione
sensibile: gli oggetti della F. devono quindi essere dati e possono pertanto
solo essere analizzati, non costruiti, dal procedimento filosofico (Critica R.
Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. I). Kant mette pertanto in guardia i
filosofi contro la pretesa di voler organizzare la loro scienza secondo il mo- dello
matematico. In F., non ci sono propriamente definizioni (che siano costruzioni
di concetti) nè as- siomi, cioè verità evidenti, nè dimostrazioni, cioè prove
apodittiche. Dice Kant a proposito di queste ultime: « L'esperienza ci insegna
ciò che c'è, ma non che non può essere altrimenti. Princìpi empirici di prova
non possono darci nessuna prova apodit- tica. Da concetti a priori (nella
conoscenza discor- siva) non può nascere mai una certezza intuitiva cioè
un’evidenza, per quanto il giudizio possa es- sere apoditticamente certo +
(/bid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I). Da questo punto di vista, il
procedimento della F. è ben lontano dal poter dare all’uomo una conoscenza
paragonabile a quella posseduta da Dio. «La determinazione dei limiti della
nostra ragione non può farsi se non su prin- clpi a priori; ma la limitatezza
della ragione, che viene ad essere la conoscenza, sia pure indetermi- nata, di
un’ignoranza mai completamente elimina- bile, può anche essere conosciuta a
posteriori vale a dire da questo che, in ogni sapere, ci resta sempre ancora da
sapere » (/bid., Della impossibilità di un appagamento scettico). La F. non è
mai una scienza perfetta, che si possa insegnare od apprendere. 404 4 Si può
imparare soltanto a filosofare cioè ad eser- citare il talento della ragione
nell’applicazione dei suoi princìpi universali a determinate ricerche, ma sempre
con la riserva del diritto della ragione stessa a indagare quei principi alle
loro sorgenti e a con- fermarli o rifiutarli» (/bid., Dottrina del me- todo,
cap. III). Queste notazioni di Kant costituiscono un con- cetto relativamente
compiuto o maturo del proce- dimento analitico in filosofia. Il precedente
imme- diato di esso è Locke. « Non è affar nostro, in questo mondo, aveva detto
Locke, conoscere tutte le cose, bensì quelle che riguardano la condotta della
nostra vita. Se dunque possiamo trovare le regole mediante le quali, una
creatura ragionevole, qual è l’uomo, considerato nello stato in cui si trova in
questo mondo, può e deve condurre le sue opinioni e le azioni che ne dipendono;
se, dico, possiamo giungere a tanto, non dobbiamo farci un cruccio se altre
cose sfuggono alla nostra cono- scenza » (Saggio, Intr., $ 6). Il concetto
della F. come procedimento analitico cioè diretto a deter- minare le condizioni
e perciò i limiti delle attività umane, ispirò l’intero Illuminismo
settecentesco. Ma sotto questo rispetto e con la diversità dovuta alla
differenza dei mezzi culturali disponibili, l’Il- luminismo settecentesco
riprendeva l’ideale dell’Il- luminismo antico, quello dei Sofisti e di Socrate,
che intesero la F. come diretta alla formazione dell’uomo nella comunità. Di
questo Illuminismo, secondo il quale la F. è uno strumento per l’uomo, si può
ritenere una manifestazione lo stesso con- cetto platonico della filosofia.
Platone infatti ne- gava che la F. potesse essere propria della divinità. Essa,
come l’amore, è mancanza perchè è desiderio di saggezza da parte di chi la
saggezza non possiede per propria natura. L’uomo è filosofo perchè «sta in
mezzo tra il sapiente e l’ignorante » mentre la divinità che possiede già la
sapienza, non ha bi- sogno di filosofare (Conv., 204 a-b). Dall'altro lato, la
dialettica, che è il metodo della F., è concepita da Platone come analisi, cioè
come un procedimento che consente di distinguere il discorso vero dal di- scorso
falso, mostrando le cose che possono com- binarsi tra loro e quelle che non
possono combinarsi (Sof., 252 d-e). Per mostrare quali sono le cose che possono
e quelle che non possono combinarsi, la dialettica procede componendo varie
determina- zioni in un unico concetto e poi dividendo questo concetto stesso
nelle sue articolazioni, come fa un abile scalco (Fedro, 265 e). Essa quindi
suppone a ogni passo la scelta opportuna delle determinazioni da comporre in un
concetto solo e dei punti in cui far cadere la divisione del concetto stesso: scelta
che suppone, come ogni altra scelta, un’uti- lizzazione di dati: onde il metodo
platonico è FILOSOFIA stato giustamente considerato come un metodo em- pirico
(TavLor, Pilato, 4* ediz., 1937, pag. 377). Che la F. sia un'attività umana
cioè limitata nella sua portata e nella sua validità; che essa consista
nell’effettuare scelte e non già nel costruire in toto il suo oggetto, sono le
caratteristiche fonda- mentali della concezione analitica della filosofia. Da
questi due caratteri deriva il terzo, che è forse il più ovvio e appariscente:
quello per cui questo metodo è, tra l’altro e in primo luogo, riconosci- mento
ed utilizzazione di dari cioè di fatti, elementi o condizioni che non sono
prodotti dal metodo stesso. La scelta dei dati e la loro elaborazione in vista
di una soluzione possibile costituisce il pro- blema (v.). Le F. analitiche
sono in genere contras- segnate dal fatto che in esse la nozione di problema è
fondamentale, mentre non esiste o è considerata secondaria e trascurabile nelle
F. sintetiche (come accade in quelle di Aristotele e Hegel). Un’ulte- riore
determinazione di questa concezione (una de- terminazione che essa acquista
solo nel mondo con- temporaneo) è quella concernente il campo dal quale la F.
può o deve trarre i suoi dati e col quale l’in- terpretazione di questi dati
può o deve essere messa a confronto. È solo un’idea recente che i risultati della
F., come quelli di ogni altra indagine, non sono definitivi ma hanno bisogno di
essere messi a prova e saggiati. Dewey ha chiamato a questo proposito la F.
critica delle critiche. « Può sembrare ad alcuni un tradimento, egli ha detto,
concepire la F. come il metodo critico per sviluppare i metodi della critica.
Ma anche questo concetto della F. attende di essere messo alla prova, e la
prova che lo confermerà o lo condannerà consiste nella riuscita eventuale.
L'importanza della conoscenza che ab- biamo acquistato e dell’esperienza che è
stata ravvi- vata dal pensiero consiste nell’evocare e nel giusti- ficare la
prova » (Experience and Nature, pag. 437). Tuttavia questa esigenza diventa
operante solo quando si determini il campo dal quale la F. tragga i suoi dati e
nel quale trovi le sue possibilità di conferma. La determinazione di questo
campo co- stituisce la caratteristica propria della F. analitica dei tempi
nostri. Ora i campi a cui si può fare riferimento sono soltanto due: 1°
l’esistenza sin- gola; 2° l’esistenza associata. 1° Le F. che fanno appello
all’esistenza singola per la ricerca dei dati e per la eventuale messa a prova
delle soluzioni considerano abitualmente l’esi- stenza singola come coscienza e
vedono nella co- scienza il dominio proprio della filosofia. Nel mondo contemporaneo,
la più conosciuta e tipica F. di questa specie è quella di Bergson, che
esplicitamente si organizza come ricerca dei « dati immediati della coscienza »
e che utilizza questi dati per soluzioni che possono a loro volta essere messe
a prova FINALISMO soltanto nell’ambito della coscienza. A questo tipo di F. si
riconnette anche la fenomenologia concepita da Husserl come « un ritorno
radicale all’ego cogito puro, per far rivivere i valori eterni che ne deri- vano
+ (Cart. Med., $ 2). Il difetto metodologico di questo tipo di F. consiste nel
fatto che in esse il dato, che deve servire come limitazione o con- trollo del
procedimento analitico, non è veramente indipendente da questo procedimento,
perchè può essere scoperto o assunto solo sulla base dei pre- supposti che lo
ispirano. 2° Le F. che fanno appello all’esistenza asso- ciata hanno il loro
capostipite nella F. di Platone, che per l’appunto intendeva mettere a prova i
ri- sultati della F. nella vita associata. Allo stesso genere appartiene la F.
di Kant, secondo la quale i risultati della F. devono essere messi a prova nel
dominio morale e politico cioè nel campo dei rapporti umani in generale e
costituire uno stru- mento di progresso in tale campo [cfr. lo scritto Se il
genere umano sia in costante progresso verso il meglio, del 1798, nonchè quello
Sull’illuminismo, 1784, e quelli precedentemente citati in questo ar- ticolo,
II, b)]. L'esperienza inter-umana è anche quella cui fa riferimento Dewey per
la messa a prova dei risultati della F. cioè delle proposte che essa formula
per la condotta intelligente della vita (Experience and Nature, cap. X). Dall'altro lato, l’esistenzialismo di Heidegger, per
quanto non pro- getti di mettere a prova i risultati delle sue analisi, assume
i dati di questa analisi dall’esistenza comune quotidiana, da ciò che accade
fra gli uomini « in- nanzi tutto e per lo più » (Sein und Zeit, $ 9). Infine a
questo stesso orizzonte si può ricondurre la F. in- tesa come analisi del
linguaggio in quanto scorge nel linguaggio il fatto inter-soggettivo
fondamentale e quindi nel chiarimento e nella rettificazione di esso lo
strumento più adatto per l’eliminazione degli equivoci e la rettificazione dei
rapporti inter- soggettivi. Questa almeno sembrerebbe il significato più
importante di una siffatta filosofia. Ma non è il caso di questo significato,
se essa viene intesa semplicemente (come alcuni l’intendono) quale una «terapia»
diretta a liberare dai dubbi, ritenuti fit- tizi, prodotti dalla filosofia. In
questo caso, poichè nessuno, tranne l’interessato, può giudicare se si senta o
meno sufficientemente « guarito +, la messa a prova della F. avrebbe per suo
campo proprio la vita privata dell’individuo. FILOSOFIA PRIMA (gr. rpém
puocopla; lat. Prima
philosophia; ingl. First Philosophy; fran- cese Philosophie première; ted.
Ersten Philosophie). Così Aristotele
chiamò talvolta la F. come scienza dell’essere (o teologia) per distinguerla
dalla fisica (F. seconda) e dalla matematica (Fis., I, 9, 191 a 36; Met., VI,
1, 1026a 16; ecc.). Bacone adoperò il 405 termine per indicare la «scienza
universale + che è come l’albero da cui si dipartono, come tanti rami, le
scienze particolari e ha per oggetto i princìpi co- muni delle scienze (De
Augm. Scient., III, 1): (v. Frrosoria). Nel significato aristotelico il termine
è stato sostituito da quello di metafisica (v.). FINALISMO (ingl. Finalism;
franc. Finalisme; ted. Finalismus). La dottrina che ammette la cau- salità del
fine, nel senso che il fine sia la causa totale dell’organizzazione del mondo e
la causa dei singoli eventi. La dottrina implica due tesi: 18 il mondo è
organizzato in vista di un fine; 23 la spiegazione di ogni evento del mondo
consiste nell’addurre il fine cui l'evento è diretto. Queste due tesi si
trovano spesso congiunte o confuse in- sieme; ma talvolta sono distinte e si
cerca di am- mettere l'una senza ammettere l'altra. Secondo la testimonianza di
Platone e di Aristotele, Anassa- gora fu il primo degli antichi ad ammettere la
causalità del fine (PLAT., Fed., 97 c; ARIST., Met., I, 3, 984b 18). Platone
presenta la sua propria dottrina come una conseguenza del principio di Anassagora
che l'intelligenza è la causa ordinatrice del mondo. « Se l'intelligenza ordina
tutte le cose e ciascuna cosa dispone nel modo migliore, egli dice, trovare la
causa per la quale ciascuna cosa si ge- nera, si distrugge O esiste, significa
trovare qual è per essa il modo migliore di esistere o di modifi- carsi o di
agire + (Fed., 97 c). Ciò che è « meglio » o «eccellente » è, da questo punto
di vista la « vera » causa delle cose mentre sono cause secondarie o concause
quelle di natura fisica che solitamente si adducono (Tim., 46 d; Fil., 54c). Ma
la dottrina che ha fatto prevalere la concezione finalistica nella metafisica
antica e recente è quella aristotelica. Le due tesi proprie del F. sono parti
integranti della metafisica aristotelica. Da un lato Aristotele af- ferma che «
tutto ciò che è per natura esiste per un fine » (De an., III, 12, 434 a 31) e
identifica il fine con la stessa sostanza «0 forma o ragion d'essere della
cosa» (Mef., VIII, 4, 1044a 31). Dall’altro lato, ritiene che l’intero universo
è subordinato ad un unico fine che è Dio stesso, dal quale dipende l’ordine e
il movimento dell’universo stesso (/bid., XII, 7, 1072 b). Su queste basi,
Aristotele difende la causalità del fine contro la tesi che egli chiama della «
necessità »: la quale consiste nell’ammettere che le cose non avvengono in
vista del loro risultato migliore, ma che il risultato migliore è, talvolta, l’effetto
accidentale della necessità. Difatti come si dice che di necessità, date certe
cause, è piovuto e che la pioggia ha accidentalmente prodotto la perdita del
raccolto, senza che questa fosse il fine della pioggia, così si potrebbe
tentare di spiegare allo stesso modo la forma degli organismi animali (Fis.,
II, 8, 198 b 17). Contro questo modo di ra- 406 gionare Aristotele osserva che
ciò che accade sempre o per lo più non si può spiegare col caso, ma suppone la
necessità d’azione del fine (/bid., II, 9, 200a 5). Non si trova però in
Aristotele quella forma popo- lare della teleologia che s’inizia con gli Stoici
e che consiste nel mostrare che le cose del mondo son fatte dalla natura a
vantaggio dell’uomo. Il fondamento di questa teleologia è espresso da Ci- cerone:
« Per chi dunque si potrebbe dire che è stato realizzato il mondo?
Evidentemente per gli esseri viventi dotati di ragione cioè per gli dèi e per
gli uomini; non vi è nulla infatti che sia più eccellente di essi, dato che la
ragione è superiore a tutto: diviene così credibile che il mondo e tutto ciò
che nel mondo esiste è stato fatto per gli dèi e per gli uomini» (De nar.
deor., II, 133). Data la sua stretta connessione con la teologia, si intende perchè
il F. è stato sempre assunto a fondamento dalla metafisica teologica. Gli
Scolastici insistono sulla superiorità causale del fine che chiamano «causa
delle cause ». S. Tommaso, sulle orme di Aristotele, risolve nella causalità
del fine la neces- sità propria dei movimenti naturali. « La necessità naturale
che inerisce alle cose e le dirige, egli scrive, viene alle cose stesse
impressa da Dio in quanto le dirige ad un fine: al modo stesso in cui la ne- cessità
con cui si muove la freccia e per cui è di- retta verso il bersaglio è stata
impressa ad essa da chi l’ha lanciata e non appartiene alla freccia » (S. Th.,
I, q. 103, a. 1). Questo è proprio il pensiero fondamentale che domina e rende
straordinaria- mente uniformi tutte le teorie finalistiche di cui è ricca la
storia della F. fino ai nostri giorni. Sembrò a Hegel una grande novità la sua
propria dottrina del fine come del «concetto stesso nella sua esi- stenza » e
della finalità come una determinazione immanente alla natura stessa; ed egli
infatti con- trappose questa dottrina a quella, che riteneva propria della
tradizione, di un intelletto «extra- mondano » che dall’esterno imponga i suoi
fini alla natura (Wissenschaft der Logik, III, sez. II, cap. III; trad. ital,
pag. 216 sgg.).. Ma in realtà, come provano i testi finora citati, non esiste,
nella storia della F., la dottrina di una finalità estrinseca e imposta da un
intelletto extra mondano; giacchè per finalità del mondo Aristotele, come gli
Stoici e come S. Tommaso, intendono la ragion d’essere propria del mondo, la
sua necessità immanente: e S. Tommaso esplicitamente identifica l’impressio di
Dio sulla natura con la « necessità inerente alle cose». Una finalità se è tale
è sempre immanente alla totalità di cui costituisce l'organizzazione. E come
già notava Aristotele, il F. sotto questo aspetto non muta, sia che si tratti
di totalità naturali sia che si tratti di totalità artificiali; nella
costruzione di una casa il fine pervade il materiale di cui ci si FINALISMO serve
e inerisce ad esso in maniera non diversa da come inerisce alle parti di un
organismo (Zis., II, 9, 200a 34). In tutti i casi il F. è, per adoperare l’espressione
hegeliana, il concetto stesso nella sua esistenza: la realizzazione di un
concetto che sin da principio dirige e governa questa stessa realiz- zazione.
Pertanto la polemica contro « l’intelletto extra-mondano » di Hegel è una
polemica teolo- gica: la contrapposizione di una tesi panteistica ad una tesi
teistica; ma non concerne il finalismo. Diverso significato ha la distinzione
tra finalità interna e finalità esterna fatta da Schopenhauer, il quale
tuttavia mantiene immutato il concetto tradizionale di F., nonostante la sua
tesi del ca- rattere irrazionale e disordinato della forza che regge il mondo.
La finalità interna è per Schopenhauer «l’armonia di tutte le parti di un
organismo sin- golo, in modo tale che la conservazione di esso e della sua
specie si presenti come lo scopo di questa stessa armonia ». La finalità
esterna è invece la «relazione della natura inorganica con l’organica o di
parti della natura organica tra loro, che rende possibile la conservazione
dell’intera natura orga- nica o delle singole specie» (Die Welt, I, $ 28). Dall'altro
lato non costituisce una innovazione del F. tradizionale la dottrina di Bergson
al ri- guardo. Bergson si è pronunciato, a proposito della finalità organica,
sia contro il « meccanismo radicale » sia contro il « F. radicale », in
entrambi i quali ha riconosciuto la negazione del carattere «imprevedibile » o
«creativo» dell'evoluzione vi- tale. L'armonia, egli dice, deve trovarsi
all’indietro piuttosto che in avanti di questa evoluzione. « L’av- venire non è
contenuto nel presente sotto la forma di un fine rappresentato. Tuttavia una
volta realiz- zato, esso spiegherà il presente come il presente lo spiegava, e
ancora meglio; dovrà essere considerato come un fine altrettanto e più che come
un risul- tato. La nostra intelligenza ha il diritto di conside- rarlo
astrattamente dal suo punto di vista abituale, giacchè essa stessa è
un’astrazione operata sulla causa da cui emana » (Évol. créatr., 8 ediz., 1911,
cap. 1, pag. 57). Ma anche questa determinazione bergsoniana non innova gran
cosa nel concetto classico del F.; la cui natura non consiste, come Bergson
ritiene, nel negare i caratteri imprevedibili o nuovi che emergono nel corso
della realizzazione del fine, ma unicamente nell’ammettere la causa- lità del
fine stesso e nel ritenere questa causalità come principio di spiegazione. La
dottrina di Bergson non porta nessuna innovazione a questi due punti. Essa si
lascia pertanto ricondurre interamente alla concezione classica del F.; come
alla stessa conce- zione si riconducono le dottrine, che pur ammet- tendo il
meccanismo, lo ritengono incluso e su- bordinato al F. generale della natura,
come fanno FINALISMO Leibniz (Op., ed. Gerhardt, III, pag. 607; IV, pag. 284),
Lotze (Mikrokosmus, 1856, I) e con loro molti spiritualisti contemporanei. Una
innovazione significativa del F. si ha sol- tanto con l’interpretazione
kantiana. Questa in- terpretazione infatti nega la tesi 2* del F. stesso cioè
quella per la quale spiegare un fenomeno si- gnifica addurre lo scopo. Per
Kant, la spiegazione dei fenomeni può essere soltanto causale; ed il giudizio
teleologico è riflettente non determinante cioè coglie, non un elemento
costitutivo delle cose, ma un modo soggettivo, per quanto inevitabile per
l’uomo, di rappresentarsele. « V'è un’assoluta dif- ferenza tra il dire che la
produzione di certe cose della natura, o anche di tutta la natura, non è pos-
sibile se non mediante una causa che si determina ad agire secondo fini, e il
dire che, secondo la par- ticolare natura della mia facoltà conoscitiva, io non
posso giudicare della possibilità delle cose e della loro produzione se non
concependo una causa che agisca secondo fini e quindi un essere che produca analogamente
alla causalità di un intelletto. Nel primo caso voglio affermare qualcosa
dell’oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva del concetto che
ammetto; nel secondo caso la ragione non fa che determinare l’uso delle mie
facoltà co- noscitive, conformemente alla loro natura e alle condizioni
essenziali della loro portata e dei loro limiti » (Crif. del Giud., $ 75). Dal
secondo punto di vista, che è quello proposto da Kant, il F. non è che un
concetto regolarivo dell’uso dell'intelletto umano: uso opportuno e necessario
per il fatto che l'intelletto umano incontra limiti ben precisi nella
spiegazione meccanica del mondo ed è perciò portato a ricorrere ad una
considerazione comple- mentare. Questa tuttavia non può mai valere come una spiegazione;
e la sua sola funzione è quella di aiutare a ricercare le leggi particolari
della natura (Ibid., $ 78). Questo punto di vista kantiano (che recentemente è
stato rinnovato da N. HARTMANN, Philosophie der Natur, 1950), mentre nega al F.
ogni valore conoscitivo e scientifico gli riconosce una specie di validità
soggettiva, tra estetica e mo- rale, validità dovuta alla limitazione
inevitabile della conoscenza umana. Ovviamente l’interpretazione kantiana del
F. poggia sulla tesi propria degli avversari del F. cioè sulla negazione del
potere esplicativo del F. stesso. Soltanto questa negazione costituisce in
realtà l'abbandono del F. e solo le ragioni che l'appoggiano costituiscono
un'autentica critica di esso. Il F. difatti non è una generalizzazione empi-
rica a partire dalla considerazione di un certo nu- mero di esempi teleologici;
e pertanto neppure una « disteleologia » cioè un’elencazione di casi con- trari
al F. è una critica decisiva del F. stesso. La 407 dottrina di Platone e di
Aristotele al riguardo, e specialmente quella di quest'ultimo, mostra chiara- mente
quale sia il fondamento del F.: la credenza che l’unica spiegazione possibile
degli eventi è quella che adduce lo scopo per cui avvengono. Lo scopo infatti,
per Platone e per Aristotele, è la forma o ragion d’essere della cosa; e la
deter- minazione dello scopo è la spiegazione causale della cosa stessa. Ora di
questo principio si è co- minciato a dubitare solo nell’età moderna. L'’epi- cureismo
che, con Lucrezio, negava il F. adducendo che esso mette prima quel che viene
dopo, per es., la vista prima dell’occhio (LucREZIO, De rer. nat., IV, 829
sgg.) non costituisce la negazione di quel principio. La prima critica di esso
si può invece trovare nella scolastica del ’300 ed è opera di Gu- glielmo
Ockham. Ockham in primo luogo fa vedere che l’azione del fine non può
consistere se non nel muovere ad agire la stessa causa efficiente; in se- condo
luogo fa vedere che quest’azione è pura- mente metaforica (/n Sent., II, q. 3
G). Ockham osserva che l’azione del fine non potrebbe con- sistere se non
nell’essere desiderato od amato; e che questo appunto dimostra il carattere
metafo- rico di tale azione. Nelle azioni naturali, che si verificano con
uniformità, non ha senso chiedersi la causa finale; per es., non ha senso
chiedersi per qual fine il fuoco si genera: infatti non si richiede l’esistenza
del fine affinchè l’effetto si produca (Quodl., IV, q. 1). Questa è,
probabilmente, la prima critica che sia stata rivolta al valore esplica- tivo
del finalismo. Qualche secolo dopo, la causa finale veniva completamente
trascurata nella spie- gazione che Telesio tentava del mondo naturale (De rerum
natura, 1565). E Bacone eliminava esplicita- mente la considerazione del fine
dalla ricerca spe- rimentale (Nov. Org., II, 2). « La ricerca delle cause finali,
egli diceva, è sterile: come una vergine con- sacrata a Dio, non partorisce
nulla» (De augm. scient., III, 5). A loro volta Galilei (Op., VII, pag. 80) e
Cartesio (Princ. Phil., III, 3) eliminavano dalla scienza la considerazione
della causa finale. E Spi- noza contrappose la necessità con cui le cose deri- vano
dalla natura divina al F. da lui considerato come un pregiudizio contrario
all'ordine del mondo e alla perfezione di Dio (Er., I, 36, App.). Da questa epoca
in poi, cioè dalle origini della scienza mo- derna, il F. ha cessato di valere
come procedimento di spiegazione scientifica. È ben vero che esso si è sempre
insinuato nelle crepe della spiegazione meccanica del mondo ed è stato spesso
considerato come un completamento di questa spiegazione al di là dei limiti da
essa raggiungibili. Ciò è accaduto soprattutto nel do- minio delle scienze
biologiche o nella speculazione filosofica sui risultati di queste scienze.
Nonostante 408 i successi ottenuti in questo campo dalla conside- razione
fisico-chimica dei fenomeni biologici, il mancato raggiungimento o addirittura
l’irraggiun- gibilità di una riduzione meccanica di tali fenomeni è stata
frequentemente riconosciuta. Le varie forme del vitalismo (v.), sono per
l’appunto contrasse- gnate da questo riconoscimento e pertanto dal ri- corso ad
una spiegazione teleologica dei fenomeni vitali. Questo ricorso tuttavia è
apparso inevitabile solo nella misura in cui scienziati e filosofi hanno formulato
ipotesi globali sull’origine e la natura della vita; giacchè il lavoro
propriamente scientifico, quello a cui sono dovuti i successi della biologia e della
medicina contemporanea, non ha adoperato altri strumenti, materiali o
concettuali, che quelli propri delle scienze naturali. Questo lavoro pertanto non
ha mai avuto bisogno dell’ipotesi finalistica. Dall'altro lato, la situazione
odierna è caratteriz- zata: 1° dal riconoscimento dell’originalità dei fe- nomeni
organici rispetto a quelli fisico-chimici, senza che tale originalità si faccia
consistere nel carattere finalistico di essi (v. EVOLUZIONE; VITA- LisMo); 2°
dall'abbandono dell’ideale della spiega- zione meccanica, sicchè la differenza
radicale che si era venuta stabilendo, in base alla riuscita di questa
spiegazione, tra fenomeni fisici da un lato e fenomeni biologici e
antropologici dall’altro lato è venuta a cadere (v. CausALITÀ; SPIEGAZIONE). In
virtù di questa situazione, da un lato si è espunta la causalità del fine dal
dominio dell’evoluzione organica, dall'altro l’azione stessa di questa cau- salità,
quale si ammette nell'uomo, può non esser considerata diversa da quella dalla
causalità na- turale. Sul primo punto, Simpson afferma: « Lo scopo e il piano
non sono le caratteristiche della evoluzione organica e non sono la chiave per
nes- suna delle sue operazioni. Ma lo scopo e il piano sono caratteristiche
della nuova evoluzione [cioè dell'evoluzione sociale o storica] perchè l’uomo
ha scopi e fa piani. Qui scopo e piano entrano defini- tivamente
nell’evoluzione, come un risultato e non come causa dei processi che la lunga
storia della vita ci mostra. Gli scopi e i piani sono nostri, non dell’universo,
il quale mostra indizi convincenti della loro assenza» (7he Meaning of
Evolution, 1952, pag. 292). Ma dall’altro lato gli scopi e i piani non costituiscono
una forma di causalità a parte, che faccia del mondo in cui essi si verificano
un dominio privilegiato o speciale dell’essere. Nel mondo umano, la causalità
del fine o è stata ricondotta alla moti- vazione (v.) che non differisce
formalmente dalla spiegazione causale (C. G. HeMPEL-P. OPPENHEIM, «The Logic of
Explanation», in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag. 327-28); oppure è
stata descritta in termini di comportamento che implicano ancora meno il
riferimento a un tipo di FINALITÀ spiegazione specifica
(ROSEBLUETH-WIENER-BIGELOW, in « Philosophy of Science», 1943, pag. 18 sgg.). In
conclusione, il F., riconosciuto oggi inutile in tutti i campi della
spiegazione scientifica, rimane la caratteristica di quegli indirizzi
metafisici che ritengono troppo modesto per la filosofia il còmpito di
criticare i valori per rettificarli o renderne possi- bile la conservazione e
si propongono invece quello di dimostrare che i valori sono garantiti dalla
stessa struttura del mondo in cui l’uomo vive e costitui- scono il fine di
essa. Il F. ha perduto completamente il carattere scientifico che aveva alle
sue origini nella Grecia antica e rimane solo come una delle tante speranze o
illusioni cui l’uomo fa appello in mancanza di procedimenti efficaci o in
sostituzione di essi. FINALITÀ (ingl. Purposiveness, Finality; fran- cese
Finalité; ted. Zweckmdssigkeit). La rispondenza di un complesso di cose o di
eventi ad un fine. Così, per es., la F. di un piano o progetto è la rispondenza
o l’adeguazione di esso al fine cui è diretto. La F. della natura è la
rispondenza della natura a quelli che si presumono suoi fini; ecc. La parola
non si applica quindi esclusivamente alla causalità dei fini della natura (cui
si applica la parola finalismo), ma designa in generale una certa forma di
organizzazione o di ordine. FINE (gr. 606, où évexa; lat. Finis; inglese End, Purpose;
franc. Fin, But; ted. Zweck). La parola ha i
seguenti significati principali: 1° termine, nel senso in cui Aristotele dice: «la
natura cerca sempre il F.» cioè « fugge l’infi- nito » (De gen. anim., I, 1,
715b, 16 15). Nello stesso senso ha usato la parola Dewey: « Possiamo concepire
il F. come dovuto al compimento, al raggiungimento perfetto, alla sazietà,
all’esauri- mento, alla dissoluzione, a qualcosa che è venuto meno o ha
ceduto»; e in altri termini i F. sono solo «termini o conclusioni di episodi
temporali » favorevoli o sfavorevoli, buoni o cattivi che siano (Experience and
Nature, pag. 97 sgg.); 2° compimento o perfezione, nel senso che ha frequentemente
la parola greca ié/os. In questo senso si dice « giunta al F. + o « giunta a
buon F.» di una cosa che è stata portata a compimento; 3° scopo o causa finale,
nel senso della quarta delle quattro cause aristoteliche (v. CAuSALITÀ). In questo
significato la parola italiana scopo, quella francese but e quella inglese
purpose sono meglio adoperate. Lo scopo ha carattere oggettivo, sia che
s’intenda come immanente alla natura sia che si intenda come F. di un
comportamento umano: è il termine del progetto o piano cui si riferisce; 4°
intento 0 mira, cioè lo scopo nel suo aspetto soggettivo, come ciò che è il
termine di una certa FINITO intenzione ma che può essere anche diverso dal termine
cui questa intenzione mette capo in realtà. FINI, REGNO DEI (ted. Reich der
Zwecke). È, secondo Kant, la comunità ideale degli esseri ragionevoli in quanto
obbediscono unicamente alla legge della ragione. Il regno dei F., dice Kant è «il
concetto in virtù del quale ogni essere ragione- vole deve considerarsi come
fondatore di una le- gislazione universale per mezzo di tutte le massime della
sua volontà, in modo da poter giudicare se stesso e le sue azioni da questo
punto di vista + (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II). In tale regno,
inteso come «l’unione sistematica di vari esseri ragionevoli sotto leggi comuni
+, ogni membro è nello stesso tempo legislatore e suddito e vale pertanto come
« fine in se stesso » (Zbid., II). Vedi DIGNITÀ. FINITISMO (ingl. Finitism;
franc. Finitisme; ted. Finitisnus). Con questo termine, usato molto raramente,
s'intende ogni dottrina che affermi la finità del mondo cioè che faccia sue le
resi delle antinomie cosmologiche esposte nella Critica della Ragion Pura di
Kant. FINITO (gr. rnenepacpévov; lat. Finitus; inglese Finite; franc. Fini;
ted. Endlich). Il termine ha i seguenti significati principali, i primi tre dei
quali corrispondono ai significati di infinito: 1° come disposizione o qualità
di una gran- dezza, cioè in senso matematico, il F. è: a) ciò che è completo o
esauribile, cioè non ha parti fuori di sè: il contrario dell’infinito
potenziale; 5) l’in- sieme non auto-riflessivo cioè non equipotente ad una sua
propria parte o sottoinsieme (nel senso stabilito nella teoria degli insiemi di
Cantor e Dedekind). 2° Ciò che è stato condotto a termine, quindi è compiuto e
perfetto. In questo senso si parla comunemente di « lavoro F. » o di « opera
d’arte F. » per significare un lavoro accurato, che si è condotto sino in
fondo, o un'opera d’arte portata alla sua forma perfetta. Questo significato
corrisponde al- l’uso greco del termine. Platone considera F. ciò che ha
ordine, misura e armonia (Fil., 23c sgg.). Aristotele afferma a sua volta: «La
cosa che non ha niente al di là di sè è finita ed intera perchè noi definiamo
l’intero come ciò che non manca di niente... Ora intero e perfetto hanno la
stessa natura, o pressapoco. Ma niente è perfetto che non ha termine, e il
termine è limite» (Fis., III, 6, 207 a 7). 3° Nel senso teologico, ciò che
incontra limiti od ostacoli alla sua possibilità di essere cioè alla sua
potenza. Questo concetto del F. si può far risalire a Plotino, il quale è il
primo che ha inteso l'infinito come illimitatezza della potenza (Enn., IV, 3,
8; VI, 6, 18). Ma questo è soprattutto il 409 concetto di F. sul quale ha fatto
leva il Romanti- cismo per affermare la realtà dell’infinito. Per Hegel,
l’infinito è la realtà stessa in quanto illi- mitata potenza di realizzazione
cioè in quanto Assoluto. Il F. è ciò che non ha abbastanza potere per
realizzarsi, l’ideale, il dover essere (Enc., $ 95; Wissenschaft der Logik,
cap. II, sez. I; trad. ital., I, pag. 163). Da questo punto di vista il F. è «
ir- reale » e trova la sua realtà soltanto nell’infinito e come infinito. 4°
Ciò che può essere o agire solo in deter- minate condizioni. Questo è il senso
in cui la parola è stata intesa da Kant. Egli chiama l’uomo un « essere
pensante F.+, in quanto le sue possibilità conoscitive sono limitate
dall’intuizione sensibile cioè da un’intuizione che dipende da oggetti dati (Crit.
R. Pura, $ 8, rv). Dal punto di vista morale l’uomo è un essere F. in quanto la
sua volontà non si identifica con la ragione e la legge di questa vale per essa
solo come un imperativo (Crif. R. Pra- tica, $ 1, scol.). Infine, l’intera
facoltà del giudizio estetico e teleologico è fondata sulla natura F. del- l'uomo
cioè sulla limitazione delle sue possibilità conoscitive in quanto non
determinano interamente il loro oggetto ma solo la forma di esso (Crit. del giud.,
$ 77). Questo significato della parola è ri- masto in espressioni come
«intelletto F.», «es- sere F.», « natura F.», ecc.: nelle quali il F. non esprime
una limitazione spaziale o temporale ma il carattere condizionale di certe
possibilità, che non sono tali da garantire l’onniscienza, l’onnipo- tenza e
l’infallibilità. Nello stesso significato, il termine è assunto
dall’esistenzialismo contempo- raneo. Heidegger vede il carattere F. dell’uomo
nel fatto che ogni suo progetto del mondo
è già dominato dal mondo stesso, che limita le possibi- lità progettabili. Dice
Heidegger: «Il progetto di possibilità, conformemente alla sua essenza, è via via
più ricco del possesso in cui il progettante si trovava anteriormente. Ma un
possesso siffatto può appartenere all’Esserci solo perchè esso, in quanto
progettante, si sente immerso nel mezzo dell’ente. Ma con ciò sono già
sortratte all’Esserci determinate altre possibilità e lo sono in conse- guenza
della sua effettività... Che il concreto progetto del mondo acquisti forza e
divenga un possesso solo nella sottrazione, è un documento trascenden- tale
della finitudine della libertà dell’Esserci. Non si annuncia qui forse proprio
l’essenza F. della libertà in generale? (Vom Wesen des Grundes, Ill; trad.
ital., pag. 68-69). In questo senso, «F.+ è qualità propria solo dell’uomo o
delle possibilità umane; e finitudine è il termine astratto corrispon- dente.
Ogni filosofia dell’esistenza è una filosofia del F. perchè è l’interpretazione
dell'esistenza in termini di possibilità condizionate (v. ESISTENZA, 3°). 410 FINZIONE
(ingl. Fiction; franc. Fiction; te- desco Fiktion). Una filosofia della F. o
finzionismo (Fiktionalismus) è la « Filosofia del come se » (1911) di
Vaihinger, la quale si propone di dimostrare che tutti i concetti, le
categorie, i princìpi e le ipotesi
di cui si avvalgono il sapere comune, le
scienze e la filosofia sono F. prive di qualsiasi validità teo- retica, spesso
intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute solo in quanto
utili. Vaihingre ritiene che questa non sia una situazione patologica ma
normale e che l’unica alternativa che essa pro- spetti è quella di un uso
consapevole e scaltrito delle F. come tali. Ovviamente in questo senso la F. non
è un’ipotesi perchè non esige di essere verifi- cata; si avvicina di più al
concetto di mito (v.). La filosofia della F. è uno degli sviluppi che ha avuto
il concetto kantiano nella filosofia contem- poranea del come se (v.). FISICA (gr. quow; lat.
Physica; ingl. Physics; franc. Physique;
ted. Physik). La disciplina che ha per oggetto lo studio della natura, le cui
caratteri- stiche e i cui metodi sono pertanto in relazione con ciò che
s’intende per narura (v.). Come disci- plina specifica, essa si può dire nata
con Aristotele che la considerò come la «filosofia seconda» di- stinguendola,
nel gruppo delle scienze teoretiche, da un lato dalla feologia dall’altro dalla
matematica (Met., XI, 7, 1064b 1). Si possono distinguere tre concetti
fondamentali di questa scienza, che si sono succeduti storicamente: 1° il
concetto della F. come teoria del movimento; 2° il concetto della F. come
teoria dell’ordine necessario; 3° il concetto della F. come previsione
dell’osservabile. 1° Alla sua nascita, con Aristotele, la F. è la teoria del
movimento e tale si è mantenuta sino alle origini della scienza moderna.
Aristotele ri- tiene infatti che la F. ha per oggetto «quella so- stanza che ha
in se stessa la causa del suo movi- mento » (Mer., VI, 1, 1025b 18); e che
pertanto il modo in cui la F. considera le sostanze dipende dalla natura dei
movimenti di cui sono dotate. Ora dei quattro movimenti distinti da Aristotele (sostanziale,
cioè generazione e corruzione; quali- tativo, cioè mutamento; quantitativo,
cioè aumento o diminuzione; /ocale, cioè traslazione; Fis., VIII, 7, 261 a 26),
il movimento di traslazione è il primo e fondamentale: tutti gli altri possono
infatti essere spiegati con la traslazione dei corpi (/bid., VIII, 7. 260 a-b).
La determinazione delle varie sostanze fisiche deve perciò essere fatta in base
al movimento di traslazione che è proprio di ciascuna di esse. Ora il movimento
di traslazione è di tre specie: dall’alto verso il centro del mondo, dal centro
verso l’alto, intorno al centro o circolare. I primi due movimenti sono
contrari tra loro e (poichè la ge- nerazione e la corruzione consistono nel
passaggio FINZIONE da un contrario all’altro) sono propri dei corpi soggetti
alla generazione e alla corruzione cioè dei corpi terrestri o sublunari, che
risultano composti di quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco. Il movimento
circolare invece non ha contrari perchè muoversi da destra a sinistra o da
sinistra a destra circolarmente non modifica la circolarità del movi- mento
stesso (De cael., I, 4). Esso sarà allora proprio della sostanza che compone i
corpi ingenerabili e incorruttibili cioè i corpi celesti, e questa sostanza è
l’etere. Dei quattro elementi che compongono il mondo sublunare due, aria e
fuoco, si muovono dal basso in alto; due, acqua e terra, dall’alto in basso. La
F. aristotelica è pertanto una F. qua- litativa nel senso che ritiene un
determinato movi- mento proprio di un determinato elemento e sta- bilisce così
una netta divisione qualitativa degli elementi tra loro e di tutti gli elementi
dall’etere. Da questa impostazione segue il principio generale della F.
aristotelica che è: « Ogni elemento si muove verso la sua sfera, se non è
impedito » (Fis., IV, 1, 208 b 10); principio il quale implica o stabilisce l’esistenza
di luoghi assoluti che sono le sedi na- turali degli elementi e ai quali
pertanto gli elementi stessi ritornano quando ne sono allontanati. Questi luoghi
sono, secondo Aristotele, determinati dal peso degli elementi. Al centro del
mondo c’è la terra che è l’elemento più pesante (come risulta, per es., dal
fatto che la pietra cade o affonda nel- l’acqua). Attorno alla terra c'è la
sfera dell’acqua; e attorno alla sfera dell’acqua quella dell’aria che è ancora
più leggera, come dimostra il fatto che una bolla d’aria rotta nell’acqua sale
alla superficie. Attorno alla sfera dell’aria c’è quella del fuoco, che è
l’elemento più leggero, come dimostra il fatto che le fiamme accese sulla
superficie della terra tendono verso l’alto cioè alla sfera che è al di sopra
dell’aria. Su questa base Aristotele determina i caratteri del mondo: che è
unico perchè gli ele- menti si addensano ognuno nella sua sfera; finito perchè
compiuto e perfetto; e come tale anche ordinato ad un unico fine, che è Dio
stesso. Questa dottrina, fondata su poche ma comuni esperienze, e ammirevole
per la sua eleganza e semplicità, è stata la maggiore espressione, nel pensiero
antico, di una sintesi delle conoscenze naturali. Di fronte ad essa, la F.
atomistica degli Epicurei e la F. pan- teistica degli Stoici hanno più
carattere di specula- zione che di conoscenza scientifica. Tale infatti è il giudizio
che ne fecero gli scienziati antichi, i quali le trascurarono completamente,
per rifarsi invece costantemente alla F. aristotelica: sulla quale To- lomeo
stesso (I1 secolo) innestò la sua astronomia. La F. aristotelica ha dominato
incontrastata per molti secoli; e nonostante i dubbi che alcuni sco- lastici
del sec. xiv avanzarono su di essa, il suo FISICA abbandono si ha soltanto con
Leonardo, Copernico, Keplero e Galilei, ai quali è dovuta la prima orga- nizzazione
della scienza moderna. 2° Il secondo concetto fondamentale della F. è quello
che la considera come lo studio dell’ordine sperimentabile della natura. A
questo concetto hanno contribuito gli Aristotelici del Rinascimento con la
difesa della necessità dell’ordine naturale; i Platonici dello stesso
Rinascimento, e specialmente Cusano, con l’affermazione del carattere matema- tico
dell'ordine naturale; infine la magia con la sua pretesa di attingere ed
esercitare un dominio effettivo sulla natura. Il concetto della natura, che è
già chiaro in Galilei, è quello di un ordine ogget- tivo, scritto in caratteri
matematici, necessario e privo di finalità, attingibile mediante l’esperimento.
Su questo concetto di ordine si fondava la nozione di armonia che Keplero
poneva a base della scienza della natura (Hermonices mundi, 1619, IV, 1). L’opera
di Newton portava alla sua maturità il corrispondente concetto della fisica.
Còmpito della F. diveniva esplicitamente e unicamente la descri- zione
dell'ordine naturale. La F. aristotelica, come teoria del movimento, era
diretta allo studio delle cause del movimento: le quali cause coincidevano con
le sostanze (forme o cause finali) delle cose. Newton chiariva il senso nel
quale la determina- zione dell’ordine naturale deve essere oggetto della scienza,
proprio negando, in polemica con la scienza aristotelica, che la F. fosse
scienza delle cause (Optice, 1740, III, q. 31). Nel 1764 Kant così de- scriveva
il concetto newtoniano della scienza: « Con esperienze sicure e nel caso anche
con l’ausilio della geometria, si devono ricercare le regole se- condo le quali
si svolgono certi fenomeni della natura » (Untersuchung ilber die Deutlichkeit
de Grundsdtze der natiirlichen Theologie und der Moral, 1763, II). Queste
regole sono le leggi naturali: leggi che delineano l’ordine dei fenomeni
naturali cioè il modo necessario, perciò uniforme e costante, in cui essi si
connettono l’uno con l’altro. De- scrivere questa connessione è il compito
della fisica. L’illuminismo e il positivismo fecero pre- valere questo concetto
della F.: sul quale insi- steva D'Alembert (É/ements de phil., 1759, $ 4) e che
è alla base della nozione della scienza espressa da Comte. « Il carattere
fondamentale della F. po- sitiva, diceva quest’ultimo, è di considerare tutti i
fenomeni come soggetti a /eggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e
la cui riduzione al mi- nimo numero possibile sono gli scopi di tutti i nostri sforzi,
considerando come assolutamente inaccessi- bile e priva di senso la ricerca di
quelle che si chia- mano cause, sia primarie sia finali » (Cours de Phil. Positive,
lez. I, $ 4). Le leggi non sono infatti altro che le espressioni dell’ordine
necessario della natura. 411 Il concetto della F. come teoria dell’ordine na- turale
si contrappone al concetto della F. come teoria del movimento per la sua
pretesa di limitarsi a descrivere la natura nel suo ordine invece che a spiegarla
nelle sue cause. Da Newton in poi la descrizione viene opposta alla
spiegazione, come còmpito proprio della fisica. Oppure, il che ha lo stesso
significato, si considera la spiegazione cui la F. deve legittimamente aspirare
come la determina- zione di un rapporto tra due fenomeni in confor- mità di una
legge: il che è per l’appunto ciò che, sotto un altro aspetto, è una semplice
descrizione. Questo concetto della F. ha pertanto, come sua caratteristica
propria, il riconoscimento delle con- nessioni necessarie tra i fenomeni, nelle
quali si concreta o prende corpo l’ordine naturale, nonchè la credenza nella
sperimentabilità, cioè accertabi- lità empirica, di tale connessione. Il
concetto del- l’ordine naturale coincide con quello della causalità necessaria
(v. CAUSALITÀ) e pertanto con quello della prevedibilità infallibile dei
fenomeni naturali. Se la natura è l’ordine necessario, la F. come studio di
quest’ordine può stabilire regole che consentono la previsione infallibile dei
fenomeni. Questa è la credenza che ha costituito la base della F. classica sino
ai primi decenni del sec. xx e che ha sorretto altresì l'ipotesi fondamentale
sulla quale essa si reggeva: il meccanicismo (v.). Questa ipotesi aveva fra
l’altro il vantaggio di rendere possibile una descrizione visuale del corso dei
fenomeni: una descrizione cioè che faceva appello a immagini vi- sive e
pretendeva di rappresentare con tali imma- gini (cioè mediante particelle in
movimento) la struttura effettiva dei fenomeni. Ma proprio da questa pretesa
cominciarono a sorgere le prime difficoltà, quando, con la F. relativistica, il
concetto di campo (v.) cominciò a sostituire la rappresenta- zione visiva delle
particelle in movimento. « Oc- correva una coraggiosa immaginazione
scientifica, notano Einstein e Infeld, per riconoscere che l’es- senziale per
l'ordinamento e la comprensione degli eventi può essere non già il
comportamento dei corpi bensì il comportamento di qualcosa che si interpone fra
di essi, vale a dire del campo » (The Evolution of Physics, IV; trad. ital.,
pag. 302). La F. quantistica costituiva un passo ulteriore nella distruzione
della possibilità di una descrizione vi- sualizzante. Notava Bohr: «
Nell’adattamento del- l’esigenza relativistica al postulato del quantum dobbiamo
prepararci ad andare incontro a una rinuncia alla visualizzazione (nel senso
ordinario del termine) ancora più radicale di quella incontrata nella
formulazione delle leggi quantiche considerate finora. Noi ci troviamo qui sul
cammino intrapreso
da Einstein nell’adattare i nostri modi
di percezione, desunti dalle sensazioni. alla conoscenza gradual- 412 mente più
approfondita delle leggi di natura» (Atomic Theory and the Description of
Nature, 1934, pag. 90). La rinuncia alla visualizzazione era in realtà anche la
rinuncia alla descrizione; giacchè l'impossibilità di visualizzare l’intero
corso dei fe- nomeni non è che l’impossibilità di descrivere il loro ordine
necessario nella sua interezza. Difatti questa impossibilità fu riconosciuta
nella F. con l'introduzione del cosiddetto « principio di inde- terminazione »
di Heisenberg (1927) con il quale la causalità rigorosa dei fenomeni fisici
veniva per la prima volta negata, stante l’impossibilità di pre- vedere con
esattezza il comportamento della parti- celle atomiche singole (v. CAUSALITÀ;
INDETERMI- NAZIONE). Caduta la pretesa della causalità rigorosa e per
conseguenza quella della descrizione dell’or- dine totale dei fenomeni, la F.
non poteva più essere intesa come una teoria dell’ordine necessario della natura.
3° Il terzo concetto della F., che si è venuto delineando a partire dal 1930,
fa leva su di una determinazione che era già ritenuta fondamentale dalla
nozione della F. che l’ha preceduta. Già Comte infatti sulle orme di Bacone,
aveva insistito sulla esigenza della scienza di stabilire previsioni che
consentano il dominio sulla natura. « Scienza, donde previsione; previsione,
donde azione +, aveva detto (Cours de Phil. Positive, lez. II, $ 3). Nel 1894 Hertz
nei suoi Principi di meccanica insisteva sullo stesso concetto: « Il più
diretto e in un certo senso il più importante problema che la nostra
consapevole conoscenza della natura deve renderci capaci di risolvere è
l’anticipazione degli eventi futuri, per la quale possiamo organizzare le
nostre faccende presenti sulla base di tale anticipazione ». A_ misura che il
còmpito della descrizione totale dell’ordine degli eventi veniva considerato
fuori delle possibi- lità effettive della F., il còmpito della previsione acquistava
un sempre maggiore rilievo. Il limitarsi a questo compito ha accresciuto
enormemente il potere d’azione o di trasformazione della fisica. Il principio
di complementarità espresso da Bohr nel 1927 segna l’abbandono definitivo, da
parte della F., della sua pretesa di valere come teoria dell’ordine necessario.
Quel principio infatti dice che: « Una descrizione spazio-temporale rigorosa e
una con- nessione causale rigorosa dei processi individuali non possono essere
realizzati simultaneamente: o l'una o l’altra dev'essere sacrificata ». Questo
vuol dire che la catena delle cause e degli effetti potrebbe essere
quantitativamente verificata solo se l'intero universo fosse considerato con un
unico sistema; ma in questo caso la F. sarebbe svanita e rimarrebbe solo uno
schema matematico (HEISENBERG, Die phy- sikalischen Prinzipien der
Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Da questo punto di vista, mentre non può
FISICALISMO essere descritto l’intero corso di un fenomeno, si può calcolare
con esattezza il risultato di una os- servazione futura. « Ad un certo istante,
dice Hei- senberg, si misurino certe grandezze fisiche tanto esattamente quanto
è possibile in linea di principio; si hanno allora in ogni istante successivo
grandezze il cui valore può essere calcolato esattamente, cioè per le quali il
risultato di una misura può essere predetto con esattezza, purchè il sistema da
osser- varsi non sia sottoposto ad alcuna perturbazione tranne la misura stessa
» (7bid., IV, $ 1). Dirac ha espresso lo stesso concetto della F. dicendo: «Il
solo oggetto della F. teorica è di calcolare risultati che possono essere
paragonati con l’esperimento ed è del tutto inutile che sia data una
descrizione soddisfacente dell’intero sviluppo del fenomeno» (Principles of
Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). La F. si è così trasformata interamente in
una teoria della previsione degli eventi osservabili e ha abbandonato le
esigenze descrittive della sua se- conda fase, oltre che quelle esplicative
della sua fase anteriore. Dal punto di vista filosofico, questo carattere
fondamentale della F. contemporanea è stato perfettamente espresso dallo stesso
Heisenberg quando ha detto che la F. del nostro tempo non ci fornisce più « una
immagine della natura, ma una immagine dei nostri rapporti con la natura » (Das
Naturbild der heutigen Physik, 1955, pag. 21). FISICALISMO (ingl. Physicalism;
franc. Phy- sicalisme; ted. Physikalismus). Nome proposto da Neurath (in «
Erkenntnis», 1931, pag. 393) come denominazione del Circolo di Vienna, che
vedeva nel linguaggio il campo d°’indagine della filosofia, per sottolineare il
carattere fisico del linguaggio. Il termine fu accettato da Carnap per indicare
il primato del linguaggio fisico e la sua capacità di valere come il linguaggio
universale: « Il linguaggio della fisica, dice Carnap, è un linguaggio
universale, che comprende i contenuti di tutti gli altri linguaggi scientifici.
In altri termini, ogni proposizione di una branca del linguaggio scientifico è
equipollente ad alcune proposizioni della lingua fisicalistica e può essere
pertanto tradotta in essa senza mutare il suo contenuto» (Philosophy and
Logical Syntax, 1935, pag. 89). Questa traducibilità di ogni propo- sizione
significante in una proposizione della fisica è ciò che si è chiamato F.: il
quale ha costituito l’idea direttiva della Enciclopedia della scienza uni- ficata
(v. EMPIRISMO LOGICO; ENCICLOPEDIA). Carnap ha tuttavia, in un secondo momento,
interpretato il F. come la riducibilità di tutte le espressioni lin- guistiche
significative al linguaggio cosale (v.), piut- tosto che a quella particolare
forma del linguaggio cosale che è il linguaggio fisico (« Testability and Meaning
*, in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag. 69-70). FONDAMENTO FISICA
SOCIALE (ingl. Socia/ Physics; fran- cese Physique sociale; ted. Sozial Physik). Con questo nome Comte indicò lo studio dei fenomeni sociali,
cioè la sociologia; della quale egli per primo affermò l'autonomia scientifica
(Cours de Phil. Positive, lez. 46) (v. SOCIOLOGIA). FISICO-TEOLOGICA, PROVA. V.
Dio, PROVE DI. FISIOCRAZIA. V. ECONOMIA POLITICA. FISIOGNOMICA (gr.
queroyvopla; ingl. Phy- siognomonics; franc. Physiognomonie; ted. Physiogno- mik).
È l’arte di giudicare dall’apparenza visibile di un uomo e specialmente dai
tratti del viso, il suo ca- rattere, cioè il suo modo di sentire e di pensare.
Ari- stotele (seguito da molti scrittori antichi e medievali) aveva già ammessa
la possibilità di giudicare la natura di una cosa sulla base della sua forma
cor- porea (An. Pr., II, 27, 70b 7). Cicerone parlava di un fisionomista Zopiro
che si vantava di cono- scere la natura e il carattere di un uomo con l’esame del
suo corpo, cioè dei suoi occhi del suo volto e della sua fronte (De Fato, V,
10). Ma fu soprat- tutto nel Rinascimento che quest'arte fu coltivata in
particolare, a cominciare da Giambattista della Porta che nel 1580 pubblicava
un libro Sulla F. umana. A quest’arte fu data grande diffusione nel *700 da
Lavater (Frammenti F., 1775-78). Kant stesso riconosce il valore della F.
(Antr., II, cap. III). Hegel la distingue con lode dalle cattive arti e dai vani
studi perchè essa afferma l’unità dell’interno e dell’esterno (Phanomen. des
Geistes, I, parte I, cap. V; trad. ital., pag. 281). Ed anche in tempi mo- derni
la F. trova sostenitori non solo tra psicologi e caratteriologi ma anche tra
filosofi. Spengler ha detto: «La morfologia di ciò che è meccanico ed esteso,
una scienza che scopre e ordina rapporti causali, si chiama sistematica. La
morfologia di ciò che è organico, della storia e della vita, di tutto ciò che
reca in sè direzione e destino, si chiama F.» (Untergang des Abendlandes, 1,
pag. 134). R. Kassner ha addirittura affermata l’identità della psicologia con
la F., sul fondamento che la vecchia distinzione tra essere e apparire non ha
valore: «La psicologia deve quindi essere F., e qualsiasi altra è tediosa e
banale, giacchè, tutto consistendo nella visione, nulla ha più bisogno di venir
sondato oppure sco- perto togliendo uno strato dopo l’altro di parvenze » (Das
physiognomische Weltbild, Intr.; trad. ital., in Gli elementi dell’umana
grandezza, 1942, pag. 61 e seguenti). FISIOGNOSI (ingl. Physiognosy). Termine
ado- perato da Peirce per indicare il complesso delle scienze fisiche (Coll.
Pap., 1.242). FISIOLOGIA (ingl. Physiology; franc. Physio- logie; ted. Physiologie). Nel senso in cui Aristotele e altri
scrittori antichi usano la parola, studio della 413 natura: lo stesso che
fisica. In questo senso ha anche usato talvolta la parola Kant (Cri. R. Pura, Dottr.
trasc. del met., cap. III). FISIOLOGIA PSICOLOGICA o PSICO- FISIOLOGIA. V.
PsicoLOGIA, B). FISSISMO. Termine che non trova riscontro nelle altre lingue,
col quale si indica la dottrina dell’immutabilità delle specie viventi, in
contrap- posto con evoluzionismo (v. EVOLUZIONE). FOLLIA. V. PAZZzia. FONDAMENTO
(gr. altia, x6y0g; lat. Ratio; ingl.
Foundation; franc. Fondement; ted. Grund).
La causa nel senso di ragion d’essere. Questo è uno dei significati principali
del termine « causa » e pre- cisamente quello per il quale essa contiene la
spie- gazione e giustificazione razionale della cosa di cui è causa. Dice
Aristotele: « Noi crediamo di conoscere un oggetto singolo assolutamente — cioè
non accidentalmente o in modo sofistico — quando crediamo di conoscere la causa
per la quale la cosa è, e di conoscere che essa è causa della cosa e che questa
non può essere altrimenti» (Ana/. post., I, 2, 71b 8). In questo senso la causa
è ragione, logos (De part. an., 1, 1, 639 b 15): giacchè fa com- prendere non
soltanto l’accadere di fatto della cosa ma il suo « non poter essere altrimenti
» cioè la sua necessità razionale. Nella dottrina aristotelica per- tanto, come
in tutte quelle che dipendono da essa, la causa-ragione è un concetto
ontologico che esprime la necessità propria dell'essere in quanto sostanza. In
questo stesso senso adopera Hegel il concetto: « Il F., egli dice, è l’essenza
che è in sè e questa è essenzialmente F.; e F. è soltanto in quanto fondamento
di qualcosa, di un altro» (Enc., $ 121). Difatti in questo senso il F. è «
l’es- senza posta come totalità» (/bid., $ 121) cioè la ragione della necessità
di una cosa, come riteneva Aristotele. Per opera di Leibniz, tuttavia, la
nozione aveva acquistato un significato diverso e specifico per il quale si
distingue nettamente da quella di causa essenziale o sostanza necessaria. Passa
cioè a de- signare una connessione priva di necessità e tuttavia tale da fare
intendere o giustificare la cosa; e il principio di questa connessione viene
chiamato principio di ragion sufficiente (Principium rationis sufficientis,
Satz vom zureichenden Grunde). Leibniz giunge alla formulazione di questo
principio at- traverso la contrapposizione tra la connessione li- bera ma
determinante e la connessione necessitante. Egli dice: « La connessione o
concatenazione è di due specie: l’una è assolutamente necessaria, tale cioè che
il suo contrario implica contraddizione, e tale connessione si verifica nelle
verità eterne come sono quelle della geometria; la seconda non è ne- cessaria
che ex Aypothesi e per così dire per acci- 414 dente ed è contingente in se
stessa, giacchè il suo contrario non implica contraddizione ». Questa se- conda
connessione si verifica nel rapporto tra una sostanza individuale e le sue
azioni: per es., il fondamento del fatto che Cesare passò il Rubicone si trova
indubbiamente nella stessa natura di Ce- sare, ma ciò non dice che quel fatto
sia necessario in se stesso o che il suo contrario implichi contrad- dizione.
Allo stesso modo Dio sceglie sempre il meglio, ma lo sceglie liberamente e il
contrario di ciò che sceglie non implica contraddizione. « Ogni verità fondata
su questi tipi di decreti è contingente, per quanto sia certa, perchè questi
decreti non mutano affatto la possibilità delle cose; e per quanto Dio, come ho
già detto, scelga sempre in- dubbiamente il meglio, ciò non impedisce che ciò che
è meno perfetto non sia e non rimanga possi- bile in se stesso, benchè non
accadrà, dato che non è la sua impossibilità che lo fa respingere ma la sua
imperfezione. Ora, nulla è necessario il cui opposto sia possibile » (Discours
de Métaphysique, 1686, $ 13). Come appar chiaro da questi testi di Leibniz, il
F. o ragion sufficiente ha una capacità esplicativa diversa dalla causa o
ragion d’essere di Aristotele. Quest'ultima infatti spiega la necessità delle
cose, il perchè la cosa non possa essere altri- menti da com'è. Il fondamento o
ragion sufficiente spiega la possibilità della cosa, cioè spiega perchè la cosa
può esser o comportarsi in un certo modo. Proprio per questo Leibniz destinò il
principio di ragion sufficiente a fondamento delle verità contin- genti,
continuando ad ammettere, come aveva fatto Aristotele, il principio di
contraddizione come base delle verità necessarie (De scientia universali, in Opera,
ed. Erdmann, pag. 83). Tuttavia, soltanto Cristiano Wolff riconobbe al
principio del F. (o principio di ragion sufficiente) il rango di principio della
intera filosofia e del metodo di essa. Proprio sulla base di esso Wolff infatti
definiva la filosofia come «scienza delle cose possibili in quanto pos- sono
esistere » (Lop., Disc. prael., $ 29) e vide il còmpito fondamentale di essa
nel dare la « ragione per cui le cose possibili possono conseguire l’es- sere »
(/bid., $ 31). Da questo punto di vista, tutta l’attività filosofica consiste
nella determinazione del F. (ratio, Grund), intendendosi per F. «la ra- gione
per cui qualcosa è o accade» (Zbid., $ 4). Woiff tuttavia riconduceva il
principio di ragion sufficiente ad un significato necessaristico. Egli di- stingueva
difatti il principium essendi che contiene la ragione della possibilità della
cosa dal principium fiendi (o dell'accadere) che contiene la ragione della realtà
(Ont., $ 874). E distingueva dall’altro lato il principium cognoscendi con il
quale intendeva «la proposizione mediante la quale si intende la verità di
un’altra proposizione » (/bid., $ 876). Ora FONDAMENTO è chiaro che sia il
principium fiendi (che è poi il principio di causalità) sia il principium
cognoscendi (che è poi la dimostrazione) hanno un carattere necessitante. Lo
stesso carattere il principio as- sume nell’opera di Baumgarten, che tende a
ri- condurlo a quello di contraddizione (Mer., $ 20). Questa tendenza prevaleva
all'interno della scuola wolffiana (cfr. Cassirer, Erkenntnissproblem, VII, cap.
3; trad. ital., II, pag. 596 sgg.) e fu soltanto contrastata da Crusius, che
insisteva sulla distin- zione del principio di ragion sufficiente dal prin- cipio
di causalità, proprio per escludere dal primo il carattere necessitante (De usu
et limitibus principii rationis determinantis, 1743, $ 4): una correzione che
Kant accettava in uno dei suoi primi scritti (Principiorum Primorum Cognitionis
Metaphysicae Nova Dilucidatio, 1755). Dopo di Crusius tuttavia il carattere non
necessitante del principio di ragion sufficiente, cioè quel carattere che aveva
convinto Leibniz ad ammetterlo come un principio a sè, andò del tutto smarrito.
La stessa distinzione sta- bilita da Crusius tra principio di ragion
sufficiente e principio di causalità servì a considerare i due princìpi come
due espressioni del principio di ne- cessità. Questa fu appunto la via tenuta
da Scho- penhauer nel suo scritto Die vierfache Wurzel des Satzes vom
zureichenden Grunde (1813). Schopen- hauer enumerava quattro forme del
principio di ragion sufficiente; cioè, accanto alle due distinte da Crusius,
poneva il principio di ragion sufficiente del- l'essere, che regola i rapporti
fra gli enti matematici e il principio di ragion sufficiente dell’agire, che regola
i rapporti fra le azioni e i loro motivi. Il carattere non necessitante del F.
è tuttavia oscura- mente riconosciuto nelle utilizzazioni metafisiche che sono
state fatte di esso. Schelling nelle Unter- suchungen liber das Wesen der
menschlichen Freiheit (1809) intese per F. la brama o volontà di vivere da cui
dipende l’esistenza sia dell’uomo che di Dio. Il F. in questo senso non è,
ovviamente, una causa necessitante. In un senso analogo Heidegger ha detto: «la
libertà è il F. del F.». «La libertà, egli spiega, in quanto è il fondo di
questo F. è anche l’abisso (senza fondo) dell’Esserci. Non che sia infondato il
singolo libero rapportamento, ma nel senso che la libertà, nella sua essenziale
natura di trascendenza, pone l’Esserci, come poter essere, in possibilità le
quali si distendono innanzi alla sua scelta finita, cioè nel suo destino » (Vom
Wesen des Grundes, 1928, IIl; trad. ital., pag. 77-78). In altri termini, il F.
è per l’esistenza umana quel radi- carsi nel mondo per cui le possibilità
progettate sono limitate e comandate dal mondo stesso. Il F. esprime il
condizionamento che il mondo esercita sull’uomo in virtù del radicarsi stesso
dell’uomo nel mondo. FORMA Affiora chiaramente da questi testi il tratto ca- ratteristico
della nozione in esame, che è quello di esprimere un condizionamento non
necessitante. Questo è infatti il significato più comune e gene- rale del
termine sia nel linguaggio comune che in quello filosofico. Il F. è ciò che dà
ragione di una preferenza, di una scelta, della realizzazione di una alternativa
piuttosto che un’altra. Si parla di F. ogni qualvolta la preferenza o la scelta
è giustifi- cata o la realizzazione dell’alternativa è spiegabile. Similmente
un principio « fondamentale » è un prin- cipio che stabilisce la condizione
prima e più ge- nerale perchè qualcosa possa esserci; e una scienza fondamentale
è quella che contiene le condizioni che rendono possibili le altre scienze (e
in questo senso Wolff chiamava Grundwissenschaft l’onto- logia). Si può dire
pertanto che nell’uso moderno la parola ha un significato non diverso da con- dizione
(v.). L’illuminismo tedesco del *700, che ha elaborato il concetto di F., ha
anche elaborato la nozione del metodo del F. (ted. Grundlichkeit) di cui lo stesso
Wolff ha dato le regole nel IV capitolo del Discorso preliminare della
Philosophia rationalis e che Kant così riassumeva nella prefazione alla se- conda
edizione della Critica della Ragion Pura: «Ci toccherà un giorno, nel sistema
futuro della metafisica, di seguire il metodo del celebre Wolff, il più grande
dei filosofi dogmatici il quale per primo diede l’esempio (e per questo esempio
di- venne in Germania il creatore di quello spirito di Grundlichkeit che non si
è ancora smarrito) di come si possa prendere il sicuro cammino della scienza
stabilendo regolarmente i princìpi, deter- minando chiaramente i concetti,
cercando il rigore delle dimostrazioni e rifiutandosi ai salti nel trarre le
conseguenze +». Il metodo della fondazione con- siste nell’addurre il F., cioè
la ragione giustificativa, di ogni passo del filosofare; ed è il metodo dal quale
ancora la filosofia può attendersi una salva- guardia dall’arbitrio. FORMA (gr.
uoppf, el8oc; lat. Forma; inglese Form; franc. Forme; ted. Form). Il termine ha
i seguenti significati principali: 1° L’essenza necessaria o sostanza delle
cose che hanno materia. In questo senso che è quello aristotelico la F. non
soltanto si oppone alla ma- teria, ma la richiama. Aristotele adopera pertanto questo
termine in riferimento alle cose naturali che sono composte di materia e F.; e
osserva che la F. è «natura » più della materia giacchè di una cosa si dice che
è ciò che essa è in atto (la F.), piuttosto che ciò che è in potenza (Fis., Il,
1, 193b 28; Met., IV, 1015 a 11). Da questo punto di vista non possono dirsi F.
le sostanze immobili (Dio e le in- telligenze motrici) che sono prive di
materia; ma 415 sono F. le sostanze naturali in movimento. Di qui la polemica
condotta da Aristotele contro il plato- nismo, allo scopo di affermare
l’inseparabilità della F. della materia. Gli Scolastici non si sono attenuti rigorosamente
a questa terminologia aristotelica e hanno esteso il termine F. a ogni
sostanza, parlando di « F. separate » per indicare le idee esistenti nella mente
di Dio (ALBERTO Magno, S. 7h., I, q. 6; S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 15, a. 1) e
di «F. sussi- stenti » per indicare gli angeli che sono privi di corpo e così
di materia (S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 50, a. 2). Essi inoltre parlavano di «
F. sostan- ziali o di F. accidentali» (/bid., I, q. 76, a. 1) la quale ultima
espressione è, da un punto di vista aristotelico, poco meno che
contraddittoria. Gil- berto Porretano (sec. xn) aveva distinto nel De sex
principiis le F. inerenti, corrispondenti alle quattro prime categorie
aristoteliche (sostanza, qua- lità, quantità, relazione) e le F. assistenti che
cor- rispondono alle altre categorie aristoteliche e co- stituiscono caratteri
non costituenti la sostanza delle cose. In ogni caso, la F. conserva i
caratteri che Aristotele le aveva riconosciuti: è la causa 0 ragion d’essere
della cosa, ciò per cui una cosa è quello che essa è; è l’atto o l’attualità
della cosa stessa, perciò il principio e il fine del suo divenire. Il concetto
di F. così inteso è stato ed è adope- rato anche fuori dell’aristotelismo e dei
suoi deri- vati. Non possiede determinazioni diverse da quelle accennate, la F.
di cui parla Bacone come oggetto proprio della scienza naturale: questa F. è
atto e causa efficiente, proprio come la F. aristotelica (Nov. Organ., II, 17)
e si distingue da questa sol- tanto perchè non si lascia afferrare, come
riteneva Aristotele, dal procedimento deduttivo o dall’in- telletto intuitivo
ma solo dall’induzione sperimen- tale. Al significato tradizionale della parola
fa riferimento Cartesio quando nega che esistano «quelle F. o qualità di cui si
disputa nelle scuole » (Discours, V). E nello stesso significato è assunta da
Bergson quando afferma che «la F. è un’istantanea presa su di una transizione »
cioè una specie di immagine media cui si avvicinano le immagini reali nel loro
mutamento e che viene assunta come «l’essenza della cosa o la cosa stessa »
(Évol. Créatr., IV ed., 1911, pag. 327). A questo concetto di F. si avvicina il
senso in cui la parola è usata da Hegel, come «totalità delle determinazioni »,
che è poi l’essenza nel suo manifestarsi come fenomeno (Enc., $ 129). La F. in
questo senso è il modo di manifestarsi dell’essenza o sostanza di una cosa in
quanto quel modo di manifestarsi coincide con l’essenza stessa. Questo è il
senso in cui Hegel usava la parola abitualmente, per es., quando diceva: « Il
contenuto umano della 416 coscienza, prodotto dal pensiero, appare dapprima non
in F. di pensiero, ma come sentimento, intui- zione, rappresentazione, F. che sono
da distinguere dal pensiero come F.» (Enc., $ 2). Questo è preci- samente il
senso nel quale Croce e Gentile hanno parlato di « forme dello spirito », sia
per stabilirne sia per negarne la diversità. 2° Una relazione o un complesso di
relazioni (ordine) che può mantenersi costante col variare dei termini tra i
quali intercorre. Per es., la relazione « Se p, allora g + può essere assunta
come la F. del- l’inferenza, perchè rimane costante quali che siano le
proposizioni p e q tra le quali intercorre. Simil- mente si dice di solito che
la matematica è una scienza formale nel senso che ciò che essa insegna non vale
soltanto per certi insiemi di cose, ma per tutti gli insiemi possibili,
vertendo appunto su certe relazioni generali che costituiscono l’aspetto for- male
delle cose. In questo senso, la parola F. è stata per la prima volta usata da
Tetens che intese per essa le relazioni che il pensiero stabilisce tra le
rappresentazioni sensibili che costituirebbero, dal canto loro, ia « materia »
del conoscere (Philoso- phische Versuche iber die menschliche Natur, 1776, I,
pag. 336). Analoga distinzione Kant faceva nella dissertazione del 1770: « Alla
rappresenta- zione appartiene, in primo luogo, qualcosa che si può chiamare
materia e che è la sensazione e, in secondo luogo, ciò che si può chiamare F. o
specie delle cose sensibili, la quale serve a coordinare, mediante una certa
legge naturale del- l’anima, le varie cose che colpiscono i sensi + (De mundi
sensibilis et intelligibilis forma et ratione, $ 4). Questa distinzione fra
materia e F. divenne il punto di partenza dell’intera filosofia kantiana; ma Kant
mantenne sempre fisso il significato di F. come relazione o complesso di
relazioni cioè ordine. « L'elemento formale della natura, egli scrisse, per
es., nei Prolegomeni ($ 17) è la regolarità di tutti gli oggetti
dell’esperienza ». Analogamente la F. dei principi morali è il semplice
rapporto in cui una legge si trova con gli esseri ragionevoli cioè la sua
validità per tutti questi esseri, la sua univer- salità (Crir. R. Pratica, $
4). Da Kant in poi il senso della parola è rimasto pertanto fissato in quello di
relazione generalizzabile, ordine, coordinazione o, più semplicemente,
universalità. In tal senso, Kant distingueva materia e F. nel concetto: «La materia
del concetto è l’oggetto; la F. di esso è l’universalità » (Logik,
Elementarlehre, $ 2). Questo è il senso in cui i logici si avvalgono oggi della
parola per caratterizzare l'oggetto della loro scienza. Ad esso faceva
riferimento Peirce (Coll. Pap., 4.611); e ad esso più recentemente fanno
riferimento Strawson (/nir. to Logical Theory, 1952, pag. 4l), Prior (Formal
Logic, 1955, $ 1) e Church (/ntro- FORMA duction to Mathematical Logic, 1956, $
00). Carnap ha detto: « Una teoria, una regola, una definizione o simili
dev'essere chiamata formale quando non fa alcun riferimento al significato dei
simboli (per es., delle parole) o al senso delle espressioni (per es., degli
enunciati) ma unicamente alle specie e all'or- dine dei simboli con le quali le
espressioni sono costruite » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 1). Allo
stesso significato di ordine o relazione si riconnette l’uso della parola F.
(Gestalt) da parte della psicologia contemporanea quando intende sot- tolineare
il fatto sperimentale che impressioni si- multanee non sono indipendenti l’una
dall'altra come fossero pezzi di un mosaico, ma costituiscono un’unità che ha
un ordine definibile (v. PSICOLOGIA). Nello stesso senso, Born ha proposto che
siano con- siderate come «F. delle cose fisiche le invarianti delle equazioni,
che hanno la stessa realtà oggettiva delle cose che ci sono familiari »
(Experiments and Theory in Physics, 1943, pag. 12-13). Nell’estetica stessa c’è
almeno un significato nel quale la pa- rola F. può essere ricondotta a quello
di ordine od organizzazione delle parti; ed è il significato chiarito da Dewey:
« Solo quando le parti costitutive di un tutto hanno l’unico fine di
contribuire alla perfe- zione di un’esperienza cosciente, disegno e figura perdono
il carattere sovrapposto e diventano F.+ (Art as Experience, cap. VI; trad. ital., pag. 140). Allo stesso significato si avvicina l’uso che della parola
ha fatto Focillon: «Le relazioni formali in un’opera e tra le varie opere
costituiscono un ordine, una metafora dell’universo + (Vie des Formes, 1934;
trad. ital., pag. 53). In generale si può dire che, nell’ambito di questo
significato, si passa alla considerazione della F. ogni qualvolta una certa relazione
viene generalizzata cioè ritenuta valida per un certo numero di termini o di
casi possibili; oppure quando si prescinde dai termini tra i quali un ordine
intercorre per ritenere importante o si- gnificativo solo quest’ordine. 3° Una
regola di procedura. In questo senso si parla di F. nel diritto, per il quale
una « que- stione di F. » concerne il rapporto del caso in esame con le regole
della procedura e non già il problema che costituisce la sostanza o il
contenuto del caso. In modo analogo si dice «rispettare le F.» per indicare il
rispetto delle regole delle buone maniere o simili. Talvolta il ricorso o
l’appello alla « F.» esprime l’esigenza dell'autonomia di una proce- dura o di
una tecnica determinata. Questo è, spesso, il significato dell’insistenza sul
carattere formale dell’arte. Quando, nell’arte, l’appello alla F. non esprime
l’esigenza della organizzazione e dell’or- dine (che è un ricorso al
significato 2°) esprime l’esigenza che i procedimenti o le tecniche dell’arte siano
indipendenti dai procedimenti o dalle tecniche FORMULA di altre attività come
la conoscenza, la morale, ecc. (cfr. Croce, Breviario di Estetica, pag. 53). In
questo senso, il passaggio alla considerazione for- male, in un certo campo, si
ha quando si riconosce l'indipendenza delle tecniche adoperabili in questo campo
da quelle proprie di altri campi. FORMA, PSICOLOGIA DELLA. V. Psi- COLOGIA. FORMALE
(ingl. Formal; franc. Formel; te- desco Formal). 1. Corrispondentemente al
significato 1° di forma: ciò che appartiene all’essenza o so- stanza della
cosa, perciò: essenziale, sostanziale, at- tuale. In questo senso adoperano la
parola gli Sco- lastici, nonchè Cartesio (Méd., III; ZI Réponses, def. IV) e
Spinoza (Er., II, 8). A questo significato si riferisce anche l’uso che fa del
termine Duns Scoto nelle espressioni « distinzione F.» o «ragione F.». La
distinzione F. è infatti una distinzione di essenza o natura che però non
implica una separazione numerica: essa intercede, per es., tra la natura comune
e l’individualità delle cose o tra le varie perfezioni di Dio (Op. Ox., I, d.
8, q. 4, n. 17). 2. Corrispondentemente al significato 2° di forma: ciò che
appartiene a una relazione genera- lizzabile o all'ordine o alla coordinazione
delle parti. In questo senso la parola è adoperata nella logica, nella
matematica moderna e in estetica. In logica questo termine è stato ampiamente usato,
con un senso intuitivamente abbastanza chiaro ma non mai del tutto determinato.
Nella Logica medievale formalis ha il significato fon- damentale di «inerente
alla forma», quindi «es- senziale »; ma anche, di conseguenza, « universale ?, «valido
per ogni contenuto empirico relativo ad una certa forma +; perciò, come ultimo
significato, anche « indipendente dalla natura empirica dei con- tenuti ». È in
questo senso che il termine è passato nella Logica moderna e contemporanea, in
cui, a partire da Leibniz, i termini «forma» (per es., gli arguments en forme
nella terminologia leibniziana) e « F. » stanno ad indicare certi schemi,
formule, ecc., in cui i termini descrittivi sono sostituiti da simboli («
variabili ») e pertanto le proprietà, relazioni, con- seguenze, ecc., dello
schema o formula vigono indipendentemente da ogni possibile designazione dei
termini significativi in essa presenti. 3. Corrispondentemente al significato
3° della parola « forma »: ciò che appartiene alla procedura, sia essa quella
legale o del galateo, ecc. G.P.-N. A. FORMALI, SCIENZE. V. Scienze, CLASSI- FICAZIONE
DELLE. FORMALISMO (ingl. Formalism; franc. For- malisme; ted. Formalismus).
Ogni dottrina che faccia appello alla forma, in uno qualsiasi dei significati del
termine. Verso la fine del sec. xv si chiamarono « formalisti» i seguaci della
metafisica di Duns 27 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 417 Scoto, i quali
si opponevano ai « terministi », se- guaci di Ockham (GERson, De conceptibus,
pag. 806). F. è stato chiamato il punto di vista kantiano nell’etica perchè fa
appello alla forma generale delle massime, prescindendo dai fini cui sono di- rette.
F. è stato chiamato in matematica il procedi- mento che intende prescindere da
qualsiasi signifi- cato dei simboli matematici e perciò specialmente l’indirizzo
di Hilbert. F. si chiama pure l’accentua- zione dell'importanza della procedura
nel diritto o di certe regole di comportamento nei rapporti tra gli uomini. FORMALIZZATO,
LINGUAGGIO. V. Sr STEMA LOGISTICO. FORMALIZZAZIONE (ingl. Formalisation; franc.
Formalisation; ted. Formalisation). Questo termine è caratteristico della
logica e della filosofia della scienza contemporanea. Con «F. di una teoria »
si intende il procedimento con il quale viene costruito un sistema meramente
sintattico di simboli S, retto da alcuni assiomi (ed, eventual- mente, da
regole operative di formazione e deriva- zione delle formule) dai quali,
secondo le regole sintattiche del sistema stesso, si fanno derivare formule che
risultino trasformazioni tautologiche del gruppo di assiomi. Questo sistema
sintattico puro S costituisce una F. di una data teoria 7 (per es.,
dell’aritmetica dei numeri interi, o della teoria degli insiemi, o del calcolo
logico elementare) quando 7 risulti essere una interpretazione vera, e
possibilmente Z-vera, di S. In generale tutte le teorie fondamentali delle
matematiche pure con- temporanee hanno ricevuto F.; rimane ancora non del tutto
risolto il problema della F. della logica, e in genere dei metalinguaggi
impiegati per la F. delle teorie matematiche stesse. Tra l’altro, una delle
maggiori difficoltà di tale formalizzazione di secondo grado è data da un noto
teorema (di Gédel) per cui una teoria formalizzata non può contenere la prova
della propria non-contradditto- rietà (v. ASSIOMATIZZAZIONE; MATEMATICA). G. P.
FORMAZIONE (ted. Bildung). Nel significato specifico che questa parola assume
in filosofia e in pedagogia, in relazione con il termine tedesco cor- rispondente,
essa indica il processo di educazione o di civilizzazione, che si esprime nei
due significati di cultura; intesa da un lato come educazione, dall’altro come
sistema di valori simbolici (vedi CULTURA). FORME, PLURALITÀ DELLE. V. Aco- STINISMO.
FORMULA (ingl. Formula; franc. Formule; ted. Formel). 1. L’elemento di un
calcolo (v.). In questo senso la F. si distingue dalla proposizione che è
l’elemento di un sistema semantico (CARNAP, Foundations of Logic and
Mathematics, $ 9). 418 2. Lo stesso che enunciato o proposizione. 3. Più in
generale: una sequenza finita lineare di simboli primitivi. Così ha definito la
formula A. Church, che ha chiamato «F. ben formata» quella che risponde a certe
regole fondamentali di un linguaggio (/ntr. to Mathematical Logic, 1956, $ 7). FORMULA
IDEALE. Così Gioberti chiamò «la proposizione che esprime l'/dea in modo
chiaro, semplice e preciso » cioè la seguente: « L’Ente crea l'esistente,
l’esistente ritorna all’Ente + (Zrnr. allo studio della filosofia, 1840, II,
pag. 147, 174; III, pag. 3). La F. I. esprime il concetto neoplatonico della
derivazione del mondo da Dio e del ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo. FORO
INTERIORE (franc. For intérieur). L'espressione deriva dalla vecchia frase
francese, tuttora in vigore, e significa il tribunale della coscienza (v.). FORONOMIA
(ingl. Phoronomics; franc. Pho- ronomie; ted. Phoronomie). Parola coniata da
Lam- bert per indicare la dottrina che studia le leggi del movimento (Neues
Organon, 1764) e ripresa da Kant in un senso analogo (Meraphysische Anfangs- grilnde
der Naturwissenschaft, 1786). FORTEZZA. V. Coragoro. FORTUITO. Ciò che è dovuto
alla fortuna o al caso (v.). FORTUNA (gr. viyn; lat. Fortuna; ingl. For- tune;
franc. Fortune; ted. Glick). Secondo Aristo- tele si distingue dal caso (v.)
perchè si verifica nel dominio delle azioni umane e perciò non possono andare
incontro a F. o a sfortuna gli esseri che non possono agire liberamente. « Gli
esseri inani- mati, le bestie, i bambini, non fanno niente per F. perchè non
hanno scelta; e la buona o la mala F. si attribuisce ad essi soltanto per
similitudine, al modo in cui Protarco disse che le pietre di un altare sono fortunate
perchè sono onorate mentre le loro com- pagne sono calpestate dai piedi» (Fis.,
II, 66,197 b 1). Questo significato si è mantenuto anche nell’uso moderno della
parola. Il suo concetto filosofico è pertanto lo stesso di quello di caso (v.).
FORZA (lat. Vis; ingl. Force;
franc. Force; ted. Kraft). Propriamente l’azione
causale, non in quanto esplicativa o giustificativa (come ragion d’essere) ma
in quanto produce immancabilmente il suo effetto. Quindi, più in generale, ogni
tecnica atta a garantire immancabilmente un effetto o che pretenda di
garantirlo. In tal senso si dice «il di- ritto come F. » 0 «lo Stato come F. »
per sottolineare l’immancabilità della realizzazione del diritto o della volontà
dello Stato. In tal senso Kant diceva che ci sono quattro specie di
combinazioni della F. con la libertà e la legge: a) legge e libertà senza F.: anarchia;
b) legge e F. senza libertà: dispotismo; c) F. senza libertà e senza legge:
barbarie; 4) F. con FORMULA IDEALE libertà e legge: repubblica (An:r., II,
Delineazione del carattere del genere umano, 2). In senso analogo Hegel parlava
di « F. dell’esistenza » nel dominio delle relazioni giuridiche fra gli Stati,
alludendo alla frase di Napoleone: «La repubblica francese non ha bisogno di
riconoscimento » (Fil. del Dir., 331, Zusatz). La nozione di F. dev’essere
considerata sotto due aspetti fondamentali e cioè: 1° nell’uso che la scienza
ha fatto di essa; 2° nella interpretazione che la filosofia ne ha dato. 1°
Considereremo qui la nozione di F. esclu- sivamente quale si è venuta
configurando agli inizi della scienza moderna escludendo cioè dal suo ambito le
nozioni di potenza, di causa efficiente o formale, di qualità occulta, ecc.,
cioè tutte le no- zioni di carattere metafisico o teologico cui si può retrospettivamente
(e grossolanamente) riferire il termine forza. Tutti questi termini hanno
infatti una portata storica e problematica completamente diversa dal termine in
questione e tale che non può addurre alcuna luce sul suo significato o sui pro-
blemi ad esso attinenti. Intenderemo perciò con il termine F. l’azione causale
infallibile in quanto: a) venga ritenuta diversa o indipendente da qual- siasi
agente o forma metafisica; è) venga ritenuta diversa o indipendente da
qualsiasi forma o agente psichico; c) venga ritenuta suscettibile di
trattamento matematico. La nozione di F. dev'essere anche te- nuta distinta da
quella di energia, nonostante che gli stessi scienziati abbiano talora confusi
i due termini parlando (come fecero, per es., Mayer e Helmholtz) di
conservazione della F., laddove si trattava della conservazione dell'energia. In
questo senso la nascita della nozione di F. si può scorgere nelle osservazioni
di Keplero che con- siderò la virtù (virtus) cui sono dovuti i movimenti gravitazionali
come soggetta a tutte le « necessità matematiche » (Astronomia nova, III, pag.
241) e negò che essa potesse essere identificata con l'anima (Mysterium
Cosmographicum, 1621, in Opera, edi- tore Frisch, I, pag. 176). Ma la nozione
fu esatta- mente definita solo quando fu esattamente definito, come principio
fondamentale della fisica, il prin- cipio d'inerzia: cioè con Cartesio. Galilei
si serve frequentemente della nozione (per es., nei Disc. sulle nuove scienze,
in Op., VIII, pag. 155, 344, 345, 442, 447, ecc.) ma non la definisce perchè
non defi- nisce neppure la nozione d’inerzia di cui egualmente si serve.
Direttamente in rapporto con quest’ultima, la F. è definita da Cartesio. Egli
dice: «La F. con cui un corpo agisce contro un altro corpo o resiste alla sua
azione, consiste in questo solo che ogni cosa persiste sin che può nel medesimo
stato in cui si trova, conformemente alla prima legge che è stata esposta [cioè
alla legge d’inerzia]. Sicchè un corpo FORZA che è congiunto ad un altro corpo
possiede una F. per impedire che ne sia separato; e quando ne è separato c’è
qualche F. per impedire che gli sia congiunto; e così, quando esso è in quiete,
ha una F. per rimanere in quiete e per resistere a ciò che potrebbe farlo
cambiare; e così, se si muove, ha una F. per continuare a muoversi con la
stessa velocità e verso la medesima banda » (Princ. Phil., II, 43). Ma colui
che generalizzò la nozione di di F. e le dette un’espressione matematica
precisa fu Newton. Il secondo principio della dinamica newtoniana cioè la
proporzionalità tra la F. e l’accelerazione impressa (F= m a) fa della F. una relazione
fra due grandezze, che non ha alcun ri- ferimento alle essenze o qualità
nascoste delle quali lo stesso Newton dichiarava l’inutilità per la fisica. «Io
intendo, egli diceva, dare soltanto una nozione matematica delle forze, senza
considerare le loro cause o le loro sedi fisiche (Philosophiae naturalis Principia
mathematica, 1760, pag. 5). La genera- lizzazione newtoniana consentiva di
parlare di F. di gravità, come di F. elettrica o forza magnetica; sicchè nella
seconda metà del xvm secolo il con- cetto di F. divenne uno dei più popolari e
dif- fusi. Ma contemporaneamente esso suscitava le diffidenze degli scienziati,
che spesso si rifiutavano di vedere in esso qualcosa in più della semplice relazione
causale. D’Alembert osservava che se la relazione tra causa ed effetto è
considerata, non di natura logica, ma fondata solo sull’esperienza, la F. a
distanza (cioè la gravità) non rappresenta un enigma maggiore della
trasmissione del mo- vimento attraverso l’urto: essa infatti non fa che esprimere,
precisamente come quest’ultima, una relazione testimoniata dall’esperienza
(Elements de phil., 1759, $ 17). Per gli stessi motivi, Maupertuis voleva che
il concetto di F. come «causa della accelerazione » fosse eliminato dalla
meccanica e sostituito dalle semplici determinazioni della mi- sura
dell’accelerazione (Examen philosophique de la preuve de l’existence de Dieu,
1756, II, $ 23, 26). Kant non fa che esprimere lo stesso concetto quando dice
che «la F. non è altro che il rap- porto della sostanza A a qualch’altra cosa
8» e che tale rapporto può essere solo dato dall’esperienza (De mundi
sensibilis et intelligibilis forma et prin- cipiis, $ 28); o che la F. non è
che «la causalità della sostanza + cioè « il rapporto del soggetto della causa-
lità con l’effetto » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. II, sez. III,
Seconda analogia dell’esperienza). Già da questo punto di vista
l’interpretazione della F. come un agente causale misterioso e inaccessibile, quale
si ritrova, per es., in Spencer (First Prin- ciples, $ 26) cade interamente
fuori della scienza. Ma anche nel suo specifico significato galileiano o
newtoniano la nozione di F. non esercitò a lungo 419 nella scienza un compito
predominante. Già Leibniz aveva scoperto e chiarito il concetto di F. viva, che
è il prodotto della massa per il quadrato della velo- cità: concetto che è il
punto di partenza della mo- derna nozione di energia (Mathematische Schriften, ed.
Gerhardt, VI, pag. 218 sgg.). La sua dottrina della superiorità della F. sulla
materia, che fa da termine medio per la risoluzione della materia stessa
nell’energia spirituale (v. oltre), è per l’ap- punto fondata su questo
concetto di energia. Ma nel secolo successivo, la scoperta della conserva- zione
dell’energia (1842) dovuta a Roberto Mayer e l’opera di Helmholtz e di Hertz
condussero alla formulazione di quello che si chiamò l’energetismo della
meccanica (cfr. PorNcARÉ, La science et l’hy- pothèse, pag. 148). L’energetismo
nega che la F. sia « causa » del movimento e che perciò sia presente prima del
movimento; e considera l’idea della energia anteriore a quella di forza.
Quest'ultima è introdotta da una semplice definizione e le sue proprietà
vengono dedotte dalla definizione e dalle leggi fondamentali. Nell’energetismo
pertanto l’idea di F. non implica più alcuna difficoltà; è un sem- plice
concetto convenzionale. Sulla stessa linea sono i Principi di meccanica (1894)
di Hertz, che con- siderano come fondamentali soltanto le idee di tempo, spazio
e massa, considerando derivata non solo l’idea di F. ma anche quella di
energia. Il concetto di energia tuttavia conservava la sua im- portanza nella
fisica, soprattutto in riferimento al concetto di campo (v.); mentre il
concetto di F. rimaneva quello che l’energetismo aveva mostrato che fosse: un
nome per definire certe relazioni fra alcune grandezze fisiche. Ha detto
Russell a questo proposito: « Si suppone che la F. sia causa del- l’accelerazione...
Ma l’accelerazione è una semplice finzione matematica, un numero, non un fatto fisico...
Quindi una F., se è causa, è causa di un effetto che non ha luogo » (Principles
of Mathema- tics, 1903, pag. 474). 2° Le interpretazioni filosofiche del
concetto di F. seguono molto alla lontana e poco fedelmente lo sviluppo
scientifico dello stesso concetto. Esse obbediscono tutte ad uno schema
uniforme; con- sistono nel ricondurre la nozione di F. ad una esperienza umana.
Questa riduzione può tuttavia avere un duplice significato. Può: a) essere
intesa a giustificare la nozione stessa e a farne un con- cetto metafisico; 5)
essere intesa a criticare la no- zione e a mostrarne, col carattere
antropomorfico, la mancanza di fondamento. Leibniz è il capostipite dei
tentativi nel primo senso, Locke lo è dei tenta- tivi nel secondo senso. a) Nel
Système nouveau de la nature (1695) Leibniz racconta che, dopo essersi
affrancato dal giogo di Aristotele, aveva creduto nel vuoto e 420 negli atomi
ma che dopo molte meditazioni si era accorto che le unità ultime non possono
essere ma- teriali e perciò non possono essere atomi di materia ma di spirito.
« Bisognava dunque, egli aggiunge, riabilitare le forme sostanziali così
screditate oggi- giorno ma in un modo che le rendesse intelligibili e che
separasse l’uso che se ne deve fare dall’abuso che se n’è fatto. Trovai dunque
che la loro natura consiste nella F. e che da questo segue qualcosa d’analogo
alla coscienza e all’appetito; e che così bisognava concepirle ad imitazione
della nozione che abbiamo delle anime» (Systéme, ecc., $ 3). Questo mostra il
fondamento del primato che Leibniz ha poi sempre concesso alla nozione di F.
nelle sue interpretazioni fisiche e metafisiche: la F. è qualcosa d’analogo
alla coscienza (sentiment) e all’appetito cioè ad esperienze interne dell’uomo.
Vero è che Leibniz intendeva per F. la vis activa che, come si è detto, è
piuttosto energia. Ma la cosa non fa differenza dal punto di vista della sua
metafisica, che è una metafisica della F. spirituale (cfr. Nouv. Ess., II, 21,
$ 1). Questa dottrina di- venta l’archetipo di tutto l’indirizzo filosofico che
ha avuto come suo secondo fondatore, ai princìpi del sec. xrx, Maine De Biran.
Maine de Biran infatti assume la percezione interna e immediata, cioè la
coscienza che l’io ha di sè, come F. volente ed attiva, come la rivelazione
dello stesso carattere originario della realtà, che perciò appunto sarebbe essa
stessa F. « La percezione interna o immediata, eglidice, è la coscienza di una
F. che è il mio stesso io e che serve di tipo esemplare a tutte le no- zioni
generali e universali di causa e di F. (Nouveaux essais d’anthropologie,
1823-24, in (Euvres, ed. Na- ville, III, pag. 5). Quasi contemporaneamente
Scho- penhauer effettuava lo stesso passaggio dalla psi- cologia alla
metafisica, riconoscendo come unica F. costituente l’essenza del mondo quella
che l’uomo percepisce immediatamente in se stesso, cioè la volontà (Die Welt
als Wille und Vorstellung, 1819). Ciò va inteso nel senso che all'uomo appare come
volontà quella stessa potenza attiva che nelle altre parti della natura si
manifesta come F.: «Se quindi dirò: la F. che fa cadere a terra la pietra,
nella sua essenza, in sè, e fuori di ogni rap- presentazione, è volontà; non si
attribuirà a questa affermazione l’insano significato che la pietra si muova
secondo un motivo conosciuto per il fatto che nell'uomo la volontà si manifesta
in questo modo » (Die Welt, I, $ 19). Questa identificazione della F. di cui
l’uomo è conscio nell’esperienza in- teriore con la F. che agisce nel mondo è e
rimane alla base delle filosofie spiritualistiche. La dottrina di Bergson
secondo la quale uno s/ancio vitale, che alla coscienza umana si rivela come
durata reale, dà origine alla vita penetrando la materia e orga- FORZA nizzandola
(Évol. créatr., cap. I) obbedisce alla stessa impostazione fondamentale. Ma a
questa im- postazione obbediscono d’altronde anche le dottrine materialistiche:
ammettere, come faceva, per ces., Haceckel (Die Weltratsel, 1899), un’unica F.
che spieghi tutto il divenire dell’universo e che sia ana- loga a quella che si
rivela alla coscienza dell’uomo significa obbedire alla stessa interpretazione
della nozione di forza. b) Dall'altro lato la riduzione di questa no- zione a
una esperienza interna ha talora significato una critica della nozione stessa
perchè è stata as- sunta come un segno del suo carattere arbitrario. Locke a
questo proposito aveva messo in luce la derivazione dell’idea del potere
(Power) dalla ri- flessione dello spirito sulle sue stesse operazioni (Saggio,
II, 21, 4). Berkeley, allo scopo di difendere la sua concezione dell’universo
come linguaggio o manifestazione di Dio, fu a sua volta portato a togliere ai
concetti della scienza il loro carattere realistico: « La F., la gravità,
l’attrazione e simili termini, egli diceva, sono comodi allo scopo di ragionare
e di effettuare calcoli sul movimento e sui corpi che si muovono ma non allo
scopo di comprendere la natura del movimento stesso » (De Motu, $ 17; Siris, $
234). Hume a sua volta mostrò che nè dall’esperienza interna nè da alcuna altra
fonte lo spirito può attingere una chiara e reale idea di forza. « Noi
ignoriamo è vero, disse Hume, la maniera con la quale i corpi operano l’uno
sul- l’altro, e la loro F. o energia ci è del tutto incom- prensibile; ma siamo
egualmente ignoranti della maniera o F. con la quale una mente, anche la
suprema, opera sia su se stessa che sui corpi. Da che cosa, domando, riusciamo
a farcene una idea?... Che cosa è più difficile concepire, che il moto nasca da
un urto o che nasca da un atto di volontà? Tutto quello che sappiamo è la
nostra ignoranza profonda in entrambi i casi » (/ng. Conc. Underst., VII, 1).
Questa critica di Hume è rimasta classica e, per un certo aspetto, definitiva.
Mach considerava come un «feticismo» l’uso del con- cetto di F. come d'altronde
di quello di causa che egli voleva sostituito dal concetto di funzione (Analyse
der Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag. 74; Popularwissenschaftlichen
Vorlesungen, 1896, pa- gina 259; trad. ingl., 1943, pag. 254). Dall’altro lato
il fatto che questo concetto abbia perduto nella scienza ogni còmpito lo
sottrae anche all’in- teresse della critica metodologica. Esso si presenta oggi
pertanto come un concetto scientifico anti- quato, che serve di pretesto (ma
ormai sempre più raramente) a speculazioni metafisiche (cfr. Max JAMMER,
Concepts of Force, 1957: opera ricca di informazione per quanto incerta e
confusa nel de- limitare la nozione che ne è l’oggetto). FUNZIONALE FRECCIA
(gr. 8tox6q=epvq Df che si legge: «p implica g» equivale per defini- zione a
«non-p 0 g»; dove pe q stanno rispetti- vamente, per l’antecedente e il
conseguente e il ferro di cavallo > sta per il segno dell’I. materiale. Corrispondentemente,
si è chiamata /. formale quella che, oltre a rispondere alla condizione di
validità dell’I. materiale, esige, per esser valida, altre con- dizioni. Negli
esempi numerati di sopra solo l’(8) è una pura I. materiale perchè può essere
espressa dicendo «0 x non è un genio filosofico o io sono l’imperatore della
Cina ». Le altre, pur rispettando questa condizione, ne esigono (come si è
visto) altre che ne costituiscono il fondamento. Sicchè si può dire che tutte
le I. formali sono materiali, ma non tutte le I. materiali sono formali. L’I.
ma- teriale sarà perciò definita dalla seguente tavola di verità (nella quale p
e 9g stanno per proposizioni qualsiasi e V e F per vero e falso): P q P29 V V V
V F F F V V F F V (v. TAVOLE DI VERITÀ). 474 L’I. materiale può apparire
paradossale dal punto di vista del senso comune e delle scienze empiriche. Essa,
per es., consente di riconoscere come vera I’I. «Se 2 x 2= $, allora New York è
una città piccola +; e come falsa quest’altra «Se 2x 2=4 allora New York è una
città piccola » (cfr. TARSKI, Introduction to Logic, 1941, $ 8) nelle quali non
appare alcuna connessione causale o contestuale tra l’antecedente e il
conseguente: ma la prima significa «0 2 x 2 non è = 5 o New York è una città
piccola » e la seconda significa o 2 x 2 non è = 4 o New York è una città
piccola ». L’I. mate- riale è soprattutto usata nelle matematiche e Hilbert ha
fondato su di essa gli assiomi della logica delle proposizioni (« Die Logischen
Grundlagen der Ma- thematik », in Mathematische Annalen, 1923, pa- gine
151-65). In forma di assioma, I’I. materiale significa che «il vero segue da
ogni cosa + perché se q è vero di per sé stesso segue a qualsiasi p, non
importa se vero o falso; e che «ogni cosa segue dal falso » perché se p è
falso, da esso può seguire qualsiasi g sia vero che falso. In realtà, l’I.
materiale astrae completamente da ogni con- nessione causale o contestuale tra
l’antecedente e il conseguente (che può avere fondamenti assai diversi) e
costituisce soltanto la condizione minima sufficiente per la validità di rutte
le implicazioni. Alcuni logici tuttavia hanno cercato di rendere meno astratto
il concetto di I. avvicinandolo di più al significato che ha nell’uso comune. Così
l'americano C. I. Lewis (cfr. Lewis and LANGFORD, Symbolic Logic, 1932, pag.
174 sgg., 248 sgg.) ha parlato di un'/. stretta secondo la quale «p im- plica g
» sarebbe sinonimo di « q è deducibile da p » nel senso che sarebbe
contraddittorio affermare l'antecedente p e negare il conseguente g. Questo concetto
fa ricorso al concetto di possibilità logica e sarebbe perciò espresso dalla
formula —M (pr> g), dove M sta per « possibile », e che si legge: «non è
possibile che p sia vero e gq non lo sia». Una relazione analoga di I. è stata
chiamata entailment da molti scrittori inglesi, a partire da Moore che l’ha
illustrata dal modo seguente: « Sa- remo in grado di dire veramente che °p
entails (involve) g” quando e solo quando siamo in grado di dire veramente che
‘9 segue da p’ o ‘è dedu- cibile da p° nel senso in cui la conclusione di un sillogismo
in Barbara segue dalle due premesse prese come una proposizione congiuntiva »
(Philo- sophical Studies, 1922, cap. IX; ed. 1960, pag. 291). Carnap a sua volta ha distinto la C-implicazione, o
I. sintattica che è quella materiale di cui si è detto, dalla L-implicazione o
I. semantica che corrisponde all’I. stretta di Lewis (Introduction to
Semantics, 8 9, 14). Nella logica medievale il termine I. era usato soltanto
per indicare una forma della restrizione (v.): IMPLICITO come nell’esempio «
l’uomo, che è bianco, corre » nel quale l’I. è costituita dalla proposizione «
che è bianco», che restringe ai bianchi gli uomini che corrono. Nei manuali di
logica del sec. xvi la parola implicat fu adoperata come abbreviazione per
implicat contradictionem e l’uso ricorre anche nel De Intellectus Emendatione
(1662) e nei Cogitata Metaphysica (1663) di Spinoza (cfr. W. KNEALE and M.
KNEALE, The Development of Logic, 1962, ag. 300). IMPLICITO (ingl. Implicit;
franc. Implicite; ted. Verflechten). Questo aggettivo ha tre significati principali:
1° I., nel senso logico della implica- zione (v.) e in questo senso si
riferisce esclusivamente a enunciati, proposizioni o asserzioni; 2° non espli- cito,
cioè suggerito da un certo contesto di di- scorso, come quando si dice «x ha
implicitamente ammesso che... »; 3° potenziale o virtuale. Questo ultimo uso è
improprio. IMPOSIZIONE (lat. Impositio; ingl. Imposi- tion; franc. Imposition).
Nella Logica medievale è l’atto per il quale un nome viene destinato a signi- ficare
una cosa (cfr. Pietro Ispano, Summul. Logic., 6.03). IMPOSSIBILE. V. PossiBILE.
IMPREDICATIVA, DEFINIZIONE (in- glese Zmpredicative Definition; franc.
Definition im- prédicative). Poincaré indicò con questa espres- sione la
definizione del membro di una classe che fa riferimento alla totalità dei
membri della classe, e che pertanto contiene un circolo vizioso. Da tali definizioni
sorgono le antinomie logiche che Poin- caré voleva evitare stabilendo il
principio che non consente tali definizioni (PorNcARÉ, in « Revue de Métaphysique
et de Morale», 1906, pag. 294-317; cfr. anche Dernières Pensées, 1913, IV) (v.
ANTI- NOMIA). IMPRESSIONE (gr. tinwar; lat. Impressio; ingl. Impression; franc.
Impression; ted. Eindruck). La teoria che la conoscenza consista in una
impronta o impressione fatta dalle cose sull’anima nasce con gli Stoici. Essi
infatti dicevano che: « l’imma- gine è un’impronta nell’anima », prendendo il
nome dalla figura che il sigillo imprime sulla cera (Droa. L.,
VII, 45). Cicerone cercò di togliere
all’I. il suo carattere fisico (7usc. Disp., I, 61). Il termine fu diffuso
nella filosofia e nel linguaggio moderno da Hume che intese per I. « tutte le
nostre sensazioni, passioni ed emozioni, alla loro prima apparenza nell’anima »
(7reatise, I, 1, 1). E distinse le I dalle idee che sono copie sbiadite di esse
(/bid., I, 1, 2). IMPROPRIO, SIMBOLO. V. SINCATEGORE- MATICO. IMPULSO (ingl.
Impulse, Urge; franc. Impul- sion; ted. Impuls). Una spinta subitanea, tempo- INCONCEPIBILITÀ
ranea, e difficilmente controllabile, ad un’azione determinata. «Impulsivo»
dicesi chi è soggetto frequentemente a spinte di questo genere. Il termine non
va confuso nè con istinto (v.) nè con «ten- denza +, che corrisponde al termine
tradizionale appetizione (v.). IMPUTABILITÀ (gr. altia; lat. Imputatio; ingl.
Imputability; franc. Imputabilité; ted. Zu-’ rechenbarkeit). La possibilità di
riferire un’azione a un agente come a sua causa, in quanto diversa dalla
responsabilità (v.). INAUTENTICO. V. AUTENTICO. INCARNAZIONE (lat. Incarnatio;
ingl. In- carnation; franc. Incarnation; ted. Menschwerdung). L’unità della
natura divina e della natura umana nella persona di Cristo. È questo uno dei
due dogmi fondamentali del Cristianesimo, l’altro es- sendo quello della
Trinità. Dopo le discussioni patristiche che portarono nel sec. v ad alcune interpretazioni
che la Chiesa condannò come ere- tiche, questo dogma è stato nella Scolastica
uno dei banchi di prova della capacità delle filosofie di servire
all’interpretazione e alla difesa delle cre- denze religiose. Da questo punto
di vista, non c’è dubbio che la maggiore capacità in questo senso sia stata
dimostrata dal tomismo che ha dato la più semplice ed elegante interpretazione
del dogma. S. Tommaso prende lo spunto polemico appunto dalle due eresie
simmetriche e opposte del sec. v. L’interpretazione di Eutichio, insistendo
sull’unità della persona di Cristo, riduceva anche le due na- ture ad una sola
e precisamente a quella divina, considerando semplicemente apparente la natura umana
rivestita da Cristo. L’interpretazione di Ne- storio invece, insistendo sulla
dualità delle nature ammetteva in Cristo anche due persone coesistenti insieme,
la persona umana come strumento o ri- vestimento di quella divina. La
distinzione reale tra l'essenza e l’esistenza nelle creature e la loro unità in
Dio forniscono a S. Tommaso la chiave dell’interpretazione. L'essenza o natura
divina è in Dio identica con l’essere; dunque Cristo, che ha natura divina,
sussiste come Dio, cioè come per- sona divina ed è una sola persona, quella
divina. Dall'altro lato, la separabilità della natura umana dall’esistenza fa
sì che Cristo possa assumere la na- tura umana (che è anima razionale e corpo)
senza essere persona umana (Contra Gent., IV, 49; S. Th., III, q. II, a. 6).
Questa interpretazione tomistica co- stituisce la dottrina ufficiale della
Chiesa cattolica. INCETTIVA, PROPOSIZIONE (franc. Pro- position inceptive ou
désistive). La Logica di Porto- reale chiamò così la proposizione che afferma
che una cosa ha cominciato o ha cessato di essere tale; per es.: «La lingua
latina ha cessato di essere volgare in Italia da molti secoli » (ARNAULD, Log.,
II, 10, 4). 475 INCLINAZIONE. V. TENDENZA. INCLUSIONE (ingl. Inelusion; franc.
Inclu- sion; ted. Einschliessung). Nella Logica delle classi, il rapporto di I.
tra due classi a e f (simbolo ta > 8») sussiste quando tutti gli elementi
della classe « appartengono anche alla classe 8, ma non necessariamente
viceversa (l’I. è riflessiva e transi- tiva, ma non simmetrica). Al rapporto di
I. corri- sponde un rapporto di implicazione tra i concetti- classe
corrispondenti. Per es., la classe uomo è inclusa nella classe mortale perchè
tutti gli uomini sono mortali. G. P. INCOERENZA. V. CorrENZA. INCOMPATIBILITÀ.
V. COMPATIBILITÀ. INCOMPLETO, SIMBOLO (ingl. Incomplete Symbol). In logica
matematica si chiama così un simbolo che non ha significato per suo conto ma acquista
significato solo in un contesto, al cui significato a sua volta contribuisce.
INCOMPLEXUM. V. CompLesso. INCONCEPIBILITÀ (ingl. /nconceivability; franc.
Inconcevabilité; ted. Unbegreiflichkeit). Il cri- terio cartesiano di accettare
per vero tutto ciò che è evidente per la ragione ha, come suo correlativo negativo,
il criterio di rigettare ciò che non appare tale o che, in generale, è
incompatibile con la ra- gione. Questo è propriamente il criterio delle incon- cepibilità.
Di esso si avvalse soprattutto Leibniz, che esplicitamente lo difese; «Io
riconosco in ve- rità, egli scrisse, che non è permesso di negare ciò che non
s’intende, ma aggiungo che si ha il diritto di negare (almeno nell’ordine
naturale) ciò che non è assolutamente nè intellegibile nè espli- cabile.. La
concezione delle creature non è la misura del potere di Dio ma la loro
concepibilità o forza di concezione è la misura del potere della natura,
giacchè tutto ciò che è conforme all’ordine naturale può essere concepito o
inteso da qualche creatura» (Nouv. Ess., Avant-Propos., Op., ed. Erd- mann,
pag. 202). In altri termini si può ammettere che sia reale in natura ciò che
non s'intende (cioè che non si sa spiegare) ma non ciò che è inconcepi- bile,
cioè « incompatibile con la ragione ». Ma che cosa poi debba intendersi per
incompatibilità con la ragione, non fu spiegato da Leibniz; come non fu
spiegato da coloro (e sono moltissimi), che hanno fatto riferimento allo stesso
criterio. Una critica del quale si trova per la prima volta nella Logica di
Stuart Mill, a proposito dell’uso che di esso avevano fatto Hamilton (Lectures
on Metaphy- sics and Logic, 1859-60) e Spencer (Principles of Psy- chology,
1855). Stuart Mill notava come gli antipodi erano dichiarati impossibili dagli
antichi che trova- vano inconcepibile che ci fossero persone che aves- sero la
testa nella direzione dei nostri piedi; e che uno dei più diffusi argomenti
contro il sistema 476 copernicano era stata l’I. dell'immenso spazio vuoto richiesto
da quel sistema (Logic, V, 3, $ 3; cfr. II, 5,86; 7,8 1-3). In realtà,
l’incompatibilità con la ragione, che è la definizione dell’I., non può avere
altro signifi cato preciso se non quello di incompatibilità con il sistema di
credenze cui si fa riferimento. Ovvia- mente una tale incompatibilità non può
valere come criterio di giudizio per l’attendibilità di una nozione qualsiasi.
Se poi per I. si intende la contraddit- torietà (come talora accade) bisogna
ricordare che il giudizio sulla contraddittorietà o meno di due asserzioni deve
fare riferimento a un campo de- terminato, nel quale siano implicitamente o
espli- citamente definite le regole della coerenza o della compatibilità. Può
darsi, ad es., che non sia con- traddittorio in fisica ciò che sarebbe
contraddittorio in matematica o viceversa; e, per es., la fisica non ritiene
contraddittorio concepire i fenomeni elettro- magnetici insieme come
corpuscolari e come ondu- latori. Ma per questi significati ristretti e
specifici della contraddittorietà, la parola I., con il suo si- gnificato
assoluto, è completamente inadatta. Per- tanto la filosofia contemporanea l’ha
messa in disparte, insistendo, non sull’antitesi razionale- inconcepibile, ma
piuttosto su quella significanza- insignificanza (v. SIGNIFICATO). INCONDIZIONATO
(ingl. Unconditioned; frane.
Inconditionné; ted. Unbedingt). Hamilton
(Discussions on Philosophy, 1852) e Mansel (7fe Philosophy of the Conditioned,
1866), hanno chia- mato I. l’Infinito o l’Assoluto, cioè Dio in quanto sfugge a
tutte le limitazioni del pensiero umano ed è perciò inconcepibile. Per il
significato generico del termine v. Con- DIZIONE. INCONOSCIBILE (ingl.
Unknowable, Incogni- zable; franc.
Inconnaissable; ted. Unerkennbar). Ter- mine
adoperato da Hamilton per indicare l’ Assoluto o Infinito, in quanto ritenuto
al di là di ogni possi- bilità di conoscenza e oggetto solo di fede. « Pen- sare
è condizionare, diceva Hamilton (Discus- sions on Philosophy, 1852, pag. 13) e
una limitazione condizionale è una legge fondamentale delle possi- bilità del
pensiero... L’Assoluto non è concepibile che come una negazione della
concepibilità ». Tut- tavia la sfera della credenza è più estesa di quella della
conoscenza: sicchè l’Infinito per quanto non possa essere conosciuto, può e
deve essere creduto (Lectures on Metaph., II, pag. 530-31). Questa no- zione fu
ripresa da Spencer il quale anch’egli affermò l’inconoscibilità dell’Assoluto e
nello stesso tempo la necessità di ammetterlo per rendere pos- sibile il
relativo (First Principles, 1862, $ 26). La no- zione dell’I. divenne così
correlativa con quella di agnosticismo (v.); e come quest’ultima fu estesa INCONDIZIONATO
anche a designare la dottrina di Kant della cosa in sè e della inconoscibilità
di essa. Kant tuttavia non ammetteva l’inconcepibilità della cosa in sè, come
faceva Hamilton rispetto all’Assoluto; e non ammetteva quella specie di
corrispondenza ipote- tica tra l’I. e il fenomeno che Spencer chiamava realismo
trasfigurato (Ibid., $ 50). Il concetto di I. non ha mai superato i confini del
positivismo evo- luzionistico di stampo spenceriano (v. Cosa IN SÉ). INCONSCIO
(ingl. Unconscious; franc. Incon- scient; ted. Unbewusst). Il primo ingresso di
questa nozione nella filosofia è dovuto a Leibniz che sot- tolineò l’importanza
delle « percezioni insensibili + o «piccole percezioni» cioè delle percezioni
non accompagnate dalla consapevolezza o riflessione. Sono tali percezioni che
secondo Leibniz « formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle qualità
sensibili, chiare nell’insieme ma confuse nelle parti; quelle impressioni che i
corpi che ci circondano fanno su di noi e che involgono l’in- finito; quel
legame che ciascun essere ha con tutto il resto dell’universo » (Nouv. Ess.,
Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 197). L'esistenza di questa zona inconscia
divenne un luogo comune nella scuola wolfiana (cfr. WoLFF, Psychol. rationalis,
$ 58 sgg.) e fu ammessa da Kant: il quale rispon- deva all’obiezione di Locke
che non si possono avere rappresentazioni di cui non si è coscienti perchè
l’averle significa precisamente l’esserne co- scienti (Saggio, I, 1, 5)
affermando che « possiamo essere coscienti mediatamente di una rappresenta- zione
di cui non siamo coscienti immediatamente + (Antr., $ 5). Ma fu soltanto con
Schelling che l’L divenne l'elemento fondamentale di una co- struzione
metafisica cioè uno degli aspetti essenziali dell’Assoluto come Identità di
natura e spirito (cioè per l’appunto di I. e coscienza). « Questo eterno I.,
diceva Schelling, che, come il sole eterno del regno degli spiriti, si nasconde
nel suo proprio lume sereno e, benchè non divenga mai oggetto, imprime alle
azioni libere la sua identità, è lo stesso per tutta l’intelligenza ed è
insieme la radice in- visibile di cui tutte le intelligenze non sono che le
potenze; è l’eterno intermediario tra il
soggettivo, che si autodetermina in noi, e l’oggettivo o intuente; ed è il
fondamento dell’uniformità nella libertà e della libertà nell’uniformità
oggettiva» (System der transzendentalen Idealismus, IV, F; trad. ital., pag.
280). Ancora più radicalmente Schopenhauer riteneva I. quella volontà di vivere
che costituisce il noumeno del mondo. «La volontà, egli diceva, considerata in
se stessa è I.: è un cieco, irresistibile impeto, quale noi già vediamo
apparire nella natura inorganica e vegetale, come anche nella parte vege-
tativa della nostra vita» (Die Welt, I, $ 54). E come sintesi dello Spirito
assoluto di Hegel, della INDETERMINAZIONE, RELAZIONI DI Volontà di Schopenhauer
e dell’I. di Schelling, Eduardo Hartmann presentava il principio della sua
filosofia: un principio che egli chiamava per l'appunto l’I. e del quale lo
spirito e la materia sarebbero state due diverse manifestazioni (Philo- sophie
des Unbewussten, 1869). Si può considerare appartenente a questa stessa linea
di pensiero la filo- sofia di Bergson: il quale difendeva I’I. osservando che
la ripugnanza a concepire stati psicologici in- consci viene dal fatto che si
considera la coscienza come la proprietà essenziale degli stati psichici. « Ma,
egli osservava, se la coscienza è soltanto il segno caratteristico del
presente, di ciò che è attualmente vissuto, ovvero di ciò che agisce, allora
ciò che non agisce potrà cessare d’appartenere alla co- scienza senza cessare
necessariamente di esistere in qualche modo» (Matière et mémoire, cap. III,
pag. 147). Con l’I. così inteso s’identifica per Bergson il ricordo puro cioè
la corrente della co- scienza che è poi lo stesso slancio vitale. Ma mentre
così l’I. veniva utilizzato nella me- tafisica e mentre, dall’altro lato, la
psicologia lo ammetteva, sia pure malvolentieri, come un dato di fatto, esso
riceveva un contenuto completamente nuovo ad opera di Freud. Lo stesso Freud
così presentava le due tesi fondamentali della psicanalisi: «La prima di queste
premesse è che i processi psichici sono in se stessi inconsci e che quelli co- scienti
sono soltanto atti isolati, frazioni della vita psichica totale ». La seconda
proposizione che la psicanalisi proclama come una delle sue scoperte è
l’affermazione che tendenze le quali possono es- sere qualificate solo come
sessuali, nel senso ri- stretto o largo della parola, agiscono come cause determinanti
di malattie nervose o psichiche e che le stesse emozioni sessuali hanno una
parte impor- tante nelle creazioni dello spirito umano nei campi della cultura,
dell’arte e della vita sociale » (Einfi- rung in die Psychoanalyse, 1917,
Intr.; trad. franc., pag. 32-33). In tal modo la psicanalisi toglieva all’I. il
carattere indeterminato o amorfo che esso aveva sino a quel momento conservato
nelle interpretazioni dei filosofi e degli psicologi per acquistare un conte- nuto
preciso ed identificarsi con le tendenze sessuali inibite o negate o comunque
camuffate o nascoste. Dapprima l’estesissima voga, poi l’importanza scien- tifica
che la psicanalisi ha conservato e conserva nel mondo contemporaneo (v.
PSICANALISI), hanno fatto passare in seconda linea la difficoltà teorica
connessa con lo stesso riconoscimento dell’esistenza dell’in- conscio.
Ovviamente, l’obiezione di Locke, tante volte ripetuta, che « esistere », per
uno stato mentale significa «esser percepito » o «esser oggetto di co- scienza
» e che pertanto uno stato mentale inco- sciente è una contraddizione nei
termini, ha perduto tutto il suo valore. Uno stato mentale, per es., 477 un’emozione,
una tendenza, una volizione, può «esistere », anche se non viene « percepita»,
nel senso che essa può essere opportunamente posta in luce e riconosciuta, con
procedimenti appropriati (che sono quelli appunto adoperati dalla psicanalisi),
come la condizione di una situazione psichica nor- male o patologica. Freud
stesso ha insistito a questo proposito sulla nozione di sintomo: « Un sintomo, egli
dice, si forma a titolo di sostituzione al posto di qualche cosa che non è
riuscito a manifestarsi al di fuori. Certi processi psichici, non avendo potuto
svilupparsi normalmente, in modo da arri- vare sino alla coscienza, hanno dato
luogo a un sintomo nevrotico » (/bid., trad. franc., pag. 303). L’I. quindi
esiste in primo luogo a titolo di sintomo. Si tratta della stessa soluzione
teorica che Kant aveva visto dicendo che l’I., pur non essendo per- cepito
immediatamente, può essere percepito me- diatamente; ma questa soluzione
teorica è assai migliorata perchè in Freud l’I., come sintomo, non ha neppure
bisogno di essere « percepito +: è un fatto che l’osservazione clinica può
constatare. INCONSEGUENZA (ingl. Inconsistency; fran- cese Inconséquence; ted.
Folgewidrigkeit). L'assenza di compatibilità (v.) delle proposizioni
costituenti un sistema simbolico. Ad es., un insieme di propo- sizioni è
inconseguente quando esso implica una contraddizione cioè quando da esso deriva
formal- mente sia una certa proposizione p sia la nega- zione di p. In
generale, si può dire che l’I. di un sistema qualsiasi è la possibilità di una
contraddi- zione nel sistema stesso. INCONSISTENZA. V. COMPATIBILITÀ. INDAGINE.
V. Ricerca. INDEFINITO (ingl. /ndefinite; franc. Indéfini; ted. Unbegrenzi).
Ciò che non ha limiti nello spazio o nel tempo e che è quindi infinito nel
senso nega- tivo del termine. Questo è almeno il significato della parola che
fu stabilito da Cartesio, il quale pertanto distingueva l’indefinitezza delle
cose dalla infinità di Dio il quale « non ha limiti nelle sue perfezioni » ed è
perciò il solo essere infinito (Prince. Phil., I, 27; I Résp., X capoverso). La
parola equi- vale pertanto a illimitato (v.). Non viene invece usata per dire «
non definito » cioè non espresso da una definizione. INDETERMINATO. V.
DETERMINAZIONE. INDETERMINAZIONE (ingl. Indetermina- tion; franc.
Indétermination; ted. Unbestimmtheit). 1. L'assenza della determinazione logica
(v. DETER- MINAZIONE). Talvolta lo stesso che vaghezza (vedi VAGO). 2.
L’assenza della determinazione causale (vedi INDETERMINISMO). INDETERMINAZIONE,
RELAZIONI DI (ingl. Uncertainty
Relations; franc. Relations d’in- 478 détermination;
ted. Unbestimmtheitsrelationen). Con questa espressione o con quella di «
principio di I. + si indica, dal 1927, il riconoscimento, nella fisica subatomica,
dell'azione reciproca tra l’oggetto e l’osservatore e pertanto la perturbazione
che l’os- servazione produce sullo stesso oggetto osservato. Fu Heisenberg a
mettere in luce per primo questo aspetto essenziale della fisica quantistica.
Ecco come egli stesso lo esprime: « Nelle teorie classiche l’in- terazione tra
l'oggetto e l’osservatore veniva con- siderata o come trascurabilmente piccola
o come controllabile, in modo da poterne eliminare l’in- fluenza per mezzo di
calcoli. Nella fisica atomica invece tale ammissione non si può fare perchè, a causa
della discontinuità degli eventi atomici, ogni interazione può produrre
variazioni parzialmente incontrollabili e relativamente grandi. Questa cir- costanza
ha come conseguenza il fatto che, in generale, le esperienze eseguite per
determinare una grandezza fisica rendono illusoria la conoscenza di altre
grandezze ottenute precedentemente; esse in- fatti influenzano il sistema su
cui si opera in modo incontrollabile, quindi i valori delle grandezze pre- cedentemente
conosciute ne risultano alterati. Se si tratta questa perturbazione in modo
quantitativo, si trova che in molti casi esiste, per la conoscenza contemporanea
di diverse variabili, un limite di esattezza finito, che non può essere
superato» (Die physikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, I, $ 1). Per
l’influenza che la scoperta delle relazioni di I. ha avuto nel campo
scientifico-filo- sofico v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE. INDETERMINISMO (ingl.
/Indeterminism; franc. Indéterminisme; ted. Indeterminismus). Ter- mine
introdotto nel linguaggio filosofico nella se- conda metà del sec. xvm per
designare la dottrina che nega il determinismo dei motivi cioè la de- terminazione
della volontà umana da parte dei motivi stessi (v. DETERMINISMO). Diceva
Leibniz: «Quando si pretende che un avvenimento libero non può essere previsto,
si confonde la libertà con l’indeterminazione o con l'indifferenza piena o di equilibrio;
e quando si vuole che la mancanza della libertà impedirebbe all'uomo d’essere
col- pevole si allude a una libertà priva, non di deter- minazione o di
certezza, ma di necessità e di co- strizione » (77iéod., III, 369). Kant a sua
volta affermava: «Non c’è alcuna difficoltà nel conci- liare il concetto della
libertà con l’idea di Dio in quanto essere necessario: perchè la libertà non consiste
nella contingenza dell’azione (nel fatto che l'azione non è determinata da
alcun motivo cioè nell’I.) ma nell’assoluta spontaneità, la quale sol- tanto è
in pericolo col predeterminismo, giacchè per esso il motivo determinante
dell’azione è an- tecedente nel tempo, quindi l’azione non è più INDETERMINISMO
attualmente in mio potere ma nella mano della natura ed io sono da tale motivo
irresistibilmente determinato » (Religion, I, Osservazione generale, Nota).
L’I. inteso in questo senso, cicè come nega- zione del determinismo dei motivi,
è uno dei tratti salienti dello spiritualismo francese (Ravaisson, La- chelier,
Boutroux, Hamelin, Bergson, ecc. Confronta A. LEvI, L'I. nella filosofia
francese contemporanea, Firenze, 1904) (v. LIBERTÀ). INDICE (ingl. Index).
Termine adoperato da Peirce per indicare la relazione oggettiva (non men- tale)
tra il segno e il suo oggetto. Indici in questo senso sono tutti i segni
naturali e i sintomi fisici. «Chiamo I. uno di tali segni, dice Peirce, perchè
un I. puntato è il tipo della classe » (Co//. Pap., 3.361). INDIFFERENTI. V.
ADIAFORÀ. INDIFFERENZA, LIBERTÀ DI. V. Li- BERTÀ. INDIFFERENZA, PRINCIPIO DI
(inglese Principle of Indifference; franc. Principe d’indiffé- rence; ted.
Indifferenzprinzip). Con questo nome o con quello di « principio di
equiprobabilità » o di « principio di nessuna ragione in contrario » si indica l’enunciato
che gli eventi hanno la stessa proba- bilità quando non c’è ragione di assumere
che uno debba accadere a preferenza dell'altro. Questo principio fu esposto
nell’Essai philosophique sur les probabilités (1814) di Laplace come secondo
prin- cipio del calcolo delle probabilità (cap. 2); ed è a fondamento della
teoria a priori della probabilità, cioè della teoria che cerca di definire la
probabilità indipendentemente dalla frequenza degli eventi cui essa si
riferisce. Il principio è stato pertanto abban- donato da alcune teorie moderne
sulla probabilità (Lewis, Analysis of Knowledge, 1946, cap. X; REI- CHENBACH,
Theory of Probability, 1949, $ 68) (v. PROBABILITÀ). INDIMOSTRABILE (ingl.
Undemonstrable; franc. Indémontrable; ted. Unerweislich). 1. Ciò che non ha
bisogno di dimostrazione perchè la sua verità è evidente. In questo senso sono
I. i prin- cìpi primi della logica di Aristotele (v. ASssioMI) e gli
anapodittici degli Stoici (v. ANAPODITTICO). 2. Le proposizioni primitive o in
generale gli antecedenti di un qualsiasi sistema simbolico in quanto tali
antecedenti sono a fondamento delle regole di dimostrazione proprie del
sistema. In questo senso, sono indimostrabili gli assiomi, le definizioni e le
regole di trasformazione di ogni sistema simbolico. 3. Le proposizioni
indecidibili cioè le proposizioni che non possono essere dette vere o false
nell’am- bito di un dato sistema simbolico ma possono essere decise in sistema
più vasto, nel quale però rina- scono in altra forma. In questo senso, sono
indi- mostrabili le proposizioni costituenti le antinomie INDIVIDUALITÀ logiche
(v.); ed è I. la non contraddittorietà della matematica e in generale dei
sistemi simbolici (vedi ANTINOMIE; MATEMATICA; SISTEMA). 4. Ogni credenza o
pretesa che non possa essere suffragata da prove. Questo è il significato più generale
e indeterminato col quale il termine viene adoperato frequentemente nel
linguaggio comune. Così si chiamano I. certe credenze religiose; e si chiama I.
la pretesa di un credito se non è appog- giata da documenti o testimonianze.
Asserzioni concernenti fatti sono spesso dichiarate I. per la stessa ragione. INDIPENDENTE
(ingl. Independent; fran- cese /Indépendant; ted. Unabhdngig). Ciò che non deriva
da altro il suo essere, la sua validità o la sua capacità d’azione. Così un
uomo o uno Stato si dice I. quando la sua vita o la sua condotta non dipende da
quella di un altro uomo o di un altro Stato. Un evento si dice I. da un altro
quando non dipende causalmente da quest’altro. E una proposizione qualsiasi è
I. da un’altra proposizione o da un sistema di proposizioni se non è derivabile
dall’una o dall'altro. Il requisito dell’indipendenza reciproca si richiede per
la determinazione degli assiomi di un sistema simbolico. Difatti sarebbe
inutile assumere come assioma una proposizione che si potesse derivare dagli
altri assiomi del sistema (v. ASSIOMA). INDISCERNIBILI. V. IDENTITÀ DEGLI. INDISTINTO.
Termine adoperato da Ardigò per definire l'evoluzione, in sostituzione dell’
omo- geneo » di Spencer. L’evoluzione sarebbe il pas- saggio dall’I. al
distinto: termini che sono desunti dall’esperienza psichica, mentre quelli di
Spencer erano desunti dalla biologia (ArRDIGÒ, Opere, II, pag. 189 e passim). INDIVIDUALE,
PSICOLOGIA. V. Psico- LOGIA, E). INDIVIDUALISMO (ingl. Individualism; fran- cese
Individualisme; ted. Individualismus). Ogni dot- trina morale o politica che
riconosca all’individuo umano un prevalente valore di fine rispetto alle comunità
di cui fa parte. L’estremo di questa dot- trina è ovviamente la tesi che
l’individuo ha valore infinito e la comunità valore nullo. Tale è la tesi dell’anarchismo
(v.). Ma l’I. è abitualmente assunto nell’accezione più moderata che si è
proposta; e in tal senso è il fondamento teoretico che il libe- ralismo si è
dato al suo primo affacciarsi nel mondo moderno. È difatti il presupposto
comune del giusnaturalismo, del contrattualismo, del liberismo e della lotta
contro lo Stato che costituiscono gli aspetti fondamentali della prima fase del
liberalismo (v.). 1° Il giusnaturalismo consiste nel riconoscere all'individuo
diritti originari e inalienabili che egli conserva, sia pure in forma diversa o
limitata, in 479 tutti i corpi sociali che entra a comporre (v. GIUSNA- TURALISMO).
2° Il contrattualismo consiste nel considerare la società umana e lo Stato come
risultato di una convenzione fra gli individui: dottrina che nell’età moderna
cioè a cominciare dalle Vindiciae contra tyrannos (1579) dei Calvinisti di
Ginevra è stata spesso adoperata come negazione dell’assolutismo statale o
strumento per limitarlo (v. CONTRAT- TUALISMO). 3° Il liberismo economico,
proprio dei fisio- cratici e della scuola classica dell'economia poli- tica, è
la lotta contro l’ingerenza dello Stato negli affari economici e la
rivendicazione all’individuo dell’iniziativa economica. Questo è un aspetto ca-
ratteristico del liberalismo individualistico (v. Eco- NOMIA; LIBERALISMO). 4°
La lotta contro lo Stato e la tendenza a stabilire limiti all’azione dello
Stato è il carattere globale dell’individualismo. In questo senso uno dei più
significativi documenti del liberalismo mo- derno è l’opera di SPENCER, L’uomo
contro lo Stato (1884) nel quale viene combattuta l’ingerenza dello Stato
(quindi anche del Parlamento) anche nel dominio dell’igiene e dell’istruzione
pubblica, ol- trechè nel dominio economico. Il postulato soggiacente a tutti
questi diversi aspetti dell’I. è la coincidenza dell'interesse dell’in- dividuo
con l'interesse comune o collettivo. L'or- dine naturale che Adamo Smith
riteneva nella Ricchezza delle Nazioni (1776) esser proprio dei fatti
economici, serviva appunto a garantire quella coincidenza. In questa stessa
coincidenza credevano Geremia Benthan e Giacomo Mill. Quando, con l’osservazione
delle anomalie dell’ordine economico e con il riconoscimento che la semplice
limitazione dei poteri dello Stato non elimina nè queste ano- malie nè il
disordine o le disuguaglianze sociali, questa credenza cominciò a scuotersi, la
fase in- dividualistica del liberalismo venne al termine e s’iniziò quella che
si appellava all’azione dello Stato e tendeva perciò ad esaltare lo Stato
stesso. Da questo nuovo punto di vista l’I. fu contrasse- gnato e criticato:
come «atomismo» perchè pre- tendeva far nascere la società da un insieme di atomi
sociali, gli individui; come «anarchismo» perchè pretendeva che l’individuo non
sottostasse all’azione dello Stato; e come «egoismo» perchè voleva che le
attività economiche si volgessero se- condo le direttive dell’interesse
privato. In tal modo però venivano trascurati i motivi storici che avevano provocato
l'indirizzo individualistico del liberalismo e veniva inconsapevolmente
preparata la via a nuove vittorie dell’assolutismo statalista. INDIVIDUALITÀ
(lat. Individualitas; ingl. In- dividuality; franc. Individualité; ted.
Individualitàt). 480 Termine di origine medievale: il modo d’essere dell’individuo.
INDIVIDUAZIONE (lat. Individuatio; inglese Individuation; franc. Individuation;
ted. Individua- tion). Il problema dell’I. è il problema della costi- tuzione
dell’individualità a partire da una sostanza o natura comune: per es., della
costituzione di questo uomo o questo animale a partire dalla so- stanza «uomo»?
o sostanza «animale». Il primo a formulare il problema fu Avicenna (v. ARABA, FiLosoria)
dal quale fu trasmesso alla Scolastica cristiana. Il presupposto da cui esso
nacque è il principio della necessità della sostanza, che Avi- cenna esprime
dicendo: « Tutto ciò che è, ha una sostanza per la quale è ciò che è e per la
quale è la necessità e l’essere di ciò che è» (Logica, I, ed. Venezia, 1508,
fol. 3 v.). In base a questo prin- cipio, «l’animale è in sè qualcosa ed è la
stessa cosa, sia che sia percepito sia che sia appreso dal- l'intelletto; ed in
sè non è nè universale nè singo- lare » (/bid., III, fol. 12 r.). Ma se è così,
che cosa lo fa essere individuale, cioè che cosa fa della sostanza « animale»
questo o quell’animale? Ecco, secondo Avicenna, il problema
dell’individuazione. Ed Avicenna trovava nello stesso Aristotele la risposta al
problema: l’individualità dipende dalla materia. Aristotele infatti aveva
detto: « Tutte le cose che sono numericamente molte hanno ma- teria: giacchè il
concetto di tali cose, per es., del- l’uomo, è uno e identico per tutte, mentre
Socrate (che ha materia) è unico +» (Mer., XII, 8, 1074 a 33). Questa soluzione
viene accettata da Avicenna (/n Met., XI, 1) e attraverso quest’ultimo da
Alberto Magno (/n Mer., III, 3, 10) e da molti altri scolastici. S. Tommaso
presentò una variante di questa so- luzione, affermando che il principio di I.
non è la materia comune (giacchè tutti gli uomini hanno carne e ossa e quindi
non si diversificano in questo); ma la materia signata o, come egli anche dice,
«la materia considerata sotto determinate dimen- sioni» (De ente et essentia,
2). In altri termini, un uomo è diverso dall'altro perchè unito a un determinato
corpo, diverso per le dimensioni, cioè per la sua situazione nello spazio e nel
tempo, da quello degli altri uomini (S. 7A., III, q. 77, a. 2). Questo stesso
tipo di soluzione si trova ri- prodotto nell’età moderna da Schopenhauer che, considerando
la volontà come la sostanza unica e comune di tutti gli esseri, vide il
principio d’I. nello spazio e nel tempo. « Infatti, egli disse, per mezzo dello
spazio e del tempo, ciò che è tutt'uno nell’essenza e nel concetto apparisce
invece diverso, come pluralità giustapposta e succedentesi» (Die Welt, I, $
23). Dall’altro lato, la corrente agostiniana della scolastica fu portata a
riconoscere il principio di I. INDIVIDUAZIONE nella forma, più che nella
materia, delle cose. Bonaventura riteneva che la forma è l’essenza che restringe
e definisce la materia ad un determinato essere; e poneva il principio d’I.
nella comunica- zione (communicatio) tra la materia e la forma in quanto
l’individuo è un hoc aliquid in cui l’hoc è costituito dalla materia, l’aliguid
dalla forma (In Sent., III, d. 10, a. 1, q. 3). Allo stesso tipo di soluzione
appartiene l’interpretazione che molti sco- lari di Duns Scoto dettero della
haecceitas come di una forma finale che completa e integra una serie di forme
costitutive dell’oggetto naturale (cfr. Herveus NATALIS, De pluralitate
formarum, 5). Infine una terza soluzione del problema è quella autenticamente
scotistica. Duns Scoto nega che la materia o la forma possano valere come
principio d’individuazione. La materia, che è il soggetto indistinto, non può
essere il principio della distin- zione e della diversità (Op. Ox., II, d. 3,
q. 5, n. 1). La forma è poi la stessa sostanza o natura comune che è
antecedente (e indifferente) sia all’universalità che all’individualità.
L’individualità consiste invece in una « ultima realtà dell’ente » la quale
determina e contrae la natura comune all’individualità, ad esse hanc rem.
Quest'ultima realtà, o come egli anche la chiama «entità positiva » (/bid., II,
d. 3, q. 2), è la determinazione ultima e compiuta della materia, della forma e
del loro composto. Da questo punto di vista l’individuo non è caratteriz- zato
dalla semplicità della sua costituzione ma piut- tosto dalla complessità e
ricchezza delle sue deter- minazioni. Come si è detto, il problema dell’I.
nasce dal carattere privilegiato attribuito alla sostanza comune che
esisterebbe in qualche modo prima e indipenden- temente dagli individui. Il
problema pertanto sparisce quando viene negato il carattere privilegiato della sostanza
comune: il che accade col nominalismo empiristico dell’ultima scolastica.
Ockham riconosce nella sostanza comune una forma dell’universale e la coinvolge
nella negazione recisa di ogni realtà universale: « Nessuna cosa fuori
dell’anima, nè di per sè nè per alcunchè di reale o di mentale che le venga
aggiunto, e comunque la si consideri o la s’intenda, è universale: giacchè
tanta è l’impossi- bilità che una cosa fuori dell’anima sia in qualche modo
universale (se non per convenzione arbitraria, al modo in cui la voce ‘uomo che
è singolare diventa universale) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per
qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino» (In Sent., I,
d. 2, q. 7, S-T). Da questo punto di vista il problema stesso dell’I. si
dissolve. Dice ancora Ockham: « È da ritenersi indubitabilmente che qualsiasi
cosa esistente immaginabile, di per sè, senza che nulla le venga aggiunto, è
una cosa singolare ed una di INDIVIDUO numero: sicchè nessuna cosa immaginabile
è sin- golare per qualcosa che le venga aggiunta, ma la singolarità è una
proprietà che appartiene imme- diatamente a ogni cosa, perchè ogni cosa è di
per sè o identica o diversa dall'altra » (Expositio aurea. Liber Predicabilium,
Proemium). Quando Leibniz in uno dei suoi primi scritti affermava che « ogni individuo
è individuato dalla sua totale entità » non faceva che esprimere in termini
scotistici la stessa posizione di Ockham, come egli stesso riconosceva (De
Principio Individui, 1663, $ 4): giacchè l’entità totale non è altro che la
stessa cosa esistente in quanto tale. B la stessa implicita negazione del
problema dell’individuazione si può scorgere nella soluzione apparente che a
questo problema dà Wolff: « Il principio d’I. è la determinazione com- pleta di
tutte le cose che sono inerenti a un ente in atto» (Ontolog., $ 229). D'altra
parte Locke aveva detto: «Da ciò che si è detto è facile sco- prire cosa sia il
principium individuationis intorno al quale tanto si è indagato: è chiaro che
esso è l'esistenza stessa, la quale determina un essere, di qualunque specie,
in un particolare tempo e in un particolare luogo, incomunicabili a due esseri
della medesima specie » (Saggio, II, 27, 4). Queste sedicenti «soluzioni » in
realtà sono ne- gazioni del problema: il quale sparisce completa- mente (salvo
che in rare eccezioni) nella filosofia moderna per l’avvenuta dissoluzione del
suo presup- posto: la priorità ontologica della sostanza comune. INDIVIDUO (gr.
&topov; lat. Individuum; in- glese /ndividual; franc. Individu; ted.
Individuum). In senso fisico: l’indivisibile, ciò che non può es- sere
ulteriormente ridotto con un procedimento di analisi. In senso logico:
l’impredicabile, ciò che non si può predicare di più cose. Per Aristotele VI.
è, nel primo senso, la specie, in quanto, ri- sultando dalla divisione del
genere, non può essere a sua volta divisa (Anal. Post., II, 13, 96b 15; Mer.,
V, 10, 1018 b 5). Alla determinazione della indivisibilità, i logici del v
secolo aggiunsero, per caratterizzare l’I., quella della impredicabilità. Dice Boezio:
«Si dice I. ciò che non si può dividere per nulla, come l’unità o la mente o
ciò che non si può dividere per la sua solidità, come il dia- mante; o ciò che
non si può predicare di altre cose simili, come Socrate » (Ad Isag., II, in P.
L., 64, col. 97). Questa notazione divenne fonda- mentale per la logica
medievale che l’utilizzò per definire I°I.: «I. è ciò che si predica di una
sola cosa, come Socrate e Platone», dice Pietro Ispano (Summ. Log., 2.09). S.
Tommaso parla di un I. vago (vagum), che corrisponde all’individualità della specie
e di un I. singolo: «L’I. vago, per es., l’uomo, significa una natura comune
con un de- terminato modo d'essere che compete alle cose 31 — ADDAGNANO,
Dizionario di filosofia. 481 singole, cioè che sia sussistente per sè e
distinto dagli altri. Ma l’I. singolo significa invece qualcosa di determinato
e che distingue; così il nome So- crate significa questa carne e questo volto »
(S. 7h., I, q. 30, a. 4). L’I. vago non è ovviamente che l’unità solo
numericamente distinguibile da altre unità. E così infatti lo definiva Duns
Scoto: « I., cioè uno di numero, si dice ciò che non è divisibile in molte cose
e si distingue numericamente da ogni altra » (Ir Met., VII, q. 13, n. 17). Tuttavia
nello stesso Duns Scoto ci sono le pre- messe di un concetto diverso
dell’individuo. Questo è caratterizzato, nel suo modo d'essere cioè nella sua
singolarità, da una determinazione ultima o « ultima realtà » della natura che
lo costituisce (vedi INDIVIDUAZIONE): sicchè include un insieme illi- mitato di
determinazioni, in virtù delle quali la natura comune si contrae sino a
diventare questo determinato ente. Da questo punto di vista, l’I. non è
caratterizzato dalla sua indivisibilità ma dalla infinità delle sue
determinazioni. Questo concetto venne espresso chiaramente da Leibniz. « Per
quanto possa sembrare paradossale, egli diceva, ci è im- possibile avere la
conoscenza degli I. e trovare il mezzo di determinare esattamente
l’individualità di una cosa, a meno di non considerarla in se stessa. Infatti,
tutte le circostanze possono ritornare; le differenze minime ci sono
insensibili; il luogo © il tempo ben lungi dall’essere determinanti, hanno bisogno
essi stessi d’essere determinati dalle cose che contengono. Ciò che v'è di più
considerevole in questo è che l’individualità involge l’infinito e che solo
colui che è capace di comprenderlo può avere la conoscenza del principio di
individuazione di questa o quella cosa: il che deriva, a compren- derlo
sanamente, dall’influenza che tutte le cose dell'universo hanno l’una
sull’altra. È vero che non sarebbe così, se ci fossero gli atomi di Demo- crito;
ma allora non ci sarebbe neppure differenza tra due I. diversi della stessa
figura e della stessa grandezza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 6). Il presupposto di
questa dottrina è che in natura esistono sol- tanto I. cioè cose singole:
presupposto che, insieme con gli altri punti principali, fu espresso con tutta chiarezza
da Wolff. Questi comincia con l’affer- mare che I’I. è «ciò che percepiamo col
senso interno o col senso esterno o che possiamo im- maginare, in quanto è una
cosa singola» (Log., $ 43), per procedere a definire l’I. come « l’ente che è
determinato sotto tutti i rapporti (ens omni- mode determinatum) cioè nel quale
sono determinate tutte le cose che ad esso ineriscono » (/bid., $ 74). Questa
nozione dell’I. come di ciò che è assolu- tamente o infinitamente determinato è
stata spesso utilizzata dalla metafisica moderna. È stata per l'appunto questa
nozione che ha permesso ad 482 Hegel (e a molti altri dopo il suo esempio) di
par- lare di «I. universale» senza avvolgersi in una contraddizione nei
termini. « Il compito di accom- pagnare l’I. dal suo stato incolto fino al
sapere, dice Hegel, era da intendersi nel suo senso generale e consisteva nel
considerare l'I. universale, lo Spi- rito autocosciente, nel suo processo di
formazione. Per ciò che concerne la relazione di quei due modi di
individualità, nell’I. universale ogni momento si mostra nell’atto in cui
guadagna la forma con- creta e la sua propria configurazione. L’I. partico- lare
è lo spirito non compiuto: una figura concreta, in tutto il cui essere
determinato domina una sola determinatezza e nella quale le altre sono presenti
soltanto di scorcio» (Phanomen. des Geistes, Pref. II, $ 3; trad. ital., I,
pag. 24). Dal punto di vista del concetto di I. come infinità di
determinazioni, Hegel poteva certamente parlare di I. univer- sale: giacchè
un'infinità di determinazioni può essere proprio solo di un I. assoluto o
infinito. Di fronte ad esso, l’I. finito è, come dice Hegel, quello
caratterizzato da una sola determinazione e a cui le altre sono presenti solo
di scorcio. Allo stesso concetto dell’I. fa riferimento Bergson quando afferma
che « l’individualità comporta una infinità di gradi e che in nessuna parte,
neanche nell’uomo, essa è realizzata pienamente » (Évo/. Créatr., cap. I, ed.
1911, pag. 13). Ovviamente, questo concetto dell’I. porta o ad ipostatizzare
l’individualità di un I. assoluto, come ha fatto Hegel o a dichiararla irraggiungibile,
come ha fatto Bergson. Ma questo appunto dimostra che si tratta di un concetto
in- servibile. Nella filosofia contemporanea pertanto l’I. (come la nozione
analoga di elemento [v.]) viene definito rispetto alle esigenze prevalenti in
questo o quel campo d'indagine, o meglio rispetto a questa o a quella esigenza
analitica. Nel campo morale o politico l'’I. è la persona. Nel campo biologico,
l’I. può essere per certi scopi l’organismo, per altri scopi la cellula. Ma è
soprattutto nel campo delle scienze storiche che la nozione di I. è stata utilizzata
dalla filosofia e dalla metodologia con- temporanea. Windelband (Praludien, II,
pag. 145) e Rickert (Grenzen der naturwissenschaftlichen Be- griffsbildung,
pag. 420) hanno messo in luce il carattere individualizzante delle scienze
dello spi- rito, di fronte al carattere generalizzante delle scienze naturali.
La conoscenza storica mira a rappresen- tare l'I. nel suo carattere singolare e
irrepetibile, cioè non come il caso particolare di una legge, ma come
irriducibile agli altri I. con cui è in connessione causale. L'I., che è in
questo caso l'evento storico (fatto, persona, istituzione, ecc.) è ca- ratterizzato,
da questo punto di vista, da due caratte- ristiche: la singolarità e la
irrepetibilità (v. STORIA). INDUZIONE INDUZIONE (gr. trayovh; lat. Inductio;
in- glese /nduction; franc. Induction; ted. Induktion). «
L’I. è il procedimento che dai particolari porta all’universale »: questa
definizione di Aristotele (Top., I, 12, 105a 11) ha trovato concordi tutti i filosofi.
Aristotele stesso vede nell’I. una delle due vie attraverso le quali riusciamo
a formare le nostre credenze; l’altra è la deduzione (sillogismo) (An. Pr., II,
23, 68 b 30). Egli inoltre attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto i «
ragionamenti induttivi » (Met., XIII, 4, 1078 b 28). Tra VI. e il sillogismo, Aristotele
stabilisce tuttavia una grande differenza di valore. Nel sillogismo deduttivo
(« Tutti gli uomini sono animali, Tutti gli animali sono mortali, Dunque tutti
gli uomini sono mortali») il termine medio (ani- male) costituisce la sostanza
o la ragion d'essere della connessione necessaria tra i due estremi: gli uomini
sono mortali perchè sono sostanzialmente animali. Nel ragionamento induttivo
invece (s L'uomo, il ca- vallo e il mulo sono longevi, L’uomo, il cavallo e il mulo
sono animali senza fiele, Dunque gli animali senza fiele sono longevi »), il
termine medio (l’es- sere senza fiele) compare nella conclusione: il che vuol
dire che esso non è un perchè sostanziale ma un semplice fatto (An. Pr., II,
23, 68b 15). L’indu- zione è quindi priva di valore necessario o dimo- strativo,
per quanto sia più chiara del sillogismo; e il suo ambito di validità rimane
quello del fatto cioè della totalità dei casi in cui è stata effettiva- mente
riscontrata valida. Essa può perciò essere usata a fini di esercizio, nella
dialettica, o a fine di persuasione, nella retorica (Rher., I, 2, 1356b 13): ma
non costituisce scienza, perchè la scienza è necessariamente dimostrativa (An.
Post., I, 2, 71 b 19). Nella filosofia post-aristotelica gli Epicurei ritennero
l'I. l'unico procedimento d’inferenza le- gittima, mentre gli Stoici ne
negarono il valore. Il De Signis di Filodemo ci dà un preciso resoconto della
polemica che ci fu a questo proposito tra le due scuole. Gli Stoici dicevano
che non basta constatare che gli uomini che ci sono intorno sono mortali per
dire che in ogni dove gli uomini sono mortali: bisognerebbe stabilire che gli
uomini sono mortali proprio in quanto uomini, per dare a quell’inferenza la sua
necessità (De Signis, III, 35; IV, 10; De Lacy, Philodemus on Methods of Inference,
1941, pag. 31). Il problema dell’I. si affacciava già in questa difficoltà
proposta dagli Stoici. Ad essi gli Epicurei opponevano che, finchè niente si
oppone alla conclusione, la generalizza- zione induttiva è valida (Z/bid., VI,
1-14; XIX, 25-36; De Lacy, pag. 34, 66). Sesto Empirico non faceva che
ripresentare in forma più radicale la critica degli Stoici, partendo dalla
distinzione tra I. completa e I. incompleta. « Poichè vogliono, egli diceva,
confermare per via dell’I. l’universale INDUZIONE movendo dai particolari,
faranno questo percor- rendo o tutti i particolari o soltanto alcuni. Se soltanto
alcuni, l’I. sarà incerta, rimanendo possibile che all’universale contrasti
qualcuno dei particolari tralasciati nell'induzione. Se tutti, intraprenderanno
una fatica impossibile perchè i particolari sono in- finiti e illimitati » (Jp.
Pirr., II, 204). Era stato Ari- stotele ad affermare che l’I. si facesse
movendo da tutti i casi particolari possibili (Ar. Pr., II, 23, 68 b 29);
mentre gli Epicurei avevano affermato il valore dell’I. incompleta. Bacone
pertanto non fece che riprendere l'alternativa epicurea quando di- chiarò
puerile l’I. completa o per enumerationem simplicem. «Questa I., dice Bacone,
può essere rovesciata da una qualsiasi istanza contraria; inoltre considera
sempre le stesse cose e non raggiunge il suo fine. Per le scienze occorre
invece una forma d’I. che vagli le esperienze e concluda necessaria- mente,
dopo le debite esclusioni ed eliminazioni » (Nov. Org., Distrib. Op.). Questa
forma di I. che Bacone, sia pure dubitativamente, fa risalire a Platone (/bid.,
105) deve invertire l’ordine della dimostrazione. « Finora, dice Bacone, si
usava tra- passare di volo dai dati del senso e dalle cose particolari alle
generalissime, come a poli fissi della disputa, facendo poi da queste derivare
tutte le altre, per via delle cose intermedie. È questa una scorciatoia, ma
troppo scoscesa, per la quale non si incontra mai la natura, ma soltanto
questioni. Si devono invece estrarre gli assiomi per gradi successivi; e solo
da ultimo giungere a quelli ge- neralissimi i quali non sono semplici nozioni
ma fatti ben determinati e tali che la natura li riconosce veramente per suoi e
inerenti all’essenza delle cose » (/bid., Distrib. Op.). In altri termini la
cer- tezza dell’I. consiste, secondo Bacone, nel fatto che da ultimo l’I. mette
capo alla determinazione della forma della cosa naturale, intendendosi per forma
«la differenza vera o natura naturante o fonte di emanazione » che spieghi il
processo latente e lo schematismo occulto dei corpi (2bid., II, 1). In tal
senso, la forma non è che la stessa «so- stanza » aristotelica: il principio o
ragion d’essere della cosa. Aristotele riteneva che tale sostanza si potesse
cogliere col procedimento sillogistico cioè intuitivo-dimostrativo; Bacone
ritiene che essa si può cogliere con un procedimento induttivo che sceveri e
ordini le esperienze. La vera differenza pertanto tra Bacone e Aristotele è che
Bacone crede che la nuova disciplina del procedimento induttivo da lui proposta
(disciplina che consiste nella formazione di tavole che scelgano e classi- fichino
gli esperimenti e nella istituzione di espe- rimenti di controllo) renda
possibile attingere con certezza quella sostanza cui, secondo Aristotele, l’I.
può solo avvicinare in modo incerto o appros- 483 simativo, e che può essere
attinta nella sua necessità solo dal procedimento deduttivo. Per questa in- terpretazione
del procedimento empiristico nei ter- mini della metafisica aristotelica,
Bacone ha potuto riconoscere all’I. incompleta quella « necessità » che Aristotele
riconosceva al procedimento sillogistico. Da questo punto di vista, il problema
dell’I., nei termini in cui l’aveva prospettato la critica degli Stoici e di
Sesto Empirico non sorgeva neppure. Dall’altro lato il cartesianesimo non era
interessato a porsi il problema dell’I., riservando ad essa quella stessa
funzione preparatoria e subordinata che Aristotele le aveva riconosciuto. «
L’I. da sola, dice la Logica di Portoreale, non è mai un mezzo certo per
acquistare una scienza perfetta perchè la considerazione delle cose singole è
solo una occasione per il nostro spirito di fare attenzione alle sue idee
naturali, secondo le quali giudica della verità delle cose in generale. Così è
vero, per es., che io non avrei mai preso in considerazione la natura del
triangolo se non avessi visto un trian- golo che mi ha dato occasione di
pensarci; tuttavia non è stato l’esame particolare di questi triangoli a farmi
concludere generalmente e certamente che l’area di tutti i triangoli è uguale
al rettangolo co- struito sulla base diviso la metà dell’altezza (giacchè quest’esame
è impossibile) ma la sola considera- zione di ciò che è incluso nell’idea del
triangolo, che trovo nel mio spirito» (ARNAULD, Log., III, 19, $ 9). Pertanto,
solo dopo che le scienze avevano incominciato ad usare ampiamente il pro- cedimento
induttivo, come avvenne nella seconda metà del ’600, il problema dell’I. come
problema della validità del procedimento induttivo e del di- ritto di usarlo,
fu di nuovo posto ed affrontato. A porlo chiaramente fu, allora, il dubbio
scettico di Hume. Diceva Hume: « Tutte le inferenze tratte dall’esperienza
suppongono, come loro fondamento, che il futuro rassomiglierà al passato e che
poteri simili saranno uniti a simili qualità sensibili. Se ci fosse qualche
sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il passato non
servisse di regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile e non
potrebbe dare origine ad alcuna in- ferenza o conclusione. È impossibile perciò
che argomenti tratti dall’esperienza possano provare la rassomiglianza del
passato con il futuro: giacchè tutti gli argomenti siffatti sono fondati sulla
suppo- sizione di quella rassomiglianza. Sia pure ammesso che il corso delle
cose è stato sempre regolare: questo solo, senza alcun argomento o inferenza nuova,
non prova che per il futuro continuerà così» (Ing. Conc. Underst., IV, 2). In questi termini il problema dell’I. è stato costantemente
posto nel mondo moderno. Ad esso sono state date tre soluzioni fondamentali: 484
1° la soluzione oggettivistica; 2° la soluzione soggettivistica; 3° la
soluzione pragmatica. Que- st’ultima soluzione segna il passaggio dalla con- cezione
necessitaristica (presupposta dalle altre due) ad una concezione probabilistica
dell’induzione. 1° La soluzione oggettivistica consiste nel ri- tenere che
esiste un’uniformità della natura che consente la generalizzazione delle
esperienze uni- formi. Questa soluzione è assai antica perchè si trova
sostenuta da Filodemo nella sua polemica contro gli Stoici. « Dal fatto che
tutti gli uomini della nostra esperienza, diceva Filodemo, sono si- mili anche
rispetto alla mortalità, noi inferiamo che tutti gli uomini universalmente sono
soggetti alla morte, dato che nulla si oppone a questa inferenza o ci mostra
che gli uomini non siano suscettibili di morte. Facendo appello a questa simiglianza,
dichiariamo che, nei rispetti della mor- talità, gli uomini fuori della nostra
esperienza sono simili a quelli che si manifestano nella nostra esperienza »
(De Signis, XVI, 16-29; De Lacy, /bid., pag. 58 sgg.). In questo passo
ovviamente il diritto dell’inferenza induttiva viene fondato sulla unifor- mità
rivelata dalle somiglianze. In modo analogo, alla fine della Scolastica, Duns
Scoto e Ockham po- nevano a base dell’I. il principio di causalità. Duns Scoto
diceva: « Delle cose conosciute per esperienza io dico che, sebbene
l’esperienza non si abbia di tutte le cose singolari nè sempre ma solo per lo più,
l’esperto tuttavia conosce infallibilmente che è così, sempre e in tutti i
casi, sulla base di questa proposizione esistente nell'anima: tutto ciò che deriva
per lo più da una causa non libera è l’ef- fetto naturale di questa causa »
(Op. Ox., I, d. 3, q. 4, n. 9); nel qual passo, effetto narurale significa effetto
uniforme perchè necessario. Ockham a sua volta poneva come fondamento dell’I.
il principio « Cause della stessa natura (ratio) hanno effetti della stessa
natura » (/n Sent., Prol., q. 2 G). E la mede- sima soluzione veniva riproposta
nel sec. xrx da Stuart Mill. Il fondamento dell’I. è il principio delle uniformità
delle leggi di natura e tale principio non è che lo stesso principio di
causalità. Questo a sua volta, non potendo essere ridotto a un istinto infal- libile
del genere umano o a un'intuizione imme- diata, non può essere che il prodotto
di un’indu- zione. « Noi arriviamo a questa legge generale, dice Stuart Mill,
mediante generalizzazione da molte leggi di generalità inferiore. Non avremmo
mai avuto la nozione della causazione (nel significato filosofico del termine)
come condizione di tutti i fenomeni, se molti casi di causazione o in altre
parole molte parziali uniformità di successione non ci fossero diventate
precedentemente familiari. La più ovvia delle uniformità particolari suggerisce
e rende evi- dente l’uniformità generale e l’uniformità generale, INDUZIONE una
volta stabilita, ci permette di dimostrare le altre uniformità particolari
dalle quali risulta » (Logic, III, 21, $ 2). L’uniformità della natura non è
quindi che una semplice I. per enumerationem simplicem. Il circolo vizioso è
evidente. A questo circolo si riduce ogni analoga soluzione del pro- blema. 2°
La seconda soluzione del problema dell’I. è quella soggettivistica o critica
propria del kantismo. Essa fu prospettata dallo stesso Kant come risposta al
dubbio di Hume sulla possibilità della generaliz- zazione scientifica; e
consiste nell’ammettere l’uni- formità della struttura categoriale
dell’intelletto e perciò della forma generale della natura che da esso dipende.
Dice Kant: « Ogni percezione possi- bile, perciò tutto quello che può giungere
alla coscienza empirica — cioè tutti i fenomeni della natura quanto alla loro
unificazione — sottostanno alle categorie, dalle quali dipende la natura, con- siderata
semplicemente come natura in generale, come dal principio originario della sua
necessaria conformità a leggi (quale natura formaliter spectata). Ma neanche la
facoltà pura dell’intelletto arriva a prescrivere, mediante le sole categorie,
più leggi di quelle sulle quali riposa una natura in generale come regolarità
dei fenomeni nello spazio e nel tempo ». Le leggi particolari devono quindi
essere desunte dall’esperienza (Crif. R. Pura, $ 26). Questo significa che la
natura nella sua conformità alle leggi cioè nella sua uniformità, dipende dalle
ca- tegorie cioè dalla struttura uniforme dell’intelletto; e che pertanto le
uniformità o leggi che si possono ritrovare nell’esperienza sono garantite
dall’uni- formità della forma comune (intelletto-natura). Questa dottrina è
simmetrica e opposta a quella dell’uniformità naturale, ma il suo significato è
lo stesso. Una trascrizione in termini spiritualistici della stessa tesi
fondamentale è quella di Lachelier (Fon- damento dell’I., 1871), secondo la
quale la possibilità dell’I. poggia sull'ordinamento finalistico dell’uni- verso
cioè sul fatto che l’ordine della natura è stabilito dallo spirito (Fondement
de l’induction, Paris, 1907, pag. 12). A questo tipo di soluzione si riducono
tutte le giustificazioni spiritualistiche o idealistiche. 3° La giustificazione
pragmatica è stata avan- zata, nella filosofia contemporanea quando si è riconosciuta
l’impossibilità di una giustificazione teoretica ma non si è giunti a negare la
legittimità del problema cioè della richiesta di una giustifica- zione. La
giustificazione è stata, in questa direzione, cercata mediante
un’interpretazione probabilistica dell’induzione. La più semplice espressione
della regola dell’I. probabilistica è forse quella data da Kneale: « Quando
abbiamo osservato un numero di cose « e trovato che la frequenza della cose B INDUZIONE
fra esse è f, assumiamo che P (a, 8) = f, cioè che la probabilità che una cosa
a sia 8 dev'essere fa» (Probability and Induction, Oxford, 1949, pag. 230). Espressioni
più complicate della stessa regola sono state date da Lewis (Analysis of
Knowledge, 1946, pag. 272) e da Reichenbach (Theory of Probability, 1949, pag.
446; cfr. pure Experience and Prediction, Chicago, 1938, pag. 339 sgg.). Ma
tutte equivalgono a dire che, quando un determinato carattere ri- corre in una
certa proporzione dei campioni esami- nati, si può assumere che questa
proporzione valga per tutti gli altri esempi del caso, salvo prova in contrario.
Quando la proporzione è uguale al cento per cento dei campioni esaminati, cioè
quando il carattere in questione ricorre in tutti, si ha il caso della
generalizzazione uniforme o completa. È questo il caso quando si afferma che
«tutti gli uomini sono mortali » per il fatto che l’essere mortale si è sempre
trovato costantemente congiunto con l’es- sere uomo. Dall'altro lato quando il
valore nume- rico di quella proporzione si assume come misura della possibilità
che il carattere in questione ricorra in un nuovo esempio, si ha un giudizio di
proba- bilità (v.). Ovviamente la generalizzazione completa o il giudizio di
probabilità sono aspetti della ge- neralizzazione statistica. Stando ciò, la
giustifica- zione dell’I. da un punto di vista pragmatico può essere fatta
asserendo: a) che l’I. è il solo mezzo di ottenere previsioni; 5) che essa è il
solo metodo suscettibile di autocorrezione. a) Dice Kneale: « L’I. primaria è
una diret- tiva razionale non perchè sia certo che essa conduce al successo ma
perchè è il solo modo di tentare di fare ciò di cui abbiamo bisogno, cioè
previsioni esatte» (Op. cif., pag. 235). Contro questo argo- mento, che è
condiviso da molti (cfr., per es., REI- CHENBACH, Op. cif., pag. 475), Black
osserva che, se l’I. è l’unico mezzo per ottenere previsioni, il successo delle
previsioni stesse non la conferma, come non la confuta l’insuccesso di esse
(Problems of Analysis, 1954, pag. 174 sgg.). L'argomento, come quello analogo
che I’I. è il solo metodo per controllare gli altri metodi di previsione, ha la
pretesa, osserva Black, di giustificare deduttivamente l’I. stessa cioè di
giustificarla sulla base di argo- menti che hanno, come i loro stessi
proponenti riconoscono (REICHENBACH, Op. cit., pag. 479; J. O. Wispom,
Foundations of Inference in Natural Science, 1953, pag. 229) carattere
analitico o tauto- logico. Gli argomenti genuinamente pratici, osserva ancora
Black, non sono deduttivi. Nella vita quoti- diana, in una situazione che esige
una decisione, gli indizi indicano, con qualche grado di sicurezza, quella che
dovrebbe essere l’azione adatta; ma questa non è deducibile da quella
indicazione nè la condotta contraria implica contraddizione (Pro- 485 blems of
Analysis, pag. 185). Questo tipo di argo- mento non ha pertanto valore come
giustificazione del procedimento induttivo. b) Il secondo argomento
fondamentale per la giustificazione pratica dell’I. è la sua capacità di autocorrezione.
Peirce per primo ha insistito su questo carattere, scorgendo in esso l’essenza
stessa dell’I. (Coll. Pap., 2.729). E Reichenbach ha detto: «Il procedimento
induttivo ha il carattere di un metodo di rrial and error così progettato che
per le serie che abbiano un limite delle frequenze esso condurrà
automaticamente al successo in un nu- mero finito di passi. Può essere chiamato
un metodo autocorrettivo o asintotico » (Op. cit., pag. 446, $ 87; cfr. KNEALE,
Op. cit., pag. 235). Contro questo argomento Black ha osservato che il termine
auto- correttivo non è esatto, giacchè è vero che l’I. in- clude la possibilità
costante della revisione ma per dire che le revisioni siano correzioni, sarebbe
ne- cessario mostrare che esse sono progressive cioè dirette in un’unica
direzione e in quella buona. Ma è proprio questa sicurezza che manca (Problems
of Analysis, pag. 170). Ora si può concedere a Black che neanche questo
argomento sia veramente una «giustificazione » dell’I. nel senso universale o
deduttivo della parola « giustificazione ». Ma che l’autocorreggibilità sia il
carattere del procedimento induttivo come di ogni procedimento scientifico è
cosa che non può essere messa in dubbio; ed è d'altronde il carattere al quale
lo stesso Black fa appello per caratterizzare il metodo scientifico (Op. cit.,
pag. 23). La revisione, che l’I. rende pos- sibile e a cui anzi l’intero suo
procedimento è intrinsecamente subordinato, è una correzione nel senso preciso
del termine, cioè come eliminazione di un errore rivelato dal procedimento
stesso. Una modificazione che non fosse revisione o correzione in questo senso
non sarebbe richiesta ed effettuata dall’induzione. Con tutto ciò, lo stato
attuale del problema dell’I. sembra bene espresso dalla conclusione di Black
che una giustificazione dell’I. non solo è impossibile, ma che il problema di
essa è privo di senso, se per giustificazione s’intende la dimostra- zione
della validità infallibile del procedimento in- duttivo. « Insistere che vi
dev'essere una conclusione sarebbe come dire che, poichè un buon giocatore di
scacchi conosce i movimenti da farsi in una partita di scacchi, egli dev’essere
anche capace di sapere i movimenti da farsi in una scacchiera con un solo
pezzo. Ma questo non è un problema di scacchi e non c’è niente che il giocatore
di scacchi debba risolvere. Il problema di ciò che dobbiamo inferire quando
conosciamo solo che alcuni A sono B non è un genuino problema induttivo e non
c’è modo di risolverlo salvo che riconoscendo 486 che sarebbe inopportuno
tentarlo » (Op. cit., pa- gine 188-89; cfr. Language and Philosophy, 1952, cap.
IM. In altri termini, il problema dell’I. in generale come problema di inferire
il futuro dal passato o i casi non osservati da quelli osservati, è un problema
privo di senso per mancanza di dati. Se questi dati sono forniti, non esiste
più un pro- blema dell'I. ma problemi appartenenti ai domini delle singole
scienze. Si deve aggiungere tuttavia che l’eliminazione del problema dell’I.
nella sua forma classica non esime il filosofo dall’analisi dei proce- dimenti
induttivi adoperati dalle singole scienze, dal confronto di tali procedimenti e
dalle genera- lizzazioni che da tale confronto possono nascere. È chiaro
tuttavia che quest'ordine di ricerche, a tutt'oggi non ancora intraprese, non
condurrà mai a una giustificazione dell’induzione. La giustifica- zione
infatti, se fosse raggiunta, avrebbe per suo effetto immediato la eliminazione
di ogni rischio dei procedimenti induttivi e la riduzione di questi
procedimenti alla certezza e alla necessità di quelli deduttivi. In realtà i
procedimenti scientifici e in
generale i comportamenti e le direttive
razionali dell’uomo, consistono nel limitare il rischio cioè nel renderlo
calcolabile: non nell’eliminarlo. I pro- blemi filosofici non possono quindi
essere posti in modo che la loro soluzione significherebbe l’elimi- nazione del
rischio. Il carattere chimerico di una simile impostazione fa vedere, meglio di
ogni altra cosa, l’illegittimità del problema della giustificazione dell’induzione.
In forma estrema questa tesi è stata espressa da Popper che ha considerato l’I.
come un semplice mifo, che non è un fatto psicologico, nè un fatto della vita
ordinaria nè una qualsiasi procedura scientifica; e ha ritenuto che la scienza procede
col metodo del trial and error cioè salta di colpo, anche da una singola
osservazione, a una congettura o a un’ipotesi che poi cerca di confutare e che
viene mantenuta finchè la confutazione non è riuscita (Conjectures and
Refutations, 1965, pa- gine Sl sgg.). INDUZIONE MATEMATICA (ingl. Ma- thematical Induction;
franc. Induction mathématique; ted.
Mathematische Induktion). Si indica con questo nome il principio che serve a
stabilire la verità di un teorema matematico in un numero indefinito di casi.
Si chiama anche principio di ricorrenza o ragionamento per ricorrenza
(Porncaré, La science et l’hypothèse, I, $ 3). Peano ha così definito il principio:
« Sia S una classe, supponiamo che O appartenga a questa classe e che tutte le
volte che un individuo appartenga a questa classe, anche quello seguente vi
appartenga; allora tutti i numeri appartengono a questa classe. Si chiama
principio d’I. questa proposizione » (Formul. Mat., $ 10). Il principio non ha
niente in comune con l’I. scientifica INDUZIONE MATEMATICA salvo il carattere
di generalizzazione (cfr. MORRIS R. CoHen-ERNEST NagEL, The Nature of a Logical
or Mathematical System, $ 6, in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag.
144). INERENZA. V. Essere, 1, A). INERZIA (ingl. Inertia; franc.
Inertie; tedesco Tragheit). La storia di questo concetto fondamen- tale della
meccanica moderna deve molto alla filo- sofia. Alla fisica di Aristotele questo
concetto era estraneo perchè essa riteneva valido un teorema che lo esclude: il
teorema che «tutto ciò che si muove è mosso necessariamente da qualche cosa » (Fis.,
VII, 1, 241b 24). È ovvio che, se questo principio è vero, un corpo non può
persistere nel suo stato di movimento senza l’azione di un altro corpo. La
teoria dell’imperus, esposta dagli Scola- stici del sec. xIv, costituisce la
prima critica del principio aristotelico e il primo affacciarsi della nozione
di inerzia. A] principio aristotelico, Ockham aveva opposto l’esempio della
freccia, o di qual- siasi altro proiettile, a cui viene comunicato un impulso
che il proiettile conserva senza che il corpo che glielo ha comunicato lo
accompagni nella sua traiettoria (Zn Sent., II, q. 18, 26). Un discepolo di
Ockham, Buridano (sec. xiv) riprende questa dottrina e l’applica al movimento
dei cieli: questi possono benissimo essere mossi da un impeto loro comunicato
dalla potenza divina, impeto che si conserva perchè non viene diminuito o
distrutto da forze opposte (/n Phys., VIII, q. 12). Nicola di Oresme e Alberto
di Sassonia che appartennero anch’essi alla corrente ockhamistica che fiorì nel
sec. xIv nell’Università di Parigi riprendono e difen- dono questa teoria. Da
questa tradizione scolastica la nozione di I. passò nei fondatori della scienza
mo- derna, Leonardo e Galilei. Quest’ultimo si serve della nozione
costantemente e la appoggia a una specie di esperimento mentale. Parlando del
movimento di una palla perfetta su un piano assai liscio egli chiede: «Or
ditemi quel che accadrebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non
fosse nè acclive nè declive »; e risponde che «esso sarebbe perpetuo 1 (Op.,
VII, 273; cfr. VIII, pag. 243). Ma per quanto Galilei si servisse correttamente
della nozione di I., egli non ne formulò esplicitamente il relativo prin- cipio;
e il primo a formularlo fu in realtà Cartesio che stabili come «prima legge
della natura» il principio « Ciascuna cosa particolare continua ad essere nel
medesimo stato fintanto che può e non lo cambia se non per il suo incontro con
altre cose » (Princ. Phil., II, $ 37). Alcuni decenni dopo, ac- colto da Newton
come primo principio della dina- mica nei Principi matematici della filosofia
naturale (1687), il principio d’I. faceva il suo definitivo ingresso nella
scienza moderna, per la quale esso fu e rimane, più che una «legge di natura+?,
nel INFINITO senso in cui Cartesio intendeva il termine, o una verità
sperimentale, un postulato o principio stru- mentale che permette il calcolo
della forza (v.) o dell’energia (v.). Sulla teoria dell’impetus, cfr. DUHEM, Études
sur Léonard de Vinci, Parigi, 1909. INESPRIMIBILE (lat. Ineffabilis; ingl.
Inex- pressible; franc.
Inexprimable; ted. Unaussprechlich). Nella
teologia mistica, a partire dalle antiche reli- gioni misteriosofiche, I. è ciò
che si rivela nel punto culminante dell’esperienza mistica, cioè nell’entu- siasmo
o nell’estasi (cfr. PLOTINO, Enn., VI, 9, 1l; Pseupo-DIONIGI, Myst. Theol., I,
1; S. BONAVEN- TURA, /tinerarium Mentis in Deum, VII, 5; ecc.) Nella filosofia
contemporanea Wittgenstein, nella chiusa del Tractatus logico-philosophicus
(1922) am- metteva l’esistenza dell’I.: « C'è veramente l’ine- sprimibile. Esso
si mostra, è ciò che è mistico» (Tract., 6. 522). « Noi sentiamo, egli diceva,
che
se tutte le possibili domande della
scienza avessero una risposta, i problemi della nostra vita non sa- rebbero
nemmeno sfiorati. Certo non rimarrebbe allora alcuna domanda; e questa è
appunto la risposta » (/bid., 6, 52). E il Tractatus si chiudeva con
l’affermazione: « Di ciò di cui non si può par- lare, si deve tacere» (/bid.,
7). Dall'altra parte, Carnap parlava di una « mitologia dell’I.» e con- siderava
questa parola particolarmente pericolosa perchè atta a produrre confusioni e
incertezze. L'enunciato « Vi sono oggetti I. », tradotto in lin- guaggio
formale, suona, per Carnap, semplicemente « Vi sono designazioni di oggetti che
non sono de- signazioni di oggetti» o « Vi sono enunciati che non sono
enunciati » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 81; trad. ingl., pag. 314). INFERENZA
(ingl. Inference; franc. Inférence; ted. Inferiren). Nel latino medievale si
trova presso molti logici il termine inferre per indicare il fatto che, in una
connessione (o consequentia) di due proposizioni, il primo (antecedente)
implica (0 meglio contiene per « implicazione stretta ») il se- condo
(conseguente). Nella filosofia moderna il termine «I.» (preferito dagli
Anglosassoni) è di solito usato come sinonimo di « illazione » (prefe- rito
dagli Italiani), peraltro in un senso molto sciolto, che va da quello di
implicazione (v.), per es., in Jevons e in genere nei logici inglesi dell’800, a
quello di processo mentale operativo mediante il quale, partendo da certi dati,
si arriva per impli- cazione, o anche per induzione, ad una conclusione (Stebbing,
Dewey). Dice, ad es., Stuart Mill: « In- ferire una proposizione da una o più
proposizioni antecedenti; assentire o credere ad essa come con- clusione da
qualche cosa d’altro, questo è ragionare nel più esteso significato del
termine» (Logic, II, 1, 1). Nello stesso senso generalissimo la parola viene
adoperata da Peirce (Chance, Love and Logic, 487 cap. VI) e da molti logici
contemporanei, Lewis, Reichenbach, ecc. Dewey ha distinto l’I. come relazione
tra segno e cosa significata dall’implica- zione che sarebbe la relazione tra i
significati che costituiscono le proposizioni (Logic, Introduzione; trad.
ital., pag. 96); ma questa proposta non ha avuto sèguito. a. P. INFINITESIMALE
(lat. Infinitesimus; inglese Infinitesimal; franc. Infinitésimal; ted.
Infinitesimal). Una grandezza che può essere resa più piccola di ogni grandezza
assegnabile; o, come anche, meno propriamente, si dice, una grandezza tendente
a zero. Questo concetto fu conosciuto dai Greci che l’utilizzarono spesso. Esso
è presupposto dagli ar- gomenti di Zenone di Elea contro il movimento (v.
ACHILLE; DicoroMia; FRECCIA; STADIO); e fu chiaramente espresso da Anassagora
che disse: 4 Rispetto al piccolo non c'è un minimo ma c’è sempre un più piccolo
perchè ciò che esiste non può venire annullato » (Fr. 3, Diels). Lo stesso concetto
veniva espresso da Aristotele (Fis., III, 7, 207 b 35). Gli ultimi scolastici
ripresero questi concetti (cfr. per tutti OCKHAM, /n Sent., I, d. 17, q. 8),
che fu poi messo da Leibniz a fondamento del calcolo I., il cui primo documento
importante è la memoria dello stesso Leibniz intitolata Nuovo metodo per î
massimi e i minimi (1682). INFINITO (gr. &respov; lat. /nfinitum; ingl. In-
finite; franc. Infini; ted. Unendlich). Il termine ha i seguenti significati
principali che sono tra loro variamente imparentati: 1° l’I. matematico che è la
disposizione o la qualità di una grandezza; 2° l’I. teologico che è
l’illimitatezza di potenza; 3° I’I. metafisico che è l’assenza di compiutezza. 1°
La concezione matematica dell’I. ha ela- borato due diversi concetti di esso e
cioè: a) il concetto dell’I. potenziale come limite di certe ope- razioni sulle
grandezze; 5) il concetto dell’I. attuale come una specie particolare di
grandezza. a) Il concetto dell’I. potenziale è stato ela- borato da Aristotele.
Aristotele negava che I'I. potesse essere arruale cioè reale sia come realtà a
sè (sostanza) sia come attributo di una realtà (Fis., III, 5, 204a 7 sgg.).
Questo vuol dire che l’I. non è sostanza nè proprietà o determinazione sostanziale
ma «esiste soltanto in modo acciden- tale » (/bid., 204 a 28): cioè come
disposizione delle grandezze. Quale disposizione? Aristotele dà due significati
fondamentali dell’I.: per il primo, VI. è «ciò che per natura non può essere
percorso » nel senso in cui la voce è ciò che non può essere visto. Nel
secondo, l’I. è ciò che si può percorrere, ma non tutto, perchè è senza fine; e
in questo senso è I. per composizione o per divisione o per entrambe le cose
(/bid., III, 4, 204a 3). Ora VI. in senso matematico è soltanto quest’ultimo
cioè l’I. che 488 si può percorrere ma mai esaurientemente o com- pletamente.
In questo senso l’I. è tale «che si può prendere sempre qualcosa di nuovo, e
ciò che si prende è sempre finito ma sempre diverso. Sicchè non bisogna
prendere l’I. come un singolo essere, per es., un uomo o una cosa, ma nel senso
in cui si parla di una giornata o di una lotta, il cui modo d’essere non è una
sostanza ma un processo e che, se pure è finito, è incessantemente diverso »
(/bid., III, 6, 206 a 27). Non è pertanto I. ciò al di fuori di cui non c’è
nulla, come si ritiene comunemente, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre
qualcosa; per conseguenza l’I. rientra più nel concetto di parte che in quello
di tutto (Zbid., IIl, 6, 206b 32; 207 a 27). Questo concetto aristotelico
veniva uti- lizzato da Lucrezio per difendere la dottrina epi- curea
dell’infinità dello spazio ed espresso con l'immagine di una freccia lanciata a
partire dal- l'estremo confine dell’universo, ipoteticamente am- messo: sia che
la freccia incontri un ostacolo, sia che proceda al di là, l’estremo confine
dell’universo non è più tale perchè è solo il punto di partenza della freccia
(De rer. nat., I, 967-982). Anche in quest'immagine l’I. è ciò di cui si può
prendere sempre una parte, e ciò che si prende è sempre finito ma sempre
diverso. Questo concetto dell’I. è es- senzialmente negativo: consiste nella
non esauri- bilità di certe grandezze sottoposte a determinate operazioni che
sono quelle della composizione, cioè dell’aggiunta di una parte sempre nuova, e
della divisione in parti sempre nuove. La prima opera- zione tende
all’infinitamente grande, la seconda all’infinitamente piccolo (cioè
all'infinitesimo [v.])): entrambe definiscono il concetto dell’I. come ine- sauribilità
di parti dentro parti. Ma così inteso il concetto è ovviamente negativo:
caratterizza l’ine- sauribilità o incompletezza di una serie. Giusta- mente a
questo proposito Plotino osservava che l’I. è ciò che non può essere esaurito
nella sua grandezza o nel numero delle sue parti (Enn., VI, 9, 6). E Kant,
dallo stesso punto di vista, di- ceva: « Il vero (trascendentale) concetto
dell’infinità è che la sintesi successiva dell’unità nella misura- zione d'un
quantum non può essere mai compiuta » (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. 2, sez.
2). Questa specie di I. è quella che i logici del Medioevo ave- vano chiamato
I. sincategorematico (syncategore- maticum): che è l’I. inteso come
disposizione (non qualità) di un soggetto e distinto dall’I. caregore- matico
che sarebbe l’I. come qualità o come so- stanza (Pietro IsPanO, Sum. Log.,
12.57; OCKHAM, In Sent., I, d. 17, q. 8). Era questo anche l’I. che nella
matematica del "700 e della prima metà del- l’800 fu definito mediante il
concetto di limite (cioè come il campo delle serie, delle successioni, ecc.) ma
al quale i matematici di quel tempo non rico- INFINITO nobbero il rango di un
tipo di grandezza a sè stante. Diceva Gauss in una lettera del 1831: « Protesto
contro l’uso di una grandezza I. come qualcosa di completo, uso che non venne
mai ammesso nella matematica. L’I. è soltanto una facon de parler; a voler
essere rigorosi si parla in- vece di limiti cui alcuni rapporti vengono vicini quanto
si vuole, mentre ad altri rapporti è per- messo crescere oltre ogni misura +
(cfr. GEYMONAT, Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, 1947, pag.
174-75). I Paradossi dell’I. (1851) di Bernardo Bolzano segnano il primo
avviamento decisivo verso un nuovo concetto dell’infinito. 6) Il secondo
concetto dell’I. è quello del- l’I. categorico o (come meno propriamente si
dice) attuale, cui solo la matematica moderna ha dato forma rigorosa. A questo
concetto tuttavia essa stessa è stata avviata dalle discussioni tradizionali sui
cosiddetti paradossi dell’infinito. Già Ruggero Bacone, per confutare
l’infinità del mondo, faceva vedere che, se si ammette l’I., si deve concludere
che la parte è maggiore del tutto cui appartiene (Opus tertium, ed. Brewer, 41, pag. 141-42). E argomenti simili furono ripetuti frequentemente nella
Scolastica del ’300. Ma tale Scolastica ci offre anche, con Ockham, una
risposta a tali ar- gomenti che indica la via la quale sarà poi seguita dalla
matematica della seconda metà dell’800. Af- ferma infatti Ockham: « Non è
incompatibile che la parte sia uguale o non minore del suo tutto perchè ciò
accade ogni qualvolta una parte del tutto è I... Ciò accade anche nella
quantità discreta o in una qualunque molteplicità, una parte della quale abbia unità
non minori di quelle contenute nel tutto. Così in tutto l’universo non ci sono
parti in numero maggiore che in una fava, perchè in una fava ci sono infinite
parti. Sicchè il principio che il tutto è maggiore della parte vale soltanto
per i tutti composti di parti integranti finite » (Cenr. Theol., 17 C; Quodl.,
I, q. 9). Questa coraggiosa limita- zione del valore di un assioma, che
appariva allora evidente, non ebbe tuttavia séguito per molto tempo. Lo stesso
Galilei, per evitare la possibilità di una eguaglianza tra la parte e il tutto
(a proposito del rapporto fra i quadrati e la serie naturale dei nu- meri)
affermò « gli attributi di ‘ eguale *, ‘ maggiore ’, e ‘ minore’ non aver luogo
negli I. ma solo nelle quantità terminate» (Scienze nuove, Op., VIII, pag. 79)
lasciando così inalterata la verità del pre- teso assioma. Esso veniva a cadere
e dichiarato frutto di una generalizzazione fallace (cfr. RUSSELL, Principles
of Mathematics, 1903, pag. 360) solo quando Giorgio Cantor (nei Mathematische
Annalen, fra il 1878 e il 1883) e Dedekind (Continuità e nu- merì irrazionali,
1872; Che cosa sono e che cosa debbono essere i numeri, 1888) enunciarono un INFINITO
nuovo concetto dell’infinito. Questo consiste nell’as- sumere come definizione
dell’I. esattamente quello che era apparso sin allora come il « paradosso + dell’I.
stesso: l'equivalenza della parte e del tutto. Si può illustrare questa
concezione ricorrendo al- l’esempio fatto da Royce (The World and the Indivi- dual,
1900-01; cfr. il Saggio complementare « L’uno, i molti e l’I. » aggiunto al
vol. I dell’opera). Suppo- niamo che ci sia una carta geografica idealmente perfetta,
tale cioè che, se A è l’oggetto riprodotto ed A° la carta geografica, questa
stia in corrispon- denza con A in modo tale che per ogni particolare elemento
di A, cioè a, è, c, possa essere determinato in A’ qualche corrispondente
elemento a’, bd’, c’, conformemente al sistema di proiezione prescelto. Poniamo
inoltre che questa carta geografica sia disegnata entro e sopra una parte della
superficie della regione riprodotta, per es., dell’Inghilterra. Se questa carta
è, come dev'essere per ipotesi, idealmente perfetta, deve rappresentare tutto
ciò che c’è sulla superficie dell’Inghilterra, quindi la stessa carta
geografica. La rappresentazione di quest’ultima, essendo a sua volta perfetta,
dovrà contenere come parte di sè la rappresentazione di sè; e così via senza
limite. Un sistema simile è chiaramente I., non in quanto inesauribile, ma in quanto
autorappresentativo, o come meglio si dice autoriflessivo. In termini
matematici, un insieme autoriflessivo è quello che si può mettere in corri- spondenza
biunivoca con qualche suo sotto-insieme. Questo è proprio il caso della serie
naturale dei numeri che si può mettere in corrispondenza biuni- voca con i suoi
sotto-insieme, per es., con i qua- drati, con i numeri primi, ecc. La potenza
comune di due insiemi tra i quali esista una corrispondenza biunivoca è,
secondo Cantor, il «numero cardinale» dei due insiemi. Questo numero si dirà
transfinito quando l’insieme risulta equipotente ad una sua propria parte o sottoinsieme.
In tal modo, il concetto di numero cardinale I. che era stato sempre negato
come contraddittorio faceva il suo ingresso nella mate- matica. Esso doveva
rivelarsi ben presto fonte di nuove difficoltà e problemi: difficoltà e
problemi che costituiscono i « paradossi » della logica moderna, per quanto
anch’essi non fossero del tutto scono- sciuti allo logica antica (v.
ANTINOMIE). Ma il concetto dell’I. matematico non è stato modifi- cato dalla
trattazione di questi paradossi e dalle soluzioni per essi proposte. 2° Il
secondo concetto di I. è di natura teologica ed è sorto nell’ultimo periodo
della filosofia greca con Filone e Plotino. Quest’ultimo aveva distinto l’infinità
del numero che è « inesauribilità » (Enn., VI, 6, 17) dall’infinità dell’Uno
che è invece « l’il- limitatezza della potenza» (/bid., VI, 9, 6). Con 489 minor
precisione di linguaggio, questo concetto viene espresso frequentemente nella
Scolastica me- dievale. S. Tommaso, dopo aver osservato che i primi filosofi
ebbero ragione a ritenere I. il prin- cipio delle cose « considerando che le
cose derivano dal primo principio all’I. », distingue l’I. della ma- teria che
è imperfezione perchè la materia senza forma è incompiuta, e l’I. della forma
che invece è perfezione perchè è proprio di quella forma che non riceve
l’essere da altro ma da se stesso, cioè di Dio (S. 7A., I, q. 7, a. 1).
Chiamare I. la forma di per sè sussistente sembra voler significare che
l’I. è ciò che, per essere, non ha
bisogno di altro, ed è perciò illimitata potenza di essere. Non molto diverso è
il senso che sembra avere la tesi di Duns Scoto sull’infinità come modo
d’essere proprio di Dio. Duns osserva che se si dice che Dio è sommo, gli si dà
una determinazione che gli compete ri- spetto alle cose che sono diverse da
lui: è sommo fra tutte le cose esistenti. Ma se si dice che è I., si intende
che è sommo nella sua natura intrinseca, cioè che trascende ogni grado
possibile di perfezione (Op. Ox., I, d. 2, q. 2, n. 17). L’infinità sembra esprimere
qui il «quo maius cogitari nequit» di S. Anselmo, cioè l’essere le perfezioni
di Dio al di là di ogni grado raggiungibile dalle perfezioni finite. La
distinzione cartesiana tra I. e indefinito (v.) che riserva soltanto a Dio
l’attributo dell’infinità, sembra coincidere anche meglio con la distinzione fra
II. teologico e l’I. matematico: distinzione che si trova anche in Locke
(Saggio, II, 17, 1) e Leibniz (Nouv. Ess., II, 17, 2). Ma nella filosofia
moderna il concetto dell’I. come illimitatezza della potenza fa veramente il
suo ingresso con Fichte. Per Fichte, l’Io è I. in quanto «è posto dalla sua
propria as- soluta attività » cioè in quanto la sua attività non trova limiti
od ostacoli. Ponendo, nel contempo, un non-Io, l’Io si limita e diventa finito.
Ma da ultimo « la finità deve essere annullata: tutti i limiti
devono sparire e deve restare solo l'Io
I., come Uno e come Tutto» (Wissenschafislehre, 1794, II, $ 4, D). La
contrapposizione hegeliana tra « cat- tivo I.» e «vero I. + costituisce la
migliore illustra- zione di questa nozione di I. nella filosofia moderna. La
falsa infinità è l’infinità matematica del progresso all’I.; giacchè questo «
si arresta alla dichiarazione della contraddizione contenuta nel finito, che
questo, cioè, è tanto qualcosa, quanto l’altra cosa » (Enc., $ 94). Il
progresso all'I. rinvia a/ di /è del finito ma non raggiunge mai questo al di
là; perciò la sua negazione del finito è un « dover essere? che non è mai un
«essere». Il vero I. scioglie questa contraddizione: nega la realtà del finito
come tale e lo risolve in sè. Il vero I. in altri termini è ciò che è, è la
realtà. Esso «è ed è determinatamente, c’è, è presente. Solo il cattivo I. è
l’al di là, essendo 490 soltanto la negazione del finito come tale... La vera
infinità presa così in generale, quale un esserci che è posto come affermativo
contro l’astratta negazione, è la realtà in un senso più elevato che non quella
che dapprima si era determinata quale semplice realtà. La realtà ha acquistato
qui un con- tenuto concreto. Non il finito è reale, ma IL» (Wissenschaft der
Logik, I, I, sez. I, cap. II, C; trad. ital., pag. 161-62). In questo senso
l’I. è, per usare una frase dello stesso Hegel, la « forza dell’e-
sistenza + (Fil. del Dir., $ 331,
Zusatz), cioè la forza per la quale la ragione abita il mondo e lo domina ed è
pertanto illimitatezza di potenza (Enc., $ ©). È ben noto l'uso che Hegel
stesso e tutta la filo- sofia romantica dell’800 hanno fatto di questo concetto
dell’I.: esso è servito a giustificare la realtà in quanto tale, il fatto, e a
respingere la pre- tesa dell’intelletto « astratto » di giudicare la realtà stessa,
di opporsi ad essa e di inserirsi in essa con un impegno di trasformazione. La
nozione della infinità di potenza infatti è quella per la quale la realtà, ogni
realtà è, in qualsiasi momento, tutto ciò che dev'essere: dato che il principio
che la regge non difetta della potenza necessaria alla propria integrale
realizzazione. 3° Il terzo concetto dell’I. è il corrispettivo metafisico del
concetto matematico tradizionale dell’I. stesso. Si è già visto che per
Aristotele l’I. non può mai essere compiuto, quindi non può mai essere un
fuffo; esso è parte, cioè incompiu- tezza e inesauribilità. Aristotele dava
pertanto torto a Melisso che aveva chiamato I. il tutto e ragione a Parmenide
che l’aveva ritenuto finito (Fis., 6, 207 a 15). Ma tali determinazioni sono
quelle che già Platone aveva riconosciuto proprie dell’I.: I. è ciò che è privo
di numero o di misura, che è suscettibile del più e del meno e perciò esclude l'ordine
e la determinazione (Fil, 24a-25b). È questo il concetto metafisico dell’I. che
fu proprio dei Greci perchè fu strettamente connesso col loro ideale morale
dell’ordine e della misura. Storica- mente parlando, questo concetto non ha
superato i confini della Grecia dell’età classica. INFINITO, GIUDIZIO (ted.
Unendlich Ur- tei). Kant chiamò così le proposizioni in cui il predicato è
costituito da una negazione, per es., « l’anima è non-mortale » (Logik, $ 22;
Crir. R. Pura, $ 9). Il termine I. era già adoperato dalla logica medievale per
indicare i nomi negativi, per es., non-uomo (cfr. Preto Ispano, Summ. Log.,
1.04). INFLUSSO (lat.
/nfluxus, Influentia; ingl. In- flux; franc. Influence; ted. Einfluss). L’azione eser- citata da ciò che è
incorporeo su ciò che è corporeo. Cardano distingueva l’I. in questo senso dal
mu- tamento che è l’azione di un corpo su un altro corpo e dall’afffaro che è
l’azione dell’incorporeo INFINITO, GIUDIZIO sull’incorporeo e si svolge
esclusivamente nell’anima (De Subrilitate, XXI, in Opera, 1663, III, pag. 669
b- 670 a). Il termine è stato adoperato per indicare: 1° l’azione determinante
degli astri sul destino e le vicende degli uomini, come mediatrice del-
l’azione divina (cfr., ad es.: Cusano, De Docta Ignor., II, 12; PICO DELLA
MIRANDOLA, Adv. Astro- logiam, VI, 2 e passim); 2° l’azione di governo di Dio
sul mondo. In questo senso Campanella parla dei tre « grandi I.» in cui si
concreta l’azione di Dio e che sono la necessità, il fato e l’armonia (Mer.,
IX, 1; Theol., I, 17, a. 1); 3° l’azione dell'anima sul corpo. In questo senso
la parola fu adoperata nei sec. XVII e xvIn. Dice Leibniz: « Volendo sostenere
questa opinione volgare dell’I. dell'anima sul corpo con l’esempio di Dio che
opera fuori di lui, si fa rassomigliare troppo Dio all’anima del mondo» (IV
Lettre è Clarke, $ 34). « Sistema dell’I. fisico » chiama questa dottrina
Baumgarten (Mer., $ 761). E alla stessa «opinione volgare » fa cenno, per rigettarla,
anche Kant (De mundi sensibilis, etc., IV, $ 17). INFORMAZIONE. V. CIBERNETICA.
INGEGNO (lat. /ngenium; Ingl. Ingenuity, Wit; franc. Genie; ted. Witz).
Riprendendo uno dei si- gnificati tradizionali del termine, Giambattista Vico
chiamò I. la facoltà inventiva della mente umana. Egli contrappose pertanto
l’I. alla ragione car- tesiana; e analogamente contrappose all’arte car- tesiana
della critica fondata sulla ragione, la topica come l’arte che disciplina e
dirige il procedi- mento inventivo dell’ingegno. L’I. ha tanta più forza
produttiva rispetto alla ragione, quanto meno ha, nei suoi confronti, di
capacità dimostrativa (De nostri temporis studiorum ratione, $ 5). Kant a sua
volta intendeva per I. il talento cioè «la superiorità del potere conoscitivo
che dipende dalla disposizione naturale del soggetto e non dall’inse- gnamento
» e lo distingueva in I. comparativo e in I. logicizzante (Antr., I, $ 54). V.
ToPICA. INGENUITÀ (ingl. Naivete; franc. Nalveté; ted. Naivetàt). Nel sec. xvi
questo termine cominciò ad essere adoperato per indicare un certo modo di espressione
estetica. « L’I., diceva Kant, è l’espres- sione dell’originaria sincerità
naturale dell'umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda na- tura
» (Crit. del Giud., $ 54). L’I. non va scambiata con la franca semplicità che
non dissimula la na- tura solo perchè non comprende che cosa sia l’arte di
vivere in società. È piuttosto una natura che si affaccia o si rivela nell’arte
stessa (Z/bid., $ 54). A questi concetti si ispirò Schiller nel saggio Sulla poesia
ingenua e sentimentale (1795-96). « L’ingenuo, diceva Schiller, è Ia
rappresentazione della nostra infanzia perduta, che rimane per noi ciò che c’è INQUIETUDINE
di più caro e perciò ci riempie di una certa tristezza ed è insieme quella
della suprema perfezione del- l’ideale che perciò ci eccita in una sublime emo-
zione » (Werke, ed. Karpeles, XII,
pag. 108). Alla poesia ingenua in questo senso si
contrappone la poesia sentimentale: il poeta ingenuo è natura; il poeta
sentimentale cerca la natura (/bid., pag. 125). Fuori del dominio
dell’estetica, il termine è stato talora usato per caratterizzare le credenze
filosofiche dell'uomo comune. « Realismo ingenuo» è stato detto e si dice la
credenza comune nella realtà delle cose. E per quanto l’aggettivo abbia, in
quest’uso, un certo tono dispregiativo, la critica più recente ha mostrato che
non sempre le credenze ingenue sono le più deboli (v. REALISMO). ININTELLIGIBILE
(lat. Znexplicabilis; ingl. Unintelligible; franc. Inintelligible; ted. Unver- stîindlich).
1. Propriamente, ciò di cui non si giunge ad afferrare il perchè nè il come;
ossia ciò di cui la causa o condizione o significato è inafferrabile: l’inesplicabile
(cfr. CicER., Acad., II, 29, 95). Il ter- mine ha pertanto un significato
diverso e più pre- ciso che inconcepibile (v.) il quale indica soltanto una
generica incompatibilità con la ragione. Leibniz stesso stabiliva la differenza
tra ciò che non s’intende e ciò che è inconcepibile (Nouv. Ess., Avant propos, Op.,
ed. Erdmann, pag. 202). Una differenza ana- loga è stabilita fra i due termini
da Peirce (Chance, Love and Logic, II, 2; trad. ital., pag. 137). 2. Detto di
discorsi scritti o parlati: oscuro, confuso, non bene esposto ai fini della
comunica- zione. INNATISMO (ingl. Inratism; franc. Innatisme; ted. Nativismus).
La dottrina che esistono nell’uomo conoscenze o princìpi pratici innati, cioè
non acqui- siti con l’esperienza o dall’esperienza, ed anteriori ad essa. Il
modello di ogni I. è la dottrina platonica dell’anamnesi (v.): « Poichè l’anima
è immortale ed è nata molte volte ed ha visto ogni cosa, sia qui che nell’Ade,
non c’è niente che essa non abbia appreso: sicchè non fa meraviglia che possa
ricor- dare, sia intorno alla virtù sia intorno ad altre cose, ciò che prima
sapeva » (Men., 81 c). Ma la forma con cui l’I. è passato nella tradizione
filosofica è stata data ad esso dagli Stoici. Essi ammettevano come criterio
della verità, accanto alla rappresen- tazione catalettica, l’anticipazione che
è «la nozione naturale dell’universale » (Dioc. L., VII, 54). Ci- cerone così
esponeva il loro punto di vista: « La natura ci ha dato minuscole fiammelle e
noi, ben presto guastati da cattivi costumi e da false opi- nioni, le spegniamo
in modo da far scomparire il lume della natura. E invero nella nostra indole
sono innati i germi della virtù, e se fosse loro pos- sibile svilupparsi, la
natura stessa ci guiderebbe ad una vita felice» (Tusc., III, 1, 2). Questa
specie 491 di I. si ricollega alla teoria dell’istinto (v.) propria degli
Stoici e viene ripresa da dottrine che hanno l’intento di mettere al riparo dal
dubbio certe cre- denze fondamentali di natura teoretica o pratica. In questo
senso l’I. fu ripreso dal platonismo rinascimentale di cui si può considerare
una con- tinuazione il platonismo inglese del sec. xvi contro le cui tesi
fondamentali è diretta la critica del primo libro del Saggio di Locke. LI. è
poi ripreso in Inghilterra nel secolo successivo dalla scuola scoz- zese del
senso comune (v.) e cioè da Reid e Dugald Stewart. Ma già Cartesio e Leibniz
avevano dato all’I. un significato nuovo. Per Cartesio alcune idee sono innate
come «capacità di pensare e di comprendere le essenze vere, immutabili ed
eterne delle cose » (Méd., III; Lettre à Mersenne, 16-vi-1641, Cuvr., III,
383). E Leibniz similmente considerava innate le verità che si rivelano
immediatamente tali al lume naturale, senza aver bisogno di altra ve- rifica
(Nouv. Ess., I, 1, 21). In questo senso l’inna- tezza non era più una specie di
scultura che l’anima porta con sè nascendo, secondo l’immagine che Cicerone
aveva adoperato (De nat. deor., II, 4, 12). Al vecchio adagio scolastico: «
Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu», Leibniz aggiungeva la
limitazione « nisi ipse intellectus» in- tendendo dire con ciò che l’anima
dispone per suo conto di categorie, come l’essere, la sostanza, l’uno, lo
stesso, la causa, la percezione, il ragiona- mento, ecc.; che i sensi non
potrebbero fornirle (Nouv. Ess., II, 1, $ 2). Non grande è la distanza tra
questa forma di I. e la dottrina kantiana (che tuttavia si è soliti non
designare con questo ter- mine) della non-derivazione dall’esperienza delle forme
a priori della conoscenza. L’I. appartiene,
oggi, al novero di quelle dottrine che
non si dibat- tono più perchè non si dibattono più i problemi di cui esse
costituiscono le soluzioni. Nella filosofia moderna, quando si ammette che
qualcosa precede l’esperienza (come fa, per es., l'idealismo hegeliano) questo
qualcosa non è un complesso di idee o di virtualità, ma tutta la ragione o
tutto lo spirito (cfr. A PRIORI). INQUIETUDINE (ingl. Uneasiness; francese Inquiétude;
ted. Unruhe). Al termine ha dato un significato
filosofico preciso Locke, intendendo per esso il disagio del bisogno inappagato
(Saggio, II, 20, 6). Nella seconda edizione del Saggio Locke vide nell’I. così
intesa il movente principale della volontà umana. « Dopo averci ripensato,
diceva Locke, sono portato a ritenere che non sia, come generalmente si pensa,
il maggior bene che si abbia in vista, bensì un qualche disagio (e per lo più quello
più gravoso da cui l’uomo sia attualmente afflitto) ciò che determina la
volontà... Questo di- sagio possiamo anche chiamarlo desiderio, che è 492 un
disagio dello spirito per la mancanza di qualche bene» (/bid., II, 21, 31).
Leibniz accoglieva con favore questa tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 20, $ 6); che
fu accolta e utilizzata anche da Condillac (Traité des sensations, I, 3, $ 2). IN SÈ (gr. aùrs; lat. In se; ingl. In itself; fran- cese En soi; ted. An
sich). Ciò che si considera senza riferimento ad altro e cioè: 1° indipendente-
mente dalle relazioni con altri oggetti; 2° indipenden- temente dalla relazione
col soggetto considerante. 1° Platone e Aristotele usano l’espressione nel primo
senso. Platone parla del « bello stesso », della «somiglianza stessa», ecc.
(espressioni che di solito sono state tradotte nelle lingue moderne come «bello
in sè», «somiglianza in sè», ecc.) per indicare il bello, la somiglianza, ecc.,
fuori delle loro relazioni con le cose che ne partecipano (Fed., 65d, 75c;
Parm., 130b, 150c, ecc.). Ari- stotele adopera l’espressione nello stesso senso
per indicare una qualità o una sostanza, per es., « ani- male » che si
consideri indipendentemente dalle relazioni con le sue specie (cfr., ad es.,
Mer., VII, 14, 1039 b 9). Questo significato è anche alla base del valore che
Hegel dette all’espressione indicando con essa ciò che è astratto e immediato,
privo di sviluppo, di riflessione, di relazione. «In sè» è pertanto il concetto
nella sua immediatezza, quale è considerato dalla prima parte della logica cioè
dalla Dottrina dell’essere (Enc., $ 83), nel senso che non è per sè (v.) cioè
non è risolto nella co- scienza. In tal senso Hegel dice: « Le cose si dicono essere
in sè in quanto si astrae da ogni esser per altro, il che in generale
significa: in quanto sono pensate senza alcuna determinazione o come dei nulla
» (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. II, B, a; trad. ital., pag. 124).
In riferimento a questo significato Hegel usò l'espressione per indicare ciò
che è in potenza, cioè che non si è ancora sviluppato e che solo perciò può
essere considerato indipendentemente dalle relazioni con le altre cose. Il
contrario del- l’iîn sè è in questo senso il per sè che è l’attualità o
l’effettualità di una cosa per cui la cosa stessa, nel suo svolgimento si
arricchisce mediante le sue relazioni con le altre. (Cfr. Geschichte der Philo-
sophie, I, Intr., A, 2). 2° Nell’età moderna, a cominciare da Car- tesio,
l’espressione assunse prevalentemente il signi- ficato di «indipendentemente
dalla relazione col soggetto conoscente +, soprattutto nell'espressione Cosa in
sè (v.). Analogamente Sartre ha inteso per « essere in sè » l'essere oggettivo,
in quanto esterno e indi- pendente dalla coscienza; mentre ha chiamato la
coscienza essere per sè (L’étre et le néant, pag. 30, 115 sgg.). In senso più
ristretto, N. Hart- IN SÈ mann ha inteso l’essere in sè dei valori come la loro
«indipendenza dall’opinare del soggetto » (Ethik, 2% ediz., 1935, pag. 149). Un
significato, questo, abbastanza frequente nell’uso filosofico: Bolzano aveva
parlato di una «proposizione in sè », della «rappresentazione in sè» e della
«ve- rità in sè » intendendo per « in sè » in queste espres- sioni il puro
significato logico-obiettivo della pro- posizione, della rappresentazione o
della verità, indipendentemente dal loro esser pensate od espresse (Wissenschaftslehre,
1837, $ 19, 25, 48). INSIEME (ingl. Ser, Oggaegate; franc. Ensemble; ted.
Menge). Georg Cantor il fondatore della teoria degli insiemi, defini l’I. come
+ l’aggregazione in un unico tutto di oggetti definiti e separati della nostra
intuizione o del nostro pensiero: oggetti che sono detti elementi dell’I. »
(Beitràge zur Be- grilndung der Transfinite Mengenlehre, 1895, $ 1). Questa
nozione (già implicita nei precedenti lavori di Cantor, a partire dal 1878)
attribuisce agli insiemi le seguenti caratteristiche: 1° L’I. esiste ogni volta
che un molteplice si lascia pensare come uno cioè ogni volta che un molteplice
può essere legato I. mediante una regola. 2° L’I. è internamente derer- minato,
nel senso che, in virtù della regola che lo costituisce e del principio del
terzo escluso, si può sempre decidere se un oggetto qualsiasi appartiene o no
all’insieme stesso. 3° L’I. è una molteplicità coerente nel senso che gli
elementi di esso possono stare insieme (zusammensein) senza contraddizione. In
questo senso la «totalità di tutti gli oggetti pensabili» non è un I. perché è
contraddittoria. 4° L'esistenza dell’I. è oggertiva cioè indipendente dal
pensiero o dal linguaggio che lo esprime. 4° Come unità, l'I. può sempre
costituire l'elemento di un altro insieme. In base a tali caratteri, Cantor
paragonava VI. all’idea di Platone, che è anch'essa l’unità oggettiva di una
molteplicità (v. IpeAa). Cantor utilizzò la teoria degli I. come fondamento del
concetto dell’infinito attuale (v. INFINITO); e da Cantor in poi essa è stata
adoperata per l’assiomatizzazione della matematica. Mentre i logici in generale
non stabiliscono dif- ferenze tra I. e classe (v.), tranne che per sottoli- neare
il carattere astratto della classe nei confronti del carattere concreto dell’I.
(come fa per es. QuINE, From a Logical Point of View, VI, 3) alcuni indirizzi dell’assiomatica
moderna (von Neumann, Gédel), ritengono che il concetto di I. è più ristretto
di quello di classe, cioè che esistono classi che non sono insiemi. Da questo
punto di vista, mentre gli insiemi sono entità logiche ben determinate, le classi
sono estensioni di predicati, cioè totalità aperte che possono essere
continuamente arricchite me- diante operazioni astrattive effettuate sul mondo INTELLETTO
degli I. (Cfr. BetH, Les fondements logique des mathématiques, 1955, V). INSOLUBILIA.
Con questo nome o con quello di Impossibilia si chiamarono nella logica
medievale a partire dal sec. x1v, quelli che nella logica mega- rico-stoica
erano chiamati ragionamenti ambigui o convertibili e furono anche chiamati
dilemmi (v.) e più tardi antinomie (v.). INSTABILITÀ (ingl. Instability).
Precarietà. Uno dei tratti fondamentali dell’esistenza secondo alcune correnti
contemporanee. Dice, ad es., Dewey: «L’uomo si trova a vivere in un mondo
aleatorio; la sua esistenza implica, per dirlo crudamente, un azzardo. Il mondo
è la scena del rischio: e incerto, instabile, terribilmente instabile. I suoi
pericoli sono irregolari, incostanti, non possono essere riportati a un tempo
ed a una stagione determinata » (Expe- rience and Nature, cap. 2). INTEGRAZIONE
(ingl. Integration; francese Intégration; ted. Integration). Questo termine ha significati
specifici diversi in diverse branche del sapere. In matematica, è il processo
al limite col quale si determina il valore di una grandezza come somma di parti
infinitesimali assunte in numero sempre crescente. In biologia, significa il
grado di unità o di solidarietà fra le varie parti di un or- ganismo cioè il
grado nel quale tali parti sono di- pendenti l’una dall’altra. Analogamente, in
psico- logia significa il grado di unità o di organizzazione della personalità;
e in sociologia il grado di orga- nizzazione di un gruppo sociale. Spencer nei
Primi Principi (1862) vedeva nell’I. una delle caratteristiche fondamentali
dell’evolu- zione cosmica in quanto passaggio da uno stato indifferenziato,
amorfo e indistinto a uno stato differenziato, formato e unificato (First
Principles, $ 94). INTELLETTIBILE (lat. Intellectibilis). Ciò che non è
sensibile e non ha rapporto con ciò che è sensibile; e in questo è diverso
dall’inze/ligibile (v.) che può somigliare al sensibile o essere appreso in esso
(In Porphirium I, P. L., 64, col. 11). La distin- zione, stabilita da Boezio,
fu ripresa da Ugo di San Vittore. L’I. è il divino o ciò che di divino c’è nell'uomo,
per es., l'anima (Didascalion, II, 3, 4). INTELLETTO (gr. vodc; lat. Intellectus; inglese Understanding;
franc. Intelligence; ted. Verstand). Il termine
è stato costantemente usato dai filosofi in un duplice significato e cioè: 1°
in un signifi- cato generico come facoltà di pensare in genere e 2° in un
significato specifico come una particolare attività o tecnica del pensare. In
questo secondo significato il termine è stato inteso a sua volta in tre modi
diversi e cioè: a) come I. intuitivo; b) come I. operativo; c) come I.
comprendente o intelli- genza. 493 1° Platone e Aristotele definiscono in
generale l’I. come facoltà di pensare. Platone infatti dà il nome di I.
all’attività che pensa (Sof., 248 e-249 a) e che pertanto dà limiti, ordine e
misura alle cose (Fil., 30c; Tim., 48 a) e chiama pensiero (vénoic) l’insieme
della scienza e della dianoia cioè le atti- vità superiori dell'anima in quanto
contrapposte alla congettura e alla credenza, raccolte insieme sotto il nome di
opinione (Rep., VII, 534 a). A sua volta Aristotele dichiara di intendere per
I. «ciò per cui l’anima ragiona e comprende » (De An., INI, 4, 429a 23). Questo
significato generico era d’altronde già stato dato al termine da Parmenide (Fr.
16, Diels) e da Anassagora (Fr. 12, Diels). Ed è ovvio che tutti coloro che,
come Anassagora, Platone e Aristotele, attribuirono all’I. la fun- zione di
ordinatore dell’universo lo intesero, non come una specifica attività o
tecnica, ma nel si- gnificato più generico di attività pensante cioè capace di
scegliere, coordinare e subordinare. La stessa contrapposizione, così frequente
negli an- tichi e già presente nella sua forma estrema in Parmenide (Fr. 8,
Diels) tra l’I. ed i sensi, im- plica che all’I. si attribuisca il significato
generico di facoltà di pensare. Analogamente la sostanzia- lizzazione che l’I.
subisce ad opera del neoplato- nismo è quella della facoltà di pensare in
genere, in tutte le sue molteplici forme (confronta, per es., PLOTINO, Enn.,
III, 8, 9-10). Questo significato generico si è conservato nella tradizione
filosofica fino al Romanticismo. San Tom- maso lo esprimeva contrapponendo l’I.
ai sensi, «Il nome di I., egli diceva, implica una certa co- noscenza intima;
infelligere è quasi un leggere dentro (intus legere). Questo è evidente a chi
con- sidera la differenza tra I°I. e i sensi: la conoscenza sensibile concerne
le qualità sensibili esterne, la conoscenza intellettiva penetra sino
all’essenza della cosa » (.S. 7A., II, 2, q. 8, a. 1). Dall'altro lato lo
stesso significato generico si ha quando il ter- mine è contrapposto a volontà,
come accade, per es., in Locke: «La capacità di pensare è ciò che si chiama I.
e la capacità di volere è ciò che si chiama volontà: due capacità o
disposizioni dell’anima alle quali si da il nome di facoltà» (Saggio, II, 6,
2). Leibniz a sua volta intendeva per I. «la percezione distinta unita alla
facoltà di riflettere, che non c'è nell’anima delle bestie » (Nouv. Ess., II,
21, 5). Questa nozione fu poi assunta da Wolff (Psychol. empirica, $ 275). La
de- finizione dell’I. come «facoltà di pensare» è un luogo comune nel *700; e
Kant non fa che ripe- terlo. L’I. è per Kant «la facoltà di pensare l’oggetto
dell’intuizione sensibile », (Crit. R. Pura, Logica, Intr., I) o «il potere di
conoscere in generale » (Antr., I, $ 6, 40). 494 Ma improvvisamente, con il
Romanticismo, l’I. cessa di avere il valore di facoltà di conoscere in
generale: si scopre la «immobilità » dell’intel- letto. Questa scoperta viene
per la prima volta effettuata da Fichte. «L’I., egli dice, è I. solo in quanto
qualcosa è fissato in esso; e tutto ciò che è fissato è fissato soltanto
nell’intelletto. L’I. si può definire come l’immaginazione fissata dalla ragione
o come la ragione provvista di oggetti
dall’immaginazione. L’I. è una facoltà
spirituale in riposo, inattiva, è il puro ricettacolo di ciò che è stato
prodotto dall’immaginazione ed è stato determinato o è ancora da determinare
dalla ra- gione » (Wissenschaftslehre, 1794, II, Deduzione della
rappresentazione, III; trad. ital., pag. 184). Ma colui che ha fatto prevalere
nella filosofia la nozione di un I. « immobile », « rigido », « astratto » è
stato Hegel: « Come I., egli dice, il pensiero si ferma alla determinazione
rigida e alla differenza di essa verso altre: questo prodotto astratto e limitato
vale per l’I. come per sè stante ed esi- stente » (Enc., $ 80). L’I. è
caratterizzato dall’im- mobilità delle sue determinazioni: esso « determina e
tiene ferme le determinazioni » (Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1 ediz.;
trad. ital., pag. 5). Questa immobilizzazione è una falsificazione, come appare
chiaro nel modo in cui l’I. intende il rapporto tra infinito e finito, dando
luogo al « cattivo infinito ». « La falsificazione che l’I. intraprende con il
finito e l’infinito consistente nel tener ferma come una diversità qualitativa
la relazione dell’uno con l’altro, nell’affermarli nella loro determinazione come
separati e precisamente come separati in maniera assoluta, si fonda sulla
dimenticanza di quel che è per l’I. stesso il concetto di questi momenti »
(/bid., I, I, sez. I, cap. 2, C, c.; tra- duzione ital., I, pag. 157). In tal
modo il « fissare », « l’immobilizzare +, il «tener fermo», il « determi- nare
assolutamente » divengono le operazioni con cui si descrive l’attività dell’I.:
al quale viene contrapposta come attività autentica del pensiero la ragione,
che toglie la fissità e la rigidezza delle determinazioni intellettuali e le
fluidifica e relati- vizza. Questa contrapposizione diventa un luogo comune in
buona parte della filosofia dell’800: l’I. pertanto decade dal suo rango di
facoltà di pensare per assumere quello secondario o subor- dinato di facoltà
del pensare astratto cioè del falso pensare. La persistenza di questo luogo co-
mune, privo di qualsiasi seria giustificazione, si può vedere nel fatto che ai
princìpi del ’900 Bergson riproponeva nell’Evoluzione creatrice (1907) la cri- tica
dell’I., ritenuto, secondo lo schema hege- liano, come la facoltà che ha per
oggetto spe- cifico ciò che è immobile, inerte, rigido e morto e che pertanto è
radicalmente incapace di com- INTELLETTO prendere il movimento e la vita. In
tal modo alla contrapposizione hegeliana I.-ragione veniva sosti- tuita la
contrapposizione I.-vita o I.-coscienza, che ha ispirato e ancora ispira alcune
manifestazioni della filosofia contemporanea. Tuttavia, anche al di fuori di
queste antitesi stereotipate, la nozione dell’I. come facoltà di pensare in
generale non ricorre più nella filosofia contemporanea nella quale essa è stata
piuttosto sostituita dalla nozione di pensiero o ragione (v.). 2° Il
riconoscimento del significato generico di I. è andato talora congiunto e
talora no col rico- scimento di un significato specifico. Si possono distinguere
tre interpretazioni fondamentali della funzione specifica dell’I. e cioè: a)
l’/. intuitivo; b) 1°I. operativo; c) ’I. comprendente o intelligenza. a) La
nozione dell’I. intuitivo fu elaborata da Aristotele. Per Aristotele l’I.,
oltre che essere in generale la facoltà « per cui l’anima ragiona e comprende
», è anche una particolare virtù dia- noetica, cioè un abito razionale
specifico. Come tale, è la facoltà di intuire i princìpi delle dimo- strazioni:
princlpi che non possono essere appresi nè dalla scienza, che è soltanto un
abito dimo- strativo nè dall’arte e dalla saggezza che concer- nono « le cose
che possono essere altrimenti », cioè che sono prive di necessità (Er. Nic.,
VI, 6, 1140b 31 sgg.). Oltre che tali « definizioni prime », l’I. ha anche il
compito di intuire «i termini ultimi» cioè i fini ai quali dev'essere
subordinata l’azione (/bid., VI, 11, 1143 b). Ed insieme con la scienza, l’I.
costi- tuisce la sapienza « che è insieme scienza e I. delle cose più eccelse
per natura +» (/bid., VI, 7, 1151b 2) e che è perciò la più alta realizzazione
dell’uomo. Questa funzione specifica dell’I., di intuire i princìpi comuni del
ragionamento, fu ammessa da San Tommaso (S. 7%., I, q. 8, a. 1) e da molti
altri scolastici, accanto a quella generica del « pen- sare». Kant a sua volta
esplicitamente distingueva dall’I. nel senso generico un I. come facoltà spe-
cifica che sta accanto al giudizio e alla ragione. «La parola I., egli diceva,
viene intesa anche in un senso più particolare quando viene subordinato, come
membro di una divisione, all’I. inteso in senso più generale cioè alla facoltà
superiore di conoscere costituita da /, giudizio e ragione» (Antr., I, $ 40).
In questo senso specifico, l’I. è la facoltà di giudicare; e il giudizio che
gli com- pete è il giudizio determinante, cioè il giudizio le cui leggi entrano
a costituire l’oggetto naturale in generale (e precisamente la forma di tale
oggetto). Queste leggi sono all’I. « prescritte a priori +, cioè date nel suo
stesso funzionamento (Crif. R. Pura, Analitica dei concetti, sez. I; Critica
del Giudizio, Intr., $ IV). In questo senso specifico, come facoltà di
giudicare, l’I. non è intuitivo nel senso di es- INTELLETTO ATTIVO sere in
rapporto diretto con l’oggetto: esso anzi è in rapporto mediato con l’oggetto
perchè, in quanto giudizio su una rappresentazione è, secondo l’espressione di
Kant, «la rappresentazione di una rappresentazione ». Ma è intuitivo nello
stesso senso in cui è intuitivo l’I. specifico di Aristotele: è in rapporto
immediato con leggi o principi fondamen- tali che entrano a costituire
l’organizzazione della scienza e la struttura dei suoi oggetti. La differenza tra
il punto di vista aristotelico e il punto di vista kantiano si può esprimere
nel modo seguente. Dal punto di vista aristotelico l’I. ha il compito di formulare
i princìpi primi che vengono utilizzati dalla scienza dimostrativa, e di
percepirne l’evi- denza. Dal punto di vista kantiano, l’I. nell’effet- tuare il
suo compito, che è quello di giudicare, mette in opera i princìpi che lo
costituiscono anche senza bisogno di formularli esplicitamente. Queste due
alternative sono le sole che si sono storica- mente presentate
nell’interpretazione dell’I. come facoltà intuitiva specifica. b) La concezione
operativa dell’I. è stata presentata da Bergson, che l’ha innestata sul con- cetto
romantico dell’I. inteso come facoltà del- l’immobile. Da questo punto di
vista, l’I. è «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in partico- lare
utensili per fare utensili, e di variarne indefi- nitamente la fabbricazione »
(Evol. créatr., 1911, 83 ediz., pag. 151). Essa è pertanto la soluzione di un
problema che, su un altra linea evolutiva, ha portato all’istinto: inteso,
quest’ultimo come la facoltà di utilizzare strumenti organizzati. Data la sua
funzione operativa, l’intelligenza tende a co- gliere non le cose, ma i
rapporti fra le cose, perciò non la materia di esse ma la loro forma; ha per oggetto
principale il solido inorganico cioè immo- bile ed è caratterizzata da una
incomprensione na- turale del movimento e della vita (/bid., pag. 179). Questa
analisi di Bergson ha influenzato largamente la filosofia contemporanea, la
quale, nelle sue cor- renti spiritualistiche e idealistiche, ha spesso utiliz- zato
le conclusioni di essa per affermare che «1’I. astratto » è, tutt’al più,
efficace nel dominio della scienza che è conoscenza anch'essa « astratta » ma che
poco o nulla vale nel dominio della conoscenza effettiva, che sarebbe quella
filosofica. Ma anche fuori di queste intenzioni denigratorie che involgono insieme
l’I. e la scienza, la funzione operativa dell’I. cioè la funzione per cui esso
è la capacità di affron- tare con successo le situazioni biologiche, sociali,
ecc., in cui l’uomo viene a trovarsi è rimasta a caratteriz- zare l’I. stesso;
nel quale pertanto difficilmente si può oggi scorgere un organo puramente
teoretico. Il pragmatismo ha contribuito certamente alla for- mazione di questo
punto di vista, che è diventato un luogo comune della filosofia contemporanea. 495
c) Il terzo significato specifico di I. è quello per cui esso significa
comprensione e per il quale la parola intelligenza è più appropriata (com'è più
appropriato in francese la parola entendement e in tedesco Verstehen). Questa
accezione del ter- mine può a sua volta essere articolata in due significati. a)
Un significato comune e generico per il quale intendere significa afferrare il
significato di un simbolo, la forza di un argomento, il valore di un’azione,
ecc. In tutti questi casi la parola esprime la possibilità di effettuare
correttamente un'operazione determinata. Per es., l’intelligenza di un segno
consiste nella possibilità di effettuare cor- rettamente, cioè in base all’uso
stabilito o alla regola opportuna, il riferimento del segno al suo referente.
L'intelligenza di un argomento consisterà nella possibilità di effettuare il
collegamento tra le sue parti in modo tale che l’argomento risulti probante,
ecc. L'intelligenza, in questi casi, ha si- gnificati tanto diversi fra loro
come sono diversi gli oggetti o le situazioni cui si fa riferimento. In generale
tutto ciò che può dirsi da questo punto di vista è che l’intelligenza designa
una certa capa- cità di inserirsi nel contesto di tali situazioni e di orientarsi
in esso. B) Un significato più ristretto e specifico per il quale
l’intelligenza significa la comprensione di un certo tipo di oggetti, per es.,
di un uomo o di una situazione storica. Per tale significato del termine, v.
COMPRENDERE. INTELLETTO ATTIVO (gr. vods romtiés; lat. Intellectus Agens; ingl.
Active Intellect; francese Intellect Actif; ted. Active Intellekt). Nozione di origine aristotelica che ha dato luogo ad
un pro- blema a lungo dibattuto dai commentatori antichi di Aristotele, dalla
Scolastica araba, dalla Scola- stica cristiana e dall’Aristotelismo
rinascimentale. Il problema nasce dalla distinzione aristotelica tra I.
potenziale e I. attuale. « Come in tutta la na- tura, dice Aristotele, c'è
qualcosa che fa da materia a ciascun genere e qualcosa invece che è causalità e
attività, anche nell'anima devono necessariamente esserci queste due cose
diverse. Difatti da un lato c'è I’I. che ha la potenzialità di essere tutti gli
og- getti, dall’altro c’è l’I. che li produce, il quale ul- timo si comporta
come la luce: anche questa infatti fa passare all’atto i colori che sono solo in
potenza. Questo I. è separato e impassibile e senza mescolanza, perchè la sua
sostanza è l’atto stesso + (De an., III, 5, 430a 10). Aristotele ag- giunge che
soltanto questo I. attuale e attivo è «immortale ed eterno ». Di qui il
problema: ap- partiene tale I. all'anima umana o fa parte, per la sua
incorruttibilità, eternità e attualità perfetta, della stessa divinità? Tre
sono state le soluzioni 496 principali di questo problema, e precisamente le seguenti:
1° La separazione dell’I. attivo dall’anima umana. È questa la soluzione difesa
nell’antichità dal commentatore di Aristotele, Alessandro di Afro- disia (sec.
m) che identificò l’I. attivo con la causa prima cioè con Dio; e ritenne
proprio dell’anima umana: a) l’I. fisico o materiale (ilico) che è l’I. po- tenziale,
simile all'uomo che è capace di apprendere un’arte ma non è ancora in possesso
di essa; 5) l’I. acquisito (imiximitéo, adeptus) che è il perfeziona- mento o
il compimento del precedente cioè l’insieme delle abilità proprie nell'uomo
educato ed è simile all’artista che è giunto a possedere la sua arte (De an.,
I, ed. Bruns., pag.
138-39). Questa solu- zione, negando all’anima
umana il solo I. immor- tale ed eterno che è quello attivo, da un lato nega l'immortalità
dell’anima stessa, dall’altra accentua la dipendenza dell’attività
intellettuale umana dai sensi. Essa ricorre frequentemente nella storia della filosofia.
La riprende infatti il neoplatonismo arabo con Al Kindi (sec. rx), Al Farabi
(sec. rx) e Avi- cenna (sec. x1): il quale ultimo tuttavia non riteneva questa
soluzione contraria all’immortalità dell’anima giacchè ammetteva che la
dipendenza dell’anima dall’I. attivo e quindi da Dio si conservasse anche dopo
la separazione dell’anima dal corpo e bastasse a dare all’anima l’immortalità
(De an., 10). Ammet- tevano egualmente questa dottrina Avempace (se- colo x) e
Mosé Ben Maimon (sec. x) il più fa- moso dei filosofi giudaici del Medioevo
(Guide des égarés, I, 50-52). L’ammetteva pure Ruggero Bacone (Opus Maius, ed.
Bridges, pag. 143). Nel Rinascimento,
la stessa soluzione veniva difesa da Pietro Pomponazzi: che insisteva sulle
condizioni sensibili del funzionamento dell’I. umano e riteneva impossibile la
dimostrazione dell’immortalità (De Immortalitate animae, 9). 2° La separazione
dell’I. attivo e dell’I. pas- sivo dall’anima umana. Questa fu la soluzione proposta
da Averroè. L’I. materiale o ilico, che i sostenitori della precedente
soluzione attribuivano all’uomo, viene anch’esso ritenuto da Averroè se- parato
dall’anima umana. Nell’anima umana, l’I. materiale non è che una semplice
disposizione co- municata dall’I. attivo; e precisamente una dispo- sizione ad
astrarre dalle immagini sensibili i concetti e le verità universali. All’uomo
non rimane per- tanto, che l’I. acquisito, che Averroè chiama pure speculativo
e consiste nella conoscenza delle verità universali (De an., fol. 165 a).
Questa dottrina di- venne tipica dell’averroismo medievale: fu difesa da
Sigieri di Brabante (sec. x11) nello scritto De anima intellectiva (edito in
Mandonnet, Siger de Brabante et l’averrolsme latin au XIII‘ siècle, II,
Lovanio, 1908). Numerpsi seguaci ebbe questa soluzione nel- INTELLETTUALISMO
l’aristotelismo del Rinascimento (cfr. BRUNO NARDI, Sigierì di Brabante nel
pensiero del Rinascimento italiano, 1945). 3° L’unità dell’I. attivo e passivo
con l’anima umana. Questa tesi fu sostenuta nel sec. Iv dal com- mentatore di
Aristotele, Temistio (De an., 103, 6; trad. ital., pag. 233) in polemica con
Alessandro e più tardi (sec. vi) dall’altro commentatore Sim- plicio, anch’egli
neoplatonico. Essa fu ripresa nel sec. xi, durante la polemica contro
l’averroismo che si svolse nella scolastica latina di quel tempo. Alberto Magno
e S. Tommaso polemizzano contro la separazione averroistica e alessandristica
dell’I. dall’anima umana. Essi ammettono bensì che c’è al di sopra dell'anima
umana l’I. separato di Dio; ma ritengono che l’uomo partecipa di questo I. e
che l’I. attivo fa parte della sua anima come unaluce che è accesa in questa
dall’I. divino (ALBERTO, De intellectu et intelligibili, II, 1-2; S. Tommaso,
S. Th., I,q.79,a. 4). Contro uno scritto di Sigieri era probabilmente diretto
il De unitare intellectus contra Averroistas di S. Tommaso; al quale è a sua
volta una risposta lo scritto De anima intellectiva di Sigieri. La principale
obiezione di S. Tommaso è che, se l’I. fosse una sostanza separata, non sa- rebbe
l’uomo stesso a intendere ma tale sostanza; al che Sigieri risponde che l’I.
agisce nell’uomo, non come un motore ma operans in operando cioè come principio
direttivo della sua attività. Nel Ri- nascimento, fu soprattutto Marsilio
Ficino a di- fendere l’unità dell’I. con l’anima umana (7heologia platonica,
XV, 14). Il problema dell’I. attivo è specifico dell’aristo- telismo e non ha
senso fuori di esso. Pertanto, cessa di essere dibattuto quando l’aristotelismo
cessa di fornire il quadro generale della filosofia. Già tra la fine del sec.
xm e i principi del x1v ci sono filosofi che esplicitamente negano l’I. attivo
ed evitano quindi di proporsi il problema relativo. Du- rando di S. Pourgain
dice che, come non si pone un « senso attivo », così è inutile porre un I.
attivo (In Sent., I, d. 3, q. 5, 26); e Ockham afferma che la funzione di
astrarre, per la quale s’invoca l’I. at- tivo, si svolge naruraliter cioè come
un effetto delle nozioni sensibili e non richiede l’I. attivo, la cui nozione
rimane pertanto poggiata solo sull’autorità di santi e filosofi (Z Senr., II,
q. 25). Questo punto di vista è senz'altro prevalso sin dai princìpi della filosofia
moderna, che abbandona completamente la nozione in esame. INTELLETTUALISMO
(ingl. Intellectua- lism; franc. Intellectualisme; ted. Intellektualismus). Con
questo termine Hegel designava la filosofia di Plotino, interpretando l’estasi
come uscita dalla coscienza sensibile e « puro pensare ». « L'idea della filosofia
plotiniana, egli diceva, è dunque un I. o INTENSIONE E ESTENSIONE un superiore
idealismo che certamente dal lato del concetto non è ancora idealismo perfetto»
(Geschichte der Philosophie, I, sez. III, Plotino; trad. ital., III, pag. 41).
Il termine è ora usato polemicamente dalle filosofie della vita e dell’azione
per designare l’indirizzo ad esse contrario cioè quello per il quale
l'intelletto (o il pensiero o la ragione) ha una funzione dominante nella
conoscenza e nella condotta dell’uomo. Questo termine è stato fre- quentemente
usato dall’intuizionismo bergsoniano, dalla filosofia dell’azione, dal
modernismo, dal pragmatismo cioè da tutte quelle filosofie le quali tendono a
svalutare il valore dell’intelletto come via d'accesso alla verità o come guida
della con- dotta e a ritenere assai più importante l'intuizione, la simpatia,
l'istinto, la vita, la volontà, ecc. Tal- volta il termine è stato contrapposto
a vo/onta- rismo (v.) per indicare la prevalenza attribuita all’in- telletto
sulla volontà; ed è stato in questo senso adoperato anche allo scopo di
caratterizzare storica- mente certi punti di vista. Si è parlato così dell’I.
di S. Tommaso e del volontarismo di Duns Scoto, allu- dendo al diverso peso che
hanno, per questi filosofi, le due attività umane fondamentali. Si tratta
tuttavia di significati e caratterizzazioni poco precisi. INTELLIGIBILE (gr.
vontéc; lat. /ntelligi- bilis; ingl. Intelligible; franc. Intelligible; ted.
Intelli- gibel). In generale, l'oggetto dell’intelletto. Aristo- tele aveva
detto « tutti gli enti sono o sensibili o I. » (De An., III, 8, 431b 21). L'I.
è l’oggetto dell’intel- letto come il sensibile è l'oggetto dei sensi. Questa simmetria
viene mantenuta da tutti i filosofi che am- mettono la distinzione tra
sensibilità e intelletto. Platone chiamò I. la sfera del conoscere che com- prende
la dianoia e la scienza, in quanto distinta dalla sfera dell’opinione che
comprende la conget- tura e la credenza (Rep., VII, 534 a). Per il neo- platonismo,
il mondo I. comprende le tre prime ipostasi, cioè l’Uno, l’Intelletto e l’Anima
del mondo (PLoTINO, Enn., II, 9, 1). Secondo Kant, il mondo I. è quel mondo di
cui l’uomo fa parte come « attività pura » cioè in quanto non è influen- zato
dalla sensibilità ma agisce in base alla spon- taneità della ragione. « Da una
parte, dice Kant, l’uomo, in quanto appartenente al mondo sensibile, è
sottomesso alle leggi della natura; dall’altra parte, come appartenente al
mondo I. è sottomesso a leggi che sono indipendenti dalla natura, quindi non empiriche,
ma fondate unicamente nella ragione» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten,
IID. In questo senso il mondo I. è il mondo morale. In senso più specifico, I.
si dice ciò che può essere inteso o compreso, corrispondentemente ai significati
2°, c, di Intelletto (v.). INTENDIMENTO. Lo stesso che Intelli- genza Iv.
INTELLETTO, 2°, c)]. 32 — Annaanano, Dizionario di filosofia. 497 INTENSIONE e
ESTENSIONE (ingl. /n- tension and Extension; franc. Intension et extension; ted. Sinn und Bedeutung). Questa coppia di termini fu
introdotta da Leibniz per esprimere la distinzione che la Logica di Portoreale
aveva espresso con la coppia comprensione-estensione (v.)e la logica di Stuart Mill
esprimerà con la coppia connotazione-denota- zione (v.). Dice Leibniz: «
L'animale comprende più individui dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più
forme; l’uno ha più esempi, l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più
estensione l’altro ha più I.» (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9). L’uso di questi due
termini fu adottato da Hamilton: « L’interna quantità di una nozione, la sua /.
o comprensione è costituita dai differenti attributi di cui il concetto è la
somma, cioè dai vari caratteri connessi dal concetto stesso in un singolo tutto
pensato. La quantità esterna di una nozione o la sua estensione è costituita
dal numero di oggetti che sono pen- sati mediatamente attraverso il concetto »
(Lecrures on Logic, 2* ediz., 1866, I, pag. 142). L’uso di questi due termini
prevale anche nella logica con- temporanea, che li ha riferiti alla distinzione
sta- bilita da Frege tra senso e significato. « Pensando ad un segno, aveva
detto Frege, dovremo collegare ad esso due cose distinte: e cioè non soltanto l’oggetto
designato, che si chiamerà significato di quel segno, ma anche il senso del
segno, che denota il modo in cui quell’oggetto ci viene dato » (4 Ùber Sinn und
Bedeutung», 1892, $ 1; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag. 218).
Ovviamente, l’oggetto è l’estensione, il senso è l’intensione. La distinzione viene
ripetuta o presupposta da quasi tutta la lo- gica contemporanea. L’I. di un
termine è definita da Lewis come «la congiunzione di tutti gli altri termini
ciascuno dei quali deve essere applicabile a ciò cui il termine è correttamente
applicabile ». In tal senso l’I. (o connotazione) è delimitata da ogni corretta
defi- nizione del termine e rappresenta l’intenzione di chi lo usa, perciò il
significato primo di « signifi- cato ». L'estensione, invece, o denotazione di
un termine è la classe delle cose reali alle quali il ter- mine si applica
(Lewis, Analysis of Knowledge and Valuation, 1950, pag. 39-41). Le stesse
determina- zioni sono date da Quine: l’I. è il significato, la estensione è la
classe delle entità alle quali il ter- mine può essere attribuito con verità
(From a Logical Point of View, II, 1). Analogamente sono usati gli aggettivi
inrersionale ed estensionale: quest’ultimo essendo applicato a punti di vista
che prendono in considerazione la denotazione delle proposizioni e prescindono,
per quanto è possibile, dai loro significati intensionali. D'altra parte,
l’aggettivo intensionale, soprattutto applicato al calcolo delle proposizioni o
delle fun- 498 zioni proposizionali (v.) significa che si prende in considerazione
la modalità delle proposizioni da cui invece prescinde la considerazione
estensionale che si limita a prendere in esame le funzioni di verità delle
proposizioni stesse (CARNAP, Logica! Syntax of Language, $ 67; RUSSELL, Inquiry into Meaning
and Truth, 1940, cap. 19) (v. ESTENSIONA- LITÀ, TESI DELLA). INTENZIONALITÀ (lat. Intentionalitas; in- glese
/ntentionality; franc. Intentionnalité; ted. Inten- tionalitàt). Il riferimento
di un qualsiasi atto umano a un oggetto diverso da sè: per es., di un’idea o rappresentazione
alla cosa pensata o rappresentata, di un atto di volontà o di amore alla cosa
voluta od amata, ecc. La nozione è stata dapprima ado- perata nei confronti
dell’attività pratica: donde il significato, ancor oggi prevalente, della
parola in- tenzione (v.) che designa appunto il riferirsi della attività
pratica al suo oggetto. Il neoplatonismo arabo l’ha per la prima volta estesa a
designare il rapporto tra la conoscenza e il suo oggetto, chia- mando
intenzioni i concetti. Avicenna, nel deter- minare la differenza tra la logica
e le scienze reali, affermò che mentre queste ultime hanno per og- getto le
prime intenzioni (intensiones primo intel- lectae) cioè concetti che si
riferiscono a cose reali, la logica ha per oggetto le seconde intenzioni
(inten- tiones secundo intellectae) cioè concetti che si riferi- scono ad altri
concetti (Mer., I, 2). Alberto Magno riproduceva questa distinzione (In Mer.,
I, 1, 1), che diveniva familiare ai filosofi del sec. xm. S. Tom- maso, a sua
volta, considerava l’intenzione come «la similitudine della cosa pensata »
(Contra Gent., IV, 11): talvolta distinguendola dalla specie intelli- gibile
per la sua indifferenza all’assenza o alla presenza dell’oggetto e per il suo
astrarre dalle condizioni materiali senza le quali quest’ultima non esiste in
natura (/bid., I, 53); talvolta invece identi- ficandola con la stessa specie
intelligibile (S. 77., I, q. 85, a. 1, ad 4°). Ma il concetto di I. non acquistò
un rilievo proprio se non quando tra la fine del sec. xmi e il principio del
sec. xIV si co- minciò a mettere in dubbio la dottrina della specie (v.) come
intermediaria della conoscenza e si cessò di vedere nell’atto conoscitivo una «
similitudine + cioè una copia o immagine della cosa. Durando di S. Pourgain
affermava che l’oggetto stesso, e non la specie, è presente al senso e
all’intelletto (Ir Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10). E Pietro Aureolo osservava a
questo proposito che, se la specie fosse l’og- getto del conoscere, questo
sarebbe non la realtà ma solo l’immagine di essa. Aureolo perciò rite- neva che
l’oggetto della conoscenza fosse la stessa cosa nel suo essere intenzionale od
obiettivo, cioè assunta come termine dell’I. conoscitiva (In Sent., I, d. 23,
a. 2). L’esse intentionale o esse apparens, INTENZIONALITÀ come anche Aureolo
lo chiama, è il manifestarsi della cosa all’I. conoscitiva della mente (/bid.,
I, d. 9, a. 1). Questo sembrava ad Ockham ancora un inutile schermo tra
l’intelletto e la cosa (/n Sent., I, d. 27, q. 3 CC). Per Ockham l’atto
conoscitivo è un infentio nel senso che si riferisce direttamente alla cosa
significata. Come intenzione, il concetto non è che un segno che sta in luogo
di una classe di oggetti: uno qualsiasi dei quali può essere so- stituito al
concetto stesso nei giudizi e ragionamenti nei quali ricorre (/bid., I, d. 23,
q. 1, D; Quodl., IV, q. 35; Summa Log., I, 12). L'I., come riferimento
all’oggetto, era stata in tal modo ridotta, dalla scolastica medievale, al ri- ferimento
del segno al suo designato; e per molto tempo cessa di essere utilizzata come
nozione au- tonoma. Soltanto nel sec. x1x, Francesco Brentano riesumava questa
nozione per assumerla come ca- ratteristica dei fenomeni psichici (Psychologie
vom empirischen Standpunkt, 1874). Questi si possono classificare secondo le
caratteristiche della loro I., cioè del loro riferimento all’oggetto: nella
rappre- sentazione, l’oggetto è semplicemente presente, nel giudizio viene
affermato o negato, nel sentimento viene amato od odiato. Tutti e tre questi
atti si riferiscono ad un «oggetto immanente» e sono atti intenzionali; ma la
loro I., cioè il loro riferi- mento all’oggetto, è diverso per ciascuno di
essi. Dapprima Brentano ritenne che l’oggetto dell’I. po- tesse essere
indifferentemente reale o irreale; in seguito, nella X/assification der
psychischen Phino- mene (1911) affermò che l’oggetto dell’I. è sempre reale e
che il riferimento ad un oggetto irreale è indiretto cioè effettuato per il
tramite di un soggetto che affermi o neghi l’oggetto stesso. A_ queste idee di
Brentano si ispirava Husserl assumendo la no- zione di I. non più come
contrassegno dei fenomeni psichici intesi come un gruppo di fenomeni che coesistano
insieme con altri fenomeni detti fisici, ma come la definizione dello stesso
rapporto tra il soggetto e l’oggetto della coscienza in generale. Dice Husserl
a questo proposito: «La caratteri- stica delle esperienze vissute (Erlebnisse)
che può essere indicata addirittura come il tema generale della fenomenologia
orientata oggettivamente, è l’intenzionalità. Essa rappresenta una caratteri- stica
essenziale della sfera delle esperienze vissute in quanto tutte le esperienze
hanno, in qualche modo, intenzionalità... L'I. è ciò che caratterizza la
coscienza in senso pregnante e consente di in- dicare la corrente
dell’esperienza vissuta come cor- rente di coscienza e come unità di coscienza
» (Ideen, I, $ 84). In seguito Husserl stesso ha parlato di «intenzionalità
fungente » per la quale l’esperienza vissuta si riferisce non soltanto al suo
oggetto ma anche a se stessa ed è perciò consapevolezza di INTERESSE sè (v.
FUNGENTE). Comunque, nell’ambito della fenomenologia l’I. veniva assunta come
la carat- teristica fondamentale della coscienza; e come tale essa è rimasta in
buona parte della filosofia contemporanea e specialmente nella fenomeno- logia
e nell’esistenzialismo (v. Coscienza). Il con- cetto di rascendenza (v.),
mediante il quale Heidegger ha definito il rapporto tra l’uomo e il mondo, non
è altro che una generalizzazione della intenzionalità. Dice Heidegger: « Se si
considera ogni rapportarsi all’ente come intenzionale, allora l’I. è possibile
solo sul fondamento della trascen- denza; ma, si badi bene, nè I. e
trascendenza si identificano nè questa si fonda in quella» (Vom Wesen des
Grundes, I; trad. ital., pag. 24). INTENZIONE (lat. /ntentio; ingl. Intention;
franc. Intention; ted. Gesinnung). Propriamente, l’in- tenzionalità nel dominio
pratico cioè il riferimento di un’attività pratica (desiderio, aspirazione, vo-
lontà) al suo proprio oggetto. In questo significato l’intenzionalità dell’atto
morale può essere ricono- sciuta da qualsiasi dottrina morale. Tuttavia l’in-
sistenza sul valore dell’I. come condizione della moralità è uno dei tratti
caratteristici dell’etica del fine, in quanto distinta dall’etica del movente
(v. Etica). Nell’etica del movente infatti la mora- lità dell’azione si giudica
sul fondamento della sua efficienza a produrre il benessere, la felicità, ecc.
Nell'’etica del fine, invece, la bontà dell’azione si misura sul fondamento
della direzione che il sog- getto imprime all’azione, che è per l'appunto l’in-
tenzione. San Tommaso giustamente dice a questo proposito che «l’I. è il nome
dell’atto della vo- lontà, essendo presupposto l’ordinamento della ra- gione
che ordina qualche cosa ad un fine +; e che «l’I. appartiene primariamente e
principalmente a ciò che muove verso un fine » per cui essa è pro- priamente
«l’atto della volontà » (S. 7%., II, 1, q. 12, a. 1). In questo senso l’I. è
propria del- l’etica del fine. Pertanto la nozione di essa non si trova
nell’etica aristotelica nella quale l’analisi dell’atto morale è fatta in base
a un'etica del movente; e non si trova in tutte le etiche dello stesso genere,
per es., nell’utilitarismo. Dall’altro lato, soprattutto la morale teologica
tende ad in- sistere sul valore dell’intenzione. Abelardo diceva: « Dio tiene
conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito
ed il va- lore di colui che agisce non consiste nell’azione ma nell’I. » (Scito
te ipsum, 3). La stessa morale kantiana, soprattutto nei suoi aspetti di
predica- zione laica ed edificatoria, insiste fortemente sul valore dell’I.:
l’esaltazione della « buona volontà » con cui s’inizia la Fondazione della
metafisica dei costumi è in realtà un’esaltazione dell’intenzione. E la prima
parte della Critica della Ragion Pratica 499 si conclude anch'essa con
l'esaltazione della «I. veramente morale e consacrata immediatamente alla legge
». Per contro, la differenza tra l’etica dell’I. e l’etica oggettiva è stata
ben espressa da Max Weber: « Nella sfera della condotta personale vi sono
problemi etici specifici che l’etica non può risolvere sulla base dei suoi
propri presupposti. C’è anzitutto la fondamentale questione: a) se l’intrinseco
valore della condotta etica — la ‘ pura volontà * o ‘1’I.* come si suole
chiamarla — basti alla sua giustificazione secondo la massima cri- stiana: “il
cristiano agisce bene e lascia a Dio le conseguenze della sua azione” o 5) se
la re- sponsabilità delle conseguenze prevedibili dell’azione dev'essere presa
in considerazione. Ogni atteggia- mento politicamente rivoluzionario e
specialmente il sindacalismo rivoluzionario, hanno il loro punto di partenza
nel primo postulato; ogni politica rea- listica nel secondo. Entrambi invocano
massime etiche. Ma queste massime sono tra loro in eterno conflitto, un
conflitto che non può essere risolto per mezzo della sola etica + (« Der Sinn
der Wert- freiheit der soziologischen und 6konomischen Wis-
senschaften »,
1917; trad. ingl., in The Methodology of the Social Sciences, pag. 16). L’etica moderna e contemporanea, in quanto è
prevalentemente un’etica del movente (v. Erica) dà la prevalenza a quello che
Weber ha chiamato il secondo postu- lato. Dall'altro lato lo scetticismo assai
diffuso nella filosofia contemporanea circa la possibilità di conoscere, con
sufficiente probabilità, ciò che ac- cade nell’intimo della coscienza
individuale, ha con- dotto la psicologia del comportamento a conside- rare l’I.
come l'operazione (o la parte di una operazione) che costituisce l’esecuzione
di un piano o progetto di condotta. In questo caso la frase «Ho l’I. di vedere
Giacomo significa semplicemente che sono impegnato nella esecuzione di un piano
di cui è parte l’incontro con Giacomo (MILLER, GALANTER, PRIBRAM, Plans and the
Structure of Behavior, 1960, pag. 61). INTERAZIONE. TRANSAZIONE. INTERESSANTE
(ingl. Interesting; franc. In- téressant; ted. Interessant). Kierkegaard ha
sotto- lineato l’importanza di questo concetto, considerato da lui come « una
categoria limite ai confini del- l’estetica e dell’etica e perciò come la
categoria del punto critico ». Socrate fu, per es., il più I. degli uomini che
siano vissuti e la sua vita la più I. delle vite vissute. Ma quella esistenza
gli fu asse- gnata dalla divinità e nella misura in cui dovette conquistarla da
sè, dovette conoscere pene e dolori (Furcht und Zittern, in Werke, III, 131). INTERESSE
(ingl. Interest; franc. Intérét; te- desco Interesse). La partecipazione
personale ad V. AZIONE RECIPROCA; 500 una situazione qualsiasi e la dipendenza
che ne deriva per la persona interessata. Si tratta di un concetto moderno, che
Kant utilizza nel dominio dell’estetica, allo scopo di affermare il carattere «
disinteressato » del piacere estetico. Dice Kant: « È detto I. il piacere che
noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo
piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare o in quanto
causa determi- nante di esso o in quanto necessariamente atti- nente a tale
causa. Ma quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere
se a noi o a chiunque altro importi o possa importare la sua esistenza, ma solo
come la giudichiamo con- templandola » (Crit. del Giud., $ 2). Hegel a sua volta
definendo l’I. come « il momento dell’indivi- dualità soggettiva e della sua
attività » intendeva con esso la presenza del soggetto all’azione (Enc., $
475). La nozione di I. è stata soprattutto utiliz- zata nel dominio della
pedagogia. L’I. è qui la partecipazione dell’educando al sapere, per la quale il
sapere appare all’educando stesso come utile. Era stata questa una delle regole
proposte per
l’educazione nell’Emilio di Rousseau. Ma
è stato Herbart a utilizzare sistematicamente la nozione di 1., indicando come
fine dell’educazione la plurila- teralità degli interessi. Secondo Herbart,
1’I. sta in mezzo tra l’essere spettatore dei fatti e l’inter- venirvi; è, in
altri termini, una partecipazione non ancora totalmente attiva o impegnata.
L’I. poi si distingue dal desiderio in quanto, mentre l’oggetto di quest’ultimo
non esiste ancora, l’oggetto dell’I. è già presente e reale (A//gemeine
Pidagogik, 1873, lI, 1, 2, $ 3). Fra i pedagogisti contemporanei Dewey ha
insistito sul valore dell’I., definendolo come «l'accompagnamento
dell’identificazione, at- traverso l’azione, dell'io con qualche oggetto o idea,
per via della necessità di tale oggetto od idea per il mantenimento
dell’autoespressione » (Educa- tional Essays, ed. by J. J. Findlay, pag. 89). Da
questo punto di vista, lo sforzo, che si suole tal- volta, in pedagogia,
contrapporre all’I., implica una separazione tra l’io e l'oggetto che deve
essere appreso o padroneggiato. I caratteri dell’I. sono, secondo Dewey,
l’attività, la proiettività e la pro- pulsività. Per il primo, l’I. è dinamico
cioè spinge all’azione. Per il secondo, l’I. ha il proprio fine fuori di sè, in
qualche oggetto o scopo al quale esso si attacca. Per il terzo, l’I. significa
una rea- lizzazione interna o un sentimento di valore (/bid., pag. 90-91).
Questa concezione dell’I., che è uno dei punti focali della pedagogia di Dewey,
ha fortemente influenzato la teoria e la pratica del- l'educazione in tutti i
paesi dell'Occidente. INTERFENOMENO (ingl. Interphenomenon). Termine creato da
H. Reichenbach per indicare gli INTERFENOMENO eventi subatomici non osservabili
cioè non imme- diatamente inferibili dall’osservazione: per es., il movimento
di un elettrone o di un raggio lumi- noso dalla sorgente sino all’incontro con
un'altra materia. « Eventi di questa specie vengono intro- dotti attraverso
catene di inferenze di tipo molto più complicato. Essi sono costruiti sotto
forma di un’interpolazione entro il mondo dei fenomeni, e la distinzione tra
fenomeni e I. è l’analogo, nella meccanica quantistica, della distinzione tra
cose osservate e quelle non osservate» (Philosophic Foundations of Quantum
Mechanics, I, 6). INTERIORITÀ. V. ESTERIORITÀ. INTERMUNDI (gr. peraxsopia; lat.
Inter mundia). Gli spazi fra i mondi, nei quali, secondo Epicuro, abitano gli
Dei (Diog. L., X, 89; Cice- RONE, De Div., II, 17, 40; De nat. deor., 16-19). INTERPRETANTE,
INTERPRETE (in- glese Interpretant, Interpreter). Nella semiotica con- temporanea,
i due termini significano rispettiva- mente: la disposizione a rispondere a un
segno e colui (in generale l’organismo) che adopera il segno o si esprime con
esso (Morris, Foundations of a Theory of Signs, $ 3) (v. SEMIOTICA). INTERPRETAZIONE
(gr. tpunvela; lat. Zn- terpretatio; ingl. Interpretation; franc.
Interprétation; ted. Interpretation, Auslegung). In generale, la pos- sibilità
di riferire un segno al suo designato; o anche l’operazione con cui un soggetto
(interprete) riferisce un segno al suo oggetto (designato). Ari- stotele chiamò
I. il libro in cui studiava il rap- porto dei segni linguistici con i pensieri
e dei pensieri con le cose. Egli infatti considerava le parole come «segni
delle affezioni dell'anima che sono le medesime per tutti e costituiscono le
im- magini di oggetti che sono identici per tutti» e considerava inoltre come
soggetto attivo di questo riferimento l’anima o l’intelletto (De Interpr., 1, 16
a, 1 sgg.). Boezio, per il tramite del quale la dottrina è passata nella
Scolastica latina, intendeva per I. «qualsiasi voce che significa qualcosa di
per se stessa » includendo perciò fra le I. i nomi, i verbi e le proposizioni
ed escludendone le congiun- zioni, le preposizioni e in generale i termini del discorso
che non significano nulla di per se stessi. Il riferimento del segno al suo
designato era perciò, per lui, l’essenziale dell’interpretazione. (In librum de
interpr. editio prima, I, in P.L., 64, col. 295). In questa concezione, l’I. è
il riferimento dei segni verbali ai concetti (le « affezioni della mente +) e
dei concetti alle cose. Le caratteristiche della dot- trina possono essere così
fissate: 1° l’I. è un evento che accade «nell'anima» cioè un evento men- tale;
2° il segno verbale o scritto è diverso dall’af- fezione della mente o concetto
e si riferisce a INTROIEZIONE questo; 3° il rapporto tra il segno verbale e il concetto
è arbitrario e convenzionale mentre il rapporto tra il concetto e l’oggetto è
universale e necessario. Questi capisaldi sono rimasti per lungo tempo immutati.
Nonostante gli sviluppi che la teoria dei segni ha ricevuto dalla logica
stoica, medievale e moderna, la dottrina dell’I. ha continuato a con- siderare
per molto tempo il processo interpretativo come proprio dell’anima o della
mente cioè come un processo mentale. Solo nella filosofia contem- poranea si è
prospettata un’altra alternativa, secondo la quale esso è un abito o
comportamento. Per quanto non manchi anche oggi chi consideri l’I. un processo
mentale (C. K. OpGEN-I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 1952 [1 ediz.,
1923], pag. 57; Ducasse, in Journal of Symbolic Logic, 1939, n. 4), la
semiotica americana ha presentato l’altra dottrina fondamentale dell’I. che è
quella comportamentistica. I presupposti di questa dot- trina si trovano
nell’opera di Carlo Peirce, che intese l’I. come un processo triadico,
intercedente fra un segno, il suo oggetto, il suo interpretante, intendendosi
per quest’ultimo il rapporto tra il primo e il secondo termine (Coll. Pap.,
5.484). Per quanto in Peirce rimangono ancora molti pre- supposti della vecchia
dottrina, egli intese l’I., non come un atto semplicemente mentale, ma come un abito
d’azione cioè come la risposta abituale e costante che l'interprete del segno
dà al segno stesso (/bid., 5.475 sgg.). Questo è il punto di vista che Carlo
Morris ha fatto prevalere nella semiotica contemporanea (Foundations of a
Theory of Signs, 1938; Signs, Language and Behavior, 1946). Da questo punto di
vista l’I. ha i seguenti caratteri: 1° non è (o non è soltanto) un abito mentale
ma un comportamento (v.) cioè la risposta oggettivamente osservabile e costante
di un orga- nismo ad uno stimolo; 2° non esiste differenza tra segni mentali e
segni verbali, nel senso che i primi siano suscettibili di un’I. necessaria e
gli altri no; 3° il riferimento dei segni ai loro oggetti non è nè necessario
nè arbitrario, ma è determinato dall’uso (nei linguaggi comuni) o da
convenzioni opportune (nei linguaggi speciali). Le notazioni precedenti
concernono la teoria dell’I. nella semiotica (v.). Bisogna però osservare che
la parola ha, nel linguaggio scientifico e filo- sofico odierno, usi specifici
diversi, che solo in- direttamente si possono riportare a quello chiarito. Si
parla di I. nella scienza quando si fa corri- spondere a un sistema assiomatico
un determinato modello (v. ASsioMaATIZZAZIONE, MODELLO): cioè un esempio
concreto o un insieme di entità che soddisfi le condizioni enunciate dal
sistema assio- matico. In questo senso la geometria ordinaria può 501 essere
l’I. di un certo sistema assiomatico, per es., dell’assiomatica di Hilbert. Un
altro uso del ter- mine è quello che si fa nelle discipline storiche, quando si
parla dell’I. di un certo evento o com- plesso di eventi o di un periodo. In
questo caso ’I. è un aspetto della scelta storiografica; e con- siste nella
scelta delle caratteristiche storiche che si assumono come dominanti e
centrali, rispetto alle quali le altre vengono a situarsi in un rango subordinato
e secondario. In questo senso si parla, per es., di I. materialistica della
storia, quando si assumono come primari e fondamentali gli aspetti materiali (o
economici) della storia stessa (v. StoRrIOGRAFIA). L’I. può avere altri sensi
specifici in altri campi di ricerca e può avere anche quello di spiegazione
(come quando si parla, per es., dell’I. di un fenomeno fisico o, come faceva
Ba- cone Nov. Org., I, 26) della natura in generale. Indipendentemente da tutti
i significati richiamati, Heidegger l’ha definita come lo sviluppo e la
realizzazione effettiva della comprensione: « L’I. non è la presa di cognizione
del compreso, ma l’ela- borazione delle possibilità progettate nella com- prensione
» (Sein und Zeit, $ 32). Questo concetto non è utilizzabile per l’analisi
dell'uso del termine nei vari campi. INTERROGAZIONE MULTIPLA (gr. 16 tà melo
tpotiuata Ev rotetv; modvtanthote; lat. Plurium interrogationum fallacia; ted.
Hetero- zetesis). Una delle fallacie extra dictionem enume- rate da Aristotele
e precisamente quella che consiste nella riduzione di parecchie domande a una
sola, giocando così sull’unicità della risposta che l’av- versario è tentato di
dare (ARIST., EI. .Sof., 30, 181 a 30; Pretro Ispano, Sumun. Logicales, 7.62-
7.64; JunGIus, Logica Hamburgensis, VI, 12, 16; GENOVESI, Ars Logico-critica,
V, 11, 12; ecc.) (v. FALLACIA). INTERSOGGETTIVO (ingl. /ntersubjective; franc.
Intersubjectif; ted. Intersubjektiv). Termine usato nella filosofia
contemporanea per designare: 1° ciò che concerne i rapporti tra i vari soggetti
umani, come quando si dice « esperienza I. +; 2° ciò che è valido per un
soggetto qualsiasi, come quando si dice «concetto I.+ o «verifica I.» (v.
UNIVER- SALE, 2). INTIMISMO (franc. Intimisme). L'atteggiamento che consiste
nel concentrarsi sulle proprie vicende interiori. Si dice soprattutto di poeti
e letterati, e in senso leggermente dispregiativo di filosofie che intendono la
filosofia come una specie di auto- biografia mascherata (v. EGOCENTRISMO;
EGOTISMO). INTRINSECO. V. EstRINSECO. INTROIEZIONE (ingl. /ntrojection; ted.
In- trojektion). Termine introdotto da Riccardo Ave- narius (Kritik der reinen
Erfahrung, 1888-90) per 502 designare il processo col quale, falsificando
l’espe- rienza, si riduce l’oggetto a una rappresentazione interna dell’io e si
ammette che anche gli altri individui hanno una simile rappresentazione
interna. Tale processo, che è una interiorizzazione dell’og- getto, dà origine
alla divisione ingannevole tra esperienza interna ed esperienza esterna, mentre
l’esperienza, secondo Avenarius, è una sola ed è sempre un rapporto diretto tra
un oggetto e un organismo. INTROSPEZIONE (ingl. Introspection; fran- cese
/ntrospection; ted. Introspektion). L’auto-osser- vazione interiore cioè
l'osservazione che l’io fa dei propri stati interni. Il termine fu messo in uso
dalla psicologia dell’800, che indicò con esso il metodo psicologico
fondamentale, ritenuto insosti- tuibile sino all'avvento del comportamentismo
(v.). Comte aveva elevato contro l’I. un’obiezione di principio: « L’individuo
pensante, aveva detto, non può dividersi in due, di cui l’uno ragioni, mentre l’altro
lo guardi ragionare. L’organo osservato e l’organo osservatore essendo in
questo caso iden- tici, come potrebbe l'osservazione aver luogo?»
(Cours de phil.
positive, 1830, I, Sez. I, $ 8). Comte
aveva concluso perciò all’impossibilità della psicologia e l’aveva espunta
dalla sua enciclopedia delle scienze. Nel 1868, Peirce rispondeva negati- vamente
alla questione «se abbiamo una facoltà di I.» e concludeva che «il solo modo di
investi- gare una questione psicologica è l’inferenza dai fatti esterni» (Coll.
Pap., 5.244-249; 7.418 sgg.). Questa conclusione di Peirce è il primo accenno dell’avviarsi
dell'indagine psicologica verso il com- portamentismo (v.). INTUIZIONE (gr.
emo; lat. Insuitus, In- tuitio;
ingl. Intuition; franc. Intuition; ted. An-
schauung). Il rapporto diretto (cioè privo di in- termediari) con un oggetto
qualsiasi: rapporto che perciò implica la presenza effettiva dell’oggetto. Così
l’intuito è stato costantemente inteso nella storia della filosofia, a
cominciare da Plotino che usa il termine per designare la conoscenza imme- diata
e totale che l’Intelletto divino ha di sè e dei suoi propri oggetti (Enn., IV,
4, 1; IV, 4, 2). In questo senso l’I. è una forma di conoscenza superiore e
privilegiata; giacchè ad essa, come alla visione sensibile su cui si modella,
l’oggetto è immediatamente presente. Boezio parlava dell’ in- tuito divino »
che è il colpo d’occhio con cui Dio abbraccia le cose senza mutarle (Phil.
Cons., V, 6). E S. Tommaso diceva riferendosi a Dio: «Il suo intuito verte su
tutte le cose in quanto sono da- vanti a lui nella loro presenzialità» (S. 7A.,
I, q. 14, a. 13; cfr. q. 14, a. 9). La conoscenza di- vina si distingue per
questo suo carattere dalla conoscenza umana, che procede componendo e INTROSPEZIONE
dividendo cioè mediante atti successivi di afferma- zione e negazione (/bid.,
I, q. 85, a. 5). Il carattere intuitivo della conoscenza divina si contrappone qui
al carattere discorsivo della conoscenza umana (v. DIANOIA; DISCORSIVO). Ma già
la filosofia medievale adoperò il termine per indicare una forma particolare e
privilegiata della stessa conoscenza umana e in primo luogo la conoscenza
empirica. Ruggero Bacone diceva che «l’anima non s’acqueta nell’inzuito della
verità se non la trova per via dell'esperienza» (Opus Maius, VI, 1). Duns Scoto
privilegiava come co- noscenza intuitiva (cognitio intuitiva) quella che « si riferisce
a ciò che esiste o a ciò che è presente in una certa esistenza attuale +,
distinguendola dalla conoscenza astrattiva (v. ASTRATTIVA) che astrae dall’esistenza
attuale (Op. Ox., II, d. 3, q. 9, n. 6). Questa nozione veniva accettata da
Durando di S. Pourgain (In Sent., Prol., q. 3 F) e da Ockham che, come Bacone,
identificava la conoscenza in- tuitiva con l’esperienza (/n Sent., Prol., q. 1
Z). Da questo momento in poi, e fino a Kant, il signi- ficato specifico del
termine è per l'appunto quello di esperienza (v.). Ma nello stesso tempo il
termine conserva il suo significato generico di rapporto immediato con un oggetto
qualsiasi. In tal senso Cartesio parlava dell’intuito evidente (evidens
intuitus) come di una delle due vie che conducono alla conoscenza certa (l’altra
è la « deduzione necessaria +): intendendo per esso l’apprensione immediata di
un qualsiasi oggetto mentale. « L’intuito della mente, egli diceva, si estende
sia alle cose, sia alla conoscenza delle loro reciproche connessioni
necessarie, sia infine a tutto ciò che l’intelletto sperimenta con precisione in
se stesso o nell’immaginazione » (Regulae ad directionem ingenii, 12). Nello
stesso senso, Locke chiamava intuitiva la conoscenza che percepisce la concordanza
o la discordanza tra due idee imme- diatamente, cioè senza l’intervento di
altre idee (Saggio, IV, 2, 1); e chiamava I., proprio per la sua immediatezza,
la conoscenza che abbiamo della nostra propria esistenza (Ibid., IV, 9, 3). Ancora
nel medesimo senso Leibniz diceva che si conoscono per I. le «verità primitive»
sia di ragione sia di fatto (Nouv. Ess., IV, 2, 1), cioè le verità che
l’intelletto apprende o possiede senza la mediazione di altre. Questo
significato veniva accettato da Stuart Mill: «Le verità, egli diceva, ci sono
conosciute in due modi: alcune sono co- nosciute direttamente o di per se
stesse; altre attraverso la mediazione di altre verità. Le prime sono oggetto
dell’I. o coscienza; le seconde del- l’inferenza » (Logic, Intr., $ 4). Kant a
sua volta si riferiva al senso tradizionale del termine affer- mando che «l’I.
è la rappresentazione quale sa- INTULZIONE rebbe per la sua dipendenza
dall’immediata pre- senza dell’oggetto » (Pro/., $ 8). L’I. è perciò in generale
per Kant la conoscenza alla quale l’og- getto stesso è direttamente presente.
Ma Kant distingue una I. sensibile e una I. intellettuale. L’I. sensibile è
quella di ogni essere pensante finito, a cui l’oggetto è dato: essa è perciò
pas- sività, affezione (Crit. R. Pura, Anal. dei concetti, sez. I). L’I.
intellettuale è invece originaria e crea- tiva; è quella per la quale l’oggetto
stesso è posto o creato ed è perciò propria soltanto dell’Essere creatore, di
Dio (/bid., $ 8, in fine; passim). L’I. intellettuale, è, in altri termini,
l’intuito divino della filosofia tradizionale: la presenza dell’oggetto a
questo intuito è inevitabile e necessaria perchè l’oggetto è creato
dall’intuito stesso. Questa distinzione kantiana fu conservata dal Romanticismo,
ma solo allo scopo di rivendicare per l’uomo II. intellettuale o creativa che
Kant e gli antichi riservavano a Dio. E la cosa s'intende: giacchè, per i
Romantici, la conoscenza umana è la stessa conoscenza con cui lo Spirito
assoluto o creatore conosce se stesso, o è almeno un aspetto o un momento di
essa. Così Fichte intende per I. intellettuale «la coscienza immediata che io
opero e di ciò che io opero e che è ciò per cui l’Io sa in quanto fa» (Werke,
I, pag. 463). A sua volta Schelling afferma che «la filosofia trascendentale dev'essere
costantemente accompagnata dall’I. in- tellettuale » e che l’io stesso è « una
continua I. in- tellettuale » in quanto « produce se stesso ». « Come senza
l’I. dello spazio, egli aggiunge, sarebbe asso- lutamente incomprensibile la
geometria, perchè tutte le sue costruzioni non sono che forme e maniere
svariate per limitare quell’I., così pure senza l’I. intellettuale sarebbe
impossibile la filosofia perchè tutti i suoi concetti non sono che limitazioni
di- verse del produrre che ha per oggetto se stesso cioè dell’I. intellettuale
» (System der transzenden- talen Idealismus, sez. I, cap. I; trad. ital., pag.
39). Hegel a sua volta identificava I. e pensiero. «Il puro intuire, egli
diceva, è il medesimo del puro pensare... Fede e I. debbono essere prese in
senso più alto, come fede in Dio, come I. intellettuale di Dio: vale a dire si
deve astrarre proprio da ciò che forma la differenza dell’I. e della fede dal
pen- siero. Non si può dire che fede e I. trasportate in questa più alta
regione siano ancora diverse dal pensiero » (Enc., $ 63). La stessa tesi è
sostenuta da Schopenhauer che identifica intelletto e I. e pre- tende che anche
le connessioni logiche siano ridotte ad elementi intuitivi (Die Welt, I, $ 15).
Allo stesso ceppo di concetti appartiene la nozione di un’I. come ricorre in
Rosmini, quale apprensione immediata dell’idea dell’essere in generale (Nuovo
saggio, $ 1159; Antropologia, $ 40, 505; Psicologia, 503 $ 13). E sebbene
Gioberti polemizzasse con Ro- smini circa il carattere indeterminato e vuoto dell’idea
dell’essere, accettava tuttavia la nozione di intuito come rapporto immediato,
totale e nc- cessario della mente umana con Dio e con la sua azione creatrice
(/ntr. allo studio della fil., II, pag. 46). Questa era ancora e sempre una «
I. in- tellettuale ». Ma è un'I. intellettuale anche l’I. di cui parla Bergson
per quanto carica di polemica anti-intellettualistica o anti-razionalistica.
Essa in- fatti, come organo proprio della filosofia, possiede i caratteri della
romantica I. intellettuale: un rap- porto immediato o diretto con la realtà
assoluta, cioè con la durata della coscienza o con lo slancio creativo della
vita. L’I., dice Bergson, « è la visione dello spirito da parte dello spirito
». «I. significa dapprima coscienza ma coscienza immediata, vi- sione che si
distingue appena dall’oggetto visto, conoscenza che è contatto e perfino
coincidenza » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 35-36). Gli stessi
caratteri formali possiede l’I. eidetica o I. delle essenze di cui parla
Husserl: «L'essenza è un oggetto di nuova specie, egli dice. Come il dato
dell’I. individuale empirica è un oggetto in- dividuale, così il dato dell’I.
eidetica è un’essenza pura. Non si tratta di un’analogia esterna, bensì di una
radicale affinità. Anche l’I. eidetica è un’I. come l’oggetto eidetico è un
oggetto. La genera- lizzazione dei concetti correlativi ‘ I.’ e ‘oggetto ’ non
è arbitraria ma richiesta necessariamente dalla natura delle cose» (/deen, I, $
3). Infine, l’I. che Croce identifica con l’arte ha gli stessi caratteri formali:
è conoscenza originaria e immediata che perciò non distingue tra reale e
irreale; ha carattere o fisionomia individuale ed esprime direttamente l’oggetto
(Estetica, cap. 1). Ricapitolando i caratteri comuni e quelli diffe- renziali
che I’I. ha rivestito nella storia della filo- sofia, si possono fissare i
primi nel modo seguente. L’I. è un rapporto con l’oggetto caratterizzato: 1°
dalla immediatezza del rapporto stesso; 2° dalla presenza effettiva
dell’oggetto. Costantemente, in base a questi caratteri, l’I. è considerata
come una forma di conoscenza privilegiata. D’altra parte, i suoi caratteri
differenziali possono essere distinti così: 1° l’I. può essere riservata a Dio
e consi- derata come la conoscenza che il creatore ha delle cose create; 2° può
essere attribuita all'uomo e considerata come l’esperienza in quanto conoscenza
immediata di un oggetto presente e in questo senso non è che percezione (v.);
3° può essere attribuita all'uomo e considerata una conoscenza originaria e
creativa nel senso romantico. Tutte e tre queste alternative hanno perduto
buona parte del loro interesse nella filosofia contemporanea. La prima infatti
appartiene alla sfera delle specula- 504 zioni teologiche. La seconda tende ad
essere sosti- tuita dal concetto dell’esperienza come metodo o come insieme di
metodi (v. EspeRrIENZA). La terza è strettamente legata alla metafisica del Ro-
manticismo (vecchio e nuovo) e sta e cade con esso. Nel 1868 Peirce sottoponeva
a critica il concetto di I., negando: 1° che essa potesse servire a garan- tire
il riferimento immediato di una conoscenza al suo oggetto; 2° che essa potesse
costituire la co- noscenza evidente che l’Io ha di se stesso; 3° che potesse
rendere capaci di distinguere gli elementi soggettivi di conoscenze differenti.
Nello Stesso tempo, Peirce affermava l'impossibilità di pensare senza segni e
di conoscere senza ricorrere al le- game reciproco delle conoscenze medesime
(Coll. Pap., 5.213-263). Queste negazioni e affermazioni di Peirce sono state e
sono largamente accettate dalla filosofia contemporanea. All’I. oggi fanno
appello, più che i filosofi, gli scienziati e in particolare i matematici o i
logici quando vogliono sottolineare il carattere inventivo della loro scienza.
Diceva Claude Bernard: «L’I. o sentimento genera l’idea o l'ipotesi
sperimentale cioè l’interpretazione anticipata dei fenomeni della natura. Tutta
l’iniziativa sperimentale è nell’idea giacchè essa sola provoca l’esperienza.
La ragione o il ragionamento servono solo a dedurre le con- seguenze di questa
idea e a sottoporle all’espe- rienza » (Zntr. d l’étude de la médecine
expérimentale, 1865, I, 2, $ 2). Poincaré ripeteva, con riferimento alle
matematiche, ciò che Bernard aveva detto a proposito delle scienze
sperimentali: « Con la lo- gica si dimostra, ma solo con l’I. si inventa... La facoltà
che ci insegna a vedere è l'intuizione. Senza di essa, il geometra sarebbe come
uno scrittore forte in grammatica ma privo di idee » (Science et méthode, 1909,
pag. 137). Nelle matematiche l’esi- genza logica porta secondo Poincaré
all’imposta- zione analitica, quella intuitiva all'impostazione geometrica. «
Così, la logica e l’I. hanno ciascuna il suo compito. Entrambe sono
indispensabili. La logica, che sola può dare la certezza, è lo stru- mento
della dimostrazione: l’I. è lo strumento dell’invenzione » (La valeur de la
science, 1905, pag. 29). In questo senso, come è stato talora osservato, l’I.
ha più un carattere negativo che positivo: essa anticipa ciò che mon risulta
dall’os- servazione empirica o non può essere dedotto dalle conoscenze già
possedute. Non sembra designare, pertanto, che un certo grado di libertà del
ricer- catore e non ha niente a che fare con il significato filosofico
tradizionale del termine. Ad esso invece si riconduce l’uso che fanno del
termine i mate- matici intuizionisti (v. INTUIZIONISMO, 49). INTUIZIONE DEL
MONDO (ted. Weltan- schauung). Sulla filosofia come «I.» o « visione del INTUIZIONE
DEL MONDO mondo », v. FiLosoria. K. Jaspers ha scritto una Psicologia delle
visioni del mondo, distinguendo l’immagine spazio-sensoriale del mondo, quella psichico
culturale e quella metafisica (Psychologie der Weltanschauungen, 1925; trad.
ital., Roma, 1950). INTUIZIONISMO (ingl. Intuitionism; francese Intuitionnisme;
ted. Intuitionismus). Con questo ter- mine vengono indicati atteggiamenti
filosofici o scientifici diversi che hanno in comune il ricorso all’intuizione
nel senso più generale del termine. In particolare, vanno sotto il nome di I. i
seguenti indirizzi: 1° la filosofia scozzese del senso comune in quanto ammette
che la filosofia si fonda su certe verità primitive e indubitabili, conosciute
per in- tuizione (v. SENSO COMUNE); 2° la dottrina di Bergson secondo la quale l’intuizione
è l’organo proprio della filosofia; 3° la dottrina di N. Hartmann e di Scheler secondo
la quale i valori sono oggetto di un’in- tuizione che s’identifica col
sentimento (v. VALORE); 4° l’indirizzo matematico fondato da L. E. J. Brouwer e
che si ispira alle idee di Leopoldo Kronecker (1923-91): il quale riteneva dato
all’in- tuizione umana il concetto di numero naturale asserendo che i numeri
naturali li ha fatti Dio e gli altri li ha fatti l’uomo. Le tesi tipiche
dell'I. di Brouwer sono le seguenti: 1° l’esistenza degli og- getti matematici
è definita dalla possibilità di co- struzione degli oggetti stessi: perciò «
esistono + solo enti matematici che si possono costruire; 2° il principio del
terzo escluso non è valido rispetto a proposizioni in cui ricorre il
riferimento a gran- dezze infinite; 3° le definizioni impredicative non sono
valide. Il rigetto del principio del terzo escluso implica il rigetto della
doppia negazione quindi del metodo della prova indiretta. Questo metodo è
invece a fondamento dell’indirizzo for- malistico della matematica, patrocinato
da Hilbert; e in conformità di esso basta a stabilire l’esistenza di un’entità
matematica la dimostrazione che essa non implica contraddizione (cfr. A.
HerTING, Ma- thematische Grundlagenforschung, Intuitionismus und Beweistheorie,
Berlin, 1934). INVARIANTE (ingl. Invariant; franc. Inva- riant; ted.
Invariante). Una proprietà costante: più in particolare, nella teoria dei
gruppi, una proprietà che rimane la stessa sotto un gruppo di trasformazioni
(v. GRUPPO; TRASFORMAZIONE). INVENZIONE (ingl. Invention; franc. Inven- tion;
ted. Erfindung). «Inventare qualcosa, disse Kant, è del tutto diverso dallo
scoprire. La cosa che si scopre, si ammette come già preesistente, solo che non
era ancora conosciuta, come l’Ame- rica prima di Colombo; quella invece che si
in- venta, come la polvere da sparo non esisteva affatto prima di colui che la
inventò» (Antr., I, $ 57). La capacità inventiva si chiama, tradizional- mente,
genio (v.). I problemi relativi all’I. assu- mono aspetti diversi nei vari
campi. Nella logica sono stati talora dibattuti a proposito della ro- pica (v.)
o dell’intuizione (v.). Nell’arte a proposito del genio (v.). INVOLGERE (lat.
Involvere; ingl. Involve; ted. Involvieren). Implicare, contenere. Così Spi- noza
diceva, riferendosi alla Causa prima, che «la sua essenza involge l’esistenza»
(Er., I, Def. 1). Il termine corrisponde esattamente all’ingl. To entail, usato
per indicare l’implicazione stretta o formale. V. IMPLICAZIONE. INVOLUZIONE
(lat. /Involutio; ingl. Involu- tion;
franc. Involution; ted. Involution). 1.
L’opposto di evoluzione. La parola fu adoperata da Kant per indicare la teoria
biologica opposta a quella della preformazione individuale, teoria che egli
chia- mava dell’evoluzione (Crit. del Giud., $ 81). Oggi, col nome di I. si
indicano i fenomeni opposti a quelli di evoluzione cioè i fenomeni regressivi
del- l'evoluzione. A. Lalande ha sostenuto la tesi che il progresso in ogni
campo dipende, non dal pas- saggio dall’omogeneo all’etereogeneo, come voleva Spencer,
ma dal passaggio dall’etereogeneo all’omo- geneo che è la dissoluzione o I.
(L’idée directrice de la Dissolution opposée a celle de l'Évolution dans la
méthode des sciences physiques et morales, 1898, 28 ediz., col titolo Les
Illusions évolutionnistes, 1931). 2. Nella logica simbolica, il procedimento
che corrisponde all’elevazione a potenza dell’aritmetica (cfr. PEIRCE, Coll.
Pap., 3.614-15). IO (lat. Ego; ingl. /, Self; franc. Moi; ted. Ich). Questo
pronome, con cui l’uomo designa se stesso, è diventato oggetto di
investigazione filosofica dal momento in cui il riferimento dell’uomo a se stesso,
come riflessione su di sè o coscienza, è stato assunto a definizione dell’uomo.
Ciò è avve- nuto con Cartesio; e da Cartesio appunto il pro- blema dell’io è
stato per la prima volta posto in termini espliciti. « Che cosa dunque sono
io?, chie- deva Cartesio. Una cosa che pensa. Ma che cos'è una cosa che pensa?
È una cosa che dubita, con- cepisce, afferma, nega, vuole o non vuole, imma- gina
e sente. Certo non è poco se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma
perchè non le apparterrebbero?... È di per sè evidente che sono io che dubito,
che intendo e che desidero e che non c'è bisogno di aggiungere nulla per spiegarlo
» (Med., II). Come si vede la posizione del problema dell’io è qui subito
accompagnata dalla sua soluzione: l’io è coscienza cioè rapporto con se stesso,
soggettività. Questa è la prima delle interpretazioni storicamente date
dell’io. Possono poi enumerarsi le altre interpretazioni seguenti: IO 505 l'io
come autocoscienza; l’io come unità; l’io come rapporto. 1° La definizione
cartesiana dell’io come co- scienza fu immediatamente accolta e incorporata nella
tradizione filosofica. Locke la faceva sua e la rielaborava allo scopo di
giustificare una carat- teristica formale dell’io: l’unità o identità. Egli diceva:
« Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gu- stiamo, tocchiamo, meditiamo o vogliamo
una cosa, noi ci accorgiamo di farla. Altrettanto accade sempre nel caso delle
nostre sensazioni e percezioni attuali; e in tal modo ognuno è a se stesso ciò
che egli chiama se stesso: e in questo caso non si prende in considerazione il
fatto che il medesimo io si continui nelle stesse sostanze o in sostanze
diverse. Poichè la consapevolezza sempre accompagna il pen- siero ed essendo
quella che fa sì che ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso e in tal modo
di- stingue se stesso da tutte le altre cose pensanti,
in ciò solo consiste l’identità personale
» (Saggio, II, 27, 11). In altri termini, secondo Locke, l’iden- tità dell'io
non è fondata sull’unità o semplicità della sostanza-anima ma unicamente sulla
coscienza; ed è, anzi, questa coscienza in quanto si riconosce nella diversità
delle sue manifestazioni. Leibniz, pure insistendo sulla importanza di quella
che egli chiamava coscienza o sentimento dell’io, non rite- neva che essa sola
costituisse l’identità personale e vi aggiungeva « l’identità fisica e reale »
(Nouv. Ess., II, 27, 10). Questo punto di vista si trova frequen- temente
espresso nella filosofia moderna e contem- poranea, che talora ha accentuato il
carattere attivo o volitivo della coscienza. Così ha fatto, per es., Maine de
Biran. «La causalità o la forza cioè l’io, egli ha detto, resa manifesta a se
stessa mediante il suo solo effetto o il sentimento imme- diato dello sforzo
che accompagna ogni movimento o atto volontario, è precisamente come il primo raggio
diretto, la prima luce che la vista interiore della mente coglie» (Nouv. Ess.
d’Anthropologie, II, 1). L’io è così, per Maine de Biran, la coscienza originaria
dello sforzo. Ma la migliore espressione della dottrina dell’io come coscienza
è stata data da Kant. Diceva Kant: «Io, come pensante, sono un oggetto del
senso interno, e mi chiamo anima. Ciò che è oggetto del senso esterno si chiama
corpo. Pertanto l’espressione io, come
essere pen- sante, designa già l’oggetto della psicologia che può dirsi la
dottrina razionale dell’anima, quando io dell'anima non voglio sapere più di
quanto, indipendentemente dall’esperienza (la quale mi de- termina più da
vicino e in concreto) può essere concluso da questo concetto dell’io presente
in ogni pensiero » (Crir. R. Pura, Dialettica, II, cap. 1). Accanto a quest’io
come «oggetto del senso in- terno » cioè coscienza (cfr. Prol., $ 46) Kant am- 506
mette poi un’altra specie di io che segna il pas- saggio a una seconda
interpretazione di questo concetto. L’interpretazione dell’io come coscienza è
rimasta frequente nella filosofia moderna e con- temporanea. Diceva Rosmini: «
La parola io al concetto generale dell’anima unisce ancora la re- lazione
dell’anima a se stessa, relazione di identità; ella contiene dunque un secondo
elemento distinto dal concetto dell’anima, è un’anima che percepisce se stessa,
si pronuncia, si esprime » (Psicol., $ 6). 2° L’'interpretazione dell’io come
Autocoscienza nasce dalla distinzione che Kant aveva fatto tra l'io come
oggetto della percezione o del senso in- terno e l’io come soggetto del
pensiero o dell’ap- percezione pura, cioè l’io della riflessione (Antr., I, $
4, nota; cfr. AUTOCOSCIENZA). Questa distin- zione che in Kant non avrebbe mai
potuto con- durre ad una sostanzializzazione metafisica dell’io, data la
funzionalità che Kant attribuisce all’io stesso, doveva essere assunta, da
Fichte, come punto di partenza per la dottrina dell’Io assoluto, L’io della
riflessione o della appercezione pura è. secondo Kant, la condizione ultima del
conoscere; Fichte ne fa il creatore della realtà. «In quanto è assoluto, egli
dice, l’Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso
non pone non è (per esso; ma al di fuori di esso non c’è nulla). Ma tutto ciò
che esso pone, esso lo pone come Io; ed esso pone l’Io come tutto ciò che esso
pone. Quindi, in questo riguardo, l’Io ab- braccia in sè tutta la realtà, cioè
una realtà infinita ed illimitata» (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, II;
trad. ital, pag. 207). Queste tesi venivano fatte proprie e amplificate da
Schelling per opera del quale divennero una delle espressioni caratte- ristiche
del Romanticismo. Nello scritto L’Zo come principio della filosofia o
l’incondizionato nel sapere umano (1795), egli identifica l’Io di Fichte con la
Sostanza di Spinoza. « Io sono diventato spinozista, scriveva in occasione di
questo scritto Schelling a Hegel; vuoi sapere come? Per Spinoza il mondo è
tutto, per me tutto è l’Io ». E per quanto Hegel negasse questa tesi
considerando come sapere as- soluto (e quindi anche come realtà assoluta) un sapere
in cui la distinzione tra l’Io e il non Io, tra il soggettivo e l’oggettivo, è
venuta a sparire, anch’egli tuttavia condivide la tesi del carattere infinito
dell’Io. « L’Io, egli dice, questa immediata coscienza di sè, appare in primo
luogo anch’esso da un lato come immediato, dall’altro poi come noto in un senso
molto più elevato che qualsiasi altra rappresentazione. Ogni altro noto
appartiene infatti certamente all’Io, ma nello stesso tempo è ancora diverso da
esso e però è subito un con- tenuto accidentale; l’Io invece è la semplice cer-
tezza di sè. Ma l’Io in generale è anche nello stesso IO tempo un concreto o
meglio l’Io è il concretissimo, la coscienza di sè come di un mondo
infinitamente molteplice » (Wissenschaft der Logik, I, libro I; trad. ital., I,
pag. 65-66). Gentile non faceva che riecheg- giare la posizione fichtiana e
romantica quando diceva: « L’io è, sì, l’individuo, ma l’individuo come
soggetto, il quale non ha nulla da contrap- porre a se stesso e che trova tutto
in sè; e perciò è il concreto attuale universale. Orbene questo Io, che è lo
stesso assoluto, è in quanto si pone; è causa sui » (Teoria generale dello
spirito, XVII, $ 7). 3° Già nell’interpretazione dell’io come co- scienza e
come autocoscienza si insiste talora su un carattere formale dell’io, cioè
sulla sua wnirà o identità. Si è visto che per Locke l’io è la co- scienza in
quanto fonda l’identità personale; e per Kant l’io della riflessione è «
l’unità dell’apperce- zione pura» (Cri. R. Pura, $ 16; v. APPERCEZIONE). Hume
stesso aveva visto in una certa forma di unità, sia pura fittizia, il carattere
fondamentale dell’io; che egli aveva paragonato ad una repubblica, che può
mutare negli uomini che la governano, come pure nella sua costituzione e nelle
sue leggi, senza perdere la sua identità. L'uomo, allo stesso modo, può mutare
le sue impressioni e le sue idee, rimanendo lo stesso io (7reatise, I, 4, 6).
Tut- tavia per Hume, come si vede da questa stessa immagine, l’unità dell’io
non è assoluta o rigorosa; è un’unità formale e approssimativa, fondata sulla relativa
costanza di certi rapporti fra le parti o i momenti dell’io. Questo punto di
vista rende forse conto, meglio di quello che afferma la rigo- rosa unità
dell’io, dei limiti e dei pericoli a cui l’io va soggetto nell'esperienza
effettiva. 4° Il concetto dell’io come rapporto nasce dal riconoscimento del
più vistoso carattere con cui l’io si presenta a questa esperienza: il
carattere della problematicità per cui esso è una formazione instabile e può
andare soggetto alla malattia e alla morte. La nozione di rapporto è difatti
più gene- rica e meno impegnativa della nozione di unità. L'unità è una forma
di rapporto necessaria, im- mutabile ed assoluta; un rapporto può essere più o
meno saldo e può rompersi. Proprio sotto l’an- golo visuale della « malattia
mortale» dell’io, che è la disperazione, Kierkegaard definì l’io come « un
rapporto che si rapporta a se stesso ». L'uomo è una sintesi d'anima e di
corpo, d’infinito e difinito, di libertà e di necessità, ecc. Una sintesi è un
rapporto; e il ritorno su questo rapporto, cioè la relazione del rapporto con
se stesso, è l’io dell’uomo (Die Krankheit zum Tode, 1849, cap. 1). Kierkegaard
aggiungeva che proprio in quanto rapporto con se stesso, l’io è rapporto con
altro: cioè con il mondo, con gli altri uomini e con Dio. Su questo secondo
rapporto insistono talora i IPOSTASI filosofi contemporanei. Diceva Santayana:
« Quando dico io, il termine suggerisce un uomo, uno fra i molti che vivono in
un mondo che è in contrasto con il suo pensiero il quale tuttavia lo domina » (Scepticism
and Animal Faith, 1923, ed. 1955, pag. 22). Da un punto di vista diverso,
Scheler giunge a un analogo concetto dell’io: « Con la parola io, egli dice, è
connesso un accenno da una parte a un rw, dall’altra ad un mondo esterno. Dio,
ad es., può essere una persona ma non già un io giacchè per lui non ci sono nè
un tu nè un mondo esterno» (Formalismus, ecc., pag. 405). E proprio del
rapporto si avvale Heidegger per definire l’io. « La stessa assunzione dell” Jo
penso qualcosa’ non può ricevere una adeguata deter- minazione se il ‘ qualcosa
* resta indeterminato. Se invece il ‘ qualcosa * viene inteso come ente intra- mondano,
allora porta con sè inespressa la pre- supposizione del mondo. Ed è proprio
questo il fenomeno che determina la costituzione dell’essere dell'io, quando
almeno esso debba poter essere qualcosa come un ‘Io penso qualcosa ’. Il dire
io si riferisce all’ente che io sono in quanto: io-sono- in-un-mondo » (Sein
und Zeit, $ 64). In forma solo apparentemente paradossale, Sartre affermava in
un saggio del 1937: « Noi mostreremo che l’io non è nè formalmente nè
materialmente nella coscienza; esso è fuori, nel mondo. Esso è un essere del
mondo, come l’io di un altro» (Recherches Philosophiques, 1936-37; trad. ingl.,
The Transcendence of the Ego, New York, 1958, pag. 32). Nello stesso senso, Merleau-Ponty
afferma: « La prima verità, è, sì ‘io penso * ma a condizione che s’intenda con
ciò ‘io sono a me stesso * essendo nel mondo » (Phenome- nologie de la
perception, 1945, pag. 466). Conside- rato nel suo rapporto con il mondo, l’io
viene talora determinato in base al suo carattere attivo, alla sua capacità di
iniziativa, al suo potere pro- gettante o anticipante. Dice Dewey: « Dire in
modo significante ‘ Jo penso, credo, desidero ’ invece di dire soltanto ‘Si
pensa, si crede, si desidera’ significa accettare e affermare una
responsabilità e avanzare una pretesa. Non significa che l’io è l’origine o
l’autore del pensiero o dell’affermazione o la sua sede esclusiva. Significa
che l’io, come organizzazione accentrata di energie, identifica se stesso (nel
senso di accettarne le conseguenze) con una credenza o sentimento di origine
esterna e indipendente » (Experience and Nature, pag. 233). Proprio tali
caratteri costituiscono oggi lo schema generale per lo studio sperimentale
della persona- lità che è uno degli oggetti principali della psico- logia.
Dalla personalità, che è l’organizzazione dei modi con cui l’individuo
intelligente progetta i suoi comportamenti nel mondo, l’io si distingue sol- tanto
come quella parte della personalità stessa 507 che è nota all’individuo
interessato e a cui per- tanto egli fa riferimento nel dire «io». La perso- nalità,
dall’altro lato, è più vasta: essa include anche le zone oscure o in penombra,
le sfere di ignoranza più o meno voluta o non voluta, che caratterizzano il
progetto totale delle relazioni del- l'individuo col mondo (v. PERSONALITÀ). IO
PENSO. V. Cocrro. IO TRASCENDENTALE (ingl. Trascendental Ego; franc. Moi
trascendental; ted. Transzendentales Ich). Lo stesso che Io assoluto (v. Io).
IPERBOLICO. V. DuBgio. IPERORGANICO (franc. Hyperorganique). Termine con il
quale gli scrittori positivisti hanno caratterizzato il mondo propriamente
umano cioè psichico e sociale. IPERURANIO (gr. ùrepovpdvioc). La regione «al di
là del cielo» nella quale, secondo il mito di Platone nel Fedro (247 c sgg.),
risiedono le so- stanze immutabili che sono l’oggetto della scienza. Si tratta
di una regione non spaziale; giacchè il cielo racchiudeva per gli antichi tutto
lo spazio e al di là del cielo non c’è spazio. L'espressione è quindi puramente
metaforica; nella Repubblica, Pla- tone stesso prende in giro coloro che si
illudono di vedere gli enti intelligibili guardando in alto. « Per mio conto,
egli dice, non posso riconoscere ad altra scienza il potere di far sì che
l’anima guardi in su se non a quella che s’occupa dell’es- sere e
dell’invisibile; ma se qualcuno cerca di apprendere qualcosa di sensibile,
guardando in su a bocca aperta o a bocca chiusa, io dico che costui non
apprenderà niente perchè non c’è scienza delle cose sensibili e che la sua
anima non guarda in alto ma in basso, anche se egli studi restando sul dorso a
terra o in mare» (Rep., VII, 529 b-c). IPOLEMMA (ingl. Hypolemma). Così è stata
detta da W. Hamilton la premessa minore del sillogismo, in quanto viene
sussunta alla premessa maggiore o lemma (Lectures on Logic, I, pag. 283). IPOSTASI
(gr. sréotacw; ingl. MHypostasis; franc. Hypostase; ted. Hypostase). Con questo
ter- mine Plotino chiamò le tre sostanze principali del mondo intellegibile
cioè l’Uno, l’Intelligenza e l’Anima (Emn., III, 4, 1; V, 1, 10), che egli
para- gonava rispettivamente alla luce, al sole e alla luna (Ibid., V, VI, 4).
La trascrizione latina del nome è «sostanza », che tuttavia è stato usato dalla
tra- dizione filosofica in un significato totalmente diverso (v. Sostanza).
Nelle discussioni trinitarie dei primi secoli, il termine in questione fu
preferito a quello di persona (mpécwrov) che, significando propria- mente
maschera, sembrava evocare l’immagine di qualcosa di fittizio. Da queste
discussioni, il nome di I. rimase fissato a designare la sostanza indi- viduale
cioè per l’appunto la persona. Dice S. Tom- 508 maso: «Secondo alcuni la
sostanza, nella defini- zione della persona, sta per la sostanza prima, che è
l’I.; tuttavia non è superfluo aggiungere individuale; giacchè con il nome di
I. o di so- stanza prima si esclude il rapporto tra l’universale e la parte.
Non diciamo infatti che sia I. il con- cetto di uomo o la mano» (S. 7A., I, q.
29, a. 1). Nel linguaggio moderno e contemporaneo, il termine viene usato (ma
raramente) in senso peg- giorativo: per indicare la trasformazione fallace o surrettizia
di una parola o un concetto in sostanza cioè in una cosa o in un ente. In
questo senso si parla anche di ipostatizzare (franc. Aypostasier) e di
ipostatizzazione). IPOTESI (gr. sré0e015; ingl. Hypothesis; fran- cese Hypothèse; ted. Hypothese). In generale, un enunciato (o insieme di
enunciati) che possa essere messo a prova, attestato e controllato solo indirettamente,
cioè attraverso le sue conseguenze. La caratteristica dell'I. è pertanto che
essa non include nè una garanzia di verità nè la possibilità di una verifica
diretta. Una premessa evidente non è un’I. ma, nel senso classico del termine,
una assioma. Un enunciato verificabile è una legge o una proposizione empirica,
non un’ipotesi. Un’I. può essere vera; ma la sua verità può risultare soltanto
dalla verifica delle sue conseguenze. In questo senso intendeva l’I. Aristotele
che, pur ado- perando qualche volta il termine nel senso gene- ralissimo di
premessa di una dimostrazione (con- fronta, ad es., Mer., V, 1, 1013a 16; 1913b
20; Fis., II, 3, 195a 18), la definiva nel suo signi- ficato specifico
escludendola dal campo delle pre- messe necessarie: « Ciò che è necessario che
sia ed è necessario che appaia necessario, non è nè un'I. nè un postulato »
egli dice (An. Post., I, 10, 76 b 23). Assiomi e definizioni costituiscono le premesse
necessarie del sillogismo; I. e postulati quelle non necessarie. In
particolare, le I. stabili- scono l’esistenza delle cose definite. Le
definizioni, egli dice, debbono solo farci comprendere ciò di cui si parla; le
I. ne stabiliscono l’esistenza, per dedurne le conclusioni (/bid., I, 10, 76b
35 sgg.). Per conseguenza i ragionamenti fondati su I. pre- suppongono una
specie di convenzione o accordo preliminare (An. Pr., I, 44, 50a 33) e non
hanno il valore probativo di quelli fondati sulle definizioni (ibid., I, 23,
40b 22). Questa determinazione dell’I. come premessa di grado o qualità
inferiore, cioè priva della neces- sità che è propria delle premesse
autentiche, è caratteristica della posizione di Aristotele. Essa non si trova
in Platone. Secondo Platone le premesse devono essere scelte in base a un
giudizio compa- rativo, che si orienta su quella che è « la più forte » o «la
migliore » tra esse (Fed., 100 a; 101 d). Alle IPOTESI matematiche e in
generale alle discipline prope- deutiche, Platone fa l'appunto, non di muovere da
I., ma di «lasciarle immobili per non esser capaci di dar ragione di esse »
(Rep., VII, 533 c). E I. sono chiamate nel Parmenide tutte le possibili vie
della ricerca, senza che qualcuna sia privile- giata con un nome diverso
(Parm., 135 e). Platone dichiara talora di «indagare per via d’I.» come fanno i
geometri cioè ragionando su questa base: «Se si verificano alcune condizioni,
si otterrà un certo risultato, ma se non si verificano, il risul- tato sarà
diverso » (Men., 87a). L’uso delle I. in filosofia stabilisce una differenza
importante tra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, per ciò
che concerne il procedimento della
filosofia stessa e in generale del sapere scientifico. Tale differenza cade
però all’interno della nozione generale di I., come sopra espressa. E
nell'ambito di tale nozione si possono distinguere i seguenti significati
specifici: 1° L’antecedente di una proposizione ipotetica o condizionale o di
un ragionamento anapodittico o di un sillogismo ipotetico. La logica stoica, a differenza
da quella aristotelica, privilegiò le pro- posizioni ipotetiche e i
ragionamenti anapodittici, conformamente all'impostazione generale della lo- gica
come dialettica (v. LOGICA; DIALETTICA; Con- DIZIONALE; CONSEGUENZA;
IMPLICAZIONE). 2° Una proposizione originaria assunta a fon- damento di un
discorso scientifico, per es., un postulato o assioma della matematica. Di tali
po- stulati o assiomi infatti non si afferma nè si nega la verità, ma si
riconoscono validi se e nella mi- sura in cui rendono possibili il discorso
matematico. In tal senso le matematiche sono chiamate « sistemi ipotetico-deduttivi
». Ma proposizioni analoghe ai postulati o assiomi delle matematiche e,
com’essi, assunte ipoteticamente si possono ritrovare in tutte le scienze che
hanno raggiunto un certo grado di elaborazione concettuale. 3° Una condizione
qualsiasi. Tale è il signifi- cato del termine nell’espressione ex Aypothesi.
Ari- stotele parla di ciò che è « necessario per I.» cioè in virtù di una
determinata condizione (Fis., II, 9, 199 b 34 sgg.). 4° La spiegazione causale
dei fenomeni. In questo senso la parola fu adoperata spesso nei sec. xvII e xv.
Locke avvertiva di «aver cura che il nome di princìpi non ci inganni né ci si imponga,
facendoci accogliere come verità incon- testabile quella che, nel miglior caso,
non è che una congettura dubitabilissima: quali sono la maggior parte delle I.
della filosofia naturale: e quasi stavo per dire tutte» (Saggio, IV, 12, 13): dove
è ovvio che per Locke 1’I. è quella che enuncia i «princìpi» cioè le cause dei
fenomeni. Ancora più esplicitamente Leibniz diceva: « L’arte di sco- IPSITÀ prire
le cause dei fenomeni, o le vere I., è come l’arte di decifrare, nella quale
spesso una conget- tura ingegnosa abbrevia di molto il cammino» (Nouv. Ess.,
IV, 12, 13): dove «I. vere» e « cause dei fenomeni» sono identificate. La
rinuncia di Newton « liypotheses non fingo » si riferisce appunto a questo
significato di ipotesi. Ecco infatti il testo di Newton: « Non ho potuto
dedurre finora dai fenomeni le ragioni di queste proprietà della gra- vità, e
non immagino ipotesi. Tutto ciò che non si deduce dai fenomeni è infatti da
chiamarsi I.; e le I. o metafisiche o fisiche, sia di qualità oc- culte sia
meccaniche, non hanno posto nella filo- sofia sperimentale ». A_ queste I. egli
contrappone le cause vere che sono quelle « necessarie per spie- gare i
fenomeni» (Philosophiae naturalis Principia mathematica, 1687, in fine). E
nell’Ortica (1704), Newton faceva consistere l’I. nell’appello alle qua- lità
occulte assunte come cause dalla metafisica aristotelica: alle quali egli
contrapponeva i prin- cipi (la gravità, la fermentazione, la coesione) « che, egli
diceva, io considero non come qualità occulte, che si suppongano risultare
dalle forme specifiche delle cose, ma come leggi generali di natura, dalle quali
le cose stesse sono formate e la cui verità ci è manifesta dai fenomeni, anche
se le loro cause non siano state scoperte» (Opricks, III, 1, q. 31). La
rinuncia di Newton alle I. non è dunque che la rinuncia alla spiegazione in
favore della descri- zione. Alla metà del sec. xIx l’opposizione tra descrizione
e spiegazione ipotetica veniva ribadita dal fisico inglese J. Macquorn Rankine.
« Secondo il metodo astratto, egli diceva, una classe di og- getti e di
fenomeni è definita per descrizione cioè facendo vedere che un certo insieme di
proprietà è comune a tutti gli oggetti o fenomeni della classe e considerandole
quali i sensi ce le fanno perce- pire, senza introdurre niente d’ipotetico e
solo as- segnando loro un nome o un simbolo. Secondo il metodo iporetico, la
definizione di una classe di oggetti o di fenomeni si deduce da una concezione congetturale
circa la loro natura ». E Rankine pre- vedeva l’abbandono graduale delle teorie
ipotetiche e la loro sostituzione con le teorie astratte (Ouslines of the
Science of Energetics, 1865, in Miscellaneous Scientifics Papers, pag. 210;
cfr. P. DuHEM, La théorie physique, 1906, pag. 80-81). 5° Uno speciale
procedimento, che sostituisce l’induzione, per la formulazione di princìpi da
es- sere verificati sperimentalmente. Secondo Stuart Mill, il procedimento
scientifico è composto di tre parti: induzione, raziocinazione e verificazione.
Ora «il metodo ipotetico sopprime il primo di questi tre passi, l'induzione,
per accertare la legge e si limita alle altre due operazioni, raziocinazione e verificazione:
la legge in base alla quale si ragiona 509 è assunta invece di essere provata»
(Logic, III, 14, 4). Nello stesso senso Peirce mette l’I. accanto alla deduzione
e all’induzione come un tipo di ragio- namento valido che si distingue
dall’induzione perchè mentre questa « procede come se tutti gli oggetti che
hanno certi caratteri fossero conosciuti », l’I. è «l’inferenza la quale
procede come se tutti i caratteri richiesti alla determinazione di un certo oggetto
o classe fossero conosciuti ». « Mentre l’in- duzione può essere considerata
come l’inferenza della premessa maggiore del sillogismo, l’ipotesi può essere
considerata come l’inferenza della pre- messa minore dalle altre due» («Some
Conse- quences of Four Incapacities », in Values in a Universe of Chance, pag.
44 sgg.). Questo significato del termine è rimasto raro. 6° L'argomento di un
discorso, in quanto posto o enunciato al principio del discorso stesso (ARISTO-
TELE, Rer. ad Al., 30, 1436a 36; Rer., II,18,1391b 13). 7° Una teoria
scientifica o parte di una teoria scientifica. In questo senso Mach dice: «
Chiamiamo I. una spiegazione provvisoria che ha per scopo quello di far
comprendere più facilmente i fatti, ma che sfugge alla prova dei fatti»
(Erkenniniss und Irrtum, cap. 14; trad. franc., pag. 240). Per questo significato,
v. TEORIA. IPOTETICO (gr. iro0erix6s; lat. Ayporheticus; ingl. Hypothetical; franc.
Hypothétique; ted. Hypo- thetisch).
Questo termine ha significati corrispon- denti a quelli del sostantivo. Per
proposizione ipotetica, v. CATEGORICO. Per ragionamento ipote- tico, v.
SILLOGISMO; ANAPODITTICO; RAGIONAMENTO; CONDIZIONALE; CONSEGUENZA. IPOTIPOSI
(gr. srotirwar; ted. Ayporypose). Questo termine che significa schizzo o
lineamenti (in questo senso ricorre nel titolo dell’opera di Sesto EMPIRICO, /.
Pirroniane) fu adoperato dai retori per indicare la figura per la quale un
argo- mento è vividamente delineato in parole (QUINTI- LIANO, /nst., IX, 2,
40). In senso analogo ha ado- perato la parola Kant per esprimere il rapporto tra
la bellezza e la moralità: la bellezza, come simbolo della moralità, è l’I. di
essa cioè la sua vivida manifestazione intuitiva. Mentre le parole e gli altri
segni sono semplici espressioni dei concetti, le I. sono esibizioni o
manifestazioni del concetto stesso in forma intuitiva (Crit. del giud., $ 59). IPSE
DIXIT (gr. abròs tpa). Frase con cui i Pitagorici solevano rispondere alla
richiesta di de- lucidazioni sulla loro dottrina: «L'ha detto lui». Il lui era
Pitagora. Cicerone adduce questa usanza come esempio della prevalenza
dell’autorità sulla ragione (De nat. deor., I, 5, 10). IPSITÀ (lat. Ipseitas;
franc. Ipséité). Termine usato da Duns Scoto per indicare la singolarità della
cosa individuale (v. ECCEITÀ). 510 IRASCIBILE. V. FACOLTÀ. IRONIA (gr.
elpuvela; lat. Zronia; ingl. Zrony; franc. Ironie; ted. Ironie). In generale
l’atteggiamento che consiste nel dare un’importanza assai minore del giusto (o
di quella che si ritiene tale) a se stessi o alla propria condizione o
situazione o a cose o persone che hanno stretto rapporto con se stessi. La
storia della filosofia conosce due forme fonda- mentali d’I.: 1° I’I.
socratica; 2° l’I. romantica. 1° L’I. socratica è la sottovalutazione che So- crate
fa di se stesso nei confronti degli avversari con cui discute. Quando nella
discussione sulla giustizia Socrate dichiara: «Io ritengo che l’inda- gine è al
di là delle nostre possibilità e che voi che siete bravi dovete aver pietà di
noi piuttosto che arrabbiarvi con noi», Trasimaco risponde: «Ecco la solita I.
di Socrate» (Rep., I, 336e- 337 a). Aristotele non fa che enunciare generica- mente
questo atteggiamento socratico quando vede nell’I. uno degli estremi
nell’atteggiamento di fronte alla verità. Il veritiero è nel giusto mezzo; chi esagera
la verità è il millantatore e chi invece tenta di diminuirla è l’ironico. L’I.,
dice Aristotele, è, sotto questo aspetto, simulazione (Er. Nic., II, 7, 1108 a
22). Cicerone si rifaceva a questo concetto affermando che « Socrate spesso
nella disputa ab- bassava se stesso ed alzava coloro che voleva confutare; e
così, parlando diversamente da come pensava, adoperava volentieri quella
simulazione che i Greci chiamano I.» (Acad., IV, 5, 15) E a questo concetto del
termine faceva riferimento S. Tommaso che la esamina come un forma (le- cita)
di menzogna (S. 7A., II, 2, q. 113, a. 1). 2° L’I. romantica poggia sul
presupposto del- l'attività creatrice dell’Io assoluto. Identificandosi con
l’Io assoluto, il filosofo o il poeta (che molto spesso coincidono, per i
Romantici) è portato a considerare ogni realtà più salda come un’ombra o un
gioco dell’Io: è portato cioè a sottovalutare l’importanza della realtà, a non
prenderla sul
serio. Secondo Federico Schlegel, l’I. è
la libertà assoluta di fronte a qualsiasi realtà o fatto. « Tra- sferirsi
arbitrariamente ora in questa ora in quella sfera come in un altro mondo, non
solo con l’in- telletto e con l’immaginazione ma con tutta l’anima; rinunciare
liberamente ora a questa ora a quella parte del proprio essere, e limitarsi
completamente a un’altra; cercare e trovare il proprio uno e tutto ora in
questo, ora in quell’individuo e dimenticare volutamente tutti gli altri:
questo può solo uno spirito che contiene in sè come una pluralità di spiriti e
tutto quanto un sistema di persone, e nel cui intimo l’universo che, come si
dice, è in germe in ogni mondo, s’è dispiegato ed è perve- nuto alla sua
maturità » (Fragmente, 1798, $ 121). Queste notazioni sull’I. trovarono una
sistemazione IRASCIBILE concettuale nell’opera di C. G. F. SOLGER, Erwin (1815)
nella quale l’I. veniva interpretata dal punto di vista della soggettività che
comprende se stessa come cosa suprema e che perciò abbassa a un puro nulla
tutte le altre cose, anche ciò che c’è di più alto. Pur polemizzando contro
qualche par- ticolare, definito « platonico» della dottrina di Solger, Hegel la
faceva sua nel descrivere l’I. nel modo seguente: « Prendete una legge, e
schietta- mente qual è in sè e per sè: io ne sono perciò anche al di là e posso
fare così e così. Non la cosa è superiore, ma sono io superiore e sono il
padrone, che al di sopra della legge e della cosa, scherza con esse come con il
suo piacere e in questa coscienza ironica, nella quale lascio pe- rire il
Sommo, godo soltanto di me» (Fil. del dir., $ 140). L'I. così intesa, come
coscienza della Soggettività assoluta, la quale, come tale, è tutto e di fronte
alla quale perciò tutte le altre cose sono nulla e pertanto come coscienza
dell’asso- luto arbitrio di tale soggettività è, secondo Hegel, un risultato
della filosofia di Fichte quale è stata intesa e interpretata da Federico
Schlegel (Fi/. del dir., $ 140, Zusatz). «Qui il soggetto si sa in sè medesimo
come l’Assoluto e non dà alcun peso a tutto il resto: esso sa distruggere
sempre di nuovo tutte le determinazioni che esso stesso si dà del giusto e del
bene. Esso può dare a in- tendere a sè ogni cosa ma non mostra altro che vanità,
ipocrisia, sfrontatezza. L’I. sa di dominare qualsiasi contenuto: essa non
prende nulla sul serio, scherza con tutte le forme» (Geschichte der Phil., III,
sez. 3, C, 3; trad. ital., III, 2, pag. 370-71). Quel concetto è rimasto a
contrassegnare uno degli aspetti fondamentali del romanticismo tedesco. Di esso
Kierkegaard ha dato un’interpretazione at- tenuata o metaforica, da un lato
concependo l’I. socratica come la superiorità di Socrate sopra la nequizia del
mondo (Diario, X*, A, 254); dal- l’altro lato intendendo in generale l’I. come «
l’infinitizzazione dell’interiorità dell’io » ma come infinitizzazione
«interiore», in un significato che non ha più la portata che Fichte attribuiva
all’in- finità stessa. «Cos'è l’I.? egli scrive. L’unità di passione etica, che
accentua in interiorità il proprio io infinitamente, e di educazione la quale
nel suo esteriore (nel commercio con gli uomini) astrae infinitamente dal
proprio io. L’astrazione fa sì che nessuno s’accorga della prima unità vissuta
ed in ciò sta l’arte per la vera infinitizzazione dell’inte- riorità» (Diario,
VI, A, 38, trad. Fabro). Poichè l’infinità dell'io è qui soltanto un'infinità «
inte- riore », cioè l’accentuazione all’infinito del valore dell’io nella
coscienza, ma non è l’infinità effettiva e creativa dell’Io assoluto dei
romantici, l’I. non ha più il suo significato romantico: è solo il con- ISONOMIA
511 trasto tra la coscienza esaltata che l’io ha di sè e la modestia delle sue
manifestazioni esterne. IRRAZIONALISMO (ted. /rrationalismus). Termine con il
quale in italiano e in tedesco si designano le filosofie della vita o
dell’azione cioè quelle filosofie che, come, ad es., quella di Scho- penhaver,
considerano il mondo come la mani- festazione di un principio non razionale (v.
AZIONE, FILOSOFIA DELL’; VITA, FILOSOFIA DELLA). IRREVERSIBILE (ingl.
Zrreversibile; franc. Ir- réversible; ted. Irreversibel). Carattere delle
relazioni non simmetriche e dei processi che hanno un senso determinato.
Platone, nel mito del Politico, affermò la reversibilità del divenire cosmico
affermando che il mondo, una volta raggiunta la misura del tempo che gli è
stato assegnato, «riprende a girare in senso contrario » cioè inverte l’ordine
del tempo. Ciò accade perchè il mondo è da un lato la cosa più perfetta
possibile, ma dall’altro è corpo e come tale soggetto al mutamento. « Perciò
ebbe in sorte di rifare il suo giro in senso inverso, essendo questa ‘ la
minima mutazione possibile del suo mo- vimento * » (Pol., 269 c-e). Questo
concetto, che la reversibilità del processo cosmico è dovuta all’esi- genza di
realizzare la massima possibile identità con se stesso, veniva espresso da
Leibniz nei ter- mini della scienza del suo tempo. Diceva Leibniz: « La
saggezza suprema di Dio gli ha fatto scegliere soprattutto le leggi del
movimento meglio adatte e più convenienti alle ragioni astratte o metafisiche. Si
conserva nell’universo la stessa quantità di forza totale assoluta o di azione;
la stessa quantità di forza rispettiva o di reazione; la stessa quantità di
forza direttiva. In più l’azione è sempre uguale alla reazione e l’effetto
intero è sempre equiva- lente alla sua causa piena» (Princ. de la nature et de
la gréce, 1714, Op., ed. Erdmann, pag. 716). Questa perfetta equivalenza tra la
causa e l’effetto significa la reversibilità del processo causale. La meccanica
classica ammette questa reversibilità. Le equazioni che esprimono il
comportamento dei fe- nomeni meccanici non dànno nessuna indicazione sul senso
in cui scorre il tempo. Il # di queste equazioni è una variabile continua che
non ha un senso determinato, e questo significa che ogni fenomeno meccanico è
reversibile. L’irreversibilità dei fenomeni fu per la prima volta introdotta
con la scoperta del secondo principio della termodina- mica (detto Principio di
Carnot, 1824), secondo il quale il calore passa soltanto dal corpo più caldo al
corpo più freddo. In tal caso, quando, con questo passaggio, si è raggiunto
l’equilibrio della temperatura, è impossibile tornare indietro. Dal sistema in
equilibrio non si può tornare al sistema dello squilibrio termico che solo
rende possibile il passaggio del calore e quindi il lavoro meccanico. Un
sistema in equilibrio termico non può quindi fornire lavoro meccanico. Con ciò
si viene a stabi- lire l’irreversibilità dei fenomeni naturali i quali, sotto un
certo rispetto, sono tutti fenomeni termici. Il Principio di Carnot ha quindi
esclusa l’immagine di un divenire del mondo che, come pensavano gli antichi, si
svolga ciclicamente e ritorni su se stesso. L’irreversibilità dei fenomeni
naturali ha fatto pensare alla morte inevitabile dell’universo, per il raggiungimento
dell’equilibrio termico che rende- rebbe impossibile ogni trasformazione e
quindi ogni vita. E numerose sono state anche le dottrine che hanno avanzato
ipotesi destinate a lasciare intra- vedere per il nostro universo una sorte
diversa (cfr. su di esse MEvYERSON, De /’explication dans les sciences, 1927,
pag. 203 sgg.).. Ma in verità sia la previsione della catastrofe sia quella
delle possibili vie di salvezza vanno molto al di là di ciò che è consentito
dalla portata del principio di Carnot e in generale da un principio scienti- fico.
Questo infatti vale soltanto per sistemi chiusi o almeno relativamente isolati;
ed è uno strumento di previsione nell’ambito di tali sistemi e non per l’universo
o il mondo, cioè per una totalità aperta o infinita. In un senso diverso e
positivo il signifi- cato filosofico dell’irreversibilità è stato illustrato da
E. Paci, Tempo e relazione, 1954, cap. VI e assim (v. ENTROPIA). ISOLARE (ted.
/solieren). Nel senso di astrarre, come adoperato da Kant; v. ASTRAZIONE. Wundt
distingue l’astrazione isolante che consiste nel se- parare una parte
determinata da un’apparenza com- plessa, dall’astrazione generalizzante che
consiste nel lasciar da parte, intenzionalmente, alcune note con- cettuali
(Logik, II, pag. 11 sgg.). ISOMORFISMO (ingl. Isomorphism; franc. Iso-
morphisme; ted. Isomorphie). Termine adoperato in logica e in matematica per
indicare la relazione fra relazioni omogenee di due o più termini e che
consiste nella corrispondenza di termine a termine fra i termini delle
relazioni (cfr. R. CARNAP, Lopical Syntax of Language, $ 71 c; A. CHURCH,
/ntro- duction to Mathematical Logic, $ 55). ISONOMIA (gr. icovoplia; lat.
Zsonomia). Se- condo Alcmeone di Crotone, è il perfetto equilibrio della
proprietà che costituiscono il corpo, cioè la salute; il contrario di essa è la
monarchia cioè la prevalenza di una proprietà sulle altre, che costi- tuisce la
malattia (Fr. 4, Diels). Secondo Epicuro, il perfetto equilibrio e la perfetta
corrispondenza di tutte le parti o gli elementi del tutto nell’infinito. « Da
essa deriva la conseguenza che, se così grande è la moltitudine dei mortali,
non minore è quella degli immortali, e se gli elementi di distruzione sono
innumerevoli anche quelli di conservazione devono essere infiniti » (CIcER., De
nat. deor., I, 19, 50). 512 ISTANTE. V. ATTIMO. ISTANZA (gr. tvotaoi; lat.
Instantia; ingl. In- stance; franc.
Instance; ted. Instanz). 1.
Nella logica aristotelica, l’I. è «una premessa che è contraria a un’altra
premessa » (An. Pr., II, 26, 69 a 36). Aristotele enumera quattro I. fondamen- tali:
l’attacco alla premessa dell’avversario; una nuova premessa; una premessa
contraria a quella dell'avversario; l'appello a precedenti decisioni (Top.,
VII, 10, 161a 1; Rer., II, 25, 1402a 34). 2. Bacone chiamò I. i casi
particolari sperimentali di un determinato fenomeno, per es., del calore; e
chiamò «tavole delle I.» l’elenco di tali casi (Nov. Org., II, 10 sgg.) (v.
TavoLE). Stuart Mill ha talora seguito questa terminologia (Logic., III, 9, 1,
passim). ISTINTO (gr. spui; lat. Znstinctus; ingl. In- stinct; franc. Instinct; ted. Instinkt). Una guida naturale, cioè
non acquisita nè scelta e poco mo- dificabile, della condotta animale ed umana.
L’I. si distingue dalla tendenza (v.) per il suo carattere biologico, in quanto
è diretto alla conservazione dell’individuo e della specie ed è legato ad una
struttura organica determinata; e dall’impulso per il suo carattere stabile.
Esistono due concezioni fondamentali dell’I.: 1° quella metafisica, per cui l’I.
è la forza che garantisce l'accordo delia con- dotta dell’animale con l’ordine
del mondo; 2° quella scientifica per cui l’I. è un tipo di disposizione
biologica. 1° La teoria metafisica dell’I. è stata fondata dagli Stoici. Per
essi, l'ordine provvidenziale del mondo, che tutti gli esseri sono destinati a
man- tenere, dirige la condotta animale mediante l’istinto. « L’I. primario
dell’animale in quanto l’animale è sin da principio diretto dalla natura, è
quello di prendersi cura di sè, dice CrisiPPO nel primo libro
Dei Fini. Dice infatti che la cosa che
sta più a cuore a ciascun animale è la propria costituzione e la coscienza di
questa costituzione. Non è veri- simile che l’animale si estranei da sè o che
co- munque faccia in modo di estraniarsi da sè o di non prendersi cura di sè.
Occorre dunque che la natura stessa lo costituisca in modo che egli abbia cura
di sè, sicchè fugga le cose nocive e persegua quelle favorevoli. Dal che appare
falso ciò che alcuni dicono e cioè che il piacere sia l’I. primario degli
animali» (Diog. L., VII, 85). Attraverso l’I. la natura conduce l’animale a
prendersi cura di sè e a conservarsi, contribuendo così a mantenere l'ordine
del tutto. Cicerone esprimeva il concetto stoico nei termini seguenti: « Ogni
specie animale, al fine di conservare se stessa, la propria vita ed il proprio
corpo, evita per natura quanto appare nocivo e desidera e si procaccia tutto
quanto è necessario alla vita come il cibo, il ricovero, e ISTANTE tutto il
resto. È del pari comune a tutti gli esseri animale l’I. sessuale al fine della
procreazione ed una certa qual cura delle loro creature » (Tusc., I, 4, 1l; De
fin., III, 7, 23; De off, I, 28, 101). A un I. così inteso fu talora assimilato
il diritto di natura, in quanto comune non soltanto agli uomini ma anche agli
animali. Nel sec. n, Ulpiano distingueva dal diritto delle genti, che è proprio
soltanto degli uomini, il diritto naturale, che è «quello che la natura ha
insegnato a tutti gli ani- mali e perciò è proprio non solo del genere umano ma
è comune a tutti gli animali che vivono in terra, in mare e in cielo. Da questo
diritto dipen- dono il matrimonio, la procreazione e l’educazione dei figli,
tutte cose di cui anche gli animali sono esperti » (Dig., I, 1, 1-4). Questa
concezione dell’I. è rimasta sempre legata al presupposto metafisico di un
ordine provvidenziale di cui l’I. stesso sa- rebbe la manifestazione negli
animali e negli uomini. S. Tommaso adduceva a prova della tesi che la provvidenza
si occupa anche delle cose singolari contingenti, l’I. naturale da cui gli
animali sono dotati e che appare manifesto nelle api e in molti altri animali
(Contra Gent., III, 75). Dante espri- meva perfettamente questa concezione
dell’I.: « In noi seminata e infusa dal principio della nostra generazione,
nasce un rampollo, che gli Greci chia- mano lormen cioè appetito d'animo
naturale... E questo appare chè ogni animale, siccome ello è nato, sì razionale
come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono con- trarie
e quelle odia » (Conv., IV, 22; cfr. Par., I, 112-14). Kant ancora parlava
dell’I. come della «voce di Dio cui tutti gli animali obbediscono » e che «
dovette originariamente guidare sulle prime l’uomo primitivo » (Mutmasslicher
Anfang der Men-
schengeschichte, 1786). I caratteri
dell’I. in questa concezione restano fissati nel modo seguente: 1° la
provvidenzialità; 2° l’infallibilità, che deriva dal precedente carat- tere e
per la quale si ritiene che l’I. è in ogni caso adatto a garantire la vita
dell'animale e la con- tinuazione della specie; 3° l’immutabilità che de- riva
dai due caratteri precedenti e che si ritiene consistere nella non
perfezionabilità dell’I.; 4° la cecità nel senso che l’I. sfugge al controllo
del- l’animale e lo guida senza alcuna sua iniziativa diretta. Alcuni di questi
caratteri sono stati talora assunti o mantenuti anche nella concezione scien- tifica
dell’istinto. Essi sono però propri della con- cezione metafisica, essendo
caratteri presunti, de- dotti dalla funzione che si attribuisce all’I. nel cosmo
e tutti in contrasto con i dati dell’osserva- zione. Questi caratteri sono
anche ammessi e difesi, abitualmente, dai filosofi che hanno una concezione provvidenzialistica
del mondo biologico, per es., dai ISTINTO filosofi spiritualisti. Hegel ha
anche parlato di un «I. della ragione» (Phénomen. des Geistes, I, cap. V, «
L’osservazione della natura »; trad. ital., I, pag. 222, 225, ecc.),
attribuendo a tale I. i caratteri generali sopra elencati. Una teoria
metafisica dell’I. è anche quella di Freud, specialmente com’è formulata nei
suoi ul- timi scritti. Gli I. sono «l’ultima causa di ogni attività e sono di
natura conservatrice: da ogni stato raggiunto da un essere, sorge una tendenza a
ristabilire tale stato quando sia stato abbando- nato ». Gli I. possono essere
molteplici e possono cambiare mèta e sostituirsi l’uno all’altro; ma da ultimo
si possono riconoscere due I. fondamentali in lotta fra loro: l’Eros o I. di
vita e Thanatos I. di distruzione (Abriss der Psychoanalyse, 1940, cap. II). V.
PSICOANALISI. 2° Le teorie scientifiche dell’I. sono di due specie: A) teorie
esplicative; 8) teorie descrittive. A) Esistono tre fondamentali teorie
esplica- tive: a) quella che lo spiega ricorrendo all’azione riflessa; 5)
quella che lo spiega ricorrendo all’in- telletto; c) quella che lo spiega
ricorrendo al sen- timento (simpatia). a) La dottrina che spiega l’I.
ricorrendo all’azione riflessa è la più antica. Essa fu difesa da SPENCER nei
suoi Principi di Psicologia (1855). « Mentre nelle forme primitive dell'azione
riflessa, egli diceva, una singola impressione è seguita da una singola
contrazione; mentre nelle forme più sviluppate dell’azione riflessa una singola
impres- sione è seguita da una combinazione di contrazioni; in questa che noi
distinguiamo come I., una com- binazione di impressioni è seguita da una combi-
nazione di contrazioni; e più alto è l'I., più complesse sono le coordinazioni
direttive ed ese- cutive » (Princ. of Psychology, $ 194). Questa tesi fu, accettata
sostanzialmente e modificata da Darwin nel senso che lo sviluppo degli I.
sarebbe dovuto alla selezione naturale degli atti riflessi che costi- tuiscono
gli I. più semplici. «La maggior parte degli I. più complessi, diceva Darwin,
sembra es- sere stata acquisita mediante la selezione naturale delle variazioni
di atti più semplici. Tali variazioni sembrano risultare dalle stesse cause
sconosciute che occasionano le variazioni leggere o le diffe- renze individuali
nelle altre parti del corpo, agi- scono anche sull’organizzazione cerebrale e
deter- minano mutamenti che, nella nostra ignoranza, consideriamo spontanei»
(Descent of Man, 1871, I, cap. 3; trad. franc., pag. 69). Questa spiegazione dell’I.
è rimasta quella accettata non solo dai darwiniani e dai neodarwiniani ma anche
da co- loro che hanno elaborato la teoria dei riflessi condizionati, i quali
hanno considerato l’I. come un riflesso condizionato complesso (cfr. PAvLOV, 33
— ARBAGNANO, Dirionario di filosofia. 513 I riflessi condizionati; trad. ital.,
pag. 273). Il di- fetto della teoria è che le variazioni casuali difficil- mente
potrebbero spiegare la formazione di I. così perfezionati e complessi, come
quelli degli insetti. b) La seconda teoria esplicativa ha per l’appunto in
vista la formazione di questi I. più complessi e considera l’I. come
intelligenza degra- data o meccanizzata. Questa dottrina, presentata da Romanes
(Mental Evolution in Animals, 1883), è stata largamente accettata nella
psicologia della fine del secolo scorso. Essa equivale a fare dell’I. un’abitudine
che si è formata e perfezionata attra- verso lo sviluppo di una specie animale.
Wundt specialmente ha contribuito alla diffusione della dottrina. «Gli I., egli
dice, sono movimenti che originariamente derivano da semplici o composti atti
di volontà e che poi, durante la vita indivi- duale o nel corso di uno sviluppo
generale, ven- gono in tutto o in parte meccanizzati » (Grundzijge der
physiologischen Psych., 4% ediz, 1893, II, pag. 510 sgg.; cfr. System der
Phil., 2* ediz., 1897, pag. 590). Questa concezione è stata talora utiliz- zata
dai filosofi, in vista di una metafisica spiri- tualistica (cfr., per es.,
RENOUVIER, Nouvelle Mona- dologie, 1899, pag. 83); ma contro di sè ha il fatto bene
accertato che le abitudini acquisite non sono trasmissibili per eredità (v.
EREDITÀ) e che non basta a spiegare la formazione di I. perfezionati la
ereditarietà della disposizione a contrarre più facilmente abitudini, che
sembra provata in alcuni casi (MacDougall). c) La terza teoria esplicativa è
quella che riporta l’I. al sentimento e in particolare alla simpatia. «I. è
simpatia» dice Bergson. « Nei fe- nomeni del sentimento, nelle simpatie e
antipatie irriflessive, sperimentiamo in noi stessi, sotto una forma ben più
vaga e ancora troppo penetrata d'intelligenza, qualcosa di ciò che deve
avvenire nella coscienza di un insetto che agisce per istinto. L’evoluzione ha
allontanato l’uno dall’altro, per svilupparli sino in fondo, elementi che
all’origine si compenetravano » (Évo/. créatr., 1911, 8% ediz., pag. 190-91).
L’evoluzione vitale ha allontanato fra loro intelligenza ed I. specificando
l’I. nel com- pito di utilizzare o anche di costruire strumenti organizzati e
l’intelligenza invece in quella di fab- bricare e adoperare strumenti
inorganizzati (/bid., pag. 152). La specializzazione dell’I. dipende, se- condo
Bergson, dal fatto che l’I. è per l'appunto l’utilizzazione, per un fine
determinato, d'uno strumento determinato: di uno strumento il quale per di più
è di una enorme complessità di det- taglio per quanto semplicissimo di
funzionamento. Gli strumenti fabbricati dall’intelligenza sono in- vece assai
meno perfetti ma possono continuamente mutare di forma e adattarsi alle nuove
circostanze. 514 Questo spiega anche perchè l’I. non sia cosciente o sia
cosciente in minima parte: la coscienza in- fatti misura lo scarto tra la
rappresentazione e l’azione (cioè tra le diverse possibilità d’agire e l’azione
effettiva): nell’I. questo scarto è minimo perchè una minima parte è lasciata
alla scelta (Ibid., pag. 157). Scheler, facendo riferimento a questa dottrina
di Bergson, in quanto tende a dar ragione degli I. più complicati (per es., di
quello degli imenotteri che paralizzano pungendoli ma senza ucciderli ragni o
scarabei per deporvi le loro uova, cfr. FABRE, Souvenirs entomologiques, I, 35
ediz., 1894, pag. 93 sgg.), dichiara di con- siderare probabile che « negli
atti istintivi di questa specie, nei quali ci si trova in presenza di una concatenazione
finalistica, logica, delle fasi di at- tività di più esseri, non si tratti che
di una esage- razione anormale di ciò che è la vera fusione affet- tiva nella
sfera dell’attività umana» (Sympathie, cap. I; trad. franc., pag. 50). Questa è
una sostan- ziale accettazione del punto di vista di Bergson con la correzione
che ciò che Bergson chiama simpatia è piuttosto da intendersi come fusione
affettiva (per la differenza fra le due cose, v. SIMPATIA). La dottrina di
Bergson è stata accettata ampia- mente dai filosofi, mentre ha trovato scarsa
acco- glienza presso fisiologi e psicologi. Essa rimane come una delle
possibili alternative per una spie- gazione dell’istinto. Questo infatti può
venir ri- portato o all’una o all'altra nelle due attività che comunemente si
assume dirigano la condotta umana: cioè o all'intelligenza o al sentimento.
L’interpre- tazione 5) cerca di ricondurre l’I. all’intelligenza; l’interpretazione
c) cerca di ricondurlo al sentimento. B) Nella psicologia contemporanea,
l’influsso dell’indirizzo gestaltista, mentre determina il defi- nitivo
abbandono della teoria dei riflessi, che ten- deva a risolvere l’I. in attività
elementari (che sarebbero appunto le azioni riflesse), ha anche fa- vorito
l’abbandono di ogni teoria esplicativa e il ricorso a teorie descrittive,
fondate su ampia base di osservazioni. Da questo punto di vista, la de- scrizione
dell’I. più comunemente adottata è quella data da G. E. Muller, che ha
opportunamente modificata una definizione di MacDougall: « L’I. è una
disposizione psico-fisica, dipendente dall’ere- dità, spesso completamente
formata subito dopo la nascita, altre volte solo dopo un certo periodo di
sviluppo, disposizione che guida l’animale a fare particolare attenzione ad
oggetti di una certa specie o in un certo modo e a sentire, dopo averli per- cepiti,
una spinta verso un’attività determinata, in connessione con essi + (cfr. D.
Katz, Mensch und Tier, 1948; trad. ingl, pag. 171). Definizioni di questa
specie rendono inutile perfino il nome di I. che infatti alcuni psicologi
tendono a sostituire ISTINTO con altri termini, meno compromessi da un uso secolare
(propensione, tendenza, erg). Talvolta si insiste sul carattere totalitario
della disposizione istintiva considerandola come uno +*schema uni- tario », che
cresce e diminuisce come un tutto (cfr. R. B. CATTELL, Personality, New York,
1950, pag. 195). L’etologia comparata distingue nell’I. ciò che Konrad Lorenz
ha chiamato i/ meccanismo innato scatenante, che è l’insieme delle condizioni che
fanno da stimolo alla condotta istintiva, e l’atto consumatorio che è
costituito da uno schema o piano, gerarchicamente ordinato, di movimenti, che è
il vero e proprio comportamento istintivo. Questo ordinamento gerarchico del
comportamento istintivo diventa meno flessibile a misura che ci si avvicina al
livello della condotta in atto. Tinbergen ritiene che questa flessibilità
dipende dai cambia- menti del mondo esterno (The Study of Instinct, 1951, pag.
110). Lorenz ritiene che lo scatenamento della condotta istintiva possa anche
essere provo- cato da un accumulo di energia endogena e ritiene che,
nell’animale come nell’uomo, questo accumulo di energia (prevalentemente di
natura fisico-chimica) costituisce un /. di aggressione che, se abbandonato a
se stesso conduce gli uomini alla distruzione reciproca, ma che può essere
disciplinato o convo- gliato verso mète che non mettano in pericolo la convivenza
umana. Lo sfogo dell'aggressione sopra oggetti costitutivi sarebbe il
privilegio dell’uomo, che può essere capace di mutare la direzione del suo
impulso istintivo (Das sogenannte Bose, 1963, cap. XII). Questa dottrina
continua tuttavia ad attribuire
all’I. la parte prevalente nella
determinazione del comportamento umano, come di quello animale, ma dall’altra
parte si è pure dubitato che si possa per spiegare tale comportamento usare il
concetto di I. (cfr. il simposio su questo argomento nel British Journal of
Educational Psychol., novembre 1941). Oppure si prospetta una concezione «
stati- stica » dell’I., per la quale esso è soltanto « il fat- tore di un
gruppo innato e conativo » (BURT, « The Case for Human Instincts » nella Riv.,
cit., 3* parte; cfr. J. FLucEL, Studies in Feeling and Desire, London, 1955).
Tale negazione dell’I. riguarda soprattutto l’uomo. Katz aveva detto: «
Nell’uomo gli I. de- terminano solo la forza di una spinta all’azione e il suo
schema generale. Questo schema è indefinito e varia da occasione a occasione e
da un individuo all’altro. Per es., in tutti i bambini l’I. del gioco si sviluppa
e fiorisce a un certo tempo e poi muore. Ma il modo in cui i bambini realmente
giocano varia enormemente. Ciò non di meno, proprio nel- l’infanzia l'uomo è
più soggetto all’influenza degli istinti. Più tardi, la sua condotta di vità è
così controllata dalle forze esterne che la sua base ISTITUZIONE istintiva può
difficilmente esser distinta. A diffe- renza degli animali, egli non passa la
sua vita dentro la sicurezza degli I.; ma ha la capacità di formarseli da sè »
(Animals and Men, cit., pag. 173). Nella sociologia, l’I. è stato talora
invocato come fattore formativo dominante della cultura o dei suoi aspetti
fondamentali. AIl’I. Pareto riportava le azioni « non logiche » (Sociologia
generale, 1923, $ 157). Thorstein Veblen, ricorreva, nelle sue spiegazioni
sociologiche, frequentemente all’I.: per esempio, all’I. dell’efficienza,
all’I. animistico, ecc. (cfr. The
Instinct of Workmanship and the State of Business Enterprise, 1904). Questo punto di vista è oggi spesso contraddetto: «La
cultura non è istintiva sotto nessun aspetto: essa è esclu- sivamente appresa.
A partire dalla pubblicazione dell’Z. di BERNARD nel 1924, è stato impossibile accettare
ogni teoria degli I. come la spiegazione dello schema culturale universale o
come la solu- zione di qualche problema culturale » (G. P. Mur- DOCK, in R.
LinToN, The Science of Man in the World Crisis, New York, 73 ediz., 1952, pag.
126- 127). 515 ISTITUZIONE (lat. Institutio; ingl. Institu- tion; franc. Institution;
ted. Anstalt). 1. Nella logica terministica medievale, è
l’adozione di un nuovo vocabolo nel corso della discussione e per il tempo che
essa dura (cfr. OcKHaM, Summ. Log., III, 3, 38). Lo scopo di questa adozione è
quello di rendere il linguaggio più conciso; o quello di di- scutere di una
cosa sconosciuta; o quello di ingan- nare l’interlocutore o di permettergli di
rispondere più facilmente alle obiezioni. In quest’ultimo senso è una delle
obbligazioni (v.). 2. Nella sociologia contemporanea, il termine è di uso
frequente ed è stato assunto, per es., da Durkheim come l’oggetto specifico
della socio- logia definita per l'appunto come «scienza delle istituzioni »
(Régles de la méthode sociologique, 2* ediz., pag. xxm). L'istituzione è stata
talvolta intesa come un insieme di norme che regolano l’azione sociale (come fa
per l'appunto Durkheim); talaltra, in senso più generale, come « qualsiasi atteggiamento
sufficientemente ricorrente in un gruppo sociale » (cfr. ABBAGNANO, Problemi di
so- ciologia, 1959, IV, 2). K K. Nella logica di Lukasiewicz la lettera K viene
usata per indicare la congiunzione che più comu- nemente è simboleggiata con un
punto «.». Cfr. A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, n. 91. KABBALA.
Una delle fonti della filosofia giu- daica medievale. Xabalah (= tradizione) è
una dot- trina segreta che fu dapprima trasmessa oralmente, poi esposta da
alcuni rabbini in un certo numero di trattati, di cui due ci sono giunti interi
o quasi Il libro della Creazione (Yessjrah) e il Libro dello Splendore (Zohar).
Questi libri (di cui non si conosce la data della composizione), espongono una
dottrina simile a quella dei neoplatonici e dei neopitagorici dei primi secoli
dell’era volgare. Dio è in sè inac- cessibile, sfugge ad ogni conoscenza e
rifiuta ogni determinazione: è la negazione di ogni cosa deter- minata, il
niente di ogni cosa. La luce divina si con- centra e si proietta in raggi che
costituiscono le sostanze emanate o Numeri (Sephirot) che formano gli esseri
intermedi e il mondo. Le prime due sostanze sono la Saggezza (Hochma) e
l’Intelligenza (Logos) che, con Dio, formano le prime tre ipostasi nonchè il
mondo invisibile che è modello di quello visi- bile. I due mondi sono legati
insieme dall’amore: il mondo inferiore tende al superiore e in risposta a
quest’impulso il mondo superiore desidera e ama quello inferiore. — La K. ebbe
molta fortuna anche nel periodo del Rinascimento, soprattutto fra i platonici.
In particolare Pico della Miran- dola che cercò di unificare e organizzare in
un nuovo spirito l’intero sapere tradizionale, vide nella K. lo strumento
adatto a penetrare nei misteri di- vini e perciò la guida per l’interpretazione
delle Sacre Scritture. Egli perciò considerava le dottrine della K. in accordo
non solo con il cristianesimo, ma anche con le dottrine di Pitagora e di
Platone, delle quali essa avrebbe rappresentato il precedente antichissimo (De
hominis dignitate, fol., 138 r). Sulla K. confronta H. Sérouva, La Kabbale,
1947; 23 ediz., 1957). KALOKAGATIA (gr. xadQoxaya0la). L'ideale greco della
perfetta personalità umana. Si possono trovare due definizioni di questo
ideale: 1° come virtù intera, e in questo senso è l’ideale platonico. Platone
non usa il termine o lo usa (forse confor- memente al significato corrente),
per indicare i ricchi (Rep., 569 a); ma il suo punto di vista viene riferito
nell’Erica Eudemia (VIII, 15) e nei Magna Moralia dove si dice: « Non a torto
si chiama K. ciò che è perfettamente buono. Buono e bello chiamano infatti chi
è compiutamente bravo, cioè coraggioso e ha tutte le altre virtù... L'uomo
bello e buono non è corrotto dagli altri beni, per es., dalla ricchezza e dalla
potenza » (Magna Mor., II, 9, 1207 b); 2° come virtù magnanima (v. MAgNA- NIMITÀ).
Dice Aristotele: « È difficile essere ma- gnanimi: non è possibile infatti
senza K.» (Er. Nic., IV, 3, 1124a 4). KANTISMO. V. CRITIcISMO. KARMAN. V.
Buppismo. KENNETICO (Ingl. Kenneric). Neologismo co- niato da A.F. Bentley e
tratto (dallo scozzese ken o kenning che significa conoscere) per
contrassegnare l’indagine transazionale (/nquiry into Inquiries, 1954) (v.
TRANSAZIONE). È L. Posposto o anteposto a termini come concetto, verità, ecc.,
significa /ogico. In generale, come dice Carnap, un L-termine, per es., «
L-vero + si applica ogni volta che il termine radicale corrispondente, per es.,
«vero», si applica sulla base di ragioni semplicemente logiche, in contrasto
con ragioni di fatto (Introduction to Semantics, $ 14). LAICISMO (ingl.
Laicism; franc. Lalcisme). Con questo termine si intende il principio
dell’aufo- nomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si
svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno,
per fini o interessi diversi da quelli cui esse si inspirano. Questo prin- cipio
è universale e può essere legittimamente invo- cato in nome di qualsiasi
attività umana legittima: intendendosi per attività « legittima » ogni attività
che non ostacoli, distrugga o renda impossibile le altre. Pertanto esso non può
essere inteso solamente come la rivendicazione dell’autonomia dello Stato di
fronte alla Chiesa o per meglio dire al clero; giacchè è ser- vito anche, come
la sua storia dimostra, alla difesa dell’attività religiosa contro quella
politica e serve anche oggi in molti paesi a questo scopo; come serve a quello
di sottrarre la scienza o in generale la sfera del sapere alle influenze
estranee e deformanti delle ideo- logie politiche, dei pregiudizi di classe o
di razza, ecc. Papa Gelasio I che alla fine del v secolo esponeva in un
trattato e in alcune lettere la teoria detta delle « due spade» fu
probabilmente il primo a fare ap- pello con chiarezza al principio del L.: il
quale rimase sconosciuto all’antichità classica per il fatto che essa non
conobbe alcun conflitto di principio fra le varie attività umane. La teoria
delle due spade cioè di due poteri distinti, entrambi derivanti da Dio, quello
del papa e quello dell’imperatore, serviva a Gelasio I per rivendicare
l'autonomia della sfera religiosa nei confronti di quella politica. Essa rimase
per molti secoli la dottrina ufficiale della chiesa e ancora nel sec. x il
canonista Stefano di Tournai la esprimeva con estrema nettezza (Summa Decretorum,
Intr.). Il principio espresso in questa dottrina rimane lo stesso, quando le
parti s’inver- tono o la dottrina viene invocata a difendere il potere politico
contro quello ecclesiastico: come fa Giovanni di Parigi nel suo trattato Su/la
potestà regia e papale (1302-3); come farà Dante, alcuni anni più tardi, nel De
monarchia; e come fecero Marsilio da Padova nel Defensor pacis (1324) e Guglielmo
di Ockham nei suoi scritti politici. Cer- tamente le dottrine politiche ed
ecclesiastiche di questi scrittori erano differenti e qualche volta opposte; ma
è chiaro che la teoria dei due poteri non è altro che l’appello all'autonomia
delle sfere rispettive di attività e che quest’ultimo non trae la sua forza
dalla particolarità delle dottrine ma dal riconoscimento dell’autonomia, che è
il principio del laicismo. Questo principio divenne un'esigenza fondamentale
nella vita civile nei comuni italiani, francesi, belgi e tedeschi (cfr.
SALVEMINI, Studi sto- rici, Firenze, 1901; PIRENNE, Les Villes du moyen dge,
Bruxelles, 1927; DE LAGARDE, La naissance de l’esprit lalque, au déclin du
moyen dge, Louvain-Paris, 38 ediz., 1956); il Rinascimento e l’Illuminismo non sono
che due tappe successive della sua progressiva prevalenza nella vita politica e
civile dell'Occidente. Ma, come si è detto, il principio del L. non vale soltanto
nei rapporti tra l’attività politica e quella religiosa. Nella prima metà del
sec. x1v Guglielmo di Ockham rivendicava con energiche parole l’auto- nomia
della ricerca filosofica. A proposito della con- danna di alcune proposizioni
di San Tommaso fatta dal Vescovo di Parigi nel 1277 egli diceva: «Le asser- zioni
principalmente filosofiche, che non concernono la teologia, non debbono essere
da alcuno condan- nate o interdette, giacchè in esse chiunque dev'essere libero
di dire liberamente ciò che gli piace » (Dialogus inter magistrum et discipulum
de imperatorum et pontificum potestate, I, II, 22). Questa è stata la prima e
certo una delle più energiche affermazioni del principio del L. in filosofia; è
dovuta a un 518 frate francescano del *300. Nel sec. xvm Galilei affermava lo
stesso principio nei confronti della scienza, polemizzando contro i limiti e
gli impacci che possono venire alla scienza dall’autorità eccle- siastica. La
Sacra Scrittura e la natura, egli diceva, procedono entrambe dal Verbo divino;
ma mentre la parola di Dio ha dovuto adattarsi al limitato intendimento degli
uomini ai quali si rivolgeva, la natura è inesorabile e immutabile e mai non
tra- scende i termini delle leggi impostegli perchè non si cura che le sue
recondite ragioni siano o non siano comprese dagli uomini: sicchè « quello
degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinnanzi agli occhi
o le necessarie dimostrazioni ci conclu- dono, non debba in conto alcun esser
revocato in dubbio, non che condannato, per luoghi della Scrit- tura che
avessero nelle parole diverso sembiante » (Lett. alla Grand. Cristina, in Op.,
V, pag. 316). Galilei rivendicava così l'autonomia della scienza, negli stessi
termini in cui Ockham aveva rivendi- cato l’autonomia della filosofia. Il
principio del L. è stato il fondamento della cultura moderna ed è indispensabile
alla vita e allo sviluppo di tutti gli aspetti di questa cultura. I soli
autentici avversari del L. sono gli indirizzi politici totalitari cioè quegli indirizzi
che intendono impadronirsi del potere po- litico e esercitarlo a/ solo scopo di
conservarlo per sempre. Tali indirizzi pretendono infatti di impadro- nirsi del
corpo e dell’anima dell’uomo, per impe- dirgli ogni critica o ribellione. Per
quanto il roman- ticismo ottocentesco abbia incoraggiato la persistenza o la
reviviscenza di tali indirizzi, essi si trovano oggi contrastati dalla stessa
situazione oggettiva che esige in ogni campo lo sviluppo del sapere po- sitivo:
questo sapere a sua volta esige l'autonomia delle sue regole, cioè il laicismo.
D’altra parte un indirizzo politico totalitario può essere agevolmente riconosciuto
proprio dal suo atteggiamento nei con- fronti del principio L.: sia che si
appoggi a una con- fessione religiosa, sia che si appoggi ad un’ideologia razzista
o classista o ad altra qualsiasi, esso tende in primo luogo a sminuire, ed al
limite a distrug- gere, l'autonomia delle sfere spirituali, come tende a
diminuire e a distruggere i diritti di libertà dei cittadini. Il L. difatti è,
sul piano dei rapporti delle attività umane fra loro, ciò che la libertà è sul piano
dei rapporti degli uomini fra loro: è il limite o la misura che garantisce a
quelle attività la pos- sibilità di organizzarsi e svilupparsi, come la libertà
è il limite e la misura che garantisce ai rapporti umani la possibilità di
mantenersi e svilupparsi. Riconosciuto nella sua struttura concettuale e
storica, il principio del L. non mostra alcun carattere di antagonismo con
alcuna forma di religiosità, neppure col cattolicesimo. In primo luogo, esso è
servito spesso ai cattolici per difendere l’autonomia LAMARCHISMO della loro
attività; e tuttora costituisce la politica ufficiale del cattolicesimo nei
paesi in cui esso non ha un partito politico a sua disposizione, per es., nei
paesi anglosassoni. In secondo luogo, è interesse dei cattolici, come di tutti,
che l'amministrazione dello stato, le scienze, la cultura, l'educazione e in
generale le sfere dell’attività umana, si organizzino e reggano su princìpi che
possano essere ricono- sciuti da tutti, cioè che siano indipendenti dalla
inevitabile disparità delle credenze e delle ideologie, e perciò rendano
efficaci e feconde le attività che su di essi si fondano. È abbastanza ovvio
che un’ammi- nistrazione politica la quale favorisca certi gruppi di cittadini
a danno degli altri, in vista delle loro credenze religiose, è semplicemente
un’ammini- strazione inefficiente e corrotta e non può rivendicare meriti
«religiosi ». Allo stesso modo, un potere giudiziario che non applichi con
scrupolo ed equità la legge valida dello stato, non offre garanzie per nessuno,
perchè è, parimenti, inefficiente e corrotto. Una scienza che serva gli
interessi di partiti, credenze e ideologie, non può a nessun titolo
considerarsi meritoria: non è affatto una scienza. Essa sarebbe simile a
un’arte medica che assumesse come criterio di diagnosi, prognosi e cura i
desideri del paziente o di altre persone; o più esattamente un’arte medica siffatta
sarebbe un caso di scienza « non laica + cioè clericale o partitica. Il L. non
è nell’interesse di questo o quel gruppo politico, religioso o ideologico; è nell’interesse
di tutti. Posto, s’intende, che l’interesse di tutti sia lo sviluppo armonico
delle attività che assicurano la sopravvivenza dell'uomo nel mondo. LAMARCHISMO.
V. EvoLUZIONE. LASSISMO. V. Ricorismo. LATENTE (lat. Latens). F. Bacone
chiamava L. il processo naturale che va dalla causa efficiente della materia
sensibile sino alla forma: cioè il processo di costituzione della forma (Nov.
Org., II, 1). I processi psichici latenti di cui parlava la psicologia del
secolo scorso sono quelli che oggi si chiamano inconsci o subconsci. LATITUDINARIO
(ingl. Latitudinarian; fran- cese Latitudinaire; ted. Latitudinarier). Kant
chiamò con questo termine colui che ammette in alcuni casi la neutralità morale
cioè l’esistenza di atti o caratteri umani indifferenti dal punto di vista
morale. « Co- storo, egli dice sono o L. della neutralità, che am- mettono cioè
che l’uomo non è nè buono nè cattivo e si possono chiamare indifferentisti; o
L. della coalizione che ammettono che l’uomo è insieme buono e cattivo e si
possono chiamare sincretisti ». L’opposto di L. è rigorista cioè colui il quale
non ammetta alcuna neutralità morale (Religion, I, Osser- vazione). Il nome
aveva originariamente indicato i sostenitori, nella chiesa inglese del sec.
xvi, di una più lata interpretazione dei dogmi tradizionali.
LAVORO LAVORO (gr. révos; lat. Labor; ingl. Labor; franc.
Travail; ted. Arbeit). L'attività diretta a uti- lizzare
le cose naturali o a modificare l’ambiente per l’appagamento dei bisogni umani.
Il concetto di L. implica perciò: 1) la dipendenza dell’uomo, quanto alla sua
vita e ai suoi interessi, dalla natura: il che costituisce il bisogno (v.); 2)
la reazione attiva a questa dipendenza, costituita da opera- zioni più o meno
complesse dirette all’elaborazione o all’utilizzazione degli elementi naturali;
3) il grado più o meno elevato di sforzo, pena o fatica, che costituisce il
costo umano del lavoro. Soprattutto su quest’ultimo aspetto si fonda la condanna
che la filosofia antica e medievale ha pronunciata sul L. manuale (v.
BanAUSIA). Per questo stesso aspetto, il L. fu considerato dalla Bibbia come
parte della maledizione divina che fa séguito al peccato originale (Genesi,
III, 19). E nello stesso testo famoso di San Paolo il precetto: «Chi non vuol
lavorare, non mangi» è derivato dall’obbligo di non addossare agli altri la
fatica e la pena del lavoro (// Tessal., III, 8-10). Nello stesso senso veniva
prescritto il L. da Sant’Ago- stino (De Operibus Monachorum, 17-18) e da San
Tommaso (S. Th., II, II, q. 187 a. 3) come precetto religioso. Dalla esigenza
di distribuire fra tutti la pena e la degradazione del L. manuale sono ispirate
l’Utopia (1516) di Tommaso Moro e la Città del sole (1602) di Campanella, che
prescri- vono per tutti i membri delle loro città ideali l’ob- bligo del
lavoro. Su questa base, la contrapposizione tra L. ma- nuale e attività
intellettuale, tra arti meccaniche e arti liberali, rimaneva salda; ed anche
nel Rina- scimento la difesa quasi unanime che letterati e filosofi fanno della
vita attiva di fronte a quella contemplativa e l’unanime condanna dell’ozio (al
quale è tolto il carattere, che l’età classica gli attri- buiva, di
disponibilità per attività superiori) non sempre conducono ad una rivalutazione
del L. ma- nuale. Un passo di Giordano Bruno afferma che la provvidenza ha
disposto che l’uomo « vegna oc- eupato ne l’azione delle mani, e contemplazione
per l’intelletto, de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza
contemplazione » (Spaccio della bestia trionfante, 1584, in Op. Ital., II, pag.
152). Ma è soprattutto negli scritti scientifici e tecnici che si afferma, a
partire dal 400, la dignità del L. manuale. Galileo esplicitamente riconosceva
il valore delle osservazioni fatte dagli artigiani mec- canici ai fini della
ricerca scientifica (Discorsi in- torno a due nuove scienze, in Op., VIII, pag.
49). Bacone poneva a fondamento del suo sperimenta- lismo le «arti meccaniche»,
che agiscono sulla natura e s’arricchiscono della luce dell’esperienza (Nov.
Org., I, 74) e riteneva pertanto indispensabili 519 le operazioni materiali o
manuali per il raggiungi- mento di un sapere che è nello stesso tempo un potere
sulla natura in vista dei bisogni e degli interessi umani (/b., I, 83). Se
Cartesio dava poca importanza alla parte tecnica o strumentale della scienza
(che per lui rimaneva un sistema rigida- mente deduttivo) e così al L. manuale,
Leibniz insisteva invece sull'importanza del L. degli arti- giani, dei
contadini, dei marinai, dei mercanti, dei musicisti, non solo ai fini della
scienza, ma anche a quelli della vita e della civiltà umana (Phil. Schriften,
VII, pag. 180 sgg.). Queste idee divennero predominanti nell’Illumi- nismo
soprattutto per opera di Bacone e di Locke; quest’ultimo riconosceva nella
ricerca sperimentale, diretta a determinare le proprietà dei corpi fisici, l’unico
strumento di cui l’intelletto umano dispone per accrescere la conoscenza dei
corpi stessi, la cui sostanza rimane sconosciuta (Saggio, IV, II, 25). L’articolo
« Arr» di Diderot nell’Encyclopedie, cri- ticava sulle orme di Bacone la
distinzione delle arti in liberali e meccaniche, considerandola un pregiu- dizio
tendente «a riempire le città di ragionatori orgogliosi e di contemplativi
superflui e le cam- pagne di tirannelli oziosi, pigri e altezzosi ». L’Illu- minismo
in generale segna la rivendicazione della dignità del L. manuale; dal quale
Rousseau voleva che Emilio acquistasse la prima idea della solida- rietà
sociale e degli obblighi che essa impone (Émile, [1762], IV). Kant, pur
distinguendo il L. dall’arte non riteneva possibile una netta separazione
perché anche nelle arti liberali « è necessario qualcosa di costretto o come si
dice un meccanismo senza del quale lo spirito non acquisterebbe corpo e svapo- rerebbe
del tutto » (Crit. del Giud., $ 43). Ma solo con il Romanticismo si cominciò a
sta- bilire il rapporto tra il L. e la natura stessa del- l’uomo. Fichte
affermava che anche l’occupazione ritenuta più bassa e insignificante, in
quanto è connessa con la conservazione e la libera attività degli esseri
morali, è santificata allo stesso modo dell’azione più elevata (Sirrenlehre,
III, $ 28). Ed Hegel ha dato la prima dottrina filosofica del L., che utilizza
i risultati raggiunti da Adamo Smith nell’economia politica (v.). Già nelle
Lezioni di Jena (1803-04) Hegel considerava il L. come « la media- zione tra
l’uomo e il suo mondo »; difatti, a dif- ferenza degli animali, l’uomo con
consuma imme- diatamente il prodotto naturale ma elabora, nei modi e per i fini
più diversi, la materia fornita dalla natura, dando così a tale materia il suo
valore e la sua conformità allo scopo (Fil. del dir., $ 196). Soltanto nella
soddisfazione dei bisogni per mezzo del L., l’uomo è veramente tale: perché si
educa sia teoricamente, attraverso le conoscenze che il L. richiede, sia
praticamente perché si abitua all’oc- 520 cupazione, adegua la propria attività
alla natura della materia e acquista attitudini universalmente valide. Perciò a
differenza del barbaro che è pigro, l’uomo incivilito è educato alla
consuetudine e al bisogno dell'occupazione (/5., $ 197 e Zusatz). Attraverso il
L., «l’egoismo soggettivo si converte nell’appagamento dei bisogni di tutti gli
altri » sicché mentre «ciascuno acquista, produce e gode per sé appunto perciò
produce e acquista per il godimento degli altri » (/b., $ 199). Hegel ha anche
messo in luce la crescita indefinita dei bisogni, l’importanza della divisione
del L. e il rilievo che acquista, in base a questa divisione, la distinzione
delle classi (Ib., $$ 195, 241, 245). Ha visto pure che la divi- sione del L.
porta alla sostituzione della macchina all'uomo. Difatti, con quella divisione,
si accresce sì la facilità del L. e quindi la produzione; ma si ha pure la
limitazione a una sola abilità e quindi la dipendenza incondizionata
dell’individuo dal complesso sociale. L'abilità stessa diventa così mec- canica
e ne deriva la possibilità di surrogare al L. umano la macchina (Enc., $ 526).
Questi capisaldi hegeliani sono accettati da Marx, il quale però insiste sul
carattere naturale o materiale del rap- porto che il L. stabilisce tra l’uomo e
il mondo, contro il carattere spirituale che Hegel gli aveva riconosciuto e che
gli permetteva di considerarlo come un momento o una manifestazione della co- scienza.
Gli uomini cominciarono a distinguersi dagli animali, secondo Marx, quando «
comincia- rono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è
condizionato dalla loro organizza- zione fisica. Producendo i loro mezzi di
sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale
» (/deologia tedesca, I, A; trad. it. pag. 17). Il L. non è quindi solo il
mezzo con cui gli uomini si assicurano la loro sussistenza: è la stessa
estrinsecazione o produzione della loro vita è un modo di vita determinato. La
produzione e il L. non sono perciò, una condanna per l’uomo: sono l’uomo
stesso, il suo modo specifico di essere e di farsi uomo. Attraverso il L. la
natura diventa «il corpo inorganico dell’uomo » e l’uomo può as- surgere alla
coscienza di sé, non tanto come indi- viduo, ma come «specie di natura
universale + (Manoscritti economico-politici del 1844, I, trad. it. pag. 230
sgg.). Il L. fa anche dell’uomo un ente sociale perché lo mette in rapporto
oltreché con la natura, con gli altri individui: sicché i rapporti di L. e di
produzione costituiscono la trama o la struttura autentica della storia, della
quale sono un riflesso le varie forme della coscienza. Questo accade tuttavia
nel L. non alienato, cioè non divenuto merce, quale è invece nella società
capitalistica: giacché in questo caso insorge il contrasto tra la personalità
del singolo proletario e il L. come con- LAVORO dizione di vita che gli è
imposta dai rapporti in cui entra come oggetto e non più come soggetto (Ideologia
tedesca, I, C; trad. it. pag. 75). Dal punto di vista di un’etica religiosa,
Kierke- gaard affermava a sua volta la stretta connessione del L. con la
dignità dell’uomo. « Quanto più basso è il gradino in cui sta la vita umana,
egli diceva, tanto meno si mostra la necessità di lavorare; quanto più in alto
sta, tanto più questa necessità si manifesta. Il dovere di lavorare per vivere
esprime l’universale umano e lo esprime anche nel senso che è una
manifestazione della libertà. Proprio con il L. l’uomo si rende libero; il L.
signoreggia la natura, con il L. egli mostra che sta più in alto della natura »
(Entweder-Oder, II, in Werke, III, pag. 301). Questa stretta connessione del L.
con l’esistenza umana, che nobilita il L. stesso e ne fa un fine oltre che un
mezzo, diventa un luogo comune della filosofia e in generale della cultura
contemporanea. E anche al di fuori dell'ambito marxista, il carat- tere penoso
del L. è messo sul conto, non del L. stesso, ma delle condizioni sociali nelle
quali esso si svolge nella società industriale. Dice Dewey: «È naturale che
l’attività sia piacevole. Essa tende a trovare una via d'uscita e il trovarla è
in sé sod- disfacente perché segna una riuscita parziale. Se l’attività
produttiva è diventata così inerentemente insoddisfacente che gli uomini hanno
bisogno di essere artificialmente indotti a impegnarsi in essa, questo fatto è
un’ampia prova che le condizioni sotto le quali il L. è svolto impediscono il
com- plesso delle attività invece di promuoverle, irritano e frustrano le
tendenze naturali invece di indiriz- zarle verso la fruizione » (Human Nature
and Con- duct, II, 3, pagg. 123-24). Nietzsche tuttavia aveva già visto nel L.,
un tradimento alla spiritualità gioiosa e contemplativa che dovrebbe essere
pro- pria dell’uomo. Aveva scritto a proposito degli americani: «Il loro
furibondo L. senza respiro — il vizio peculiare del Nuovo mondo — comincia già
per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a estendere su di essa una
prodigiosa assenza di spiritualità ». Aveva notato come solo il L. dà «la buona
coscienza» e che invece l’inclinazione alla gioia, chiamata «bisogno di
creazione» co- mincia a vergognarsi di sé (Die Froehliche Wissen- schaft, 1882,
$ 329). E aveva visto in un L. così concepito «la miglior polizia, che tiene
tutti sog- giogati ed è in grado di impedire vigorosamente lo sviluppo della
ragione, del desiderio violento, del gusto dell’indipendenza » (Morgenròthe,
1881, $ 173). A queste idee di Nietzsche si rifanno impli- citamente o
esplicitamente, coloro che contrappon- gono il gioco al L. o vogliono
trasformare il L. in gioco. «Il gioco è improduttivo e inutile, ha LEGGE scritto
Marcuse, proprio perché cancella i tratti repressivi e sfruttatori del L. e
dell’agio; esso * semplicemente gioca * con la realtà». Ma dal- l’altro lato lo
stesso Marcuse afferma che un ordine « non repressivo » del L. è un ordine di
abbondanza che si ha «quando tutti i bisogni fondamentali possono soddisfarsi
con un dispendio minimo di energia fisica e psichica e in un tempo minimo.» (Eros
e civiltà, cap. 9, trad. it. pagg. 212-13). AI fondo della negazione del valore
del L. sta, più che la condanna delle forme alienate e meccaniz- zate che il L.
ha assunto nella civiltà contempo- ranea, la nostalgia di una vita puramente
contem- plativa, la fede in una vita istintiva che, se non è repressa dal L.,
riporta infallibilmente l’uomo al paradiso perduto. LEGALISMO (ingl. Lepalism;
franc. Lépa- lisme; ted. Legalismus). L’atteggiamento che in- siste sulla
osservanza letterale della legge. In morale, è lo stesso che rigorismo (v.).
Fuori della morale, consiste nel dare eccessivo valore alle prescrizioni o ai
procedimenti formali. LEGALITÀ (ingl. Legality; franc. Légalité; ted.
Legalitàt, Gesetzlichkeit). La conformità di un’azione alla legge. Kant
distinse la L. così intesa dalla vera e propria moralità. «Il puro accordo o disaccordo
di un’azione con la legge, egli disse, senza riguardo al movente dell’azione
stessa, si chiama L. (conformità alla legge); quando in- vece l’idea del dovere
derivata dalla legge è nello stesso tempo movente dell’azione si ha la moralità
(dottrina morale)» (Met. der Sitten, Intr., $ III; cfr. Crit. R. Prat., I, cap.
III. Questa distinzione era stata, in forma più attenuata, introdotta per la prima
volta da Tomasio per distinguere la norma giuridica dalla norma morale (v.
Diritto); e allo stesso scopo se ne avvale Kant nella Metafisica dei costumi. LEGGE
(gr. vépoc; lat. Lex; ingl. Law; fran- cese Loi; ted. Gesetz). Una regola
dotata di necessità, intendendosi per necessità: 1° l'impossibilità (o l’im- probabilità)
che la cosa regolata accada altrimenti; oppure 2° una forza che garantisca la
realizzazione della regola. La nozione di L. è distinta da quella di regola e
da quella di norma. La regola (che è ter- mine generalissimo) può anche essere
infatti priva di necessità; e regole sono non solo le L. naturali o le norme
giuridiche ma anche le prescrizioni del- l’arte o della tecnica. La norma poi è
una regola che concerne soltanto le azioni umane e non ha di per sè valore
necessitante: pertanto non sono norme le leggi naturali e le regole tecniche;
ed una norma, ad esempio di natura morale, non è costrit- tiva allo stesso modo
di una legge giuridica. Da questo punto di vista esistono solo due specie di L.:
le L. di natura e le L. giuridiche. Poichè la nozione 521 di L. giuridica è
stata analizzata sotto la voce Di- RITTO, rimane qui da analizzare la nozione
di L. naturale. Si possono distinguere le seguenti fonda- mentali
interpretazioni di essa: 1° la L. come ra- gione; 2° la L. come uniformità; 3°
la L. come convenzione; 4° la L. come relazione simbolica. 1° La nozione della
L. come ragione è sorta nella Grecia antica dal trasferimento al mondo naturale
di quel concetto di giustizia o di ordine ch’era stato elaborato nei confronti
del mondo umano (cfr. JAE- GER, Paideia, I, cap. 6; trad. ital., I, pag. 212
ag.). Anassimandro per primo trasferì la nozione di dike dal mondo della polis
al mondo della natura e intese il legame causale nel nascere e nel perire delle
cose come la L. che presiede a una contesa giudiziaria nella quale tutti gli
esseri, egli dice: « debbono reciprocamente pagarsi il fio della loro
ingiustizia nell’ordine del tempo» (Fr. 9, Diels). Eraclito a sua volta
concepiva questa L. come la stessa ragione o Logos: del quale, come egli diceva
«si nutrono tutte le L. umane» (Fr. 114, Diels). Per quanto Platone (cfr. Tim.
83€) e Aristotele (De Cael., I, 1, 268 a 13) usino solo eccezionalmente l’espressione
« L. di natura », il concetto della razio- nalità della natura e della
esprimibilità di tale razionalità in proposizioni universali e necessarie è
stato fatto prevalere proprio da loro nella storia della filosofia. Lucrezio si
servì dell’espressione « patto di natura» (foedus naturae; De nat. rer., V, 57,
924; VI, 906). E il concetto stoico del destino o della provvidenza è
l’espressione dello stesso punto di vista (Diog. L., VII, 149). Plotino ammet- teva,
anche per le cose che si sottraggono al destino, una legge che deriva per esse
direttamente dall'In- telletto divino (Enn., IV, 3, 15). La soggettivazione delle
L. di natura operata da Kant nel tentativo di vedere la loro « sorgente »
nell'intelletto e precisa- mente nelle forme a priori dell’intelletto
(categorie) non muta molto il concetto di L. naturale che ri- mane, anche per
Kant, l’espressione della raziona- lità della natura e sia pure di una
razionalità che nella natura (come fenomeno) è introdotta dallo stesso
intelletto. « Le L. naturali, dice Kant, se vengono considerate come princìpi
dell’uso empirico dell’intelletto hanno insieme l'impronta della ne- cessità e
quindi almeno la presunzione di una deter- minazione derivante da princìpi
valevoli in sè a priori e antecedentemente ad ogni esperienza. Tutte le L.
della natura, senza distinzione, sottostanno ai principi superiori
dell’intelletto e applicano tali princìpi a casi particolari del fenomeno.
Questi princìpi soltanto dànno il concetto che contiene la condizione, e per
così dire l’esponente di una re- gola in generale; ma l’esperienza dà il caso
che è sottoposto alla regola» (Crir. R. Pura, Analitica dei Princ., cap. II,
sez. 3). Schelling interpretava la 522 formulazione delle L. naturali come la
progressiva trasfigurazione della natura in razionalità. «La scienza della
natura, egli diceva, toccherebbe il sommo della perfezione se giungesse a
spiritualizzare perfettamente tutte le L. naturali in L. della intui- zione e
del pensiero. I fenomeni (il materiale) deb- bono scomparire interamente e
rimanere soltanto le L. (il formale). Accade perciò che, quanto più nel campo
della natura balza fuori la L., tanto più si dissipa il velo che l’avvolge, gli
stessi fenomeni si rendono più spirituali e infine spariscono del tutto. I
fenomeni ottici non sono altro che una geometria le cui linee sono tracciate
per mezzo della luce e questa luce stessa è già di dubbia materialità » (System
des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 1; trad. ital., pag. 8-9). Si
può dire che ogni interpretazione razionalistica della scienza faccia proprie,
in un certo grado, queste tesi di Schelling. La L. non è da questo punto di
vista che l’espressione della razionalità della natura; e la sua formulazione,
da parte della scienza, non ha che lo scopo di ridurre la natura a ragione. 2°
La concezione della L. naturale come di un rapporto costante tra i fenomeni è
stata proposta per la prima volta da Hume. La L. naturale è, secondo Hume, il
risultato di « un’esperienza fissa e inalterabile » (Ing. Conc. Underst., X,
1): l’espe- rienza della « congiunzione costante di oggetti si- mili», alla
quale si riduce il rapporto causale. La connessione abituale e costante tra
eventi diversi è quella che autorizza a parlare di causalità, con- sente la
previsione degli eventi futuri ed esclude il miracolo (/bid., VII, 2). Questa
concezione veniva adottata da Comte e con lui dalla scienza positi- vistica.
«Il carattere fondamentale della filosofia positiva, diceva Comte, è di
considerare tutti i fenomeni come soggetti a L. naturali invariabili, la cui
scoperta precisa e la cui riduzione al minimo numero possibile sono lo scopo di
tutti i nostri sforzi ». Queste L. consistono non già nell’esporre «le cause
generatrici dei fenomeni » ma solo espri- mono ciò che connette i fenomeni gli
uni con gli altri mediante « relazioni normali di successione e di simiglianza»
(Cours de phil. positive, I, lez. I, $ Il). Dallo stesso punto di vista, Stuart
Mill considerava le L. come casi speciali dell’uniformità della natura. «Le
varie uniformità, egli diceva, quanto sono accer- tate da ciò che è considerata
come un’induzione suf- ficiente sono dette, nel comune linguaggio, L. di na- tura.
Scientificamente parlando, il titolo è adoperato in senso più ristretto per
designare le uniformità che sono state ridotte alla loro espressione più
semplice » (Logic, III, 4, $ 1). Questa concezione ha dominato l’intero
positivismo classico ed è entrata in crisi sol- tanto col riconoscimento del
carattere economico delle L. naturali, effettuato da Mach. LEGGE 3° Il concetto
di L. naturale come convenzione nasce sul fondamento della funzione economica
che alla conoscenza scientifica aveva riconosciuto Mach. Egli aveva, a questo
proposito, affermato il carattere soggettivo delle L. naturali. Solo i nostri
concetti e la nostra intuizione, egli diceva, prescrivono L. alla natura. « Le
L. naturali sono le restrizioni che noi, guidati dall'esperienza, prescriviamo
alla nostra aspettazione dei fenomeni » (Erkenniniss und Irrtum, cap. 23; trad.
franc., pag. 368). Il progresso della scienza conduce a una restrizione
crescente delle possibilità di previsione cioè alla loro crescente de- terminazione
e precisione. Questo riconoscimento del carattere economico o utilitario della
scienza è stato, in filosofia, largamente incoraggiato dalla filosofia di
Bergson e dal pragmatismo. La prima, attribuendo all’intelligenza soltanto la
funzione vitale di fabbricare oggetti e di orientarsi nel mondo naturale,
faceva della scienza, che è la creazione dell’intelligenza, « l’ausiliaria
dell’azione » (BERGSON, La penseé et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 158) e
non poteva riconoscere alle L. scientifiche alcuna validità teoretica. Il
pragmatismo, a sua volta, generalizzando la tesi della strumentalità della co- noscenza,
incoraggiava l’interpretazione delle L. scientifiche come semplici strumenti
dell’orienta- zione pratica dell’uomo nel mondo. Alcune forme dello
spiritualismo e dell’idealismo hanno interpre- tato questa funzione economica
della scienza come segno dell’inferiorità teoretica della scienza stessa (talvolta
dell’intero pensiero discorsivo) nei con- fronti della filosofia e dei suoi
organi specifici. Eduardo Le Roy, portando all’estremo la critica di Bergson,
affermò il carattere convenzionale della scienza e perciò la natura arbitraria
delle sue leggi. Il compito della scienza è, secondo Le Roy, quello di trovare
costanti utili; ed essa le trova perchè l’azione umana non comporta una
precisione asso- luta ma esige solo che la realtà sia approssimativa- mente
rappresentata, nei suoi rapporti con noi, da un sistema di costanti simboliche
chiamate L. (Science et philosophie, 1899-1900). La stessa tesi, in
un’esagerazione quasi caricaturale, si può trovare espressa da Croce: « Appunto
perchè queste L., egli diceva, sono nostre costruzioni e dànno come fisso il
mobile, non solamente esse non sono inec- cepibili e patiscono talvolta
eccezioni, ma addirittura non vi ha fatto reale che non sia eccezione alla sua L.
naturalistica ». Ciò accade perchè non ci sono uniformità rigorose e un
orsacchiotto non è mai del tutto simile ai suoi genitori. « Onde si potrebbe definire:
le L. inesorabili della natura sono L. che a ogni attimo vengono violate; e,
per converso, le L. filosofiche sono quelle che vengono in ogni attimo
osservate... Le scienze naturali, che non forniscono conoscenze vere, hanno
ancora minore LEMMA diritto (se è lecito esprimersi così) a parlare di pre- visione
» (Logica, II, cap. 5; 4* ediz., 1920, pag. 218). Contro la natura
convenzionale delle L. si espresse Poincaré polemizzando contro Le Roy. La L.
non è una creazione arbitraria dello scienziato, ma è l’espressione,
approssimativa o provvisoria, di una costanza d’azione che permette la
previsione. È ben vero che talvolta qualche L. viene elevata a prin- cipio e
così sottratta al controllo dell’esperienza e all’incessante revisione che essa
comporta; ma in tal caso la L. cessa di essere vera o falsa per diventare soltanto
comoda; e il controllo continua ad essere esercitato sulle relazioni che
esprimono «il fatto bruto dell’esperienza» (La valeur de la science, pag. 239).
Poincaré osserva pure che «lo scienziato crea nel fatto soltanto il linguaggio
nel quale lo
enuncia » ma che, una volta enunciato una
predi- zione in un determinato linguaggio « non dipende evidentemente da lui
che la predizione stessa si realizzi o non si realizzi » (/bid., pag. 233). La
stessa critica veniva rivolta alla tesi del carattere convenzio- nale delle L.
scientifiche da Moritz Schlick. Utiliz- zando la distinzione tra enunciato e
proposizione la quale è un enunciato dotato di significato (in quanto compie
realmente la funzione della comuni- cazione) Schlick ritenne che «il contenuto
proprio di una legge naturale consiste nel fatto che a certe regole
grammaticali (per. es., di una geometria) corrispondono alcune proposizioni
definite come descrizioni vere della realtà ». Poichè questo fatto è completamente
invariante rispetto a ogni arbitrario mutamento delle regole grammaticali, non
si può effettuare la riduzione delle L. di natura a mere convenzioni
linguistiche. «Solo le proposizioni sono vere o false, non gli enunciati. Gli
enunciati infatti sono soggetti a modificazioni arbitrarie ma questo non
concerne chi si preoccupa della conoscenza dei fatti. Con l’aiuto delle regole
dei simboli (la cui grammatica egli deve certo conoscere perchè senza di essa
gli enunciati sarebbero privi di senso per lui) egli può sempre giungere sino
alle proposizioni genuine la cui verità non dipende dalle predilezioni dei
simboli » (Gesetz, Kausalitàt, und Wahrschein- lichkeit, Vienna, 1948; ora in
Readings in Phil. of Science, 1953, pag. 181 sgg.). 4° Le critiche di Poincaré
e Schlick alla tesi della natura convenzionale della L. scientifica muovono da
quella che si può chiamare la quarta concezione fondamentale della L. stessa,
cioè la concezione della L. come rapporto simbolico tra i fatti. Questa tesi è
stata espressa per la prima volta da Duhem nel suo libro sulla Teoria fisica e
veniva da lui riassunta così: « Una L. di fisica è una relazione simbolica la
cui applicazione alla realtà concreta esige che si conosca e si accetti tutto
un insieme di teorie » (Théorie physique, 1906, pag. 274). Questo 523 vuol dire
che i termini simbolici, che una legge mette in relazione, sono astrazioni
prodotte dal lavoro lento, complicato e consapevole che è servito a ela- borare
le teorie fisiche; e che questo lavoro non è mai definitivamente compiuto. «
Ogni L. fisica, dice Duhem, è una L. approssimata: di conseguenza, per il
logico rigoroso, essa non può essere nè vera nè falsa; ogni altra L. che
rappresenti le stesse espe- rienze con la stessa approssimazione può
pretendere, con lo stesso diritto della prima, al titolo di L. vera, o per
parlare più rigorosamente, di L. accettabile » (Ibid., pag. 280). Questi
concetti sono rimasti sostan- zialmente immutati nella filosofia contemporanea.
Le osservazioni di Schlick contro la convenzionalità delle L. naturali e in
favore del carattere simbolico delle L. stesse, costituiscono una conferma
sostan- ziale dal punto di vista di Duhem. Una L. è pur sempre un enunciato
grammaticale e presuppone pur sempre la grammatica del linguaggio in cui si esprime;
ma per quanto tale grammatica possa essere considerata convenzionale, non lo è
il signi- ficato della L. in quanto si riferisce a rapporti tra fatti,
verificabilmente costanti e tali da rendere possibile una previsione probabile.
Per quanto la teoria di Duhem sia stata formulata anteriormente al
riconoscimento del carattere probabilistico della scienza, quella che egli
chiamava « approssimazione delle L. di natura » lasciava la via aperta a quello
che oggi si chiama carattere probabilistico delle L. stesse. Piuttosto, la
funzione che la metodologia delle scienze tende oggi a riconoscere sempre più
come predominante alla L. scientifica è la capacità di previsione. « Una
proposizione, ha detto Peirce, non può essere chiamata ‘legge di natura’ finchè
la sua capacità di previsione non sia stata messa a prova e confermata in modo
tale che nessun dubbio rimanga su di essa » (Values in a Universe of Chance, pag.
290). Una L. è in generale una formula per la previsione. Da questo punto di
vista la L. cessa di avere la necessità che la prima e la seconda inter- pretazione
le riconoscevano. La sua validità si mi- sura dalla sua efficienza; e questa
efficienza dalla possibilità di ottenere con essa previsioni che risul- tino
sufficientemente corrette. LEGGE BIOGENETICA. V. BIOGENETICA. LEGGE DEI TRE
STADI. V. Posirivismo. LEGGE DELLA MINIMA AZIONE. Vedi AZIONE MINIMA. LEGGE
MODALE. V. MODALE. LEGGE PSICOFISICA. V. PsicoLOGIA, b). LEIBNIZIANISMO. V.
CARATTERISTICA; SPIRITUALISMO. LEKTON. V. SignIFICATO. LEMMA (gr. Xfuua; ingl.
Lemma; francese Lemme; ted. Lemma). 1. La proposizione che si as- sume come
prima premessa di un ragionamento 524 (ARisT., Top., VIII, 1, 156 a, 21; Dio.
L. VII, 76; Cicer. De Div., II, 53, 108). In questo senso Kant chiamava L. la
proposizione che una scienza assume senza dimostrazione, desumendola da
un’altra scienza (Crit. del Giud., $ 68; Logik, $ 39). 2. Un teorema matematico
laterale o subordi- nato, fuori della catena deduttiva (LEIBNIZ, Nouv. Ess.,
IV, 2, 8). LENINISMO. V. Comunismo. LETIZIA (gr. eòpposivn; lat. Laetitia). V.
Giora. LEVIATANO (ingl. Leviathan). Dal nome di un biblico mostro (Giob., 40,
20) Hobbes chiamò così « lo stato, in latino civitas, che è un uomo arti- ficiale,
benchè di più grande statura e forza dell’uomo naturale, per la cui protezione
e difesa fu ideato » (Leviath., Intr.); e dette questo titolo alla sua opera politica
fondamentale (1561). LIBERALISMO (ingl. Liberalism; franc. Libé- ralisme; ted.
Liberalismus). La dottrina che si assunse la difesa e la realizzazione della
libertà nel campo politico. Tale dottrina nasce e s’afferma nell'età moderna e
può essere considerata divisa in due fasi: 1° La fase settecentesca,
caratterizzata dall’indivi- dualismo; 2° la fase ottocentesca caratterizzata dallo
statalismo. 1° La prima fase è caratterizzata dai seguenti indirizzi dottrinali
che costituiscono gli strumenti delle prime affermazioni politiche del L.: a)
Il giu- snaturalismo (v.) che consiste nel riconoscere all’in- dividuo diritti
originari e inalienabili; 5) Il con- trattualismo (v.) che consiste nel
considerare la società umana e lo stato come frutto di una convenzione fra
individui; c) Il L. economico, proprio della scuola fisiocratica, che combatte l'intervento
dello stato nelle faccende economiche e vuole che queste seguano esclusivamente
il loro corso naturale (v. ECoNOMIA); d) Come conseguenza globale delle
precedenti dottrine: la negazione del- l’assolutismo statale e la riduzione
dell’azione dello stato in limiti definiti, mediante la divisione dei poteri
(v. SATO). Il postulato fondamentale di questa fase del L. è la coincidenza
dell’interesse privato con l'interesse pubblico. Un giusnaturalista e moralista
come Bentham crede che basti al singolo
seguire intelligentemente il proprio piacere perchè persegua, contemporaneamente,
il piacere di tutti gli altri. E la dottrina economica di Adamo Smith è fondata
sul presupposto analogo della coincidenza tra il be- ninteso interesse
economico del singolo e l’interesse economico della società (v.
INDIVIDUALISMO). 2° La seconda fase del L. s’inizia quando questo postulato
entra in crisi. Tale crisi ha i suoi precedenti nelle dottrine politiche di
Rousseau, Burke, e Hegel nonchè nel fatto che il L. individualistico sembrava, sul
terreno politico ed economico realizzare la difesa di una classe determinata di
cittadini (la LENINISMO borghesia) anzichè della totalità dei cittadini stessi.
Il Contratto sociale (1762) di Rousseau costituisce già il capovolgimento
dell’individualismo. I diritti che il giusnaturalismo aveva riconosciuti agli
indi- vidui appartengono, secondo Rousseau, soltanto al cittadino. « Ciò che
l’uomo perde per il contratto sociale è la sua libertà naturale e il diritto
illimitato a tutto ciò che lo tenta e che può ottenere; ciò che guadagna è la
libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede ». Ma in realtà solo «
l'obbedienza alla legge che ci si è prescritta è la libertà »: cosicchè solo
nello stato l'uomo è libero (Contrat social, I, 8). L’affermata infallibilità
della « volontà gene- rale » che risulta dalla « alienazione totale di ciascun associato
con tutti i suoi diritti a tutta la comu- nità » (/bid., I, 6) trasforma quella
che per l’indivi- dualismo è la coincidenza dell'interesse singolo con l’interesse
comune nella coincidenza, preliminare e garantita, dell’interesse statale con
l’interesse sin- golo. In tal modo si veniva riaffermando quella superiorità
dello stato sull’individuo contro la quale il L. era insorto nella sua prima
fase. Tale superio- rità viene riconfermata anche da Burke. «La so- cietà è un
contratto, egli diceva. Ma se i contratti per oggetti di interesse occasionale
possono essere sciolti a piacere, non si può considerare lo stato come niente
di meglio che un accordo di parti in un commercio di pepe e caffè... Si deve
considerarlo con reverenza perchè non è la partecipazione a cose che servono
soltanto all’esistenza animale...: è una società in tutte le scienze, in tutte
le arti, in tutte le virtù e in ogni perfezione » (Reflections on the
Revolution in France, 1790; Works, II, pa- gina 368). Ma il culmine di questo
nuovo ricono- scimento dello stato si ha con la dottrina di Hegel per la quale
esso è « l’ingresso di Dio nel mondo + e per cui il suo fondamento è «la
potenza della ragione che si realizza come volontà» (Fil. del Dir., $ 258,
Zusatz). Concordava con questa esal- tazione dello stato l’altra branca del
romanticismo ottocentesco, il positivismo. Questo, con Comte, preconizzava uno
statalismo egualmente assolu- tistico di quello hegeliano (Systéme de politique
positive, 1851-54; IV, pag. 65) e con Stuart Mill, pur senza indulgere a
concessioni assolutistiche, faceva larga parte all’azione dello stato proprio
in quel dominio che il liberalismo classico voleva riservato esclusivamente
all’iniziativa individuale: il dominio economico (Principles of Political
Economy, 1848). Il saggio Su/la Libertà (1859) di Stuart Mill tendeva, nello
stesso tempo, a togliere la libertà dal novero delle condizioni indispensabili
per l’eser- cizio dell'attività morale giuridica economica, ecc. (secondo la
concezione del L. classico) e a farne un ideale o un valore in sè cioè
indipendente dalle possibilità che offre. Ciò non toglie che lo scritto LIBERTÀ
sia uno delle più nobili e appassionate difese della libertà stessa. Il sec. xx
nei suoi primi decenni ha visto la conti- nuazione di questo L. statalista.
Idealismo inglese e idealismo italiano insistettero sul carattere divino dello
stato. Così fece Bernardo Bosanquet nello scritto The Philosophical Theory of
the State (1899) e così fece Gentile identificando lo stato con l’Io assoluto
(Genesi e struttura della società, postumo, 1946). L'ispirazione hegeliana
prevaleva d’altronde anche nella dottrina di Croce il quale tuttavia rima- neva
fedele all’ideale classico della libertà, cui ren- deva pratica testimonianza
nel periodo del fascismo. Per Croce infatti il L. è la stessa dottrina dello
svol- gimento dialettico della storia, che tutto assolve e giustifica, anche
l’assolutismo e la negazione della libertà (Etica e politica, 1931, pag. 290).
Di questa stessa forma di L. (al quale direttamente si collega attraverso
Hegel) si può considerare una manifesta- zione lo stesso socialismo marzxistico
(v. MATERIA- LISMO). I partiti politici che dai primi dell’ottocento in poi
hanno innalzata la bandiera liberale si sono ispirati all’uno o all’altro degli
indirizzi fondamen- tali ora espressi cioè o all’individualismo o allo statalismo.
Pertanto un coacervo di indirizzi poli- tici disparati e talora opposti hanno
potuto richia- marsi al L. (su di essi vedi DE RucGiERO, Storia del L. europeo,
1925). Si sono infatti richiamati ad esso partiti che hanno negato il valore
dello stato (come il radicalismo inglese del secolo scorso) e par- titi che lo
hanno esaltato (come la cosiddetta « destra storica » nell'Italia
postrisorgimentale); par- titi che hanno negato ogni ingerenza dello stato in materia
economica (come fanno tuttora alcuni par- titi liberali europei) e partiti che
invece invocano l'intervento dello stato nell’iniziativa e nella dire- zione
degli affari economici; infine partiti che hanno ritenuto la libertà condizione
operante d’ogni atti-
vità umana e partiti che l’hanno relegata
nell’em- pireo dei puri « valori ». Questi contrasti sono la manifestazione
evidente del carattere composito della dottrina liberale. E a sua volta questo
carat- tere composito dipende dal modo approssimativo e confuso con cui è stata
trattata la nozione che dovrebbe essere fondamentale per il L.; quella di libertà.
Il ricorso casuale o surrettizio all’uno o all’altro dei concetti di libertà
che sono stati ela- borati nella storia del pensiero filosofico ha reso l’idea
liberale in politica confusa e oscillante e l'ha talora condotta alla difesa o
alla accettazione della non libertà (v. LIBERTÀ). LIBERO ARBITRIO. V. LiBERTÀ. LIBERTÀ
(gr. #ev0epla; lat.
Libertas; in- glese Freedom, Liberty; franc. Liberté; ted. Freiheit). Il termine ha tre
significati fondamentali, corrispon- 525 denti a tre concezioni che si sono
intersecate nel corso della sua storia e che possono essere caratte- rizzate
nel modo seguente: 1° la concezione della L. come autodeterminazione o
autocausalità, secondo la quale la L. è assenza di condizioni e di limiti; 2°
la concezione della L. come necessità, che si fonda sullo stesso concetto della
precedente, cioè su quello di autodeterminazione, ma attribuisce l’autodeterminazione
stessa alla totalità (Mondo, Sostanza, Stato) cui l'uomo appartiene; 3° la con-
cezione della L. come possibilità o sceltà, secondo la quale la L. è limitata e
condizionata, cioè finita. Non costituiscono concetti diversi di L. le forme
che la L. assume nei vari campi, per es., la L. metafisica, la L. morale, la L.
politica, la L. economica, ecc. Le dispute metafisiche, morali, politiche,
economiche, ecc., intorno alla L. sono infatti dominate dai tre concetti in
questione, ai quali pertanto sono ricon- ducibili le forme specifiche di L.
intorno a cui tali dispute vertono. 1° La prima concezione della L., quella per
cui essa è assoluta, incondizionata e quindi non subisce limitazioni e non ha
gradi, è stata espressa dicendo che è libero ciò che è causa di se stesso.
Questa concezione è stata per la prima volta affacciata da Aristotele. Sebbene
l’analisi aristotelica della volontarietà delle azioni, sembra che faccia
appello al concetto della L. finita, la definizione di ciò che è volontario è
quella della L. infinita: volontario è cioè che è « principio di se stesso ».
Aristotele co- mincia col dire che la virtù dipende da noi e così pure il
vizio. « Nelle cose infatti, egli prosegue, in cui l’agire dipende da noi,
anche il non agire dipende da noi; e là dove siamo in grado di dir no, possiamo
anche dir si. Sicchè se il compiere un’azione bella dipende da noi, dipenderà da
noi anche non compiere un’azione brutta » (Er. Nic., III, 5, 1113 b 10). Questo
è quanto già Platone aveva detto nel mito di Er. Ma per Aristotele questo
significa che «l’uomo è il principio e il padre dei suoi atti, come dei suoi
figli » (/bid.). Difatti «solo per colui che ha in se stesso il suo proprio
principio, l’agire o il non agire dipende da se stesso » (/bid., III, 1, 1110
17); sicchè l’uomo «è il principio dei suoi atti » (/bid., III, 3, 1112 b
15-16). Questa nozione di « principio di se stesso » è la definizione della L.
incondizionata. Essa ricorre, per es., in Cicerone. « Per i moti volontari
dell'anima, egli dice, nonèda richiedersi una causa estranea giacchè il
movimento è in nostro potere e dipende da noi: nè perciò è senza causa, dato
che la sua causa è la sua stessa natura » (De Fato, 11). La nozione di L. aveva
in Epicuro lo stesso significato di autodeterminazione assoluta:
autodeterminazione che egli faceva risalire agli atomi cui attribuiva il potere
di deviare dalla propria traiettoria. Dice Lucrezio: « Noi possiamo deviare i
nostri movimenti 526 senza essere determinati nè dal tempo nè dal luogo ma
secondo che ci ispira lo spirito; giacchè senza dubbio è la volontà il
principio di quegli atti e da essa. il movimento si espande in tutte le membra»
(De nat. rer., II, 260). La nozione della L. come autocausalità o
autodeterminazione (aòrtorpayia) è a fondamento anche del concetto della L.
come necessità. Gli Stoici ammettevano che fossero libere le azioni che hanno
in se stesse la loro causa o il loro principio: « Solo il sapiente è libero,
essi dicevano, e tutti i malvagi sono schiavi, giacchè la L. non è altro che
l’autodeterminazione, mentre la servitù è la privazione dell’autodeterminazione
» (Diog. L., VII, 121). Epitteto, conseguentemente chiamava «libere » le cose
che sono «in nostro potere » cioè gli atti dell'uomo che hanno il loro principio
nell'uomo stesso (Diss., I, 1). Questo concetto si è trasmesso per tutto il
Medio Evo. Origene lo ha per primo difeso nel mondo cri- stiano, chiarendolo
nel senso che la L. consiste non soltanto nell'avere in sè la causa dei propri movimenti
ma nell’essere questa causa. Questa definizione, che si applica a tutti gli
esseri viventi, privilegia l’uomo perchè la causa dei movimenti umani è ciò che
l’uomo stesso sceglie come movente, in quanto giudice e arbitro delle
circostanze esterne (De Princ., III, 5). Considerazioni analoghe ricor- rono
nel De Libero arbitrio di Sant'Agostino (cfr. ad es.: I, 12; III, 3; III, 25).
«Sente che l’animo si muove da sè colui che sente in sè la volontà » dice egli
altrove (De div. quaest. 83, 8). Alberto Magno chiamava libero l’uomo che è
causa di sé e che il potere altrui non può costringere (S. Th., II, 16, 1). E
per San Tommaso: « Il libero arbitrio è la causa del proprio movimento perchè
l’uomo, per il libero arbitrio, determina se stesso ad agire ». San Tommaso aggiunge
che non è necessario, affinchè ci sia L., che l’uomo sia la prima causa di se
stesso e difatti non lo è, perchè tale prima causa è Dio. Ma la Prima causa non
toglie nulla alla autocausalità dell’uomo (S. Th., I, q. 83, a. 1; cfr. Contra
Gent., II, 48). L’ul- tima scolastica, mantenne questo concetto di L.; accentuò
anzi l’indifferenza della volontà rispetto ai suoi possibili determinanti. Duns
Scoto afferma che «la L. della nostra volontà consiste nel potersi determinare
ad atti opposti, sia successivamente che nel medesimo istante » (Op. Ox., I, d.
39, q. 5, n. 16). E questa determinabilità ad atti opposti esprime la perfetta
indifferenza della volontà rispetto ad ogni motivazione possibile. Ockham, pur
negando la possibilità simultanea di atti opposti, sottolinea ugualmente
l'indifferenza assoluta della volontà: «Per L., egli dice, s'intende il potere
per il quale posso indifferentemente e contingentemente porre cose diverse,
sicchè posso causare e non causare lo stesso effetto, senza che ci sia nessuna
diversità LIBERTÀ tranne che in questo potere» (Quod/., I, q. 16). Ockham non
ritiene tuttavia che si possa dimostrare che la volontà sia libera in questo
senso. La L. si può solo conoscere per esperienza giacchè « l’uomo sperimenta
che, per quanto la ragione gli detti qualcosa, la volontà può tuttavia volerla
e non vo- lerla » (/bid., I, q. 16). Buridano osservava a questo proposito che
la L. non consiste nel poter non seguire il giudizio dell’intelletto; giacchè
se l’intelletto rico- noscesse con evidenza due beni come perfettamente uguali,
non potrebbe decidersi nè per l’uno nè per l’altro; consiste invece nel poter
sospendere o impe- dire il giudizio dell’intelletto (/Zn Eth., II, q. 1-4). Così
poneva le premesse del caso che si chiamò dell’Asino di Buridano (v.): il
quale, non avendo L., muore di fame nella condizione in cui l’uomo, invece, può
sospendere il giudizio ed effettuare arbitrariamente la scelta. Il concetto di
autopraghia o causa sui ricorre frequentemente nella filosofia moderna e
contem- poranea. « La sostanza libera, dice Leibniz, si de- termina da se
stessa cioè seguendo il motivo del bene appercepito dall’intelligenza, che la
inclina senza necessitarla: tutte le condizioni della L. sono com- prese in
queste poche parole » (Théod., III, $ 288). Questo stesso concetto persuase
Kant ad ammettere il carattere « noumenico » della libertà. « Se si deve ammettere
la L., egli dice, come proprietà di certe cause dei fenomeni, essa deve, in
rapporto ai feno- meni come eventi, essere la facoltà di iniziare da sé
(sponte) la serie dei propri effetti, senza cioè che l’attività della causa
debba avere un inizio e senza che abbisogni di un’altra causa che determini
tale inizio » (Proleg., $ 53). La « facoltà di iniziare da sè un evento +, è
esattamente la causa sui del concetto tradizionale di libertà. Questa è anche
chiamata nello stesso senso «spontaneità assoluta» cioè attività che non riceve
altra determinazione che da se stessa (Crit. R. Prat., I, libro I, cap. III,
Delucidazione critica). Ma proprio come causa sui o spontaneità assoluta, «la
causa libera non può essere nei suoi stati sottomessa a determinazioni di
tempo, non dev’essere un fenomeno, dev'essere una cosa in sè e soltanto i suoi
effetti sono da ritenersi fenomeni + (Proleg., $ 53). Kant ha voluto conciliare
la L. umana, come potere di autodeterminazione, con il determinismo naturale
che per lui costituisce la razionalità stessa della natura; perciò ha
considerato la L. come noumeno, ritenendo che ciò che da un punto di vista
(quello dei fenomeni) può considerarsi come necessità, da un altro punto di
vista (quello del noumeno) può considerarsi come libertà. Ma il concetto di L.
non è stato per nulla innovato da questo artificio kantiano. Lo stesso concetto
si trova espresso da Fichte: « L’assoluta attività, egli dice, la si chiama
anche libertà. La L. è la rappre- LIBERTÀ sentazione sensibile
dell’auto-attività » (Siftenlehre, Intr., 7, in Werke, IV, pag. 9). Allo stesso
concetto fa appello anche oggi ogni forma di indeterminismo (v.). Nelle forme
spiritua- listiche dell’indeterminismo (che sono le più diffuse) l’autodeterminazione
viene considerata come una esperienza interna fondamentale, come una specie di
creazione «interiore». Essa diventa la stessa « autocreazione dell’io ». Dice
Maine de Biran: « La L. o l’idea di L., presa nella sua sorgente reale, non è
che il sentimento stesso della nostra attività o di questo potere di agire, di
creare lo sforzo costitutivo dell’io » (Essai sur les fondements de la psychologie,
1812, in CEuvres, ed. Naville, I, pa- gina 284). Una concezione analoga si può
trovare nel Mikrokosmus di Lotze (I, pag. 283 sgg.) e, con qualche
attenuazione, nella Nouvelle Monadologie, di Renouvier (pag. 24 sgg.). Lo
spiritualismo fran- cese con Sécretan, Ravaisson, Lachelier, Boutroux, Hamelin,
si attiene strettamente allo stesso concetto. «La conoscenza delle leggi delle
cose, dice Bou- troux, ci permette di dominarle e così, lungi dal nuo- cere
alla nostra L., il meccanismo la rende efficace ». Pertanto non solo le cose
interne, come voleva Epit- teto, ma anche quelle esterne dipendono da noi (De l’idée
de loi naturelle, 1895, pag. 133, 143). Da questo punto di vista il motivo non
è la causa necessitante dell’azione umana: la volontà dà la sua preferenza a un
motivo piuttosto che a un altro e il motivo più forte non è tale
indipendentemente dalla volontà, ma proprio in virtù di essa (La contingence
des lois de la nature, 1874, pag. 124). Il concetto bergsoniano di L. non fa
che riesprimere questa stessa tesi. Bergson afferma che il concetto che egli
difende della L. è situato tra la nozione di L. morale cioè della «indipendenza
della persona di fronte a tutto ciò che non è essa stessa » e la nozione di
libero arbitrio, secondo il quale ciò che è libero « dipende da sè come un
effetto dipende dalla causa che lo determina necessariamente ». Contro questa
ultima concezione Bergson obbietta che gli atti liberi sono impreve- dibili e
che perciò ad essi non può applicarsi la causalità, secondo la quale cause
uguali hanno effetti uguali. La L. rimane perciò indefinibile; e va identificata
con lo stesso processo della vita co- sciente, cioè con la durata reale (Essais
sur /es données immédiates de la conscience, 1899, pa- gina 131 sgg.). Ma in
realtà il concetto di libero arbitrio faceva leva proprio sulla imprevedibilità
dei fatti umani (i cosidetti « futuri contingenti +) e sulla autocausalità
della volontà. La dottrina bergsoniana nega l’indifferenza della volontà ai
motivi solo per sostenere che la volontà crea o costituisce i motivi e conferisce
ad essi la forza determinante di cui dispongono. Ma in tal modo
l’autodeterminazione rimane la definizione della libertà; e come tale ri- 527 mane
anche nel concetto (proposto da F. LOMBARDI, La libertà del volere e
l'individuo, 1941, p. 192) di un atto 0 movimento che «si riproduce o si pro- duce
di continuo» e che in questa autoproduzione trascina con sè « l’intero mondo in
cui opera ». Nè ha un senso diverso la dottrina di Sartre per la quale la L. è
la scelta che l’uomo fa del suo essere proprio e del mondo. « Ma precisamente
perchè si tratta di una scelta, Sartre dice, questa scelta, nella misura in cui
si effettua, designa in generale altre scelte come possibili. La possibilità di
queste altre scelte non è nè resa esplicità nè posta, ma è vissuta nel senti- mento
d’ingiustificabilità e si esprime nel fatto del- l’assurdità della mia scelta
e, per conseguenza, del mio essere. Così la mia L. divora la mia libertà. Essendo
libero, io progetto il mio possibile totale, ma pongo con ciò che sono libero e
che posso annientare questo primo progetto e confinarlo nel passato » (L’érre
et le néant, pag. 560). Ma una scelta che non ha nulla da scegliere, cioè non è
limitata da condizioni determinate, è una scelta solo di nome; in realtà, è
un’autocreazione gratuita. La dottrina di Sartre non fa che portare all’estremo
il vecchio concetto della L. come autocausalità. A questo concetto fanno
appello sia l’indetermi- nismo che il determinismo. Ciò che il determinismo nega
è ciò che l’indeterminismo afferma: la possi- bilità di una causa sui. Si è
visto come Kant stesso la ritenesse impossibile nel dominio dei fenomeni e la
rinviasse al dominio del noumeno: così fa pure Schopenhauer che ritiene valide
le ragioni addotte da Priestley nella sua Dottrina della necessità filosofica
(v. DETERMINISMO) e afferma che la L. come autocausalità è soltanto della
volontà come forza noumenica o metafisica, della volontà come principio cosmico
(Die Welt, I, $ 55). In generale il determinismo consiste nel ritenere
universale la portata del principio di causalità nella sua forma empirica e
pertanto nel negare la causalità auto- noma. Claude Bernard in questo senso
affermava l’inerzia dei corpi viventi, come di quelli inorga- nici, cioè
l’incapacità di tali corpi e darsi da sè il movimento; e vedeva nel
riconoscimento di tale inerzia la condizione per il riconoscimento del determinismo
assoluto (Intr. d /’étude de la méde- cine expérimentale, 1865, II, 8). L’equivalente
politico della concezione della L. come auto-causalità è la nozione della L.
come assenza di condizioni o di regole, rifiuto d’ogni obbligazione e, in una
parola, anarchia. Il più delle volte, questo concetto viene utilizzato come strumento
polemico per negare la L. stessa. Così fece per primo Platone quando volle
mostrare come dalla troppa L. concessa dal regime democra- tico nascono la
tirannide e la schiavitù. Difatti il rifiuto costante di ogni limite e
restrizione 528 « rende i cittadini così ombrosi che non appena si propone
qualcosa che sembri minacciare la loro libertà, essi si dolgono e si ribellano
e finiscono per ridersi delle leggi scritte o non scritte, perchè non vogliono
in alcun modo sottoporsi a un padrone » (Rep., VIII, 563 d). La L. qui è intesa
(non tuttavia da Platone, per il quale vedi oltre) come assenza di misura,
rifiuto di ogni norma. L’illimitato potere su tutto, nel quale secondo Hobbes
consiste la L. allo stato di natura (De cive, I, $ 7) ha lo stesso significato.
Filmer credeva infatti di esprimere il significato della dottrina di Hobbes quando
diceva: « La L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, nel vivere
come gli piace, senza esser vincolato da alcuna legge » (Observations upon Mr.
Hobbes’s Leviathan, 1652, pag. 55). Ma forse la migliore e più coerente
espressione di questa no- zione di L. è l'Unico di Max Stirner: l’individuo che
non ha alcuna causa fuori di sè, che è lui la sua stessa causa e la causa di
tutto. In questa forma estrema la tesi della L. anarchica viene difesa assai
rara- mente: assai spesso invece viene presupposta come termine polemico ed a
essa vengono in buona o mala fede ricondotte le altre concezioni della L.
politica. 2° La seconda concezione fondamentale della L. è quella che la
identifica con la necessità. Questa concezione è strettamente imparentata con
la prima. Il concetto di L. cui fa riferimento è ancora quello di causa sui;
ma, come tale, la L. viene attribuita non alla parte ma al tutto: non all’uomo
singolo ma all’ordine cosmico o divino, alla Sostanza, all’Assoluto, allo
Stato. L'origine di questa conce- zione è negli Stoici. Come già si è visto,
gli Stoici ritenevano che «la L. consiste nell’autodetermina- zione e che
pertanto solo il sapiente è libero» (Diog. L., VII, 121). Ma perchè il sapiente
è libero? Perchè egli solo segue una vita conforme alla natura: egli solo cioè
si conforma all’ordine del mondo, al destino (Diog. L., VII, 88; StoBeo, F/or.,
VI, 19; CiceR., De Fato, 17). La L. del sapiente coincide pertanto con la
necessità dell’ordine cosmico. Crisippo tuttavia tentò di sfuggire a questa
conse- guenza. Egli distingueva le cause perfette e principali dalle cause
ausiliarie e prossime. Il destino opera soprattutto attraverso le prime; ma tra
le ultime c'è l’assenso che l’uomo dà alle cose e di conse- guenza la sua
azione. Accade come nel caso di un cilindro cui una piccola spinta basta per
roto- lare su un piano inclinato: la natura del cilindro e del piano fanno sì
che esso continuerà a rotolare una volta che sia stato spinto, ma affinchè ciò accada
occorre la spinta. Allo stesso modo, l’ordine delle cose fa sì che un'azione
una volta iniziata continui in un certo modo; ma ad iniziarla occorre l’assenso
dell’uomo e questo assenso rimane in potere di lui (Cicer., De Fato, 18-19).
Tuttavia, LIBERTÀ anche per Crisippo la L. non è che l’adeguarsi dell’assenso
umano all’ordine del mondo: le cause ausiliarie infatti non cadono fuori
dell'ordine ne- cessario del mondo più che non cadano fuori di esso le cause
principali, e la spinta che fa rotolare il cilindro appartiene a quell’ordine
come la forma del cilindro e il piano sul cui rotola. Da questo punto di vista,
negare che l’uomo come tale sia libero o affermare che esso è libero in quanto manifestazione
dell’autodeterminazione cosmica o divina, è la stessa cosa. Tutto ciò appare
chiarissimo nella formulazione spinoziana. Secondo Spinoza, « si dice libera la
cosa che esiste solo per la necessità della sua natura e che da sè sola è
determinata ad agire; mentre è necessaria o coatta la cosa che è indotta ad
esistere e ad agire da un’altra cosa, secondo una certa e determinata ragione»
(Er., I, def. 7). In questo senso Dio solo è libero perchè egli solo agisce in
base alle leggi della sua natura e senza essere costretto da nessuno (/bid., I,
17, coroll. II); mentre l’uomo, come ogni altra cosa, è determinato dalla
necessità della natura divina e può credersi libero solo in quanto ignora le
cause delle sue volizioni e dei suoi desideri (/bid. I app.; II, 48). Tuttavia
l’uomo stesso può diventar libero se è guidato dalla ragione (Ibid. IV, 66
scol.): se cioè agisce e pensa soltanto come parte della Sostanza infinita e
riconosce in sè la necessità universale di essa (/bid., V, VI, scol.). In altri
termini l’uomo di- venta libero mediante l’amore intellettuale di Dio (che è
per l’appunto la conoscenza della necessità di- vina): amore che è identico con
quello con cui Dio ama se stesso (/bid. V, 36 scol.). Nessuna innovazione è
apportata a questo punto di vista dalla elaborazione e amplificazione che la
filosofia romantica ne ha fatto. Schelling afferma esplicitamente la
coincidenza di libertà e necessità. « L’Assoluto, egli dice, opera per mezzo di
ogni singola intelligenza, cioè la sua azione è anche assoluta in quanto non è
nè libera nè priva di L. ma l’uno e l’altro insieme: assolu- tamente libera,
perciò anche necessaria + (System des transzendentalen Idealismus, IV, E). Le
Ri- cerche filosofiche sull'essenza della L. umana (1809) dello stesso
Schelling, trasferiscono in Dio, o meglio nella natura o fondamento di Dio,
l’atto con cui l’uomo sceglie quella natura o fondamento da cui ogni sua
inclinazione o azione sarà determinata. La tendenza ad attribuire all’Assoluto
la L. e a identificarla con la necessità si chiarisce così come la
caratteristica propria della concezione romantica. Hegel, a questo proposito,
contrappone «il con- cetto astratto della L.» cioè la L. come esigenza o possibilità,
alla « L. concreta » che è la «L. reale» o «la realtà stessa» dello spirito o
degli uomini (Enc., $ 482; Fil. del dir., $ 33, Zusatz). Questa L. reale che è
la realtà stessa dell’uomo è lo Stato, LIBERTÀ il quale appunto perciò è
considerato da Hegel come «Iddio reale » (Fil. del dir., $ 258, Zusatz). Lo
stato è «la realtà della L. concreta» (/bid., 8 260). Ciò significa che esso «è
la realtà in cui l’individuo ha e gode la sua L., in quanto però l’individuo
stesso è scienza, fede e volontà dell’uni- versale. Così lo stato è il centro
degli altri aspetti concreti della vita cioè del diritto, dell’arte dei co- stumi,
degli agi. Nello stato la L. è realizzata og- gettivamente e positivamente ».
Questo non signi- fica che la volontà soggettiva del singolo si realizza mediante
la volontà universale, che sarebbe quindi un mezzo per essa; ma piuttosto che
la volontà universale si realizza attraverso i cittadini che sotto questo
aspetto sono suoi strumenti. « Sono piut- tosto il diritto, la morale, lo
stato, e solo essi la positiva realtà e soddisfazione della libertà. L’ar- bitrio
del singolo non è libertà. La L. che viene limitata è l’arbitrio, concernente
il momento par- ticolare dei bisogni» (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson,
I, pag. 90). Questa coincidenza di L. e necessità che conduce ad attribuire la
L. stessa sol- tanto all’Assoluto o alla sua realizzazione nel mondo, che è lo
Stato, da un lato è rimasta a caratterizzare tutte le dottrine di derivazione
romantica, dall’altro è stata utilizzata, fuori dell'ambito di tali dottrine, per
la difesa dell’assolutismo statale e per il rifiuto del liberalismo politico.
Gentile e Croce condivisero quella dottrina: il primo identificando la L. con
la necessità dialettica dell’Assoluto (Teoria generale dello spirito, XII, $
20) il secondo identificando la L. con «la creatività delle forze che si
chiamano individuali e coincidono con l’unità dell’ Universale » (Storiografia
e idealità morale, pag. 58). Ma la con- divise pure Martinetti affermando che
la L. non è che la spontaneità della ragione e che la spontaneità della ragione
non è che la necessità stessa sicchè in ogni caso si identificano L. e
spontaneità, spon- taneità e concatenazione necessaria (La libertà, 1928, pag.
349). In forma diversa, la dottrina ritorna in alcune manifestazioni della
filosofia contempo- ranea, per es., nel realismo di Nicolai Hartmann e nel- l’esistenzialismo
di Jaspers. Secondo Hartmann, la L. consiste nel fatto che, per ogni piano
dell’essere, al determinismo dei piani inferiori si aggiunge il determinismo
proprio del piano stesso. I piani, in altri termini, sono contingenti l’uno
rispetto all’altro in quanto ognuno ha una forma specifica di determi- nismo
non riducibile a quella dei piani inferiori; la L. non è che il
superdeterminismo di un piano dell’essere rispetto agli altri. Dice Hartmann: «
La L. in senso po- sitivo non è un minus ma un plus nella determina- zione. Il
nesso causale non permette un minus perchè la sua legge afferma che una serie
di effetti, una volta in corso, non può essere arrestata in alcun modo. Ma
ammette invece un plus — se questo c'è — 34 — ABBAGNANO, Dizionario di
filosofia. 529 perchè la sua legge non afferma che agli elementi di
determinazione causale di un processo non pos- sano aggiungersi altri elementi
di determinazione » (Erhik, pag. 649). Sul piano dello spirito, questo plus di
determinazione è costituito dalla teleologia propria dell’uomo, che impone ai
processi causali fini desunti dalla sfera dei valori. Ma è ovvio che in questo
senso la L. non è altro che l’aggiunta di un determinismo « superiore » ai
determinismi inferiori: è cioè l’autodeterminazione dei piani, che si aggiunge alla
determinazione esterna. Nello stesso senso, Jaspers afferma l’unità di L. e
necessità, espressa nella formula « io posso perchè devo + (nel senso della necessità
di fatto, /ch muss: Phil., II, pag. 186, 195). In questo caso la L.,
l’autodeterminazione, appar- tiene alla situazione esistenziale totale, di cui
l’io è l’espressione. Siamo sempre nell’ambito della conce- zione che
identifica la L. con l’autocausalità di una totalità metafisica (o politica o
sociale, ecc.) cioè con la necessità con cui tale totalità si realizza. Questa dottrina
è stata talora difesa da filosofi o scrittori di spiriti liberali, ma è in
realtà l’insegna stessa dell’antiliberalismo moderno. Difatti, sul piano me- tafisico,
essa riconosce come soggetto di L. soltanto l’essere, la sostanza, il mondo e
sul piano politico soltanto lo stato, la chiesa, la razza, il partito, ecc.; e
attribuisce alla totalità così privilegiata un po- tere di autocausalità o
autocreazione che è un altret- tanto assoluto potere di coercizione sugli
individui, che ne sono considerati le manifestazioni o le parti. 3° Mentre le
prime due concezioni della L. hanno un nucleo concettuale comune, la terza non fa
appello a questo nucleo perchè intende la L. come misura di possibilità, quindi
scelta motivata o condizionata. In questo senso la L. non è auto- determinazione
assoluta e non è quindi un tutto od un nulla, ma piuttosto un problema sempre aperto:
il problema di determinare la misura, la condizione o la modalità della scelta
che può garan- tirla. Libero, in questo senso, non è chi è causa sui o si
identifica con una totalità che è causa sui; ma chi possiede, in un grado o
misura determinata, possibilità determinate. Platone per primo ha enun- ciato
il concetto che la L. consista in una « giusta misura» (Leggi, 693€); ed ha
illustrato questo
concetto nel mito di Er. In questo mito
si dice che le anime, prima di incarnarsi, sono condotte a scegliere il modello
di vita cui poi rimarranno legate. « Per la virtù, annuncia la parca Làchesi,
non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a se- conda che la onorerà o
la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta, la divinità è fuori causa?
(Rep., X, 617e). Ma l’importante è che questa scelta, di cui ciascuno è
l’autore, e la cui causa- lità per ciò non può essere addossata alla divinità, è
limitata in un senso dalle possibilità oggettive, 530 cioè dai modelli di vita
disponibili, ein un altro senso dalla motivazione giacchè, come dice Platone,
«la maggior parte delle anime sceglie secondo la consue- tudine della vita
precedente» (/bid., 620a). La situazione mitica qui illustrata è esattamente
quella di una L. finita cioè di una scelta tra possibilità determinate e
condizionata da motivi determinanti. Una tale L. è delimitata: 1° dal rango
delle possi- bilità oggettive che sono sempre più o meno ristrette di numero;
2° dal rango dei motivi della scelta che possono ancora restringere, fino
all’unità, il rango delle possibilità oggettive. Pertanto questo concetto di L.
è una forma di determinismo, sebbene non di necessitarismo: ammette la
determinazione del- l’uomo da parte delle condizioni cui la sua attività
risponde, senza ammettere che a partire da tali condizioni la scelta sia
infallibilmente prevedibile. Questo concetto di L. è andato interamente
smarrito nell’antichità e nel Medio Evo per la prevalenza del concetto di L.
come causa sui. Quando si è riaffacciato, ai principi dell’età moderna, ha
assunto, in polemica con la nozione di libero arbitrio, la forma della
negazione della L. di volere e dell’affermazione della L. di fare. In questa
forma si trova espressa da Hobbes. Questi, identificando la volontà con
l’appetito, afferma che non si può non volere ciò che si vuole (non si può non
aver fame quando si ha fame, non aver sete quando si ha sete, ecc.); ma si può
fare o non fare ciò che si vuole (mangiare o non mangiare quando si ha fame,
ecc.). Esiste quindi una L. di fare, non una L. di volere (De Homine, 11, $ 2;
De Corp., 25, $ 13). Questa dottrina veniva sostanzialmente accolta da Locke,
che definiva la L. come « il fatto per cui si è in grado di agire o non agire
secondo che si scelga o si voglia» (Saggio, II, 21, 27). Ma in Locke la dottrina
stessa si complica e diventa confusa, perchè da un lato egli distingue
l’appetito dalla volontà che ritiene costituita da un potere di scelta o di preferenza
o di inibizione (cioè di sospensione del desiderio, /bid., II, 21, 48);
dall’altro ammette che tale scelta o preferenza o inibizione sia necessaria- mente
determinata dal motivo (che egli identifica
in un primo tempo con il desiderio del
bene, in un secondo tempo con il disagio proprio del desiderio, Ibid., II, 21,
31). Non si vede pertanto come, da questo punto di vista, possa parlarsi di L.
di fare o di non fare, dato che la scelta stessa o la preferenza accordata
all’uno o all’altra di queste alternative è necessariamente determinata.
Comunque, l’inten- zione della dottrina di Locke è chiara: essa tende da un
lato a garantire il determinismo dei motivi, negando il libero arbitrio come
autocausalità della volontà; dall’altro a garantire la L. dell'uomo contro il
determinismo rigoroso. Molto meglio Locke è riuscito a esprimere questo stesso
concetto sul ter- LIBERTÀ reno politico, negando, contro Filmer, che la L. consiste
per ciascuno nel fare ciò che gli pare, e affermando: «La L. naturale dell'uomo
consiste nell’essere libero da ogni potere superiore sulla terra e nel non
sottostare alla volontà o all'autorità legislativa di alcuno e nel non avere
per propria norma che la legge di natura. La L. dell’uomo in società consiste
nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello stabilito per
consenso nello stato nè al dominio di altra volontà o alla limitazione di altra
legge che quella che questo potere legislativo stabilirà conformemente alla
fiducia riposta in lui » (Two Treatises of Government, II, 4, 22). Nello stato
di natura la L. consiste nella possibilità di scelta limitata dalla norma di
natura, che è una norma reciproca che prescrive di riconoscere agli altri
quelle stesse possibilità che si riconoscono a sè (Ibid., II, 2, 4). Nella
società, la L. consiste nella possibilità di scelte delimitate da una legge
stabilita da un potere a ciò destinato dal consenso dei citta- dini. In altri
termini la L. politica suppone due condizioni: 1° L'esistenza di norme che
circoscrivino le possibilità di scelta dei cittadini; 2° La possibilità dei
cittadini stessi di controllare, in una certa misura, lo stabilimento di queste
norme. Da questo punto di vista il problema della L. politica è un problema di
misura: la misura nella quale i cittadini devono partecipare al controllo delle
leggi e la misura nella quale tali leggi debbono restringere le loro
possibilità di scelta. Questo è sempre stato il problema del liberalismo
classico e cioè di ogni liberalismo autentico, antico e moderno. Montes- quieu
riproponeva la dottrina della L. politica di Locke nell’Esprit des lois (1748,
XI, 3-4). Hume e l’Illuminismo riprendevano la dottrina della L. filosofica. Il
primo affermava: « Per L. non possiamo significare che un potere di agire o di non
agire secondo la determinazione della volontà; cioè che se deliberiamo star
fermi, possiamo farlo e se deliberiamo muoverci, lo possiamo egualmente + (Ing.
Conc. Underst., VIII, 1); e nello stesso tempo metteva in luce il determinismo
dei motivi, senza il quale le leggi e le sanzioni sarebbero inoperanti. L’illuminismo,
per bocca di Voltaire, riprendeva la stessa dottrina: la L. di indifferenza è «
una parola priva di senso » giacchè essa significherebbe che c’è nell'uomo «un
effetto senza causa ». Si è liberi di fare quando si ha il potere di fare
(Dictionnaire philosophique, art. Liberté). Kant stesso si avvaleva del
concetto di L. finita per definire la L. giuridica o politica: essa è «la
facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne tranne che a quelle cui io ho potuto
dare il mio assenso » (Zum ewigen Frieden, II, art. 1, n. 1). La concezione di
un determinismo non necessitaristico è rimasta tradizionale nell’orien- tamento
empiristico. Stuart Mill mostrava come il LIBERTINISMO fatalismo scaturisce da
un concetto della necessità che non si riduce a quello della determinazione. Questa
significa soltanto « uniformità di ordine e ca- pacità di predizione +. Ma i
sostenitori della neces- sità « sentono come se ci fosse un più forte legame tra
le volizioni e le loro cause: come se, quando di- cono che la volontà è
governata dall’equilibrio dei motivi, si dicesse qualcosa in più
dell’affermazione che si può, conoscendo i motivi e la nostra abituale suscettibilità
ad essi, predire il modo in cui agiremo » (Logic, VI, 2, $ 2). Dewey traduce
questa stessa dottrina nei termini del pragmatismo cioè di un empirismo
orientato verso il futuro. «Si assume talora, egli dice, che se si può mostrare
che la deli- berazione determina la scelta ed è determinata dal carattere e
dalle condizioni, non c’è libertà. Questo è come dire che un fiore non può
portare frutti perchè viene dalla radice e dallo stelo. La questione non concerne
gli antecedenti della deliberazione della scelta ma le loro conseguenze. Che
cosa hanno esse di proprio? Questo, che ci dànno il controllo delle possibilità
future che si aprono a noi. Questo con- trollo è il nucleo della nostra
libertà. Senza di esso, noi siamo spinti dal didietro, con esso camminiamo
nella luce » (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 311). La L. di cui Heidegger
parla come «trascen- denza + e « progettazione » dell’uomo nel mondo è anch'essa
una L. finita perchè condizionata e li- mitata dal mondo stesso in cui si
progetta (Vom Wesen des Grundes, 1949, III; trad. ital., pag. 64 sgg.). Questa
dottrina della L. si è rafforzata ed è diventata più chiara e coerente dacchè
la scienza stessa, a partire dal quarto decennio del nostro secolo, ha
abbandonato l’ideale della causalità necessaria e della previsione infallibile.
La preva- lenza del concetto di condizione su quello di causa, della
spiegazione probabilistica sulla spiegazione necessitaristica, che si è
delineata, come effetto del principio di indeterminazione, nella fisica atomica
(v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE), ha reso ovviamente anacronistico la conservazione
dello schema neces- sitaristico per la spiegazione degli eventi umani. Nello
stesso tempo, l’opposizione tra scienza e coscienza, tra l’esigenza della
causalità propria della prima e la testimonianza di L. propria della seconda, è
venuto a perdere il suo significato. Da un lato si è visto che la coscienza non
testimonia una L. assoluta nè può far valere assolutamente una sua qualsiasi
testimonianza in proposito; dall’altro lato, si è visto che la scienza non
esige la causalità neces- saria, che autorizzerebbe la previsione infallibile degli
eventi, ma un determinismo condizionante che autorizza la previsione probabile
degli eventi stessi. La conclusione è che il concetto della L. come
autocausazione (quale ancora compare in Bergson e Sartre) è così poco
sostenibile come il 531 concetto del determinismo come necessità. Corri- spondentemente,
sul piano politico, il concetto della L. come potere di fare ciò che piace e
quello della L. come potere assoluto della totalità cui l’uomo appartiene
(stato, chiesa, razza, partito, ecc.) sono egualmente mistificatori. La L. è
oggi, come ai tempi in cui ne veniva per la prima volta formulata la nozione
nel mondo moderno, una questione di misura, di condizioni e di limiti; e ciò in
qualunque campo, da quello metafisico e psicologico a quello economico e
politico. Si insiste oggi sul fatto che la L. umana è « una libertà situata,
una L. inquadrata nel reale, una L. sotto condizione, una L. relativa » (GURVITCH,
Déterminismes sociaux et liberté humaine, 1955, pag. 81). Si esprime talora
questo concetto dicendo che la L. non è una scelta ma piuttosto una «
possibilità di scelta»: cioè una scelta tale che una volia effettuata può
essere ancora e sempre ripetuta nei confronti di una situazione determinata (ABBAGNANO,
Possibilità e Libertà, 1956, passim). In questa forma, la L. può essere
riconosciuta pro- pria di tutte le attività umane ordinate ed efficaci, anche e
principalmente dei procedimenti scientifici, le cui tecniche di controllo
consistono per l’appunto in possibilità di scelte nel senso suddetto. Un pro- cedimento
valido è un procedimento che può essere da chiunque efficacemente adoperato
nelle circo- stanze adatte: è una « possibilità di scelta » che si ripresenta a
chiunque si trovi nelle condizioni opportune. Analogamente, le L. politiche
sono pos- sibilità di scelta che assicurano ai cittadini la possi- bilità di
scegliere ancora. Un tipo di governo è libero non già semplicemente se è scelto
dai cittadini ma se consente ai cittadini in certi limiti una continua possibilità
di scelta, nel senso della possibilità di mantenerlo o modificarlo o
eliminarlo. Le cosid- dette «istituzioni strategiche della L.+, come le L. di pensiero,
di coscienza, di stampa, di riunione, ecc., sono per l’appunto dirette a
salvaguardare ai citta- dini la possibilità di scelta nel dominio scientifico, religioso,
politico, sociale, ecc. Pertanto i problemi della L. nel mondo moderno non
possono essere risolti da formule semplici e totalitarie (quali sarebbero
quelle suggerite da un concetto di L. anarchico o necessitaristico), ma dallo
studio dei limiti e delle condizioni che, in un campo e in una situazione
determinata, possono rendere effettiva ed efficace la possibilità di scelta
dell’uomo. LIBERTARISMO (ingl. Libertarianism). Lo stesso che anarchismo.
Libertario (ingl. Libertarian; franc. Libertaire): lo stesso che anarchico. (v.
ANAR- CHISMO. LIBERTINISMO (franc. Libertinisme). La corrente antireligiosa che
si diffuse soprattutto negli ambienti eruditi di Francia e d’Italia nella prima
metà del sec. xvii e che costituisce la reazione, in 532 gran parte
sotterranea, che accompagna in quel periodo il predominio politico del
cattolicesimo. Tale corrente non ha idee filosofiche ben determinate. Ad essa
infatti appartennero: cattolici sinceramente attaccati alla chiesa, che
tuttavia ritenevano impos- sibile accettarne integralmente l’impalcatura
dottri- nale come Gassendi, Gaffarel, Boulliau, Launoy, Marolles, Monconys;
protestanti emancipati da ogni preoccupazione religiosa come Diodati, Prio- leau,
Sorbière e Lapeyrère; e scettici dichiarati, che si rifanno alle dottrine del
paganesimo classico o almeno alla forma che esse avevano assunto nell’umanesimo
rinascimentale, come Guyet, Luil- lier, Bouchard, Naudé, Quillet, Trouiller,
Bourdelot, Le Vayer. Non si può pertanto parlare, a proposito del L., di un
corpo di dottrine coerente, ma piuttosto di un certo numero di temi comuni, che
possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° La negazione della validità
delle prove dell’e- sistenza di Dio e della possibilità di intendere e difendere
i dogmi fondamentali del cristianesimo. 2° La negazione della morale
ecclesiastica e in genere della morale tradizionale e l’accettazione del piacere
come guida o ideale per la condotta della vita. Il significato che la parola
libertino ha nell’uso corrente deriva appunto da questo aspetto. 3°
L'accettazione della dottrina dell’ordine ne- cessario del mondo, quale era
stata elaborata e difesa dagli aristotelici del Rinascimento; e per conseguenza:
a) la negazione della libertà umana; b) la negazione dell'immortalità
dell'anima; c) la negazione della possibilità del miracolo, interpretato come
frutto dell’immaginazione o come fatto naturale insolito. Questi punti di
dottrina collegano il L. con l’aristotelismo del Rinascimento. 4° La tesi che
la religione è, in generale, un prodotto dell’impostura delle classi
sacerdotali. S° L'accettazione del principio della « ragion di stato » cioè del
machiavellismo politico. 6° Lo smantellamento di credenze e pratiche religiose,
l’irrisione di esse e talvolta la loro tradu- zione in imagini oscene. 7° Il
fideismo, cioè la dichiarata accettazione, sincera o meno, delle credenze
tradizionali, in con- trasto con le conclusioni della ragione, secondo quel principio
della « doppia verità» che era stato an- ch’esso proprio dell’aristotelismo
rinascimentale (e dell’averroismo medievale). 8° Il carattere aristocratico
attribuito al sapere e in particolare alla riflessione filosofica e i limiti imposti
alla loro diffusione e al loro uso per evitare che entrino in urto con gli
interessi dello Stato e delle istituzioni con esso collegate. Quest’ultimo
punto soprattutto stabilisce la dif- ferenza radicale tra L. e Illuminismo
(v.): il quale consiste propriamente nel togliere ogni freno alla LIBERTISMO critica
razionale, nel portarla in ogni campo (quindi anche nel campo politico, oltre
che in quello reli- gioso) nella volontà di far parte dei risultati di essa a
tutti gli uomini e di utilizzarli per il migliora- mento dei loro modi di
vivere. Tuttavia non c’è dubbio che il L. è un anello importante di congiun- gimento
tra lo spirito dell’Umanesimo e lo spirito dell’Illuminismo. Il suo storico
migliore, R. Pintard, così riassume il suo giudizio su di esso: « Se si crede, come
tutto conduce ad ammettere, che lo slancio dello spirito filosofico della fine
del xvIr secolo è in gran parte un seguito del Rinascimento del xvi secolo, —
bisogna anche concludere che il L. trionfante dei Fontenelle e dei Bayle non
sarebbe esistito senza il L. militante dei Le Vayer, dei Gas- sendi e dei Naudé
che fu anche un L. dolorante — esitante, combattuto, imbarazzato da scrupoli e
da timori e che arrivò ad esprimersi solo rinnegandosi » (Le Libertinage érudit
dans la première moitié du XVII siècle, 1943, I, pag. 576). LIBERTISMO (franc.
Libertisme). Questo termine è stato adoperato da Bergson (in Revue de Métaph.
et de Morale, 1900, pag. 661) in luogo di quello più comune «Filosofia della
libertà » per indicare lo spiritualismo francese del sec. xix nel quale si
inserisce la stessa dottrina di Bergson. LIBIDO. Termine con il quale è stata
designata da Freud e dagli psicanalisti la tendenza sessuale nella forma più
generale e indeterminata. Dice Freud: « Analoga alla fame in generale, la L.
designa la forza con la quale si manifesta l’istinto ses- suale, come la fame
designa la forza con la quale si manifesta l'istinto d’assorbimento del nutri- mento
? (Einfithrung in
die Psychoanalyse, cap. 21;
trad. franc. pag. 336). In questo senso
le prime ma- nifestazioni della L. si connettono ad altre funzioni vitali: nel
lattante, ad es., l’atto di succhiare pro- cura un piacere che rimane separato
da quello dell’assorbimento del cibo e viene ricercato per suo conto. Freud
pertanto designa la zona bucco- labiale come «zona erogena » e considera il
pia- cere procurato dall’atto di succhiare come un pia- cere sessuale. La L. in
questo senso può non aver niente a che fare con ciò che è in rapporto alla
sfera genitale. Freud pensa poi che non si guadagna niente a chiamare la L. col
nome di istinto, come ha fatto Jung (/bid., pag. 442 sgg.; cfr. C. G. Jung, Wandlungen
und Symbole der Libido, 1925). LICEO (gr. Avxewov). Così fu chiamata, dal territorio
in cui era situata, sacro ad Apollo Liceo, la scuola di Aristotele o Peripato.
Dopo la morte di Aristotele la scuola fu retta da Teofrasto di Eresso, sino
alla morte di costui (288 od 86 a. C.), che la indirizzò soprattutto
all’organizzazione del lavoro scientifico e alle ricerche particolari. A Teo- frasto
successe Stratone di Lampsaco che la tenne LINGUA per 18 anni e dopo il quale
la scuola continuò il suo lavoro attraverso numerosi altri rappresentanti dei
quali ci restano scarse notizie e frammenti. Nel primo secolo avanti Cristo
Andronico di Rodi pubblica le opere esoteriche di Aristotele e dà inizio a una
nuova forma di attività filosofica: il com- mento agli scritti del maestro. In
questa attività emerse specialmente Alessandro di Afrodisia vissuto intorno al
200 d. C. (cfr. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, Texte und Kommentar,
Basilea, 1944 sgg.). LIMITAZIONE (lat. Limitatio; ingl. Limitation; franc.
Limitation; ted. Limitation, Begrenzung). Nella logica del *600 cominciò a
chiamarsi con questo nome ciò che nella logica medievale era chiamato restri- zione
(restrictio, cfr. Pietro Ispano, Summul. Logic., 11.01) cioè la riduzione di un
enunciato a un signi- ficato più ristretto. Dice, ad es., Jungius: «Si dice che
un enunciato viene limitato quando si sostituisce ad esso un altro enunciato il
quale dichiari che il predicato conviene al soggetto non immediatamente ma
mediante una sua parte o accidente. Ad es., ‘l’Etiope è bianco” viene limitato
da ‘l’Etiope è bianco nei denti *» (Logica Hamburgensis, 1638, II, 8, 8). Nello
stesso senso si esprime Wolff che tuttavia distingue la proposizione
restrittiva da quella limitata in quanto la L. si assume ab intrin- seco cioè
dalla parte stessa del soggetto come nel caso dell’enunciato sull’Etiope,
mentre la restri- zione si assume ab extrinseco come nell’enunciato «L'aria è
leggera rispetto ai fluidi » (Logica, $ 1106). Kant ha chiamato L. la terza
categoria della qualità, che è «la realtà unita con la negazione» (Crif. R. Pura,
$ 11), e che corrisponde al giudizio infinito cioè alla proposizione che
afferma un predicato negativo (/bid., $ 9) (v. INFINITO, GIUDIZIO). In tutti
questi casi la L. era considerata come una restrizione applicata al soggetto
della proposizione. W. Hamilton considerò invece la restrizione appli- cabile
al predicato e chiamò L. la restrizione solo in espressioni come « La virtù è
la sola nobiltà + (Lectures on Logic, 2* ediz., pag. 262). LIMITE (gr. népas; lat.
Limes; ingl. Limit; franc. Limite; ted. Grenze).
Aristotele ha perfetta- mente distinti ed enumerati i diversi significati del termine
(Met., V, 17, 1022a 4 sgg.), che sono i seguenti: 1° L’ultimo punto di una cosa
cioè il primo punto al di là del quale non c’è alcuna parte della cosa e al di
qua del quale c’è ogni parte di essa. Oggi questo concetto si esprime dicendo
che il L. è un punto che non può essere raggiunto; o che è una grandezza tale
che la differenza tra essa e gli ele- menti della serie infinita cui appartiene
sia e ri- manga inferiore a ogni grandezza assegnabile (cfr. Perrce, Coll.
Pap., 4.117; JORGENSEN, A Treatise of Formal Logic, III, pag. 87 sgg.). SEGNICA
533 2° La forma di una grandezza o di una cosa che ha grandezza. 3° Il termine:
sia il terminus ad quem o punto di arrivo sia, talvolta, il terminus a quo o
punto di partenza. 4° La sostanza o l’essenza sostanziale di una cosa; giacchè
questo è il L. di conoscenza della cosa e perciò anche della cosa stessa. In
questo senso L. significa condizione. Per Aristotele la condizione della
conoscenza e dell’essere stesso della cosa è la sostanza o essenza necessaria
(v. ESSENZA; SOSTANZA). Al primo significato del termine si connette l’uso che
Kant fece della parola. « Un L., egli scrisse, negli esseri estesi, presuppone
sempre uno spazio che è al di là di una certa superficie deter- minata e la
include in sè; il confine invece non ha bisogno di questo ma è una pura
negazione che qualifica una grandezza, in quanto non è una tota- lità assoluta
e perfetta. Ora la nostra ragione vede, in qualche modo, intorno a sè, uno
spazio per la conoscenza delle cose in sè, sebbene non possa mai averne
concetti determinati e sia puramente limitata ai fenomeni» (Prol., $ 57). In
questo senso Kant, chiamò concetto-limite il concetto di noumeno in quanto
serve «a circoscrivere le pretese della sensi- bilità e perciò di uso puramente
negativo + (Crif. R. Pura; Anal. dei Princ., cap. 3; cfr. Cosa in SÈ). Ciò che
ha L. in questo senso è il finito nel significato 4 del termine. LINGUA (lat.
Lingua; ingl. Language, Tongue; franc. Langue; ted. Sprache). Un insieme
organiz- zato di segni linguistici. La distinzione tra L. e linguaggio è stata
fatta prevalere da Saussure che ha definito la L. come « insieme delle
abitudini lingui- stiche che permettono ad un soggetto di compren- dere e di
farsi comprendere » (Cours de languistique générale, 1916, pag. 114). La L. in
questo senso da un lato è un sistema o struttura (v.) dall’altro suppone una «
massa parlante » che la costituisce come una realtà sociale. Si possono
distinguere due specie di L.: 1° le L. storiche che sono quelle la cui massa
parlante è una comunità storica: per esempio l'italiano, l’inglese, il
francese, ecc.; 2° le L. artificiali che sono quelle la cui massa parlante è un
gruppo distinto da una competenza specifica; e tali sono le L. delle tecniche
particolari (che talvolta, meno propriamente, sono dette linguaggi), r es., la
L. matematica, la L. giuridica, ecc. LINGUA SEGNICA (ingl. Sign Language). Con
questo termine s’intende il linguaggio costituito da gesti il quale, secondo le
cosidette teorie psicolo- giche del linguaggio, costituisce la prima fase di
ogni linguaggio. Wundt ha distinto a questo pro- posito due specie di gesti,
l’indicativo e l’imitativo. Il gesto indicativo sarebbe derivato biologicamente
534 dal movimento di afferrare (Die Sprache, Volkspsy- chologie, I, 2* ediz.,
pag. 129). Sono state anche studiate particolari L. segniche, come quelle dei napoletani
di bassa classe, dei monaci trappisti (che hanno il voto del silenzio), degli
indiani d’America e di alcuni gruppi di sordomuti. LINGUAGGIO (gr. 26y06; lat.
Sermo; inglese Language, Speech; franc. Langage; ted. Sprache). In generale,
l’uso dei segni intersoggettivi. Per intersoggettivi si intendono i segni che
rendono possibile la comunicazione. Per uso si intende: 1° la possibilità di
scelta (istituzione, mutazione, correzione) dei segni; 2° la possibilità di
combi- nazione di tali segni in modi limitati e ripetibili. Questo secondo
aspetto si riferisce alle strutture sintattiche del L., mentre il primo si
riferisce al dizionario del L. stesso. La scienza moderna del L. ha (come si
vedrà) sempre più insistito sull’im- portanza delle strutture linguistiche cioè
delle possibilità di combinazioni che il L. delimita. Elementi come « Socrate »
« uomo 1 «è» «er «tutti » «non», ecc., sono egualmente parole cioè segni in- tersoggettivi,
ma possono entrare in un discorso solo con una funzione determinata: cioè
possono combinarsi con gli altri segni solo in modi che sono limitati e
riconoscibili. Il L. si distingue dalla lingua che è un particolare insieme
organizzato di segni intersoggettivi. La di- stinzione fra L. e lingua è stata
fatta prevalere nella scienza del L. da Ferdinando de Saussure, che l’espri- meva
nel modo seguente: « La lingua è un prodotto sociale della facoltà del L. e
nello stesso tempo un insieme di convenzioni necessarie adottate dal corpo
sociale per permettere l’esercizio di questa facoltà presso gli individui.
Preso nel suo insieme, il L. è multiforme ed eteroclito; a cavallo di domini diversi
— quello fisico, quello fisiologico e quello psichico — esso appartiene anche
al dominio indi- viduale e al dominio sociale; non si lascia classifi- care in
alcuna categoria di fatti umani perchè non si sa come determinare l’unità »
(Cours de /an- guistique générale, 1916, pag. 15). Dal punto di vista generale
o filosofico il problema del L. è il problema della intersoggettività dei segni
cioè del fondamento di questa intersoggettività. Non è che una forma di questo
problema quello della « ori- fine » del L. dibattuto nel sec. xv e nel sec.
xIx: le due soluzioni tipiche di esso non sono infatti che due modi di
garantire l’intersoggettività dei segni linguistici. Che il L. si origini dalla
convenzione significa semplicemente che quella intersoggettività è frutto di
una stipulazione, di un contratto fra gli uomini; e che il L. si origini dalla
natura significa semplicemente che quella intersoggettività è garantita dal
rapporto del segno linguistico con la cosa, o con lo stato soggettivo, cui esso
si riferisce. Si pos- LINGUAGGIO sono distinguere quattro soluzioni
fondamentali del problema della intersoggettività del L. e pertanto quattro
interpretazioni del L.: 1° L. come conven- zione; 2° il L. come natura; 3° il
L. come scelta; 4° il L. come caso. Le prime tre di queste interpreta- zioni
erano state già distinte e contrassegnate da Platone. Le prime due hanno in
comune l’affermazione del carattere necessario del rapporto tra il segno
linguistico e il suo oggetto (quale che sia). La tesi convenzionalistica,
infatti, affermando la perfetta arbitrarietà di tutti gli usi linguistici e
pertanto l’impossibilità di confrontarli e correggerli, riconosce a tutti la
stessa validità. La tesi del carattere naturale del L. è condotta, dall’altro
lato, ad ammettere le medesime conclusioni. Poichè tutti i segni linguistici sono
tali per natura e ognuno è suscitato o prodotto dall’oggetto che esprime, tutti
sono ugualmente va- lidi ed è impossibile confrontarli, modificarli o cor- reggerli.
Entrambe le tesi portano alla conseguenza che è impossibile dire ciò che non è
perchè dire ciò che non è significa non dire. Megarici e Cinici che nella
filosofia greca dei tempi di Platone rap- presentavano le due tesi in
questione, avevano in comune questo teorema fondamentale, ch’essi de- rivavano
(come Aristotele testimonia) dal principio che « niente si può predicare di una
cosa salvo il suo stesso nome», principio che non esprime altro che la
necessità del rapporto tra il segno linguistico e il suo oggetto (Met., V, 29,
1024 b 33; per i Megarici ed in particolare Stilpone cfr. PLUTARCO, Ad Colot.,
23, 1120 a). Sarà facile mostrare che queste tesi caratteristiche delle due dottrine
necessaristiche del L. si ritrovano ugual- mente nelle forme che tali dottrine
hanno assunto nel mondo moderno. 1° L’interpretazione del L. come convenzione ha
avuto origine con gli Eleati. L’inesprimibilità del- l’Fssere (come necessario
e unico) doveva condurli a vedere nelle parole nient'altro che «le etichette delle
cose illusorie » come dice Parmenide (Fr. 19, Diels). Questa concezione sembra
condivisa da Empedocle (Fr. 8-9, Diels); ma solo Demo- crito la giustifica con
argomenti empirici. De- mocrito infatti fonda la tesi della convenziona- lità
su quattro argomenti: l’omonimia, per la quale cose diverse sono designate dal
medesimo nome; la diversità dei nomi per una medesima cosa; la possibilità di
mutare i nomi; e la mancanza di analogie nella derivazione dei nomi (Fr. 26,
Diels). I Sofisti insistevano con Gorgia sulla diversità tra i nomi e le cose e
sulla conseguente impossibilità che attraverso i nomi si comunicasse la
conoscenza delle cose. «Il L., diceva Gorgia, non manifesta le cose esistenti
proprio come una cosa esistente non manifesta la propria natura ad un’altra di
esse + LINGUAGGIO (Fr. 3, 153, Diels). Si è già detto come Stilpone affermasse
il teorema della impredicabilità di una cosa dell’altra: teorema che esprime la
necessità del riferimento del segno linguistico all’oggetto. Ai Megarici faceva
riferimento Platone: «O forse preferisci quel modo che dice Ermogene con molti altri:
cioè che i nomi sono convenzioni e son chiari per quelli che li hanno stipulati
e conoscono le cose cui corrispondono e che questa è la giustezza dei nomi,
sicchè non importa se si convenga secondo quanto si è già stabilito oppure sul
contrario e, per es., di chiamar grande quel che oggi chiamiamo pic- colo 0
piccolo quel che oggi chiamiamo grande? + (Crat., 433 e). Questo
convenzionalismo schietto, che afferma la pura arbitrarietà del riferimento
linguistico, viene perduto da Aristotele in poi e non si presenta di nuovo che
nel pensiero contemporaneo. Aristotele per la prima volta inserisce tra il nome
e il suo designato l’affezione dell’anima cioè la rappresenta- zione o concetto
mentale (o l’idea o la parola interiore o com'altro si chiamerà in seguito) che
scinde ed articola il rapporto tra il nome e il suo designato. L'inserimento di
questo termine con- sente di riconoscere nello stesso tempo la conven- zionalità
del L. e la necessità dei suoi signi- ficati. Aristotele infatti afferma che «
il nome è una voce semantica secondo convenzione + intendendo 4 per convenzione
+ che « nessuno dei nomi è tale per natura ma solo quando è diventato un
simbolo» (De Interpr., 2, 16 a 18; 26-28). Le parole, come suoni vocali o segni
scritti, non sono le stesse per tutti. Esse tuttavia si riferiscono alle «
affezioni dell’anima che sono le stesse per tutti e costituiscono imagini di
oggetti che sono gli stessi per tutti » (/bid., I, 16 a 3-8). Si ha perciò: 1°
gli oggetti sono gli stessi per tutti; 2° le affezioni dell'anima, come imagini
degli oggetti, sono le stesse per tutti; 3° le parole scritte o parlate non
sono le stesse per tutti. Sicchè il rapporto parola-imagine mentale è
convenzionale mentre il rapporto imagine mentale-cosa è naturale. Il primo può
cambiare senza che muti il secondo; e l'immutabilità o necessità del secondo
determina, essa sola, la struttura generale del L. che dipende, non dalla
convenzionalità dei segni ma dalla « unione e separazione» dei segni stessi
cioè dal modo in cui essi sono uniti e separati tra loro. Ciò stabilisce, secondo
Aristotele, il carattere privilegiato del L. apofantico: che è quello in cui
hanno luogo le determinazioni di vero e falso a seconda che l'unione o la
separazione dei segni riproduce 0 meno l’unione o la separazione delle cose.
Aristotele non nega che esistano discorsi non apofantici, per es., la pre- ghiera
(Zbid., 4, 17a 2). Ma, privilegiando il di- scorso apofantico, fa di esso il
vero L., quello sul quale gli altri più o meno si modellano o dal punto 535 di
vista del quale debbono essere giudicati. E
difatti la poetica e la retorica, che si
occupano del L. non apofantico, sono da Aristotele trattate in connessione con
l’analitica. Ora il L. apofantico non ha più nulla di convenzionale: le sue
strutture sono naturali e necessarie perchè sono quelle stesse dell’essere, che
esso rivela. Questo convenzionalismo apparente o zoppo che può combinarsi con
la tesi del carattere apofantico del L. è la forma che il convenzionalismo
assume nel Medio Evo e nell’età moderna. Il nominalismo medievale riprende
appunto in questa forma la tesi convenzionalistica. Ockham, ad es., distingue i
segni « istituiti ad arbitrio a significare più cose + cioè le parole, dai
segni naturali che sono i concetti (Summa Log., I, 14); e questa posizione non
fa che riprodurre sostanzialmente quella aristotelica. Identica è la posizione
di Hobbes il quale, mentre insiste sull’arbitrarietà del segno linguistico,
ritiene che esso sia « una nota con la quale si possa richia- mare nell’anima
un pensiero simile ad un pensiero passato » (De Corp., 2, 4). Questa
corrispondenza tra le parole e i pensieri è assunta da Locke come defi- nizione
della funzione segnica del linguaggio. « Le parole, dice Locke, che di loro
natura erano adatte a questo scopo, vennero impiegate dagli uomini come segni
delle loro idee: non per alcuna connessione na- turale che vi sia tra
particolari suoni articolati e certe
idee, poichè in tal caso non ci sarebbe
fra gli uomini che un solo L., ma per una imposizione volontaria mediante la
quale una data parola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale
idea» (Saggio, III, 2, 1). L'inserimento del « segno natu- rale » o « pensiero
+ 0 «idea +» tra la parola e il suo designato toglie, come si è visto, alla
tesi convenzio- nalistica il suo carattere proprio e l’avvicina alla tesi
opposta, sino a confonderla con essa. Quella tesi si riduce infatti
all’affermazione dell’arbi- trarietà del segno linguistico isolato, della
parola intesa come suono, ma non si estende all’uso vero e proprio delle parole
(nel quale propriamente consiste il L.) e pertanto alle regole di quest’uso. Essa
equivale a dire, per es., che nel gioco degli scacchi è indifferente chiamare
pedina la torre o torre la pedina, ma che è necessario che un certo pezzo
(pedina o torre) si usi in un modo e che un altro (torre o pedina) si usi in un
altro modo. Il linguaggio è il gioco di scacchi che, in questo caso, si
dichiara necessario: la convenzionalità delle parole cioè dei semplici suoni
articolati non diminuisce tale necessità. Pertanto il ripristino della tesi
classica del conven- zionalismo si ha soltanto con l’eliminazione di qualsiasi
intermediario tra il segno linguistico e il suo designato; o in altri termini
con la dichiarazione di arbitrarietà non dei suoni isolati ma dell'uso di 536 tali
suoni e cioè delle regole che lo limitano. Questa è stata la posizione del
Wittgenstein della seconda maniera (nelle Philosophische Untersuchungen). Wittgenstein ha ammesso
l’arbitrarietà e perciò l’equivalenza di tutti i « giochi linguistici » in uso,
ammettendo che tali giochi possono avere caratteri e regole diversissime sicchè
anche chiamarli tutti insieme « L.» non significa altro che essi hanno l’uno
con l’altro relazioni differenti (Philosophical Investigations, I, 65). Da
questo punto di vista ritor- nano le tesi classiche del convenzionalismo; e in primo
luogo l’impossibilità di rettificare il L., per cui L. dev’essere dichiarato
sempre vero e perfetto 0, come Wittgenstein preferisce, in ordine: « È chiaro che
ogni enunciato del nostro L. è in ordine come esso è. Cioè, noi non stiamo
perseguendo un ideale come se i nostri enunciati ordinariamente vaghi non
avessero ancora raggiunto un senso inecce- pibile e come se un L. perfetto
aspettasse di essere costruito da noi. Dall’altro lato, sembra chiaro che dove
c’è senso ci dev'essere ordine perfetto. Così ci dev'essere ordine perfetto
nella più vaga delle proposizioni + (Zbid., I, 98). Da questo punto di vista
l’ideale linguistico, la lingua perfetta è qualcosa di già esistente nell’uso.
« L'ideale, dice Wittgenstein, deve essere trovato nella realtà. Finchè non
abbiamo ancora veduto come si trova in essa, non comprendiamo la natura di
questo deve. Pensiamo che dev'essere nella realtà perchè pensiamo di averlo già
veduto » (/bid., 101). Questo punto di vista si può dire coincida con quello di
Carnap. Il « principio di tolleranza » o « di conven- zionalità +, stabilito da
Carnap, esprime la perfetta equivalenza dei sistemi linguistici. « In logica,
dice Carnap, non c’è morale. Ciascuno può costruire come vuole la sua logica
cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi, deve solo indicare
come lo vuol fare, e dar regolazioni sintattiche invece di argomenti filosofici
» (Logica! Syntax of Language, $ 17). Da questo punto di vista la stessa
costruzione di un L. ideale o perfetto è fatto sulla base di ciò che un certo
tipo di L. è in linea di fatto. «I fatti, dice Carnap, non determinano se l’uso
di una certa espressione sia corretto o sbagliato ma soltanto quanto
frequentemente porta all’effetto cui tende e simili. Una questione intorno a
ciò che è corretto o sbagliato deve sempre riferirsi a un sistema di regole. A
stretto rigore, le regole che elencheremo non sono regole del L. B, come è dato
di fatto, costi- tuiscono piuttosto un sistema linguistico in corri- spondenza
con 2 che chiameremo il sistema seman- tico B-S. Il L. B appartiene al mondo
dei fatti... Invece il sistema linguistico B-S è qualcosa di costruito da noi;
ha tutte e sole quelle proprietà che stabiliamo mediante le regole. Tuttavia
noi costruiamo 8-S non arbitrariamente ma con ri- LINGUAGGIO guardo ai fatti di
8. Quindi possiamo fare l’affer- mazione empirica che il L. B è in una certa
misura in armonia con il sistema B-S» (Foundations of Logic and Mathematics, I,
4). Il sistema seman- tico B-S ha perciò, secondo Carnap, le seguenti proprietà:
1° costituisce il criterio in base al quale si può giudicare della correttezza
o meno del L. B; 2° le regole di B-S non sono convenzionali perchè sono scelte
sulla base di dati di fatto forniti da 8. Carnap pertanto ammette
contemporaneamente la tesi della convenzionalità dei L. e la tesi della naturalità
dei sistemi semantici cioè dei L. perfetti. 2° La dottrina che il L. sia « per
natura» e che il rapporto tra il L. e il suo oggetto (quale che sia) venga
stabilito dall’azione causale di quest’ul- timo è anch’essa caratterizzata dal
riconoscimento della necessità del rapporto semantico. Mentre la precedente
dottrina affermava che il rapporto se- mantico è sempre esatto perchè è in ogni
caso istituito ad arbitrio, la dottrina in esame afferma che è sempre esatto
perchè sfugge all’arbitrio ed è istituito dall’azione causale dell’oggetto.
Questa tesi si può far risalire ad Eraclito (Fr. 23, Diels; 114, Diels); ma
esplicitamente fu esposta dai Cinici, e specialmente da Antistene, il cui punto
di vista è espresso da Cratilo nel dialogo omonimo di Pla- tone: « Le cose
hanno i nomi per natura ed è arte- fice di nomi non uno qualsiasi ma solo colui
che guarda al nome che per natura è proprio di ciascuna cosa e che è capace di
esprimere la specie di essa in lettere e sillabe» (Crar., 390d-e). Sappiamo d’altronde
che Antistene aveva definito il L. di- cendo che è «quello che manifesta ciò
che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3); e che traeva da questa dottrina le stesse
conseguenze che i Megarici con Stilpone traevano dalla tesi della
convenzionalità: e cioè che « è impossibile contraddire o anche dire il falso »
(ARIST., Met., V, 29, 1024 b 33). Questa di Antistene è tuttavia una soltanto
delle forme che la dottrina in esame può assumere ed ha assunto nel corso della
sua storia. Queste forme sono di- stinguibili sul fondamento del tipo di
oggetto che si assume come designato dal linguaggio. Tutte le forme di questa
dottrina asseriscono che il L. è apofantico cioè in qualche modo rivelativo del
suo oggetto; esse differiscono tra loro nel deter- minare il tipo di oggetto
che il L. rivelerebbe in modo primario o privilegiato. Si possono così distinguere:
a) la teoria dell’interiezione; b) la teoria dell’onomatopeia; c) la teoria
della metafora; d) la teoria dell’immagine logica. a) La teoria
dell’interiezione che fu detta da Max Miiller (Lectures on the Science of
Language, 1861, cap. 9; trad. ital., pag. 363) teoria del pu/-puh è stata
esposta per la prima volta da Epicuro: « Le parole, egli disse, non sono in
principio create LINGUAGGIO per convenzione; ma è la stessa natura umana che, influenzata
da determinate emozioni e in vista di determinate imagini, fa sì che gli uomini
emet- tano l’aria in modo appropriato alle singole emo- zioni ed imagini. Le
parole sono dapprima diverse per la diversità delle genti, che dipende anche
dai luoghi; ma poi vengono rese comuni affinchè i loro significati siano meno
ambigui e più rapida- mente comprensibili » (Dioc. L., X, 75-76). Lu- crezio
esprimeva più succintamente lo stesso con- cetto: «La natura costrinse gli
uomini a emettere i vari suoni del L. e l’utilità condusse a dare a ciascuna
cosa il suo nome» (De nat. rer., V, 1027-28). In tempi moderni la dottrina è
stata ripresa da Condillac (Sur l’origine des connaissances humaines, 1746, I,
$ 1 sgg.) ed esposta nel modo più brillante da Rousseau. « Il primo L.
dell’uomo, diceva quest’ultimo, il L. più universale e più energico e il solo
di cui aveva bisogno prima che gli occorresse di persuadere uomini riuniti, è
il grido di natura. Poichè questo grido era strappato da una specie d’istinto
nelle occasioni pressanti, per implorare soccorso nei grandi pericoli o sol- lievo
nei mali violenti, esso non era di grande uso nel corso ordinario della vita in
cui regnano senti- menti più moderati. Quando le idee degli uomini cominciarono
ad estendersi e moltiplicarsi e si sta- bill tra essi una comunicazione più
stretta, e si cercarono segni più numerosi e un L. più esteso, essi
moltiplicarono le inflessioni della voce e vi aggiunsero i gesti che, per loro
natura sono più espressivi e di cui il senso dipende meno da una determinazione
anteriore » (De /’inépalité parmi les hommes, I; cfr. pure il saggio «
Sull’origine delle lingue », in (Euvres, 1877, vol. I). Ma il problema in cui
questa dottrina si urta è proprio quello del passaggio da una lingua costituita
da semplici gridi o interiezioni a una lingua oggettiva, costituita da termini
generali o astratti. Ancora nel mondo mo- derno non è mancato chi ha visto
nell’interiezione l'origine di quei suoni che, gradualmente purificati e
organizzati, si trasformarono in vero e proprio linguaggio. Così pensava, ad
es., O. Jespersen (Lan- guage, its Nature, Development and Origin, 1923, pag.
418 sgg.) e più rigorosamente la stessa tesi è stata presentata da Grace de
Laguna che ha cercato di definire meglio il passaggio dall’interiezione al L. come
un processo di oggettivazione, per il quale alle espressioni emotive si vengono
via via sostituendo gli aspetti percepiti delle situazioni effettive (Speech, its
Function and Development, 1927, pag. 260 sgg.). Ma ciò che riesce difficile a
comprendersi è per l'appunto questo processo di oggettivazione e pu- rificazione
dei gridi emotivi: tanto più che lc stesse dottrine che si appellano ad essi
hanno messo in luce ed esplicitamente riconosciuta la differenza 537 fra le
parole e le interiezioni (che non si distinguono dai gridi animali) nonchè il
fatto che le parole si affermano a danno delle interiezioni. b) La teoria
dell’onomatopeia, che Max Miiller (Lectures on the Science of Language, 1861, cap.
9) chiamò teoria del bau-bau, è quella che afferma che le radici linguistiche
sono imita- zioni di suoni naturali. La teoria era conosciuta da Platone; il
quale la critica osservando che, « in tal caso, coloro che rifanno il verso
delle pecore, dei galli e degli altri animali darebbero il nome agli animali di
cui contraffanno la voce» (Crar., 423 c). La teoria fu difesa da Herder nel suo
7rat- tato sull'origine del L. (1772): egli considerò i suoni naturali (per
es., il belare di un agnello) come i segni di cui l’anima si avvale per ricono-
scere l’oggetto in questione. « Il suono del belare, notato come contrassegno
distintivo, diventa il nome dell’agnello. Il contrassegno compreso per il quale
l’anima si riflette chiaramente in un’idea, è la parola. E che cos’è l’intero
L. umano se nonun insieme di tali parole?» (Werke, ed. Suphan, V, pag. 36-37). La
principale obiezione contro questa dottrina è stata portata dai glottologi: non
è vero che l'origine di tutte le radici linguistiche è onomatopeica. Neppure
nella formazione dei nomi degli animali, nella quale il principio onomatopeico si
potrebbe presumere più efficace, esso ha vera- mente una funzione dominante.
Contro di esso sta poi l’obiezione filosofica, che già Platone avan- zava, che
altro è l’imitazione di un suono, altro è l'imposizione di un nome. Tuttavia,
il principio dell’onomatopeia è stato molte volte utilizzato dai glottologi per
spiegare la formazione delle parole originali in questa o quella lingua e il
loro distri- buirsi in gruppi distinti. Lo stesso Cassirer ammette come prima
fase dell’espressione linguistica uno stadio mimetico nel quale «i suoni
sembrano avvi- cinarsi all’impressione sensoria e riprodurre la sua diversità
il più fedelmente possibile» (Phil. der symbolischen Formen, 1923, I, cap. 2, $
2; tradu- zione ingl., pag. 190). c) La terza forma della dottrina della natu- ralità
del L. è quella che lo considera come meta- fora. Le tesi caratteristiche in
cui si esprime questa teoria sono le seguenti: 1° il L. non è imitazione ma
creazione. Questa tesi distingue questa teoria da quella onomatopeica; 2° la
creazione linguistica mette capo non a concetti o termini generali ma a
imagini, che sono sempre individuali o parti-
colari; 3° ciò che la creazione
linguistica esprime non è un fatto oggettivo 0 razionale ma soggettivo o
sentimentale; e questo è propriamente l’oggetto del linguaggio. Con queste
caratteristiche la teoria fu espressa per la prima volta da Vico; il quale affermò
che «il primo parlare» non fu «un par- 538 lare secondo la natura delle cose »
ma « un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate
divine » (Scienza Nuova, II, Della logica poetica). I primi poeti, secondo
Vico, dettero «i nomi alle cose dalle idee più particolari e sensibili; che sono
le due fonti, questa della metonimia e quella della sineddoche» (Ibid,
Corollari d’intorno ai tropi, 2). Di conseguenza i primi uomini conce- pirono
l’idea delle cose « per caratteri fantastici di sostanze animate e mutoli »; e
si spiegarono « con atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee (quanto,
per es., lo hanno l’atto di tre volte fal- ciare o tre spighe per significare
tre anni) ». Questo, secondo Vico, è facile a osservarsi nella lingua la- tina,
«che quasi tutte le voci ha formate per tra- sporti di nature o per proprietà
naturali o per effetti sensibili »; ma « generalmente la metafora fa il maggior
corpo delle lingue appo tutte le nazioni + (Ibid., Corollari d’intorno ai
tropi, 2). Espressa in forma assai più immaginifica, questa teoria si ritrova
nello Hamann secondo il quale il L., che è «l’organo e il criterio della
ragione +, non è una semplice collezione di segni ma «il simbolo e la rivelazione
della stessa vita divina» (Schriften, II, 19, 207, 216). Nel sec. xtx la teoria
della metafora, anche senza l’impostazione metafisica o teologica con cui
compare in Haman è il tratto comune delle dottrine che sono state chiamate del
din-don cioè del carattere risonante della natura umana. Così Max Miller
affermava che il L. è il prodotto di una «facoltà creativa la quale dà a
ciascuna impressione, nel modo che penetra per la prima volta nel cervello,
un’espressione fonetica +; e che i fonemi così creati vengono poi selezionati e
com- binati naturalmente attraverso il processo storico di formazione del L.
stesso (Lectures, cit., 9; trad. ital., pag. 394). ll carattere metaforico del
L., consi- stendo nel ricorso a termini ambigui od equivoci, favorisce (secondo
questa teoria) l’origine e la for- mazione del mito. « Nel L. umano, ha detto
F. Max Milller è impossibile esprimere idee astratte se non sotto metafora e
non si esagera dicendo che l’in- tero dizionario dell’antica religione era
fatto di metafore... Di qui una sorgente continua di equivoci molti dei quali
sono consacrati nella mitologia e nella religione del mondo antico»
(Contributions on the Science of Mythology, 1897, I, 68 sgg.). Questa
connessione del L. con il mito era già stata fatta da Vico che, per di più, non
aveva equiparato ad una malattia del L. la formazione del mito. Le dottrine
moderne del mito (v.) negano questa equiparazione, ma mantengono la connes- sione
del mito col linguaggio. In senso analogo Croce ha stabilita la connessione del
L. con l’arte in generale. Il L. ha, per Croce, natura fantastica o metaforica
ed è quindi legato più strettamente con LINGUAGGIO la poesia che con la logica.
« L'uomo, dice Croce, parla a ogni istante come il poeta, perchè come il poeta
esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti nella forma che si dice di
conversazione o familiare, e che non è separata per nessun abisso dalle altre forme
che si dicono prosastiche, prosastico-poetiche, narrative, epiche, dialogate,
drammatiche, liriche, meliche, cantate, e via enumerando » (Breviario di estetica,
1913, II). Un abisso c’è tuttavia (e Croce lo ha affermato più tardi) tra
l'espressione poe- tica che placa e trasfigura il sentimento ed è perciò un
conoscere, dagli altri tipi di espressione (o sen- timentale o prosastica) che,
vincolati strettamente al sentimento e all’idea, non operano quella tra- sfigurazione
che è propria dell’espressione autentica e pertanto non possono neppure dirsi
linguaggio. Fsse sono, secondo Croce soltanto «suoni artico- lati » (La poesia,
1936, pag. 9 sgg.). Questa con- clusione cui Croce, non senza coerenza, ha
condotto la teoria in esame, mostra i limiti della teoria stessa. Questa si
trova nell’incapacità di spiegare il pas- saggio dal L. metafora al L.
concettuale, dal L. che è grido o gesto o altro « carattere poetico + (secondo l’espressione
di Vico) al L. che è struttura, organiz- zazione e regola. d) La quarta forma
della dottrina della natu- ralità del L. è quella che lo considera come la espressione
o l’imagine dell’essenza o dell’essere delle cose. Questa dottrina è assai
antica perchè la sua prima manifestazione è la teoria di Anti- stene secondo la
quale « il L. è quello che manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3). Gli
Stoici a loro volta affermarono che « parlare significa pronunziare un suono
che significa l’oggetto pen- sato » (Sesto E., Adv. Math., VIII, 80). La carat-
teristica di questa dottrina è che essa porta la sua attenzione non tanto sui
singoli segni o parole ma sulle loro connessioni sintattiche cioè sulle regole del
loro uso nelle proposizioni e nei ragionamenti e pertanto sulle strutture
formali del linguaggio. A questo indirizzo appartiene propriamente la teoria
che abbiamo chiamato del convenzionalismo apparente o zoppo: cioè la teoria
che, mentre i singoli segni linguistici sono scelti ad arbitrio, i loro modi di
combinarsi non sono arbitrari ma naturali e necessari perchè corrispondono ai
modi di combinarsi dei concetti mentali che a loro volta corrispondono ai modi
di combinarsi delle cose. Questa teoria, avanzata da Aristotele, è stata ri- prodotta
più volte dall’empirismo moderno e con- temporaneo (v. sopra). In questa forma
la dottrina è caratterizzata dall’inserzione, tra il segno lin- guistico e la
cosa, del concetto mentale, attraverso il quale lo stesso segno linguistico,
nei suoi modi di combinazione, viene a partecipare della necessità oggettiva
delle cose. Un fondamento analogo ha LINGUAGGIO l’affermazione della naturalità
del L. fatta da Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1808) dove si afferma
che «esiste una legge fondamentale se- condo cui ogni concetto assume,
attraverso gli organi, un suono; quello e non un altro» (IV; trad. ital.,
Allason, pag. 78), o quella di Hegel che «il L. dà alle sensazioni, intuizioni
e rappre- sentazioni una seconda esistenza, più alta di quella immediata,
un’esistenza in universale, che ha vigore nel dominio della rappresentazione +»
(Enc., $ 459). Ma la tesi della naturalità del L. è stata ripresa nella sua
forma rigorosa e perciò nei suoi teoremi classici soltanto ad opera della
logica matematica contemporanea. Questa difatti ha riaffermato il principio di
una corrispondenza di termine a ter- mine tra i segni linguistici e le cose,
principio che i Cinici avevano espresso dicendo che il L. è ciò che manifesta
quello che una cosa era od è. Questo principio che fa del L. la riproduzione
pittorica della realtà o in generale dell’essere, è stato dapprima difeso da
Russell ma ha trovato la sua formulazione più rigorosa nel Tractatus
logico-philosophicus (1922) di Wittgenstein. Il principio veniva esposto da
Russell nella forma seguente: «In ogni proposizione che possiamo apprendere
(cioè non solo in quelle la cui verità o falsità possiamo giudicare ma in tutte
quelle che possiamo immaginare) tutti i costituenti sono realmente entità di
cui abbiamo conoscenza diretta » (€ On Denoting », 1905, ora in Logic and
Knowledge, 1956, pag. 56; cfr. Mysticism and Logic, 1918, pag. 219, 221; The
Problems of Philosophy, 1912, pag. 91). Questo vuol dire che ad ogni termine
adoperato nelle proposizioni deve corrispondere un termine o entità oggettiva
di cui si abbia conoscenza diretta (acquaintance): o che dev’esserci una corri-
spondenza di termine a termine fra gli elementi che entrano a comporre le
proposizioni e le entità di cui si ha conoscenza diretta. Russell osserva a
questo proposito che « dobbiamo attribuire un signi- ficato alle parole che
usiamo se vogliamo parlare con qualche significato e non per pura chiacchera; e
il significato che attribuiamo alle parole dev’essere qualcosa di cui abbiamo
già conoscenza» (Problems of Phil., pag. 91). Questa è semplicemente la ripre-
sentazione della tesi di Antistene secondo la quale parlare significa dire
qualcosa e precisamente qual- cosa che è, sicchè non si può dire ciò che non è:
con l’aggiunta che ciò che è, vale a dire le entità corrispondenti ai termini
del L., dev'essere « diret- tamente conosciuto ». Russell fondava su questo
principio la sua teoria della denotazione: secondo la quale « quando c’è
qualcosa di cui non abbiamo conoscenza immediata ma solo una definizione per
mezzo di frasi denotanti, le proposizioni nelle quali questa cosa è introdotta
per mezzo di una frase denotante non contengono realmente la cosa 539 come
costituente ma contengono invece i costi- tuenti espressi dalle diverse parole
della frase denotante » (€ On Denoting +, /bid., pag. 55-6). Così ad es.,
poichè non abbiamo diretta esperienza dello spirito degli altri, noi non
conosciamo, se A è uno di tali spiriti, che « A ha questa e quella proprietà 1;
ma conosciamo soltanto che « Tal dei Tali ha uno spirito che ha questa o quella
proprietà ». Tuttavia, se un linguaggio ideale ci potesse essere, esso do- vrebbe
contenere unicamente elementi costitutivi ultimi sicchè in esso « non ci
sarebbe che una parola e non più di una per ogni oggetto semplice ed ogni cosa
che non fosse semplice sarebbe espressa da una combinazione di parole, ciascuna
delle quali sta- rebbe per una cosa semplice » (« The Phil. of Logical Atomism+,
Logic and Knowledge, pag. 197-98). Secondo Russell il L. dei Principia
Mathematica mira ad essere un L. di questa specie: in esso c’è solo sintassi e
niente vocabolario (/b., pag. 198). E ciò lo rende uguale al L. proposto dai
dotti dell’Accademia di Lagado di cui parla Swift nei Viaggi di Gulliver. Essi
proponevano di abolire le parole perchè « dal momento che le parole sono solo
nomi per le cose, sarebbe più comodo per tutti gli uomini portare con loro le
cose che sono ne- cessarie a esprimere le particolari faccende di cui intendono
discorrere +. Questi saggi portavano perciò con loro sacchi pieni di oggetti e
facevano conver- sazione mostrandosi reciprocamente gli oggetti stessi (Gulliver’s
Travels, III, cap. 5). Lo stesso ideale è stato espresso da Wittgenstein (prima
maniera) con formule semplici e precise. Eccone alcune: «Il nome significa
l’oggetto: l’og- getto è il suo significato » (Tractatus, 3.203). « Alla configurazione
dei segni semplici nella proposizione corrisponde la configurazione degli
oggetti nella si- tuazione +» (/bid., 3.21). « Il nome è il rappresentante dell'oggetto
nella proposizione » (/bid., 3.22). Witt- genstein ha espresso con tutta la
chiarezza deside- rabile il concetto del linguaggio (che non è altro che «la
totalità delle proposizioni +, /bid., 4.001) come raffigurazione pittorica del
mondo. « A prima vista, egli dice, non sembra che la proposizione, così come,
ad es., è stampata sulla carta sia un’imagine della realtà di cui tratta. Ma
anche la notazione musicale non sembra a prima vista un'imagine della musica nè
la nostra scrittura fonetica (a let- tere) sembra un’imagine del nostro L.
parlato. Eppure questi simboli si dimostrano anche nel senso ordinario del
termine, imagini di ciò che rappresentano » (/bid., 4.011). Buona parte
dell’em- pirismo logico e in generale della filosofia contem- poranea condivide
o ha condiviso questa dottrina del L. come imagine logica del mondo.
L'obiezione fondamentale contro di essa è stata bene espressa da Max Black: «
Non c’è motivo che il L. debba 540 ‘ corrispondere * o © assomigliare * al ‘
mondo * più che non vi sia motivo che debba assomigliare al mondo il telescopio
con cui l’astronomo lo studia » (Language and Philosophy, V, 4; trad. ital.,
pag. 173). È interessante constatare che all’altro estremo della filosofia
contemporanea, cioè all’estremo me- tafisico o ultra-metafisico, si ha un
concetto analogo del linguaggio. Heidegger non ammette certo la corrispondenza
di termine a termine tra gli elementi del L. e gli elementi dell’essere; ma
afferma tuttavia, con energia uguale a quella di Wittgenstein, il carat- tere
apofantico del L. rispetto alla totalità dell’essere. In questo senso egli ha
chiamato il L. «la casa dell’essere ». Ed ha aggiunto: « Discorrere di casa dell'essere
non significa per nulla trasferire l’imma- gine della casa all’essere; un
giorno ci sarà possibile, muovendo da un adeguato pensamento dell’es- senza
dell'essere, giungere a comprendere che cosa significhino casa ed abitare («
Brief liber den Huma- nismus », in P/atos Lehre von der Wahrheit, 1947, pag.
112). In altri termini il L. è l'immediata rivela- zione dell'essere; e l’uomo
accede all’essere attra- verso il linguaggio. 3° La terza dottrina fondamentale
del L. è quella che lo interpreta come uno strumento, cioè come un prodotto di
scelte ripetute e ripetibili. Questa dottrina è stata per la prima volta
presentata da Platone. Di fronte alle due tesi opposte della con- venzionalità
e della naturalità del L., Platone evita, nel Cratilo, di decidere in favore di
una di esse. «A me piace, egli dice, che, per quanto è possibile, i nomi siano
simiglianti alle cose; ma io temo che, per dirla con Ermogene, questa
attrazione della simiglianza ci porti su di un terreno sdrucciolevole e che
perciò sia necessario servirci anche di un mezzo un pò grossolano, cioè della
convenzione, per renderci conto della giustezza dei nomi » (Crat., 435 c). I
nomi dei numeri, ad es., difficilmente si potrebbero, secondo Platone, ritenere
naturali nel senso di essere simili a ciò che indicano. Ma se nè la convenzione
nè la natura cioè nè la dissimiglianza tra la parola e la cosa nè la
simiglianza costituisce il significato, che cosa in ogni caso lo costituisce? L'uso.
Dice Platone: « Se l’uso non è una conven- zione, sarebbe meglio dire che non
la somiglianza è il modo in cui le parole significano ma piuttosto l’uso:
questo infatti, a quanto sembra, può signi- ficare sia mediante la simiglianza
sia mediante la dissimiglianza » (Crar., 435a-b). Platone ha qui espresso una
tesi fondamentale della linguistica moderna: è soltanto l’uso che stabilisce o
per dir meglio costituisce il significato delle parole. Ma questa tesi
presuppone l’altra, del carattere strumen- tale del linguaggio: tesi,
quest’ultima, che Platone ha espresso dicendo che il L. è uno strumento e che,
come tutti gli strumenti, dev'essere adatto allo LINGUAGGIO scopo (Crar. 387
a). Da questo punto di vista, l’uso è la scelta ripetuta o convalidata che ha
condotto a forgiare un determinato strumento linguistico; e come tutti gli
altri strumenti, così pure gli strumenti linguistici possono riuscire più o
meno perfetti e adeguati allo scopo. Si giustifica così quello che, secondo
Platone, è il fondamentale teorema filosofico intorno al L.: la fallibilità del
L. stesso, la possibi- lità di dire ciò che non è (Sof., 261 b). La caratte- ristica
comune delle due dottrine precedenti è, come si è visto, la negazione di questo
teorema. La tesi della convenzionalità esclude che il L. possa includere
l’errore perchè una convenzione non può avere che lo stesso valore di un’altra.
La tesi della naturalità esclude che il L. possa includere l’errore perchè deve
riconoscere che il L. rappresenta, in ogni caso, ciò che è ed è quindi sempre
nel vero. Entrambe le tesi escludono che il L. si possa giudi- care o che abbia
un senso il giudizio sulla sua cor- rettezza. La tesi del L. come operazione,
uso, scelta, include invece questa possibilità giacchè vede in esso il prodotto
di operazioni dirette a costituire uno strumento efficace e considera come non
infallibile la riuscita di queste operazioni. Il fondamento oggettivo di quella
possibilità è che «il discorso nasce dalla unione reciproca delle specie »
(.Sof. 259 d) e che le specie non sono nè tutte insieme unite nè tutte
disgiunte, ma alcune possono unirsi e altre no. Le possibilità del L. sono pertanto
limitate dalle possibilità di combinazione delle specie o forme dell’essere
(Sof., 262 c). Questa posizione platonica veniva riprodotta da Leibniz. «Io so,
egli diceva, che si suol dire nelle scuole e dappertutto che i significati
delle parole sono arbitrari (ea instituto) ed è vero che non sono determinati
da una necessità naturale, ma lo sono tuttavia per opera di ragioni naturali,
in cui il caso ha la sua parte, e talvolta morali, in cui entra una scelta »
(Nouv. Ess., III, 2, 1). Herder partiva dalla stessa considerazione preliminare
e definiva come astrazione la scelta che si fa di una qualità dell’oggetto allo
scopo di nominarlo. « L’uomo mette in atto la riflessione non solo quando percepisce
tutte le qualità di un oggetto vividamente e con chiarezza ma anche quando può
riconoscere una o più qualità come qualità distintive... E con quali mezzi
effettua questo riconoscimento? Attra- verso la sua capacità di astrazione »
(Werke, ed. Suphan, V, pag. 35). È in questa tradizione che Humboldt formulò
quella dottrina del L. che doveva avere così vasta influenza sulla scienza
moderna del linguaggio. La formazione degli strumenti linguistici è difatti, da
questo punto di vista, la for- mazione di connessioni, di symploké (come diceva
Platone) e pertanto il L. non è un complesso ato- mistico di parole, ma è
discorso organizzato. LINGUAGGIO 541 Humboldt esprimeva chiaramente questo
concetto. « Non possiamo concepire il L., egli diceva, come avente inizio dalla
designazione degli oggetti me- diante le parole e come procedente in un secondo
tempo alla organizzazione delle parole stesse. In realtà, il discorso non è
composto da parole che lo precedono, ma al contrario le parole prendono origine
dall’intero discorso» (« Einleitung zum Kawi-Werk », Werke, VII, 1, pag. 72
sgg.). Pertanto la comunicazione non è effettuata dalla singola parola ma dalle
frasi e solo queste sono gli strumenti particolari di cui è formato il L.
(/bid., pag. 169 sgg.). Queste idee hanno dominato e continuano a domi- nare la
scienza del linguaggio. Esse si trovano incorporate negli stessi concetti di
cui questa scienza si avvale, per es., nel concetto di fonema. Un fonema è
«l’unità minima dotata di caratteristiche sonore distintive» ed è pertanto
un’unità di significato non di suono (BLOOMFIELD, Language, 1933, 5.4). Ogni
lingua sceglie i suoi fonemi; ma questa scelta non può essere qualificata nè
come « casuale + o «arbitraria » e neppure come « naturale » o « ne- cessaria
»: perchè una scelta condiziona o limita le altre e ogni gruppo o serie di esse
è condizionata dall’esigenza dell’efficacia comunicativa del lin- guaggio. I
fonemi possono pertanto essere ridotti a tipi che la scienza del L. si propone
di determinare. Le determinazione di questi tipi fornisce il fonda- mento delle
scelte che costituiscono le strutture fondamentali del L., e perciò spiega, in
qualche misura, tali strutture, senza che ne giustifichi la perfezione o
l’infallibilità. Nella linguistica contem- poranea, la concezione del L. come
strumento è sostenuta specialmente dai funzionalisti, che vedono nel L. «uno
strumento di comunicazione» per il quale l’esperienza umana si analizza in
unità o monemi che hanno un contenuto semantico o una forma fonica: questa
forma fonica a sua volta si articola in unità distinte e successive, « fonemi,
la cui natura e i cui rapporti variano da lingua a lingua » (MAR- TINET, A
Functional View of Language, 1962, cap. I). 4° La quarta concezione del L., che
è quella che abbiamo chiamata del caso, è in realtà una specifi cazione della
terza o per meglio dire è una prospet- tiva di studio aperta dalla terza
concezione. Questa prospettiva è costituita dallo studio statistico del linguaggio.
È noto che azioni che sono individual- mente mutevoli e imprevedibili
presentano unifor- mità e costanza se considerate in gran numero. Non si può
certo prevedere se una particolare per- sona si sposerà l'anno venturo, ma si
può prevedere con sufficiente approssimazione il numero delle persone che si
sposeranno l’anno venturo in una determinata comunità sulla base delle
statistiche degli ultimi anni. Allo stesso modo si possono stu- diare le
frequenze statistiche con la quale espressioni determinate ricorrono in una
comunità sufficiente- mente vasta: cioè si possono fissare certe costanti statistiche
del L. e assumerle come base per lo studio delle strutture linguistiche.
Certamente tale indagine statistica non è indispensabile per lo studio di massa
del linguaggio. C'è anche l’altro metodo, che è
quello dell’osservazione sociologica, per
la quale l’osservatore linguistico può, partecipando alla vita di una comunità,
descriverne gli usi linguistici. Questo è anzi il metodo prevalentemente
seguito sin ora dai glottologi, i quali solo raramente, e quasi esclusivamente
nei confronti di opere letterarie, hanno fatto ricorso al metodo statistico. Si
può ricordare a questo proposito l’opera di Lutoslawski sullo stile di Platone
(The Origin and Growth of Plato’s Logic, 1897) che riuscì a porre su nuova e più
sicura base la cronologia degli scritti platonici. Ma non mancano oggi proposte
di un ricorso siste- matico al metodo statistico in vista della soluzione di
tutti i problemi della linguistica strutturale. Dice a questo proposito G.
Herdan: « Se consideriamo la lingua come il totale dei segni linguistici più la
loro probabilità di ricorrere nel discorso individuale e perciò come i vari
modi nei quali l’evento segno può accadere insieme con le relative frequenze
dei differenti segni nell’uso effettivo, la concezione risponde a tutte le
esigenze di quella che si chiama la popolazione statistica di tali eventi o il
loro uni- verso statistico. Ogni enunciato individuale (la parole nella
terminologia di de Saussure) compie l’ufficio di campione di quella
popolazione» (Language as Choice and Change, 1956, 1.3). Da questo punto di vista,
se si esaminano testi differenti di una stessa lingua si trova per esempio che
le frequenze relative con le quali un particolare fonema è stato usato dagli scrittori
sono su per giù le stesse. Questo autorizza a considerarle come fluttuazioni
della probabilità costante di quel particolare fonema in quel lin- guaggio. E
questo significa che il parlatore o scrit- tore obbedisce a certe leggi del
caso e che solo quando si considerano grandi masse di forme linguistiche si ha
l’impressione di una determinazione causale nel loro uso. In altri termini
avverrebbe qui ciò che accade nella fisica per la quale il determinismo macroscopico
è soltanto l’effetto di una considera- zione di massa degli eventi
microscopici. I sostenitori di questa concezione del L. affermano pertanto che ciò
che dal punto di vista intuitivo appare nel L. come una relazione di causa ed
effetto (la determi- nazione delle scelte linguistiche) è, dal punto di vista
quantitativo, soltanto caso. La teoria pertanto spiega le differenze fra i
testi non con l’intenzione dei parlanti o con un determinismo causale ma con le
leggi statistiche del caso (HERDAN, op. cif., 1.4; C. E. SHanNON and W.
WerAVER, The Mathematical Theory of Communication, Urbana, 1949). 542
LINGUAGGIO, Questo punto di vista da un lato ha reso pos- sibile la ricerca di
una grammatica generativa cioè di un «sistema di regole che in qualche modo
esplicito e ben definito, assegnino
descrizioni strut- turali agli enunciati» (CHomsky, Aspects of Theory of
Syntax, 1965, pag. 8). Dall'altro lato, ha reso possibile, nello studio del L.,
l’uso dei modelli (v. MopetLo) che qualche volta sono considerati come
costituenti la stessa realtà sistematica del L. (Sapir, Language, 1921) e
talaltra come costrutti cioè come strutture ipotetiche opportunamente co- struite
(REZvIN, Models of Language, 1966, $ 2). V. STRUTTURA; STRUTTURALISMO. LINGUAGGIO,
ANALISI DEL. V. Empi- RISMO LOGICO. LINGUAGGIO CHIUSO. V. Lingcuaggio- OGGETTO.
LINGUAGGIO FORMALIZZATO. V. Si- STEMA LOGISTICO. LINGUAGGIO-OGGETTO (ingl.
Object- Language). Questa nozione nasce corrispondente- mente a quella di
metalinguaggio (v.) ogni qualvolta si assume che un L. è «semanticamente chiuso
» cioè non contiene, in aggiunta alle sue espressioni, anche i nomi di queste
espressioni o termini (come «vero» e «falso +) che si riferiscano ad esse. In tal
caso, infatti, bisogna distinguere il L. de/ quale si parla e che è l’argomento
della discussione e il L. con il quale si parla e con il quale desideriamo costruire
la definizione di verità per il primo lin- guaggio. Quest'ultimo è il
metalinguaggio; il primo è il L.-oggetto. La distinzione tra L.-oggetto e metalinguaggio
fu introdotta dai logici polacchi verso il 1919 e diffusa da Tarski (cfr. « The Semantic Conception of
Truth », 1944, in Readings in Philo- sophical Analysis, 1949, pag. 60). La distinzione fu accettata da Carnap (Foundations of
Logic and Mathematics, 1939, $ 3). A volte tuttavia il L.-og- getto e il
metalinguaggio coincidono come quando, ad es., si parla in italiano
dell’italiano. La distin- zione vale soprattutto per i linguaggi formaliz- zati
(v.). LIRICO (ingl. Lyric; franc. Lyrique; ted. Ly- risch). Aggettivo adoperato
da Croce per specifi- care l’espressione artistica come espressione del sentimento.
« Ciò che dà coerenza e unità all’intui- zione, dice Croce, è il sentimento:
l’intuizione è veramente tale solo perchè rappresenta un senti- mento e solo da
esso e sopra di esso può sor- gere... Etica e lirica, o dramma e lirica, sono
sco- lastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre lirica, cioè
espressione etica e drammatica del sentimento » (Breviario di Estetica, 1912,
in Nuovi saggi di estetica, pag. 28). La liricità costituisce per Croce il
carattere soggettivo o romantico del- l’arte. ANALISI DEL LITIGIOSUS. Così fu
chiamato il dilemma di Protagora e del suo scolaro Euatlo (AuLo GELLIO, Noct.
Att., V, 10) (v. DILEMMA). LOCKISMO (ingl. Lockianism). La dottrina di Locke
assunta come l’espressione tipica dell’empi- rismo (v.). LOGICA (ingl. Logic;
franc. Logique; tedesco Logik). L'etimologia stessa (da >Aéyos, che signi- fica
« parola», « proposizione», «discorso ?, ma anche « pensiero 1) è equivoca come
è equivoca la nozione. In Aristotele, un gruppo di scritti del quale, raccolti
nell’Organon, costituiscono la prima ampia trattazione di questa disciplina,
manca qual- siasi parola per designarla. Agli inizi degli Anglitici, lo scritto
più strettamente «logico » di questa rac- colta, Aristotele definisce, senza
darle un nome, la scienza che si accinge a ricercare come scienza della
dimostrazione e del sapere dimostrativo (Anal. Pr., I, 24a 10 sgg.) dove però,
tra l’altro, il testo non è del tutto chiaro. I suoi oggetti sareb- bero quelli
elencati nel seguito del medesimo passo: la proposizione (come enunciato
apofantico, inse- rito in un discorso dimostrativo), i termini di essa (soggetto
e predicato) e finalmente il sillogismo. Qui e in altri testi (principalmente
nei 7opici e nella Rerorica) Aristotele distingue due tipi di di- scorso,
dialettico e dimostrativo: il primo che muove dal problematico e dal probabile
e termina necessariamente nel probabile; il secondo invece che muove dal vero e
termina nel vero. Ma, a parte il valore conoscitivo della premessa, avverte che
formalmente i due discorsi sono identici, consi- stono sempre nel sillogismo e
nelle sue tipiche strutture. Ill termine Xoyiy) (sottinteso céeym) si trova
invece negli scritti degli Stoici per indicare l’arte del discorso persuasivo
in genere: si divide pertanto in reforica e dialettica, quest’ultima con- tenendo
quello che sarà l’oggetto fondamentale della L., la dottrina del discorso
dimostrativo e degli oggetti che vi si collegano (proposizione, ter- mini,
sillogismo, ecc.). solo nei commentatori peripatetici e platonici di
Aristotele, o negli scritti di eclettici che a questi si riferiscono (come
Cice- rone o Galeno), gli uni e gli altri influenzati dalla terminologia degli
Stoici, che il termine «L.», usato come stretto sinonimo di « Dialettica »,
viene introdotto come nome di quella dottrina che aveva il centro negli
Analitici aristotelici, cioè la teoria del sillogismo e della dimostrazione.
Boezio dà il nome di «L.» (anche qui, alternante con « Dia- lettica »)
all’insieme delle dottrine contenute nel- l’Organon aristotelico, cui si viene
ad aggiungere, come una specie di introduzione generale, l’/sagoge di Porfirio.
E così per tutto il Medio Evo, per lo meno a partire dal x secolo,
l’esposizione, lo studio e il commento dell’/sagoge porfiriana se- LOGICA guita
dai libri dell’Organon (nell’ordine, divenuto tradizionale, di: Categorie, De
Interpretatione, Primi Analitici, Secondi Analitici, Topici, Elenchi
Sofistici), spesso con i commenti e nelle traduzioni o riduzioni boeziane,
costituisce un’ars (una delle «sette arti liberali +) detta indifferentemente
Dialettica o Lo- gica. La differenza che in essa si viene ad introdurre durante
il sec. xl, tra ars verus e ars nova, non ha poi molto rilievo, trattandosi di
una distinzione meramente storica e scolastica tra i libri di Porfirio e di
Aristotele da tempo noti nella traduzione boeziana (/sagoge, Categorie, De
Interpretatione) e quelli resisi noti più recentemente con la diffusione di
nuove traduzioni latine dell’Organon. In so- stanza, l’insegnamento di L. alla
fine dell'Età an- tica e nel Medio Evo comprendeva questi argomenti: 1° teoria
delle quinque voces o predicabili (genere, specie, differenza, proprio,
accidente); 2° teoria delle categorie o predicamenti (sostanza, quantità, qualità,
relazione, luogo, tempo, posizione, avere, azione, passione); 3° dottrina delle
proposizioni e regole della conversione; 4° dottrina del sillogismo categorico;
5° dottrina del sillogismo ipotetico; 6° dialettica: a) topica; 5) dottrina dei
sofismi o fallaciae. Che poi si potevano raggruppare in tre parti: dottrina dei
termini, dottrina delle proposi- zioni, dottrina del ragionamento (categorico
oppure ipotetico, apodittico oppure dialettico). A_ queste parti di origine
aristotelica o (tramite Boezio) stoica il pensiero medievale aggiunse alcune
dot- trine che costituiscono un apporto originale alla tradizione L.
dell’Occidente — la dottrina della designazione e denotazione (de
proprietatibus ter- minorum), la dottrina dei segni logici e delle propo- sizioni
molecolari (de syncategorematibus), la dot- trina dell’implicazione materiale
(de consequentiis) — tutte dottrine appartenenti a quella parte della L. che
oggi si chiama « semantica ». Per capire le trasformazioni intervenute, nel
corso dello stesso Medio Evo, non solo nella tradizione dottrinaria, ma nello
stesso ambito di oggetti co- perto dal nome « L. », bisogna tener presenti
alcune considerazioni. Più preoccupato di creare la nuova disciplina che non di
fondarla, e ancora più preoc- cupato di crearne le dottrine fondamentali in
vista di applicazione a problemi filosofici più « concreti » (principalmente,
alla metafisica e all'etica) che non di svolgerle e di esporle
sistematicamente, Aristotele lasciò la L. non soltanto senza un nome proprio per
designarla, ma anche equivoca nel suo status come disciplina e non ben
determinata nei riguardi della sua materia subiecta. Che sono propriamente gli
oggetti di cui si occupa la Logica? Entità reali, oppure pensieri, o forme del
discorso? Il problema si pone già nella tarda Antichità. A proposito degli universali
(categorie, generi, specie) che appaiono 543 costituire propriamente gli
elementi in cui si ri- solve il discorso logico: gli universali sono sostanze reali,
o no? Porfirio nell’/sagoge imposta il pro- blema, Boezio ne tenta una
soluzione che tuttavia si aggira in circolo e risulta insoddisfacente; donde nel
Medio Evo la disputa tra i realisti (Bernardo di Chartres, Guglielmo di
Champeaux, Anselmo di Aosta, ecc.), i quali affermano l’esistenza reale degli
universali e quindi fanno della L. una specie di Ontologia, e i nominalisti
(Roscellino, Abelardo, più tardi Guglielmo d’Ockham), i quali negano la sussistenza
ontologica degli universali. Abelardo di- scutendo la questione degli
universali per primo arriva, attraverso un profondo commento al testo boeziano,
a fissare il piano proprio della L.: questa è scientia sermocinalis; i termini
della L. sono sermones, quindi parole, discorsi, non però meri suoni (flarus
vocis, come sembra sostenesse Ro- scellino), bensì parole con una intenzione
(intentio) significativa, vale a dire volte a significare cose, o meglio
qualità, date nell’esperienza. Da allora si precisano nella L. medievale due
correnti o metodi (viae): la via antiqua (o antiquorum) fedele alla tra-
dizione realistica, quindi ontologizzante, e la via moderna (o modernorum), che
sviluppa una L. « ter- ministica », ossia puramente sermocinalis, dove i
termini del discorso sono assunti come tali, indi- pendentemente da ogni
ipotesi metafisica sull’esi- stenza reale o meno del loro oggetto. E questo fu
in sostanza il punto di vista che si impose nella L. a partire dal sec. xn e
sul quale furono impostati i testi scolastici di questa disciplina in uso fino
agli inizi dell’Età moderna, come le Summulae Logicales di Pietro Ispano (sec.
xm), essendosi oramai diffusa la convinzione che la stessa questione degli
universali appartenesse piuttosto alla meta- fisica e alla gnoseologia che non
alla L. propria- mente detta, la quale rimane relativamente indiffe- rente alle
eventuali risposte date a quel problema. Tuttavia si veniva a porre un’altra
distinzione, la quale in parte è arrivata fino ai nostri giorni: quella per cui
oggetto della L. sono fatti mentali (Duns Scoto, ma anche Tommaso d’Aquino e
d’altra parte alcuni nominalisti), e quella per cui non sitrattapropriamente di
atti mentali bensì di forme strutturali, intenzionalmente di- rette alla
costituzione di contenuti semantici ma, come forme, indipendenti e da tali con-
tenuti e dagli atti mentali in cui tali contenuti vengono appresi (Buridano e i
suoi continuatori dei sec. XIV e Xv: Alberto di Sassonia, Nicola di Autre- court,
Marsilio di Inghen, ecc.). Sarà quest’ultima posizione che, ripresa nell’età
contemporanea da E. Husserl (e in modo meno chiaro da B. Russell e da L.
Wittgenstein) determinerà l’attuale rinascita della concezione della L. come
formale pura. 544 Ma intanto si veniva a porre un altro problema. La L. è
scienza o arte? Cioè: è disciplina che, come, per es., le matematiche, espone
rapporti obiettivi sussistenti tra i suoi oggetti (per es., tra le premesse del
sillogismo e la sua conclusione), oppure una tecnica per ottenere discorsi
corretti e veri? In genere i Logici medievali ritengono che sia una cosa e
l’altra; ed anche come arte, sia in- sieme una precettistica (Logica docens) e
un eser- cizio attivo di discorso o discussione controllato da quei precetti
(Logica utens). La reazione umani- stica contro la Scolastica porta, nel campo
della L., ad un’esaltazione di quest’ultimo aspetto e ad una aspra polemica
contro il formalismo tradizionale (Coluccio Salutati, Lorenzo Valla, ecc.).
Alla L. «inglese » (cioè terministica), la quale spesso nel- l’insegnamento e
nell’esercizio scolastico si perdeva in sterili arguzie e cavilli disputatori
(come già l’antica eristica ai tempi di Platone e di Aristotele), si
contrappone una L.-retorica, per lo più di ispi- razione ciceroniana, come
ricerca dei mezzi di persuasione mediante il discorso e insieme disci- plina
euristica che guidi alla ricerca delle verità nel campo delle cose naturali ed
umane (storiche ed etiche). Questo movimento di riforma della L. culmina nel
ramismo (da Petrus Ramus, cioè Pierre de la Ramée). Accanto a questa corrente
si deve ricordare anche l’altra, di ispirazione invece peri- patetica, fiorita
a Padova nel sec. xvi e che ebbe i massimi esponenti nel Fracastoro e nello
Zaba- rella, i quali accentrarono le loro ricerche sul pro- blema, appena
accennato nella trattazione aristo- telica, dell’inferenza induttiva, delle sue
difficoltà e dei suoi presupposti. Anche in questi logici (sebbene,
naturalmente, in forma meno drastica che non nei retori umanisti) l’interesse
per le strut- ture formali del discorso deduttivo è fortemente diminuito a
vantaggio di una concezione pragma- tica e metodologica della scienza della
logica. All’inizio del Seicento Francesco Bacone porta, in un certo senso, a
compimento questo processo, tentando con il Novum Organon (il cui nome stesso è
programmatico) una radicale riforma della L. con- cepita esclusivamente come
metodologia scientifica generale. Scartata quasi per intero la tradizione L.
peripatetico-scolastica (quella che aveva il suo centro nella teoria formale
del sillogismo), anche nella L. umanistica (di Ramo, ecc.) scevera gli aspetti
più propriamente metodologici, allo scopo di farne uno «strumento» per guidare
e inqua- drare la ricerca scientifica. Con il che l’antica no- zione di « L.»
appare interamente mutata. Il disinteresse per il formalismo logico, e in sua vece
l'interesse per problemi gnoseologici, psicolo- gici e metodologici di una
Logica utens si accen- tuano nel corso dell'Età moderna: si che nel corso LOGICA
dei sec. XVII, XVII e XTX « L. » diviene il nome sco- lastico di una serie
eterogenea di insegnamenti filosofici, ed i manuali di questa «materia» (di questo
titolo) espongono varie e diverse cose: ac- canto alla sillogistica
tradizionale (spesso però ri- dotta a pochi cenni e comunque conservata più per
ragioni di tradizione che per un interesse reale), contengono annotazioni
metodologiche, schizzi di teoria della conoscenza, analisi di certi concetti
generali, ecc. Tipica a questo proposito è l’Arf de Penser dei maestri
portorealisti, nota anche col nome di Logique de Port Royal, che rimase a lungo
il testo più importante di questa disciplina e il modello più o meno fedelmente
seguito e compen- diato dagli altri trattati. Tuttavia la « rinascita » della
geometria euclidea, iniziatasi nel sec. xVI e proseguita trionfalmente (almeno
per quanto ne concerne l'aspetto logico- formale) fino quasi ai nostri giorni,
ripropone, insieme al modello del « rigore » euclideo, il problema di fissare
le strutture discorsive da cui quello stesso rigore è costituito e risulta.
Cartesio (Regulae ad directionem ingenii, Discours de la méthode) e poi Pascal
(Esprit de géométrie e Art de persuader) cominciano ad estrapolare in forma di
regole metodologiche alcuni aspetti di quel «rigore», riportandosi, pur in
polemica con la sillogistica tradizionale, sul medesimo terreno di indagine
delle forme strutturali di un linguaggio perfetto (qui, il linguaggio
matematico), e quindi ripro- ponendo alcuni problemi fondamentali di L. for- male,
quali il problema della definizione (nomi- nale e reale) e quello della
validità della deduzione da assiomi. Contemporaneamente Hobbes, muo- vendo egli
pure dall’euclidismo della nuova scienza (galileiana) della natura, compiva un
passo decisivo verso la concezione della L. formale pura moderna. Hobbes
infatti introduce la fecondissima idea del raziocinio come « calcolo logico +,
cioè come combi- nazione e trasformazione di simboli secondo certe regole le
quali già a Hobbes apparivano — ed in seguito appariranno sempre più —
convenzionali (comunque poi si abbia ad intendere tale « conven- zionalità +).
Appariva quindi nella storia del pensiero quel convenzionalismo che era
destinato in seguito a dimostrarsi il punto di vista più efficace per togliere
alla L. ogni presupposto dogmatico e meta- fisico, per liberarla dalle
contaminazioni psicolo- gistiche (che continueranno ad incepparne lo svi- luppo
fin quasi ai nostri giorni) e ad assestarla come disciplina della strutture
formali del discorso « rigo- roso » secondo determinati modelli
ideal-linguistici. Però il punto di vista convenzionalistico non era destinato
ad agire immediatamente sul pensiero logico moderno, che dai filosofi
precedentemente nominati prese piuttosto l’idea del calcolo logico LOGICA basato
sulla distinzione delle idee in semplici e complesse, e sull’analogia
(meramente formale) tra certe operazioni logiche e certe operazioni aritmetiche.
Rappresentando i termini con simboli generici (per es., lettere dell’alfabeto:
a, b, c, ..., x, Y, z; X, Y, Z; e simili) e le operazioni logiche con simboli
vari (di solito presi in prestito dall’aritmetica: +, X, =; ecc.) si può
tentare di svolgere una dot- trina matematica (formale) del discorso. Leibniz fece
parecchi tentativi in questa direzione, tutti però infruttuosi e da lui stesso
abbandonati; e tentativi del genere, analogamente infruttuosi, fu- rono
compiuti in seno alla scuola leibniziana, per esempio da Lambert, Holland,
Castillon. Ma più che in questi tentativi, forse sopravvalutati dai logici
matematici del nostro secolo, l’importanza di Leibniz per la rinascita della L.
dopo la crisi ini- ziatasi con l’Umanesimo, sta nell’idea, ampiamente sviluppata
dai suoi seguaci tedeschi del Settecento (Lambert, Wolff, Crusius) di una
«architettonica della ragione » (concepita non più psicologicamente, ma in modo
tale da preludere al punto di vista «trascendentale » della filosofia
posteriore) espli- cantesi nelle forme e strutture del discorso; « archi- tettonica
» che costituirà l’oggetto proprio della Logica. L’eredità leibniziana è
raccolta poi da Kant: il quale nella Logik distingue nettamente quest’ul- tima
disciplina sia dalla psicologia (con la quale tendevano a confonderla gli
Illuministî) sia dal- l’Ontologia (con la quale tendevano a confonderia alcuni
leibniziani — in particolare il Crusius), affermandone il carattere di dottrina
formale pura — non però del discorso, bensì del pensiero: donde le possibilità
di ricaduta in una specie di psicologismo trascendentale, insite nel kantismo.
Infatti, com'è noto, accanto alla L. formale pura Kant pone una L.
trascendentale come dottrina delle funzioni pure della conoscenza; gli
idealisti, in particolare Fichte e Hegel, accentuando tale interpretazione
psicolo- gistico-trascendentale risolveranno entrambe le parti della L.
kantiana nella parte trascendentale, inter- pretando poi quest’ultima come una
specie di «metafisica della mente» o del « Pensiero». Da allora in vaste zone
della filosofia contemporanea, tutte più o meno influenzate dall’idealismo, il termine
« L. » ha perduto interamente il suo senso tradizionale per ritornare
all’accezione illuministica di « filosofia del pensare » in genere. La fine
dell’Ot- tocento presenta appunto questo quadro. La L. è intesa come una
«teoria del pensiero » e quindi trattata con metodi naturalistici dai
positivisti (per es. Sigwart, Wundt, ecc.), con metodi metafisico- trascendentali
dagli idealisti. Edm. Husserl (Logische Untersuchungen, I, 1900-1901) ha
criticato a fondo questo punto di vista e, riprendendo le idee di un logico
boemo dimenticato, B. Bolzano (Wissen- 35 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia.
545 schaftslehre, 1838), ripropone l’idea della L. formale pura come dottrina
delle proposizioni in sè (nella loro pura apofanticità L., indipendenti quindi
sia dagli atti psicologici in cui vengono pensate, sia dalla realtà intorno a
cui vertono) e della pura deduzione di proposizioni da proposizioni (in sè). Già
in questa prima opera, ma più ancora nelle successive (particolarmente nella
Formale und trans- zendentale Logik, 1928), Husserl riprende l’idea della
ragione come « ragione formale », ossia pura architettonica del pensiero che si
esplica storica- mente nell’attività scientifica da una parte, e nella riflessione
logica dall’altra. La rinascita della L. formale pura, caratteristica dell’epoca
contemporanea, doveva però avvenire mediante una ripresa e uno sviluppo, con
idee più chiare e maggiore indipendenza da dottrine metafi- siche, degli
abortiti tentativi leibniziani per costruire la nostra disciplina nella forma
di calcolo simbolico. Quest'opera venne iniziata da un gruppo di filosofi e
matematici inglesi nella metà del secolo scorso. G. Bentham, W. Hamilton, A. De
Morgan fecero lo sforzo, storicamente decisivo, che doveva tra- sformare la L.
in disciplina matematica, superando l’ostacolo contro il quale si erano arenati
i tentativi di Leibniz: ostacolo costituito dal fatto che nella L. aristotelica
le considerazioni quantitative venivano introdotte solo nei riguardi del
soggetto della pro- posizione, ma non del predicato. Spetta soprattutto allo
Hamilton la cosidetta « quantificazione del predicato », ossia l’analisi delle
proposizioni secondo forme che introducono quantificatori (e tutti», « qualche
+) non solo per il soggetto, ma anche per il predicato: per es., che interpreta
una proposizione del tipo « tutti gli uomini sono mortali » come « tutti gli
uomini sono alcuni mortali ». In realtà non si trattava di una mera
«correzione» alla L. aristo- telica (nella quale l’omissione di quantificatori
per il predicato non era affatto casuale), bensì dell’intro- duzione di un
punto di vista nuovo, del punto di vista puramente esferssionale, per il quale
i concetti sono considerati solo come classi o collezioni di oggetti, e le
proposizioni vengono interpretate come inclusioni (o esclusioni) totali o
parziali di classi in (da) classi («tutti gli uomini sono mortali», «la classe
‘ uomo * è inclusa nella classe ‘mortale ’ 1). In tal modo l’Analitica
aristotelica (comprendente principalmente la teoria della conversione e quella del
sillogismo) veniva trasformata in — veniva sostituita da — una specie di
calcolo delle classi. Muovendo da questi studi, una serie di logici e matematici
inglesi (G. Boole, Jevons, Venn, Whi- tehead) e alcuni continentali (Schròder,
Poretsky, Couturat) crearono una disciplina più formalizzata e assai più
indipendente dalla L. tradizionale, l’Algebra della Logica: un calcolo
ambivalente 546 (interpretabile, cioè, come calcolo delle classi e come calcolo
delle proposizioni), del tutto simile, nella sua forma esteriore, all’Algebra
simbolica ordinaria, però con alcune peculiarità, per es., che in esso le equazioni
possono assumere solo i valori 1 («universo di discorso » oppure « vero +) o 0
(«classe vuota» oppure « falso +»); che a-a=aea+a=a;ecc. Sarà quest'Algebra
della L. a fornire i concetti-base e molti materiali dottrinari alla Logica
matematica, creata tra la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro da G.
Frege, G. Peano e B. Russell, e cul- minante nei Principia Mathematica di B.
Russell e A. N. Whitehead, pubblicati tra il 1900 e il 1913. In quest'opera la
L. veniva ad essere costituita di due discipline fondamentali: il calcolo
proposi- zionale, secondo le operazioni principali della ne- gazione,
disgiunzione o affermazione alternativa, congiunzione o affermazione
simultanea, implica- zione materiale; e il calcolo delle funzioni proposi- zionali
(enunciati contenenti variabili); quest’ultimo dà origine alla considerazione
di enunciati generali ed enunciati particolari o esistenziali, mediante gli operatori
« per ogni x» ed «esiste almeno un x tale che» (risp. ‘(x) ”. e ‘(Hx) ’.). Da
quest’ultima dottrina deriva quella dei simboli incompleti: de- scrizioni (tipo
« il re di Francia +) e classi. Il calcolo delle classi quindi non è più una
dottrina fondamen- tale della L., essendo derivabile da quello delle funzioni
proposizionali: tuttavia, data la sua impor- tanza, molti logici contemporanei
ne fanno ancora un capitolo a sè (e lo stesso si dica di quello delle relazioni).
In seguito il Wittgenstein, nel 7ractasus, enuncerà una specie di seconda tesi
estensionale per le proposizioni: distinguendo proposizioni ato- miche (cioè
semplici) da molecolari (cioè complesse) affermerà che queste ultime dipendono
tutte, per la loro verità o falsità, dalla verità o falsità delle componenti
atomiche più le regole semantiche delle operazioni di composizione (per es.,
l’enunciato «poqg»è vero se, e solo se, almeno p o qè vero): donde un assetto
del calcolo proposizionale sulla base di certi diagrammi logici meramente
combina- tori. Partendo da questi, nel periodo tra le due guerre mondiali,
alcuni logici, principalmente polacchi, tenteranno di elaborare delle Logiche
polivalenti, nelle quali gli enunciati oltre 1 (« vero +) e 0 (« falso 1) possono
assumere altri valori intermedi. Mancava ancora nei Principia, esclusivamente
rivolti alla fondazione dell’Aritmetica dei numeri naturali, una trattazione
della Logica modale, ossia un calcolo di valori modali come « possibile », «
necessario », ecc., la quale verrà tentata in seguito da logici come il Lewis e
il von Wright. La L. matematica aveva soprattutto due scopi: 1° di costituire
la disciplina matematica fondamen- tale, di cui tutte le altre matematiche,
secondo la LOGICA tesi /ogicistica, sostenuta appunto da Frege e da Russell,
dovrebbero costituire dei rami, più o meno complessi, ma tuttavia pur sempre
con quel mede- simo materiale concettuale e ad esso riducibili; e 2° di
costituire (secondo il programma formalistico del Peano, sviluppato poi da D.
Hilbert) metodi di assetto rigoroso e di controllo logico delle disci- pline
matematiche vere e proprie. La L. diviene così uno strumento di analisi
filosofica. Per opera di Russell e Wittgenstein essa viene a costituire una specie
di linguaggio ideale o perfetto, o meglio, lo schema generale (perchè meramente
simbo- lico) di un tale linguaggio, secondo il quale schema si dovrebbero poi
costruire linguaggi, o frammenti di linguaggi, scientifici, in cui dovrebbero venir
tradotti, e così analizzati secondo le strutture logiche di quel linguaggio,
gli enunciati delle singole discipline sotto esame. Sotto questa luce, la L. simbolica
russelliana non è più strettamente legata alle matematiche come tali: è la L.
tout court, uno strumento di analisi scientifica in generale. E fu applicata
anche all'analisi filosofica dallo stesso Russell, da Wittgenstein, da Wisdom,
e in seguito (con un deciso abbandono dei presupposti metafisici dell’atomismo
logico russelliano) dagli empiristi logici. Ma il programma russelliano,
accentrato nella nozione di linguaggio ideale, venne sottoposto ad aspre
critiche, principalmente, ma non esclusiva- mente, da parte degli « analisti
dell’uso » di Oxford. D'altra parte in altri settori (per es., nella scuola tedesca
discendente da Hilbert e da Scholze, e nella scuola polacca di Lukasiewicz e
Tarski) gli interessi matematici e l'interesse per la L. stessa come disciplina
strettamente matematica, rimasero pre- valenti. Di qui uno scindersi (per ora
soltanto par- ziale) della L. in una serie di discipline sempre più formalizzate
e matematizzate, con i problemi, assai complessi, inerenti alla formalizzazione
di una di- sciplina matematica fondamentale (la metamate- matica), per la quale
non si può usare di un altro linguaggio formalizzante senza cadere in un
circolo: donde i problemi, affrontati da Gédel, da Hermes, da Tarski e in parte
anche da Carnap. Invece in seno alla ex-scuola di Vienna, ora scuola di
Chicago, e sotto l’influenza di altre correnti (neopositivismo inglese,
pragmatismo americano) la logica si è venuta orientando, per opera soprattutto
di Morris, di Carnap, di Hempel, in senso più analitico-filo- sofico, tendendo
a diventare parte di una disci- plina assai più ampia, la semiotica o teoria
generale dei segni (di cui la teoria del linguaggio è la parte più interessante),
creata da Ch. W. Morris sotto la doppia spinta della sintassi logica carnapiana
e della Logica deweyana. Abbandonato ogni presupposto coscienzialistico o
mentalistico e ogni velleità me- LOGOS tafisica, la scienza del pensiero
diviene scienza del linguaggio, ossia di un tipico e fondamentale com- portamento
umano. L’analisi logica diviene analisi linguistica: ma quella che la
tradizione considerava come dimensione « L. +» è soltanto una dimensione del
linguaggio, o meglio due (come distinsero Morris e Carnap, con una distinzione
largamente accettata, ma oggi anche assai controversa): la dimensione sintattica,
per cui i segni che compongono il discorso {il linguaggio) si connettono tra
loro secondo regole di formazione e trasformazione (derivazione) rela- tive
alla sola forma del discorso stesso; e la dimen- sione semantica, per cui il
discorso, e gli enunciati che lo compongono, può essere vero o falso, cioè porta
su fatti ed eventi, e di conseguenza — conse- guenza però che molti filosofi,
per es., i fenomenisti, contesterebbero — le parole che lo compongono portano
su cose e qualità. Questi sono i due aspetti fondamentali, L. matematica e L.
formale analitica, in cui si divide oggi la L., divisione tuttavia che non significa
separazione in due diverse, e tanto meno antitetiche, discipline, bensì due
diverse direzioni della ricerca logica, mosse da due tipi diversi di inte- resse
teoretico. G. P. LOGICI, PRINCIPI. V. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; FONDAMENTO;
IDENTITÀ, PRINCIPIO DI; TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. LOGICISMO (ingl.
Logicism; franc. Logicisme; ted. Logicismus). Con questo nome si usa designare una
corrente di pensiero logico-matematico che tra la fine del secolo scorso e gli
inizi del nostro ebbe i primi e massimi rappresentanti in R. Dedekind, G. Frege
e B. Russell; e nel sec. xx ebbe molti seguaci, soprattutto (ma non
esclusivamente) in seno al cosidetto «Circolo di Vienna + (Carnap). I pensatori
di questo indirizzo sostengono che la matematica (pura) è un ramo della Logica,
ossia che tutte le proposizioni delle matematiche pure (in particolare
dell’Aritmetica, e quindi dell’Analisi) si possono enunciare con il solo
vocabolario e la sola sintassi della Logica matematica, la quale diviene così
la disciplina matematica per eccellenza. Con questa convinzione Dedekind, Frege
e Russell avevano condotte le loro celebri analisi del con- cetto di « numero »
(intero) appunto per definirlo soltanto mediante nozioni (simboli) della Logica
matematica. Al L. si oppongono il formalismo e l’intuizionismo (v. MATEMATICA).
G. P. LOGICO (ingl. Logica!; franc. Logique; te- desco Logisch). 1. Lo stesso
che razionale. 2. Ciò che concerne un determinato tipo di logica. In questo
senso si chiama oggi « verità lo- gica » la verità che consiste
nell’enunciazione di una tautologia, conformemente al concetto della logica
come studio delle tautologie (v. LoGICA; RAGIONE). 547 LOGISTICA (ingl.
Logistic; franc. Logistique; ted. Logistik). Nell’Antichità (per es., nei
frammenti del pitagorico Archita di Taranto) il termine « L. »era a volte usato
per indicare l’aritmetica pura. Leibniz usò il termine come sinonimo di «
calcolo logico » o «logica matematica »: e con questo significato di «logica
simbolica +» 0 « matematica » venne proposto da Couturat e Lalande al Congresso
Internazionale di Filosofia di Parigi nel 1904. Ma, dopo aver avuto una certa
fortuna, il termine « L. » è oggi raramente adoperato. 0. P. LOGISTICO,
SISTEMA. V. SisreMma Lo- GISTICO. LOGOS (gr. x6y0c; lat. Verbum). La ragione in
quanto 1° sostanza o causa del mondo; 2° per- sona divina. 1° La dottrina del
L. come sostanza o causa del mondo è stata per la prima volta difesa da Eraclito.
« Gli uomini sono ottusi nei confronti dell’essere del L., dice Eraclito, sia
prima che dopo averne sentito parlare; e sembrano inesperti, sebbene tutto
avvenga secondo il L.» (Fr. 1, Diels). Il L. è concepito da Eraclito come la
legge stessa del mondo: « Tutte le leggi umane si alimentano di una sola legge
divina: perchè questa domina tutto ciò che vuole e basta a tutto e prevale su
tutto + (Fr. 114, Diels). Questa concezione fu fatta propria dagli Stoici, i
quali videro nella ragione il « principio attivo » del mondo, che anima, ordina
e guida il principio passivo di esso, che è la materia. «Il principio attivo,
dicevano, è il L. che è nella materia cioè Dio: esso è eterno e attraverso la
materia è l’artefice di ogni cosa » (Diog. L., VII, 134). Il L. così inteso,
cioè come principio formativo del mondo, è identificato dagli Stoici col
destino (/bid., VII, 149). Nello stesso senso Plotino afferma: « Il L. che
agisce nella materia è un principio attivo naturale: non è pensiero nè visione
ma potenza capace di modificare la materia, potenza che non conosce ma agisce
come il sigillo che imprime la sua forma o come l’oggetto che riproduce il suo riflesso
nell’acqua; come il cerchio viene dal centro, così la potenza vegetativa o
generatrice riceve d’altronde la sua potenza produttiva cioè dalla parte principale
dell’anima, la quale gliela comunica modificando l’anima generatrice che
risiede nel tutto » (Enn., II, 3, 17). In tal senso il L. è lo stesso Intelletto
divino in quanto ordinatore del mondo: « Dall’intelligenza emana il L. e ne
emana sempre, fin tanto che l’Intelletto è presente in tutti gli esseri »
(Ibid., III, 2, 2). Questa concezione è servita da modello a tutte le forme del
panteismo moderno (v. Dio). 2° La dottrina del L. come ipostasi o persona
divina trova la sua prima formulazione per opera di Filone di Alessandria. In
questa dottrina, il L. 548 è un ente intermedio tra Dio e il mondo, il tra-
mite della creazione divina. Dice Filone: « L'ombra di Dio è il suo L.,
servendosi del quale come di strumento, Dio creò il mondo. Quest’ombra, è quasi
l’immagine derivata e il modello delle altre cose. Giacchè come Dio è il
modello di quella sua immagine o ombra che è il L., così il L. è il modello
delle altre cose » (Leg. A//., IHI, 31). Dal cristianesimo, il L. viene
identificato col Cristo. Il prologo del- l’Evangelo di San Giovanni, accanto
alle funzioni che già Filone attribuiva al L., aggiunge la deter- minazione
propriamente cristiana: « Il L. si è fatto carne ed ha abitato tra noi» (Joann.,
I, 14). Nella sua elaborazione della teologia cristiana, i Padri della chiesa
insistettero sui due punti seguenti: 1° sulla perfetta parità del Logos-Figlio
col Dio- Padre; 2° sulla partecipazione del genere umano al L. stesso in quanto
ragione: «Noi imparammo, dice ad es. Giustino, che Cristo è il primogenito di
Dio e che è il L., del quale partecipa tutto il genere umano» (Apol. Prima,
46). Contro gli Gnostici seguaci di Valentino, per i quali il L. è l’ultimo
degli Eoni, che, per essere più vicino al mondo, è quello destinato a formarlo,
Ireneo afferma l’uguaglianza di essenza e di dignità tra Dio padre e il L.,
come di entrambi e dello Spirito Santo (Adv. haeres., II, 13, 8). Su questi
concetti dovevano fondarsi le formulazioni dogmatiche del sec. Iv, specialmente
le decisioni del Concilio di Nicea (325) intorno ai due dogmi fondamentali del
cristianesimo, la Trinità e l’Incarnazione. Ma nel frattempo la nozione di L.
continuò ad oscillare tra l’interpre- tazione che esige la perfetta parità del
L. con Dio e quella che invece stabilisce una certa differenza gerarchica fra
le due ipostasi. La dottrina di Origene, che fu il primo grande sistema di
filosofia cristiana (m secolo), inclina piuttosto verso la seconda inter- pretazione.
Origene afferma che si può dire del L., ma non di Dio, che è l’essere degli
esseri, la sostanza delle sostanze, l’idea delle idee: Dio è al di là di tutte
queste cose (De Princ., VI, 64). Pertanto, il L. è coeterno con il Padre, il
quale non sarebbe tale se non generasse il Figlio, ma non è eterno nello stesso
senso. Dio è la vita e il Figlio riceve la vita dal Padre. Il Padre è Iddio il
figlio è Dio (In Joann., II, 1-2). Come già si è detto, la Chiesa, nelle sue assisi
conciliari, si pronunciò contro questa inter- pretazione, che rimase
l’appannaggio di tentativi eretici, più volte rinnovati nel corso della sua
storia. La dottrina del L. è rimasta una dottrina religiosa. I filosofi hanno
fatto ricorso ad essa solo quando hanno voluto dare una veste religiosa alla
loro dottrina. Così ha fatto Fichte nella seconda fase del suo pensiero. Nella
Introduzione alla vita beata (1806) Fichte, ricorrendo al prologo dell’Evangelo
di San Giovanni, vuol mostrare l’accordo del suo LOQUACITÀ idealismo con il
Cristianesimo; e pertanto riconosce nel L. ciò che egli chiama l’Esistenza o la
Rivela- zione di Dio (al di là della quale rimane l’Essere di Dio): cioè il
Sapere, l’Io, l’Immagine, di cui la vita divina è a fondamento (Werke, V, pag.
475). LOQUACITÀ (gr. dSoreoxta; lat. Loquacitas; ingl. Loquacity; franc. Loquacité; ted. Redseligkeit).
Secondo Aristotele, uno dei caratteri
delle persone anziane che sono più interessate al passato che al futuro (che
ormai promette poco per loro) e perciò godono di rievocarlo parlando (Rer., II,
13, 1390 a 6). LOTTA PER LA VITA. V. SELEZIONE NA- TURALE. LUCE (lat. Lux;
ingl. Ligh:; franc.
Lumiere; ted. Lich). Una tradizione
filosofica, che pro- babilmente ha la sua lontana origine nella reli- gione
persiana che adorò in Mitra lo « Spirito della L.» (cfr. Cumont, Oriental
Religions in Roman Paganism; trad. ingl., pag. 155), fa della L. una realtà
privilegiata di natura incorporea, tramite della comunicazione fra le regioni
superiori del mondo e l’uomo. Le caratteristiche salienti di questa dottrina
sono le seguenti: 1° la L. è una realtà superiore privilegiata, che è Dio
stesso o è da Dio; 2° la L. è incorporea e fa da tramite tra mondo incorporeo e
mondo corporeo; 3° la L. è la forma generale (cioè l’essenza o la natura) delle
cose cor- poree. Le prime due tesi sono di carattere religioso e di schietta
derivazione orientale. La terza è pro- priamente filosofica e rimane
caratteristica del- l’agostinismo medievale. Nella filosofia occidentale, la
metafisica della luce è introdotta da Parmenide. « Poichè tutte le cose si dicono
luce e notte e poichè luce e notte sono pre- senti a questa o a quella cosa,
secondo le loro possibilità, il tutto è pieno di L. e insieme di invi- sibile
tenebra e L. e tenebra sono eguali perchè nessuna prevale sull’altra » (Fr. 9).
La sostanzia- lizzazione della L. si affaccia frequentemente nelle Enneadi di
Plotino dove talora non è facile distin- guere la L. come metafora dalla L.
come sostanza (per es., Enn., V, 3, 9; IV, 3, 17). Si affaccia con tutta chiarezza
nelle speculazioni degli Gnostici che sono di diretta derivazione manichea: «
Prima che l’uni- verso visibile avesse origine sussistevano due supremi princìpi:
l’uno buono, l’altro perverso. La dimora del primo, del Padre della grandezza,
era nella regione della luce. Egli si moltiplicava in cinque ipostasi:
l’Intelletto, la Ragione, il Pensiero, la Riflessione, la Volontà» (BuoNAIUTI,
Frammenti gnostici, 1923, pag. 55). In uno dei libri della Kabala, il Zohar, la
L. viene intesa come la sostanza primitiva che appare talvolta come cielo; e
pertanto come l’elemento nel quale gli altri si dissolveranno alla fine dei
tempi (cfr. SfRouva, La XKabbale, LUME Parigi, 1957, pag. 346 sgg.). Questa
dottrina passò nella filosofia ebraica del Medio Evo e da essa nella scolastica
cristiana. In questa, essa fu caratteristica dell'indirizzo agostiniano, difeso
specialmente dai Francescani. Nel sec. xm, Roberto Grossatesta affermava che
tutti i corpi hanno una forma comune, la quale si unisce alla materia prima,
anteriormente alla specificazione di essa nei vari elementi. Questa forma prima
è la luce. « La L., egli dice, si diffonde da sè in tutte le direzioni, in modo
che da un punto luminoso viene immediatamente generata una sfera di L. grande
quanto si vuole, a meno che non le faccia ostacolo qualche corpo opaco.
Dall'altro lato la corporeità è ciò che ha per conseguenza necessaria
l'estensione della materia nelle tre
dimensioni » (De inchoatione formarum, ed. Baur, 51-52). Ro- berto identificava
così la diffusione istantanea della L. in tutte le direzioni con la
tridimensionalità dello spazio, e quindi la L. con lo spazio. Quasi negli stessi
termini Bonaventura da Bagnorea affermava che la L. non è un corpo, ma la forma
di tutti i corpi. «La L. è la forma sostanziale di ogni corpo naturale». Tutti
i corpi ne partecipano più o meno e a seconda che ne partecipano hanno maggiore
o minore dignità e valore nella gerarchia degli esseri. Essa è il principio
della formazione generale dei corpi; la loro formazione speciale è dovuta al
so- praggiungere di altre forme, elementari o miste (In Sent., II, d. 13, d. 2,
q. 1-2). Nella seconda metà dello stesso xm secolo la Perspectiva di Witelo espone
idee molto simili. « L'azione divina si esplica nel mondo per il tramite della
luce. Le sostanze inferiori ricevono da quelle superiori la L. derivata dalla
fonte della divina bontà; in generale l’essere di ogni cosa deriva dall’essere
divino, ogni intellig- gibilità deriva dall’intelletto divino e ogni vitalità dalla
vita divina. Di tutte queste influenze il principio il mezzo e il fine è la L.
divina dalla quale, per la quale e alla quale tutte le cose sono disposte» (Perspectiva,
ed. Bacumker, pag. 127-28). L’ottica che studia le leggi della diffusione della
L. diventa così l’intera fisica in quanto l’intero mondo fisico è determinato
dalla diffusione della L. (/bid., pa- gina 131). Forse l’ultima manifestazione
di questa fisica o metafisica della L. si può vedere nel progetto di Cartesio
di descrivere il mondo dal punto di vista della luce. «Come i pittori non
potendo rap- presentare nel quadro tutte le diverse facce di un corpo ne
scelgono una delle principali, che mettono verso la L., e situando in ombra le
altre le fanno apparire solo quel tanto che si può vederle; così temendo di non
poter mettere nel mio discorso [cioè nel progettato libro sul Mondo che poi non
pubblicò] tutto ciò che avevo nel pensiero, progettai di esporre molto
ampiamente soltanto ciò che pensavo della L.; poi, in questa occasione, 549 di
aggiungere qualcosa sul sole e le stelle fisse perchè essa deriva quasi tutta
da queste fonti; sui cieli perchè la trasmettono; sui pianeti, sulle comete e
la terra perchè la riflettono; in particolare su tutti i corpi che sono sulla
terra perchè sono o colorati o trasparenti o luminosi; e infine sull'uomo perchè
ne è lo spettatore » (Discours, V). LULLIANA, ARTE (lat. Ars /ulliana; in- glese Lullic Art; franc. Art
lullien; ted. Lullische Kunst). Propriamente l’ars
magna di Raimondo Lullo (1235-1315) cioè la scienza universale che insegna a
combinare i termini per la scoperta sin- tetica dei princìpi delle scienze. A
differenza della logica aristotelica, l’ars magna vuol essere un pro- cedimento
inventivo che non si ferma a risolvere le verità conosciute ma procede a
scoprire le nuove. La nozione di quest’arte che trovò nel Rinasci- mento
seguaci entusiasti, tra i quali Agrippa, Bo- villo e Bruno, fu ripresa da
Leibniz che la chiamò Caratteristica generale (v. CARATTERISTICA). LUME (gr.
péyyos; lat. Lumen; ingl.
Light; franc. Lumiére; ted. Licht).
Il criterio direttivo del pensiero e della condotta dell’uomo, in quanto paragonato
a un L. proveniente dall’alto o dal- l'esterno. Aristotele paragonava alla
luce, che fa venire all’atto i colori che nell’oscurità sono soltanto in
potenza, l’azione dell’intelletto attivo sull’animo umano (De An., III, 5, 430
a 15). Gli Stoici parlavano della facoltà sensibile e della rappresentazione catalettica
come di un « lume della natura +. « Come lume di natura per il riconoscimento
della verità, essi dicevano, ci è stata data la facoltà sensibile e la
rappresentazione che attraverso di essa si genera » (Sesto E., Adv. Math., VII,
259). E Cicerone diceva: «La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben
presto guastati da cattivi costumi e da false opinioni, le spegniamo in modo da
far scomparire totalmente il L. della natura» (7usc., III, 1, 2). Plotino a sua
volta parla del Bene come della « luce di cui l’intelletto è illuminato »
(Enn., VI, 7, 24). Ma solamente in Sant'Agostino la nozione di L. divenne
fondamentale e solo attraverso l’opera di lui si diffuse e rimase viva nella
tradizione occiden- tale. Sant'Agostino riconosce agli Stoici il merito di aver
visto in Dio « il L. delle menti » (De Civ. Dei, VIII, 7). Questo L. è la
condizione di ogni conoscenza vera e di ogni comunicazione di verità. La luce della
verità che, partendo da Dio, illumina diretta- mente l’anima e la guida, è il
concetto centrale della filosofia agostiniana. « Anche gli ignoranti, dice Sant'Agostino,
quando sono bene interrogati ri- spondono correttamente intorno ad alcune
disci- pline perchè è presente ad essi, nella misura in cui lo possono
ricevere, il L. della ragione eterna, nel quale essi vedono le verità
immutabili » (Retractiones, I, 4, 4). Questo significa che il funzionamento na-
550 turale dell’intelletto umano esige la presenza della luce divina e che
pertanto la conoscenza della verità è, per l’uomo, la visione della verità
stessa in Dio, resa possibile, ogni volta, dalla diretta illuminazione divina.
Ai primordi della Scolastica questa dottrina veniva riprodotta da Scoto
Eriugena (De divis. nat., II, 23). Ma nel corso ulteriore della Scolastica essa
doveva diventare uno dei massimi punti di dissenso tra la scolastica
agostiniana e la scolastica aristotelica. Tale dissenso si può vedere
tipicamente espresso nelle posizioni di San Bonaventura e di San Tommaso. San
Bonaventura si rifà alle parole di Agostino «il quale a chiare lettere e con
ragioni dimostra che la mente, nella sua conoscenza certa, dev'essere regolata
da regole immutabili ed eterne, non attraverso una sua disposizione (habitus)
ma direttamente da queste regole stesse, che sono al di sopra di essa, nella
Verità eterna » (De Scientia Christi, q. 4). San Tommaso, dal suo canto,
ammette che «tutto ciò che si sa con certezza, deriva del L. della ragione che
per opera divina è innato interiormente all’uomo » (De Ver., q. 11, a. 1, ad
13). Ma interpreta aristotelicamente questo L. come la conoscenza innata dei
primi princìpi indimostrabili «che si conoscono per il L. dell’intelletto
agente » (Contra Gent., III, 46). In altri termini, la conoscenza umana della
verità non è visione in Dio o illumina- zione diretta da parte di Dio: ma l’uso
di una « forma » che Dio ha comunicato alla mente umana e che costituisce
pertanto il «L. naturale » di essa (S. 7h., I, g.106, a. 1). San Tommaso
distingue da questo L. naturale, il L. di gloria (/umen gloriae) che rende «
deiforme » la creatura razionale cioè la rende capace di vedere l’essenza
divina e nega che il L. di gloria possa essere una disposizione naturale dell’uomo
(/bid., I, q. 12, a. 5); e che possa esserlo il lumen gratiae cioè la grazia
giustificante (/bid., I, q.106, a. 1). Il significato agostiniano del concetto
di L. cioè quello per il quale significa l'illuminazione continua da parte di
Dio si conserva nelle dottrine che, nel mondo moderno e contemporaneo, si
rifanno all’agostinismo. Sono le dottrine per le quali la conoscenza è una «
visione in Dio». Tale essa era per Malebranche (Recherche de la vérité, III, 2,
6), per Rosmini (Nuovo Saggio, $ 396) e per Gioberti (Introd. allo studio della
fil., II, pag. 175). Dal- l’altro lato, cioè lungo la linea della seconda in- terpretazione,
il L. naturale finisce per perdere ogni connessione teologica. Il titolo che
Cartesio dette a un dialogo lasciato incompiuto, che doveva riassumere la sua
filosofia, dimostra il modo in cui egli intendeva la nozione in esame: «
Ricerca della verità con il L. naturale che, da sè, e senza il soccorso della
religione e della filosofia, deter- mina le opinioni che deve avere un
onest’uomo LUOGHI su tutte le cose che possono occupare il suo pen- siero e
penetra fino nei segreti delle scienze più curiose ». Il L. naturale, inteso
così, è quel « buon senso o ragione » che nei primi righi del Discorso del
metodo è detta «la cosa del mondo meglio distribuita »; e di cui nei Principi
di filosofia (I, 30) si dice: « La facoltà di conoscere che ci è stata data e
che noi chiamiamo L. naturale non percepisce che oggetti veri, in quanto li
appercepisce cioè in quanto li conosce chiaramente e distintamente ». Leibniz a
sua volta afferma che «il L. naturale suppone una conoscenza distinta » (Nouv.
Ess., I, 1, 21) e Cristiano Wolff intendeva per «L. del- l’anima » la
«chiarezza delle percezioni » (Psychol. empirica, $ 35). In questi usi,
l’espressione non ha più nulla del significato tradizionale, cioè di una luce
che venga dal di fuori o dall’alto a investire la mente umana e a guidarla. Il
L. naturale è qui soltanto la chiarezza del pensiero umano. Leibniz dice
parlando della massima « Bisogna seguire la gioia ed evitare la tristezza »
che: « Si tratta di un principio innato, ma che non fa parte del L. na- turale,
giacchè non lo si conosce affatto in modo luminoso » (Nouv. Ess., I, 2, 1). Il
significato che l’espressione «i L.» assunse nel periodo illumini- stico è
proprio questo chiarito da Leibniz. I L. sono la chiarezza della critica
razionale portata in tutti i campi possibili del sapere e assunta come cri- terio
direttivo del pensiero e della condotta del- l’uomo. LUOGHI (gr. r6ror; lat.
Loci; ingl. Topics; franc. Lieux; ted. Òrter). Secondo Aristotele, sono gli
oggetti propri dei ragionamenti dialettici e re- torici cioè quegli « argomenti
che sono comuni all’etica, alla politica, alla fisica e a molte altre discipline
diverse, come, per es., l'argomento del più e del meno» (Rer., I, 2, 1358 a
10). Questi sarebbero i L. comuni. Ma vi sono anche, secondo Aristotele, L.
speciali 0 propri cioè argomenti co- stituiti da proposizioni che appartengono,
per es., alla fisica ma su cui è impossibile fondare propo- sizioni concernenti
l’etica o reciprocamente. I L. co- muni non hanno oggetto specifico perciò non
ac- crescono la conoscenza delle cose; i L. propri invece, specialmente se
utilizzano proposizioni op- portunamente scelte, contribuiscono alla conoscenza
delle scienze speciali (Res., I, 2, i358a 21). I retori latini sottolinearono
l’importanza che la ricerca degli argomenti e specialmente degli argo- menti (o
L.) comuni — che non accrescono il sapere ma sono strumenti di persuasione — ha
per l’arte oratoria (CICERONE, Top., 2, 7; De orat., II, 36, 152; QuinTILIANO,
/nst., V, 10, 20). E at- traverso le opere logiche di Boezio (De diff. to- picis,
I; P.L., 64°, col. 1174) la nozione passò nella logica medievale. Pietro Ispano
definisce il LUOGO L. come «la sede di un argomento o ciò da cui si trae un
argomento conveniente alla questione pro- posta » (Summul. Log., 5.06). Come si
è detto, la parte della logica che studia i L. è la 7opica. Cicerone la
interpretò come la parte inventiva della logica stessa cioè come quella che
escogita gli argomenti utili a convincere, più che limitarsi a giudicarli dal
punto di vista della loro validità. E rimproverò agli Stoici di aver coltivata
la sola dialettica e di aver trascurato la Topica (Top., 2, 6). Ma in realtà
non c’è cenno in Aristotele della capacità inventiva della Topica: la quale è
piuttosto intesa come una ricerca diretta a ricondurre sotto un numero
ristretto di capi (che sono appunto i L.) gli argomenti che ricorrono in più
scienze o in più parti di una stessa scienza. Comunque, anche la credenza nel
carattere inven- tivo della Topica passò nella tradizione (attraverso Boezio,
De diff. top., 1; P. L., 64°, col. 1173); ed anzi, quando si cominciò a
riconoscere il carattere improduttivo della logica aristotelica, le si con- trappose
l’importanza della Topica come arte del- l'invenzione. Così fece Pietro Ramo
nelle sue Dialecticae Institutiones (1543); e così fece Vico che nel De
antiquissima Italorum Sapientia (1710) con- siderò la Topica come l’arte
propria dell'ingegno che è la facoltà dell’invenzione. Ancora nella Lo- gica
Hamburgensis (1638) di Jungius c'è un’am- plissima trattazione dei L. logici
che è però con- tenuta sotto il titolo della Dialettica (libro V). Ma la Logica
di Portoreale (1662) affermava già la scarsa utilità dello studio dei Topici: «
Per formare gli uomini in un’eloquenza giudiziosa e solida, scrisse Arnauld,
sarebbe utile insegnare loro a ta- cere più che a parlare, cioè a sopprimere e
ad eliminare i pensieri bassi, comuni e falsi, piuttosto che a produrre, come
fanno, un ammasso confuso di ragionamenti buoni e cattivi dei quali si riem- piono
libri e discorsi » (Logigue, cap. 17). Lo studio dei L. di questo genere serve
perciò soltanto a riconoscerli ed a evitarli. La Logica di Portoreale ne
enumerava tre specie: quelli grammaticali, quelli logici e quelli metafisici
(Zbid., cap. 18). In seguito, lo studio dei L. ha cessato di essere parte
integrante della logica. Kant generalizza il concetto di luogo logico
intendendo per esso «ogni concetto, ogni titolo sotto il quale si raccolgono
molte cono- scenze » e parla di una «Topica trascendentale » che ha per oggetto
«la determinazione del posto che spetta nella sensibilità o nel concetto puro a
ciascun concetto, secondo la diversità del suo uso » (Cri. R. Pura, Anal. dei
princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). In questo 551 senso
la Topica coincide con la « Dottrina degli elementi» della stessa Critica della
Ragion Pura. LUOGO (gr. r6rog;
lat. Locus; ingl. Place; franc. Lieu; ted. Ort). La situazione di un corpo nello spazio. Vi sono due
dottrine del L.: 1° quella aristotelica per la quale il L. è il limite che
circonda il corpo ed è quindi una realtà per suo conto; 2° quella moderna, per
la quale il L. è un certo rapporto di un corpo con gli altri. 1° Secondo
Aristotele, il L. è «il primo limite immobile che abbraccia un corpo» (Fis.,
IV, 4, 212a 20): o in altri termini è ciò che abbraccia o circonda
immediatamente il corpo. In questo senso si dice che un corpo è nell’aria
perchè l’aria circonda il corpo ed è ad immediato contatto con esso. Questa
concezione rimane lungo tutta la filo- sofia medievale ed è ripetuta
sostanzialmente anche dai critici della fisica aristotelica, per es., da Ockham
(Summulae in libros Phys., IV, 20; Quodl., I, 4). In base a questa concezione
esistono «luoghi na- turali », che sono quelli nei quali un corpo natural- mente
sta o a cui ritorna quando ne è allontanato: « Una cosa, dice Aristotele, si
muove o natural- mente o non naturalmente e i due movimenti sono determinati
dai luoghi propri e dai luoghi estranei. Un L. nel quale una cosa rimane o
verso la quale si muove non per sua natura, dev'essere il L. na- turale di
qualche altra cosa, come l’esperienza dimostra » (De Cael., I, 7, 276 a 11).
L'intera fisica aristotelica poggia su questo teorema (v. FISICA). 2° La teoria
aristotelica dei luoghi veniva sot- toposta a una critica decisiva da Galilei
nei Dialoghi dei massimi sistemi (1632, Giornata seconda). Car- tesio
esprimeva, qualche anno più tardi, con tutta chiarezza, il concetto di L. che
emergeva dalle nuove impostazioni della scienza. « Le parole ‘ L. * e ‘spazio
’, egli diceva, non significano nulla che differisca veramente dai corpi che
diciamo essere in qualche L. e indicano solamente la loro grandezza e figura e
come essi sono situati fra gli altri corpi. Bisogna infatti, per determinare
questa situazione, riferirsi ad altri corpi che consideriamo immobili; ma
potendo tali corpi esser diversi, possiamo dire che una stessa cosa, nello
stesso tempo, muta e non muta di L.» (Princ. Phil., II, 13). E Cartesio porta
qui l’esempio dell’uomo che è seduto in una barca che si allontana dalla riva:
il L. di questo uomo non muta rispetto alla barca ma muta ri- spetto alla riva.
Con queste osservazioni, che espri- mono la relatività del movimento
(relatività gali leiana), era raggiunto il concetto moderno di L. come
riferimento di un corpo ad un altro corpo assunto come sistema di riferimento. M
MACHIAVELLISMO (ingl. Machiavellianism; franc. Machiavélisme; ted.
Machiavelismus). La dottrina politica di Machiavelli o il princìpio nel quale
essa viene convenzionalmente riassunta. La dottrina politica di Machiavelli ha
esplici- tamente lo scopo di additare la via attraverso la quale le comunità
politiche in generale (ed in parti- colare quella italiana) possono rinnovarsi
conservan- dosi o conservarsi rinnovandosi. Tale via è il ritorno ai principi,
conformemente alla concezione che il Rinascimento (v.) ha del rinnovamento
dell’uomo in ogni campo. Il ritorno ai princìpi di una comunità
politica suppone due condizioni e cioè:
1° che le origini storiche di una comunità vengano chiara- mente riconosciute,
il che può essere fatto solo da una indagine storica obbiettiva; 2° che siano riconosciute
nella loro verità effettuale le condizioni a partire dalle quali o attraverso
le quali il ritorno dev'essere realizzato. L’oggettività storiografica e il realismo
politico costituiscono così i due capisaldi del machiavellismo originario. Il
secondo di essi fa di Machiavelli il fondatore della scienza empirica della politica
cioè di una disciplina empirica che studi le regole dell’arte di governo
senz’altra preoccupazione che l'efficacia di tali regole. Della dottrina
politica di Machiavelli fanno parte integrante il concetto della fortuna cioè
del caso che con la sua imprevedi- bilità costituisce sempre una condizione
dell'attività politica; e il connesso concetto dell’impegno poli- tico per il
quale gli uomini « debbono bene non si abbandonare mai» nel senso che non
devono di- sperare né rinunziare all’azione ma inserirsi attiva- mente negli
eventi la cui riuscita, data la presenza del caso, non è mai predeterminata
(Sulla dottrina di Machiavelli e le sue interpretazioni v. G. Sasso, N. M.,
Storia del suo pensiero politico, Napoli, 1958). Per machiavellismo s'intende
anche il principio nel quale convenzionalmente, a partire dal sec. xVII, si è
riassunta la dottrina di Machiavelli: cioè che «il fine giustifica i mezzi».
Tale massima tuttavia non è stata formulata da Machiavelli, che non considera
lo stato come fine assoluto e non lo con- sidera dotato di un'esistenza
superiore a quella del- l’individuo (nel senso in cui farà, per es., HEGEL,
Fil. del dir., $ 337). Machiavelli inoltre orientava tutte le sue simpatie
verso l’onestà e la lealtà nella vita civile e politica e pertanto ammirava gli
stati che si reggevano o si erano retti su queste virtù, come, ad es., quelli
dei Romani e degli Svizzeri. Tuttavia il suo scopo era, come si è detto, di
for- mulare, sulla base dell’esperienza politica antica e nuova, regole di
governo efficaci; ed egli considerò tale efficacia indipendente dal carattere
morale o immorale delle regole stesse. Dall’altro lato, egli si rendeva conto
che la morale e la religione possono essere, e talvolta sono, forze politiche
che condizio- nano, come tutte le altre forze, l’attività politica e la sua
riuscita; come pure vedeva che talvolta ciò non accade e che l’azione politica
riesce efficace anche esercitandosi in senso contrario alle leggi della morale.
Poichè questo caso era il più frequente nella società (specialmente italiana e
francese) del suo tempo, la quale perciò è da lui detta « corrotta », e poichè
Machiavelli ha soprattutto in vista l’appli- cazione delle sue regole politiche
alla società italiana per la costituzione di uno stato unificato, si spiega la
sua insistenza su certe massime immorali di con- dotta politica: insistenza che
è malamente espressa o generalizzata nella massima che il fine giustifica i
mezzi. Questa massima fu in realtà propria dalla morale gesuitica. Hegel la
cita nella forma che essa aveva ricevuta dal padre gesuita Busenbaum MAGIA (1602-68):
« Quando il fine è lecito, anche i mezzi sono leciti » (Medulla theologiae
moralis, IV, 3, 2); e la giustifica sia formalmente cioè come espressione tautologica,
sia sostanzialmente, come « coscienza indeterminata della dialettica
dell’elemento positivo + (Fil. del dir., $ 140, d); cfr. sul M., F. MEINECKE, Die
Idee der Staatsràson in der neueren Geschichte, 1925; trad. ingl.,
Machiavellianism, 1957). MACROCOSMO. V. Microcosmo. MADRE (gr. pipe) Secondo
Platone, la madre dell’universo è la materia amorfa, come il padre di esso è il
modello eterno al quale il De- miurgo lo crea simile. « Questa madre e
ricettrice di tutto ciò che di visibile e di sensibile viene creato, non
dobbiamo chiamarla nè terra nè aria nè fuoco nè acqua nè altra cosa che nasca
da queste o da cui queste nascano; ma piuttosto una specie invisibile e amorfa,
capace di accogliere tutto, partecipe del- l’intellegibile e difficile a
concepirsi» (Tim., 51 a-b). MAGIA (gr. pay) tex; lat. Magia; ingl. Ma- gic;
franc. Magie; ted. Magie). La scienza che pre- tende di dominare le forze
naturali con gli stessi pro- cedimenti con cui si assoggettano gli esseri
animati. Il presupposto fondamentale della M. è pertanto l’animismo e la
migliore definizione di essa è quella che è stata data da Reinach come «la
strategia dell’animismo » (Mythes, Cultes et Religions, II, Introd., pag. XV).
Strumenti di questa strategia sono gli incantesimi, gli esorcismi, i filtri, i
talismani, medianti i quali il mago comunica con le forze naturali o celestiali
o infernali e le persuade a obbe- dirgli. Il carattere violento o subdolo delle
opera- zioni con cui si persuadono le forze naturali a obbe- dire, è un altro
contrassegno della M.: che è una strategia d'assalto, che vuol conquistare d’un
colpo solo: a differenza di quella che sarà la strategia della scienza moderna,
la quale tende a una graduale conquista della natura, e prescinde dai mezzi
vio- lenti o subdoli. La M. è di origine orientale e si diffuse in occi- dente
nel periodo greco-romano (cfr. F. CUMONT, Oriental Religions in Roman Paganism,
cap. VID. Essa circolò più o meno nascostamente nel Medio Evo per ritornare
alla piena luce nel Rinascimento: durante il quale fu spesso considerata come
il com- pimento della filosofia naturale cioè come quella parte di essa che
consente all’uomo di agire sulla natura e di dominarla. Così, per es., la
considerava Pico della Mirandola (De MHominis Dignitate, fol. 136 v); e così la
consideravano tutti i naturalisti del rinascimento. Giovanni Reuchlin, Cornelio
Agrippa, Teufrasto Paracelso, Gerolamo Fracastoro, Gerolamo Cardano,
Giovambattista della Porta mirano tutti ugualmente a togliere alla M. il
carattere diabolico che le era stato attribuito nel Medio Evo e a farne la
parte pratica della filosofia. Della Porta 553 distinse nettamente dalla M.
diabolica, che si avvale delle azioni degli spiriti immondi, la M. naturale che
non oltrepassa i limiti delle cause naturali e le cui operazioni appaiono
meravigliose solo perchè ne rimane nascosto il procedimento (Magia natu- ralis,
1558, I, 1). Questa distinzione veniva ripetuta da Campanella; che distingueva,
inoltre, anche una M. divina che opera in virtù della grazia divina, come
quella di Mosè e degli altri profeti (De/ senso delle cose e della M., 1604,
IV, 12). Sulla M. nel Rinascimento, cfr. GARIN, Medioevo e Rinascimento, 1954,
cap. III. Il progredire della scienza, eliminando il presup- posto della M.,
cioè l’animismo, toglieva ogni base a quella strategia d’assalto in cui essa
consisteva. Francesco Bacone, che pure è l’erede maggiore di quella esigenza
operativa che la M. rappresentava, paragona la M. stessa ai romanzi
cavallereschi del ciclo di Artù; e la ritiene derivare dalla metafisica che
indaga le forme; mentre dalla fisica, che è la ricerca delle cause efficienti e
materiali nasce, come scienza operativa, la meccanica (De augm. scient, III,
5). Pertanto, nel mondo moderno, la M. è sparita dall’orizzonte della scienza e
della filosofia. Per ciò che riguarda quest’ultima, costituisce un’eccezione
l’opera di Novalis che, nel periodo romantico, difese un «idealismo magico» per
il quale è M. buona parte delle più comuni attività umane. Dice, per es.,
Novalis: « L'uso attivo degli organi non è altro che pensiero magico, tauma- turgico,
o uso arbitrario del mondo dei corpi; infatti la volontà non è altro che magia,
energica capacità di pensiero» (Fragmente, $ 1731). Egli esprimeva così il
principio del suo idealismo magico: «Il più gran mago sarebbe quello che
sapesse anche incantare se stesso sino al punto che le sue stesse magie gli
apparissero fenomeni estranei e autonomi. E non potrebbe essere questo il caso nostro?»
(/bid., $ 1744). Ma sparita dal mondo della filosofia e della scienza, la M.
rimane come una delle categorie interpretative della sociologia e della
psicologia. Sulla funzione della M. nell’uomo primitivo, così si esprime Ma- linowski:
«La M. fornisce all’uomo primitivo un numero di atti e di credenze rituali già
fatti, una tecnica mentale e pratica definita la quale serve a superare gli
ostacoli pericolosi in ogni importante impresa e in ogni situazione critica...
La sua funzione è quella di ritualizzare l’ottimismo dell’uomo, di rafforzare
la sua fede nella vittoria della speranza sulla paura» (Magic Science and
Religion, ed. Anchor Book, pag. 90). Ma l’atteggiamento primitivo non è solo
dell’uomo primitivo: l’uomo civilizzato ricade in esso in determinate
circostanze che vanno dalla mancanza di tecniche adatte per affrontare situazioni
difficili alle incapacità di trovare a utiliz- 554 zare queste tecniche.
Credenze magiche sono perciò frequenti nella vita di ogni giorno, anche se
spesso non confessate. Comportamento magico è stato chiamato, non senza
ragione, da Sartre la reazione emotiva patologica che talora è alla base dei
disturbi mentali (v. Emozione). D'altronde Jung ha visto l’origine della M.
nell’idea di una Energia univer- sale che egli ritiene latente nell’inconscio
di tutto il genere umano e che si identifica con l’idea di Dio (Psicologia
dell’inconscio, 1942, cap. 5). E Levi- Strauss ha stabilito un’analogia tra la
cura magica e la psicanalisi (v.) perchè entrambe rendono pos- sibile,
attraverso la presa di coscienza dei conflitti interni del malato,
un’esperienza specifica nella quale i conflitti possono svilupparsi e
manifestarsi libera- mente (Antropologie $tructurale, 1958, pag. 217 sgg.). MAGNANIMITÀ
(gr. usyadopuyla; lat. Ma- gnanimitas; ingl. Magnanimity; franc. Magnanimité; ted.
Grossmuth). Secondo Aristotele, la virtù che consiste nel desiderare grandi
onori e nell’esserne degni. Aristotele dà molto rilievo a questa virtù, in
quanto accompagna e « rende più grandi » tutte le altre. «Chi è degno di
piccole cose, egli dice, e si considera degno di esse sarà moderato ma non magnanimo;
la M. è indisgiungibile della gran- dezza come la bellezza da un grande corpo,
giacchè i piccoli corpi saranno graziosi e proporzionati ma non belli » (Er.
Nic., IV, 3, 1123 b 7). L’insistenza su questa virtù è il segno della
persistenza in Ari- stotele dell’etica aristocratica arcaica (cfr. JAEGER, Paideia,
I, cap. I; trad. ital., I, pag. 43 sgg.). Car- tesio considerava la M. identica
con la generosità e la identificava con la virtù che consiste nel giu- dicare
se stesso secondo il proprio valore e nel- l’esser privo di gelosia e d’invidia
verso gli altri (Passions de l’ame, art. 156-61). MAIEUTICA (gr. porvi) réxw;
ingl. Maieu- tics; franc. Maleutique; ted. Mdàeutik). L'arte della levatrice alla quale Socrate,
nel Teefeto platonico, paragona il suo insegnamento, in quanto consiste nel
portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente dei suoi allievi.
«Io ho questo in comune con le levatrici, dice Socrate: sono sterile di
sapienza; e ciò che molti da anni mi rimproverano, che interrogo gli altri ma
non rispondo mai da me perchè non ho alcun pensiero saggio da esporre, è
rimprovero giusto » (Teer., 150 c.). MALE (gr. 76 xaxéy; lat. Malum; ingl. Evil; franc. Mal; ted. Bòse). Questo termine ha una varietà
di significati altrettanto estesa del termine bene (v.) di cui è correlativo.
Dal punto di vista filosofico, tuttavia, questa varietà si lascia ricondurre alle
due interpretazioni fondamentali che sono state date della nozione nel corso
della storia della filo- sofia, e che sono: 1° la nozione metafisica del M. secondo
la quale esso è a) il non-essere, oppure MAGNANIMITÀ b) una dualità
nell’essere; 2° la nozione soggetti- vistica, secondo la quale il M. è
l'oggetto di una appetizione negativa o di un giudizio negativo. 1° La
concezione metafisica del M. consiste o nel considerarlo come il non essere di
fronte all’es- sere che è il bene; o nel considerarlo come una dualità
dell’essere, come un dissidio o un contrasto interno all'essere stesso. a) La
concezione del M. come non essere si affaccia negli Stoici ed è chiaramente
formulata dai Neoplatonici. Ritenendo che l’esistenza dei mali condiziona
quella dei beni sicchè, ad es., non ci sarebbe giustizia se non ci fossero
offese, non ci sarebbe operosità se non ci fosse ignavia, non ci sarebbe verità
se non ci fosse menzogna, e così via, gli Stoici e in particolare Crisippo
ritenevano che i cosidetti mali non sono veramente tali perchè sono necessari
all’ordine e all’economia dell’universo (GeLLIO, Noct. Att., VII, 1). Marco
Aurelio espri- meva perfettamente questo punto di vista dicendo: t Viene
mutilata e compromessa l’integrità del tutto, ogni volta che tu tagli via una
particella qualsiasi dell’ordine e della continuità dell'universo... E vera- mente
tagli via, per quanto è in tuo potere, qual- cosa dell’universo ogni volta che
ti rammarichi dell’accaduto; in un certo senso condanni a morte così facendo,
nel tuo desiderio, l’intero universo + (Ric., V, 8). Poichè non si può dover
amare una cosa e considerarla cattiva, il punto di vista stoico equivale a
considerare buona ogni cosa esistente e a ridurre il M. al non essere. Questa
riduzione diventa esplicita nel neoplatonismo. Plotino dice: « Se tali sono gli
enti e tale è ciò che è al di là degli enti [cioè Dio] il M. non esiste nè in
quelli nè in questo, giacchè sia l'uno che l’altro è bene. Resta dunque che, se
esista, esiste in ciò che non è; e che sia una specie di non-essere e si trovi
perciò nelle cose mescolate di non-essere o partecipanti al non-essere » (Enn.,
I, 8, 3). E in questo senso Plotino identifica il male con la materia: la materia
è il non essere «Il M. non consiste in una deficienza parziale ma in una
deficienza totale: la cosa che manca parzialmente del bene non è cattiva e può
anche essere perfetta nel suo genere. Ma quando c’è deficienza totale, come
nella materia, allora c’è il vero M., che non ha alcuna parte di bene. La
materia non ha neppure l’essere che le renderebbe possibile partecipare del
bene: si può dire che essa sia solo in un senso equivoco; in verità essa è lo
stesso non essere » (/bid., I, 8, 5). L’identificazione del male col non essere
diventa tradizionale nella filosofia cristiana. Essa viene ripresa da Clemente
Alessandrino (Strom., IV, 13), da Origene (De Princ., I, 109) e da S. Agostino che
la diffonde nel mondo occidentale. Dice S. Ago- stino: « Nessuna natura è M. e
questo nome non MALE indica altro che la privazione del bene » (De Civ. Dei, XI,
22). Pertanto « Tutte le cose sono buone e il male non è sostanza perchè se
fosse sostanza sa- rebbe bene» (Conf., VII, 12). Boezio a sua volta affermava:
«Il male è niente, perchè non lo può fare Colui che può ogni cosa» (Phil.
cons., III, 12). La scolastica è altrettanto unanime su questo punto. S.
Anselmo ribadiva la dottrina del M. come non essere negli stessi termini di S.
Agostino (De casu diaboli, 12-16). La scolastica giudaica ripete, con
Maimonide, la stessa tesi (Guide des égarés III, 10); e la ripetono nella
scolastica cristiana, sia gli agostiniani, ceme Alessandro di Hales (S. 7A., I,
q. 18,9) sia gli aristotelici come Alberto Magno (S. 77%., I, q. 27, 1) e S.
Tommaso. « Poichè bene, dice S. Tommaso, è tutto ciò che è appetibile e poichè
ogni natura appetisce il suo essere e la sua perfezione è necessario dire che l’essere
e la perfezione di qualsiasi natura è essen- zialmente bene. Non può essere
perciò che « M.» significhi un qualche essere o una qualche forma o natura; e
rimane che significhi soltanto l’assenza del bene » (S. 77., I, q. 48, a. 1).
AIM. si può riferire il verbo essere solo nel senso della «verità della proposizione
» cioè nel senso in cui si dice che «la cecità è nell'occhio »; un senso che
non implica in alcun modo la realtà (enritas rei) (Ibid., I, q. 48, a. 2). Dopo
le osservazioni scettiche di Pietro Bayle sulla compatibilità del M. (in tutte
Ie sue forme) con l’onnipotenza divina e con la perfezione del- l'universo, la
teodicea di Leibniz è fondata sulla dottrina tradizionale del M. come negazione
del bene. «I Platonici, S. Agostino e gli Scolastici, dice Leibniz, hanno avuto
ragione di dire che Dio è la causa materiale del M., che consiste nella sua parte
positiva, e non della forma di esso, che consiste nella privazione; come si può
dire che la corrente è la causa materiale del ritardo cioè della velocità di un
battello, senza essere causa della forma del ritardo stesso cioè dei limiti di
questa velocità + (Théod., I, 30). Le considerazioni di Leibniz a questo
proposito sono rimaste a fondamento di ogni ulte- riore tentativo di feodicea
(v.). D’altra parte, la nullità del M. è rimasta costantemente la tesi propria
delle dottrine che identificano l’essere col bene o, in termini moderni, con la
razionalità o il dover essere: come accade in Hegel per il quale il M., inteso
come volontà cattiva, è « la nullità assoluta » di questa volontà (Enc., $
512). Dal punto di vista di un idealismo assoluto come quello di Hegel e della
sua scuola, si ripresenta il problema tradizionale della teodicea, quello della
possibilità del M.; e l’unica soluzione disponibile è ancora quella tra-
dizionale, la nullità del M. stesso. Diceva Gentile: « Non errore e verità, ma errore
nella verità, come 555 suo contenuto che si risolve nella forma; nè M. e bene;
ma M. onde il bene si nutre nel suo assoluto formalismo » (Teoria generale
dello spirito, XVI, 10). A sua volta Croce affermava: «Il M., quando è reale
non esiste se non nel bene, che gli contrasta e lo vince e quindi non esiste
come fatto positivo: quando invece esiste come fatto positivo è, non già un M.,
ma un bene (e a sua volta ha come ombra il M. contro cui lotta e vince) ».
(Fil. della pratica, 1909, pag. 139). Non essere o nullità o irrealtà del M. è
la tesi che viene costantemente riscoperta come nuova ogni volta che, in una
forma qualsiasi, viene posta l’identità fra essere e bene. b) La seconda
concezione metafisica del M. è quella che lo considera come un contrasto
interno dell’essere, cioè come la lotta tra due princìpi. Si tratta di una
concezione per la quale il dominio dell’essere è diviso in due campi opposti,
dominati da due princìpi antagonisti. Il modello di questa concezione è la
religione persiana, cioè la religione di Zarathustra o Zoroastro che
contrapponeva alla divinità (Ahura Mazda o Ormazd) un’antidivinità (Ahriman)
che è il principio del M. (cfr. PETTAZZONI, La religione di Zaratustra,
Bologna, 1921; Du- CHESNE-GUILLEMIN, Ormazd et Ahriman, Parigi, 1953). Questa
dottrina costituisce una soluzione estremamente semplice del problema del M.:
una so- luzione che, mentre limita la potenza delle divinità, non viene meno al
monoteismo perchè concepisce la potenza limitante come una anti-divinità. Se- condo
questa soluzione, il M. è reale allo stesso titolo del bene; e come tale ha una
sua propria causa, antitetica a quella del bene. La dottrina evita la
riduzione, così poco convincente per l’uomo comune, del M. al nulla; e fa
appello allo stesso tipo di giustificazione cui ricorre la negazione meta- fisica
della realtà del male. Il dualismo persiano ritornava nel culto di Mitra:
personaggio che, secondo la testimonianza di Plutarco, occupava un posto
intermediario tra il dominio della luce proprio di Ahura Mazda e il dominio
delle tenebre proprio di Ahriman (De Iside et Osiride, 46-47; cfr. F. Cu- MONT,
Ze Mysteries of Mithra, cap. I). Ritornava altresì, con qualche attenuazione,
in qualche setta gnostica dei primi secoli dell’era volgare e special- mente in
quella di Basilide (cfr. BuonaIUTI, Fram- menti gnostici, 1923, pag. 42 sgg.)
nonchè nella setta dei Manichei contro i quali conduce una delle sue principali
polemiche S. Agostino (v. MANI- CHEISMO). Ma la filosofia non ha mai accettata questa
soluzione del problema del M. nella forma semplice in cui l’aveva
originariamente formulata la religione persiana. Essa, cioè, non ha mai ammessa
la separazione dei due princìpi. Quando ha accettato quella soluzione l’ha
modificata nel senso di includere entrambi i princìpi in Dio: cioè di
considerare sia il 556 principio del bene sia il principio del M. come uniti in
Dio, proprio in virtù del loro contrasto. Nel sec. xv Jakob Bòhme, insistendo
sulla presenza, in tutti gli aspetti della realtà, di due princìpi in lotta,
che sono poi il bene e il M., attribuiva la causa di questa lotta alla presenza
in Dio dei due princìpi antagonisti che egli indicava con vari nomi: lo spirito
e la natura, l'amore e l'ira, l’essere e il fondamento, ecc. Questi due
princìpi sarebbero in Dio strettamente avvinti in una specie di lotta amorosa.
« La divinità, diceva Bòhme, non se ne sta tranquilla, ma le sue potenze
operano senza tregua e lottano amorosamente, si muovono e combattono: come
accade a due creature che giocano in grande amore l’una con l’altra e si abbracciano
e si stringono; talora l’una è vinta, talora l’altra; ma il vincitore subito si
arresta e lascia che l’altra riprenda il suo giuoco » (Aurora oder die
Morgenròte im Aufgane, 1634, cap. XI, $ 49). In altri termini il dualismo del
bene e del M. è in Dio stesso e in Dio stesso i due princìpi com- battono una
lotta «amorosa» nella quale nes- suno è definitivamente sconfitto. Quella
sottocor- rente del pensiero filosofico che si chiama reosofia (v.) ha sempre
fatta propria questa soluzione del pro- blema del male. La quale nel periodo
romantico, ritornava nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana (1809) di
Schelling: in cui Schelling soste- neva proprio come Bòhme, che in Dio, c’è non
solo l’essere, ma a fondamento di questo essere un substrato o natura che è
distinto da lui ed è un’oscura brama, un inconscio desiderio di essere, di
uscire dall’oscurità e di raggiungere la luce di- vina (Werke, I, VIII, pag.
359). Schelling tuttavia affermava che, essendo questi due princìpi stret- tamente
uniti in Dio, non c’è in lui distinzione tra bene e M.: con la separazione di
quei prin- cìpi nell'uomo nasce invece la possibilità del bene e del M. e del
loro contrasto (/bid., pag. 364). Ancora in tempi relativamente recenti, e in
più diretto riferimento alla religione persiana, una solu- zione simile del
problema del M. veniva riproposta da G.T. Fechner: il quale ammetteva in Dio la
stessa dualità tra la volontà razionale e gli istinti oscuri che è
riscontrabile nell'uomo (Zend-Avesta, 5° ediz., 1922, pag. 244-245).
Prospettate meno espli- citamente, si possono scorgere soluzioni analoghe in
alcune forme dello spiritualismo e nella psicana- lisi (v.). Ma si tratta
spesso di soluzioni di carat- tere religioso o teosofico, che difficilmente
possono essere considerate come vere e proprie spiegazioni filosofiche. 2° La
seconda concezione fondamentale del M. è quella che lo considera, non già come
una realtà o irrealtà, ma come l’oggetto negativo del desiderio o in generale
del giudizio di valutazione. Questa MALE RADICALE concezione è ammessa da tutti
coloro che difendono quella che è stata chiamata la teoria soggettivistica del
bene. Hobbes, Spinoza, Locke, condividono questa teoria (v. per i relativi
testi l’art. BENE); alla quale Kant ha dato la sua forma più generale. Egli
dice: «I soli oggetti di una ragion pratica sono il bene ed il male. Col primo
s’intende un og- getto necessario della facoltà di desiderare, col se- condo un
oggetto necessario della facoltà di abbor- rire, ma entrambi secondo il solo
principio della
ragione » (Crit. R. Prat., cap. 2). Kant
insisteva soprattutto nel sottrarre le determinazioni di bene e M. (in tedesco
Gut e Bose) alla sfera della « facoltà di desiderare inferiore » alla quale
appartengono il piacevole e il doloroso (in tedesco Wohl e Ùbel). «Ciò che noi
dobbiamo chiamar bene, egli diceva, dev'essere un oggetto della facoltà di
desiderare a giudizio di ogni uomo ragionevole; il M. dev'essere un oggetto di
avversione agli occhi di ognuno: sicchè per tali giudizi occorre, oltre il
senso, anche la ragione» (/bid.). Tuttavia Kant era d'accordo con la teoria
soggettivistica nel ritenere che il bene e il M. non possono essere determinati
indipendente- mente dalla facoltà di desiderare dell’uomo: il che vuol dire che
essi non sono realtà o irrealtà per loro conto. La filosofia moderna e
contemporanea con- divide questo indirizzo. Il M. è, per essa, semplice- mente
un disvalore cioè l’oggetto di un giudizio negativo di valore; e implica
pertanto il riferimento alla regola o norma sul quale il giudizio di valore si
fonda (v. VALORE). Così, ad es., un terremoto è un M. se distrugge vite umane o
fonti di sussistenza o di benessere per l’uomo, ma non lo è se non fa questo
perchè in tal caso non contrasta col desiderio o con l’esigenza umana della
sopravvivenza e del benessere. Comunque si voglia considerare tale esigenza,
essa si esprime in regole o norme, con le quali possono entrare in contrasto
sia avvenimenti naturali sia comportamenti umani. Tali avvenimenti o
comportamenti sono detti mali, non perchè abbiano uno speciale status
metafisico, ma sul fondamento di quel contrasto. Proprio da questo punto di
vista Kant interpretava lo stesso « M. radicale » della natura umana come una
massima che è fondamento del comportamento di tutti gli esseri razionali
finiti: cioè come la massima di allontanarsi, occasionalmente, dalla legge
morale (Religion, I, 3). Tale massima non esprime altro che la possibilità di
contravvenire alle norme morali che sono proprie dell’uomo; e pertanto
definisce il M. radicale come la possibilità generale del disva- lore nella
condotta dell’uomo. MALE RADICALE. V. MALE. MALTHUSIANESIMO (ingl.
Malthusianism; franc. Malthusianisme; ted. Malthusianismus). 1. La dottrina
economica di Thomas Robert Malthus MASSIMA (1766-1834) esposta nel Saggio sulla
popolazione (1798): nella quale veniva riconosciuta in linea di principio la
diversa proporzione di accrescimento tra la popolazione e i mezzi di
sussistenza e consi- derati i mezzi per evitare lo squilibrio tra l’una e gli
altri. Malthus teneva presente lo sviluppo del Nord America inglese e osservava
che qui la popola- zione tendeva a crescere secondo una progressione
geometrica, raddoppiandosi ogni venticinque anni, mentre i mezzi di sussistenza
tendevano a crescere secondo una progressione aritmetica. Secondo Malthus, lo
squilibrio che così si determina fa inter- venire i mezzi repressivi (la
miseria, il vizio e altri flagelli sociali) che falciano la popolazione; e non
c'è altro modo di evitare l’azione di tali mezzi se non sostituendoli con mezzi
preventivi, che consistono nel controllo delle nascite. Malthus vedeva perciò
l’unico rimedio ai mali sociali nell’astensione dal matrimonio delle persone
che non sono in grado di provvedere al mantenimento dei figli, raccoman- dando
nello stesso tempo «una condotta stretta- mente morale durante il periodo di
questa asten- sione ». Questa dottrina ha posto un problema che rimane vivo e
attuale nella società contemporanea, tenuto conto dell'enorme proporzione di
crescita della popolazione mondiale. 2. In generale, la teoria e la pratica del
controllo volontario delle nascite. MANICHEISMO (ingl. Manicheism; fran- cese
Manichéisme; ted. Manichaismus). La dottrina del sacerdote persiano Mani (/ar.
Manichaeus) vissuto nel mi secolo che si proclamò il Paracleto cioè colui che
doveva portare la dottrina cristiana alla sua perfezione. Il M. è una
mescolanza fanta- stica di elementi gnostici, cristiani e orientali, sul fondamento
del dualismo della religione di Zara- tustra. Ammette infatti due princìpi, uno
del bene o principio della luce, l’altro del male o principio delle tenebre.
Questi princìpi sono rappresentati nell'uomo da due anime, una corporea che è
quella del male, l'altra luminosa che è quella del bene. La prevalenza
dell’anima luminosa si può raggiun- gere con una ascesi particolare che
consiste in un triplice sigillo: astenersi dal cibo animale e dai discorsi
impuri (signaculum oris); astenersi dalla proprietà e dal lavoro (signaculum
manus); aste- nersi dal matrimonio e dal concubinaggio (signa- culum sinus). Il
M. fu molto diffuso in Oriente e in Occidente e qui durò sino al sec. vu. Il
grande avversario del M. fu S. Agostino che dedicò alla cunfutazione di esso un
numeroso gruppo di opere. Cfr. H. C. PuEcH, Le manichéisme: Son fondateur, Sa
doctrine, Parigi, 1949. MANIERA (ingl. Manner; franc. Manière; ted. Manier). A
partire dal xvm secolo la parola è stata adoperata per designare una forma
parti- 557 colare, di minor pregio, dell’espressione artistica; e precisamente
quella che è il prodotto di una ricerca fallita di originalità. Dice Kant: « La
M. è una specie di contraffazione la quale consiste nell’imitazione dell’originalità
in generale e quindi nell’allontanarsi per quanto possibile dagli imitatori
senza però possedere il talento di essere per se stesso esemplare... Il
prezioso, il ricercato, l’affettato, che vogliono distinguersi dal comune, ma
riescono senz’anima, somigliano ai modi di chi sta ad ascoltare se stesso o si
muove come se fosse sulla scena » (Crif. Giud., $ 49). Nello stesso senso,
Hegel definiva la M. come quella forma d’arte nella quale l’artista, invece di
conservare all’arte la sua « oggettività » cerca di assorbirla nella sua
individualità « parti- colare e accidentale »; e la contrapponeva perciò all’originalità,
che è la «vera oggettività» del- l’opera d’arte (Vorlesungen iber die
Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 391 sgg.). MANIFESTAZIONE (ingl.
Manifestation; franc. Manifestation; ted. Manifestation). Lo stesso che
espressione, rivelazione o fenomeno (v.), nel senso positivo di quest’ultimo
termine. MANTICA (gr. pavtix) rex; ingl. Mantic; franc. Mantique; ted. Mantik). La visione anticipata o la scienza delle cose future.
Così definisce la M. Cicerone (De Divin., I, 1) il quale riporta e discute soprattutto
il modo in cui tale scienza era intesa dagli Stoici. Per essi, la M. è fondata
sull’ordine necessario del mondo, cioè sul destino: giacchè appunto
interpretando quell’ordine, si possono anticipare gli eventi che esso
determina. « Gli Stoici, dice Cicerone, affermano che soltanto il sapiente può
essere indovino. Crisippo definisce la M. con queste parole: la facoltà di
conoscere, di vedere e spiegare i segni mediante i quali gli Dei manifestano la
loro volontà agli uomini» (De Divin., II, 63, 130). MARXISMO. V. CoMunISMO,
MATERIALISMO DIALETTICO, MATERIALISMO STORICO. MASSIMA (lat. Maxima propositio;
ingl. Maxim; franc.
Maxime; ted. Maxime). Questo termine ha
due significati diversi: 1° proposizione evidente; 2° regola di condotta. 1° Il
significato di proposizione evidente è il più antico e si trova stabilito a
proposito dalla teoria dei luoghi logici. Boezio chiamò +« proposizione massima
» la proposizione indimostrabile ma evi- dente (In top. Cicer., I; De diff.
topicis, II; in P.L., 64°, col. 1151, 1185) e questo significato rimase fissato
nella logica medievale. « La proposizione massima, dice Pietro Ispano, è la
proposizione di cui non ce n’è un’altra più nota o più primitiva, come ad es.,
‘Ogni tutto è maggiore della sua parte ’» (Summ. Log., 5.07). Più tardi, si
accentuò talvolta il carattere di probabilità della massima; per essa Jungius
intende infatti «un enunciato universale 558 massimamente probabile » (Log.
Hamburgensis, 1638, V, 3, 5). In questo significato che è sinonimo di assioma
usavano la parola sia Locke (Saggio, IV, 12, 1) che Leibniz (Nouv. Ess., IV,
12, 6). Questo significato è ora in disuso giacchè per esso viene costantemente
adoperato il termine assioma. 2° Furono i moralisti francesi della seconda metà
del ’600 i primi ad adoperare il termine per significare una regola morale. La
Rochefoucauld intitolava la raccolta dei suoi pensieri Reffexions ou Sentences
et Maximes Morales, (1665); e Kant accoglieva quest’uso, intendendo per M. una
regola di condotta in generale. Egli distingueva la M. come « principio
soggettivo della volontà » dalla legge che è il principio oggettivo, cioè
universale, della condotta. L'individuo può assumere come sua M. sia la legge
sia un’altra regola qualsiasi e perfino quella di allontanarsi dalla legge
stessa (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I, 1, nota; Crit. R. Prat., $ 1,
Def.; Religion, I, Oss.). Questo secondo significato del termine è il solo
rimasto. MATEMATICA (gr. Ma@nuatuh; lat. Mathe- matica; ingl. Mathematics; franc. Mathématique;
ted. Mathematik). Le definizioni filosofiche della M.
esprimono da un lato orientamenti diversi della ricerca matematica, dall’altro
modi diversi di giu- stificare la validità e la funzione delle M. nell’in- sieme
delle altre scienze. Possono distinguersi quattro definizioni fondamentali: 1°
la M. come scienza della quantità; 2° la M. come scienza delle relazioni; 3° la
M. come scienza del possibile; 4° la M. come scienza delle costruzioni
possibili. 1° «Scienza della quantità » è stata la prima definizione filosofica
della matematica. Già implicita nelle considerazioni di Platone sull’aritmetica
e sulla geometria, le quali tendevano soprattutto a mettere in luce la
differenza tra le grandezze per- cepite dei sensi e le grandezze ideali che
sono l'oggetto della M. (Rep., VII, 525-27), questa defì- nizione veniva
chiaramente formulata da Aristotele. «Il matematico, diceva Aristotele,
costruisce la sua teoria per mezzo dell’astrazione: egli prescinde da tutte le
qualità sensibili, quali il peso e la leggerezza, la durezza e il suo
contrario, il caldo e il freddo, e le altre qualità opposte e si limita a
considerare solo la quantità e la continuità, qualche volta in una sola dimensione,
qualche volta in due, qualche volta in tre; nonchè i caratteri di queste entità
in quanto sono quantitative e continue, trascurando ogni altro aspetto di esse.
Conseguentemente egli studia le posizioni relative e ciò che ad esse inerisce,
la com- mensurabilità o l’incommensurabilità e le propor- zioni» (Met., XI, 3,
1601a 28; cfr. Fis., II, 2, 193 b 25). Questo concetto delle matematiche è durato
assai a lungo e solo nel secolo scorso è comin- ciato ad apparire insufficiente
a esprimere tutti gli MATEMATICA aspetti dell’indagine matematica. Kant stesso
lo utilizzava traducendolo nel linguaggio della sua filosofia. Egli poneva la
distinzione tra M. e filosofia in questo che, mentre la filosofia procede
mediante concetti, la M. procede mediante la costruzione di concetti: ma la
costruzione dei concetti è possibile in M. solo sul fondamento dell’intuizione
a priori dello spazio, che è poi la forma della quantità in generale. « Coloro,
dice Kant, i quali hanno creduto di distinguere la filosofia dalla M. dicendo
che questa ha per oggetto solo la quantità, han preso l’effetto per la causa.
La forma della conoscenza M. è la causa per cui essa può riferirsi unicamente a
quan- tità. Soltanto infatti il concetto di quantità si può costruire, cioè
esporre a priori nell’intuizione dello spazio » (Crit. R. Pura, Dottr. del
metodo, cap. I, sez. 1). Il concetto della M. come costruzione e quindi in
qualche modo intuizione, doveva ritornare nella M. contemporanea (v. oltre, n.
4). Ma quello di M. come scienza della quantità si è trovato innumerevoli volte
ripetuto dai filosofi. Le lun- ghe e fantastiche disquisizioni di Hegel sui
concetti fondamentali della M. nella grande Logica sono fondate su di esso
(Wissenschaft der Logik, I, I, sez. II). E anche assai più tardi, Croce si
riferiva imperterrito allo stesso concetto « Le M. forniscono concetti astratti
che rendono possibile il giudizio numeratorio; costruiscono gli strumenti per
contare e calcolare e per compiere quella sorta di finta sin- tesi a priori che
è la numerazione degli oggetti sin- goli » (Logica, 1920, pag. 238). 2° La
seconda concezione fondamentale della M. è quella che la considera come scienza
delle relazioni quindi come strettamente collegata con la logica o parte di
essa. L’antecedente di questa concezione si può trovare in Cartesio, che
affermava: « Per quanto le scienze che si chiamano comune- mente matematiche
abbiano oggetti diversi, esse si accordano tutte in quanto non considerano
altro che i diversi rapporti o proporzioni che si ritrovano in essi» (Discours,
II). Il concetto leibniziano dell’ars combinatoria (v.) o M. universale si può
assumere certo come inizio del concetto della M. come logica; ma esso non
impediva allo stesso Leib- niz di aderire ancora al concetto tradizionale della
M. come arte della quantità (De Arte combi- natoria, 1666, Proemium, 7, in Op.,
ed. Erdmann, pag. 8). Ovviamente, la stretta connessione della M. con la logica
cominciò ad apparire in modo evidente come tratto caratteristico delle M.
quando la logica stessa assunse la forma di un calcolo matematico. Boole
affermava che poichè « le ultime leggi della logica sono matematiche nella loro
forma +, l’esibizione della logica nella forma di un calcolo non è un modo
arbitrario di presentarla, ma qualcosa che dipende dalle stesse leggi del pen- MATEMATICA
siero (Laws of Thought, 1854, cap. I, $ 10). Le ri- cerche di Dedekind sui
fondamenti dell’aritmetica (Was sind und sollen die Zahlen?, 1887) si muo- vono
nello stesso ordine di pensieri. Ma soprat- tutto contribuì a inscrivere la M.
nel dominio della logica l’opera di Frege e la sua polemica contro lo
psicologismo. In un saggio del 1884 Frege mostrava l’importanza del concetto di
re- lazione per la definizione del numero naturale e diceva: «Il concetto di
relazione appartiene — non meno che il semplice concetto — al campo della
logica pura. Qui non interessa il contenuto speciale della relazione ma
esclusivamente la sua forma logica. Se qualcosa può venire affermata di essa,
la verità di questo qualcosa risulta analitica e viene riconosciuta a priori »
(Eine /ogisch-mathe- matische Untersuchung iber den Begriff der Zahi, 1884, $
70; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag. 139). Da questo punto in poi la
stretta connessione della matematica con la logica attraverso la teoria delle relazioni,
poteva considerarsi acquisita e fu costan- temente assunta per la definizione
della matematica. Tuttavia anche le definizioni che hanno in comune questo
fondamento sono state formulate in modo diverso. La più ovvia formulazione di
una defini- zione di questo tipo è quella che considera la M. come « una teoria
delle relazioni ». Poincaré espo- neva questa definizione nella forma generale
asse- rendo: « La scienza è un sistema di relazioni. Solo nelle relazioni va
cercata l’oggettività e sarebbe vano cercarla negli esseri considerati come
isolati gli uni dagli altri» (Le valeur de la science, 1905, pag. 266). Questo
concetto fu condiviso da Russell che vedeva la coincidenza tra M. e logica
proprio nell'ambito della teoria delle relazioni e riteneva che il tema comune
delle due scienze fosse la forma degli enunciati, definita come « ciò che resta
invariato quando ogni componente dell’enunciato viene sosti- tuito da un altro
» cioè quando l’enunciato è rivolto alla pura relazione (/ntr. to Mathematical
Philosophy, 1918, cap. XVIII). Dall'altro lato Peirce, pur ammettendo la
connes- sione tra M. e logica, aveva cercato di distinguere la M. dalla logica,
affermando che mentre la M. è la scienza che deriva conclusioni necessarie, la logica
è la scienza del modo in cui derivare conclusioni necessarie. «Il logico non si
cura particolarmente circa questa o quella ipotesi o circa le sue conseguenze eccetto
in quanto queste cose possono gettar luce sulla natura del ragionamento. Il
matematico è intensamente interessato ai metodi efficienti di ra- gionare
mirando alla loro possibile estensione a nuovi problemi ma, in quanto
matematico, non si preoccupa di analizzare quelle parti del suo metodo la cui
correttezza è data come ovvia + (Coll. Pap., 4.239). Questa distinzione era
però fondata sulla 559 nozione della logica come di una scienza categorica e
normativa (/bid., 4.240): nozione che non ha avuto fortuna nella logica
contemporanea, di cui si è sempre più accentuato il carattere convenzionale (v.
CONVENZIONALISMO; Logica). Pertanto la mi- gliore definizione della M., da
questo punto di vista, è quella data da Wittgenstein: « La matematica è un
metodo logico. Le proposizioni della M. sono equazioni, dunque
pseudo-proposizioni. La propo- sizione matematica non esprime alcun pensiero. E
infatti non è mai la proposizione matematica di cui abbiamo bisogno nella vita
ma l’adoperiamo solo per concludere da proposizioni che non ap- partengono alla
M. ad altre che parimenti non le appartengono » (Tractatus, 1922, 6.2; 6.21;
6.211). Le equazioni della M. corrispondono alle tautologie della logica
(/bid., 6.22); e, come queste, non dicono nulla. Un punto di vista analogo a
questo è stato assunto da Carnap: «I calcoli costituiscono un genere
particolare di calcoli logici, distinguendosene soltanto per la loro maggiore
complessità. I calcoli geometrici sono un genere particolare di calcoli fisici
» (Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 13). Questa è la formulazione
migliore della tesi del logicismo (v.). Da questo punto di vista, si tratta in
primo luogo di costruire una logica esatta; in seguito, di derivare da essa la
M., nel modo seguente: 1° definendo tutti i concetti delle M., cioè dell’arit- metica,
dell’algebra e dell'analisi, in termini dei concetti della logica; 2° deducendo
da queste defi- nizioni e per mezzo dei princìpi della logica stessa (inclusi
gli assiomi di infinità e di scelta) tutti i teo- remi della M. (cfr. C. G.
HEMPEL, « On the Nature of Mathematical Truth +, 1925, in Readings in the Philosophy
of Science, 1953, pag. 59). 3° La terza concezione fondamentale della M. è
quella propria della corrente formalistica e si può esprimere dicendo che per
essa la M. è «la scienza del possibile »; dove per possibile s'intende ciò che non
implica contraddizione (v. PossisiLe, 1). Da questo punto di vista, la M. non è
parte della logica e non la presuppone. Nel modo in cui è stato conce- pita da
Hilbert e Bernays (Grundiagen der Mathe- matik, I, 1934; II, 1939) la M. può
essere costruita come un semplice calcolo, senza esigere alcuna in- terpretazione.
Essa diventa allora un sistema as- siomatico (v. ASsIOMATIZZAZIONE) nel quale:
1° tutti i concetti di base e tutte le relazioni di base siano enumerate
completamente, e sia ricondotto ad essi, mediante una definizione, ogni
concetto ulteriore; 2° gli assiomi siano enumerati completamente e da essi
siano dedotti tutti gli altri enunciati in modo conforme alle relazioni di
base. In un sistema sif- fatto, la dimostrazione matematica è un procedimento puramente
meccanico di derivazione di formule; ma 560 nello stesso tempo si aggiunge alla
M. formale una metamatematica che è costituita da ragionamenti non formali
intorno alla matematica. « In tal modo, ha detto Hilbert, si realizza, mediante
scambi con- tinui, lo sviluppo della totalità della scienza mate- matica, in
due modi: derivando dagli assiomi nuove formule dimostrabili mediante deduzioni
formali e d’altra parte aggiungendo nuovi assiomi e la prova di non
contraddizione, per mezzo di ragionamenti che hanno un contenuto ». Le M.
costituiscono al- lora un sistema perfettamente autonomo; cioè che non
presuppone un limite o una guida fuori di sè e che si sviluppa in tutte le
direzioni possibili: intendendosi, per direzioni possibili, quelle che non portano
a contraddizioni. È pertanto essenziale a questo concetto della M. la
possibilità di determinare la possibilità (cioè la non-contraddittorietà) dei
sistemi assiomatici. Ma proprio questa possibilità è stata messa in dubbio da
un teorema scoperto da Gédel nel 1931: secondo il quale non è possibile
dimostrare la non contrad- dittorietà di un sistema S con i mezzi (assiomi, definizioni,
regole di deduzione, ecc.) che appar- tengono allo stesso sistema $S; ma
occorre, per effettuare una tale dimostrazione ricorrere a un sistema Si, più
ricco di mezzi logici che S (« Uber formal unentscheidbare Sitze der Principia
Mathe- matica und verwandter Systeme », in Monatschrifte fir Mathematik und
Physik, 1931, pag. 173-98). Questo teorema di Gòdel ha avuto nella M. moderna una
grande risonanza. È stato possibile, finora, dare la dimostrazione della non
contraddittorietà di alcune parti delle M., per es. dell’aritmetica (fu data da
Gentzen nel 1936): ma le cose non sono andate molto oltre su questa via; sicchè
la «scienza del possibile » trova oggi che il suo più difficile compito è
quello di mostrare la « possibilità » delle sue parti. Quanto alla possibilità
dell’intera M. come sistema unico e totale, essa è ovviamente esclusa dalla
stessa formulazione del teorema di Giodel. Il quale ha mostrato anche il limite
dell’as- siomatica, perchè ha mostrato come nessun sistema assiomatico contiene
«tutti» gli assiomi possibili e che pertanto nuovi princìpi di prova possono
essere continuamente scoperti. Altra conseguenza del teo- rema di Gédel è una
limitazione delle capacità delle macchine calcolatrici, la cui costruzione è
stata enormemente facilitata dal concetto formali- stico della matematica. Si
può infatti costruire una macchina per risolvere un problema definito, ma non
una macchina che sia capace di risolvere ogni problema (cfr. E. NagEL-G. R.
NEWMAN, Gòdel’s Proof, 1958, pag. 98 sgg.). 4° La quarta concezione
fondamentale della M. è quella secondo la quale essa è la scienza che ha per
oggetto la possibilità della costruzione. Si tratta, MATEMATICA come è
evidente, della nozione kantiana della M. come «costruzione di concetti» perciò
questo indirizzo è chiamato comunemente intuizionismo; ma i suoi precedenti si
sogliono scorgere nella pole- mica antiformalistica di Poincaré, nell'opera di Kronecker
(Uber den Zahibegrif, 1887) nella tendenza empiristica di alcuni matematici
fran- cesi (Borel, Lebegue, Bayre) nel filosofo viennese F. Kaufmann ecc.
Secondo Brouwer, che è uno dei principali rappresentanti dell’intuizionismo, la
M. si identifica con la parte esatta del pensiero umano: perciò essa non
presuppone alcuna scienza, neppure la logica, ma esige piuttosto un’intuizione
che permetta di cogliere l’evidenza dei concetti e delle conclusioni. Le
conclusioni, pertanto, non devono essere derivate in virtù di regole fisse
contenute in un sistema formalizzato, ma ogni conclusione deve essere
direttamente controllata in base alla sua propria evidenza. Da questo punto di
vista, il procedimento di dimostrazione matematica non ha in vista la deduzione
logica ma la costruzione di un sistema matematico. Brouwer insiste sul fatto che
anche nel caso di una dimostrazione di impossibi- lità, ottenuta mettendo in
vista una contraddizione, l’uso del principio di contraddizione è soltanto ap- parente:
in realtà si tratta dell’affermazione che una costruzione matematica, la quale
doveva soddisfare certe condizioni, non è realizzabile (cfr. A. HEy- TING,
Mathematische Grundlagenforschung. Intuitio- nismus und Beweistheorie, 1934
[trad. franc., 1955], I, 5, 1). Heyting a sua volta ha dimostrato, sulle orme
dello stesso Brouwer, che mentre il principio di contraddizione può essere
utilizzato, non così accade del principio del ferzo escluso (v.) (Die formalen
Regeln der intuitionistischen Logik, in L. B. Preusz. Akad. Wiss., 1930). L'intuizionismo,
definendo la M. come la scienza delle costruzioni possibili non fa tuttavia
appello, come faceva Kant, a una forma a priori dell’intui- zione; né ad alcuna
forma di intuizione empirica o mistica. La costruzione di cui l’intuizionismo parla
è una costruzione concettuale, che non fa riferimento a fatti empirici. Così
Heyting ha riassunto il punto di vista di Brouwer: 1° la M. pura è una creazione
libera dello spirito e non ha in sè alcun rapporto con i fatti di esperienza;
2° la semplice constatazione di un fatto di esperienza contiene sempre
l’identificazione di un sistema matematico; 3° il metodo della scienza della
natura consiste nel riunire i sistemi matematici contenuti nelle esperienze
isolate in un sistema puramente mate- matico costruito a questo scopo (cfr.
HEYTING, Op. cit., IV, 3). Se si tengono presenti queste conclusioni, si vede che
il distacco tra formalismo e intuizionismo (cioè fra la terza e la quarta
concezione della M.) MATERIA non è così radicale come in apparenza sembrerebbe.
In primo luogo, la costruzione in cui gli intuizio- nisti vedono l’oggetto
proprio del procedimento matematico è un oggetto formale, la cui possibilità è
determinata da regole formali. Dall’altro lato, i limiti del formalismo, messi
in luce dal teorema di Gédel, mettono in valore alcune esigenze affacciate dal
concetto intuizionistico delle matematiche. E poichè è difficile disconoscere
il valore dell’aspetto linguistico delle matematiche, che è quello su cui specialmente
si fonda il /ogicismo, un certo eclet- tismo domina il pensiero matematico
contemporaneo (cfr. ad es., E. W. BETH, Les fondements logiques des
mathématiques, 2% ediz., 1955). Tuttavia, dal punto di vista filosofico, cioè
dei concetti di base e degli orientamenti generali di ricerca, la differenza fra
le definizioni enunciate nel presente articolo rimane importante. MATERIA. In
senso gnoseologico v. FORMA, 2. MATERIA (gr. 65m; lat. Materia; ingl. Matter; franc.
Matière; ted. Materie). Uno dei princìpi costitutivi della realtà naturale,
cioè dei corpi. Le definizioni principali, che sono state date della M. sono le
seguenti: {9 la M. come soggetto; 2° la M. come potenza; 3° la M. come
estensione; 4° la M. come forza; 5° la M. come legge; 6° la M. come massa; 7°
la M. come densità di campo. Le prime quattro sono definizioni filosofiche, le
ultime due scientifiche. ‘1° La definizione della M. come\soggetto) si al-
terna, in Platone e Aristotele, con quella della M. come potenza. Secondo
questo concetto la M. è ricettività o passività; e Platone in questo senso la
chiama madre delle cose naturali giacchè essa «accoglie in ‘sè tutte le cose ma
non prende mai alcuna fatti che somigli alle cose in quanto è come la(cefa)che
riceve l'impronta » (7im., 50 b-d). In questo senso la M. è il materiale
grezzo, amorfo, passivo e ricettivo di cui sono composte le cose naturali.
TAristotelei chiama questo materiale sog- getto (Lroxeluevov). «Chiamo M., egli
dice, il soggetto primo di una cosa, ciò da cui la cosa si genera non
accidentalmente » (Fis., I, 9, 192 a 31). Come soggetto la M. «è ciò che rimane
attraverso i mutamenti opposti: come, ad es., nel movimento, il mobile rimane
lo stesso pur essendo ora qua e ora là e nel mutamento quantitativo rimane lo
stesso ciò che diventa più piccolo o più grande e nel mutamento qualitativo
rimane la stessa cosa quella che talvolta è in buona salute talaltra no » (Met.,
VIII, 1, 1042a 27). Nel suo aspetto di soggetto la M. è priva di forma,
indeterminata, quindi di per sè inconoscibile (/bid., VII, 11, 1037 a 27; VII,
10, 1036a 8): caratteri che sono posse- duti in modo eminente dalla «M. prima»
cioè da quella M. che non costituisce il materiale (per es., 36 — ABBAGNANO,
Distonario di filosofia. S61 il bronzo o il legno) di cui una cosa è fatta ma il
soggetto comune, e inconoscibile, di tutti i ma- teriali (/bid., IX, 7, 1049a
18 sgg.). Il concetto della M. come soggetto passivo fu ripreso dagli IStoici!
che per l’appunto designarono la M. da questo suo carattere (Dioc. L., VII,
134). Per questo carattere di passività, per cui essa è pronta a ricevere
l’azione creatrice della (Ragione fron che è il principiq attivo) gli Stoici
chiamarono la M. « sostanza prima » (Diog. L., VII, 150; cfr. SENECA, Ep., 65,
2).'Plotino non faceva che portare al limite questa concezione della M.
affermando che essa «non è anima, nè intelletto, nè vita, nè forma, nè ragione,
nè limite (giacchè è assenza di limite), nè potenza (giacchè che cosa potrebbe
creare?). Priva com’è di tutti i caratteri, non può neppure esserle attribuito
l’essere nel senso, per es., in cui si dice che c’è il movimento o la quiete;
essa è veramente il non essere, un’immagine illusoria della massa corporea” e
una aspirazione all'esistenza » (Enn., III, 6, 7). Questo concetto della M. fu
co- stantemente adoperato a scopi teologici. Nella pa- tristica lo ripetono
(Origene: (Contra Cels., III, 41; De Princ., II, 1) e S. Agostino. Quest’ultimo
con- sidera la M., secondo il concetto classico, come « assolutamente informe e
priva di qualità » e « pros- sima al nulla » ma tuttavia ‘esistente in quanto
do- tata della capacità di essere formata (Conf., XII, 8; De natura boni, 18).
S. Tommaso a sua volta nega che la M. sia « potenza operativa » (S. 7A., I, q.
44, ad. 3°); ed insiste sulla sua imperfezione o incom- piutezza relativamente
alla forma (/bid., I, q. 4, a. 1). La scolastica agostiniana, pur riconoscendo alla
M. una certa realtà attuale e negando perciò che essa sia un « quasi nulla » o
una pura + possi- bilità d’essere », non ne innova il concetto. Duns Scoto, ad
es., pur riconoscendo alla M. una certa realtà (enzitas), la considera tuttavia
come « ricet- tiva di tutte le forme sostanziali e accidentali», secondo il
concetto aristotelico (Op. Ox., II, d. 12, q. 1, n. 11); e le nega la potenza
attiva negando in essa la presenza delle ragioni seminali (/bid., d. 18, q. 1,
n. 3). Da questo punto di vista la passi- vità o ricettività rimane la
caratteristica fondamen- tale della materia. A questa caratteristica fecero pure
appello alcuni naturalisti del Rinascimento come, ad es., Paracelso (Metreor.,
72) e Telesio: il quale considerò la M. come la « massa corporea ? destinata a
subire l’azione delle due « nature agenti », il caldo e il freddo (De rer.
nat., I, 4). Questa con- cezione fu condivisa da Locke che concepì la M. come «
morta e inattiva » (Saggio, IV, 10, 10); ed essa ritorna frequentemente, ancor
oggi, nella filo- sofia e nel pensiero comune. Ritorna, per es., in ‘Bergson
che intende la M. come l’arresto potenziale del movimento della vita e la
considera definita 562 dalla sua «inerzia», che la contrappone al «vi- vente »
(Évol. Créatr., 8* ediz., 1911, pag. 216 sgg.). 2° Il concetto della M.
come\potenza}s’intreccia in Platone e Aristotele, con quello della M. come soggetto.
Platone dice che la M. «non perde mai la propria potenza » (Tim., 50
b).|Aristotele iden- tifica la M. con la potenza. « Tutte le cose prodotte sia
dalla natura che dall'arte hanno M. giacchè la possibilità che ha ciascuna di
essere o_non es- .sere, questa è, per ciascuna di esse, la sua M.» (Met., VII,
7, 1032a 20). Ma la potenza non è, secondo Aristotele, solo questa pura
possibilità di essere o non essere: è una potenza operativa € attiva; « Una
casa esiste potenzialmente se non c'è niente nel suo materiale che le impedisca
di diven- tare una casa e se non c'è nient’altro che debba essere aggiunto,
rimosso o mutato... E le cose che hanno in se stesse il principio della loro
genesi esisteranno di per se stesse quando niente di esterno lo impedisca »
(Mer., IX, 7, 1049 a 9 sgg.). Questa autosufficienza della potenza a produrre
la cosa, per la quale la M. non è solo il grezzo materiale ma una capacità
effettiva di produzione, esprime un concetto che non è più quello della M. come
passi- vità o ricettività. Come potenza operativa, la M. non ‘ è un principio
necessariamente corporeo! Plotino che da un lato, come si è visto, riduce la M.
al non es- sere, dall’altro la identifica, come potenza, con l’in- finito (En.,
II, 4, 15). E ammette, accanto alla M. sensibile, una M. intelligibile che
resta sempre iden- tica a se stessa e possiede tutte le forme, sicchè ‘manca
per essa la ragione di trasformarsi (#bid., II, 4, 3). Da questa dottrina trae
origine la tradizione che insiste sull'attività della M.: tradizione che passa attraverso
Scoto Eriugena (De divis. nat., III, 14), e ha una nuova fase nella dottrina di
Avicebron della composizione ilomorfica universale. Secondo Avion anche le cose
spirituali sono composte di M. e forma e la M. si identifica con la prima delle
categorie aristoteliche, la sostanza in quanto «sostiene» le altre nove
categorie (Fons vitae, II, 6). Solo sul fondamento del carattere attivo o creativo
della M. Davide di Dinant potette iden- tificare Dio con la M. (ALBERTO Magno,
S. 7h., I, 4, q. 20; S. Tommaso, S. 7A., I, q. 4, a. 8). Ma la M. conserva il
suo carattere di attività anche nella scolastica agostiniana, che
contemporanea- mente insisteva nel riconoscere una realtà posi- tiva alla M. e
la presenza di essa anche negli esseri spirituali, secondo il concetto di
Avicebron. ‘S. Bonaventura]dice, per es.: « La ragione seminale è la potenza
attiva insita nella M.; e questa potenza attiva è l'essenza della forma giacchè
da essa si genera la forma mediante il procedimento della natura che non
produce nulla dal nulla » (7 Sent., II, d. 18, a. 1, q. 3). Questo concetto
della M. ve- MATERIA niva trasmesso al Rinascimento attraverso Nicola Cusano
che considera la M. come la « possibilità * indeterminata » nella quale
esistono, in forma con- tratta, tutte le cose dell’universo. « La disposizione della
possibilità, diceva Cusano, dovette essere con- tratta e non assoluta: giacchè
se la terra, il sole e le altre cose non fossero nascoste nella M. come possibilità
contratte, non ci sarebbe ragione per cui esse dovrebbero venire all’atto
anzichè non venire » (De docta ignor., II, 8). In altri termini, solo per la
presenza, allo stato contratto, di possi- bilità determinate nella M., queste
possibilità ven- gono fuori con la creazione. È un concetto sul quale Giordano
Bruno doveva fondare quello della M. come principio attivo e creativo della natura:
« Quella M. per essere attualmente tutto quello che può essere, ha tutte le
misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perchè le aveva tutte
non ne ha nessuna, perchè quello che è tante cose diverse, bisogna che non sia
alcuna di quelle particolari ». In questo senso la M. coin- cide con la forma
(De la causa, IV). 3° Il concetto della M. come estensione fu difeso da
Cartesio. «La natura della M. o dei corpi in generale, egli diceva, non
consiste nell’es- sere una cosa dura o pesante o colorata o che tocca i nostri
sensi in qualche altro modo, ma solamente, nell’essere una sostanza estesa, in
lunghezza, lar- ghezza e profondità » (Princ. phil., II, 4). Questo concetto
viene largamente accettato nel 600. Hobbes, per es., identifica la M. prima
degli aristotelici con il corpo in generale cioè col «corpo considerato a
prescindere da qualsiasi forma e da qualsiasi accidente, eccetto la sola
grandezza o estensione e l’attitudine a ricevere forma e accidenti» (De Corp.,
VIII, 24). Questo stesso concetto del corpo in generale come materia è
accettato da Spinoza che anch'egli lo identifica con l'estensione (£r., II,
def. 1). Ci sono motivi per credere che questa defi- nizione della M. sia
quella implicita nell’ipotesi atomistica. Il termine « M.» ricorre, come è
noto, per la prima volta in Aristotele in significato filo- sofico; ma
Aristotele stesso parla, in riferimento a Democrito, del «corpo comune di tutte
le cose» e afferma che, secondo Democrito, tale corpo dif- ferisce, nelle sue
parti, in grandezza e figura (Fis., III, 4, 203a 33-203b 1). Ora «grandezza e
fi- gura » non sono altro che estensione. Altrove Ari- stotele enumera tre
differenze fra gli atomi cioè la figura, l’ordine e la posizione (Mer., I, 4, 985
b 15); ma figura, ordine e posizione non sono altro che estensione. Estensione
è pure la figura a cui, secondo Epicuro, si riducono tutte le qualità
dell’atomo (Dico. L., X, 54). L’ipotesi atomistica implica perciò il concetto
della M. come MATERIA estensione. Su tale concetto d’altronde insisteva Guglielmo
di Ockham nel sec. x1v: « È impossibile che ci sia M. senza estensione: giacchè
non è possibile che ci sia M. che non abbia le parti distanti l’una dall'altra:
onde sebbene le parti della M. possano unirsi come si uniscono quelle
dell’acqua e dell’aria, non possono tuttavia essere nel medesimo luogo» (Summulae
physicorum, I, 19; Quodl., IV, q. 23). 4° Il concetto della M. come forza o
energia viene dapprima difeso dai Platonici di Cambridge del sec. xv, poi
accettato da Leibniz e da molti filosofi del sec. xvm. Secondo Cudworth, la M.
è una natura plastica cioè una forza vivente che è diretta emanazione di Dio
(The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 3). H. More a sua volta
riduce, con Cartesio, la M. a estensione; ma identifica l’estensione stessa con
lo spirito, ri- solvendola in particelle indivisibili che egli chiama monadi
fisiche e che non hanno più nulla di ma- teriale (Enchiridion metaphysicum, I,
8, 8; I, 9, 3). Queste considerazioni metafisiche assunsero un più preciso
significato per opera di Newton e Leibniz. Newton riteneva impossibile
ammettere che «la M. fosse vuota di ogni tenacità e attrito di parti e
comunicazione di movimento » e la considerava perciò in strettissima relazione
con le «forze» o « principi » che si manifestano nell’esperienza (Op- ticks,
1704, III, 1, q. 31). Leibniz ritiene che la M. sia costituita, oltre che
dall’estensione, da una forza passiva di resistenza che è l’impenetrabilità o
antitipia (v.) (Op., ed. Erdmann, pag. 157, 463, 466, 691). La stessa dottrina
fu accettata da Wolff che definiva la M. « un ente esteso fornito di forza d'inerzia
» e riteneva che essa possedesse di per se stessa una forza attiva (Cosmol., $
141-42). Questa interpretazione della M. divenne uno dei temi comuni
dell’Illuminismo e della polemica degli illuministi contro Cartesio. Diceva
Diderot: « Non so in qual senso i filosofi hanno supposto che la M. sia
indifferente al movimento e al riposo. È certo, invece, che tutti i corpi
gravitano gli uni sugli altri; che tutte le particelle dei corpi gravitano le
une sulle altre; che in questo universo tutto è in tra- slazione o in nisu o in
traslazione e in nisu in- sieme » (Principes phil. sur la Matière et le Mouve- ment,
in (Euvr. phil., ed. Vernière, pag. 393). Questa fu anche la concezione
accettata da Kant. « La M., egli diceva, riempie uno spazio, non attraverso la sua
pura esistenza ma mediante una particolare forza motrice »: una forza repulsiva
di tutte le sue parti (Metaphysische Anfangsgrilnde der Naturwis- senschaft,
II, Lehrsatz, 2, 3). Il concetto romantico della M. come forza o attività quale
si trova, ad es., espresso da Schelling non è che l’amplificazione di questa
dottrina. Le tre dimensioni della M. sono determinate, secondo Schelling dalle
tre forze che 563 la costituiscono: cioè dalla forza espansiva, dalla forza
attrattiva e da una terza forza sintetica: che corrispondono nella natura
rispettivamente al magnetismo, all’elettricità e al chimismo (System des
transzendentalen Idealismus, III, cap. II, Dedu- zione della materia; trad.
ital., pag. 109 sgg.). Più genericamente Schopenhauer identificava la M. con l’attività
(Die Welt, I, $ 4). Nel dominio scientifico questo punto di vista è stato
realizzato come ener- getismo (v.). G. Ostwald ha sostenuto alla fine del
secolo scorso, l’inutilità perfetta, per la scienza della natura, del concetto
di M. e la sua sostituzione con quello di energia (Die Uberwindung des wissen- schaftlichen
Materialismus, 1895). 5° Mentre la riduzione operata da Berkeley della M. a
percezioni o idee non si può chiamare un concetto della M. perchè è la semplice
negazione di essa, si può considerare invece come definizione della M. quella
data da Mach come di una « de- terminata connessione degli elementi sensibili
in conformità di una legge» (Analyse der Empfin- dungen, XIV, 14). Questa
definizione non tende in- fatti a negare la materia o a ridurla a elementi soggettivi
e psichici ma a sostituire la stabilità rela- tiva di una legge alla rigidità e
inerzia tradizional- mente attribuite alla materia. Il concetto fondamen- tale
è, in questa definizione, quello di legge, che si intende come l’espressione di
una connessione co- stante. La M. sarebbe appunto la connessione co- stante
nella quale si presentano raggruppati gli elementi ultimi delle cose cioè le
sensazioni. 6° I precedenti usi del termine son tutti di natura filosofica
anche se talora sono stati proposti o sostenuti da scienziati. Nel dominio
della scienza, e precisamente della meccanica, la nozione di M. si identifica
con quella di massa (definita dal secondo principio della dinamica come
rapporto tra la forza e l’accelerazione impressa). La massa può essere intesa o
come massa inerziale o come peso. Il principio della «conservazione della M.+
che la scienza dell’800 considerava come uno dei suoi pilastri, accanto a
quello della « conservazione del- l’energia », si riferisce per l'appunto alla
M. intesa come peso; giacchè il suo significato specifico gli fu dato soltanto
dalle celebri esperienze con cui Lavoisier dimostrava (1772) che nelle reazioni
chi- miche (ivi compresa la combustione) il peso del composto è la somma dei
pesi dei componenti. 7° Nella scienza contemporanea il concetto di M. tende ad
essere ridotto a quello di densità di campo. « Una volta riconosciuta
l’equivalenza tra massa ed energia, la divisione fra M. e campo appare
artificiosa e non chiaramente definita. Non potremmo allora rinunciare al
concetto di M. ed edificare una fisica del puro campo? Ciò che fa impressione
sui nostri sensi come M. è in realtà 564 una grande concentrazione di energia
in uno spazio relativamente limitato. Sembra quindi lecito assi- milare la M. a
regioni spaziali nelle quali il campo è estremamente forte » (EINsTEIN-INFELD,
The Evo- lution of Physics, cap. II; trad. ital, pag. 253). Questo indirizzo
della fisica contemporanea non si può tuttavia confondere con l’energetismo
perchè non implica la riduzione della M. a energia ma piuttosto la riduzione
dei due concetti di M. e di energia a quello di campo (v.). MATERIALISMO (ingl.
Materialism; fran- cese Matérialisme; ted. Materialismus). Questo termine fu
usato per la prima volta da Roberto Boyle nello scritto del 1674 intitolato The
Excel- lence and Grounds of the Mechanical Philosophy (cfr. EUCKEN, Geistige
Stromungen der Gegenwart, 5* ediz., 1916, pag. 168). Esso designa in generale ogni
dottrina che attribuisca la causalità soltanto alla materia. In tutte le sue
forme storicamente individuabili (fuori dell’uso polemico del termine) il
materialismo consiste infatti nell'affermare che la sola causa delle cose è la
materia. La vecchia defi- nizione di Wolff secondo la quale sono materialisti «i
filosofi che ammettono solo l’esistenza degli enti materiali cioè dei corpi»
(Psychol. rationalis, $ 33) non è sufficiente a individuare le forme storiche del
M. perchè porterebbe a includere in questa cor- rente dottrine che le ripugnano
(v. oltre). Si possono su questa base distinguere: 1° il M. metafisico o cosmologico,
che si identifica con l’atomismo filo- sofico; 2° Il M. metodologico secondo il
quale l’unica spiegazione possibile dei fenomeni è quella che fa ricorso ai
corpi e ai loro movimenti; 3° il M. pratico che è quello che riconosce nel
piacere l’unica guida della vita; 4°il M. psicofisico che è quello che ammette la
stretta dipendenza causale dei fenomeni psichici da quelli fisiologici. Queste
sono le forme storica- mente riconoscibili del M. oltre quelle note sotto i nomi
di M. dialettico e M. storico (v.), considerati a parte. Non si può assumere
invece come storica- mente legittimo il significato che Berkeley attribuisce al
termine, intendendo per materialisti tutti coloro che comunque riconoscano
l’esistenza della materia (Principles of Human Knowledge, $ 74) perchè in questo
senso sarebbero materialisti anche Aristo- tele e gli aristotelici. Neppure si
possono chiamare materialisti gli Stoici per quanto ritenessero che tutto ciò
che è in natura è corpo (Diog. L., VII, 1, 56; PLUT., De Com. Not.) giacchè
ammettevano un principio razionale divino come causa del mondo; e non può
essere ritenuto materialista, per motivi analoghi, Tertulliano, il quale pure
afferma che «tutto ciò che esiste è corpo » (De An., 7: De carne Christi, 11). 1°
Il M. cosmologico è caratterizzato dalle seguenti tesi: 4) Il carattere
originario o inderivabile MATERIALISMO della materia, che precede ogni altro
essere e ne è la causa. Non è pertanto un M. la dottrina di Gassendi secondo la
quale gli atomi costituenti l'universo sono stati creati da Dio. 5) La
struttura atomica della materia. c) La presenza nella materia, quindi negli
atomi, di una forza capace di farli muovere e combinarsi in modo tale da dare
origine alle cose. Democrito ammetteva che gli atomi si muovono per loro conto
dall’eternità (ARIST., Fis., VII, 1, 252a 32) e questo presupposto è rimasto in
tutte le forme dell’atomismo. L'ultima forma sto- rica che il M. ha assunto,
quella che ebbe la massima diffusione negli ultimi decenni del secolo scorso,
per opera del biologo tedesco Ernesto Haeckel am- metteva addirittura che gli
atomi fossero dotati, oltre che di movimento, anche di vita e di sensibi- lità
(Die Weltràtsel, 1899). d) La negazione del finalismo dell’universo e in
generale di ogni ordine che non consista nella semplice distribuzione delle parti
materiali nello spazio. e) La riduzione dei poteri spirituali umani alla
sensibilità, cioè il sen- sismo. In questa forma, il M. si è presentato: nell’antichità,
nelle dottrine di Democrito e di Epicuro; nell’età moderna, in quelle di alcuni
il- luministi e numerosi positivisti dell’Ottocento. 2° Il M. metodico è stato
difeso per la prima volta da Hobbes e la sua tesi fondamentale consiste nel
ritenere che la nozione di materia, cioè di corpo e di movimento, sia il solo
strumento disponibile per la spiegazione dei fenomeni. Hobbes affermava difatti
che la conoscenza di una cosa è sempre cono- scenza della sua genesi, e che la
genesi è movimento. Perciò ogni conoscenza è conoscenza del movimento; e il
movimento implica corpo. Perciò egli ha chia- mato De Corpore (1655) il suo
trattato di filosofia prima. Da questo punto di vista la spiegazione mate- rialistica
è l’unica possibile anche per ciò che riguarda lo spirito e le cose spirituali.
Così Hobbes obiettava a Cartesio: « Che diremo se il ragionamento non è altro
che un insieme e una connessione di nomi per mezzo della parola «è »? Segue da
questa tesi che mediante la ragione non possiamo concludere nulla che riguardi
la natura delle cose ma solo riguardo ai loro appellativi e cioè che con essa noi
vediamo soltanto se raggruppiano bene o male i nomi delle cose, secondo le
convenzioni che abbiamo stabilito a nostro arbitrio per i loro significati. Se
è così, come può ben darsi, il ragionamento di- penderà dai nomi, i nomi
dall’immaginazione, e l'immaginazione forse (e questo secondo la mia opinione)
dal movimento degli organi corporei e così lo spirito non sarà altro che un
movimento in certe parti del corpo organico» (/// Objections, 4). Il corpo è
pertanto, secondo Hobbes, l’unico oggetto possibile del sapere umano e la
filosofia si divide in due parti, la filosofia naturale e la filosofia civile MATERIALISMO
DIALETTICO a seconda che studia il corpo naturale cioè la natura o il corpo
artificiale cioè la società (De Corp., I, 9). Un M. metodico è stato, in tempi
recenti sostenuto dai filosofi del circolo di Vienna e specialmente da Carnap,
ma in un senso ancora diverso da quello di Hobbes e riferentesi al linguaggio:
tale M. è l’esigenza di tradurre nei termini del linguaggio fisico i dati
protocollari, per costruire con essi un linguag- gio intersoggettivo. Questo M.
s’identifica perciò col fisicalismo (v.) e non implica nessuna affermazione sull’esistenza
della materia (cfr. Erkenntnis, 1931, pag. 447). Tale M. non implica neppure la
deduci- bilità delle leggi biologiche e psicologiche dalle leggi fisiche.
L’unificazione delle leggi della scienza è senza dubbio, secondo questo punto
di vista una meta della scienza stessa; ma non si può esclu- dere nè prevedere
che questa meta sarà raggiunta (CARNAP, Logical Foundations of the Unity of
Science, 1938, pag. 61). 3° Nel suo significato pratico o morale, il M. è un
termine che appartiene al linguaggio comune più che a quello filosofico. Si
parla infatti di « epoca materialistica », di «tendenze materialistiche » o del
«materialismo » di gruppi o ceti di persone per indicare la tendenza al
benessere o, più esatta- mente, un’etica che assuma il piacere come sola guida
della condotta. Il termine filosofico per questo è edonismo (v.). L’edonismo si
accompagna spesso col M. ma non necessariamente. L’etica di Epicuro e dei
materialisti dell’800 è edonista; ma non lo è l’etica di Democrito. D'altronde
l’edonismo può essere proprio di filosofie non materialistiche; e per es. fu
accettato dai Cirenaici e degli Empiristi del xvm secolo. Nella sua forma
estrema tuttavia l’edonismo costituì una manifestazione caratte- ristica del M.
psicofisico settecentesco, che, su questo punto, fu una continuazione del
/iberti- nismo (v.). L’opera di HELVETIUS, De l’esprit (1758) è particolarmente
significativa a questo riguardo perchè contiene un’esaltazione indiscri- minata
del piacere: come l’altra di qualche anno anteriore di La METTRIE, L’art de
jouir ou l’école de la volupté (1751). 4° Il materialismo psicofisico consiste
nell’af- fermare la stretta dipendenza causale dell’attività spirituale umana
dalla materia cioè dall’organismo, dal sistema nervoso o dal cervello. Questa
tesi si è presentata in diverse forme nel xvm e xIx secolo. Una di queste forme
è la concezione del- l’uomo macchina. L'espressione fu usata dal fran- cese La
METTRIE come titolo d’una sua opera famosa (1748); ma il concetto si trova
anche espresso nell'opera di Dave HARTLEY, Observations of Man (1749) e in
quella di GiusepPE PRIESTLEY Disquisitions Relating to Matter and Spirit
(1777). Il Système de la nature di Holbach è forse la mi- 565 gliore
espressione di questo punto di vista: secondo il quale tutte le facoltà umane
sono modi d’essere e di agire che risultano dall’organismo fisico del- l’uomo,
a sua volta determinato dalla macchina dell’universo. Una più ristretta e
specifica forma di questo M. è quella che esso assunse nell’opera del medico
francese Pietro CABANIS, Rapports du physique et du moral de l'homme (1802) che
insiste sulla dipendenza delle attività psichiche dal sistema nervoso. Verso la
metà dell’800 questa dipendenza causale dei poteri spirituali umani dal sistema
ner- voso sembrò a molti filosofi e scienziati un fatto stabilito. Il M. di
quell’epoca fa leva appunto su questo fatto. Lo zoologo Carlo Vogt in uno
scritto del 1854, La fede del carbonaro e la scienza (KOhler- glaube und
Wissenschaft, 1854) affermava che «il pensiero sta al cervello nella stessa
relazione in cui la bile sta al fegato o l’urina ai reni»: una affermazione cui
faceva riscontro quella dello sto- rico e letterato francese Ippolito Taine:
«Il vizio e la virtù sono prodotti come il vetriolo e lo zuc- chero, e ogni
dato complesso nasce dall’incontro di altri dati più semplici da cui dipende »
(Histoire de la littérature anglaise, 1863, Intr.). Un’altra forma più
attenuata o se si vuole più signorile della stessa dottrina è quella secondo la
quale la coscienza è l’epifenomeno dei processi nervosi nel senso che mentre è
prodotta da essi non reagisce su di essi più che l’ombra non reagisca
sull’oggetto che la produce (Huxley, Clifford, Ribot). La Storia del M.
(Geschichte des Materialismus, 1866) di Fede- rico Alberto Lange impernia
l’esposizione del M. proprio sul M. psicofisico: nel quale egli vede un salutare
mernento contro la pretesa di estendere il sapere umano al di là di certi
limiti. Il M., secondo Lange, rinasce tutte le volte che l’uomo dimentica
questi limiti e pretende dare valore
oggettivo a costru- zioni metafisiche che hanno solo valore fantastico. Sia il
M. metafisico sia il M. psicofisico della metà dell’800 hanno un carattere
romantico. Non vogliono, cioè, limitarsi ad essere tesi filosofiche dotate di
maggiori o minori possibilità di conferme ma pretendono essere dottrine di
vita, destinate a sconfiggere la religione e a soppiantarla. Questa pretesa dà
a tali dottrine un tono violentemente polemico e profetico, per cui la «
Scienza » diventa la nuova tavola della verità assoluta. Questo atteg- giamento
si chiamò scientismo (v.) e costituisce l’avanguardia romantica della scienza
dell’800. Di tale scientismo, il M. costituì il credo: un credo che la scienza
stessa in buona parte contribuì a smantel- lare, con la crisi in cui entrava,
negli ultimi decenni del secolo, la concezione meccanistica di essa. MATERIALISMO
DIALETTICO (ingl. Dia- lectical Materialism; franc. Matérialisme dialectique; ted.
Dialektischer Materialismus). S’intende con 566 questa espressione la filosofia
ufficiale del comunismo in quanto teoria dialettica della realtà (naturale e storica).
Più che di un materialismo (v.), si tratta veramente di un dialettismo
naturalistico, i cui principi furono posti da Marx (v. DIALETTICA), ma svolti
da Engels in un modo che è poi stato più o meno pedissequamente seguìto dai
filosofi del mondo comunista, che sono i soli seguaci di tale filosofia.
Secondo Engels, Hegel ha perfettamente riconosciuto le leggi della dialettica,
ma le ha consi- derate come « pure leggi del pensiero + sicchè non sono state
ricavate dalla natura e dalla storia, ma « elargite ad esse dall’alto come
leggi del pensiero ». Ma «se noi capovolgiamo la cosa, tutto diviene semplice:
le leggi della dialettica che nella filosofia idealistica appaiono estremamente
misteriose diven- tano subito semplici e chiare come il sole» (Anti- Diihring,
pref.). Tali leggi sono, secondo Engels, tre: 1° La legge della conversione
della quantità in qualità e viceversa; 2° La legge della compene- trazione
degli opposti; 3° La legge della negazione della negazione. La prima significa
che nella natura le variazioni qualitative possono essere ottenute soltanto
aggiungendo o togliendo materia o movi- mento, cioè mediante variazioni
quantitative. La seconda legge garantisce l’unità e la continuità del mutamento
incessante della natura. La terza significa che ogni sintesi è a sua volta la
tesi di una nuova antitesi che metterà capo ad una nuova sintesi (EncELS,
Dialektik der Natur, passim). L'insieme di queste leggi determina, secondo
Engels, l’evoluzione necessaria, e necessariamente progressiva, del mondo naturale.
L'evoluzione storica continua, con le stesse leggi, quella naturale. Il senso
dell’intero processo è ottimistico. L'organizzazione della pro- duzione secondo
un piano, quale si attuerà nella società comunista, è destinato a sollevare gli
uomini al di sopra del mondo animale dal punto di vista sociale, come l’uso
degli strumenti della produzione lo ha fatto dal punto di vista della specie.
Come si vede il M. dialettico di Engels non è altro che la teoria
dell'evoluzione (la quale celebrava ai tempi di Engels i suoi primi trionfi)
interpretata nei termini delle formule dialettiche hegeliane e condotta al suo
più ottimistico esito. Si considerano abitualmente come parti integranti del M.
dialettico, il materialismo storico e il mate- rialismo metafisico. Sul primo,
v. la voce a parte. Sul secondo, hanno insistito, più che Marx e Engels, Lenin
e i comunisti russi. Lenin così recapitolava le tesi del materialismo: «1° Ci
sono cose che esistono indipendentemente dalla nostra coscienza, indipen- dentemente
dalle nostre sensazioni, al di fuori di noi. 2° Non esiste e non può esistere
alcuna differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sè. La sola differenza
effettiva è quella tra ciò che è cono- MATERIALISMO STORICO sciuto e ciò che
non lo è ancora. 3° Sulla teoria della conoscenza, come in tutti gli altri
campi della scienza, si deve ragionare sempre dialetti- camente cioè non
supporre mai invariabile e già fatta la nostra conoscenza ma analizzare il pro-
cesso per cui la conoscenza nasce dall’ignoranza o grazie al quale la
conoscenza vaga e incom- pleta diventa conoscenza più adeguata e precisa » (Materialismus
und Empiriokritizismus, 1909; tra- duzione ital., pag. 75). Come si vede,
neppure queste tesi esprimono una concezione materiali- stica, ma costituiscono
una rivendicazione del realismo gnoseologico. MATERIALISMO STORICO (ingl.
MHisto- rical Materialism; franc. Matérialisme historique; ted. Historischer
Materialismus). Con questo nome fu designato da Engels il canone di
interpretazione storica proposto da Marx e precisamente quello che consiste nel
riconoscere ai fattori economici (tecniche di lavoro e di produzione, rapporti
di lavoro e di produzione) un peso preponderante nella determinazione degli
eventi storici. Il presup- posto di questo canone è il punto di vista antro- pologico
difeso da Marx, secondo il quale la perso- nalità umana è costituita
intrinsecamente (cioè nella sua stessa natura) dai rapporti di lavoro e di
produ- zione in cui l’uomo entra per far fronte ai suoi bisogni. Di questi
rapporti la « coscienza » dell’uomo (cioè le sue credenze religiose, morali,
politiche, ecc.) è piuttosto un risultato che un presupposto. Questo punto di
vista venne difeso da Marx soprattutto nello scritto /deologia tedesca
(Deutsche Ideologie, 1845-46). Stando ciò, la tesi del materialismo sto- rico è
che le forme che la società storicamente assume dipendono dai rapporti
economici che prevalgono in una certa fase di essa. Dice Marx: « Nella produ- zione
sociale della loro vita, gli uomini entrano in determinati rapporti necessari e
indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che corrispon- dono ad
una certa fase di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di
questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società,
che è la base reale su cui si edifica una soprastruttura giuridica e politica e
alla quale corri- spondono determinate forme sociali di coscienza... Il modo di
produzione della vita materiale condiziona perciò in generale, il processo
della vita sociale, po- litica e spirituale » (Zur Kritik der politischen Oko- nomie,
1859, Pref.; trad. ital., pag. 17). Marx elaborò questa teoria soprattutto in
opposizione al punto di vista di Hegel: per Hegel è la coscienza che determina l’essere
sociale dell’uomo; per Marx invece è l’essere sociale dell’uomo che determina
la sua coscienza. Non bisogna tuttavia credere che Marx abbia voluto farsi
sostenitore di un fatalismo economico per il quale le condizioni economiche
necessitereb- MATRICI, METODO DELLE bero l’uomo a determinate forme di vita
sociale. Negli stessi rapporti economici, in quanto dipen- dono dalle tecniche
di lavoro, di produzione, di scambio, ecc. l’uomo entra come elemento attivo e
condizionante; e pertanto la condizionalità che la struttura economica esercita
sulle soprastrutture sociali è, almeno parzialmente, una auto condi- zionalità
dell’uomo nei confronti di se stesso (Deutsche Ideologie, I, C; trad. ital.,
pag. 69 sgg.). Engel parlò in seguito di un «rovesciamento della prassi storica
+, cioè di una reazione della coscienza umana alle condizioni materiali,
opposta all’azione di questa su quella. Ma dal punto di vista di Marx, di tale
rovesciamento non c’è bisogno: giacchè non è la soprastruttura che reagisce
sulla struttura, ma l’uomo che, intervenendo, con le sue tecniche, a mutare o a
migliorare la struttura economica, si autocondiziona attraverso di essa. Il
materialismo storico ha proposto all’attenzione degli storici un canone di
interpretazione al quale in molti casi è indispensabile far ricorso per la spiegazione
di eventi e di istituzioni storico-sociali. A questo canone fanno infatti
ricorso, in più o meno larga misura, storici di tutti i domini dell'attività umana,
in quanto esso apre alla spiegazione storica una via che, talvolta, è la sola
possibile. Tuttavia non è sempre la sola possibile. Si tende oggi a inter- pretare
il materialismo storico, non come un prin- cipio dogmatico (quale soprattutto
Engel lo pro- pose), ma come una possibilità esplicativa cui si debba far
ricorso in circostanze appropriate. In altri termini, affermare che in ogni
caso eventi o situazioni storico-sociali debbano essere spiegate col
determinismo dei fattori economici è tesi al- trettanto dogmatica di quella che
volesse esclu- dere assolutamente e in ogni caso il determinismo di tali
fattori. Lo storico si trova, in una data situazione, a dover determinare il
peso relativo dei fattori determinanti; e si tratta di stabilirlo di volta in
volta, di fronte alle situazioni partico- lari, senza che esso possa essere
deciso in anticipo e una volta per tutte. Sottratto alla sua impostazione dogmatica,
il materialismo storico ha offerto alla tecnica della spiegazione storiografica
una delle sue possibilità più feconde e un nuovo grado di libertà alla scelta
storiografica (v. STORIOGRAFIA). MATESIOLOGIA (franc. Mathésiologie). Ter- mine
adoperato da Ampère per indicare la scienza che dovrebbe avere per oggetto « da
una parte le leggi che si devono seguire nello studio o nell’in- segnamento
delle conoscenze umane, dall’altra la classificazione naturale di queste
conoscenze » (Essai sur la philosophie des sciences, 1834, pag. 31). MATHEMA
(gr. uk0nua). Tutto ciò che è oggetto di apprendimento. In tal senso Platone chiama
l’idea del bene «il più grande M.» (Rep., 567 VI, 505 a). Sesto Empirico
riteneva che il M. im- plicasse, oltre la cosa appresa, colui che la apprende, e
il modo dell’apprendimento (Adv. Math., I, 9) e intendeva per «matematici»
tutti i cultori di scienze oltre che i filosofi. Kant restrinse la parola a
indicare le proposizioni della matematica, che sono quelle ottenute mediante
«la costruzione di concetti » (Cri. R. Pura, II, cap. 1, sez. 1). La parola più
vicina all’uso classico del termine è disciplina (v.): una scienza in quanto si
apprende o insegna. MATHESIS UNIVERSALIS. Così Leibniz (Op., ed. Erdmann, pag.
8) chiamò l’arte combina- toria o caratteristica universale (v.). Husserl ha
ri- preso il termine per indicare la logica formale o pura come «scienza
eidetica dell’oggetto in gene- rale », che egli caratterizza così: « Oggetto è
per essa tutto ed ogni cosa e perciò possono essere costituite le verità
infinitamente molteplici che si distribuiscono nelle molte discipline della
mathesis. Queste ultime per altro rimandano tutte ad un piccolo patrimonio di
verità immediate o fonda- mentali che nelle discipline puramente logiche fun- gono
da assiomi + (Ideen, I, $ 10; Logische Untersu- chungen, I, cap. ultimo). MATRICI,
METODO DELLE (ingl. Method of
matrices; franc. Méthode des matrices). Il
me- todo con cui si costruiscono le tavole di verità (v. TAVOLA) e che consiste
nell’enumerazione si-
stematica delle possibilità di verità per
un certo numero di proposizioni semplici cioè nell’enumera- zione delle
combinazioni possibili dei valori di verità di queste proposizioni. Per una
proposizione si hanno due possibilità (vero o falso), per due proposizioni
quattro e in generale per n proposi- zioni 2° possibilità di verità. Questo
metodo fu introdotto da Peirce in uno scritto del 1885 (Coll. Pap., 4.359-403),
fu sviluppato da Schréder (A4/- gebra der Logik, 1890) adoperato dai logici
polacchi e specialmente da Lukasiewicz per la costruzione delle logiche
polivalenti (cioè che ammettono oltre ai due valori di verità, vero e falso, il
valore possibile) (cfr. TARSKI, Logic, Semantics, Metamathematics, 1956, cap.
IV), ed è adoperato oggi su vasta scala da molti logici matematici (cfr., ad
es., BETH, Les fondements logiques des mathematiques, 1955, $ 34). Il metodo
era conosciuto nell’antichità e Filone di Megara se ne servì nella sua analisi
delle pro- posizioni condizionali. Egli infatti asserì che tali proposizioni
sono vere nei casi seguenti: 1° se sia l’antecedente sia il conseguente sono
veri; 2° se l’antecedente è falso e il conseguente è vero; 3° se l’antecedente
e il conseguente sono entrambi falsi; ma sono false se l’antecedente è vero e
il conse- guente è falso (Sesto EmMpPIRICO, Adv. Math., 1, 309). V.
CONDIZIONALE; IMPLICAZIONE. 568 Il metodo delle M. serve in generale per rico- noscere
se una proposizione del calcolo proposi- zionale è vera e se perciò può essere
enumerata fra le leggi del calcolo (TARSKI, Introduction to Logic, $ 13;
CHurc8Ò, Introduction to Mathematical Logic, I, $ 15). MATRIMONIO (gr.
l'&uoc; lat. Matrimonium; ingl.
Marriage; franc. Mariage; ted. Ehe).
Qual- siasi progetto di vita in comune tra persone di sesso diverso. Questa è
una definizione generaliz- zata che tiene conto della varietà di forme che il M.
assume in gruppi sociali diversi nonchè dei diversi concetti che ne sono stati
dati. Tali con- cetti possono essere raggruppati nel modo seguente: 1° Il M.
come istituzione naturale. Così lo concepirono Platone che vide «nella società
co- niugale il principio e l’origine di tutti gli stati » (Leggi, IV, 721 a); e
Aristotele che considerò la famiglia «anteriore e più necessaria dello Stato » (Er.
Nic., 8, 12, 1162a 18 sgg.); sebbene sia Pla- tone che Aristotele ritenessero
indispensabile che lo Stato intervenisse a ordinare le modalità del matrimonio.
In questo caso, il fine esclusivo del M. è la procreazione e l’educazione della
prole. 2° Il M. come istituzione contrattuale. Così il M. venne inteso dal
diritto romano e dal diritto canonico. In tal caso, pur riconoscendosi il fine del
M. nella procreazione ed educazione della prole,
si distingue da esso la forma o essenza
del M. considerato come un’associazione o comunità di vita (consortium omnis
vitae, Dig., XXI, 23, 2) o « una qualche indivisibile congiunzione degli animi
», come dice S. Tommaso (S. 7h., III, q. 29, a. 2), la cui condizione
indispensabile è il consenso espresso nelle forme stabilite dalla legge civile
o religiosa. Sull’aspetto contrattuale del M. insisteva Kant che lo definì come
«l’unione di due persone di sesso diverso per il possesso reciproco delle loro
facoltà sessuali durante tutta la vita »; lo considerò come fonte di un diritto
reale oltre che personale nel senso che ognuno delle due persone è acquistata dall'altra
proprio come una cosa; ma vide nella reciprocità di tale acquisto il riscatto
della perso- nalità dei due coniugi (Mer. der Sitten, I, $ 24-25). Hegel invece
insisteva sull’unità etico-sentimentale del M.: «Il M., egli diceva, non è
essenzialmente nè unione meramente naturale, bestiale, nè un puro contratto
civile, ma un’unione morale del senti- mento, nel mutuo amore e fiducia, che fa
di due persone una sola persona » (Philosophische Propà- deutik, I, $ 51; Enc.,
$ 519; Fil. del Dir., $ 162). 3° Il M. come istituzione sociale. Questo è il punto
di vista degli antropologi e sociologi che hanno riscontrato nei diversi gruppi
umani, tutte le forme possibili di M.: quello di un uomo e di una donna, di un
uomo e di più donne, di più MATRIMONIO donne e di un uomo, di più uomini e più
donne (cfr., ad es., W. N. STEPHENS, The Family in Cross- Cultural Perspective,
1963). Da questo punto di vista, Levi-Strauss ha considerato le regole del M. come
una specie di linguaggio, cioè un certo tipo di comunicazione: più
specificamente come la co- municazione delle donne nel seno di un gruppo (Structures
élémentaires de la parenté, 1949; cfr. An- thropologie structurale, 1958, pag.
69 sgg.). MECCANICISMO (ingl. Mechanism; francese Mécanisme; ted. Mecanismus).
Ogni dottrina che faccia ricorso alla spiegazione meccanicistica. Per spiegazione
meccanicistica si intende quella che si serve esclusivamente del movimento dei
corpi, in- teso nel senso ristretto di movimento spaziale. In questo senso, una
teoria meccanicistica della natura è quelia che non ammette altra spiegazione
possi- bile dei fatti naturali, a qualsiasi dominio apparten- fano, se non
quella che li considera come movi- menti o combinazioni di movimenti di corpi
nello spazio. Il M. può essere considerato: 1° come una concezione filosofica
del mondo; 2° come un me- todo o un principio direttivo della ricerca scien- tifica.
1° Come concezione filosofica del mondo, il M. si è presentato, sin
dall’antichità, come asomismo (v.). La concezione del mondo come di un sistema
di corpi in movimento, cioè di una grossa macchina, è propria dell’atomismo
antico. Il materialismo del *700 e dell’800 ha ripreso questa concezione, la quale
è contrassegnata dalle seguenti caratteri- stiche: a) la negazione di ogni
ordine finalistico. La polemica fra M. e finalismo è cominciata non appena, a
partire dal ’600, il M. si è affermato col sorgere della scienza moderna. Anche
oggi, spesso, per M. non s'intende che la negazione del fina- lismo (v.); b) il
determinismo rigoroso cioè il con- cetto di una causalità necessaria che
investa tutti i fenomeni della natura. Oggi si considera come non
meccanicistica ogni concezione del mondo che neghi il determinismo rigoroso. I
due tratti precedenti si trovano tipicamente espressi nella filosofia di Hobbes
che costituisce una delle migliori espressioni del M. filosofico (v.
MATERIALISMO). Dall'altro lato, la veduta più scaltrita che le filosofie
antimeccanicistiche dell’800 assunsero di fronte al M. fu quella espressa da Lotze
nel Microcosmo (1856) e cioè che «il com- pito che spetta al M.
nell’ordinamento dell’uni- verso è universale senza eccezioni quanto alla sua estensione,
ma nel tempo stesso affatto secondario quanto alla sua importanza»
(Mikrokosmus, I, Intr.; trad. ital., pag. 10): o, in altri termini, che il M. non
è che lo strumento di cui il Principio razionale o divino dell’universo si è
avvalso per raggiungere i suoi scopi. Questo punto di vista si è intrecciato, MECCANICISMO
nella filosofia spiritualistica contemporanea, con la critica ab extrinseco dei
princìpi scientifici del mec- canicismo. Nel frattempo, tuttavia, cioè a
partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, il M. come concezione
filosofica generale non trovava più so- stenitori per motivi che saranno chiari
nel seguito. 2° Il M. scientifico può essere considerato: a) nella fisica; 5)
nelle altre scienze. a) Nella fisica, il M. consiste nella tesi che tutti i
fenomeni della natura debbano essere spie- gati con le semplici leggi della
meccanica; e che pertanto la meccanica stessa possegga uno status privilegiato
fra le altre scienze, in quanto fornisce a tutte i princìpi di spiegazione. Ora
la meccanica come scienza è creazione relativamente recente. Archimede
conosceva gli elementi della srarica cioè di quella parte di essa che tratta
dell’equilibrio delle forze ma la dinamica, cioè lo studio dei mo- vimenti dei
corpi sotto l’azione delle forze, rimase sconosciuta agli antichi ed è stata
fondata da Galilei e da Newton. Il principio di D’Alembert unificava poi la
statica e la dinamica mostrando che un problema di dinamica può essere
trasformato in un problema di equilibrio di forze, quindi di sta- tica,
prendendo in considerazione forze fittizie dette « forze d’inerzia »: e così,
per es., l’orbita di un pianeta intorno al sole può essere considerata come
l’equilibrio tra la forza gravitazionale e una forza centrifuga uguale ed
opposta. Con questa concezione la meccanica era in qualche modo con- clusa
quanto ai suoi teoremi fondamentali. Da allora essa ha subìto soltanto
trasformazioni con- cettuali e linguistiche che hanno mirato a renderla più
coerente e semplice. Da questo punto di vista, una seconda fase dello sviluppo
della meccanica può essere considerato quello che essa ha subìto verso la metà
dell’800, ad opera soprattutto di Hamilton, con la sostituzione dell’idea di
energia a quella di forza. La prima fase della meccanica era caratterizzata dal
tentativo di spiegare i feno- meni naturali col ridurli a innumerevoli azioni a
distanza fra gli atomi della materia. La seconda fase si ispira all'importanza
che il principio di conservazione dell’energia (enunciato da Helm- holtz nel
1847) aveva assunto nella scienza e dalla espressione, in termini di energia
cinetica e poten- ziale, delle leggi fondamentali della meccanica. Una terza
fase fu iniziata verso la fine del secolo, da Hertz, che cercò di ridurre la
dinamica alla cine- matica, ammettendo come legge fondamentale quella del
minimo principio: ogni sistema libero persiste nel suo stato di riposo e di
movimento uniforme lungo la via più breve. Da queste vicende della meccanica è
relativa- mente indipendente il M. della fisica. Come si è detto, la
caratteristica delle teorie meccanicistiche 569 in fisica è quella di
utilizzare esclusivamente le grandezze che sono proprie della meccanica (la forza,
la massa, l’energia, ecc.). Si può distinguere: la teoria meccanistica della
discontinuità e la teoria meccanistica del conrinuo. La teoria meccanistica del
discontinuo è la teoria atomica che è stata invocata a spiegare, oltre che la
luce (teoria crepuscolare), vari fenomeni fisici come l’adesione, la coesione,
la capillarità; e che ha dato luogo alla teoria cinetica dei gas e alle prime
teorie dei fenomeni elettrici. Le teorie mec- canistiche fondate sulla
continuità furono rese pos- sibili soltanto dalla scoperta di più complicati strumenti
di calcolo differenziale; e trovano il loro esemplare nella ipotesi di Fresnel
sull’etere ela- stico come mezzo di propagazione delle onde lu- minose.
Entrambe queste teorie sono state nella fisica eliminate dalla teoria del campo
(v.) con la quale i concetti della meccanica hanno cessato di valere come
princìpi esplicativi generali della fisica. Contemporaneamente l’altra
caratteristica fondamentale del M. cioè il determinismo rigoroso o
necessitarismo veniva eliminato dall’affermarsi della teoria quantistica (v.
CAUSALITÀ). « Le leggi della fisica quantistica, dicono a questo proposito Einstein
e Infeld, non governano le vicende nel tempo di oggetti singoli ma governano le
variazioni della probabilità nel tempo» (The Evolution of Physics, IV; trad.
ital., pag. 298). Con questa tra- sformazione la fisica è uscita dalla sua fase
mecca- nistica, costituendosi come scienza della previsione probabile (v.
Fisica). b) Il M. non è stato soltanto un principio direttivo della fisica; a
partire dalla metà del se- colo xvm è stato anche il principio direttivo di
tutte le altre scienze naturali compresa la biologia, la psicologia e la
sociologia. Ovviamente, fuori della fisica, il M. ha avuto un carattere assai
meno rigoroso: non si è mai raggiunto neanche per la spiegazione dei più
semplici fenomeni biologici, psicologici o sociologici, l’esattezza
quantitativa dei modelli meccanici impiegati a spiegare, per es., il fenomeno
della capillarità o quello dell’interfe- renza della luce. Fuori della fisica,
pertanto, il M. è stato più un’aspirazione generica, una tesi filo- sofica o
nella migliore ipotesi una generica esi- genza di metodo, che un effettivo
strumento di spiegazione. Polemicamente, esso ha fatto valere l’istanza della
necessità causale contro il finalismo; e positivamente ha affermato in ogni
campo l’esi- genza dell’analisi quantitativa. Oltre a questo, le tesi del M.,
nei vari campi della scienza, sono tesi riduzionistiche: il M. della biologia
consiste nel ridurre le leggi biologiche a leggi fisico-chimiche; il M. della
psicologia consiste nel ridurre le leggi psicologiche a leggi biologiche; e
così il M. nella 570 sociologia consiste nel ridurre le leggi sociolo- giche a
leggi biologiche e psicologiche. Queste ten- denze riduzionistiche hanno avuto
la loro utilità nello sgombrare il campo delle rispettive scienze da
impalcature concettuali antiquate, da presup- posti metafisici o teologici che
impacciavano la ricerca o addirittura la bloccavano. La scienza del sec. xx, a
partire soprattutto dal terzo decennio di esso, ha tuttavia abbandonato
l’impostazione riduzionistica e perciò il M. senza tuttavia ritornare alle
posizioni cui il M. si contrapponeva. La bio- logia, ad es., ha abbandonato il
presupposto che i fenomeni vitali siano retti solo da leggi fisico-chi- miche
senza tuttavia ammettere una qualsiasi forma di vitalismo (v. EvoLUZIONE;
VITALISMO). Si può dire pertanto che il M. è stato abbandonato; ma bisogna aggiungere
che con esso sono stati abbandonati anche gli indirizzi concettuali ai quali il
M. si con- trapponeva e dei quali rappresentava la correzione. MEDIANITÀ (ted.
Durchschaittlichkeit). Se- condo Heidegger, quel che l’uomo è in media o all’ingrosso,
nella sua esistenza quotidiana e indif- ferente: una determinazione
fondamentale dell’esi- stenza dalla quale l’analisi esistenziale deve pren- dere
le mosse (Sein und Zeit, $ 9). MEDIATORE PLASTICO (franc. Médiateur Plastique).
Così fu chiamata da alcuni filosofi del- 1°800 la « natura plastica » di cui
parlava Cudworth come Ectipo (v.) cioè intermediario tra Dio e il mondo (The
True Intellectual System of the Uni- verse, I, 1, 3). L'espressione si trova
usata da Laromiguière (Lecons de phil., 1815-18, II, 9) e da Galluppi (Zezioni
di logica e metafisica, 1832- 1836, II, pag. 273). MEDIAZIONE (ingl. Mediation;
franc. Mé- diation; ted. Vermittelung). La funzione che mette in relazione due
termini o due oggetti in gene- rale. Tale funzione è stata riconosciuta
propria: 1° del termine medio nel sillogismo; 2° delle prove nella
dimostrazione; 3° della riflessione; 4° dei demoni nella religione. 1° Secondo
Aristotele il sillogismo è determinato dalla funzione mediatrice del termine
medio che con- tiene in sè un termine ed è contenuto dall’altro ter- mine (An.
Pr., I, 4, 25b 35) (v. SILLOGISMO). 2° Secondo la logica di Portoreale, la M. è
indispensabile in qualsiasi ragionamento. « Quando la sola considerazione di
due idee non basta a far giudicare se si deve affermare o negare l’una dell’altra,
si ha bisogno di ricorrere a una terza idea, semplice o complessa, e questa
terza idea si chiama medio » (ARNAULD, Log., III, 1). A sua volta Locke diceva:
« Le idee intermedie che ser- vono a dimostrare la concordanza tra due altre sono
chiamate prove; e quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente
percepita la con- MEDIANITÀ cordanza o discordanza, questa è detta una dimo- strazione
» (Saggio, IV, 2, 3). Nello stesso senso d’Alembert affermava: « Tutta la
logica si riduce a una regola semplicissima: per confrontare due o più oggetti
lontani gli uni dagli altri ci si serve di più oggetti intermediari. Lo stesso
accade quando si vogliono confrontare due o più idee; l’arte del ragionamento
non è che lo sviluppo di questo principio e delle conseguenze che ne risultano
» (CEuvres, ed. Condorcet, 1853, pag. 224). 3° Secondo Hegel, la M. è la
riflessione in generale (Werke, ed. Glockner, II, pag. 25; IV, pag. 553; ecc.).
« Un contenuto può essere cono- sciuto come la verità, dice Hegel, solo in
quanto non è mediato con un altro, non è finito, si media dunque con se stesso,
ed è così, tutto in uno, M. e relazione immediata con se stesso ». In altri
termini, la riflessione esclude non solo l'immediatezza, che è l'intuire
astratto cioè il sapere immediato, ma anche la «relazione astratta» cioè la M.
di un concetto con un concetto diverso (le prove di Locke) che Hegel ritiene
propria (e con ragione) del secolo dell'illuminismo (Enc., $ 74). 4° Una
funzione mediatrice tra gli dèi e gli uomini fu riservata, nell’antichità, ai
demoni. Il Demiurgo platonico incarica le divinità inferiori o demoni di creare
le generazioni mortali e comple- tare l’opera della creazione (Tim., 41 a-c).
Plotino dice che i demoni sono eterni, in relazione con noi, e «intermediari
fra gli dèi e la nostra specie » (Enn., III, 5, 6). Come mediatore era
concepito Mitra e precisamente come mediatore tra l’irrag- giungibile divinità
delle sfere eteree e il genere umano (CuMONT, The Mysteries of Mithra, pa- gina
127 sgg.). Infine secondo la dottrina cristiana, «al solo Cristo compete di
essere mediatore in modo semplice e perfetto », mentre angeli e sacer- doti
sono piuttosto strumenti di M. (S. TomMaso, S. Th., III, q. 26, a. 1). MEDIETÀ
(gr. ueoémg; lat. Medietas; in- glese Mean; franc. Milieu; ted. Mittel). Il
mezzo, o giusto mezzo, tra gli estremi, che, secondo Ari- stotele, può essere
definito o in relazione alle cose o in relazione a noi. « Se ogni scienza, dice
Aristo- tele, adempie bene al suo compito mirando al giusto mezzo e
indirizzando ad esso le sue opere (onde siamo soliti dire delle buone opere che
non c’è nulla da togliere nè da aggiungere in quanto l’eccesso e il difetto
rovinano ciò che sta bene mentre la M. lo salva) se cioè i buoni artisti lavo- rano
guardando a questo mezzo, la virtù che è, come la natura, più accurata e
migliore di ogni arte, dovrà tendere proprio al giusto mezzo » (Er. Nic., II,
6, 1106b 8). La M. è tuttavia la definizione soltanto della virtà etica (v.) o
morale perchè solo questa concerne passioni o azioni che MEMORIA sono
suscettibili di eccesso o difetto (cfr. pure S. Tommaso, S. 7A., I, II, q. 59,
a. 1) (v. VIRTÙ). MEDITAZIONE. V. MisticIsMO. MEGARISMO (ingl. Megarism; franc.
Méga- risme; ted. Megarismus). La scuola socratica di Megara, fondata nel sec.
v a. C. da Euclide (da non confondere col matematico Euclide che visse ed
insegnò ad Alessandria circa un secolo dopo). Altri rappresentanti della scuola
sono Eubulide di Mileto, Diodoro Crono e Stilpone che insegnò in Atene verso il
320 avanti Cristo. La caratteristica della scuola è quella di unire
l’insegnamento di Socrate con la dottrina eleatica. Euclide riteneva che uno
solo è il bene ed è l'Unità, chiamata con vari nomi: Saggezza, Dio, Intelletto,
ecc. Pertanto come gli Eleati, i Megarici polemizzavano contro la realtà del
movimento, del mutamento e del molteplice. A confutare questa realtà miravano vari
argomenti, di natura sofistica, da essi ad- dotti: come l’argomento del sorife
(v.) o del calvo; come pure mirava la negazione della pos- sibilità fatta da
Diodoro Crono (per quest’ultima v. PossisiLiTÀà). Alcuni di questi argomenti
furono ripresi dagli Stoici, in quei ragionamenti « am- bigui » o «
convertibili » che in seguito si chiama- rono dilemmi (v.) che oggi chiamano
paradossi o antinomie (v.). MEGLIORISMO (ingl. Meliorism; frane. Mé- liorisme;
ted. Meliorismus). Parola recente, usata soprattutto da scrittori
anglossassoni, per indicare un atteggiamento di fronte al mondo non pessi- mistico
nè ottimistico ma orientato verso la speranza del meglio e la volontà di
realizzarlo. MELANCONIA (gr. uérac yo; ingl. Melan- cholia; franc. Mélancolie;
ted. Melancholie). Pro- priamente, umor nero (v. TEMPERAMENTO). Nel linguaggio
comune, tristezza senza motivo. MEMORIA (gr. uviun; lat. Memoria; ingl. Me- mory; franc. Mémoire;
ted. Gedachtnis). La possi- bilità di disporre
delle conoscenze passate. Per conoscenze passate bisogna intendere quelle che sono
state già, in un modo qualsiasi, disponibili; e non già semplicemente
conoscenze de/ passato. La conoscenza del passato può essere anche di nuova formazione:
per es., disponiamo ora di informa- zioni circa il passato del nostro pianeta o
del nostro universo che non sono affatto ricordi. Una conoscenza passata non è
neppure, semplicemente, un’impronta, una traccia qualsiasi: un’impronta o traccia
è difatti alcunchè di presente, non di pas- sato. La tristezza o l’imperfezione
fisica lasciati da un incidente di cui si è stati vittima, non sono la M. di
questo incidente, per quanto ne siano le tracce, mentre un ricordo può essere
disponibile e pronto senza l’aiuto di alcuna traccia, come è il caso di una
formula per il matematico e in ge- 571 nerale dei ricordi che sono affidati a
formazioni o ad abiti professionali. La M. sembra costituita da due condizioni
o momenti distinti: 1° la conservazione o persistenza, in una certa forma,
delle conoscenze passate che, per esser passate, devono essersi sottratte alla
vista: questo momento è la rifentiva; 2° la possibilità di richiamare,
all’occorrenza, la conoscenza passata e di renderla attuale o presente: che è
propriamente il ricordo. Questi due momenti furono già distinti da Platone che
li chiamò rispettivamente « conser- vazione di sensazione» e «reminiscenza»
(Fil, 34 a-c); e da Aristotele che si serve degli stessi termini. Aristotele
pone anche chiaramente il pro- blema che emerge dalla conservazione della
rappre- sentazione come traccia (impressione) di una cono- scenza passata. « Se
rimane in noi, egli dice, qualcosa che è simile a un’impronta o ad una pittura,
come può la percezione di questa impronta essere M. di qualch’altra cosa e non
soltanto di sè? Infatti, chi effettivamente ricorda non vede che questa im- pronta
e solo di essa ha sensazione: come può allora ricordare ciò che non è
presente?» (De Mem., 1, 450b 17). La risposta di Aristotele a questa difficoltà
è che l’impronta nell’anima è come un quadro che può essere considerato o per sè
o per l’oggetto che rappresenta. « Come, egli dice, un animale dipinto in un
quadro è sia un animale sia un’immagine ed è insieme entrambe le cose, sebbene
il loro essere non sia lo stesso, sicchè può essere considerato sia come
animale sia come immagine; così anche l’immagine mnemonica che è in noi
dev'essere considerata un oggetto di per se stesso e nello stesso tempo
rappresentazione di qualche altra cosa» (/bid., 450b 21). La spiega- zione
dell’intero processo della M., sia come ri- tentiva sia come ricordo, è poi,
secondo Aristotele interamente fisica: a un movimento è affidata la ritentiva e
la produzione dell’impronta ed è un mo- vimento che produce il ricordo. Il
ricordo tuttavia, a differenza della ritentiva, è una specie di dedu- zione
(sillogismo); giacchè « chi ricorda deduce che ha già ascoltato, o comunque
percepito ciò che ri- corda; ed è questa una specie di ricerca » (Ibid., 453 a
11). Il ricordo è perciò soltanto degli uomini. Con ciò Aristotele metteva in
luce un altro carat- tere fondamentale della M. come ricordo: il suo carattere
attivo di deliberazione o di scelta. L’ana- lisi platonico-aristotelica della
M. ha messo in luce i seguenti punti: a) la distinzione tra ritentiva e ricordo;
5) il riconoscimento del carattere attivo o volontario del ricordo di fronte al
carattere naturale o passivo della ritentiva; c) la base fisica del ricordo
come conservazione di movimento o movimento conservato. Questi punti si può
dire che rimangano costanti nella storia successiva del 572 concetto. Tuttavia
le dottrine che successivamente si presentano possono essere suddivise in due
gruppi, a seconda che fanno leva, per l’interpretazione della M., sull’aspetto
per cui essa è ritentiva o conser- vazione o sull’aspetto per cui è ricordo. A)
La psicologia antica ha insistito sull’aspetto per il quale la M. è
conservazione, persistenza di conoscenze acquisite. La trattazione
misticheggiante di Plotino, oltre a negare la base fisica della M. e a vedere
dal corpo un ostacolo più che un aiuto di essa (Enn., IV, 3, 26) proporziona la
M. alla forza e alla persistenza della conservazione: « Se l’immagine persiste
nell’assenza dell’oggetto, v’è già M., anche se persiste per poco; se persiste
per poco, la M. è corta; se dura di più la M. aumenta perchè la forza
dell’immaginazione è maggiore; e se difficilmente vien meno, la M. è
indistruttibile » (4bid., IV, 3, 29). In modo analogo, l’elencazione che S.
Agostino fa dei « miracoli » della M., poggia sullo stesso concetto di essa
come ricettacolo delle conoscenze o, secondo la sua espressione, « ventre dell’anima
» (Conf., X, 14). Questo è pure il concetto che della M. ebbero i filosofi
medievali. S. Tommaso la chiama «il tesoro e il posto di conservazione delle
specie » (S. 7%., I, q. 29, a. 7), ripetendo un luogo comune della filosofia
medievale. Ciò equi- valeva ad insistere sulla M. come ritentiva. Ma sulla M.
come conservazione insistono anche concezioni moderne e contemporanee che,
ripren- dendo la concezione agostiniana del tempo come distensio animi o durata
di coscienza, vedono nella M. la conservazione integrale dello spirito da parte
di se stesso: cioè la persistenza in esso di tutte le sue azioni e affezioni,
di tutte le sue manifesta- zioni o modi d’essere. Questa concezione fu già esposta
da Leibniz che concepiva la M. come conservazione integrale sotto forma di
virtualità o « piccole percezioni + delle idee che non hanno più la forma di
pensieri o di «appercezioni»: onde osservava contro Locke: «Se le idee non
fossero che forme o modi dei pensieri, cesserebbero con essi; ma voi stesso,
Signore, avete riconosciuto che esse sono gli oggetti interni dei pensieri e
come tali possono sussistere. E io mi meraviglio che voi possiate fare a meno
di queste potenze o fa- coltà pure, che abbandonate, a quanto sembra, ai filosofi
della scuola » (Nouv. Ess., II, 10, 2). Sotto forma di virtualità o facoltà può
e deve conser- varsi integralmente ogni atto o manifestazione dello spirito
giacchè lo spirito è per l’appunto questa
auto-conservazione. Tale è la concezione
della M. propria di ogni filosofia spiritualistica o coscienzia- listica. Nel
modo migliore e più circostanziato tale concezione è stata esposta da Bergson
in Materia e M. (1896) e da lui contrapposta alla concezione della M. fondata
sul ricordo. «La M., egli ha MEMORIA detto, non consiste nella regressione dal
presente al passato, ma al contrario nel progresso dal pas- sato al presente. È
nel passato che noi ci situiamo di colpo. Partiamo da uno stato virtuale, che
con- duciamo a poco a poco, mediante una serie di piani di coscienza diversi,
sino al termine in cui esso si materializza in una appercezione attuale cioè
sino al punto in cui diviene uno stato pre- sente e agente, cioè, infine, sino
a quel piano estremo della nostra coscienza su cui si disegna il nostro corpo.
In questo stato virtuale consiste il ricordo puro» (Matiére et mémoire, 7®
ediz., pag. 245). La M. pura (o ricordo puro) è la cor- rente di coscienza in
cui tutto vien conservato allo stato di virtualità. La limitazione del
ricordare effettivo non appartiene alla M. ma al ricordo attuale che Bergson
identifica con la percezione e che è una scelta operata nella M. pura per le
esi- genze dell’azione. Pertanto le lesioni cerebrali non affettano la M. vera
e propria, ma soltanto la reminiscenza dei ricordi nella percezione cioè il meccanismo
attraverso il quale la M. si inserisce nel corpo e diventa azione. Questa
teoria, che Bergson appoggiava ad una analisi dei disturbi delle funzioni
mnemoniche, è caratterizzata da due punti fondamentali: 1° la distinzione tra
la M. pura e il ricordo, intendendosi per M. pura la conservazione integrale,
indipendente da ogni cir- costanza, dello spirito da parte dello spirito. Ora è
evidente che tale M. non ha niente a che fare con la memoria osservabile; 2° la
negazione di ogni base fisiologica della M. pura e la restrizione della base
fisiologica al fenomeno della percezione. Anche questa negazione non ha alcuna
conferma di fatto mentre trova il suo precedente storico nella teoria di
Plotino. Da Cartesio in poi (Princ. Phil., IV, 196) la base fisiologica della
M. non è stata negata. La stessa conservazione integrale dello spirito da parte
dello spirito è la «corrente della coscienza » di cui parla Husserl, che
anch'egli ri- corre al concetto adoperato da Leibniz e da Bergson di virtualità
o potenzialità per contrassegnare la me- moria. « Oltre che nell’appercezione,
dice Husserl, le cose possono essere esperite nel ricordo e nelle ripresentazioni
affini al ricordo... Appartiene all’es- senza di queste esperienze vissute
quella importante modificazione che trasporta la coscienza dal modo dell’attualità
al modo dell’inattualità e viceversa. In un caso l’esperienza vissuta è
coscienza esplicita del suo oggetto; nell’altro è coscienza implicita, soltanto
potenziale» (/deen, I, $ 35). Il presup- posto è sempre quello della totale
conservazione di tutto il contenuto della coscienza: il feno- meno del ricordo
è legato al passaggio del conte- nuto dallo stato attuale a quello potenziale o
viceversa. MENTALITÀ B) Ad un secondo gruppo di teorie della M. appartengono
quelle che hanno fatto soprattutto leva sul fenomeno del ricordo. Hobbes, per
es., ha definito la M. come «il sentire di aver già sen- tito» (De corp., 25,
1): il che significa definirla in rapporto all’atto con cui si riconosce, in
ciò che si percepisce, ciò che si è percepito altra volta. Da questo stesso
punto di vista Wolff definiva la M. come «la facoltà di riconoscere le idee
ripro- dotte e le cose da esse rappresentate» (Psychol. rationalis, $ 278): un
concetto che si ritrova anche in Baumgarten (Me., $ 579). Da questo punto di vista
si tende talvolta a riconoscere il carattere attivo della M. cioè la funzione
della volontà o della scelta deliberata nel richiamare i ricordi. Di- ceva
Locke: « In questo richiamo delle idee riposte nella M., lo spirito stesso non
è puramente passivo perchè la rappresentazione di questi quadri dor- mienti
dipende a volte dalla volontà» (Saggio, II, 10, 7). Kant metteva in luce
egualmente questo carattere attivo: «La M., egli diceva, differisce
dalla semplice immaginazione riproduttiva
in questo che, potendo essa riprodurre volontariamente la rap- presentazione
precedente, l’anima non è in balia di questa » (Anfr., I, $ 34). A questo
stesso gruppo di dottrine appartengono: a) quelle che interpretano la M. come
intelligenza; 5) quelle che interpretano la M. come meccanismo associativo. a)
Come intelligenza o pensiero la M. (sempre nel suo aspetto di ricordo) è stata
interpretata da Hegel. Hegel vede nella M. «il modo estrinseco, il momento
unilaterale dell’esistenza del pensiero ». E nota che già la lingua tedesca dà
alla M. « l’alta situazione della parentela immediata col pensiero » (Enc., $
464). La M. è, secondo Hegel, pensiero esteriorizzato, pensiero che crede di
trovare qual- cosa di esterno, cioè la cosa che viene ricordata o rievocata, ma
che in realtà non trova che se stesso perchè anche la cosa ricordata o
rievocata è pensiero. Perciò Hegel dice che lo spirito «si fa come M., in se
stesso, qualcosa di esterno; cosicchè ciò che è suo appare come qualcosa che vien
trovato » (/bid., $ 463). Qui viene teorizzata soprattutto la M. come ricordo;
ed è evidente la parentela di questa dottrina con quelle spirituali- stiche o
coscienzialistiche: l’identificazione della M. col pensiero ha lo stesso senso
dell’unificazione della M. con la coscienza o con la sua durata. b) Il concetto
della M. come meccanismo as- sociativo è stato espresso per la prima volta da Spinoza
nel modo seguente: «La M. non è altro che una certa concatenazione delle idee
implicanti la natura delle cose che sono fuori del corpo umano; la quale si
produce nella mente secondo l’ordine e la concatenazione delle affezioni del
corpo umano ». Spinoza distingue la concatenazione propria della 573 M. da
quella delle idee «che si compie secondo l’ordine dell’intelletto e che è
uguale in tutti gli uomini » (Ef., II, 18, schol.). Non c’è dubbio per- tanto
che Spinoza alludeva a un meccanismo asso- ciativo, del tipo di quelli che fu
più tardi teoriz- zato da Hume, « È evidente che esiste un principio di
connessione fra i vari pensieri o idee dello spi- rito e che nel loro apparire
alla M. o alla imma- ginazione essi si presentano l’uno dopo l’altro con un
certo grado di metodo e di regolarità» (Ing. Conc. Underst., III). Come è noto,
Hume enunciava tre leggi di associazione, la rassomiglianza la con- tiguità e
la causalità; ma soltanto le prime due furono adoperate dalla psicologia
associazionistica per la spiegazione dei fenomeni psichici (v. Asso- CIAZIONISMO).
La psicologia moderna si è fondata in gran parte sull’ipotesi associazionistica
nello studio dei feno- meni della M., sino a che la psicanalisi da un lato, la
teoria della forma dall’altro, hanno mostrato la importanza degli interessi e
degli atteggiamenti vo- litivi nel ricordo e quella dell’intera personalità nel
riconoscimento del già visto. Lo studio sperimen- tale della M. ha confermato
il detto di Nietzsche: «Io ho fatto questo, — mi dice la memoria. Non posso
averlo fatto, — sostiene il mio orgoglio che è inesorabile. Alla fine cede la
M.» (Jenseits von Gut und Bose, 1886, $ 68). L'impianto delle analisi psicologiche
moderne continua così ad essere im- perniato sul fatto del ricordo più che su
quello della ritentiva: il quale invece continua ad essere preferito dalle
teorie filosofiche della memoria. MENDELISMO. V. GENETICA. MENTALISMO (ingl.
Mentalism). Vocabolo usato per lo più da scrittori filosofici anglosassoni per
indicare cose in verità assai diverse, e cioè: o come sinonimo di «
soggettivismo + e « idealismo soggettivo » (del tipo berkeleyiano); o come
sino- nimo di psicologismo (v.), vale a dire la tendenza, vivamente combattuta
dalla Logica odierna ma tuttavia tenacemente persistente, a considerare le forme,
figure e strutture della Logica come forma- zioni, rappresentazioni ed
operazioni mentali (psi- cologiche) e le regole della Logica come «leggi del
pensiero ». Negli scritti dei seguaci della meto- dologia operativistica e dei
pragmatisti (per es., Dewey) « M.» viene usato in un’accezione lieve- mente
diversa: e cioè a designare la tendenza empiristica a risolvere l’esperienza e
i concetti em- pirici in meri «stati mentali», trascurandone gli aspetti
obiettivi (fisiologici, operativo-manuali, lin- guistici, storici, ecc.). G. P.
MENTALITÀ (ingl. Mentality; franc. Menta- lite; ted. Mentalitàt). 1. Termine
adoperato dai so- ciologi per indicare gli atteggiamenti, le disposizioni e i
comportamenti istituzionalizzati in un gruppo 574 e adatti a caratterizzare il
gruppo stesso. Per es., «la M. dei primitivi », «la M. borghese», ecc. 2.
Spaventa. chiamò « M. pura» il pensiero ri- flesso o consapevole, che egli
ritenne debba accom- pagnare anche le prime categorie della logica he- geliana
(quelle dell’essere e dell’essenza) (Scritti filosofici, 1901, passim). MENTE
(lat. Mens). 1. Lo stesso che intel- letto (v.). 2. Lo stesso che spirito: cioè
l’insieme delle fun- zioni superiori dell’anima, intelletto e volontà (vedi
SPIRITO). 3. Lo stesso che dottrina. In questo senso si dice (o meglio si
diceva perchè questo significato è an- tiquato). « La M. di Aristotele » per
dire la dottrina di Aristotele su un argomento qualsiasi. MENTITORE (gr.
yevdsuevos; lat. Mentiens; ingl. Liar; franc. Menteur; ted. Liigner). Uno degli
argomenti che gli antichi chiamavano ambigui o convertibili e i moderni
chiamano antinomie o pa- radossi: quello che consiste nell’affermare di men-
tire: così, se si dice la verità, si mente; e se si mente, si dice la verità.
La conclusione è impossibile. Attribuito a Eubulide di Megara (Diog. L., II,
108) l’argomento viene riportato da molti scrittori an- tichi (ArIst., E/ Sof.,
25, 180b 2; CICER., Acad., Il, 95; De Div., II, 4; Getto, Nocr. Att., 18, 2). Ripreso
nell’ultimo periodo della Scolastica, l’ar- gomento viene tuttora discusso
dalla logica come una delle antinomie logiche (v. ANTINOMIE). MENZIONE. V. Uso.
MENZOGNA (gr. qeùsoc; lat. Mendacium; ingl. Lie; franc. Mensonge; ted. Lige).
Aristotele distingue due specie fondamentali di M., la mil- lanteria che
consiste nell’esagerare la verità e la ironia (v.) che consiste nel diminuirla.
Queste tut- cavia sono le M. che non riguardano le relazioni d’affari nè la
giustizia: in questi casi infatti non si tratta di semplici M. ma di vizi più
gravi (frode, tradimento, ecc.) (Et. Nic., IV, 7, 1127a 13). S. Tom- maso ha
dato una minuziosa classificazione della M., dal punto di vista della morale
teologica (S. 7H., II, 2, q. 110). MERAVIGLIA. V. AMMRAZIONE. MERITO (lat.
Meritum; ingl. Merit; francese Mérite; ted. Verdienst). Titolo per ottenere
appro- vazione, ricompensa o premio. Si dice non solo di persone ma anche di
opere, per es., «Il M. di questo libro è... ». Il M. è diverso dalla virtù e
dal valore morale ma costituisce quanto della virtù stessa o del valore morale
può essere valutato ai fini di una ricompensa qualsiasi, sia pure quella dell’approvazione.
MESOLOGIA. V. EcoLogia. METABASI (gr. peràBao el 0 yévoc). Il passaggio,
legittimo o meno, a un altro soggetto MENTE di discorso o a un altro campo.
Dice Aristotele: «Noi non possiamo passare, al di là del corpo, ad un altro
genere, come passiamo dalla lunghezza alla superficie e dalla superficie al
corpo» (De Cael., I, 1, 268 b 1). Quintiliano considera questo passaggio come
una figura retorica (/nst. Or., IX, 3, 25). METABIOLOGIA (ingl. Merabiology;
fran- cese Métabiologie; ted. Metabiologie). Le specula- zioni metafisiche che
assumono il loro punto di partenza dai fenomeni biologici. Oppure: l’analisi della
struttura linguistico-concettuale della biologia. METACRITICA (ted.
Merakritik). Questo ter- mine compare come titolo di due opere tedesche dedicate
alla critica del kantismo; e precisamente nell'opera di HAManN, Metacritica del
Purismo della Ragione (1788) e nell’opera di HERDER, M. della Critica della
Ragion Pura (1799). Il ter- mine vuol significare «critica della critica». METAFISICA
(gr. tà perà tà puovd; lat. Mera- physica; ingl. Metaphysics; franc. Métaphysique; ted. Metaphysik). La scienza prima cioè la scienza che
ha come proprio oggetto l’oggetto comune di tutte le altre e come proprio
principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri. Per questa
sua pretesa di priorità (che la definisce) la M. presuppone una situazione
culturale deter- minata: cioè la situazione nella quale il sapere si è già
organizzato e diviso in scienze diverse, rela- tivamente indipendenti l’una
dall’altra e tali da esigere la determinazione dei loro rapporti scam- bievoli
e la loro integrazione su di un fondamento comune. Questa era appunto la
situazione che si era verificata ad Atene verso la metà del rv secolo, per
opera di Platone e dei suoi discepoli, che ave- vano contribuito potentemente
allo sviluppo della matematica, della fisica, dell’etica e della politica. Il
nome stesso di questa scienza, che solitamente si attribuisce al posto in cui
gli scritti aristotelici relativi capitarono nella raccolta di Andronico di
Rodi (1 secolo a. C.), ma che Jaeger attribuisce a un peripatetico anteriore ad
Andronico (Aristoteles; trad. ital., pag. 517) si presta ad esprimere bene la
natura di essa, in quanto procede al di là della fisica, che è la prima delle
scienze particolari, per raggiungere il fondamento comune su cui tutte si fondano
e determinare il posto che a ciascuna compete nella gerarchia del sapere; e ciò
spiega, se non l’origine, almeno la fortuna che il nome ha incontrato. Platone
presentò l’esigenza di questa scienza su- prema dopo aver chiarito la natura
delle scienze particolari che costituiscono il curriculum del filo- sofo:
aritmetica, geometria, astronomia e musica. «Io penso, egli disse, che se lo
studio di tutte queste scienze che abbiamo passato in rassegna è fatto METAFISICA
in modo da condurci a intendere la loro comu- nanza e parentela reciproca e si
colgono le ragioni per le quali sono intimamente connesse, la loro trattazione
ci porterà alla meta cui ci indirizziamo e la nostra fatica non sarà vana; in
caso contrario sarà proprio vana» (Resp., 531c-d). In questa scienza delle
scienze Platone riconosceva la dialet- tica (v.) il cui compito fondamentale
sarebbe quello di sottoporre a critica o vagliare le ipotesi che le scienze
singole assumono a loro fondamento ma che « non osano toccare perchè non sono
in grado di darne ragione» (Resp., 533 c). Aristotele chiamava una disciplina
siffatta « filo- sofia prima + o « la scienza di cui andiamo in cerca »; e ne
determinava il progetto nei tredici problemi enumerati nel terzo (8) libro
della Metafisica. Tali problemi vertono tutti direttamente o indi- rettamente,
sui rapporti tra le scienze e i loro og- getti o princìpi relativi: sulla
possibilità di una scienza che studi tutte le cause (996 a 18) o tutti i primi
princìpi (996 a 26) o tutte le sostanze (997 a 15) o anche le sostanze e i loro
attributi (997 a 25) e le sostanze non sensibili (997 a 34); e su altri
problemi (come quelli delle parti costi- tuenti di tutte le cose, della
possibile diversità di natura tra i princìpi, dell’unità dell’essere, ecc.), che
si situano tutti nella zona di intersecazione e di incontro delle singole
discipline scientifiche e sono di interesse comune per esse. Pertanto la M.,
come l’ha intesa e progettata Aristotele, è la scienza prima nel senso che
fornisce a tutte le altre il fondamento comune cioè l’oggetto cui esse tutte si
riferiscono e i princìpi da cui tutte di- pendono. La M. implica, perciò, una
enciclopedia delle scienze; cioè un prospetto completo ed esau- riente di tutte
le scienze nei loro rapporti di co- ordinazione e subordinazione e nei compiti
e nei limiti assegnati a ciascuna una volta per tutte (v. EncicLoPEDIA). La M.
si è presentata, nella sua storia, sotto tre forme fondamentali diverse e cioè:
1° come teologia; 2° come ontologia; 3° come gnoseologia. La caratterizzazione
oggi corrente della M. come «scienza di ciò che è al di là dell’espe- rienza »
si può riferire soltanto alla prima di queste forme storiche, cioè alla M.
teologica; e si tratta, anche, di una caratterizzazione imperfetta in quanto coglie
un tratto subordinato, perciò non costante, di questa metafisica. 1° Il
concetto della M. come teologia consiste nel riconoscere come oggetto della M.
l’essere più alto e perfetto dal quale dipendono tutti gli altri esseri e cose
del mondo. Il privilegio di priorità attribuito alla M. dipende, in questo
caso, dal ca- rattere privilegiato dell’essere che ne è l'oggetto: questo è
l’essere superiore a tutti e da cui tutti gli altri dipendono. 575 Nell’opera
di Aristotele questo concetto si in- treccia con l’altro, della M. come
ontologia, cioè come scienza dell’essere in quanto essere. Così Aristotele lo
esprime: « Se c’è qualcosa di eterno, di immobile e di separato, la conoscenza
di esso deve appartenere ad una scienza teoretica, ma cer- tamente non alla
fisica (che si occupa delle cose in movimento) nè alla matematica, bensì ad una
scienza che è prima di entrambe... Solo la scienza prima ha per oggetto le cose
separate ed immobili. Sebbene tutte le prime cause siano eterne, queste cose
sono eterne in modo speciale, perchè sono le cause di ciò che del divino è
accessibile a noi. Di conseguenza, ci sono tre scienze teoretiche: la
matematica, la fisica e la teologia: giacchè se il divino è dappertutto esso è
specialmente nella natura più alta e la scienza più alta deve avere per oggetto
l’essere più alto... Se non ci fossero altre sostanze oltre quelle fisiche, la
fisica sarebbe la scienza prima; ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà la
sostanza prima e la filosofia la scienza prima; e in quanto prima anche la più
universale perchè sarà la teoria dell’essere in quanto essere e di ciò che
l’essere in quanto essere è o implica + (Met., VI, 1, 1026 a 10). L’ultima
frase fa vedere come Aristotele intrecci il concetto della M. come ontologia
col concetto della M. come teologia. Quest'ultimo tuttavia è completamente
diverso dal- l’altro. In base ad esso, l'oggetto della M. è pro- priamente il
divino; e la priorità della M. consiste nella priorità che l’essere divino ha
su ogni altra forma o modo d’essere. Le scienze si graduano, da questo punto di
vista, in base all’eccellenza o alla perfezione dei loro oggetti rispettivi, e
l’eccel- lenza o la perfezione di tali oggetti si misurano col confronto tra
essi e l’essere divino. Era questo il criterio che Platone aveva seguito
nell'ordinamento delle scienze, privilegiando la scienza che ha per oggetto «
ciò che è ottimo ed eccellente » cioè la perfezione stessa (Fed., 97 d) e
graduando rispetto a questa tutte le altre (Rep., VII, 525a sgg.). Questa
concezione tuttavia confinava tutte le scienze diverse dalla M. ad un livello
di irrimediabile in- feriorità; e raggiungeva lo scopo, non già di giu-
stificare le altre scienze cioè di fondare la loro validità e nobilitare la
loro ricerca, ma piuttosto di svalutarle col confronto con la scienza prima e
col carattere sublime del suo oggetto. Questo pro- babilmente fu il motivo per
cui Aristotele cominciò ad un certo punto ad insistere sull’altro concetto
della M. come ontologia, pur senza mai rinnegare o abbandonare il primo. La M.
teologica tuttavia si ripresenta ogni volta che si fa corrispondere ad un
essere primo e per- fetto una scienza egualmente prima e perfetta. Una M.
teologica è pertanto quella di Plotino, 576 che contrappone alle scienze che
hanno per oggetto il sensibile quelle che hanno per oggetto l'intelli- gibile,
cioè la realtà suprema. « Tra le scienze che sono nell’anima razionale, egli
dice, alcune hanno per oggetto le cose sensibili e seppure si possono chiamare
scienze giacchè meglio converrebbe ad esse il nome di opinioni; esse vengono
dopo le cose e sono immagini di esse. Le altre, le vere scienze, hanno per
oggetto l’intelligibile, vengono all’anima dall’intelletto divino e non hanno
nulla di sensi- bile » (Enn., V, 9, 7). Questa spartizione della realtà in due
domini, di cui l’uno superiore e privilegiato, l’altro inferiore e derivato, è
il presupposto carat- teristico della M. teologica: la quale pretende di avere
come proprio oggetto la realtà primaria e privilegiata. Una M. teologica è
pertanto la dot- trina di Spinoza in quanto ha come oggetto l'or- dine
necessario del mondo cioè Dio stesso (Er., II, 46-47). E una M. teologica è la
filosofia di Hegel che assume di avere come proprio oggetto Dio stesso: « La
filosofia ha i suoi oggetti in comune con la religione, perchè oggetto di
entrambe è la Verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e
Dio solo, è la Verità » (Enc., $ 1). Per- tanto di fronte alla filosofia, tutte
le altre scienze restano in condizione di inferiorità: il loro oggetto è il
finito, cioè l’irreale, mentre l’oggetto della filosofia, cioè Dio è
l’infinito. Dice Hegel: « Le scienze particolari, al pari della filosofia,
hanno per elemento conoscenza e pensiero; senonchè si occupano degli oggetti
finiti e del mondo dei fenomeni. Una collezione di conoscenze relative a questa
materia resta di per sè esclusa dalla filosofia, cui non si addice nè questo
contenuto nè la forma relativa » (Geschichte der Philosophie, Einleitung, B, 2,
a; trad. ital., I, pag. 69). Ed è evidente che, nonostante le esplicite
proteste an- timetafisiche, una M. teologica è anche la filosofia dello spirito
di Croce che ha per oggetto la Storia eterna dello Spirito universale: una
realtà sublime, di fronte alla quale scadono al rango di apparenze particolari
o di accidentalità empiriche gli oggetti di tutte le altre scienze (Teoria e
storia della sto- riografia, 1917; La Storia come pensiero e come azione,
1938). Infine, una M. teologica è la filo- sofia di Bergson che pretende « fare
a meno dei simboli » ed entrare direttamente a contatto con una realtà
privilegiata, di natura divina che è la corrente della coscienza (*
Introduction à la mé- taphysique », in La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934,
pag. 206 sgg.); e che si contrappone come tale alla scienza, detta semplice
«ausiliaria del- l’azione » (/bid., pag. 158). Ogni forma di spiri- tualismo o
coscienzialismo tende, più o meno chiaramente, a una metafisica teologica di
questa specie. METAFISICA 2° La seconda concezione fondamentale è quella della
M. come ontologia o dottrina che studia i caratteri fondamentali dell’essere:
quei ca- ratteri che ogni essere ha e non può non avere. Le proposizioni
principali della M. ontologica sono le seguenti: 1° Esistono determinazioni
necessarie dell’essere cioè determinazioni che nessuna forma o modo d'essere
può non avere. 2° Tali determi- nazioni sono presenti in tutte le forme e i
modi d'essere particolari. 3° Esistono scienze che hanno per oggetto un modo
d’essere particolare, isolato in virtù di opportuni principi. 4° Deve esistere una
scienza che abbia per oggetto le determinazioni necessarie dell’essere,
anch'esse rese riconoscibili in virtù di un adatto principio. 5° Questa scienza
precede tutte le altre ed è perciò scienza prima in quanto il suo oggetto è
implicito negli oggetti di tutte le altre scienze e in quanto, conseguente- mente,
il suo principio condiziona la validità di ogni altro principio. La M. che si
esprime in queste proposizioni implica, di regola: a) una determinata teoria
dell’essenza e precisamente quella dell’es- senza necessaria (v. EsseNZA); è)
una determinata teoria dell’essere predicativo e precisamente quella dell’inerenza
(v. EsseRE, 1); c) una determinata teoria dell’essere esistenziale e
precisamente quella della necessità (v. ESSERE, 2). Le proposizioni precedenti
esprimono la forma più matura che la M. ha assunto nell’opera di Aristotele e
precisamente nei libri VII, VIII, IX della Metafisica. Esse esprimono, cioè, la
M. come teoria della sostanza, intendendosi per sostanza «ciò che un essere non
può non essere» cioè l’es- senza necessaria o la necessità d’essere (v. So- sTANZA).
Il principio della M. in questo senso è il principio di contraddizione. Solo
questo prin- cipio infatti consente di delimitare e di riconoscere l’essere
sostanziale. « Coloro, dice Aristotele, che negano questo principio distruggono
completamente la sostanza e l’essenza necessaria giacchè sono co- stretti a
dire che tutto è accidentale e non c'è qualcosa come l’essere uomo o l’essere
animale. Se infatti c'è qualcosa come l’essere uomo, questo non sarà l’essere
non uomo o il non essere uomo, ma queste saranno negazioni di quello. Uno solo è
infatti il significato dell’essere e questo è la so- stanza di esso. Indicare
la sostanza di una cosa non è altro che indicare l’essere proprio di essa + (Met.,
IV, 4, 1007a 21). Da questo punto di vista la sostanza è oggetto della M. in
quanto costituisce il principio di spiegazione di tutte le cose esistenti. Dice
Aristotele: «La sostanza di ciascuna cosa è la causa prima dell’essere di
questa cosa. Alcune cose non sono sostanze ma quelle che sono tali sono
naturali e sono poste dalla natura, sicchè è chiaro che la sostanza è la na- METAFISICA
tura stessa e che non è elemento ma principio » (Ibid., VII, 17, 1041 b 27). La
sostanza in questo senso non è una realtà privilegiata o sublime, che conferisca
alla scienza che ne faccia oggetto una dignità superiore. In quanto sostanze,
Dio e l’in- telletto (come Aristotele dice, Er. Nic., I, 6, 1096a 24) o anche
Dio e un filo d’erba (come si potrebbe dire) hanno lo stesso valore; e le
scienze che li as- sumono ad oggetto la stessa dignità. In un passo famoso
delle Parti degli Animali Aristotele ha espli- citamente riconosciuto l’uguale
dignità di tutte le scienze in quanto hanno per oggetto la sostanza. « Le
sostanze inferiori, dice Aristotele, essendo più e meglio accessibili alla
conoscenza vengono ad avere il sopravvento nel campo scientifico; e poichè sono
più vicine a noi e più conformi alla nostra natura, la scienza di esse finisce
per essere equi- valente alla filosofia che ha per oggetto le cose divine...
Infatti anche nel caso di quelle meno favorite dal punto di vista
dell'apparenza sensibile, la natura che le ha prodotte dà gioie indicibili a coloro
che sanno comprenderne le cause e sono per loro natura filosofi» (De Part. An.,
I, 5, 645a 1). È ovvio che, da questo punto di vista, la priorità della M. non
consiste nell’eccellenza del suo oggetto (com’è nel caso della M. teologica) ma
solo nel fatto che la M., avendo come og- getto specifico la sostanza consente
di intendere gli oggetti di tutte le scienze sia nei loro caratteri comuni e
fondamentali sia nei loro caratteri spe- cifici: senza la sostanza, infatti, e
per es., senza l'essere e l'unità che le appartengono, « ogni cosa sarebbe
distrutta, giacchè ogni cosa è ed è una» (Met., XI, 1, 1059b 31). In altri
termini: ogni scienza è, come tale, studio della sostanza in qual- cuna delle
sue determinazioni, per es., della so- stanza in movimento la fisica, della
sostanza come quantità la matematica; la M. è la teoria della sostanza in
quanto tale. La priorità della M. sulle altre scienze è, da questo punto di
vista, una priorità logica, non di valore. E si tratta di una priorità logica
fondata sulla priorità ontologica del suo oggetto specifico. Consiste nel fatto
che tutte le altre scienze presup- pongono la M. allo stesso modo che tutte le
de- terminazioni della sostanza presuppongono la so- stanza; ora la riforma che
S. Tommaso ha fatto subire alla M. aristotelica nel sec. xm mira a restrin- gere
la superiorità logica della metafisica. Secondo S. Tommaso, la M. come teoria
della sostanza non include Dio tra i suoi oggetti possibili, in quanto Dio non
è sostanza (S. Tk., I, q. 1, a. 5, ad 1°). L'identità di essenza ed esistenza
in Dio distingue nettamente l’essere di Dio dall’essere delle creature nelle
quali invece l’essenza © l’esistenza sono se- parabili (/bid., I, q. 3, a. 4).
La determinazione 37 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 577 dei caratteri
sostanziali dell’essere in generale non concerne pertanto Dio ma solo le cose
create o finite. Con ciò la M. perde la sua priorità, che passa alla teologia,
considerata come una scienza a sè, originaria, che ripete i suoi princlpi
diretta- mente da Dio. « E così la teologia non riceve nulla dalle altre
scienze, come se queste le fossero su- periori, ma si serve di esse come di
inferiori e di serve, come le scienze architettoniche si servono di quelle che
procurano i materiali e la scienza civile della militare » (/bid., I, q. 1, a.
5, ad 2°). Con la negazione del carattere analogico dell’essere, operata da
Duns Scoto, si ritorna a riconoscere la priorità della metafisica. Duns Scoto
infatti defi- nisce la M. come «la scienza prima dello scibile primo » cioè
dell’essere (In Mer., VII, q. 4, n. 3). L’essere che è oggetto della M. è,
secondo Duns Scoto, l’essere comune: comune cioè a tutte le creature e a Dio,
per quanto non si tratta di un genere che avrebbe ancora un estensione troppo ristretta.
La comunità dell’essere comprende il do- minio intero dell’intelligibile: la
scienza dell’essere, la M., è perciò la scienza prima e più estesa (Op. Ox., I,
d. 3, q. 3, a. 2, n. 14). La caratteri- stica di questo punto di vista di Scoto
è che esso distingue nettamente tra la priorità di valore che appartiene alla
teologia e la priorità logica che appartiene invece alla metafisica. Questa
distinzione viene mantenuta nel corso ul- teriore della storia della M.
ontologica. Nel se- colo xv tale M. cominciò ad essere contrassegnata col nome
che le è proprio di ontologia. Questo nome ricorre nello Schediasma Historicum
(1655) di Giacomo Thomasius (padre di Cristiano); e viene giustificato da
Clauberg nel modo seguente: «Come viene detta /eosofia o teologia la scienza che
si occupa di Dio, così quella che verte non intorno a questo o a quell’ente
insignito di un nome speciale o distinto dagli altri da una certa proprietà, ma
intorno all’ente in generale, non im- propriamente sembra che possa essere
detta onto- sofia od ontologia » (Op. Phil., 1691, I, pag. 281). Un'ontologia
così intesa, e nettamente distinta dalla teologia, non implicava alcun
antagonismo aperto o nascosto con i dati dell’esperienza. Essa anzi comincia ad
essere considerata come l’esposizione ordinata e sistematica di quei caratteri
fondamentali dell’essere che l’esperienza rivela in modo ripetuto o costante.
Tale è il concetto che della M. come ontologia ebbe Wolff: il quale dette a
questa disciplina la forma sistematica che le garantì, per qualche tempo, il
successo. Secondo Wolff, il pensiero comune possiede già in forma confusa le
nozioni che l’ontologia espone in forma distinta e sistematica. Esiste cioè una
« ontologia naturale + costituita dalle «confuse nozioni ontologiche vol- 578 gari
». Essa può definirsi come « il complesso delle nozioni confuse che rispondono
ai termini astratti coi quali esprimiamo i giudizi generali intorno al- l’essere
e che acquistiamo con l’uso comune delle facoltà della mente » (On;., $ 21).
Questa ontologia naturale, che gli Scolasti ci completarono senza to- glierla
dalla confusione, si distingue dall’ontologia artificiale o scientifica come la
logica si distingue dai procedimenti naturali dell’intelletto (/bid., $ 23; Log.,
$ 11). Essa non è un semplice dizionario filosofico ma una scienza
dimostrativa, il cui og- getto è costituito dalle determinazioni che appar- tengono
a tutti gli enti, sia assolutamente sia sotto determinate condizioni (Onf., $
25). In tal modo, per opera di Wolff, faceva il suo ingresso nel- l’organismo
tradizionale della M. ontologica una esigenza descrittiva ed empiristica che
tendeva ad eliminare il contrasto tra l’apriorismo deduttivo della M. e
l’esperienza. In base alla stessa esigenza, Wolff distingueva una psicologia
empirica « nella quale si stabiliscono in base all'esperienza i prin- cìpi che
possono rendere ragione di ciò che può accadere nell'anima umana» (Log., Disc.
Prel., $ 111) dalla psicologia reazionale che è la « scienza di tutte le cose
che sono possibili nell’anima umana + (/bid., $ 58). Dall'altro lato Wolff
distin- gueva dall’ontologia le tre discipline M. speciali, cioè la teologia,
la psicologia e la fisica (di cui è parte la cosmologia) rispettivamente
dirette a conoscere Dio, l’anima umana e le cose naturali (Ibid., 8 55-59).
L’ontologia wolfiana rendeva possibile un’inter- pretazione empirica di questa
scienza per la quale essa fu talora difesa dagli stessi illuministi. Diceva,
per es., D'Alembert: « Poichè sia gli esseri spiri- tuali sia quelli materiali
hanno proprietà generali in comune, come l’esistenza, la possibilità, la du-
rata, è giusto che questo ramo della filosofia, dal quale tutti gli altri rami
prendono in parte i loro princìpi, si denomini ontologia ossia scienza del-
l’essere o M. generale » (Discours préliminaire, $ 7, in @Euvres, ed.
Condorcet,! pag. 115). In questo senso d’Alembert si fece sostenitore di una
nuova M. cioè di « una M. che sia creata più per noi e si tenga più vicina e
più attaccata alla terra, una M. cioè le cui applicazioni si estendano alle
scienze naturali
e ai diversi rami della matematica. Non
esiste infatti in senso stretto alcuna scienza che non abbia la sua M., se con
ciò si intendono i prin- cìpi generali su cui è costruita una determinata dottrina
e che sono, per così dire, i germi di tutte le verità particolari »
(Éclaircissement, $ 16). In un senso assai vicino a questo l’ontologia veniva
in- tesa da Crusius (Entwurf der notwendigen Vernunft- wahrheiten, 1745, $ 1) e
da Lambert (Architektonik, 1771, $ 43). Con una più radicale rinuncia al ca- METAFISICA
rattere sistematico della scienza, un’ontologia de- scrittiva o «denotativa»
che mentre si limiti «a osservare e registrare i tratti dell’esistenza » prenda
anche in considerazione lo strumento di questa osservazione cioè la riflessione
umana e le condi- zioni che la sollecitano, può vedersi ancora oggi difesa
(DeWEY, Experience and Nature, 1926, cap. 2; J. H. RANDALL, Nature and
Historical Experience, 1958, cap. 5). 3° Il terzo concetto della M. come
gnoseologia è quello espresso da Kant. Veramente, l'origine di questo concetto
dev’essere riconosciuta nella no- zione di filosofia prima di Bacone: «una
scienza universale, che sia madre di tutte le altre e costi- tuisca nel
progresso delle dottrine la parte della via comune, prima che le vie si
separino e disgiun- gano ». Tale scienza doveva essere, secondo Bacone, «il
ricettacolo degli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma
spettano in comune a parecchie di esse » (De Augm. scient., III, 1). Questo ‘
concetto di filosofia prima ha una sua propria storia che è quella del concetto
positivistico della filosofia; ma con esso il concetto kantiano della M. ha in
comune l’accento posto sui princlpi, più che sull’oggetto, della scienza. La M.
è, secondo Kant lo studio di quelle forme o princìpi conoscitivi che, per
essere costitutivi della ragione umana, anzi di ogni ragione finita in
generale, condizionano ogni sapere e ogni scienza; e dal cui esame per- tanto
possono ricavarsi i princìpi generali di cia- scuna scienza. Kant esponeva
questo concetto della M. nelle ultime pagine della Critica della Ragion Pura e
precisamente nel capitolo sull’architettura. La M. può intendersi, dice Kant, o
come la se- conda parte della « filosofia della ragion pura» e cioè come «il
sistema della ragion pura (scienza), come l’intera conoscenza filosofica (sia
vera che apparente) che deriva dalla ragion pura in con- nessione sistematica
»: e in questo senso essa esclude da sè la parte preliminare o propedeutica
della filosofia della ragion pura, cioè la critica. Oppure può intendersi come
l’intera filosofia della ragion pura compresa la critica. È in questo secondo
senso, che Kant chiamava ontologia la M. nello scritto del 1793 con cui
rispondeva al tema proposto dall’Accademia di Berlino: « Quali sono i progressi
reali che la M. ha fatto dal tempo di Leibniz e Wolff? ». Ontologia, M. e
critica coincidono, da questo punto di vista: « La critica, e solo la cri- tica,
diceva Kant nei Prolegomeni, contiene il di- segno ben verificato e saggiato
d’una M. scienti- fica, come pure il materiale necessario per realiz- zarlo.
Per qualunque altra via o mezzo, essa è impossibile » (Prof, A, 190). La M.
kantiana si contrapponeva così come M. « scientifica » o « cri- tica » alla M.
dogmatica tradizionale, che Kant METAFISICA sottometteva a critica nelle tre
parti distinte da Wolff, teologia, psicologia e cosmologia. Ma nè nella
dialettica trascendentale nè altrove Kant ha sottoposto a critica la prima
parte fondamentale della M. wolfiana, cioè l’ontologia. In realtà il concetto
fondamentale dell’ontologia rimaneva va- lido per Kant con la correzione del
carattere cri- tico o gnoseologico di essa cioè col passaggio dal significato
realistico al significato soggettivi- stico della disciplina in questione.
Della M. critica od ontologica fanno parte, secondo Kant, una M. della natura e
una M. dei costumi. La M. della natura comprende «tutti i principi razionali puri
derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione della matematica) della
scienza teoretica di tutte le cose» La M. dei costumi comprende «i principi che
determinano a priori e rendono necessario il fare o il non fare» ed è perciò la
«morale pura» (Crit. R. Pura, Dottr. del Me- todo, cap. 3). Il carattere
proprio della M. kantiana è la sua pretesa di essere «una scienza di concetti
puri» cioè una scienza che abbraccia le conoscenze che possono essere ottenute
indipendentemente dalla esperienza, sul fondamento delle strutture razionali della
mente umana. Da questo punto di vista, la continuazione storica di essa nella
filosofia contem- poranea è l’ontologia fenomenologica di Husserl. A differenza
di Kant, Husserl prende in conside- razione non già i princìpi generalissimi,
da ritenersi come costitutivi della ragione in generale, ma i principi che
costituiscono il fondamento di deter- minati campi del sapere cioè di una
scienza o di un gruppo di scienze e che perciò chiama mate- riali. «Ogni
oggetto empirico concreto, egli dice, si inserisce con la sua essenza materiale
in una specie materiale superiore, in una regione di oggetti empirici.
All’essenza regionale corrisponde poi una scienza eidetica regionale o, come
possiamo anche dire, una ontologia regionale». Pertanto « ogni scienza di dati
di fatto o di esperienza ha i suoi fondamenti teoretici essenziali in ontologie
regio- nali... Così, ad es., a tutte le discipline naturalistiche corrisponde
la scienza eidetica della natura fisica in generale (l’ontologia della natura)
in quanto alla natura fattizia corrisponde un eidos puramente apprendibile, la
‘ essenza natura in generale, con inclusa una massa infinita di rapporti
essenziali + (Ideen, I, $ 9). L’affermazione del carattere « mate- riale» cioè
determinato o specifico dei princìpi ontologici, che si riferiscono sempre ad
un deter- minato genere di essenze o campo del sapere, porta così Husserl a
stabilire il carattere « regionale » dell’ontologia. Dal suo punto di vista,
l’ontologia generale o formale non è che la logica pura, che è «la scienza
eidetica dell’oggetto in generale » (Ibid., 579 $ 10) (v. MATHESIS
UNIVERSALIS). Ad una ontologia generale, invece, è ritornato N. Hartmann, che
ha in comune con Husserl il presupposto fenomenolo- gico. L'oggetto
dell’ontologia è, secondo Hartmann, l’ente non l’essere; giacchè l’essere è
unicamente «ciò che v’è di comune in ogni ente». L'essere e l’ente si
distinguono come la verità e il vero, la realtà e il reale e così via: ci sono
molte cose vere, ma l’essere della verità è uno solo. Analogamente l’essere
dell’ente è uno solo benchè l’ente possa essere vario e le differenziazioni
dell’essere appar- tengono allo sviluppo dell’ontologia e non al suo inizio,
che verte su ciò che è comune e universale (Grundiegung der Ontologie, 1935,
pag. 42). L’im- postazione schiettamente realistica della ontologia di Hartmann
sembra ravvicinarla a quella tradizio- nale, specialmente a quella di Wolff; ma
in realtà ciò che costituisce l'oggetto dell’ontologia è, secondo Hartmann, la
datità dell’essere cioè il modo in cui l’essere è dato (/bid., pag. 48)
all’esperienza fenomenologica: sicchè la sua ontologia fa parte integrante
della corrente fenomenologica. E alla stessa corrente appartiene l’ontologia di
Heidegger intesa come la determinazione del senso dell’essere a partire
dall’essere di quell’ente che pone le do- mande e formula le risposte: cioè
dell’uomo. Hei- degger riafferma il carattere primario o privilegiato dell’ontologia.
« Il problema dell’essere tende non solo alla determinazione delle condizioni @
priori della possibilità delle scienze che studiano l’ente in quanto ente così
e così e che perciò si muovono già sempre in una comprensione dell’essere, ma bensì
anche alla determinazione delle condizioni e della possibilità delle ontologie
che precedono e fondano le scienze ontiche [cioè empiriche] » (Sein und Zeit, $
3). Tutte le dottrine cui si è fatto riferimento finora (tranne quelle di Dewey
e Randall) ammettono il presupposto sul quale la M. è stata tradizional- mente
imperniata e cadono perciò nei limiti del concetto di essa. Tale presupposto è
il carattere necessario e primario della M.: necessario in quanto ha per
oggetto l’oggetto necessario di tutte le altre scienze; e primario perchè è,
come tale, a fon- damento di tutte le scienze. Ciò che della M. ri- mane nella
filosofia contemporanea — e vi rimane non come mera sopravvivenza ma come parte
viva dell'indagine — non possiede più questi caratteri tradizionali. La M. è
difatti presente e operante nella filosofia contemporanea nella forma di due problemi
connessi: 1° il problema del significato o dei significati di esistenza nel
linguaggio delle diverse scienze; 2° il problema delle relazioni fra le diverse
scienze e delle indagini su oggetti che cadono nei punti di intersezioni o di
incontro fra di esse. 580 1° Rispetto al primo problema, si parla oggi esplicitamente
di ontologia, nel senso di un impegno ad usare in un determinato senso il verbo
essere e i suoi sinonimi. Dice, ad es., Quine: « La nostra accettazione di una
ontologia è simile, in linea di principio, alla nostra accettazione di una
teoria scientifica cioè di un sistema di fisica: noi adot- tiamo, almeno in
quanto siamo ragionevoli, lo schema concettuale più semplice nel quale i disor-
dinati frammenti dell’esperienza grezza possono es- sere adattati e
distribuiti. La nostra ontologia è determinata una volta che abbiamo fissato lo
schema concettuale totale per adattarvi la scienza nel suo senso più vasto; e
le considerazioni che determinano la costruzione ragionevole di una parte
qualsiasi di quello schema concettuale,
per es., la parte biologica o fisica, non sono differenti, in ispecie, dalle
considerazioni che determinano la ragionevole costruzione dell’intero schema »
(From a Logical Point of View, pag. 16-17). Carnap, pure obiettando contro
l’uso della parola « onto- logia +, in quanto sembra faccia riferimento a convinzioni
metafisiche, mentre si tratta in realtà di una pratica decisione «come la
scelta di uno strumento +, ha sostanzialmente confermato il punto di vista di
Quine (Meaning and Necessity, $ 10). In questo senso si parla frequentemente di
onto- logia nella logica e nella metodologia contempo- ranea. 2° Rispetto al
secondo problema, l’erede della M. tradizionale è la metodologia dalla quale
ven- gono abitualmente dibattuti i problemi concernenti i rapporti fra le
singole scienze e le questioni sor- genti dalle interferenze marginali tra le
scienze stesse. Certamente la metodologia non ha ereditato la pretesa di
stabilire una enciclopedia delle scienze che definisca, una volta per tutte, i
compiti e i limiti di ciascuna; e perciò non rivendica la dignità di arbitra o
regina fra le scienze. Si tratta piuttosto di ordinare via via l'universo
concettuale nel modo più semplice e comodo: cioè nel modo, che, mentre favorisca
la comunicazione continua tra una scienza e l’altra, non attenti alla
indispensabile autonomia
di ciascuna scienza. Si tratta, a questo
scopo, di problematizzare, a ogni fase della ricerca scienti- fica, i rapporti
tra le varie discipline o i vari indirizzi di ricerca sia a vantaggio dello
sviluppo delle disci- pline singole, sia a vantaggio dell’uso che di esse può o
deve fare l’uomo: cioè della filosofia. METAFORA (gr. uetapopd; ingl. Metaphor;
franc. Métaphore; ted. Metapher). Trasferimento di significato. Dice
Aristotele: « La M. consiste nel dare ad una cosa un nome che appartiene a
un’altra cosa: trasferimento che può effettuarsi dal genere alla specie o dalla
specie al genere o da specie a specie o sulla base di una analogia » (Poet.,
21, METAFORA 1457 b 7). La nozione di M. è stata talora adope- rata per
determinare la natura del linguaggio in generale (v. Linguaggio). Come
particolare stru- mento linguistico, la sua definizione non è diversa, oggi, da
quella data da Aristotele. Per la M. mitica dei popoli primitivi che è
sostanzialmente l’identi- ficazione dell’espressione metaforica con l’oggetto, cfr.
CassiRER, Language and Myth, 1946. METAGEOMETRIA (ingl. Mesageometry; franc.
Métagéométrie; ted. Metageometrie). La geo- metria non euclidea: cioè ogni
geometria che parta da assiomi diversi da quelli di Euclide (v. Geo- METRIA). METALINGUAGGIO
(ingl. Metalanguage; franc. Métalangage). Quando D. Hilbert introdusse la
concezione delle matematiche come sistemi me- ramente sintattico-deduttivi
(sistemi arbitrari di simboli nei quali, dati certi assiomi fondamentali e
certe regole operative, si procede per via mera- mente simbolica, operando cioè
sulle formule co- stituenti gli assiomi secondo le date regole opera- tive, a
trarne le « conseguenze» senza riguardo ai possibili od eventuali significati
extrasimbolici, in- tuitivi o altro, di quegli stessi simboli), si venne a
porre il problema di controllare la non-contraddit- torietà dei sistemi di
assiomi delle discipline mate- matiche così formalizzate, nonchè di controllare
la correttezza delle singole derivazioni (deduzioni). Poichè, secondo un noto
teorema (di Gédel) non si può provare la non-contraddittorietà di un si- stema
matematico formalizzato entro il sistema stesso, D. Hilbert e la sua scuola
ricorsero alla creazione di particolari sistemi per il controllo dei sistemi
simbolici (cioè delle singole discipline ma- tematiche: algebra, geometrie,
ecc.). Tali sistemi di controllo furono detti mefamatematici. Per ana- logia, o
meglio per estensione del termine, i logici polacchi e Carnap chiamarono M.
ogni sistema linguistico (per es., il linguaggio della Logica, della grammatica,
ecc.) che non porta su denotata extra- linguistici, ma che semanticamente porta
su simboli e fatti linguistici; e mefalinguistica ogni espressione che parla
non di cose (reali o ideali), bensì di parole o discorsi (per es.: «‘ Mario” è
un nome proprio di persona maschile singolare»; « ‘accelerazione ” è un termine
della Fisica »). La distinzione tra lin- guaggio e M. acquista moltissima
importanza nel- l’analisi filosofica neopositivistica, essendo uno dei
fondamenti della critica alla metafisica speculativa, nella quale espressioni
metalinguistiche vengono sistematicamente scambiate per espressioni lingui-
stiche (v. LINGUAGGIO-OGGETTO). G. P. METALOGICO (ingl. Meralogical; franc. Mé-
talogique; ted. Metalogisch). 1. Questo termine da Carnap in poi (Logische
Syntax der Sprache, 1934; trad. ingl., 1937; $ 2) ha lo stesso significato che
METODO « sintattico », cioè caratterizza lo studio sistematico delle regole
formali di un linguaggio (v. SINTASSI). 2. Schopenhauer chiamò « verità
metalogica » quella propria dei quattro princìpi del pensiero cioè princìpi d’Identità,
di Contraddizione, del Terzo Escluso e di Ragion Sufficiente (Uber die
vierfache Wurzel des Satzen vom zureichenden Grunde, 1813, $ 33). 3.
Metalogicon è il titolo di un’opera di Giovanni di Salisbury (sec. xn): avrebbe
dovuto significare « difesa della logica ». METAMATEMATICO (ingl. Metamathe- matic; franc.
Métamathématique; ted. Metamathe- matisch).
Lo stesso che sintattico o metalogico. Nel senso di Hilbert, la teoria della
prova cioè la for- malizzazione della prova matematica mediante un sistema
logistico (v. PROVA). METAMORALE (ingl. Metamoral; franc. Mé- tamorale). Lo
studio dei fondamenti della morale. Oppure: lo studio delle strutture
logico-linguistiche della morale. METAPSICHICA (ingl. Psychical Research; franc. Métapsychique; ted.
Parapsychologie, Me- tapsychik).
L’esame spregiudicato, e con intendi- mento scientifico, di quelle facoltà
umane, reali o immaginarie, che risultano inesplicabili sulla base delle
ipotesi generalmente riconosciute. Questa è almeno la definizione di questa
scienza data dai suoi più seri cultori. I fenomeni che essa investiga cadono in
due categorie fondamentali: i cosiddetti fenomeni mentali, che consistono in
informazioni acquistate con mezzi ultra-normali o fenomeni di percezione
extra-sensoriale; i fenomeni fisici 0 pro- digi, per es., oggetti che fluttuano
nell’aria, colpi, rumori, ecc. La M. cerca di stabilire la realtà di tali
fenomeni e di presentare opportune ipotesi per la loro spiegazione. Cfr. D. J.
WEST, Psychical Research Today, London, 1954. METASTORICO. Si indicano con
questo ter- mine i valori eterni che la storia tende a realizzare e che
pertanto si assume che costituiscano la sua struttura o il piano provvidenziale
che la regge (v. STORIA).
METEMPIRICO (ingl. Metempirical; francese
Metempirique; ted. Metempirisch). Ciò che è al di là dei limiti dell’esperienza
possibile (LEWES, Problems of Life and Mind, 1874, I, pag. 17). METEMPSICOSI
(ingl. Merempsychosis; fran- cese Métempsychose; ted. Metempsychose). La cre- denza
nella trasmigrazione dell’anima di corpo in corpo. La credenza è antichissima e
di origine orientale, ma il termine compare soltanto negli scrittori dei primi
tempi dell’epoca cristiana. Plo- tino usa talvolta quello di metensomatosi
(Enn., II, 9, 6, 13), che sarebbe più esatto. La credenza diffusa dalle sètte
degli Orfici e dei Pitagorici fu accettata da Empedocle (Fr., 115, 117, 119),
da Platone S81 (Tim., 49 sgg.; Rep., X, 614 sgg.) da Plotino e dai Neoplatonici
e dallo gnostico Basilide (BUONAIUTI, Frammenti gnostici, pag. 63 sgg.). Cfr.
E. ROHDE, Psyche, 1890-94; trad. ital., Bari, 1916. METENSOMATOSI. V.
METEMPSICOSI. METESSI (gr. pé0ek.c). Partecipazione. La pa- rola fu usata da
Platone per indicare uno dei modi possibili del rapporto tra le cose sensibili
e le idee (Parm., 132 d). Gli altri modi in cui Platone con- cepì lo stesso
rapporto furono quelli della mimesi o imitazione (Rep., 597 a; Tim., S0c) e
della pre- senza dell’idea nelle cose (Fed., 100 d). Il termine è stato usato
in questa forma da Gioberti nella Protologia per designare il ciclo di ritorno
del mondo a Dio, che culmina in un rinnovamento finale o palingenesi (Prot.,
II, pag. 107). Gioberti adopera lo stesso termine (come quello di mimesi, con
cui indica l'allontanamento del mondo da Dio) per caratterizzare un termine di
varie coppie di cose o enti del mondo: per es., il corpo è la mimesi, l’anima è
la M., la femmina è la mimesi, il maschio è la M., ecc. (/bid., pag. 319). METODICA.
Così talora è stato chiamato la dottrina del metodo pedagogico: per es.,
RAYNERI, Primi principi di metodica (1850); RosMiInI, Del Principio supremo
della metodica (1857); ecc. METODO (gr. ué0080c; lat. Methodus; ingl. Me- thod;
franc. Méthode; ted. Methode). Il termine ha due
significati fondamentali: 1° ogni ricerca o orien- tamento di ricerca; 2° una
particolare tecnica di ricerca. Il primo significato non si distingue da quello
di «indagine» o « dottrina ». Il secondo si- gnificato è più ristretto e indica
un procedimento di indagine ordinato, ripetibile e autocorreggibile, che
garantisca il conseguimento di risultati validi. AI primo significato vanno
riferite espressioni come «il M. hegeliano », « il M. dialettico », ecc. o
anche «il M. geometrico », « il M. sperimentale », ecc. AI secondo significato
vanno riferite espressioni come «il M. sillogistico », «il M. dei residui » e
in gene- rale quelle che designano particolari procedimenti di indagine o di
controllo. Sia Platone (Sof., 218 d; Fed., 270c) che Aristotele (Po/., 1289a
26; Er. Nic., 1129a 6) adoperano il termine in entrambi i significati. Nell’uso
moderno e contemporaneo prevale il secondo significato. Ma bisogna osser- vare
che non c'è dottrina o teoria, sia scientifica che filosofica, che non possa
essere considerata sotto l'aspetto del suo ordine procedurale e perciò detta
metodo. Cartesio stesso, ad es., espose la stesso contenuto del Discorso del
metodo nella forma delle Meditazioni metafisiche e dei Principi di filosofia:
ciò che per un verso era M., per un altro era dottrina. E in generale non c’è
dottrina che non possa essere considerata e chiamata M., se vista come ordine o
procedura di ricerca. Per- 582 tanto la classificazione dei M. filosofici e
scientifici sarebbe senz’altro una classificazione delle dottrine rispettive.
Per le dottrine che più frequentemente o a maggior ragione sono dette M., v. le
voci rispettive: ANALISI; ASSIOMATIZZAZIONE; (CONCOMI- TANZA} (CONCORDANZA;
DEDUZIONE; DIALETTICA; DIFFERENZA; DIMOSTRAZIONE; INDUZIONE; PROVA; ResIpUI;
SiLLogIsMo; SINTESI; ed inoltre le voci dedicate alle singole discipline:
FILosoFIA; FISICA; GroMETRIA; LoGIcA; MATEMATICA; SCIENZA; ecc. METODOLOGIA
(ingl. Merhodology; francese Méthodologie; ted. Methodologie, Methodenlehre). Sotto
questo termine si possono intendere quattro cose diverse: 1° la logica o la
parte della logica che studia i metodi; 2° la logica trascendentale ap- plicata;
3° l’insieme dei procedimenti metodici di una scienza o di più scienze; 4°
l’analisi filosofica di tali procedimenti. 1° Come M., la logica è stata intesa
nell’età post-cartesiana. Dice la Logica di Portoreale: « La logica è l’arte di
ben condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose, tanto per istruire
se stessi quanto per istruire gli altri ». Nello stesso senso Wolff definiva la
logica come «la scienza di dirigere la facoltà conoscitiva nella conoscenza
della verità » (Log., $ 1). Questo concetto della logica si può vedere espresso
anche nella definizione che Stuart Mill dà di essa come «la scienza delle ope- razioni
dell'intelletto che servono alla valutazione della prova» (Logic, Intr., $ 7).
Dall'altro lato la M. è stata anche considerata come una parte della logica.
Pietro Ramo distingueva la logica in quattro parti e precisamente nella
dottrina del con- cetto, del giudizio, del ragionamento e del metodo (Dialecticae
Institutiones, 1543): e questa partizione accettata dalla Logica di Portoreale
è rimasta tra- dizionale ed è stata costantemente seguita dalla logica
filosofica del sec. xrx (v. per tutti BENNO ERDMANN, Logik, 1892, I, $ 7). Da
Wolff (Log., $ SOS sgg.) in poi la dottrina del metodo si chiamò spesso logica
pratica. 2° Come logica trascendentale applicata o « pratica », la M. è stata
intesa da Kant. Essa costituisce la seconda parte principale della Critica della
Ragion Pura la quale ha per iscopo «la de- terminazione delle condizioni
formali di un sistema completo della ragion pura»; e comprende una disciplina,
un canone, un’architettonica e infine una storia della ragion pura. Kant stesso
mette a raffronto questa parte della sua opera con la logica formale applicata
o pratica: « Dal punto di vista trascendentale, egli dice, faremo quello che
nelle scuole si è cercato di fare sotto il nome di logica pratica, rispetto
all’uso dell’intelletto in generale, ma si è fatto male perchè, non limitandosi
a un METODOLOGIA modo speciale di conoscenza intellettuale (per es., a quello
puro) e neanche a certi oggetti, la logica generale non può far altro che
proporre titoli di metodi possibili e di espressioni tecniche» (Crif. R. Pura,
Dottr. Trasc. del Metodo, Intr.). 3° Col nome di M. viene oggi spesso indicato l’insieme
dei procedimenti tecnici di accertamento o di controllo in possesso di una
determinata di- sciplina o gruppo di discipline. In questo senso si parla, per
es., della « M. delle scienze naturali + o della «M. storiografica». In questo
senso la M. è elaborata all’interno di una disciplina scien- tifica o di un
gruppo di discipline e non ha altro scopo se non quello di garantire alle
discipline in questione l’uso sempre più efficace delle tecniche di procedura
di cui dispongono. 4° Dall’altro lato, e in stretta connessione con la M. nel
senso precedente, la M. si viene costi- tuendo come disciplina filosofica
relativamente au- tonoma e destinata all’analisi delle tecniche di ricerca
adoperate in una o più scienze. L'oggetto della M. in questo senso non sono i «
metodi» delle scienze cioè le grandi e approssimative clas- sificazioni
(analisi, sintesi, induzione, deduzione, esperimento, ecc.) in cui cadono le
recniche della ricerca scientifica, ma proprio soltanto queste tecniche,
considerate nelle loro strutture specifiche e nelle condizioni che ne rendono
possibile l’uso. Tali tecniche comprendono ovviamente ogni pro- cedura
linguistica od operativa, ogni concetto come ogni strumento, di cui una o più
discipline si av- valgono per l’acquisizione e il controllo dei loro risultati.
In questo senso, la M. è l’erede: a) della metafisica, perchè ad essa competono
i problemi concernenti i rapporti tra le scienze e le zone di interferenza (e
talora di contrasto) tra scienze di- verse; 5) della gnoseologia, in quanto
alla consi- derazione della «conoscenza + intesa come forma globale
dell’attività umana o dello Spirito in gene- rale, sostituisce la
considerazione dei singoli pro- cedimenti conoscitivi in uso in uno o più campi
della ricerca scientifica. La M. in questo senso si chiama anche « critica
delle scienze ». Per quanto il lavoro fatto da essa in questa direzione,
iniziato dai primi decenni del secolo, sia già ingente, manca finora una
precisa determinazione del compito e degli orientamenti di questa disciplina.
Cfr. tut- tavia: Autori vari, Fondamenti logici della scienza, Torino, 1947;
Id., Saggi di critica delle scienze- Torino, 1950: entrambi a cura del Centro
di Studi Metodologici di Torino. MEZZO (ingl. Means; franc. Moyen; ted. Mittel). 1. Tutto ciò che rende possibile il conseguimento di
un fine, l’esecuzione di un proposito o la rea- lizzazione di un progetto. Su
rapporto tra M. e fine, v. VALORE. MIRACOLO 2. Ambiente e specialmente ambiente
biologico. In questo senso la parola corrisponde al francese milieu che è stato
cominciato ad usare in questo significato verso la metà del secolo scorso (vedi
AMBIENTE). MICIURINISMO. V. GENETICA. MICROCOSMO (gr. puixpds xbopoc; lat. Mi- crocosmus;
ingl. Microcosm; franc. Microcosme; ted. Mikrokosmos). La corrispondenza tra il
macro- cosmo cioè il mondo, e il M., cioè l’animale e talvolta l’uomo, è un
tema filosofico antico nato dalla tendenza a interpretare l’intero universo sul
fondamento di quell’universo minore che l’uomo è a se stesso. Aristotele così
esponeva questo prin- cipio di interpretazione a proposito della possibilità del
movimento autonomo: « Se questo è possibile nell’animale, che cosa impedisce
che accada anche nel mondo? Se accade nel M., può accadere anche nel cosmo
grande; e se accade nel cosmo, può accadere anche nell’infinito, se è possibile
che l’in- finito si muova o stia in quiete nella sua totalità » (Fis., VIII, 2,
252 b 25). Ora questa è un’obiezione che Aristotele rivolge a se stesso e che
confuta negando la possibilità del movimento autonomo dell'universo e
ammettendo, perciò, il primo mo- tore. La corrispondenza tra M. e macrocosmo
non è pertanto un principio a cui Aristotele faccia appello. Ma già ai tempi di
Aristotele era un principio antico giacchè esso era a fondamento della
cosmogonia degli Orfici e precisamente della dottrina che il mondo è nato da un
uovo: difatti è nato da un uovo perchè è un animale (cfr. A. OLI- VIERI,
Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli, 1931, pag. 23 sgg). Platone
stesso chiamò il mondo «un grande animale» (7im., 30 b) fornito perciò d’anima
e intelligenza, assumendo come realtà let- terale una corrispondenza
metodologica; e questo fu il senso in cui solitamente tale corrispondenza fu
assunta dopo di lui dagli Stoici, dai Neo-pitago- rici e in generale da tutti
coloro che insistettero sul carattere animato dell’universo. La corrispondenza
tra M. e macrocosmo fu uno dei temi preferiti della letteratura magica. La
magia infatti intende dominare il mondo naturale o incan- tandolo o
addomesticandolo come si fa con un animale; e il suo presupposto è precisamente
questo, che il mondo sia un animale e che tutti i suoi aspetti siano
controllabili con procedimenti che si rivolgono ad essi come ad attività
viventi. La cor- rispondenza M.-macrocosmo fu pertanto uno dei temi obbligati
della magia rinascimentale. Cornelio Agrippa affermava che l’uomo raccoglie in
sè, tutto ciò che è disseminato nelle cose e che questo gli consente di
conoscere la forza che tiene avvinto il mondo e di servirsene per operare
azioni mira- colose (De Occulta philosophia, I, 33). Osservazioni 583 analoghe
si ripetono in tutti gli scrittori del Rina- scimento che ammettono la magia
(per es., CAM- PANELLA, De Sensu rerum, I, 10). Teofrasto Para- celso
impiantava proprio sulla corrispondenza tra macrocosmo e M. l’intera scienza
medica; e perciò esigeva che questa si fondasse su tutte le scienze che
studiano la natura dell’universo e cioè sulla teologia, la filosofia,
l’astronomia e l’alchimia (De Philosophia occulta, II, pag. 289). Con
l’abbandono, da parte della scienza, del principio antropomorfico
nell’interpretazione della natura, la corrispondenza tra M. e macrocosmo ha
cessato di essere una guida utile della ricerca ed è apparsa piuttosto come un
pregiudizio. Lo stesso Lotze che ha intitolato M. la sua opera fon- damentale
non ammette quella corrispondenza se non nella forma del condizionamento che il
mondo esercita sull’uomo e cerca di restringerne la por- tata in limiti
ristrettissimi (Mikrokosmus, VI, K, 1; trad. ital., II, pag. 312 sgg.). MILLENARISMO.
V. Chitiasmo. MIMAMSA. Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, la
cui fondazione viene attribuita a Jaimini. Esso è sostanzialmente una
interpreta- zione della dottrina dei vedanta (v.) e vuol essere una tecnica
della liberazione. Si oppone al concetto di un Dio creatore e ammette la realtà
della ma- teria e delle anime (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana,
1957, pag. 127 sgg.). MIMESI. V. MeETESSI. MINIMUM. Così Lucrezio chiamò
l’atomo (De nat. rer., I, 620). Cusano insisteva sulla coincidenza del massimo
e del minimo in Dio (De docta ignor., I, 4) e Giordano Bruno usò la parola nel
senso di Cusano (De minimo triplici et mensura, I, 7) (v. ATOMO). MIRACOLO (gr.
vépas; lat. Miraculum; in- glese Miracle; franc. Miracle; ted. Wunder). Un fatto
eccezionale o inspiegabile, assunto come segno o manifestazione di una volontà
divina. Tale era la nozione che del M. si aveva nell’antichità clas- sica (per
es., Iliade, II, 234; Odissea, III, 173; XII, 394; ecc.); e tale è la nozione
che si ebbe di esso nel Medioevo e che viene così espressa da S. Tommaso: « Nel
M. possono scorgersi due cose: Una è quel che accade e che è certo qual- cosa
che eccede la facoltà della natura; e in questo senso i M. si dicono potenze
(virtutes). La seconda è ciò per cui i M. accadono cioè la manifestazione di
qualcosa di soprannaturale; e in questo senso comunemente i M. si dicono segni,
mentre si di- cono portenti per la loro eccellenza e prodigi in quanto mostrano
qualcosa da lontano » (S. 7à., II, 2, q. 178, a. 1, ad 3°). Quando, come
accadde con l’averroismo medie- vale, con l’aristotelismo rinascimentale e
special- 584 mente con il primo affermarsi della scienza moderna, si cominciò
ad insistere sull’ordine necessario della natura, il M. cominciò ad essere
considerato come una « eccezione + a quest’ordine perciò negato come tale o
ridotto ad evento insolito ma conforme all’ordine naturale. Nel libro Sugli
Incantesimi, Pomponazzi, ad es., negava che i M. fossero eventi contrari alla
natura ed estranei all’ordine del mondo; e li ammetteva solo come fatti
inconsueti e rarissimi, che non accadono secondo l’andamento abituale della
natura ma ad intervalli lunghissimi: fatti tuttavia che rientrano nell’ordine
naturale, dal quale sono anzi determinati (De Incantationibus, 12). Spinoza a
sua volta affermava che «il M., sia esso contro natura, sia esso al di sopra
della natura, è una mera assurdità e che per M., nella Sacra Scrit- tura, non è
possibile intendere che un'opera della natura la quale superi l’intelligenza
degli uomini o si creda che la superi» (7ractatus teologico- politicus, cap.
6). Spinoza riteneva che Dio si co- noscesse meglio dall’ordine e dalla
necessità della natura che non da pretesi miracoli. Ma anche Hume, che parte da
una concezione tutta diversa, nega la possibilità del miracolo. * Un M., egli
dice, è una violazione delle leggi della natura e siccome un’esperienza fissa e
inalterabile ha stabilito queste leggi, la prova contro il M., tratta dalla
stessa natura del fatto, è così completa quanto ci si può immaginare che sia un
argomento tratto dall’espe- rienza » (/nq. Conc. Underst., X, 1). Tutte le
limita- zioni che il concetto di legge naturale ha subito da Hume in poi, non
hanno reso più facile la nozione di M. dal punto di vista della scienza e della
fi- losofia. Ma forse si tratta di una nozione che, dal punto di vista della
religione, non deve essere resa più facile. Dice Kierkegaard: « È in fondo
ugualmente assurdo tanto (e lo fa anche Lessing pubblicando i Frammenti di
Wolfenbatteln) aguzzare il proprio ingegno per provare l'assurdità,
l’inverosimiglianza del M. e poi, dal fatto che è inverosimile, conclu- dere:
ergo, ciò non è M. (ma sarebbe poi un M. se fosse verosimile?), quanto (ed è
questa la sa- pienza della speculazione) sforzarsi di comprendere o di rendere
comprensibile il M., concludendo in- fine: ergo, è un miracolo. Un M.
comprensibile non è più un miracolo. No, il M. rimanga quel che è, oggetto di
fede» (Diario, X3, A, 373). Da questo punto di vista cadono, ovviamente, le
obie- zioni contro il M.; ma dall’altro lato il M. cessa di essere a qualsiasi
titolo oggetto della ricerca scientifica e filosofica. MISOLOGIA (gr.
puoodoyia; ingl. Misology; franc. Misologie; ted. Misologie). Termine creato da
Platone per indicare l’odio dei ragionamenti. Secondo Platone, «la M. nasce
allo stesso modo MISOLOGIA della misantropia ». Come la misantropia nasce dall’aver
avuto fiducia in qualcuno senza discer- nimento, così la M. nasce dall’aver
creduto, senza possedere l’arte del ragionamento, alla verità di ragionamenti
che poi sono apparsi falsi (Fed., 89 d-90 b). Secondo Kant la M. nasce quando
si affida alla ragione il compito di conseguire «il godimento della vita e la
felicità»: compito al quale essa è in realtà inadatta giacchè il suo destino, come
facoltà pratica, è quello di condurre alla moralità (Grundlegune der Metaphysik
der Sitten, I). Secondo Hegel una forma di M. è il sapere immediato (Enc., $
11). MISTERO (gr. puothpioy; lat. Mysterium; in- glese Mystery; franc. Mystère; ted. Mysterium). Nel senso in cui la parola
cominciò ad essere usata dagli scrittori ermetici dell’antichità (per es.,
Corpus Hermeticum, I, 16) significa una verità rivelata da Dio che va mantenuta
segreta. La parola passò poi, nell’uso cristiano, a indicare qualcosa di in- comprensibile
o di significato oscuro o nascosto. Jacob Bòhme chiamava in questo senso Dio
Myste- rium magnum (è il titolo di una sua opera del 1623). Dai moderni la
parola viene adoperata: 1° nel senso di verità di fede indimostrabile, quindi
in un certo senso incomprensibile: per es., «i M. della Trinità e
dell’Incarnazione +; 2° nel senso di un problema che si ritiene insolubile o la
cui soluzione si attribuisce al do- minio religioso o mistico: per es., «il M.
dell’es- sere ». Non mancano anche oggi i filosofi che, come già Spencer (First
Princ., $ 14), ritengono che il M. sia il dominio proprio della religione; 3°
nel senso di un qualsiasi problema di difficile o non immediata soluzione; e in
questo senso anche un problema poliziesco è un mistero. MISTICISMO (ingl.
Mysticism; franc. Mysti- cisme; ted. Mysticismus). Ogni dottrina che am- metta
una comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. La parola mistica cominciò ad
essere usata in questo senso negli scritti di Dionigi l’Areopagita, che ap- partengono
alla seconda metà del v secolo e si ispirano al neoplatonico Proclo. In tali
scritti viene accentuato il carattere mistico del neoplato- nismo originale,
cioè della dottrina di Plotino. Per far ciò, si insiste da un lato
sull’impossibilità di giungere a Dio o di realizzare una qualsiasi comu- nicazione
con lui mediante i procedimenti ordinari del sapere umano; dal punto di vista
del quale non si può far altro che definire Dio negativamente (teologia
negativa). Dall'altro, si insiste su un rap- porto originario, intimo e privato
tra l’uomo e Dio: rapporto in virtù del quale l’uomo può ri- tornare a Dio e
congiungersi infine con lui in un atto supremo. Quest’atto è l’estasi che
Dionigi considera come la deificazione dell’uomo. MISTIFICAZIONE Lo schema di
ogni dottrina mistica è questo, che il falso Dionigi ricavò dagli scritti
neo-platonici e che contiene anche molte tracce delle credenze orientali cui
questi dovevano una parte della loro ispirazione. Il M. medievale si pose
talvolta come un'alternativa escludente la via della ricerca ra- zionale: tale
fu in Bernardo di Chiaravalle (se- colo xm): nel quale la difesa della via
mistica si accompagna alla polemica contro la filosofia e in generale l’uso
della ragione. Altra volta, invece, la via mistica e la via della speculazione
scolastica sono entrambe ammesse e riconosciute: come fe- cero i Vittorini
(Ugo, Riccardo) nello stesso se- colo xm. E gli stessi caratteri il M. conserva
in S. Bonaventura, che coltiva ugualmente la specula- zione filosofica e quella
mistica. Dall’altro lato la grande corrente del M. speculativo tedesco del sec.
xIv (Maestro Eckhart, Taulero, Susone, ecc.) è di nuovo in posizione polemica
contro ogni ten- tativo di adoperare la ragione nel campo della religione; ma
la sua caratteristica è quella di essere una speculazione sulla fede, ritenuta
come il tra- mite della comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. Cadono poi
interamente fuori del dominio della filosofia, ma non di quello del M., i
mistici pratici del cristianesimo come Santa Teresa, Santa Cate- rina da Siena,
S. Francesco, Giovanna D'Arco, ecc. (cfr. H. Deacror:, Études d’histoire et de psycho- logie
du mysticisme, Paris, 1908; J. H. LEUBA, The Psychology of Religious Mysticism,
1925). La ricerca mistica consiste
essenzialmente nel definire i gradi progressivi dell’ascesa dell’uomo a Dio,
nell’illustrare con metafore lo stato di estasi e nel cercare di promuovere
tale ascesa con oppor- tuni discorsi edificatori. I gradi dell’ascesa mistica sono
abitualmente tre: il pensiero (cogitatio) che ha per suo oggetto le immagini
provenienti dal- l’esterno ed è diretto a considerare l'orma di Dio nelle cose;
la meditazione (meditatio) che è il rac- cogliersi dell'anima in se stessa e
che ha per oggetto l’immagine stessa di Dio; e la contemplazione (contemplatio)
che si rivolge a Dio stesso. Questi gradi sono variamente illustrati e
suddivisi dai mistici che abitualmente dividono ognuno di questi gradi in due
altri, enumerando così, con l’estasi, sette gradi di ascesa. Ad es., secondo
Bonaventura, il pensiero può considerare le cose o nel loro ordine oggettivo (I
grado) o nell'apprensione che di esse ha l’anima umana (II grado). La
meditazione può contemplare l’immagine di Dio nei poteri naturali dell'anima,
memoria, intelletto e volontà (III grado) oppure nei poteri che l’anima
acquista in virtù delle tre virtù teologali (IV grado). La contempla- zione può
considerare Dio nel suo primo attributo cioè nel suo essere (V grado) oppure
nella sua massima potenza, che è il bene (VI grado) (/tine- 585 rarium mentis
in Deum, 1259). Al di là di questi gradi, per tutti i mistici, c’è l’estasi
(v.) o excessus mentis, definita talvolta come « ignoranza dotta » (v.) e in
ogni caso considerata come il «deîficarsi dell’uomo » cioè l’unirsi dell’uomo a
Dio. Da un punto di vista filosofico-religioso è impor- tante l’apprezzamento
che Kierkegaard fece del misticismo. Il mistico è, secondo Kierkegaard, «colui
che sceglie se stesso in un isolamento com- pleto » cioè nel suo isolamento dal
mondo e dai rapporti umani (Aut Aut, in Werke, II, pag. 215) ma così facendo
egli commette una certa indiscre- zione nei riguardi di Dio. Giacchè, in primo
luogo, egli disdegna l’esistenza, la realtà nella quale Dio lo ha posto; e in
secondo luogo egli degrada Dio e se stesso. « Degrada se stesso perchè è sempre
una degradazione essere essenzialmente differenti dagli altri grazie a una
semplice accidentalità; e de- grada Dio perchè fa di lui un idolo e di se
stesso un favorito alla corte di lui» (Ibid, Werke, II,g pag. 219). Nella
filosofia contemporanea, il M. è stato difeso da Bergson. Nel M., Bergson ha
visto la « religione dinamica » cioè la religione che continua lo slancio
creativo della vita e tende a creare forme di vita più perfette per l’uomo. «
L’amore mistico, dice Bergson, si identifica con l’amore di Dio per la sua
opera, amore che ha creato ogni cosa, ed è in grado di rivelare a chi sappia
interrogarlo il mistero della creazione. È composto di un’essenza più
metafisica che morale. Vorrebbe, con l’aiuto di Dio, perfezionare la creazione
della specie umana e fare dell'umanità quello che sarebbe potuto es- sere
subito se avesse potuto costituirsi definitiva- mente senza l’aiuto dell’uomo
». In altri termini è allo slancio mistico che può essere dovuto il ripristino
della «funzione essenziale dell’universo, che è una macchina destinata a creare
divinità » (Deux Sources; trad. ital., pag. 256, 349). Questa interpretazione
del M. data da Bergson non si differenzia dal comune panteismo (v.). MISTIFICAZIONE
(ingl. Mystification; fran- cese Mystification; ted. Mystification).
L’interpreta- zione di un concetto in modo oscuro, fallace o tendenzioso.
Diceva, per es., Marx: «La M. alla quale soggiace la dialettica nelle mani di
Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre
ampiamente e consapevolmentele forme generali del movimento della dialettica
stessa » (Carteggio Marx-Engels; trad. ital., V, pag. 28). Secondo Marx la
dialettica di Hegel era «mistificata» perchè interpretata idealistica- mente
invece che materialisticamente. In modo analogo si dice che si ha un concetto
mistificato della libertà quando si fa coincidere la libertà con la necessità e
così implicitamente la si nega, ecc. 586 MISURA (gr. uérpov; lat. Mensura;
ingl. Mea- sure; franc. Mesure; ted. Mass). Già Platone aveva diviso l’arte
della M. in due parti, situando nella prima le arti «che misurano il numero, la
lun- ghezza, l'altezza, la larghezza e la velocità in rap- porto ai loro
contrari» e nella seconda «le arti che misurano il rapporto al giusto mezzo, al
con- veniente, all’opportuno, al doveroso e insomma a quelle determinazioni che
stanno nel mezzo tra due estremi » (Polit., 284 e). Conseguentemente, si può
intendere per misura:
1° il rapporto tra una grandezza e
l’unità. A questo proposito Aristotele osservava che l’unità può essere intesa
in due modi: come unità conven- zionale o apparente e come unità assolutamente indivisibile
(Mer., X, 1, 1053a 22). Lo stesso Aristotele riconosceva la condizione di ogni
M. in questo senso nella omogeneità tra ciò che si misura e ciò con cui si
misura (/bid., X, 1, 1053 a 22); 2° il criterio o il canone di ciò che è vero o
bene. In questo senso Cleobulo uno dei Sette Savi diceva: « Ottima è la M.»
(Diog. L., I, 93), Pla- tone vedeva nella giusta M. l’ordine e l’armonia delle
cose (Fi/., 24c-d) e Aristotele faceva della medietà (v.) il canone della virtù
etica. Nello stesso senso usava la parola Protagora nel suo famoso principio
che l’uomo è M. delle cose; e Aristotele quando vedeva nell'uomo virtuoso «il
canone e la M. delle cose» (Er. Nic., III, 4, 1113a 33). In questo senso la M.
è uno dei concetti fonda- mentali della cultura classica greca. MITO (gr. w6006; lat. Mytus;
ingl. Myth; fran- cese Myrhe; ted. Mythos).
Oltre l’accezione gene- rica di «racconto» nella quale la parola è usata, per
es., nella Poetica (I, 1451 b 24) di Aristotele si possono distinguere, dal
punto di vista storico, tre significati del termine, e precisamente: 1° quello del
M. come di una forma attenuata di intellettua- lità; 2° quello del M. come una
forma autonoma di pensiero o di vita; 3° quello del M. come stru- mento di
controllo sociale. 1° Nell'antichità classica il M. è considerato come un
prodotto inferiore o deformato dell’atti- vità intellettuale. AI M. si
attribuì, al massimo, la « verosimiglianza » di fronte alla « verità » propria dei
prodotti genuini dell’intelletto. Questo fu il punto di vista di Platone e di
Aristotele. Platone contrappone il M. alla verità o al racconto vero (Gorg.,
523 a); ma nello stesso tempo gli riconosce la verosimiglianza che, in certi
campi, è la sola validità cui il discorso umano possa aspirare (Tim., 29 d) e
che, in altri campi, esprime ciò di cui non si può trovare di meglio nè di più
vero (Gorg., 527 a). Il M. costituisce, anche, per Platone la «via umana e più
brcve» della persuasione; ed in complesso il suo dominio è rappresentato da
quella MISURA zona che è al di là della stretta cerchia del pensiero razionale
e nella quale non è lecito avventurarsi che con supposizioni verosimili.
Sostanzialmente lo stesso atteggiamento ha di fronte al M. Aristotele. Il M. è
talora opposto alla verità (Mist. An., VII, 12, 597 a 7); ma talora è anche la
forma appros- simativa e imperfetta che la verità assume quando, per es., di
una cosa si dà «la ragione in forma di M. » (Zbid., VI, 35, 580 a 18). A questo
concetto del M. come verità imperfetta o diminuita va congiunta, spesso,
l’attribuzione al M. di una va- lidità morale o religiosa. Ciò che il M. dice,
si suppone, non è dimostrabile nè chiaramente con- cepibile, ma il suo
significato morale o religioso vale a dire ciò che insegna rispetto alla
condotta dell’uomo rispetto agli altri uomini o rispetto alla divinità, risulta
chiaro. Così Platone dice nel Gorgia, a proposito dei M. morali che vi sono
esposti: « Forse queste cose ci sembreranno M. da vecchie donne e le
considererai con disprezzo. E non sa- rebbe fuor di luogo spregiarle se con la
ricerca potessimo trovare altre cose migliori e più vere. Ma anche voi tre, tu,
Polo e Gorgia, che siete i più saggi greci di oggi, non riuscite a dimostrare che
convenga vivere altra vita che questa » (Gorg., 527 a-b). Analogamente, un
significato religioso si attribuisce al M., ogni qualvolta che con questo nome
si designano credenze determinate come, per es., quando si dice « M.
cosmogonico » 0 « M. soteriologico » 0 « M. escatologico », ecc. Nel co- mune
linguaggio, prevale questa accezione del si- gnificato nella sua forma estrema
cioè come di credenza dotata di minima validità e di scarsa ve- rosimiglianza;
in questo senso si chiama mitico ciò che è irraggiungibile o contrario ai
criteri del co- mune buonsenso, per es., « una perfezione mitica ». All’ambito
di questa interpretazione del M. ap- partengono le cosiddette teorie
naturalistiche che
sono prevalse nel secolo scorso in
Germania. Se- condo queste teorie, il M. è un prodotto dello stesso atteggiamento
teoretico o contemplativo che darà poi luogo alla scienza e consiste
nell’assumere un determinato fenomeno naturale come chiave per la spiegazione
di tutti gli altri fenomeni. I fenomeni astronomici, quelli meteorologici e
altri sono stati di volta in volta invocati a questo scopo. Più re- centemente
un’altra scuola sociologica ha visto nel mito soprattutto il ricordo degli
eventi passati. Nell’uno e nell’altro caso queste «spiegazioni na- turalistiche
» del M. non fanno altro che ridurlo a una forma imperfetta di attività
intellettuale. 2° La seconda concezione del M. è quella per la quale esso è una
forma autonoma di pensiero e di vita. In questo senso il M. non ha una validità
o una funzione secondaria e subordinata rispetto alla conoscenza razionale, ma
funzione e validità MITO originaria e primaria; e si colloca su un piano diverso,
ma dotato di uguale dignità, di quello dell'intelletto. Fu Vico a esprimere per
la prima volta questo concetto del M.: « Che le favole nel loro nascere furono
narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali
nac- quero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi
alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla
fine incredibili; che sono sette fonti della dif- ficoltà delle favole» (Sc.
N., II, Pruove filos. per la discoverta del vero Omero, IV). La verità del M. non
è dunque una verità intellettuale corrotta o degenerata ma una verità
autentica, sebbene di forma diversa da quella intellettuale, cioè di forma fantastica
o poetica: «I caratteri poetici nei quali consiste l’essenza delle favole
nacquero da neces- sità di natura, incapace d'’astrarne le forme e le proprietà
da ‘subbietti *; e in conseguenza dovette essere maniera di pensare d’intieri
popoli, che fus- sero stati messi dentro tal necessità di natura, ch'è nei
tempi della lor maggior barbarie » (/bid., VI). Da questo punto di vista «i
poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni » (/bid., X); e i caratteri poetici
contengono significati storici che furono, nei primi tempi, trasmessi a memoria
dai popoli (Ibid., IX). Il Romanticismo fece proprio questo concetto del M. e
lo amplificò in una metafisica teologica. La Filosofia della mitologia di
Schelling vede nel M., considerato come la religione naturale del genere umano,
una fase della autorivelazione dell’ Asso- luto. Il M. fa parte integrante del
processo della teofania; esso non ha a che fare con la natura o meglio ha a che
fare con essa solo indirettamente, in quanto la natura stessa è la rivelazione
di Dio. Il M. è una fase della teogonia che è al di là e al di sopra della
natura perchè è la manifestazione di Dio come coscienza della natura o rapporto
di essa con l’io (Werke, II, I, pag. 216 sgg.). Al di fuori di queste
speculazioni che appartengono in proprio all’idealismo romantico, la dottrina
del M. come forma autonoma di espressione e di vita ha trovato ampia
accoglienza nella filosofia e nella sociologia contemporanee. Nella filosofia,
la mi- gliore espressione di questa interpretazione del M. è il secondo volume
della Filosofia delle forme sim- boliche (1925) di Ernesto Cassirer: nel quale
la caratteristica del pensiero mitico è scorta nella mancata o imperfetta
distinzione tra il simbolo e l’oggetto del simbolo e cioè nella mancata o im- perfetta
consapevolezza del simbolo come tale. «Il M., dice Cassirer, sorge
spiritualmente al di sopra del mondo delle cose ma nelle figure e nelle immagini
con le quali esso sostituisce questo mondo, esso non vede che un'altra forma di
materialità e 587 di legame con le cose » (Philosophie der symbolischen Formen,
II, 1925; trad. ingl., 1955, pag. 24). Più tardi, nel Saggio sull'uomo,
Cassirer ha visto il carattere distintivo del M. nel suo fondamento emotivo.
«Il sostrato reale del M. non è un so- strato di pensiero ma di sentimento. Il
M. e la religione primitiva non sono certo del tutto incoe- renti, non sono
interamente privi di senso o di ra- gione. Ma la loro coerenza proviene molto
di più da un’unità sentimentale che da regole logiche. Questa unità è uno degli
impulsi più forti e più profondi del pensiero primitivo » (Essey on Man, cap.
7; trad. ital., pag. 124-25). Anche questa con- cezione tuttavia cade
nell’ambito dell’interpreta- zione che fa del M. una forma spirituale autonoma di
fronte all’intelletto. E all'ambito di questa stessa interpretazione ap- partiene
l’interpretazione sociologica che fa del M. il prodotto di una mentalità
pre-logica. Questa è stata la tesi dei sociologi francesi Durkheim e Lévy- Bruhl.
Il primo aveva affermato che il vero mo- dello del M. non è la natura ma la
società e che esso è in ogni caso la proiezione della vita sociale dell’uomo:
una proiezione che ne riflette le carat- teristiche fondamentali (Les formes
élémentaires de la vie religieuse, 1912). Il secondo ha definito il pensiero
mitico come pensiero pre-logico, nel senso che esso prescinderebbe
completamente dall’ordine necessario che per il pensiero logico costituisce la natura
e vedrebbe la natura stessa come « una rete di partecipazioni e di esclusioni
mistiche nella quale non valgono la legge di contraddizione e le altre leggi
del pensiero logico » (La mentalité primitive, 1922; L'dme primitive, 1928). 3°
La terza concezione del M. è la moderna teoria sociologica di esso, che si può
far risalire principalmente a Fraser (Golden Bough, 1911-15) e a Malinowski.
Quest’ultimo vede nel M. la giusti- ficazione retrospettiva degli elementi
fondamentali che costituiscono la cultura di un gruppo. « Il M. non è un
semplice racconto nè una forma di scienza, nè una branca d’arte o di storia nè
una narrazione esplicativa. Esso compie una funzione sui generis strettamente
connessa con la natura della tradizione e la continuità della cultura, con la
relazione tra maturità e giovinezza e con l’atteggiamento umano verso il
passato. La funzione del M. è, in breve, quella di rafforzare la tradizione e
di darle maggior valore e prestigio connettendola alla più alta, mi- gliore e
più soprannaturale realtà degli eventi ini- ziali ». In questo senso il M. non
è limitato al mondo o alla mentalità dei primitivi. È anzi in- dispensabile a
ogni cultura. « Ogni mutamento sto- rico crea la sua mitologia, che è tuttavia
solo indirettamente relativa al fatto storico. Il M.» un costante
accompagnamento della fede vivente 588 che ha bisogno di miracoli, dello status
sociolo- gico che domanda precedenti, della norma morale che esige sanzione» («
Myth in Primitive Psycho- logy », 1926, in Magic, Science and religion, 1955, pag.
146). Dall'altro lato Levi-Strauss ha indagato la struttura (v.) del M. nelle
società primitive, analizzando alcuni M. nei loro elementi più sem- plici
(mitemi) e studiandone le combinazioni pos- sibili, che spiegano anche le
somiglianze e le dif- ferenze tra M. in vigore presso gruppi umani diversi
(Anthropologie structurale, 1958, cap. XI). Egli ha inoltre mostrato che il M.
non è un rac- conto storico ma piuttosto la rappresentazione ge- neralizzata di
fatti che ricorrono uniformemente nella vita degli uomini: la nascita e la
morte, la lotta contro la fame e le forze della natura, la sconfitta e la
vittoria, il rapporto tra i sessi. Il M. non riproduce perciò mai la situazione
reale ma si oppone a questa situazione, nel senso che la rappresenta abbellita,
corretta e perfezionata ed esprime così le aspirazioni che la situazione reale fa
sorgere. Egli adopera la parola dialettica (v.) per caratterizzare il rapporto
tra il M. e la realtà che lo ispira (« The Story of Asdiwal», in 7he Structural
Study of Myth and Totemism, ed. by Leach, 1969, pag. 29 sgg.). Altri autori
preferiscono parlare di retroazione (Feedback); nel senso che il M. reagisce
sulla situazione che l’ha provocata, cioè tende a modificare l'universo sociale
dal quale sorga e che, una volta modificato, provoca a sua volta una risposta
nel campo del M. e così via (DougLas, nello stesso volume, pag. 57 sgg.). In ogni
caso, il M. appare come « una filosofia nativa » (secondo l’espressione di
Levi-Strauss) cioè la forma in cui un gruppo sociale esprime il proprio atteg- giamento
di fronte al mondo o un modo per ri- solvere il problema della sua esistenza. Da
questo punto di vista il M. non è definito nei confronti di una determinata
forma dello spi- rito, per es., dell'intelletto o del sentimento, come accade
nelle due interpretazioni precedenti, ma ri- spetto alla funzione che compie
nelle società umane: funzione che può essere chiarita e descritta in base a
fatti osservabili. La svalutazione del M. propria della prima concezione e la
sopravvalutazione di esso propria della seconda sono, da questo terzo punto di
vista, egualmente fuori posto. Questo è certamente un vantaggio del punto di
vista in questione. Un altro vantaggio è che esso spiega la funzione che il M.
esercita nelle società progredite e i caratteri disparati che in tali società
può assu- mere. Possono costituire M., in esse, non solo racconti favolosi,
storici o pseudostorici, ma figure umane (l’eroe, il condottiero, il duce) o
concetti o nozioni astratte (la nazione, la libertà, la patria, il
proletariato) o infine progetti di azione che non MITO DELLA CAVERNA si
realizzeranno mai (lo « sciopero generale » di cui parlava Sorel come del M.
proprio del proletariato; cfr. Réfléxions sur la violence, 1906). La disparità di
contenuto del M. denuncia l’impossibilità di riportarlo, in base al contenuto,
a questa o quella forma spirituale; e l’opportunità di studiarlo, in- vece,
rispetto alla funzione che compie nella so- cietà umana. MITO DELLA CAVERNA. V.
CAVERNA. MITOLOGICO (ted. Mythologisch). Un signi- ficato speciale ha ricevuto
questo termine ad opera di Rudolf Bultmann: significato che è importante per
l’interpretazione del cristianesimo data da questo pensatore: « M., egli dice,
è la forma di rappresentazione in cui ciò che non è mondano, ciò che è divino,
viene raffigurato come mondano, umano, l’al di là come al di qua, in cui, ad
es., la trascendenza di Dio viene pensata come distanza spaziale;
rappresentazione in conseguenza della quale il culto viene inteso come
un’azione in cui, per opera di mezzi materiali, vengono comunicate forze non
materiali ». In questo senso, è ovvio che la parola mito non ha il senso
moderno «in cui non significa altro che ideologia» (Keryema und Mythos, I,
1951, pag. 22, n. 2). Cfr. MIEGGE, L’Evangelo e il mito, Milano, 1956. MNEMONICA,
MNEMOTECNICA (la- tino Ars memoriae; ingl. Mnemonics; franc. Mné- monique; ted. Mnemonik, Mnemotechnik). L'arte di coltivare la
memoria. Si tratta di un’arte antichis- sima, che Cicerone attribuisce già a
Simonide di Ceo (De Or., II, 86, 351). Quest’arte fu coltivata dai Sofisti e
Ippia si vantava di esserne maestro (Ippia Min., 368 d; Ippia Mag., 286 a). Il
gusto di quest'arte risorse nel Rinascimento e fu coltivata specialmente da
Giordano Bruno, che dedicò ad essa un gruppo di scritti (De umbris idearum, 1582;
Ars memoriae, 1582; Cantus circaeus, 1582; Triginta sigillorum explicatio,
1583; ecc.) (v. CLAvIS UNIVERSALIS). La psicologia contemporanea è ritor- nata
a occuparsi di quest'arte, con mezzi spe- rimentali. MOBILE, PRIMO (gr. rpitov
ximréy; la- tino Primum mobile; ingl. First Mobile; franc. Premier mobile; ted.
Primare Bewegliches). Così Aristotele chiamò il primo cielo al quale il
movimento è comunicato direttamente dal primo motore o mo- tore immobile e che
perciò è altrettanto semplice, ingenerato e incorruttibile del primo motore (De
Cael., II, 6, 288 a 14 sgg.). Aristotele stesso para- gona al primo M. la
facoltà appetitiva dell’anima, come paragona al motore immobile il bene (De An.,
III, 10, 433 b 14). Il primo M. è il cielo che Dante chiama «cristallino » cioè
diafano o traspa- rente e al di là del quale ammette il cielo empireo o sede
dei beati (Conv., II, 4; Par., 30, 107). MODALITÀ MOBILISMO (franc. Mobilisme).
La parola è moderna (cfr. Cume, Le mobilisme moderne, 1908) poco usata anche in
italiano e in francese, ma si presta ad esprimere l’atteggiamento filosofico di
quelli che Platone chiamava i «fluenti» (7eer., 181 a) cioè di coloro i quali
ammettono che tutto muta e nulla sta fermo: come facevano nell’anti- chità i
seguaci di Eraclito e come fanno, nella filosofia moderna, i filosofi del
divenire (v.). MODA (ingl. Fashion; franc. Mode; ted. Mode). Kant ha
interpretato la M. come una forma di imitazione, fondata sulla vanità, in
quanto « nes- suno vuole apparire da meno degli altri anche in ciò che non ha
alcuna utilità ». Da questo punto di vista «stare alla M. è questione di gusto;
chi è fuori di M. e aderisce a un uso passato, si dice antiquato; chi non dà
nessun valore all’esser fuori di M. è un eccentrico». Kant dice che «è meglio esser
matto secondo la M. che fuori di essa» e che la M. è veramente pazza solo
quando sacrifica alla vanità l’utile o addirittura il dovere (Antr., I, $ 71).
In realtà questa analisi di Kant non è oggi più sufficiente perchè è noto che
la M. investe tutti i fenomeni culturali e anche quelli filosofici. M. sono
state nell’età moderna il cartesianesimo, l'iluminismo, il newtonismo, il
darwinismo, il po- sitivismo, l’idealismo, il neoidealismo, il pragma- tismo,
ecc.: tutte dottrine che hanno avuto una importanza decisiva nella storia della
cultura. D’al- tronde sono state M. anche movimenti culturali che poca o
nessuna traccia hanno lasciato. Si può dire che la funzione della M. è quella
di inserire negli atteggiamenti istituzionali di un gruppo, o più in
particolare nelle sue credenze, per mezzo di una rapida comunicazione e
assimilazione, atteg- giamenti o credenze nuove che, senza la M., do- vrebbero
combattere a lungo per sopravvivere e farsi valere. Questa funzione specifica
per la quale la M. agisce come un controllo che limita o in- debolisce i
controlli della tradizione rende inutile ogni esaltazione e ogni disdegno nei
confronti della moda. MODALE (ingl. Modal; franc. Modale; te- desco Modal). Si
chiama con questo termine la proposizione nella quale la copula riceve una
qual- siasi determinazione complementare. Per le propo- sizioni M., v.
MODALITÀ. MODALE, LEGGE (ted. Modales Grund- gesetz). Così Nicolai Hartmann ha
chiamato la riduzione di tutte le modalità dell’essere (cioè della possibilità
e della necessità) all’effettualità cioè al- l’essere di fatto (Mbplichkeit und
Wirklichkeit, 1938, pag. 71) (v. NECESSITÀ). MODALISMO (ingl. Modalism; franc.
Moda- lisme; ted. Modalismus). Si chiama così l’inter- pretazione della Trinità
cristiana che consiste nel 589 vedere nelle tre persone divine tre modi o mani-
festazioni dell'unica sostanza divina. Questa inter- pretazione è stata sempre
condannata come eretica dalla chiesa cristiana che ha insistito sull’ugua- glianza
e la distinzione delle persone divine. Nel sec. Im il M. fu sostenuto da
Sabellio; ma una specie di M. è stato visto anche nella dottrina di Scoto
Eriugena e di Abelardo al quale ultimo fu rimproverato da S. Bernardo (De
Erroribus Abe- lardî, 3, 8). Un altro nome per la stessa eresia è monarchismo
(v.). MODALITÀ (lat. Modalitas; ingl. Modality; franc. Modalité; ted.
Modalitàt). Le differenze della predicazione cioè le differenze cui può dar
luogo il riferimento di un predicato al soggetto nella proposizione. Tali
differenze furono per la prima volta riconosciute da Aristotele sulla base del
suo proprio concetto dell’essere predicativo (v. Es- seRE, Il) che è
l’inerenza. Egli dice infatti che «altro è l’inerire, altro è l’inerire di
necessità e il poter inerire: giacchè molte cose ineriscono, ma non di
necessità, altre non ineriscono nè di neces- sità nè semplicemente, ma possono
inerire» (An. Pr., I, 8, 29 b 29). In tal modo Aristotele distingue: 1°
l’inerire puro e semplice del predicato al sog- getto; 2° l’inerire necessario;
3° l’inerire possibile. In seguito, cioè dai commentatori di Aristotele, vennero
chiamati modi la seconda e la terza forma della predicazione; e vennero dette «
proposizioni modali » le proposizioni necessarie e possibili (AM- MONIO, De
interpr., f. 171 b; Boezio, De Interpr., II, V, P. L. 64°, col. 582). Nel
Medioevo, simil- mente, si chiamò proposizione de inesse o de puro inesse
quella che oggi diciamo proposizione asser- toria; e si chiamarono modali le
proposizioni ne- cessarie o possibili (ABELARDO, Dialect., II, pag. 100; Pierro
Ispano, Summ. Log., 1.31). Nella Logica (1638) di Jungius è detta «
enunciazione pura» la proposizione assertoria ed «enunciazione modifi- cata o
modale» la proposizione necessaria o pos- sibile. Lo stesso uso fu seguito
dalla Logica di Portoreale (I, 8) e da Wolff (Log., $ 69). Si può dire pertanto
che Kant non faceva che riesporre questa lunga tradizione affermardo: «La M.
dei giudizi è una loro funzione tutta particolare, che ha questo carattere
distintivo: non contribuisce per niente al contenuto del giudizio (giacchè
oltre la quantità, la qualità e la relazione, non c’è altro che formi il
contenuto del giudizio) ma tocca solo il valore della copula rispetto al
pensiero in gene- rale. Giudizi problematici sono quelli in cui l’affer- mare o
il negare si ammette come semplicemente possibile (arbitrario); assertori
quelli in cui si considera come reale (vero); apodittici quelli in cui si
considera come necessario » (Crif. R. Pura, $9, 4). 590 Nella logica
contemporanea la trattazione della M. non è stata portata a un grado
sufficiente di chiarezza concettuale e di elaborazione analitica. Ciò è dovuto
al fatto che la logica contemporanea si modella sulle matematiche che
praticamente igno- rano, o possono ignorare, l’uso delle modalità. Non fa
meraviglia pertanto che sia stata proposta quella tesi dell’estensionalità (v.)
che equivale alla elimi- nazione delle M. da ogni enunciato. Questa tesi non ha
tuttavia impedito ai suoi stessi proponenti di tentare un’interpretazione delle
modalità. Rus- sell ha affermato che le M. sono proprietà non delle
proposizioni ma delle funzioni proposizio- nali (v.): sicchè sarebbe necessaria
la funzione pro- posizionale: «Se x è un uomo, x è mortale» che è sempre vera;
possibile la funzione « x è un uomo » che è qualche volta vera; e impossibile
la fun- zione * x è un unicorno » che non è mai vera (« The Philosophy of
Logical Atomism », 1918, cap. V; in Logic and Knowledge, pag. 230 sgg.). Ma
questa interpretazione di Russell equivale semplicemente a una paradossale
inversione delle M. in quanto il senso modale dell’espressione « Se x è un
uomo, x è mortale » non è la necessità ma la possibilità; essa significa
infatti «x può esser mortale». Un altro suggerimento di Russell (Scritto cit.,
pag. 231) è l’identificazione del necessario con l’analitico, cioè con
affermazioni del tipo «x è x». Carnap, a sua volta, si è appigliato appunto a
questa in- terpretazione tentando una costruzione della M. sulla base del
concetto di necessità logica cioè della analiticità e definendo la possibilità
come la negazione di tale necessità (Meaning and Necessity, 1957, $ 39). È
appena necessario notare che questa interpretazione equivale alla negazione
pura e sem- plice delle M. stesse e non può valere come una logica di esse.
D'altronde, Quine ha mostrato le difficoltà inerenti a tutte le trattazioni
delle M., fondate, come quella di Carnap, sulla quantifica- zione (From a
Logical Point of View, VIII, 4). Circa la distinzione delle M. o, come oggi si dice,
dei valori modali delle proposizioni, la più antica e accreditata tavola di
tali valori è quella data da Aristotele nel De Interpretatione, che ne comprende
sei: vero, falso; possibile, impossibile; necessario, contingente (De /nr., 12,
21 b). Questa logica a sei valori rimase immutata nel Medioevo (cfr., ad es.,
Pietro Ispano, Sum. Logic., 1.30) ed è stata sviluppata e difesa anche da
logici con- temporanei, per es., da Lewis (A Survey of Sym- bolic Logic, 1918).
Talvolta i valori modali sono stati ridotti a cinque con l’identificazione
della possibilità e della contingenza (per es.: O. BECKER, «Zur Logik der
Modalititen», in Jahrb. fiir Phil. and Phdnom. Forschung, 1930, pag. 496-548). Lu- kasiewicz e Tarski hanno a loro volta costruito MODALITÀ
una logica a tre M.: vero, falso e possibile (cfr. gli articoli in Compres
Rendus des Séances de la So- ciété des Sciences et Lettres de Varsovie, 1930, pag.
30, 50, 176; cfr. per Luxkasiewicz: Polish Logic 1920-39, Oxford, 1967). Carnap
ha accet- tato le sei M. della tradizione aristotelica (Meanine and Necessity,
$ 39). Il concetto stesso di M. è assai poco chiaro in queste dottrine della
logica contemporanea. Si pos- sono qui soltanto indicare le confusioni più fre-
quenti: 1° il tentativo di ridurre gli enunciati modali a enunciati
quantitativi; 2° il tentativo di ridurre la M. a un valore di verità della
proposizione; 3° il tentativo di predicare le M. l'una dell’altra. 1° Il primo
tentativo consiste nel far corri- spondere enunciati universali alle
proposizioni ne- cessarie ed enunciati particolari alle proposizioni possibili.
Così « tutti gli uomini muoiono » sarebbe l’equivalente di « gli uomini debbono
morire +; e «alcuni uomini sono artisti » sarebbe l’equivalente di «gli uomini
possono essere artisti ». Queste trascrizioni sono indubbiamente insufficienti
perchè nè la proposizione necessaria nè quella possibile esprimono fatti come
le corrispondenti proposizioni universale e particolare (cfr. A. PAP, Semantics
and Necessary Truth, 1958, pag. 368) e perchè la propo- sizione possibile ha un
significato distributivo (« ogni uomo può essere artista ») che sarebbe escluso
dalla corrispondente proposizione particolare. Ma è poi evidente che nessuna
trascrizione del genere è possibile per proposizioni modali del tipo «x può essere
»: proposizioni che tuttavia ricorrono in tutti i rami della scienza, ogni
qualvolta si tratta di ipotesi, predizioni, probabilità, anticipazioni, ecc. 2°
La seconda confusione è quella per cui la M. si allinea tra i valori di verità
delle proposizioni: una confusione di cui han dato esempio le stesse cosiddette
logiche delle modalità. Ora i valori di verità delle proposizioni (vero, falso,
probabile, inde- terminato, ecc.) appartengono a un livello diverso dalla M.
che è una determinazione della predica- zione cioè della relazione tra soggetto
e predicato della proposizione. I valori di verità appartengono alla sfera del
riferimento semantico delle proposi- zioni; le M. appartengono alla struttura
relazionale delle proposizioni stesse. Esse indicano pertanto se tale struttura
può essere o no diversa da com°è: cioè indicano se il contenuto di un enunciato
(il suo significato) può essere o no diverso da come l’enunciato lo esprime. Le
M. fondamentali sono quindi due e due soltanto: possibilità e necessità, con i
loro opposti non-possibilità e impossibilità Esse modificano i valori di verità
delle proposizioni nel senso di limitarli o estenderli ma non vanno confusi con
tali valori: la predicazione reciproca suppone anzi la diversità dei livelli e
si può dire MODERNISMO «necessariamente vero» o «possibilmente vero », proprio
perchè possibilità e verità, verità e neces- sità, appartengono a due sfere
diverse e non si esclu- dono tra loro. 3° La terza confusione è quella inerente
al ten- tativo di predicare le M. una dell’altra. Questo ten- tativo è
contraddittorio come quello di predicare una dell'altra i valori di quantità o
di verità delle pro- posizioni. Il teorema fondamentale a questo pro- posito è
quello che riconosce il carattere alternativo delle modalità. Ma questo teorema
è stato solita- mente disconosciuto o ignorato dai logici della M. a partire da
Aristotele. Questi infatti si preoccupò di predicare le M. l’una dell’altra,
affermando ad es., che ciò che è necessario che sia, deve anche essere
possibile che sia, dal momento che non può dirsi che è impossibile che sia (De
/nz., 13, 22 b 11). Ma questa affermazione o porta a considerare il necessario
stesso come possibile cioè come non necessario o porta a dividere in due il
concetto di possibile (che è la via seguita da Aristotele) col riconoscimento
di una specie di possibile che s’identifica col necessario (v. PossisiLe).
Dall'altro lato, l'affermazione reciproca (che Aristotele il- lustrò col famoso
esempio della battaglia navale) che il possibile è necessario nel senso che
necessa- riamente c'è un possibile (per es., necessariamente domani ci sarà o
non ci sarà una battaglia navale) equivale a rendere necessaria
l’indeterminazione e a negare il possibile come tale. Difatti « È neces- sario
che x sia possibile» significa che x deve mantenersi indeterminato senza mai
realizzarsi; ma in tal caso x non è un possibile. Queste antinomie o paradossi
sorgono dal disconoscimento del ca- rattere esclusivo delle differenze modali
che, in virtù di questo carattere, costituiscono alternative inconciliabili.
Dall'altro lato i valori di verità pos- sono essere predicati delle M.; c’è un
possibile Vero, per es., «l’uomo può essere bianco» e un possibile falso come
«l’uomo può esser rettan- golo ». E ci può essere una necessità vera ed una necessità
falsa, che è l’assurdo. Queste notazioni esigerebbero adeguati sviluppi
analitici. Per ulte- riori osservazioni, v. NECESSARIO; POSSIBILE. MODELLO
(ingl. Model; franc. Modéle; te- desco Modell). 1. Una delle specie
fondamentali di concetti scientifici (v. CONCETTO) e precisamente quello che
consiste in una disposizione caratteriz- zata dall’ordine degli elementi di cui
si compone, anzichè dalla natura di questi elementi. Perciò due M. sono
identici se il rapporto dei loro ordini può essere espresso come una
corrispondenza biuni- voca, cioè tale che a un termine dell’uno corrisponda uno,
e uno solo, dell’altro e a ciascuna relazione di ordine fra gli elementi
dell’uno corrisponda una identica relazione fra i corrispondenti elementi del- 591
l’altro. L’ordinario calcolo numerico è il migliore esempio della
corrispondenza biunivoca: se ci sono da una parte cinque libri e dall’altra
cinque lapis si possono allineare queste due serie di oggetti nello stesso
ordine o collocare uno sull’altro. Allo stesso modo, la serie dei numeri interi
è in corri- spondenza biunivoca con i numeri pari e così via. Per essere utile
un M. deve avere i seguenti carat- teri: 1° la semplicità che ne renda
possibile l’esatta definizione; 2° la possibilità di essere espresso me- diante
parametri suscettibili di trattamento mate- matico; 3° la somiglianza o
l’analogia con la realtà che è destinata a spiegare. I M. meccanici erano
apparsi indispensabili alla scienza del sec. xrx; ma oggi M. puramente teo- retici
sono utilizzati da discipline diverse: dalla economia (che si avvale dei
giochi), dalla psicologia, dalla biologia e dall’antropologia (cfr. HEMPEL, Aspects
of Scientific Explanation, 1965, pag. 445 e nota 28). Levi-Strauss ha
considerato la strut- tura (v.) come un M. di questo genere per la spie- gazione
dei fatti sociali (Anthropologie Structurale, 1958, cap. XV). 2. Lo stesso che
archetipo (v.). MODERNI. V. ANTICHI. MODERNISMO (ingl. Modernism; franc. Mo- dernisme;
ted. Modernismus). Un tentativo di ri- forma cattolica che ebbe qualche
diffusione in Italia e in Francia nell’ultimo decennio dell’800 e nel primo del
nostro secolo e fu condannato dal papa Pio X con l’enciclica Pascendî dell’8
settembre 1907. Questo tentativo è ispirato dalle esigenze della filosofia
dell’azione (v.) e consiste nell’attingere da questa filosofia il significato
da dare ai con- cetti fondamentali della religione: Dio, rivelazione, dogma,
grazia, ecc. Il M. si ispira soprattutto alle idee di Ollé Laprune e di
Blondel, che però rima- sero estranei al movimento, e conta i nomi di Luciano
Laberthonnière, Alfredo Loisy ed Eduardo Le Roy. In Italia assunse specialmente
la forma della critica biblica (Salvatore Minocchi, Ernesto Buonaiuti) e della
critica politica (Romolo Murri) mentre il dibattito filosofico si limitava a
riprodurre, con scarsa originalità, le idee del M. francese. I capisaldi
possono essere così esposti: 1° Dio si rivela immediatamente (senza interme- diari)
alla coscienza dell’uomo. « Se, dice per esempio Laberthonniére, l’uomo
desidera possedere Dio ed essere Dio, Dio s’è già dato a lui. Ecco come nella natura
stessa possono trovarsi e si trovano le esi- genze del soprannaturale» (Essais
de philosophie religieuse, 1903, pag. 171). Questo principio dimi- nuiva o
annullava la distanza fra il dominio della natura e quello della grazia e anche
tra l’uomo e Dio, facendo di Dio il principio metafisico della coscienza umana.
Tale è il fondamento del cosid- 592 detto « metodo dell’immanenza » cioè di
quel me- todo che vuole trovare Dio e il soprannaturale nella coscienza
dell’uomo. 2° Dio è soprattutto un principio d’azione e l'esperienza religiosa
è soprattutto un'esperienza pratica. Questo punto che deriva anch’esso stretta-
mente dall’Azione (1893) di Blondel equivale a far coincidere la religione con
la morale: che è una delle tesi fondamentali di Loisy (La religion, 1917, pag.
69). 3° I dogmi non sono che l’espressione simbolica ed imperfetta, perchè
relativa alle condizioni sto- riche del tempo in cui si costituiscono, della
vera rivelazione, che è quella che Dio fa di se stesso alla coscienza
dell’uomo. Tale fu il punto di vista che Loisy difese nel più famoso scritto
del M., L’évangile et l’église (1902). 4° Alla Bibbia vanno applicati senza
limita- zione gli strumenti di indagine di cui dispone la ricerca filologica:
il che vuol dire che essa va con- siderata e studiata come un documento storico
dell’umanità, sia pure di carattere eccezionale e fondamentale. Questa fu la
convinzione sia di Loisy sia di coloro che in Italia accettarono il punto di
vista del M. su questo punto e special- mente di Buonaiuti. 5° Il cristianesimo
non può condurre, nel campo della politica, alla difesa dei privilegi del clero
o di altri gruppi sociali ma solo al progresso e all’ascesa del popolo, la cui
vita nella storia è la manifestazione della stessa vita divina. Tali fu- rono
le idee politiche difese soprattutto da Romolo Murri. Cfr. E. BUONAIUTI, Le
modernisme catho-
lique, 1927; J. Riviére, Le modernisme
dans l’église, 1929; Garin, Cronache di filosofia italiana 1943- 1955, 1956. MODERNO (lat. Modernus; ingl.
Modern; franc. Modern; ted. Modern). Quest’aggettivo,
in- trodotto dal latino post-classico e che significa propriamente « attuale »
(da modo = ora) fu ado- perato nella Scolastica a partire dal sec. xm a indicare
la nuova logica terministica, designata come via moderna di fronte alla via
antiqua della logica aristotelica. Esso designò anche il nomina- lismo che è
strettamente connesso alla logica ter- ministica. Dice, per es., Walter
Burleigh: « Sebbene l’universale non abbia esistenza fuori dell’anima, come
dicono i moderni, tuttavia, ecc.» (Expositio super artem veterem, Venetiis,
1485, f. 59 r; PRANTI, Geschichte der Logik, III, pag. 255, 299, ecc.). Nel
senso storico, in cui la parola viene oggi solitamente adoperata e in cui in
questo dizionario si parla di « filosofia moderna », essa indica il pe- riodo
della storia occidentale che comincia dopo il Rinascimento cioè a partire dal
xvi secolo. Dal periodo M. si suol spesso distinguere quello MODERNO «
contemporaneo +, che comprende gli ultimi de- cenni. MODIFICAZIONE RIPRODUTTIVA
(te- desco Reproduktive Modifikation). Così Husserl ha chiamato le
ripresentazioni delle cose e delle espe- rienze vissute, che ci sono già state
darte una volta nelle loro peculiari modalità (/deen, I, $ 44). MODO (gr.
rtpéroc; lat. Modus; ingl. Mode; franc. Mode; ted. Modus). Con questo termine sono
stati intesi: 1° Le diverse forme dell’essere predicativo (v. MODALITÀ). 2° Le
determinazioni non necessarie (o non incluse nella definizione di una cosa). In
tal senso il M. era già inteso dalla logica medievale (cfr., ad es., Pierro
IsPano, Sumun. Logic., 1.28). E fu ripreso da Cartesio che intese per M. le
qua- lità secondarie mutevoli delle sostanze e li con- trappose agli arrributi
che costituiscono invece le qualità permanenti o necessarie. « Poichè, egli
disse, non devo concepire in Dio alcuna varietà o muta- mento, io dico che in
lui vi sono, non M. o qua- lità, ma piuttosto attributi; e anche nelle cose create,
ciò che si trova in esse sempre costante, come l’esistenza e la durata della
cosa che esiste e dura, io lo chiamo attributo e non M. o qualità + (Princ.
Phil., I, 56). Questo concetto fu ripetuto da Spinoza (Et., I, def. 5) e da
Wolff il quale dice: «Ciò che non ripugna alle determinazioni essen- ziali, ma
non è determinato da esse, si dice M.» (Ont., $ 148). Dall’altro lato la Logica
di Portoreale definiva il M. non distinguendolo dall’attributo o dalla qualità
come «ciò che, essendo concepito nella cosa, e come tale da non poter
sussistere senza di essa, la determina a essere in una certa
maniera e a farla nominare
corrispondentemente » (I, 2). Di questa definizione Locke accettava la notazione
secondo la quale il M. non può sussi- stere indipendentemente dalla sostanza; e
pertanto definiva M. « quelle idee complesse che, per quanto composte, non
contengono in sè la supposizione di sussistere di per se stesse ma si
considerano dipendenze o affezioni delle sostanze, come sono quelle espresse
dalle parole ‘triangolo *, ‘ gratitu- dine *, ‘omicidio *, ecc. + (Saggio, II,
12, 4). All’ambito dello stesso concetto appartiene il significato che Spinoza
attribuisce al termine, in- tendendolo come «ciò che è in un’altra cosa e il
cui concetto si forma per mezzo di quest’altra cosa + (Er., I, 8, scol. 2).
Tuttavia il M. deriva necessariamente, secondo Spinoza, dalla natura di- vina e
perciò si distingue dall’attributo non per la sua assenza di necessità ma per
la sua particolarità: M. sono le cose particolari e i singoli pensieri che esprimono
gli attributi di Dio, il pensiero e l'estensione (/bid., I, 25 scol.; II, 1). MONADE
3° Le forme, le specie, gli aspetti, le determina- zioni particolari di un
oggetto qualsiasi. Questo significato è il più generale e comune e il meno preciso.
4° La specificazione delle figure del sillogismo a seconda della qualità e
della quantità delle pre- messe (v. FIGURA; SILLOGISMO). MODUS PONENS, MODUS
TOLLENS.
Così furono detti, nella logica del ’600,
i due modi del sillogismo ipotetico, in quanto il primo, posto l'antecedente,
pone il conseguente (se A è, è B; ma A è, dunque è 2); e il secondo tolto il
con- seguente toglie l’antecedente (se A è, è B; ma B non è, dunque A non è)
(JuncIUS, Logica, 1638, III, 17, 10-11; WOLFF, Logica, $ 409-10). MOLECOLARE,
PROPOSIZIONE (inglese Molecular Proposition; franc. Proposition molécu- laire;
ted. Molekular Satz). Termine entrato in uso col Tractatus di Wittgenstein,
e corrispondente alla propositio hypothetica della Logica boeziano-scola- stica:
è una proposizione formata da una o più atomiche (v.) legate da certe costanti
logiche, come «non», «e», «01, «implica» («se..., ...1) (nega- zione,
congiunzione, disgiunzione, implicazione), e altre. Nella Logica russelliana
alle proposizioni molecolari corrispondono le proposizioni funzio- . a. P. MOLINISMO.
V. GRAZIA. MOLTEPLICITÀ (gr. và road; ingl. Multipli» city; franc.
Multiplicité; ted. Mannigfaltigkeit). Ciò che è molteplice e vario: i « molti »
in contrapposto all’ uno », sui quali si esercitavano, di preferenza, stando
alla testimonianza di Platone (Fi/., 14d), le discussioni dialettiche del sec.
rv avanti Cristo. Platone stesso stabilì il concetto autentico del mol- teplice,
che non è quello della dispersione illimi- tata, ma quello del numero: il
quale, come diceva Platone, è nello stesso tempo uno e molti perchè è l’ordine
di una M. determinata (Fi/., 18 a-b) {(v. Numero). Il senso di questa parola è
ritornato ad essere quello di una dispersione disordinata in alcuni usi
moderni, per es., in quello che Kant ne fa come della « materia » della
conoscenza cioè del contenuto sensibile, nel suo stato disordinato o grezzo,
indipendentemente dall’ordine e dalla unità che esso riceve ad opera delle
forme a priori della sensibilità e dell’intelletto (Crir. R. Pura, $ 1). MOLTIPLICAZIONE
LOGICA (ingl. Lo- gical Multiplication; franc. Multiplication logique; ted.
Logische Multiplikation). Nell’ Algebra della Lo- gica (v.) si chiama così
l'operazione «a-b», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle della
M. aritmetica (importantissima l’eccezione «a-a=a+) Interpretata come
operazione tra classi, «4-5» viene a formare la classe contenente tutti e soli
gli elementi comuni alle classi a e d. 38 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia.
593 Interpretata come operazione tra proposizioni, «a-b» ne indica
l’affermazione congiuntiva, simul- tanea («a e 51). a. P. MOMENTO (ingl. Moment; franc. Moment; ted.
Moment). 1. Concetto meccanico: l’azione
istantanea di una forza su di un corpo. Così definisce il M. Kant
(Metaphysische Anfanesgriinde der Naturwissenschaft, Nota sulla meccanica;
Crit. R. Pura, Analitica dei Principi, B, in fine). 2. Concetto temporale: una
parte minima di tempo, priva di successione (cfr. Locke, Saggio, II, 14, 10).
3. Concetto dialettico: una fase o determina- zione del divenire dialettico:
per cs., possibilità e accidentalità sono «i M. della realtà» (HEGEL, Enc., $
145); la condizione, la cosa e l’attività sono «i tre M. della necessità»
(HEGEL, /bid., $ 148); l’essere e il nulla sono «i M. del divenire » (HeceL,
Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. I, C, nota 2; trad. ital., vol. I,
pag. 87 sgg.); ecc. Questo concetto del M. come fase dialettica è il più comune
nella filosofia contemporanea. 4. Concetto logico: fase o stadio di una dimo- strazione
o di un ragionamento qualsiasi. MONADE (lat. Monas; ingl. Monad; franc. Mo- nade;
ted. Monade). In quanto ha significato di- stinto da quello di Unità (v.), il
termine designa un’unità reale inestesa, quindi spirituale. Giordano Bruno
adoperò per primo il termine in questo senso, concependo la M. come il minimum,
cioè l’unità indivisibile, costituente l’elemento di tutte le cose (De Minimo,
1591; De Monade, 1591). Il termine fu ripreso nello stesso senso dai neoplato- nici
inglesi e specialmente da H. More che elaborò il concetto delle « M. fisiche »,
inestese, perciò spi- rituali, come componenti della natura (Enchiridion Metaphysicum,
1679, I, 9, 3). A partire dal 1696 Leibniz si avvale del termine per designare
la sostanza spirituale in quanto componente semplice dell’universo. La M. è,
secondo Leibniz, un atomo spirituale, una sostanza priva di parti e di esten- sione,
quindi indivisibile. Come tale non si può disgregare ed è eterna: solo Dio può
crearla 0 annullarla. Ogni M. è diversa dall'altra giacchè non vi sono in
natura due esseri perfettamente uguali (v. IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI). Ogni
M. costituisce un punto di vista sul mondo ed è quindi tutto il mondo da un
determinato punto di vista (Monadologie, 1714, $ 57). Le attività fondamentali della
M. sono la percezione e l’appetizione; ma le M. hanno infiniti gradi di
chiarezza e distin- zione: quelle fornite di memoria costituiscono le anime
degli animali e quelle fornite di ragione costituiscono gli spiriti umani. Ma
anche la ma- teria è costituita da M.: almeno la materia seconda; giacchè la
materia prima è la semplice potenza 594 passiva o forza di inerzia (Op., ed.
Gerhardt, III, pag. 260-61). La totalità delle M. è l’universo. Dio è «l'unità
primitiva o la sostanza semplice origi- naria di cui tutte le M. create o
derivate sono pro- duzioni e nascono, per così dire, per fulgurazione continua
dalla divinità di momento in momento » (Mon., $ 47). I tratti di questa
dottrina di Leibniz ricorrono uniformemente ogni qualvolta i filosofi fanno ri-
corso al concetto di monade. E ricorrono anche, sostanzialmente, nelle dottrine
metafisiche dello spi- ritualiimo contemporaneo. Si consideri il sapore leibniziano
del passo seguente di Husserl: «La costituzione del mondo obiettivo comporta
essen- zialmente un’armonia di M., più precisamente una costituzione armoniosa
particolare in ciascuna M. e per conseguenza una genesi realizzantesi armo- niosamente
nelle M. particolari » (Carr. Med., $ 49) (v. SPIRITUALISMO). MONADOLOGIA
(ingl. Monadology; fran- cese Monadologie; ted. Monadologie). Con questo termine
Leibniz intitolò la breve esposizione del suo sistema che compose a richiesta
del Principe Eugenio di Savoia nel 1714. Il termine è rimasto a designare la
dottrina delle monadi. Kant inti- tolò M. Physica un suo scritto del 1756. E il
termine da allora ricorre frequentemente (cfr., ad es., RENOUVIER e PRAT,
Nouvelle Monadologie, 1899). MONARCHIA. V. Governo, FORME DI. MONARCHISMO. V.
MopaLISMO. MONARCOMACO (ingl. Monarchomachist ; franc. Monarchomachiste; ted. Monarchomache). Così furono detti nel sec. xvm i
seguaci del di- ritto naturale, in quanto combattevano l’assolu- tismo
monarchico. Il nome ricorre per la prima volta nel titolo dell’opera del
cattolico scozzese GUGLIELMO BARKLAY, De regno et regali potestate adversus
Buchananum, Brutum, Boucherium, et re- liquos monarcomachos, Parigi, 1600. MONASTICO.
Vico chiamò filosofi M. o so- litari gli Stoici e gli Epicurei in quanto «
vogliono l’ammortimento dei sensi», e « niegano la provvi- denza, quelli
faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi
oppinando che muoiano l’anime umane coi corpi ». Ai filosofi M. Vico
contrappose i filosofi politici e specialmente i Platonici che convengono coi
legislatori nell’ammet- tere la provvidenza e l'immortalità nonchè la modera- zione
delle passioni (Scienza Nuova, 1744, Degnità V). MONDANO (gr. xoapx6c; ingl. Worldly, Mun- dane; franc.
Mondain; ted. Weltlich). Questo
ag- gettivo si adopera quasi esclusivamente in corri- spondenza del significato
e) di mondo, vale a dire designa ciò che appartiene al campo di attività, di
interessi o di comportamenti che sono estranei alla vita religiosa e talvolta
in antagonismo con MONADOLOGIA ensibile », cioè attingibile dagli organi
sensori o « M. intellettuale » cioè attingibile da strumenti intellettuali. In
questo senso si parla pure di « M. ambiente» per indicare l’insieme delle
relazioni di un essere vivente con le cose circostanti o la situazione in cui
si trova; ma la parola non ha significato diverso da am- biente (v.); c) la
totalità di una cultura come quando si dice «M. antico » o «M. moderno » o «M.
pri- mitivo » o «M. civile»; d) una totalità geografica come quando si dice «
Nuovo M.+ per designare l’America o « Vecchio M. » per designare il Conti- nente
antico; e) la totalità di ciò che è estraneo alla religione. In questo senso la
parola è costante- mente adoperata nel Nuovo Testamento (Mattàh., 4, 8; XVI,
26; Joan., I, 10; VII, 7; XII, 31; ecc.); e la «sapienza del M.» viene
contrapposta come stoltezza alla sapienza di Dio (/ Cor., I, 20). La nozione di
M. in questo senso è comune a tutti gli scrittori cristiani; ed ad essa si fa
anche riferi- mento quando si chiamano «sapienti del M.» co- loro che «si
avvalgono della ragione naturale », come fa Ockham (Suruna logicae, III, 1). Di
questi significati, i più specificamente filoso- fici sono i primi due, che si
riflettono in tutti gli altri. Il significato d) è puramente amplificativo o retorico,
il significato e) puramente religioso. Si possono pertanto distinguere tre
concetti fonda- mentali di M.: 1° il M. come ordine totale; 2° il M. come
totalità assoluta; 3° il M. come totalità di campo. I significati 1° e 2° sono
articolazioni del significato a); il significato 3° è il significato 6). 1° Si
dice che per primo Pitagora abbia chia- mato cosmo il M. per contrassegnare
l'ordine di esso (StoBEO, Ecl., 21, 450; Fr. 21, Diels); certo è che questa è
l’interpretazione del concetto pre- valente nella filosofia greca. Platone la
accetta (Gorg., 508 a). E Aristotele, che distingue il tutto (tè rav) nel quale
la disposizione delle parti può MONDO mutare, dalla totalità (cò &Xov) in
cui le parti hanno posizioni fisse (Met., V, 26, 1024 a 1), dice a pro- posito
del M.: « Se la totalità del corpo, che è un continuo, è ora in questo ordine o
in questa disposizione ora in un’altra, e se la costituzione della totalità è
un M. o un cielo, allora non sarà il M. che si genera e si distrugge ma solo le
sue disposizioni + (De Cael., I, 10, 280a 19). Aristo- tele intende dire in
questo passo che il M. è la costituzione (o struttura) della totalità (il suo
or- dine) e che tale costituzione o struttura rimane immutata anche se le sue
singole parti si dispon- gono diversamente. Ciò equivale a definire il M. come
l’ordine immutabile dell’universo. Analoga- mente gli Stoici distinguevano
l'universo (tò rv) come la totalità di tutte le cose esistenti, compreso il vuoto,
dal M., considerato come «il sistema del cielo e della terra e degli esseri che
sono in essi »: nel quale senso il M. è Dio stesso (STOBEO, Ecl., I, 421, 42
sgg.). Questa interpretazione del M. pre- valse nell’antichità e fu adottata
dalla filosofia cri- stiana la quale trovava in essa un opportuno punto di
partenza per le dimostrazioni dell’esistenza di Dio (cfr., per es., AGOSTINO,
De Ordine, I, 2). Essa entrò in crisi soltanto quando la nozione di ordine co- minciò
a incorporarsi con quella di natura più che con quella di M.: il concetto di
totalità ebbe allora il sopravvento. 2° I primi ad esporre il concetto del M.
come totalità che abbraccia ogni cosa furono gli Epicurei. « Il M., diceva
Epicuro, è la circonferenza del cielo che abbraccia gli astri e la terra e
tutti i fenomeni + (Dioc. L., X, 88). Ma solo nella filosofia moderna questo
concetto prevalse soppiantando interamente quello più antico del M. come
ordine. Dice Leibniz: «Chiamo M. tutta la serie e tutta la collezione di tutte
le cose esistenti, affinchè non si dica che più M. possano esistere in diversi
tempi e luoghi. Bisognerebbe infatti contarli tutti insieme per un solo M. o,
se preferite, per un solo universo » (Théod., I, $ 8). Da questo punto di vista
il M. è «l’insieme totale delle cose contingenti» (/bid., I, $ 7); e
l’elaborazione successiva del concetto ha specialmente insistito su questo
concetto di totalità assoluta. Pertanto le due nozioni di, universo e di M. che
gli antichi tendevano a distinguere l'una dall’altra vengono considerate
coincidenti. Dice Wolff: «La serie degli enti finiti sia simultanei che successivi,
tra loro connessi, si dice M. o anche universo » (Cosmol., $ 48). A sua volta
Baumgarten chiarisce meglio il senso della totalità assoluta, affermando che
essa non può essere parte di altra totalità. « Il M., egli dice, è la serie (la
moltitudine, la totalità) dei finiti reali la quale non è parte di un'altra
serie» (Mer., $ 354). Una determinazione che veniva ripetuta da Crusius: « Il
M. è un reale 595 concatenamento di cose finite tale da non essere a sua volta
parte di un altro, a cui appartenga in virtù d’un reale concatenamento »
(Entwurf der notwendigen Vernunft-Wahrheiten, 1745, $ 350). È questo il
concetto che viene criticato nella dialet- tica trascendentale di Kant. Kant
osservava che la parola M. «nel senso ni si passa alla richiesta della totalità
delle condizioni, che è l’incondizionato o M. e non è più niente di empirico
(/bid., sez. 7). Non c’è quindi da meravigliarsi che la nozione di M., fondata
com'è su un procedimento sofistico, dia luogo ad antinomie irresolubili:
antinomie che concernono la finità o l'infinità del M., il suo cominciamento o
non cominciamento nel tempo, l’esistenza o non esistenza di parti semplici in
esso e la presenza o l’assenza della libertà (v. ANTI- NOMIE KANTIANE). La
soluzione di tali antinomie si ha, secondo Kant, soltanto rinunciando alla
nozione stessa di M. o considerando tale nozione sempli- cemente come una
regola della conoscenza empi- rica; e precisamente come la regola che « esige
il regresso nella serie delle condizioni dei dati feno- menici, un regresso nel
quale non sia mai dato di arrestarsi a qualcosa di assolutamente incondizio- nato»
(/bid., sez. 8). Da questo punto di vista il M. non è una realtà ma « un
principio regolativo della ragione ». Questa critica di Kant è, si può dire,
rimasta decisiva. È ben vero che cercano di dimenticarla non solo le dottrine
che costituiscono sopravvivenze della metafisica teologica ma anche dottrine
cosmo- logiche moderne, sedicenti «scientifiche » che specu- lano sul M. e
sulla creazione (v. CosmoLogia). Ma è anche vero che queste dottrine
s’imbattono subito in antinomie insolubili, che riproducono quelle kan- tiane,
non appena fanno appello al concetto del M. come totalità assoluta. In realtà
ciò di cui la scienza può parlare è soltanto il M. osservabile 596 inteso come
«il più inclusivo insieme di oggetti astronomici che possa essere identificato
con l’aiuto degli strumenti disponibili ad un dato tempo» (M. K. MunITZ, Space,
Time and Creation, 1957, pag. 93). Ma in questo senso il M. è una to- talità di
campo, non una totalità assoluta. 3° La terza interpretazione del concetto di
M., che è in regola con la critica kantiana, s’identifica con quello che
abbiamo enunciato come signifi- cato 5): per esso il M. è la totalità di un
campo o di più campi di attività o di indagine o di rela- zioni. Da questo
punto di vista, la parola M. senza aggettivi non designa una totalità assoluta
ma semplicemente l’insieme di un campo specifico, che è quello dell’astronomo o
del cosmologo. In questo senso, la parola è perfettamente analoga a ciò che la
«materia» è per il fisico o la «vita» per il biologo: l’indicazione di un campo
generico determinato dal convergere o dal sovrapporsi di un determinato gruppo
di tecniche di ricerca (M. K. MuUNITZ, Op. cif., pag. 69). In generale, da
questo punto di vista, può dirsi che la nozione designa « un insieme di campi
definiti da tecniche relativamente compatibili e in qualche misura con-
vergenti. Possiamo così parlare del ‘ M. naturale * come dell'insieme dei campi
coperti dalle scienze naturali nella misura in cui le loro tecniche sono
relativamente compatibili e convergenti; o di ‘ M. storico * come dell’insieme
dei campi in cui pos- sono essere adoperate le tecniche dell’indagine sto- riografica;
ecc. » (ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, pag. 154-55). A questa stessa
nozione si ricollega quella data da Heidegger ed accettata dalla filosofia
esistenzia- listica, del M. come il campo costituito dalle rela- zioni
dell’uomo con le cose e con gli altri uomini. «È egualmente erroneo, dice
Heidegger, assumere l’espressione M. tanto per designare la totalità delle cose
naturali (concetto del M. naturalistico) O per indicare la comunità degli
uomini (concetto personalistico), Ciò che di metafisicamente essen- ziale
contiene il significato più o meno chiaro di M. è che esso mira
all’interpretazione dell’Esserci umano nel suo rapportarsi all’ente nel suo
insieme » (Vom Wesen des Grundes, 1929, I; trad. ital., pag. 53). Ovviamente,
da questo punto di vista, la parola M. fa parte integrante dell’espressione «
essere nel M.» che designa il modo d’essere che è proprio dell’uomo in quanto «
è situato nel mezzo dell'ente come rapportantesi all'ente» cioè è in rapporto
essenziale con le cose e con gli altri uomini. M. significa, in tal caso,
l’insieme delle relazioni tra l’uomo e gli altri esseri: la totalità di un
campo di relazioni (v. TUTTO; UNIVERSO). MONDO DELLA VITA (ted. Lebenswelt). Termine
introdotto da Husserl nella Krisis per de- MONDO DELLA VITA signare «il mondo
in cui viviamo intuitivamente, con le sue realtà, così come si dànno, dapprima nella
semplice esperienza poi anche nei modi in cui esse diventano oscillanti nella
loro validità (oscil- lanti tra l’essere e l'apparenza ecc.)» (Krisis, $ 44).
Husserl contrappone tale mondo a quello to della loro dottrina, il termine è
stato costan- temente monopolizzato dai materialisti; e quando è usato senza
aggettivo designa appunto il materia- lismo. Ciò è probabilmente dovuto al
fatto che esso fu adottato da uno dei più popolari autori di scritti
materialistici cioè dal biologo Ernesto Haeckel (Der Monismus als Band zwischen
Religion und Wissenschaft, 1893). In questo senso il termine, fu adoperato nel
nome della Associazione Monistica Tedesca (Deutsche Monistenbund) fondata nel
1906 da Haeckel e da Ostwald; nonchè nel titolo di una delle più antiche
riviste filosofiche americane The Monist fondata nel 1890 da Paul Carus. MONOFILETISMO (ingl.
Monophyletism; franc. Monophylétisme; ted. Monophyletismus). La dottrina secondo la quale tutte le specie viventi derivano
da un unico ceppo originario. La dottrina contraria si chiama polifiletismo. MONOFISISMO (ingl.
Monophysism; fran- cese Monophysisme; ted. Monophysismus). Un’in- terpretazione eretica del dogma cristiano
dell’Incar- nazione: il Verbo o Cristo avrebbe una sola natura, quella divina.
Tale interpretazione fu sostenuta nel sec. v da Eutiche, in opposizione al
resroriane- simo (v.) che sosteneva l’eresia opposta; e fu condan- nata dal
Concilio di Calcedonia del 451. MONOGENISMO (ingl. Monogenism; fran- cese
Monogénisme; ted. Monogenismus). La dottrina secondo la quale tutte le razze
umane viventi discen- dono da un unico ceppo. La dottrina contraria si chiama
poligenismo. MORTE MONOPSICHISMO (ingl. Monopsychism; franc. Monopsychisme;
ted. Monopsychismus). La dottrina averroistica dell’unità dell’anima
intellettiva in tutti gli uomini. V. INTELLETTO ATTIVO. MONOSILLOGISMO (ingl.
Monosyllogism; franc. Monosyllogisme; ted. Monosyllogismus). Ra- gionamento
costituito da un solo sillogismo, così detto in opposizione a polisillogismo
(v.). MONOTEISMO (ingl.
Monotheism; franc. Monothéisme; ted. Monotheismus). La dottrina dell’unicità di Dio. V. DIO, 3°, 5). MONOTELETISMO
(ingl. Monotheletism; franc. Monothélétisme; ted. Monotheletismus). Inter- pretazione
eretica del dogma dell’incarnazione, secondo la quale esiste in Cristo una sola
volontà, quella divina, che costituisce il tratto d’unione delle due nature che
sono in lui, la divina e l’umana. Tale eresia fu sostenuta dal patriarca di
Costanti- nopoli Sergio nel sec. vi e condannata dal VI Con- cilio ecumenico
nel 680. MONTANISMO (ingl. Montanism; franc. Mon- tanisme; ted. Montanismus).
Setta religiosa cristiana del r secolo detta così dal nome del suo fondatore Montano,
ex sacerdote di Cibele. Montano inten- deva trasferire nel cristianesimo il
culto entusiastico della sua setta di provenienza: i montanisti vivevano in
continua agitazione nell’attesa dell’imminente ritorno del Cristo. Tertulliano
appartenne per un certo tempo a questa setta. MONUMENTALE, STORIA. V. ArcHEo- LOGICA,
STORIA. MORALE (lat. Moralia; ingl. Morals; franc. Mo- rale; ted. Moral). 1. Lo
stesso che Etica. 2. L’oggetto dell’etica, la condotta in quanto diretta o
disciplinata da norme, l’insieme dei mores. In questo significato la parola è
adoperata nelle seguenti espressioni: «la morale dei primitivi» «la morale
contemporanea », ecc. MORALE (gr. 866; lat. Moralis; ingl. Moral; franc. Moral;
ted. Moral). Questo aggettivo ha in primo luogo i due significati
corrispondenti a quelli del sostantivo morale e cioè 1° attinente alla dot- trina
etica, 2° attinente alla condotta e quindi suscet- tibile di valutazione M.: e,
specialmente, di valu- tazione M. positiva. Così non soltanto si parla di atteggiamento
M. o di persona M. per indicare un atteggiamento o persona moralmente
valutabile ma anche si intendono con le stesse espressioni cose positivamente
valutabili cioè buone. L’aggettivo ha avuto poi in inglese, francese, ita- liano,
e ancora conserva in certe espressioni, il significato generico di «
spirituale». Hegel ricordava questo significato in riferimento al francese
(Enc., $ 503). E ancora tale significato rimane, per esempio, nell’espressione
«scienze morali», che sono le «scienze dello spirito ». 597 MORALISMO (ingl.
Moralism; franc. Mora- lisme; ted. Moralismus). 1. La dottrina che fa dell’at- tività
morale la chiave per l’interpretazione di tutta la realtà. Il termine fu
adoperato in questo senso da Fichte nella esposizione della Wissenschaftslehre
del 1801 ($ 26 in Werke, II, pag. 64)e fu ripreso e dif- fuso da scrittori
francesi della fine del secolo scorso. 2. Nel linguaggio comune e, sempre più
fre- quentemente, in quello filosofico il termine designa l’atteggiamento di
chi si compiace di moralizzare su ogni cosa, senza sforzarsi di comprendere le
situa- zioni cui il giudizio morale va riferito. In questo senso il M. è un
formalismo o conformismo morale, che ha poca sostanza umana. Cfr. A. BANFI, «
M. e moralità », L'uomo copernicano, 1950, pag. 279 sgg. MORALITÀ (lat.
Moralitas; ingl. Morality; franc. Moralité; ted. Moralitàt). Il carattere
proprio di tutto ciò che si conforma alle norme morali. Kant ha contrapposto la
M. alla legalità. Quest’ul- tima è il semplice accordo e disaccordo di
un’azione con la legge morale senza riguardo al movente del- l’azione stessa.
La M. consiste invece nell’assumere come movente di azione l’idea stessa del
dovere (Me- taphysik der Sitten, I, Intr.,$ 3; Crit. R. Prat.,I, 1, 3). Marco
Aurelio, è il riposo dai contraccolpi dei sensi, dai movimenti impulsivi che ci
tirano qua e là come marionette, dalle divagazioni dei nostri ragionamenti,
dalle cure che dobbiamo avere per il corpo» (Ricordi, VI, 28). Leibniz
concepiva la fine del ciclo vitale come diminuzione o involu- zione della vita.
« Non si può, egli diceva, parlare di generazione totale o di morte perfetta,
intesa rigoro- samente come separazione dell’anima. Ciò che chia- miamo
generazioni sono sviluppi e accrescimenti e ciò che chiamiamo morti sono
involuzioni e dimi- nuzioni » (Mon., $ 73). Con la M., in altri termini, la
vita diminuisce e scende a un livello inferiore a quello dell’appercezione o
coscienza, in una specie di «stordimento +, ma non cessa (Principes de la nature
et de la gràce, 1714, $ 4). A sua volta, Hegel considera la morte come la fine
del ciclo dell’esistenza individuale o finita per la sua impossibilità di ade- i
all’universale. « La inadeguatezza dell’animale all’universalità, egli dice, è
la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte. La negazione di questa
inadeguatezza è appunto l’adempimento del suo destino » (Enc., $ 375). Infine
il concetto biblico della M. come pena del peccato originale (Gen., II, 17;
Rom., V, 12) è, nello stesso tempo, il concetto di essa come conclusione del
ciclo della vita umana perfetta in Adamo e il concetto di una limitazione fondamentale
che la vita umana ha subito a partire dal peccato di Adamo. Dice S. Tommaso a
questo proposito: « La M., la malattia e qualsiasi difetto corporeo dipende da
un difetto nell’assog- gettamento del corpo all’anima. E come la ribellione dell’appetito
carnale allo spirito è la pena del peccato dei primi genitori, tale è anche la
M. ed ogni altro difetto corporeo» (S. 7h., II, 2, q.164, a.l). Ma questo
secondo aspetto, che è proprio della teologia cristiana, appartiene
propriamente al con- cetto della M. come possibilità esistenziale. c) Il
concetto della M. come possibilità esi- stenziale implica che la M. non sia un
evento MOTIVO particolare, situabile all’inizio o al termine di un ciclo di
vita proprio dell’uomo, ma una possibilità sempre presente alla vita umana e
tale da deter- minare le caratteristiche fondamentali di essa. Alla considerazione
della M. in questo senso ha avviato, nella filosofia moderna, la cosiddetta
filosofia della vita e specialmente Dilthey. «Il rapporto che ca- ratterizza in
modo più profondo e generale il senso del nostro essere, egli ha detto, è
quello della vita con la M., perchè la limitazione della nostra esistenza
mediante la M. è decisiva per la comprensione e la valutazione della vita» (Das
Erlebnis und die Dichtung, 5* ediz., 1905, pag. 230). L’idea importante
espressa qui da Dilthey è che la M. costituisca « una limitazione
dell’esistenza » non già in quanto ne costituisce il termine ma in quanto
costituisce una condizione che accom- pagna tutti i momenti di essa. Questa
concezione che riproduce in qualche modo, sul piano filoso- fico, la concezione
della M. della teologia cristiana, è stata espressa da Jaspers col concetto
della situa- zione-limite: cioè di una «situazione decisiva, es- senziale, che
è collegata con la natura umana in quanto tale ed è inevitabilmente data con
l’essere finito» (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, III, 2; trad. ital.,
pag. 266; cfr. Phil., II, pag. 220 sgg.). Rifacendosi a questi precedenti,
Heidegger ha con- siderato la M. come possibilità esistenziale. « La M., egli
ha detto, come fine dell’Esserci, è la pos- sibilità dell’Esserci più propria,
incondizionata, certa e, come tale, indeterminata e insuperabile » (Sein und
Zeit, $ 52). Da questo punto di vista, cioè come possibilità, «la M. non offre
niente da rea- lizzare all'uomo e niente che possa essere come realtà attuale.
Essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere »
(/bid., $ 53). E poichè la M. può essere compresa solo come possibilità, la sua
comprensione non è nè l’attesa di essa nè il fuggire di fronte ad essa, il «
non pen- sarci », ma l’anticipazione emotiva di essa, l’an- goscia (v.).
L'espressione usata da Heidegger nel definire la M. «la possibilità
dell’impossibilità » può a buon diritto apparire contraddittoria. Essa è suggerita
a Heidegger dalla sua dottrina della im- possibilità radicale dell’esistenza:
la M. è la mi- naccia che tale impossibilità fa incombere sull’esi- stenza
medesima. Se si vuol prescindere da questa interpretazione dell’esistenza in
termini di necessità negativa, si può dire che la M. è «la nullità pos- sibile
delle possibilità dell’uomo e dell’intera forma dell’uomo » (ABBAGNANO,
Struttura dell’ esistenza, 1939, $ 98; cfr. Possibilità e libertà, 1956, pag.
14 seguenti). Poichè ogni possibilità può, come pos- sibilità, non essere, la
M. è la nullità possibile di ognuna e tutte le possibilità esistenziali; in
questo senso, Merleau-Ponty dice che il senso della M. è la «contingenza del
vissuto», cioè «la minaccia per- petua per i significati eterni in cui esso
crede di esprimersi per intero » (Structure du comportement, 1942, IV, II, $
4). MOTIVAZIONE (ingl. Morivation; franc. Mo- tivation; ted. Motivation). 1. La
causalità del motivo. Schopenhauer per primo ha nettamente distinto questa
forma della causalità dalle altre tre che sono: la causalità della causa, la
causalità della ragione, e la causalità della ragion d’essere (Ueber die
vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, 1813, $ 20, 29, 36). Dice
Schopenhauer: «L’efficienza del motivo viene ad essere conosciuta da noi non
solo dal di fuori, come quella di tutte le altre cause e perciò solo
mediatamente, ma anche dall’interno, in modo immediato... Di qui risulta
l’importante proposizione: la M. è la cau- salità vista dall’interno... Bisogna
perciò proporre la M. come una forma speciale del principio di ragion
sufficiente dell’agire cioè come legge della M.» (Vierfache Wurzel, $ 43).
Anche senza il carattere privilegiato che Schopenhauer le ricono- sceva come
rivelazione immediata del modo di agire intrinseco della causalità, la M. è
rimasta a indicare l’azione determinante del motivo, quali che siano i limiti
che si pongano a tale deter- minazione. I problemi della M. sono da un lato di
natura psicologica e concernono il modo di agire dei motivi in quanto si presta
ad essere os- servato dagli strumenti di cui la psicologia dispone; dall’altro
lato, sono di natura filosofica in quanto concernono i limiti o le modalità
della determina- zione e quindi la libertà e il determinismo (v.). 2. Husserl
ha chiamato M. le connessioni del- l’esperienza che condizionano la possibilità
della sperimentazione ulteriore. « La sperimentabilità, egli ha detto, non
significa una vuota possibilità logica ma una possibilità motivata dalla
connessione del- l’esperienza. Questa è via via una catena di M. in quanto
assume sempre nuove M. e trasforma quelle già formate » (/deen, I $ 47). MOTIVO
(ingl. Motive; franc. Motif; te- desco Motiv). La causa o la condizione di una scelta,
cioè di una volizione o di un’azione. Il M. può essere più o meno chiaramente
riconosciuto da colui sul quale agisce: si chiama talvolta mo- vente (franc.
Mobile; ted. Triebfeder) il M. che non ha carattere « razionale » cioè che non
può essere considerato come una «ragione» della scelta. Già Aristotele aveva
detto: « Poichè ci sono tre cose: primo, il motore; secondo, ciò con cui muove;
e terzo, ciò che è mosso, si ha che il motore im- mobile è il bene pratico, il
motore che è anche mosso è la facoltà appetitiva, e ciò che è mosso è l’animale
» (De An., III, 10, 433 b 14). Il M. è inteso qui come un motore unico e
immutabile che 600 è il bene, il fine cui tende la vita dell’animale. Ma nel
mondo moderno di un motore in questo senso non si parla più e si parla invece
di motivo. Wolff intendeva con questo termine « la ragione suf- ficiente della
volizione o della nolizione » (Psychol, empirica, $ 887): una definizione che,
si può dire, non ha subìto mutamenti, tranne che nel diverso grado di
determinazione attribuito al motivo. Il problema di questi diversi gradi di
determinazione è il problema della /ibertà (v.). Dall'altro lato, l’importanza
del concetto di M. per la spiegazione della condotta umana è stata talvolta
messa in dubbio nella filosofia contemporanea. Dewey, per es., ha affermato che
«l’intero concetto di M. è in verità extrapsicologico ». Nessuna persona di buon
senso attribuisce gli atti di un animale o di un idiota ad un M.; ed è assurdo
chiedere che cosa induce un uomo all’attività. « Ma quando abbiamo bisogno di
condurlo ad agire in un modo specifico piuttosto che in un altro, quando vo- gliamo
dirigere la sua attività in una direzione specifica, allora la questione del M.
è pertinente. Il M. è allora l’elemento del complesso totale del- l’attività
umana che, se sufficientemente stimolato, darà luogo a un atto avente
conseguenze specifiche ». In altri termini il M. è piuttosto che un fattore di
spiegazione della condotta umana, uno stru- mento per orientarla e guidarla
(Human Nature and Conduct, pag. 119-20). MOTORE. V. Dio, Prove DI; MOVIMENTO. MOVENTE.
V. Motivo. MOVIMENTO (gr. x(vnow; lat. Motus; in- glese Motion; franc. Mouvement; ted. Bewegung). 1. In generale, un mutamento o processo di
qual- siasi specie. Questo significato corrisponde a quello del termine greco.
Platone distingueva due specie di M., l’alterazione e la traslazione (7eer.,
181 d); Aristotele ne distingueva quattro e cioè, oltre le due precedenti, il
M. sostanziale (generazione e corruzione) e il M. quantitativo (aumento e dimi-
nuzione) (Fis., III, 1, 201a 10). Per le singole specie del M., v. le voci
relative. Il M. in generale fu definito da Aristotele come «l’entelechia di ciò
che è in potenza » (Fis., III, l, 201 a 10): definizione che è rimasta celebre
nei secoli. Essa vuol dire che il M. è la realizzazione di ciò che è in
potenza: ad es., la costruzione, l’apprendimento, la guarigione, la crescita,
l’invec- chiamento, sono realizzazioni di potenzialità (/bid., 201 a 16). Nel
M. così inteso la parte fondamen- tale è quella del motore, dal cui contatto si
genera il movimento. « Quale che sia il motore, dice Ari- stotele, esso sempre
apporterà una forma — so- stanza particolare o qualità o quantità — che sarà principio
e causa del M., quando il motore muo- verà; al modo in cui l’entelechia
nell'uomo fa dell’uomo in potenza un uomo» (/id., III, 2, 202 a 8). La fisica
aristotelica è, dal principio alla fine, una teoria del M. in questo senso (v.
Fisica). Il suo teorema fondamentale « tutto ciò che si muove è mosso da
qualcosa » (/bid., VII, 1, 256a 14) porta alla teoria del primo motore immobile
dell’universo (v. Dio, Prove DI). 2. In senso specifico, il M. locale o
traslazione. Aristotele afferma la priorità di questo M. sugli altri tre. Gli
altri M. possono infatti essere ridotti a quest’ultimo, che dall’altro lato è
il solo che può appartenere alle cose eterne cioè agli astri (Fis., VIII, 7,
260b). Le specie del M. locale ca- ratterizzano, secondo Aristotele gli
elementi del- l’universo, compreso quello costitutivo delle so- stanze celesti
cioè l’etere, che si muove di M. circolare (v. Fisica). Questa dottrina del M.
è rimasta per lungo tempo immutata perchè tutta la filosofia antica e medievale
l’ha ripetuta senza mo- difiche sostanziali. Una teoria del M. che ebbe fortuna
nell’ultimo periodo della scolastica è quella elaborata da Duns Scoto, della
forma fluente. Se- condo Duns Scoto, un corpo che si muove acquista ad ogni
istante qualcosa: ma non il luogo, che non è un suo attributo ma risiede nei
corpi che lo attorniano, bensì piuttosto una specie di deter- minazione
qualitativa, analoga al calore che è acquisito dal corpo che si riscalda.
Questa deter- minazione è il dove (ubi). Il M. è quindi la perdita o
l'acquisizione continua del dove e in questo senso è una « forma fluente »
(Quod!., q. 11, a. 1). La dottrina veniva criticata dalla scolastica della fine
del ’200 e del *300. Ockham la sottometteva a una critica radicale,
considerando il M. come il mutamento del rapporto di un corpo con i corpi circostanti
(Quod?., VII, q. 6). Questo era il con- cetto che doveva prevalere nell’età
moderna ad opera della scienza. Cartesio l’esprimeva nel modo seguente: « Il M.
è il trasporto di una parte della materia o di un corpo dalla vicinanza dei
corpi che lo toccano immediatamente e che consideriamo in riposo, alla
vicinanza di altri corpi» (Prince. Phil., II, 25). Sul concetto del M. nella
scienza contemporanea, v. RELATIVITÀ. MUSICA (gr. uovowi téixvn; lat. Musica;
in- glese Music; franc. Musique; ted. Musik). Due sono le definizioni
filosofiche fondamentali che sono state date della musica. La prima è quella
che la con- sidera come la rivelazione all'uomo di una realtà privilegiata e
divina: rivelazione che può assumere o la forma della conoscenza, o quella del
senti- mento. La seconda è quella che la considera come una tecnica o un
insieme di tecniche espressive, che concernono la sintassi dei suoni. 1° La
prima concezione, che passa per essere la sola « filosofica » ma che veramente
è metafisica o teologizzante, consiste nel ritenere che la M. è una scienza o
un’arte privilegiata in quanto ha per oggetto la realtà suprema o divina o una
sua caratteristica fondamentale. Di questa concezione si possono distinguere
due fasi: a) la prima vede l’oggetto della M. nell’armonia come caratteristica divina
dell’universo e considera pertanto la M. come una delle scienze supreme. 5) Per
la seconda l'oggetto della M. è lo stesso principio cosmico (Dio, o la Ragione
autocosciente, o la Volontà infinita, ecc.) e la M. è l’autorivelazione di
questo principio nella forma del sentimento. Entrambe queste concezioni hanno
un tratto fondamentale in comune: la separazione della M., come arte « pura »,
dalle tecniche in cui essa si realizza. Pla- tone polemizza contro i musici che
vanno alla ri- cerca di nuovi accordi sugli strumenti (Rep., VII, 531 b) e così
fa pure Plotino. Schopenhauer e Hegel parlano della « essenza » della M., della
sua natura universale ed eterna, in quanto è separabile dai mezzi espressivi
nei quali essa prende corpo come fenomeno artistico. a) La dottrina della M.
come scienza dell’ar- monia e dell’armonia come ordine divino del cosmo è nata
coi Pitagorici. «I Pitagorici, che Platone segue spesso, dicono che la M. è
armonia di con- trari e unificazione dei molti e accordo dei discor- danti »
(FinoLao, Fr., 10, Diels). La funzione e i caratteri dell'armonia musicale sono
gli stessi che la funzione e i caratteri dell'armonia cosmica: la M. è perciò
il mezzo diretto per elevarsi alla co- noscenza di questa armonia. Platone
pertanto in- cludeva la M. fra le scienze propedeutiche al quarto posto (dopo
l’aritmetica, la geometria piana e so- lida e l’astronomia) e quindi la
considerava la più vicina alla dialettica e la più filosofica (Fed., 61 a). Come
scienza autentica tuttavia la M. non con- siste, secondo Platone, nel cercare
con l’orecchio nuovi accordi sugli strumenti: in questo modo si anteporrebbero
gli orecchi all’intelligenza (Rep., VII, 531 a). Coloro che così fanno «si
regolano come gli astronomi perchè cercano i numeri negli accordi accessibili
all’udito ma non risalgono ai problemi, non indagano quali numeri siano armo- nici
e quali no e donde venga la loro differenza » (Ibid., VII, 531 b-c). Per questa
possibilità di pas- sare dai ritmi sensibili all’armonia intelligibile, la M. è
ritenuta da Plotino una delle vie per ascen- dere a Dio. « Dopo le sonorità, i
ritmi e le figure percepibili dai sensi, egli dice, il musico deve pre- scindere
dalla materia nella quale si realizzano gli accordi e le proporzioni e
attingere la bellezza di essi in se stessi. Deve apprendere che le cose che lo
esaltavano sono entità intelligibili: tale è infatti l'armonia: la bellezza che
è in essa è la bellezza assoluta, non quella particolare. Per questo, egli 601 deve
servirsi di ragionamenti filosofici che lo con- ducono a credere a cose che
aveva in sè senza saperlo » (Enn., I, 3, 1). Furono queste le considerazioni
che portarono a includere la M. nel novero delle «arti liberali » ritenute
fondamentali per tutto il Medioevo. S. Ago- stino espone il passaggio della M.
dalla fase della sensibilità, in cui essa si occupa dei suoni, alla fase della
ragione in cui diventa contemplazione dell’armonia divina. «La ragione, egli
dice, com- prese che in questo grado, tanto nel ritmo quanto nell’armonia, i
numeri regnano e conducono tutto a perfezione: osservò allora con la massima
dili- genza di quale natura fossero e li scoprì divini ed eterni perchè col
loro aiuto erano state ordinate tutte le cose supreme» (De Ordine, II, 14).
Nelle Nozze di Mercurio e della Filologia, Marciano Ca- pella, verso la metà
del v secolo, includeva la M. tra le arti liberali (ridotte a sette) e con
questa la stabiliva come uno dei pilastri dell'educazione medievale. Alcuni
secoli dopo, Dante paragonava la M. al pianeta Marte: giacchè come questo è «la
più bella relazione» perchè è al centro degli altri pianeti, e il più caloroso
perchè il suo calore è simile a quello del fuoco, così è la M.: «la quale è
tutta relativa siccome si vede nelle parole armo- nizzate e nelli canti, dei
quali tanto più dolce ar- monia risulta tanto più la relazione è bella»; e la
quale « trae a sè gli spiriti umani che sono quasi principalmente vapori del
cuore sicchè quasi ces- sano da ogni operazione » (Conv., II, 14). Ciò che qui
Dante chiama « relazione » è l'armonia di cui parlavano gli antichi e il
carattere cosmico della M. è espresso nel confronto di essa con uno degli astri
maggiori dell’universo. b) La dottrina della M. come autorivelazione del
Principio cosmico tende a privilegiare la M. al di sopra di tutte le altre arti
o scienze e a farne la più diretta via d’accesso all’Assoluto. Queste sono le
caratteristiche proprie della concezione ro- mantica della M., caratteristiche
che si trovano ben realizzate nella teoria di Schopenhauer. Se- condo
Schopenhauer, mentre l’arte in generale è l’oggettivazione della Volontà di
vivere (che è il Principio cosmico infinito) in tipi o forme univer- sali (le
Idee platoniche) che ciascun’arte riproduce a suo modo, la M. è rivelazione
immediata o di- retta della stessa Volontà di vivere. « La M., egli dice, è
dell’intera Volontà oggettivazione ed im- magine tanto diretta quant'è il
mondo; o anzi come sono le Idee, il cui fenomeno moltiplicato costituisce il
mondo dei singoli oggetti. La M. non è quindi, come le altre arti, l’immagine
delle idee, bensì l'immagine della Volontà stessa, della quale sono oggettività
anche le idee. Perciò l’effetto della M. è tanto più potente e insinuante di
quello delle altre arti: giacchè queste ci dànno solo il riflesso mentre quella
ci dà l’essenza » (Die Welt, 1819, I, $ 52). Con questa esaltazione della M.
coincide la dottrina di Hegel: la quale tuttavia aggiunge l'importante
determinazione, che la M. è l’espres- sione dell’assoluto nella forma del
sentimento (Gemiith). «La M., dice Hegel, costituisce il punto centrale di
quella rappresentazione la quale esprime il soggettivo come tale sia rispetto
al contenuto sia rispetto alla forma, giacchè essa partecipa dell’interiorità e
rimane soggettiva anche nella sua oggettività ». In altri termini essa non lascia,
come fanno le arti figurative, che l’esterio- rizzazione sia libera di
svilupparsi di per se stessa e di arrivare a un'esistenza di per sè stante « ma
supera l’oggettivazione esterna e non s’immobi- lizza in essa fino a farne
qualcosa di esterno che abbia esistenza indipendentemente da noi» (Vorle-
sungen liber die Aesthetik, ed. Glockner,
III, pag. 127). Ciò vuol dire che nella M., a differenza che nelle altre arti,
la forma sensibile in cui l’Idea si manifesta od esprime è interamente superata
come tale e risolta in pura interiorità, in puro sentimento. Da questo punto di
vista Hegel dice che il sentimento è la forma propria della M.: «Il com- pito
fondamentale della M. consiste nel far risuo- nare, non già la stessa
oggettività ma, all’opposto le forme e i modi nei quali la più interna sogget- tività
dell’io e l’anima ideale si muove in se stessa» (4bid., pag. 129). Col
riconoscimento del sentimento come forma propria della M. e come
giustificazione della superiorità di essa, la teoria romantica della M. aveva
trovato la sua espressione definitiva. È solo un’esagerazione di questa
espressione la teoria di Kierkegaard che la M. « trova il suo oggetto asso- luto
nella genialità erotico-sensuale » (Aus Auf, Le tappe erotiche, ecc.; trad.
franc., Prior e Guignot, pag. 54). La definizione della M. come l’arte di esprimere
«i sentimenti » o «le passioni » mediante i suoni, fu ripetuta infinite volte e
si perdette per- sino il senso delle sue implicanze teoretiche. Essa fu assunta
come una definizione oggettiva o scientifica della M. (cfr. HANSLICK, Vom
Musikalisch-Schònen, 1854, la nota finale del cap. 1). Fu questa la defi- nizione
della M. cui si ispirò l’opera di Wagner, che infatti condivideva la filosofia
di Schopenhauer sulla musica. Federico Nietzsche a sua volta fu, nella sua
giovinezza, un seguace di questa conce- zione: dalla quale si staccò a partire
dal 1878 (con Umano, troppo umano) quando cominciò a scorgere nell’opera di
Wagner, orientata nostalgicamente verso il cristianesimo, un abbandono di quei
valori vitali che erano propri dell'antichità classica e uno spirito di
rinuncia e di rassegnazione. Ma dal concetto romantico della M. neppure
Nietzsche si staccò mai veramente. L'ideale che egli vagheggiò di una M. «
meridionale» (del tipo di quella di Bizet) conserva ancora la caratteristica
romantica di essere l’espressione del sentimento per quanto di un sentimento
situato «al di là del bene e del male ». Egli scrisse infatti: « Il mio ideale
sarebbe una M. il cui maggior fascino consistesse nell’igno- ranza del bene e
del male, una M. resa tremula tutt'al più da qualche nostalgia di marinaio, da
qualche ombra dorata, da qualche tenera rimem- branza; un’arte che assorbisse
in se stessa, da una grande distanza tutti i colori di un mondo morale che
tramonta, un mondo divenuto quasi incom- prensibile, e la quale fosse ospitale
e profonda abbastanza per accogliere in sè i tardi fuggiaschi » (Jenseits von
Gut und Bòse, $ 255). Anche oggi si fa frequentemente ricorso alla definizione
della M. come espressione del sentimento o almeno la si presuppone come cosa
ovvia e sicura (cfr., per es., Dewey, Art as Experience, cap. 10; trad. ital.,
pag. 278 sgg.). In Italia ha contribuito a raffor- zarla la dottrina crociana
dell'arte come espressione del sentimento; ma, ovviamente, questa dottrina non
è che la generalizzazione a tutto il dominio dell’arte della definizione
romantica della musica. Questa definizione ha trovato e trova pure incar-
nazioni frequenti nella figura del musicista, sacer- dote o profeta, che sa
ascoltare la voce dell’Assoluto e tradurla nel linguaggio sonoro del
sentimento. Anche oggi difficilmente si rinuncia a vagheg- giare questa
raffigurazione romantica della M.: la quale consente agli intenditori di essa
di sen- tirsi rapiti dentro un orizzonte mistico nel quale gli accordi musicali
sono parole di una divinità nascosta. 2° La caratteristica della seconda
concezione fondamentale della M. è l'identità, che essa implica, tra la M. e le
sue tecniche. Tale identità fu chiara- mente espressa da Aristotele con il
riconoscimento della molteplicità delle tecniche musicali. «La M., egli diceva,
non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma
per usi molteplici, poichè può servire per l'educazione, per procurare la
catarsi e in terzo luogo per il riposo, il sollevamento dell’anima e la
sospensione dalle fatiche. Da ciò risulta che bisogna far uso di tutte le
armonie, ma non di tutte allo stesso modo, impiegando per l’educazione quelle
che banno un maggiore contenuto morale, per l’ascolto di M. eseguite da altri
quelle che incitano all’azione o ispirano alla commozione » (Po/., VIII, 7,
1341 b 30 sgg.). Queste considerazioni che, nella loro ap- parente semplicità,
sembrano escludere un’inter- pretazione filosofica della M., in realtà
esprimono il concetto che la M. è un insieme di tecniche espressive, aventi
scopi o usi diversi e che possono essere indefinitamente e opportunamente
variate. E questo concetto è in realtà il solo che ha aiutato e sorretto lo
sviluppo dell’arte musicale. Esso ritornò nel Rinascimento e veniva così
espresso da Vincenzo Galilei: «L’uso della M. fu dagli uomini introdotto per il
rispetto e il fine che di comun parere dicono tutti i savi; il quale non da
altro principalmente nacque che dall’esprimere con efficacia maggiore i
concetti dell'animo loro nel celebrare le lodi degli Dei, dei geni e, degli eroi,
come dai canti fermi e piani ecclesiastici, ori- gine di questa nostra a più
voci si può in parte comprendere, e d’imprimergli, secondariamente, con pari
forza nelle menti dei mortali per utile e co- modo loro» (Dialogo della M.
antica e della moderna, 1581, ed. Fano, 1947, pag. 95-96). In queste parole di
Galilei appare anche chiara- mente riconosciuto il carattere espressivo delle tecniche
musicali: un carattere che fa della M. un’arte nel senso moderno del termine
(v. ESTE- TICA). Il concetto di tecnica espressiva è espresso da Kant con la
nozione di « bel gioco di sensa- zioni » di cui egli si avvale per definire sia
la M. sia la tecnica dei colori. Kant osserva che «non si può sapere con
certezza se un colore e un suono siano semplici sensazioni piacevoli o se siano
già in se stessi un bel gioco di sensazioni e quindi contengano, in quanto
gioco, un piacere che di- pende dalla loro forma nel giudizio estetico ». Alcuni
fatti, e specialmente la mancanza della sen- sibilità artistica in alcuni
uomini e l’eccellenza di tale sensibilità in altri, convincono a considerare le
sensazioni dei due sensi, vista e udito, non come semplici impressioni
sensibili, ma come « l’effetto di un giudizio formale nel gioco di molte sensa-
zioni +. In ogni caso, «a seconda che si adotterà l'una o l’altra opinione nel
giudicare del principio della M. ne sarà diversa la definizione e o si defi- nirà,
come noi abbiamo fatto, quale un bel gioco di sensazioni (dell’udito) o come un
gioco di sen- sazioni piacevoli. Secondo la prima definizione, la M. è
considerata come arte bella senz'altro, con la seconda è invece considerata,
almeno in parte, come arte piacevole » (Crit. del giud., $ 51). Il concetto di
« bel gioco di sensazioni » tende già ad esprimere una nozione sintattica della
M. e per di più una nozione per la quale la ricerca sintattica può essere
indirizzata liberamente in tutte le dire- zioni (questo è implicito nella
parola « gioco »). Verso la metà dell’800 questa nozione veniva più rigorosamente
e chiaramente formulata nello scritto di EpuaRDO HANSLICK, // bello musicale
(1854) che rimane a tutt'oggi una delle più importanti opere di estetica
musicale. Hanslick si schiera po- lemicamente contro il concetto romantico
della M. come «rappresentazione del sentimento». L’og- getto proprio della M. è
piuttosto il bello musi- cale: intendendosi con ciò «un bello che, senza dipendere
e senza abbisognare di alcun contenuto esteriore, consiste unicamente nei suoni
e nel loro artistico collegamento. Le ingegnose combinazioni di bei suoni, il
loro concordare e opporsi, il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e
morire, questo è ciò che in libere forme si presenta alla intuizione del nostro
spirito e che ci piace come bello. L'elemento primordiale della musica è l’eu- fonia,
la sua essenza il ritmo» (Vom Musikalisch- Schònen, III; trad. ital., 1945,
pag. 82). Così in- tesa la M. s’identifica con la tecnica realizzatrice. Dice
Hanslick a questo proposito: « Se non si sa riconoscere tutta la bellezza che
vive nell’elemento puramente musicale, molta colpa è da attribuirsi al
disprezzo del sensibile che negli antichi esteti troviamo in favore della
morale e del sentimento, in Hegel in favore dell’idea. Ogni arte parte dal sensibile
e in esso si muove. La teoria del senti- mento disconosce questo fatto,
trascura comple- tamente l’udire e prende in considerazione imme- diatamente il
sentire. Essi pensano che la M. sia fatta per il cuore e che l’orecchio sia una
cosa triviale » (/bid., INI, pag. 85-86). Dall'altro lato Hanslick ha espresso
pure con chiarezza il carat- tere che differenzia il linguaggio musicale dal
lin- guaggio comune. « La differenza, egli dice, consiste in questo, che nel
linguaggio il suono è solo un segno cioè un mezzo per esprimere qualcosa di
comple- tamente estraneo a questo mezzo, mentre nella M. il suono ha importanza
in sè, cioè è scopo a se stesso. La bellezza autonoma delle bellezze so- nore
qui, e l’assoluto predominio del pensiero sul suono come su un puro e semplice
mezzo di espressione là, si contrappongono in maniera così definitiva che una
mescolanza dei due prin- cìpi è una impossibilità logica » (/bid., IV, pag.
113). Questo carattere tuttavia non è proprio soltanto del linguaggio musicale
ma di ogni linguaggio artistico, di fronte al comune linguaggio (vedi ESTETICA).
Per quanto la nozione di M. cui esplicitamente hanno fatto e fanno ricorso
musicisti, critici e stu- diosi di estetica musicale sia ancora e sempre quella
di «rappresentazione del sentimento », la nozione della M. come tecnica di una
sintassi dei suoni le cui regole possano essere indefinitamente variate, è
quella che ha prevalso nella pratica della crea- zione musicale e nella ricerca
di nuovi e più liberi modi di tale creazione. L'ultimo e più radicale tentativo
di liberazione della lingua musicale dalla sintassi tradizionale è la
cosiddetta M. atonale. Questa non è altro che l’affermazione programma- tica
della libertà del linguaggio musicale di scegliere la sua propria disciplina:
la quale, in qualche casoparticolare può essere anche quella tonale. Dice a questo
proposito Schénberg: « L'emancipazione della dissonanza, cioè la sua
equiparazione con i suoni consonanti (che nella mia Harmonielehre spiego con il
fatto che la differenza tra consonanza e disso- nanza non è una differenza
antitetica ma graduale, che cioè le consonanze sono i suoni più vicini al suono
fondamentale e le dissonanze quelli più lon- tani; e che di conseguenza la loro
comprensibilità è graduata, essendo i suoni più vicini più facil- mente
afferrabili di quelli lontani) avvenne incon- sapevolmente, col presupposto che
la sua compren- sibilità può essere garantita quando venga favorita da
determinate circostanze. Non bastando l’orecchio da solo a riconoscere e a
comprendere i rapporti e le funzioni, tali circostanze si trovarono nel campo
dell’espressione e in quello, fino allora poco considerato, della sonorità » («
Gesinnung oder Er- kenntnis? +, 1926, in L. ROGNONI, Espressionismo e
dodecafonia, 1954, pag. 249). Da questo punto di vista la tonalità si definisce
in modo generalissimo come « tutto ciò che risulta da una serie di note,
coordinata sia mediante il diretto riferimento ad un’unica nota fondamentale sia
mediante collegamenti più complicati » (Harmo- nielehre, 1922, 3* ediz., III,
pag. 488; in ROGNONI, Op. cit., pag. 243). Alban Berg osservava che «la rinuncia
alla tonalità ‘maggiore’, ‘ minore” non implica affatto l’anarchia armonica »
perchè « anche se per la perdita del ‘maggiore’ e del ‘ minore ’, sono venute
meno alcune possibilità armoniche, sono però rimasti tutti gli altri elementi
essenziali della M. vera ed autentica» («Was ist Atonal», 1930, in RogNONI, Op.
cit., pag. 290). Quale che sia il giudizio di gusto che si vuol dare sulle
opere musicali ispirate da questo programma, non c’è dubbio che il programma
stesso non è altro che la liberalizzazione della lingua musicale e delle sue tecniche
dalle pastoie della sintassi tradizionale e l'avviamento alla ricerca di nuove
forme sintattiche, che possono anche, occasionalmente, coincidere con quelle
tradizionali. La M. atonale è pertanto la realizzazione, nel campo della M., di
quella stessa esigenza di liberazione che nel campo della pittura è
l’astrattismo: come quest’ultimo intende prescin- dere dalle forme stabilite o
riconosciute della rap- presentazione o della percezione, così la M. intende prescindere
dalle forme stabilite e riconosciute del- l'armonia musicale. L’una e l’altra
vanno in cerca di nuove discipline, di nuove forme sintattiche per le loro
tecniche espressive. E l’una e l’altra pre- suppongono (pur senza averne sempre
un chiaro concetto) la nozione dell’arte come «tecnica del- l’espressione +;
intendendosi per espressione le forme libere e finali della sintassi
linguistica. Poichè fu quella nozione di M. che presiedette, sul finire del
Medioevo e nel Rinascimento, alla genesi della M. moderna in quanto si presentò
fin dall'inizio come ricerca di tecniche espressive, si può scorgere in essa la
condizione che garantisce anche oggi alla M. la sua capacità di sviluppo. MUTAMENTO
(ingl. Change; franc. Change- ment; ted. Verdnderung). 1. Lo stesso che movi- mento,
1 (v.). 2. Lo stesso che alterazione (v.). MUTAZIONISMO (ingl. Mutationism;
fran- cese Mutationisme; ted. Mutationismus). 1. Lo stesso che evoluzionismo
(v.). 2. La dottrina che spiega la trasformazione delle specie viventi l'una
nell’altra con l'insorgenza di pic- cole mutazioni brusche ed ereditarie che si
produr- rebbero a caso nel corso di una o più generazioni. Questa dottrina fu
presentata da De VRIES nel- l’opera La teoria delle mutazioni (1901). N. Nella
logica di Lukasiewicz la lettera N è usata per indicare la negazione, che viene
comune- mente simboleggiata con —, sicchè Np significa > p (cfr., A. CHURCH,
Introduction to Mathematical NARCISISMO (ingl. Narcissism; franc. Nar- cissisme;
ted. Narzissismus). 1. Secondo Plotino, il mito di Narciso significa la
situazione dell’uomo che, non sapendo di portare la bellezza dentro di sè, la
cerca nelle cose esterne e tenta di abbrac- ciarla inutilmente in esse (Enn.,
I, 6, 8; V, 8, 2). Questa interpretazione acquista rilievo sullo sfondo della
preoccupazione fondamentale di Plotino che è quella della ricerca interiore, o
dell’interiorità di coscienza (v.). Talvolta, da autori moderni, il significato
del mito è stato invertito: il narci- sismo rappresenterebbe non già l’inanità
del ten- tativo di cercare nell’esterno ciò che è interno, ma l’autentico
destino dell’uomo che è quello di proiettare fuori di sè e di amare come tale
ciò che è dentro di lui (cfr. LAVELLE, L’erreur de Narcisse, 1939). 2. Una
forma o un modo della sessualità, se- condo la psicanalisi, e precisamente
quella per la quale la libido (v.) reinveste l'Io disinvestendo l’og- getto,
sicchè l'Io «si comporta verso gli investi- menti oggettuali come il corpo di
un animaletto protoplasmatico verso gli pseudopodi da esso emessi » (FREUD,
Introduzione del narcisismo, 1914). NATIVISMO. V. InnatisMo. NATURA (gr. quo;
lat. Natura; ingl. Nature; franc. Nature; ted. Natur). Un insieme di con- cetti,
diversamente imparentati tra loro, sono stati utilizzati per definire questo
termine. I prin- cipali sono i seguenti: 1° il principio del mo- vimento o la
sostanza; 2° l’ordine necessario o la connessione causale; 3° l’esteriorità, in
quanto contrapposta alla interiorità della coscienza; 4° il campo d'incontro o
di unificazione di certe tecniche d’indagine. 1° L'interpretazione della N.
come principio di vita e di movimento di tutte le cose esistenti è la più
antica e venerabile e ha informato di sè l’uso corrente del termine. « Lasciar
fare alla N. +, « Abbandonarsi alla N.?, « Seguire la N.», e via dicendo, sono
espressioni suggerite dal concetto che la N. è un principio di vita che si
prende buona cura degli esseri in cui si manifesta. In questo senso, esplicitamente,
la N. fu definita da Aristotele. «La N., egli disse, è il principio e la causa
del movimento e della quiete della cosa alla quale inerisce primieramente e di
per sè, non accidental- mente » (Phys., II, 1, 192b 20). L'esclusione del- l’accidentalità
serve, come Aristotele stesso spiega, a distinguere l’opera della N. da quella
dell’uomo.
La N. può anche essere la materia se si
ammette, come facevano i Presocratici, che la materia ha in se stessa un
principio di movimento e di mutamento; ma è veramente questo principio, quindi
la forma o la sostanza della cosa, in virtù della quale la cosa stessa si
sviluppa e diviene -quella che è (Phys., II, 1, 193a 28 sgg.). Questo è il
motivo per cui la N. assume il significato di forma o sostanza o essenza
necessaria: una cosa possiede la sua N. quando ha raggiunto la sua forma,
quando è per- fetta nella sua sostanza. In conclusione, la migliore definizione
della N. è, secondo Aristotele, la se- guente: « La sostanza delle cose che
hanno il prin- cipio del movimento in se stesse »: a questa defini- zione
possono ricondursi tutti i significati del termine (Met., V, 4, 1015a 13). In
questo senso la N. è non solo causa, ma causa finale (Fis., II, 8, 199b 606 32).
La tesi del finalismo della N. si trova di regola congiunta con questo concetto
di essa. Tale concetto, che è poi la sintesi dei due concetti fondamentali
della metafisica aristotelica, quelli di sostanza e di causa, ha dominato per
lungo tempo nella speculazione occidentale e non è mai stato completamente
obliterato da concetti diversi e concorrenti. Per la sua causalità, la N. è lo
stesso potere creatore di Dio: è N. naturante. Ma poichè tale causalità è
inerente alle cose che produce, la N. è la totalità stessa di queste cose, è N.
narurata. Questa distinzione che si trova in Scoto Eriugena senza però i
termini relativi (De divis. nar., III, 1), veniva introdotta nella scolastica
latina da Averroè (De Cael., I, 1) e largamente accettata (cfr. S. ToM- MASO,
S. Th., II, 1, q. 85, a. 6). Spinoza non faceva che riesporla quasi negli
stessi termini (Er., I, 29 Schol.). A questa distinzione, precisamente al concetto
di N. naturata, si connette l’altro significato subordinato, quello della N.
come l’universo o il complesso delle cose naturali: concetto che coesiste (perchè
ne è il risultato) con quello della N. come principio di movimento; e coesiste
anche, come si vedrà, con quello della N. come ordine perchè designa in questo
secondo caso, la N. « materiale » (materialiter spectata). L’esaltazione
speculativa che della N. fece il naturalismo del Rinascimento fa appello al
concetto della N. naturante o universale. Nicolò Cusano diceva: « È lo Spirito
diffuso e contratto per tutto l’universo e per tutte le sue singole parti, che
si chiama N. La N. è perciò, in qualche modo, la com- plicazione di tutte le
cose che si generano attraverso Il movimento » (De docta ignor., II, 10). E
Giordano Bruno affermava: «La N. o è Dio stesso o è la virtù divina che si
manifesta nelle cose» (Summa Terminorum, in Op. latine, IV, 101). Nello stesso senso
Spinoza identificava la N. con Dio (Et., I, 29, Schol.). E questo concetto
della N. permaneva nel *700 e veniva riaffermato da Wolff (Cosm., $ 503-506) e
da Baumgarten (Mer., $ 430). Quando nello stesso secolo, si cominciò a
contrapporre la N. all’uomo e si bandì il «ritorno alla N.», la N. cui si fece
appello è ancora quella del vecchio concetto aristotelico: un principio
direttivo insito nell'uomo sotto forma di istinto. Tale fu il concetto che
della N. ebbe Rousseau (De /’inégalité parmi les hommes, I). Questo concetto è
ormai passato nel patrimonio delle credenze comuni del nostro mondo; e perciò
spesso fa capolino, senza farsi notare, nelle più elaborate concezioni
filosofiche. Come si è visto, esso comprende tre concetti coordinati o
equipollenti: a) la N. come causa (efficiente e finale); 2) la N. come sostanza
o essenza necessaria; c) la N. come totalità delle cose. NATURA 2° La seconda
concezione fondamentale della N. è quella che la intende come ordine e
necessità. L’origine di questa concezione è negli Stoici. Essi dicevano che «la
N. è la disposizione a muoversi da sè secondo le ragioni seminali, disposizione
che porta a compimento e tiene insieme tutte le cose che da essa nascono a
determinati tempi e coincide con le cose stesse dalle quali si distingue » (Dioa.
L., VII, 1, 148). In questa definizione viene accentuata la regolarità e
l'ordine del divenire
al quale la N. presiede. A questo
concetto di N. si connette la nozione di legge naturale, che ha avuto per tutta
l’antichità e sino al sec. xrx un’im-portanza grandissima nella morale e nel
diritto (v.). Difatti la legge di N. è la regola di comportamento che l’ordine
del mondo esige sia rispettata dagli esseri viventi, regola la cui
realizzazione, secondo gli Stoici, era affidata o all’istinto (negli animali) o
alla ragione (nell'uomo) (Diog. L., VII, 1, 85). L’aristotelismo del
Rinascimento riprende il con- cetto della N. come ordine. Nel De Fato Pietro Pomponazzi
difendeva esplicitamente, nel xvI secolo, il fato stoico, cioè la necessità
assoluta dell’ordine cosmico stabilito da Dio. E il pensiero che è alla base
delle prime manifestazioni della scienza mo- derna cioè dell’opera di Leonardo,
Copernico, Keplero e Galileo è quello di un ordine necessario, di carattere
matematico, che la scienza deve rintrac- ciare e descrivere. «La necessità,
diceva Leonardo, è tema e inventrice della N., e freno e regola eterna» (Works,
ed. Richter, n. 1135). Galileo a sua volta riteneva che la N. è l’ordine
dell’universo, un ordine che è unico e non è mai stato nè sarà diverso (Op., VII,
pag. 700). L°’insistenza sulla natura come ordine e necessità si accompagna
alla negazione del finalismo della natura stessa che è invece la carat-
teristica della prima concezione (v. FINALISMO). Questo concetto della N. è
rimasto a fondamento della scienza moderna in tutto il suo periodo classico. «
La N. è assai consonante e conforme a se stessa » diceva Newton (Opricks, 1704,
III, 1, q.31): ma fu Boyle che su questo punto ebbe le idee più chiare
affermando esplicitamente: « La N. non dev'essere considerata come un agente
distinto e separato, ma come una regola o piuttosto come un sistema di regole,
secondo le quali gli agenti naturali e i corpi su cui essi operano sono
determinati dal Grande Autore delle cose ad agire e a patire». Fu questa la
concezione della N. accettata da Kant. «Con l’espressione ‘ N.’ (in senso
empirico) inten- diamo la connessione dei fenomeni, per la loro esistenza
secondo regole necessarie o leggi. Vi sono dunque certe leggi, e leggi a
priori, che rendono prima di tutto possibile una N.; le leggi empiriche possono
esserci ed essere scoperte solo mediante l’esperienza, perciò in seguito a
quelle leggi origi- NATURA narie per cui comincia ad essere possibile l’espe- rienza
stessa» (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. II, sez. 3, Terza analogia).
Altrove, Kant distingue la N. materialiter spectata dalla N. formaliter
spectata: la prima sarebbe «l’insieme di tutti i fenomeni »; la seconda sarebbe
« la regola- rità dei fenomeni nello spazio e nel tempo +» (/bid., $ 26). Ma la
prima non è altro che il materiale cui si applica la seconda e il concetto
della N. rimane pertanto quello di una regolarità dovuta a leggi {Prol., $ 14).
Questa dottrina è stata ripetuta nume- rose volte nella filosofia moderna e
contemporanea. Fra gli ultimi che la ripetono si può ricordare Whitehead, che
intende per N. «un complesso di enti in relazione » dove l’enfasi è posta sulla
relazione, e che attribuisce alla filosofia naturale il compito di «studiare
come si connettano i vari elementi della N. » (The Concept of Nature, 1920,
cap. I-II; trad. ital., pag. 13, 28). 3° La terza concezione della N. è quella
che l’intende come la manifestazione dello spirito o come uno spirito diminuito
o imperfetto, reso « esterno » o « accidentale » o « meccanico » cioè de- gradato
dai suoi veri caratteri. Questa concezione si trova espressa chiaramente in
Plotino. « La sag- gezza, egli dice, è il primo termine, la N. è l’ultimo. La
N. è l’immagine della saggezza ed è l’ultima parte dell’anima: come tale non ha
in sè che gli ultimi riflessi della ragione... L'intelligenza ha in sè ogni
cosa, l’anima dell’universo riceve le cose eternamente e essa è la vita e
l’eterna manifesta- zione dell’intelletto; ma la N. è il riflesso del- l’anima
nella materia. In essa, o anche prima di essa, la realtà finisce giacchè essa è
il termine del mondo intellegibile: oltre di essa, non ci sono che imitazioni »
(Enn., IV, 4, 13). Che la N. sia la manifestazione, nel senso di «
esteriorizzazione ?, con ciò che di diminuito o degradato ha l’esterio- rità di
fronte all’interiorità della coscienza, è il concetto della N. che è stato
condiviso (e con- tinua ad esserlo) da tutte le metafisiche spirituali- stiche.
Esso viene ripreso dalla teosofia rinasci- mentale, e si trova, per es.,
espresso da Jakob Bohme (De signatura rerum, TX). Ma fu il roman- ticismo che
soprattutto lo amplificò e diffuse. Diceva Novalis: « Che cosa è la N. se non
l’indice enciclopedico sistematico o il piano del nostro spirito? » (Fragmente,
n. 1384). E Hegel esprimeva nel modo più rigoroso e completo questo stesso concetto.
« La N., egli diceva, è l’idea nella forma dell’essere altro » cioè della
«esteriorità» (Erc., $ 247). Come tale essa non mostra, nella sua esi- stenza,
libertà alcuna ma solo necessità e acciden- talità. Pertanto « nella N., non
solo il gioco delle forme è in preda a una accidentalità sregolata e sfrenata;
ma ogni forma manca per sè del con- 607 cetto di se stessa». Hegel riconosce
che la N. è soggetta a «leggi eterne » ma questo non la salva: la N. è peggiore
del male. « Quando l’accidentalità spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male,
perfino il male è qualcosa di infinitamente più alto che non i moti regolari
degli astri e l’innocenza delle piante; perchè colui che così erra è pur sempre
spirito » (Ibid., $ 248). È ben vero che non tutta la filosofia romantica
condivise la condanna hege- liana della natura. Schelling fu portato piuttosto
a esaltare la N. stessa, a considerarla come parte o elemento della vita
divina. In uno scritto del 1806, egli rimproverava a Fichte di considerare la
N. o col sentimento del più rozzo e pazzo asceta, cioè come un puro nulla, o da
un punto di vista pu- ramente meccanico e utilitario, cioè come uno strumento
di cui l’Io assoluto si serva per realiz- zare se stesso (Werke, I, VII, pag.
94, 103). E in realtà nel considerare la N. come manifestazione dell’Assoluto,
Schelling non insisteva tanto sulla inferiorità della manifestazione rispetto
al Prin- cipio manifestantesi, quanto piuttosto sulla stretta relazione tra i
due. Questa è l’altra alternativa offerta dalla concezione della N. di cui qui
trat- tiamo. Si può infatti da un lato insistere sugli aspetti per cui la N. si
distingue dallo spirito e in qualche modo si contrappone ad esso, cioè sul- l’esteriorità,
l’accidentalità, il meccanismo. Ma si può anche, dall’altro lato, insistere
sull’aspetto per cui la N., come manifestazione dello spirito, pre- senta i
suoi stessi caratteri sostanziali. Così ha fatto Schelling. Ma più
frequentemente prevale la prima alternativa. Lo spiritualismo francese del secolo
scorso ha condiviso quasi unanimemente la tesi che Ravaisson esprimeva alla
fine del Rapport sur la philosophie en France au XIX° siècle (1868), e cioè che
la N. sia il degradarsi in meccanismo e necessità di un Principio spirituale
che è spon- taneità e libertà. Questa concezione è stata fatta prevalere anche
nello spiritualismo del nostro se- colo da Bergson. La N., come esteriorità o
spa- zialità, è una degradazione dello spirito. Così Bergson espone il progetto
di una teoria della co- noscenza della N.: « Bisognerebbe, con uno sforzo sui
generis dello spirito, seguire la progressione o piuttosto la regressione
dell’extra-spaziale degra- dantesi in
spazialità. Situandoci dapprima nel punto più alto della nostra propria
coscienza per lasciarci poi cadere a poco a poco, noi abbiamo il senti- mento
che il nostro io si estenda in ricordi inerti esteriorizzati gli uni rispetto
agli altri, in luogo di tendersi in un volere indivisibile ed agente. Ma questo
è solo l’inizio, ecc. + (Évol. Créatr., 11 ediz., 1911, pag. 226). Lo stesso
senso di degradazione ha la N. nella filosofia di Gentile per il quale essa è
il « passato dello spirito» ed è perciò un limite 608 astratto che lo spirito
ricomprende in sè e « signo- reggia » (Teoria generale dello spirito, XVI, 18).
4° La quarta concezione della N. è quella che si può intravvedere come
presupposta o implicita nelle operazioni effettive della ricerca scientifica e in
alcune analisi della metodologia scientifica con- temporanea. Per essa la N. è
definita in termini di campo (v.) e più precisamente è il campo cui fanno
riferimento e in cui si incontrano (o talora si scontrano) le tecniche
percettive e di osservazione di cui l’uomo dispone; delle quali le prime non sono
meno complesse delle seconde, nonostante che appaiano « naturali» cioè tali da
poter essere messe in opera senza il concorso di progetti deli- berati. Alle
tecniche percettive fa costante riferi- mento l’arte che dà sempre qualcosa da
« vedere » o da «sentire» anche quando pretende di essere « astratta » e di
prescindere perciò dalle forme che sono comunemente offerte dalla percezione
comune. Alle tecniche osservative fa riferimento la scienza naturale che, pur
iniziando il suo lavoro dalla per- cezione, se ne allontana rapidamente sia nei
suoi strumenti di osservazione sia negli oggetti che riesce a individuare (per
es., « massa», «energia», «elet- troni +, « fotoni », ecc.) alcuni dei quali si
compor- tano molto diversamente dalle «cose» che sono l'oggetto della
percezione comune. Il campo og- gettivo cui fanno riferimento sia i vari modi
del percepire comune sia i vari modi dell’osservazione scientifica, così come è
intesa e praticata nelle varie branche della scienza naturale, si può inten- dere
oggi come « N. ». In questo senso la N. non si identifica con un principio o
con un'apparenza
metafisica nè con un determinato sistema
di con- nessioni necessarie; ma può essere determinata, a ogni fase dello
sviluppo culturale dell'umanità, come la sfera degli oggetti possibili di
riferimento delle tecniche di osservazione di cui l’umanità è in pos- sesso. Si
tratta, come è ovvio, di una concezione non dogmatica ma funzionale, che non è
stata finora fatta oggetto di indagini metodologiche suf- ficienti alla sua
chiarificazione, ma che sembra tut- tavia richiesta dalla fase attuale della
metodologia scientifica. NATURA, FILOSOFIA DELLA (inglese Philosophy of Nature;
franc. Philosophie de la nature; ted. Naturphilosophie). Questa espressione, in
quanto diversa da quella tradizionale « filosofia naturale » che designa la
fisica o la scienza naturale in generale, è stata per la prima volta adoperata da
Kant per designare una disciplina nettamente distinta dalla scienza stessa. Per
filosofia della N. o metafisica della N., Kant intese infatti la disci- plina
che « abbraccia tutti i princìpi razionali puri derivanti da semplici concetti
(quindi con esclusione della matematica) della conoscenza teoretica di NATURA,
FILOSOFIA DELLA tutte le cose» (Crit. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap.
III. Così intesa la filosofia della N. è una delle due parti fondamentali della
filosofia, di cui l’altra è la filosofia morale; e comprende solo i princìpi a
priori su cui è fondata la co- noscenza della N., cioè i fondamenti della
fisica e delle altre scienze teoretiche della N., ma non già le leggi, che è
compito della fisica rintrac- ciare nella N. stessa (/bid.; cfr. Crit. del
Giud., Intr., I. Dopo di Kant l’espressione filosofia della natura è rimasta a
designare una disciplina che ha per oggetto la N. ma non è la scienza. Così la
filosofia della N. fu intesa da Schelling che a questa disci- plina dedicò la
maggior parte della sua attività. Schelling riteneva che la scienza fondata
sull’in- dagine sperimentale non è mai veramente scienza. La natura infatti è a
priori nel senso che le sue singole manifestazioni sono determinate in anticipo
dalla sua totalità, cioè dall'idea di una N. in generale (Werke, I, III, pag.
279). Sostanzialmente, il compito della filosofia della N. è quello di mostrare
come la N. si risolva nello spirito (System des transzendenta- len Idealismus,
$ 1). Tale compito è rimasto proprio di essa in tutte le manifestazioni che
ebbe nel corso del sec. xx: manifestazioni che, in buona parte, si ispirarono a
Hegel. Hegel considerò la filosofia della N. come una delle tre grandi
partizioni della filosofia che risulterebbe costituita, oltre che da essa,
dalla logica e dalla filosofia dello spirito. La logica sarebbe il sistema delle
pure determinazioni del pensiero. La filosofia della N. e la filosofia dello
spirito sarebbero entrambe una logica appli- cata; e in particolare la
filosofia della N. avrebbe il compito « di portare le vere forme del concetto,
immanenti nelle cose naturali, alla coscienza » (System der Phil., ed.
Glockner, I, pag. 87-88). La filosofia della N. così intesa non è che la mani-
polazione arbitraria di concetti scientifici, avulsi dai loro contesti, al fine
di ridurli a determinazioni razionali o pseudorazionali. E tale essa è rimasta
anche quando si è voluta sottrarre all'impostazione idealistica ed è stata
trattata da un punto di vista realistico, come ha fatto Nicolai Hartmann. La Filosofia
della natura (1950) di quest’ultimo, conserva infatti la pretesa di scorgere o
riconoscere il valore « metafisico» o «ontologico» dei risultati della scienza.
Compito della filosofia della N. dovrebbe essere l’analisi categoriale dei
concetti scientifici. « Ciò che propriamente sono l'estensione, la durata, la
forza, la massa, non può dirlo il pensiero mate- matico, afferma Hartmann. A
questo punto s'inse- risce l’analisi categoriale: i portatori o substrati della
quantità sono ciò con cui si connettono i problemi metafisici di fondo della
filosofia della N. » (Philosophie der Natur, pag. 22). NATURA, STATO DI Si può
dire che l'ultimo e più ristretto concetto di filosofia della N. sia quello
presentato dai componenti del Circolo di Vienna, agli albori dell’empirismo
logico. M. Schlick considerava la filosofia della N. come l’analisi del
significato delle proposizioni proprie delle scienze naturali. Da questo punto
di vista, egli diceva, «la filosofia della natura non è scienza essa stessa, ma
un'atti- vità diretta alla considerazione del significato delle leggi di N.»
(Philosophy of Nature; trad. ingl., 1949, pag. 3). In questo concetto c'è
ancora qualche traccia della filosofia come « visione del mondo » o sintesi dei
risultati più generali delle scienze parti- colari. La metodologia
contemporanea ha invece sempre più sottolineato l'illegittimità di astrarre le
proposizioni della scienza dei loro contesti e di trovare in esse significati
che vadano al di là di quanto i contesti stessi autorizzano. Da questa
limitazione metodologica, il compito di una filosofia della N. viene tagliato
alla base. E tutto ciò che (oltre la pretesa di elaborare una metafisica della
N. o una metafisica fondata sulle scienze naturali) essa legit- timamente
comprendeva, cioè i problemi concer- nenti il linguaggio scientifico in
generale e i lin- guaggi delle singole scienze, i rapporti tra le scienze, Io
studio comparativo dei loro me- todi, ecc., trova posto oggi nel seno della
meto- dologia delle scienze. NATURALE (gr. quowxéc; lat. Naturalis; in- glese
Natural; franc. Naturel; ted. Natbrlich). Gli usi di questo aggettivo
corrispondono agli usi fon- damentali del termine narura. 1.
Corrispondentemente al primo significato, N. è ciò che è prodotto dal principio
del movimento oppure ciò che si produce da sé o spontanea- mente. In questo
senso si è parlato di « diritto N.» che è il diritto che consiste nel
conformarsi all’or- dine spontaneo della natura: o di «religione N.» che è la
religione rivelata all’uomo dalla natura o attraverso la natura cioè attraverso
la ragione o il cuore dell’uomo. 2. Corrispondentemente al secondo significato di
natura, si dice N. ciò che rientra nell'ordine ne- cessario della natura, in
quanto si distingue dal- l’ordine soprannaturale, voluto o stabilito diretta- mente
da Dio. Nell’ambito di entrambi questi significati N. si contrappone anche ad
artificiale, in quanto è ciò che è prodotto dalla causalità della natura, fuori
dell’arbitrio umano. 3. Corrispondentemente al terzo significato di natura si
parla, ad es., di «cose N.» per dire « cose esterne» e di «causalità N.» per
dire « causalità esterna ». 4. Le scienze N. si dicono oggi tali soprattutto in
corrispondenza al significato 4 di natura. 39 — ABBAGNANO, Dizionario di
filosofia. 609 NATURALISMO (ingl. Naturalism; franc. Na- turalisme; ted.
Naturalismus). Il termine ha tre significati diversi. Indica cioè: 1° La
dottrina che ritiene che i poteri naturali della ragione sono più efficaci di
quelli che la filosofia produce o promuove nell’uomo. In questo senso Kant
diceva: «Il naturalista della ragion pura assume per principio che per mezzo
della ragione comune senza scienza (che egli chiama ‘sana ragione ’) si può,
rispetto alle questioni più alte che costituiscono il compito della metafisica,
conchiudere di più che per mezzo della specula- zione. Afferma quindi che si
può determinare con maggior sicurezza la grandezza e la distanza della luna ad
occhio anzichè per mezzo della matematica » (Crit. R. Pura, Dottrina del
metodo, cap. IV). 2° La dottrina che nulla esiste fuori della na- tura, e che
Dio stesso è solo il principio di mo- vimento delle cose naturali. In questo
senso, che è il più diffuso nella terminologia contemporanea, si parla del « N.
del Rinascimento o del « N. antico » o del «N. materialistico +, ecc. 3° La
negazione di ogni distinzione tra natura e soprannatura e la tesi che l’uomo
può e deve essere compreso, in tutte le sue manifestazioni, anche in quelle
ritenute più alte (diritto, morale, religione, ecc.) solo nel rapporto con le
cose e gli esseri del mondo naturale e sulla base degli stessi concetti
utilizzati dalle scienze per la spie- gazione di essi. In questo senso il
naturalismo è inteso da molti filosofi americani (Santayana, Woodbridge, Cohen)
e dallo stesso Dewey (Expe- rience and Nature, cap. Ill, e passim). NATURA, SCIENZE DELLA. V. SCIENZE,
CLASSIFICAZIONE DELLE. NATURA, STATO DI
(ingl. State of Nature; franc. État de nature; ted. Naturzustand).
La condi- zione dell’uomo, anteriormente alla costituzione della società
civile, secondo la dottrina del contrat- tualismo (v.). Già in Platone, nel III
Libro delle Leggi, c'è la nozione della condizione in cui gli uomini vennero a
trovarsi dopo che immani cata- strofi ebbero distrutte le città: « Questa, dice
Platone, è la condizione degli uomini dopo che è avvenuta la catastrofe: una
sconfinata paurosa solitudine, la terra immensa e abbandonata, periti quasi
tutti gli animali e i bovini e solo qualche gruppo di capre è rimasto ai
pastori, come misero resto, per ricominciare la vita» (Leggi, III, 677e).
Questa non è la descrizione di una condizione idilliaca: come non fu idilliaca
la condizione che Hobbes ritenne propria dello stato di N.: quella della guerra
di tutti contro tutti: « Intanto che gli uomini vivono senza un potere comune
cui siano soggetti, diceva Hobbes, si trovano nella condizione che chiamiamo 610
di guerra e tale guerra è di ogni uomo contro l’altro uomo » (Leviath., I, 13).
Ciò accade perchè gli uomini, essendo per N. uguali, hanno anche gli stessi
desideri; e desiderando le stesse cose cercano di soverchiarsi a vicenda
(/bid.). La fondazione dello stato, cioè di un potere sovrano, è il solo mezzo
per uscire dalla condizione di guerra propria dello stato di natura. Dall'altro
lato, già Seneca, nell’antichità, esal- tava lo stato di N. come una condizione
per- fetta del genere umano. Nella novantesima Lettera a Lucilio, Seneca
descrive l’età dell’oro in cui gli uomini erano innocenti e felici e vivevano
semplice- mente, senza cercar il superfluo. Inoltre non avevano bisogno di
governo e di leggi perchè obbedivano volentieri ai più saggi. Ma ad un certo
punto, il progresso stesso delle arti portò l’avidità e la corru- zione contro
le quali si rese necessaria l’istituzione dello stato. — L’esaltazione dello
stato di N. divenne un tema ricorrente nella filosofia del ‘700 e trovò la sua
massima espressione nell’opera di Rousseau. Locke aveva già considerato, in
polemica con Hobbes, lo stato di N. come uno stato di perfezione. Esso, aveva
detto, è «uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e
disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio,
entro i limiti della legge di N., senza chiedere permesso o dipendere dalla
volontà di nessun’altro » (Second Treatise On Governement, II, 4). Ma è stato sopratutto
Rousseau ad esaltare la perfezione dello stato di N. sul fondamento che in
quella condizione l'uomo obbedisce soltanto all’istinto, che è infal- libile
(De l’inégalité parmi les hommes, I). «Tutto è perfetto quello che esce dalle
mani del Creatore, tutto traligna nelle mani dell'uomo »: così Rousseau cominciava
il suo Emilio. In Rousseau stesso, d'altronde, questa esaltazione dello stato
di N. contrasta col valore riconosciuto allo stato civile fondato sul contratto
sociale; ed in realtà la nozione dello stato di N. costituisce per Rousseau il
criterio o la norma con cui giudicare la società presente e delineare un ideale
di progresso. Dopo Rousseau, già Kant intendeva per stato di N.« quello in cui
non c’è alcuna giustizia distributiva » (Mer. der Sitten, I, $ 41). Ed Hegel
mostrava l’equivoco per cui era stato inventato lo stato di N. come una condi- zione
di fatto nella quale valesse il diritto naturale, equivoco dovuto al fatto che
si interpretava l’espres- sione «diritto naturale» nel senso di diritto esistente
in N. piuttosto che diritto determinato dalla N. della cosa (Enc., $ 502). Da
Hegel in poi, la nozione di stato di N. ha cessato di interessare i filosofi. È
rimasta tuttavia una nozione cui volen- tieri fa appello l’uomo comune o che
viene utiliz- zata dalle dottrine politiche utopistiche: le quali spesso
proiettano lo stato di N. come una perfezione NATURISMO dell’avvenire, e così
fanno pure, talora, le immagina- zioni romanzesche della fantascienza. NATURISMO
(ingl. Naturism; franc. Natu- risme; ted. Naturismus). 1. La dottrina, o la
cre- denza, che la natura sia la guida infallibile per la salute fisica e
mentale dell’uomo e che pertanto a tale guida l’uomo debba « ritornare », nei
suoi com- portamenti e costumi, allontanandosi dalle crea- zioni artificiali
della società. Questa dottrina è alla base di molte pratiche e credenze
popolari del mondo contemporaneo, dopo essere stata (nel *700) dottrina
filosofica (v. NATURA, STATO DI). 2. Meno propriamente: culto religioso della
na- tura. NAUSEA (ingl. Nausea; franc. Nausée; te- desco Ekel). L'esperienza
emotiva della gratuità dell’esistenza cioè della perfetta equivalenza delle possibilità
esistenziali. La nozione è stata intro- dotta nella filosofia da Sartre e da
lui illustrata soprattutto nel romanzo intitolato La nausea. NAZIONALISMO
(ingl. Nazionalism; fran- cese Nationalisme; ted. Nationalismus). Il concetto di
nazione cominciò a formarsi a partire da quello di popolo, che aveva dominato
nella filosofia po- litica del sec. xvi, quando si accentuò, in questo concetto,
l’importanza dei fattori naturali e tradi- zionali a scapito di quelli
volontari. Il popolo (v.) è costituito essenzialmente dalla volontà comune, che
è la base del patto originario; la nazione è costituita essenzialmente da
legami indipendenti dalla volontà dei singoli: la razza, la religione, la lingua
e tutti gli altri elementi che possono essere compresi sotto il nome di
«tradizione». A diffe- renza del « popolo», che non c’è se non per la deliberata
volontà dei suoi membri e come effetto di questa volontà, la nazione non ha
niente a che fare con la volontà degli individui: è un destino che incombe
sugli individui, e al quale questi non possono sottrarsi senza tradimento. In
questi ter- mini la nazione cominciò ad essere concepita chia- ramente soltanto
ai primi dell’800; e la nascita del concetto coincide con la nascita di quella
fede nei geni nazionali e nei destini di una singola nazione che si chiama
nazionalismo. Il concetto di popolo rimaneva legato agli ideali cosmopolitici
del ’700. Ma già in Rousseau si trova la condanna di questi ideali:
l’attaccamento di Rousseau al concetto dello stato-città, quale si era realizzato
nella Grecia antica, lo portava a con- dannare l’universalismo settecentesco.
Nello stesso tempo, questo attaccamento, anacronistico come era, lo conduceva a
esaltare il valore dello stato nazionale. « Sono le istituzioni nazionali, egli
diceva, che formano il genio, il carattere, i gusti e i co- stumi di un popolo,
che lo fanno esser lui e non altro, che gli ispirano quell’ardente amor di
patria NECESSARIO 611 fondato su abitudini impossibili a sradicarsi, che lo
fanno morire di noia presso altri popoli, in mezzo a delizie di cui è privato
nel suo paese» (Considér. sur le gouvernement de Pologne, III). Ma fu
soprattutto nell’epoca della restaurazione post- napoleonica che il concetto
della nazione cominciò ad assumere importanza dominante come uno dei prodotti o
il prodotto fondamentale di quella « tra- dizione » alla quale, in quel periodo
si attribuiva l’origine e la conservazione di tutti i valori fon- damentali
dell’uomo. I Discorsi alla nazione tedesca (1808) di Fichte, che sono il primo
documento del nazionalismo tedesco, vedono nel popolo te- desco «il popolo che
solo ha diritto di chiamarsi il popolo senz’altra designazione, a differenza
dei rami che da lui si staccarono, come indica d’al- tronde di per sè la parola
tedesco » (Reden, VII); e vedevano assicurata dalla stessa provvidenza della storia
l’avvenire di questo popolo superiore. Con la nozione di «spirito di un popolo»
Hegel por- tava a compiuta elaborazione il concetto di na- zione. « Lo spirito
di un popolo, diceva Hegel, è un tutto concreto: dev'essere riconosciuto nella
sua determinatezza... Esso si sviluppa in tutte le azioni e in tutti gli
indirizzi di un popolo e si realizza sino a giungere a godere di sè e a
comprendere se stesso. Le sue manifestazioni sono religione, scienza, arte,
destini, eventi. Tutto questo, e non il modo in cui un popolo è determinato per
na- tura (come potrebbe suggerire la derivazione di natio da nasci) fornisce al
popolo il suo carattere » (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 42; tradu-
zione ital., I, pag. 49). Nello spirito
di un popolo si incarna, di volta in volta, lo Spirito del mondo, la Ragione
universale che presiede ai destini del mondo e determina la vittoria del popolo
che è la migliore incarnazione di se stessa. In questo concetto dello spirito
del popolo come incarnazione o manifestazione di Dio nel mondo e quindi del carattere
fatale e provvidenziale della vita storica della nazione, sono già compresi
tutti gli elementi del N. europeo del sec. xix e di qualsiasi nazio- nalismo. In
Italia, Mazzini cercò di conciliare gli ideali universalistici dell’illuminismo
col N.; e vide nella « missione » propria di una nazione il modo in cui essa
può servire il fine generale dell'umanità. Era questa una sintesi piuttosto
incoerente, ma che evitava quella esaltazione della forza che così spesso
doveva poi trovarsi nel N. europeo. Gian Domenico Romagnosi fu il primo a
fornire una teoria giuridica dello stato nazionale in questo senso (Della
costituzione di una monarchia nazio- nale rappresentativa, 1815): teoria che P.
S. Man- cini, assumeva più tardi a fondamento del diritto internazionale (Della
nazione come fondamento del diritto delle genti, 1851). In Francia l’affer- mazione
del N. si lega soprattutto all'opera dello storico Michelet che dava col libro
Le Peuple (1843) uno dei principali documenti del N. profe- tizzante. In
Germania, un altro storico, Treitschke, intraprendeva l’illustrazione e la
difesa del N. te- desco che rimase collegato, alla sua origine, con la politica
di forza di Bismarck e poi di Gu- glielmo II. In Russia infine Dostojewski si fece profeta del N.
russo (cfr. Hans KoHN, Prophets and Peoples, 1946; trad. ital., 1949; The Idea
of Natio- nalism, New York, 1944). Sia
la prima sia la seconda guerra mondiale sono state combattute sotto l’in- segna
del nazionalismo. La seconda è stata com- battuta sotto l’insegna di un N. che
aveva perso tutti i contatti con l’universalismo settecentesco e riconosceva
nella forza l’unico segno decisivo ac- cordato dalla Provvidenza storica alla
nazione da lei favorita. Quest’idea, che il fascismo italiano e il
nazional-socialismo germanico avevano fatta propria, non era un'idea nuova: era
la vecchia idea hegeliana e romantica del privilegio che lo Spirito del mondo
accorda alla nazione in cui di preferenza si incarna, giacchè l’unico segno di questo
privilegio è appunto la forza vittoriosa che tale nazione può esercitare sulle
altre. Questo N. profetico non abita più oggi i popoli europei che, dalla
lezione delle due guerre sono stati ricondotti agli ideali universalistici
dell’illuminismo: tende tuttavia ad affermarsi in altre regioni del globo terrestre,
alle quali si può solo augurare di far tesoro dell’esperienza culturale e
storica della
vecchia Europa. NECESSARIO (gr.
avayuatoc; lat. Necessarius; ingl. Necessary; franc. Nécessaire; ted.
Notwendig). Ciò che non può non essere; o che non può essere. Questa è la
definizione nominale tradizionale che costituisce anche una delle nozioni più
unifor- memente e saldamente stabilite nella tradizione filosofica. In tale
definizione «ciò che non può essere» è l’impossibile che è il contrario opposto
del N. ed è quindi anch’esso N. come il nero, che è il colore opposto al
bianco, è anch'esso colore. Il contraddittorio del N., cioè il non-N. è invece l’altra
modalità fondamentale, cioè il possibile (v.). Le discussioni logiche
contemporanee sul N., quando non equivalgono alla negazione, espressa o
implicita di questa nozione, non sono altro di regola, che la riespressione di
questa definizione in termini di convenzionalismo moderno. Il primo a dare
un’esauriente analisi di « N.» è stato Aristotele. Egli ha distinto: a) il N.
come condizione o concausa, per cui si dice ad es. che il cibo è N. alla vita o
la medicina alla salute o l'andare in un certo posto a riscuotere una certa
somma; b) il N. come forza o costrizione per cui si dice che 612 è N. ciò che
impedisce od ostacola l’azione di un istinto o una scelta; c) il N. come ciò
che non può essere altrimenti, che è il senso fondamentale del concetto. A
questo senso infatti si possono, secondo Aristotele, ridurre gli altri. « Ciò a
cui siamo costretti si dice che è N. quando una forza qualsiasi ci costringe a
fare o a subire qualcosa che è contro l'istinto, sicchè la necessità consiste
in questo caso nel non poter fare o subire altrimenti. Lo stesso vale per le
condizioni della vita e del bene: giacchè quando il bene, la vita o l’essere
non possono esserci senza alcune condizioni queste son dette necessarie e si
dice che la causa è la necessità stessa » (Met., V, 5, 1014b 35). Nel senso
fondamentale, le dimostrazioni sono necessarie perchè non possono concludere
altrimenti; e non possono concludere altrimenti perchè le premesse non possono
essere diverse da quelle che sono (/bid., 1015b 7). Il significato a) di N. è
quello che Aristotele designa altrove come necessità ipotetica: è la necessità che
si trova nelle cose naturali e precisamente nella loro materia in quanto
costituisce la condizione di esse (Fis., II, 9, 200a 30; De Somno, 455b 26; De
part. an., 639b 24, 642a 9). Già Platone aveva ammesso questa specie di
necessità, ritenen- dola come uno dei costituenti del mondo (insieme con
l'intelligenza) e identificandola con la materia (Tim., 47 d, sgg.). Aristotele
distingue infine ciò che è N. in virtù di una causa esterna e ciò che è a se
stesso la causa della propria necessità. Le cose semplici sono necessarie in
questo secondo senso e perciò lo sono in modo primario ed eminente (2bid., 1015
b 10). Ma il concetto della necessità è sempre quello. Queste notazioni sono
rimaste pressochè immutate per tutta la storia della filosofia. Gli Stoici
defi- nirono la necessità tenendo presente gli enunciati verbali più che le
condizioni di fatto; e dissero pertanto N. «ciò che è vero e non può rivelarsi falso
» (Droga. L., VII, 1, 75): dove il « non potersi rivelare falso » significa,
per ciò che è vero, il non poter essere altro. Nè mutano il concetto del N. le
distinzioni stabilite da San Tommaso in confor- mità della divisione
aristotelica delle quattro cause. San Tommaso enumera infatti: @) la necessità materiale
(o ex principio intrinseco) nel senso in cui si dice che «ogni cosa composta da
contrari è N. che si corrompa +; 5) la necessità formale, che è quella naturale
e assoluta, secondo la quale si dice che « è N. che un triangolo abbia i tre
angoli uguali a due retti »; c) la necessità finale o utilità secondo la quale
si dice che il cibo è N. alla vita o un cavallo al viaggio; d) la necessità
efficiente, o necessità di coazione, secondo la quale si è costretti da una
causa efficiente in modo tale che non si può agire altri- menti. In tutti i
casi, il N. rimane per San Tommaso NECESSARIO « ciò che non può non essere »
(S. 7h., I, q. 82, a. l;j De Ver., q.22, a. 5). È immediatamente evidente che
questa distinzione riproduce quella aristotelica. La necessità materiale e
quella finale sono la neces- sità ipotetica di Aristotele; la necessità di
coazione ha in Aristotele lo stesso nome e la necessità « natu- rale e assoluta
» è, per San Tommaso come per Aristotele, il significato fondamentale della
necessità. Queste distinzioni, talora indicate con altri nomi, sono rimaste le
stesse per lungo tempo, nella storia della filosofia. Gli Scolastici le
ripetono senza mu- tarle, come ripetono, anche quando ci credono poco, il
significato fondamentale di N. come ciò che non può essere altrimenti (cfr.,
ad. es., Gio- VANNI DI SALISBURY, Metalogicus, II, 13). Colui al quale si deve
la prevalenza del concetto di necessità in metafisica e in teologia, sia nella
scolastica araba sia nella scolastica cristiana, Avicenna, era partito dalla
distinzione aristotelica (Mer., V, 5, 1015 b 10, già cit.) tra ciò che è N. per
sè e ciò che è N. per altro (Mer., II, 1, 2): una distinzione che è alla base
della dottrina di Spinoza (Er., I, 33, scol. 1) ed è stata da allora in poi
ripetuta innumerevoli volte. Le prime novità concettuali, in questa storia uniforme,
sono la definizione della necessità logica e l’introduzione del concetto di
necessità morale da parte di Leibniz. Leibniz distinse: a) la necessità geometrica,
che è quella appartenente alle verità eterne «il cui opposto implica
contraddizione +; 5) la necessità fisica, che costituisce « l’ordine della natura
e consiste nelle regole del movimento e in qualche altra legge generale che è
piaciuto a Dio dare alle cose creandole +; c) la necessità morale che è «la
scelta del saggio, in quanto è degna della sua saggezza + cioè la scelta del «
meglio » (Tliéod., Disc., $ 2). La necessità fisica è fondata sulla neces- sità
morale (è stato Dio a scegliere le leggi della natura che costituiscono la
necessità fisica e la sua scelta è stata dettata dal fatto che erano le
migliori possibili); ed entrambe le necessità, la fisica e la morale, sono
dette da Leibniz ipotetiche; esse, egli afferma, non hanno niente a che fare
con la necessità assoluta, che è l'impossibilità del contrario (Nouv. Ess., II,
21, 13). Leibniz si avvale di questa distinzione per difendere la libertà di
Dio e quella dell’uomo e nello stesso tempo per salvare l’infal- ‘ libilità
della previsione divina: «La verità, che dice ch’io domani scriverò, non è
affatto necessaria. Ma supponiamo che Dio la preveda, è N. che essa si
verifichi: cioè è necessaria la conseguenza, che essa si realizzi, dal momento
che è stata prevista, essendo Dio infallibile: è ciò che si chiama una necessità
ipotetica » (Théod., I, $ 37; cfr. Discours de Mét., 13). La differenza tra
questa dottrina di Leibniz e quella tradizionale consiste in ciò che NECESSARIO
quest’ultima riconosceva come una specie di neces- sità, riconducibile al
significato fondamentale del termine, quella che Leibniz considera come libertà
e scelta: la necessità ipotetica. Leibniz ha, in altri termini, ristretto il
significato della necessità a quello che Aristotele e la tradizione
aristotelica consideravano come la necessità «primaria» o «assoluta » o
«naturale» e che Leibniz chiama «geometrica » o « metafisica ». La definizione
leib- niziana di questa necessità come « ciò il cui opposto è impossibile » 0 «
ciò il cui opposto è contraddit- torio» serve appunto a limitare l’estensione
di essa soltanto alle verità matematiche e a un ristretto numero di verità
metafisiche. Questo è il risultato importante e duraturo della introduzione del
con- cetto di necessità morale da parte di Leibniz. Quanto a questo concetto,
dal momento che esclude la necessità ed è la stessa definizione della deter- minazione
libera, ciò che gli si può obbiettare è l’improprietà del nome: esso non è per
nulla « necessità ». Tuttavia proprio come tipo o specie di necessità, esso
entrò nella filosofia del ’700, insieme con la distinzione delle forme del
necessario proposta da Leibniz. Wolff rielaborava infatti questa distin- zione
e a sua volta distingueva: a) l’assolutamente necessario, che è « ciò il cui
opposto è impossibile o implica contraddizione » (On., $ 279); 5) l’ipo- teticamente
N. che è «ciò il cui opposto implica contraddizione o è impossibile soltanto in
un'ipotesi data o sotto una determinata condizione» (Onf., $ 302); c) il
moralmente N., che è « ciò il cui opposto è moralmente impossibile » (Phil.
practica, I, $ 115). La differenza tra l’assolutamente N. e l’ipotetica- mente
N. consiste in questo: il primo esclude la contingenza e il secondo no (/bid.,
$ 317-18). A differenza di Leibniz, Wolff tuttavia non riduce la necessità
ipotetica alla necessità morale, cioè alla libertà, ma la identifica con quella
retta dal principio di ragion sufficiente cioè con la causalità (Ibid., $ 320
sgg.). Wolff stesso afferma che questa sua dottrina della necessità è identica
con quella tradizionale e in particolare con quella di San Tom- maso (/bid., $
327), cioè con la definizione del N. come ciò che non può essere altrimenti; ed
essa certamente lo è, salvo che per il riconoscimento della necessità morale.
Questa dottrina viene sem- plicemente riprodotta da Kant, che anch’egli distingue
«la necessità materiale nell’esistenza »
che consiste nella connessione causale, dalla necessità «formale e logica nella
connessione dei concetti » (Crit. R. Pura, Anal., II, cap. II, sez. 3,
Postulati del pensiero empirico); e distingue ancora da queste due specie di
necessità, la «necessità morale», come costrizione o obbligo, che è il dovere
(Crir. R. Prat., I, Libro I, cap. III; trad. ital., pag. 96). 613 La necessità
materiale è la necessità reale o ipotetica. Dice Kant: « Tutto ciò che accade è
ipoteticamente necessario; ecco un principio che subordina il mutamento nel
mondo ad una legge cioè a una regola dell’esistenza necessaria senza la quale
la natura non vi sarebbe» (Crit. R. Pura; l. c.). E in realtà la connessione
causale rimane per Kant «ipotetica » perchè Kant la considera aperta dai due
lati e non ritiene legittimo considerarla chiusa a formare una totalità o serie
assoluta. Ovvia- mente, se ciò avvenisse, la necessità ipotetica diverrebbe
necessità assoluta o geometrica. A sua volta Schopenhauer riteneva che la
necessità non avesse altro senso tranne che la « inevitabilità del- l’effetto
quando la causa è stata posta » e riteneva perfino contraddittorio parlare di
un essere « asso- lutamente necessario » cioè necessario senza con- dizioni
(Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, $ 49). Ma con
l’idealismo ro- mantico, proprio la necessità assoluta divenne la protagonista
della filosofia. Fichte affermava: « Qual- siasi cosa realmente esiste, esiste
per assoluta ne- cessità; ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui
esiste. È impossibile che non esista 0 che esista altrimenti da come è »
(Grundzilge des gegen- wdrtigen Zeitalters, 9). Assoluto voleva pure essere il
significato della necessità che Hegel difiniva come «unità di possibilità e
realtà»: definizione che esprime la presenza della totalità delle condizioni in
ogni momento del reale e quindi della piena e assoluta necessità del reale
stesso. « Quando si hanno tutte le condizioni, dice Hegel, la cosa deve
diventare reale » (Enc., $ 147). «Il N. è mediato per mezzo di un circolo di
circostanze: è così, perchè le circo- stanze sono così ed insieme è così
immediato, è così perchè è » (/bid., $ 149). In tal modo la ne- cessità diventa
l’anima della realtà, la dialestica (v.) propria della Ragione reale o della
Realtà razionale. Questa estensione all’infinito della necessità non innova,
come è ovvio, le caratteristiche del con- cetto, che rimane quello definito da
Aristotele; come non innova tali caratteristiche l’uso che del concetto fa il
filosofo contemporaneo che più ha insistito sulla necessità del reale, nei suoi
vari gradi e forme: Nicolai Hartmann (cfr. special- mente Mbglichkeit und
Wirklichkeit, 1938): (v. Pos- SIBILE). Possiamo ora dare uno sguardo alla sorte
che è toccata, nella filosofia contemporanea, alle tre forme del N. che sono
comunemente ammesse da Wolff in poi, dando atto che nessuna innovazione è stata
portata al concetto stesso del N.: 1° il moralmente N., cioè l’obbligatorio o
il doveroso, per quanto talvolta si continui a chia- marlo tale, non può essere
incluso nelle forme del necessario; 614 2° l’ipoteticamente N., identificandosi
con il causale (v.) o il condizionale (v.), condivide la sorte di questi
concetti; 3° l’assolutamente N., il N. « geometrico » o «logico » è quello al
quale si fa più frequente riferi- mento nel dominio del sapere filosofico e
scientifico. « C'è soltanto una necessità logica, dice Wittgenstein e così c’è
soltanto una impossibilità logica » (Tract. Logico-Philosophicus, 6.375). Quasi
tutti i logici contemporanei sottoscrivono o implicitamente ammettono, questa
tesi di Witt- genstein. Non c’è accordo tra essi, tuttavia, sulla definizione
della necessità logica; Le principali dottrine in proposito sono: a) la
dottrina dell’anali- ticità; b) la dottrina della regola; c) la dottrina dell’immunità;
d) la dottrina della qualità. a) La prima dottrina è l’erede della definizione leibniziana
della necessità logica come « impossibilità del contrario ». Peirce diceva che
il /ogicamente o essenzialmente N. è ciò che una persona che non conosce i
fatti ma è perfettamente a giorno delle regole del ragionamento e delle parole
implicite nel ragionamento stesso, sa che è vero. Una tale persona ad es. non
sa se c'è o no un animale detto basilisco 0 se vi sono cose come serpenti,
galline e uova; però sa che ogni basilisco è nato da un uovo di gallina covato
da un serpente. « Questo è essen- zialmente N. perchè è ciò che la parola
basilisco significa » (Coll. Pap., 4.67). Lewis a sua volta ha detto che
«un’asserzione è logicamente necessaria se, e solo se, il contraddittorio di
essa è incompatibile con se stesso » (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946,
pag. 89) che è nient'altro che una riformula- zione della definizione di
Leibniz. Strawson nello stesso senso ha detto « un'asserzione è necessaria quando
è la contraddittoria di un’asserzione incon- sistente » (Intr. to Logical
Theory, 1952, pag. 22). Carnap, osservando che il concetto di necessità logica
è comunemente inteso nel senso che si applica a una proposizione p «se e solo
se la verità di p è fondata su ragioni puramente logiche e non di- pendente
dalla contingenza dei fatti; o in altre parole se l’assunzione di non-p
condurrebbe a una contraddizione logica, indipendentemente dai fatti » ha
identificato la necessità logica con la verità logica; e ha definito la verità
logica, sulle orme di Leibniz, come quella che è valida in tutti i possibili mondi,
o, nella sua terminologia, è valida in qualsiasi descrizione di stato di un
sistema. La sua definizione della descrizione di stato rende chiaro questo con-
cetto: « Una classe di enunciati in .S,, che contiene per ogni enunciato
atomico o questo enunciato o la sua negazione ma non entrambe le cose, e nessun
altro enunciato, è chiamato una descrizione di stato in S,; perchè esso
ovviamente dà la completa descrizione di un possibile stato dell’universo degli
NECESSARIO individui rispetto a tutte le proprietà e relazioni espresse dai
predicati del sistema. Così le descrizioni di stato rappresentano i mondi
possibili di Leibniz o i possibili stati di cose di Wittgenstein » (Meaning and
Necessity, $ 2, $ 39). Questa è l’espressione più rigorosa che la tesi della
riduzione della necessità ad analiticità abbia mai ricevuto. Essa tuttavia non
è andata esente da critiche (cfr., ad es., QUINE, From a Logical Point of View,
II; A. Pap, Semantics and Necessary Truth, pag. 150 sgg.). b) La seconda
interpretazione della necessità logica è quella che riduce gli enunciati a cui
tale necessità si applica a semplici regole: o regole di trasformazione o, più
semplicemente, regole lingui- stiche. La dottrina che le «verità necessarie »
della matematica, per es. la famosa proposizione di cui Kant parlava «7 + 5=
12», siano nient’altro che regole di trasformazione cioè regole che permet- tono
l’inferenza da una formula all’altra e consen- tano pertanto la sostituibilità
reciproca delle for- mule, fu già esposta dal Circolo di Vienna e specialmente
da Schlick e ritorna frequentemente nella letteratura contemporanea (cfr., ad
es., K. BRITTON, in Proceedings of the Aristotelian So- clety, 21°, 1947). Come
pure ritorna in essa la dottrina che le proposizioni analitiche (o tauto- logie)
che costituiscono le « verità necessarie » della logica non sono altro che
regole linguistiche o più precisamente regole semantiche. Difatti l’enunciato «tutti
gli scapoli sono non sposati » può essere in- terpretata come una regola per
l’uso della parola « scapolo +, e una regola ricavata a sua volta dal- l’uso.
L’obiezione addotta talvolta contro queste dottrine che esse toglierebbero alla
verità N. il rango di « proposizioni +, perchè una proposizione è sempre o vera
o falsa mentre una regola non lo è, ma è piuttosto utile, conveniente,
corretta, ecc. (cfr., ad es., Pap, Op. cit., pag. 179 sgg.) non è molto
concludente perchè dimostra soltanto l’in- compatibilità tra questa
interpretazione della ve- rità N. e il concetto tradizionale di proposizione. c)
La terza interpretazione della necessità lo- gica è quella data da Quine,
secondo la quale essa sarebbe l’immunità accordata a certe propo- sizioni nella
matematica e nella logica in quanto, per il carattere centrale che occupano nel
sistema, la loro revisione disturberebbe enormemente il si- stema stesso, che
invece tendiamo, per quanto è possibile, a conservare nei tratti fondamentali.
Da questo punto di vista N. significherebbe non «ciò che non può essere
altrimenti » ma piuttosto « ciò di cui non si vuol fare a meno», non perchè sia
impossibile farne a meno, ma perchè è preferibile. Questa interpretazione è
fondata sul rigetto della distinzione tra verità analitiche (o di ragione) e verità
sintetiche (o di fatto) sulla quale si fondano NECESSITARISMO invece le
interpretazioni di cui in a) (QuINE, Methods of Logic, pag. XIII; From a Logical Point of
View, II e VIII. Questa interpretazione equivale ovviamente
alla eliminazione del concetto stesso di necessità. d) La quarta
interpretazione è quella che la considera come una proprietà intrinseca delle
pro- posizioni, considerate come oggetti, nel senso di Carnap: e precisamente
una proprietà che le pro- posizioni posseggono antecedentemente alla formu- lazione
delle convenzioni linguistiche. Da questo punto di vista «spiegare la necessità
dei princìpi tradizionali dell’inferenza deduttiva in termini di convenzioni
linguistiche significa porre il carro da- vanti ai buoi». Questa è la tesi di
A. Pap (Semantics and Necessary Truth, spec. cap. 7; cfr. anche « Ne- cessary
Propositions and Linguistics Rules», in Ar- chivio di Filosofia, 1955, pag.
63-105). In questa dottrina la necessità logica non si distingue da una qualitas
occulta. Di queste quattro interpretazioni la sola che non equivale alla
negazione della necessità stessa è la prima, che identifica la necessità con
l’analiticità o tautologicità. Si tratta di un’interpretazione che è collegata
strettamente con il concetto che Witt- genstein espose della tautologia: « Tra
i possibili gruppi di condizioni di verità si dànno due casi estremi. In uno,
la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità delle proposizioni
elementari; e noi diciamo in questo caso che le condizioni di verità sono
tautologiche. Nell’altro caso la propo- sizione è falsa per tutte le
possibilità di verità: le condizioni di verità sono contraddittorie »
(Tractatus, 4.46). Per conseguenza «la tautologia non ha con- dizione di verità
perchè è incondizionatamente vera; e la contraddizione a nessuna condizione è
vera » (Ibid., 4.461). Questo equivale a dire che un’affer- mazione
incondizionatamente vera cioè una tauto- logia o una proposizione N. o comunque
la si voglia chiamare, è quella che esaurisce il rango delle possibilità.
Questo è pure il significato della dottrina di Carnap della verità logica come
« de- scrizione di stato» cioè come verità valida per tutti i mondi possibili o
per tutti i possibili stati di cose. Da questo punto di vista c’è necessità dove
è possibile enumerare tutte le possibilità; e necessità equivale, praticamente,
a onnipossibilità. Questa d’altronde non è dottrina recente. Ockham, nel sec.
xIv riteneva N. soltanto le proposizioni condizionali o equivalenti o quelle
intorno al pos- sibile come, ad es., «Se c’è l’uomo, l’uomo è animale
ragionevole» o «Ogni uomo può essere
animale ragionevole » (Quodl., V, q. 15).
Poichè solo convenzioni linguistiche d’altra natura pos- sono limitare
opportunamente il rango di possibilità cui una proposizione fa riferimento, è
abbastanza 615 chiaro che questo concetto di necessità è intera- mente
riducibile a convenzione. NECESSITARISMO (ingl. Necessitarianism; franc.
Nécessitarisme). Questo termine, assai poco usato in italiano ma che ha in
inglese una lunga tradizione, è molto utile per indicare l’insieme delle dottrine
che, in un modo qualsiasi dànno un posto eminente al concetto del necessario o
si avvalgono sistematicamente di esso. Possono essere enumerate almeno tre
dottrine fondamentali di questo genere: 18 La dottrina che ammette il destino
cioè l’ordine finalistico o provvidenziale del mondo; cioè un ordine che
determina necessariamente ogni cosa e ad ogni cosa garantisce la riuscita
migliore. Questa dottrina può chiamarsi provvidenzialismo o fatalismo; ma
quest’ultimo nome è adoperato solo da coloro che la combattono o almeno che ne combattono
alcuni aspetti (v. DESTINO; FATO; ProvviIDENZA). Il significato di necessario
cui tale dottrina fa riferimento è quello a) di Aristotele e c) di S. Tommaso. 2*
La dottrina che l’ordine del mondo con- siste nella connessione causale
universale; dottrina che fa riferimento al necessario nel significato a) di
Aristotele, d) di S. Tommaso, 5) di
Leibniz, di Wolff e di Kant. Questa dottrina è il determinismo rigoroso o
classico, che meglio si dovrebbe chia- mare causalismo (v. CAUSALITÀ;
DETERMINISMO). 3» La dottrina che la necessità costituisce il significato
primario e fondamentale dell’essere; e che si avvale di esso come criterio per
la valuta- zione e l’analisi di tutte le cose esistenti. Questo significato di
N. è certamente il più importante e fondamentale, quello al quale il termine
dovrebbe di preferenza essere riferito. Il necessario è, per tale dottrina, la
categoria fondamentale; l’orizzonte generale che abbraccia tutti gli strumenti
di inda- gine e di spiegazione di cui è possibile servirsi. Molto spesso tale
dottrina non ammette la necessità nel senso delle dottrine 1* o 2: Aristotele e
S. Tommaso, ad es., che possono essere conside- rati come esempi molto
importanti di questa dot- trina, pur ammettendo la necessità del destino non ammettono
la necessità causale assoluta; tuttavia sono necessitaristi nel senso che per
essi il significato fondamentale dell’essere è la necessità e che tale significato
è presente nella costruzione di tutti i concetti fondamentali della loro
filosofia. Nello stesso senso è necessitaristica la dottrina di Hegel e sono
necessitaristiche tutte le dottrine che si ispirano all’idealismo romantico. Ma
l’attrezzatura concettuale del N. è diffusa molto al di là di questa o quella
dottrina: concetti comé quelli di causa e di sostanza, con tutte le loro
derivazioni, che sono mumerosissime, dominano ancora vaste zone del discorso
comune, scientifico e filosofico; e intro- 616 ducono il loro senso
necessitaristico nelle analisi della scienza e della filosofia. NEGATIVO (gr.
aroparéc; lat. Negativus; ingl. Negative; franc. Négatif; ted. Negativ). Ciò che
effettua o implica una negazione, cioè una esclusione di possibilità. Un’entità
N., per es., una proposizione, non implica che sussista l’entità po- sitiva
corrispondente alla quale poi venga ag- giunta la negazione, ma è semplicemente
l’esclu- sione di una possibilità; e, il più delle volte, di una possibilità
formulata soltanto allo scopo di escluderla. I molteplici usi del termine si
lasciano ricondurre a questo significato fondamentale. « Risultato N. + di un
esperimento significa l’esclusione di una certa possibilità di interpretazione
o di spiegazione. «Effetto N.» di una certa operazione significa l'esclusione
di ciò che ci si aspettava come pos- sibile dall’operazione stessa. «
Atteggiamento N.» nei confronti di una dottrina o di una cosa qual- siasi è
l’atteggiamento che esclude la possibilità che la dottrina sia vera o che la
cosa abbia un valore qualsiasi; ecc. NEGAZIONE (gr. &répaor; lat. Negatio;
in- glese Negation; franc. Négation; ted. Verneinung, Negation). Termine col
quale si può designare tanto l’atto del negare, quanto il contenuto ne- gato,
ossia la proposizione negativa, detta in greco &népao (lat. negario:
Boezio) e definita come «enunciato che divide qualcosa da qualcosa » (De Interpr.,
17 a 26), in quanto, secondo la medesima dottrina aristotelica, essa separa o
allontana due concetti. Sostanzialmente la tradizione logica suc- cessiva ha
conservato questa dottrina e quindi questo significato del termine N.: soltanto
i se- guaci della teoria del giudizio come assenso (Ro- smini, Fr. Brentano,
Husserl) considerano la N. come atto di diniego (rifiuto, ripudio, Verneinung) di
una rappresentazione o idea. Nella Logica sim- bolica contemporanea la N. è
rappresentata da un simbolo speciale (€ — +) che premesso al simbolo di una
proposizione « p + trasforma questa o nell'affer- mazione che «p» è falsa
(Russell) o in una nuova proposizione (molecolare), funzione di verità di « p
», e precisamente (nella Logica a due valori) nella proposizione che è falsa
quando «p + è vera e vera quando « p + è falsa (Wittgenstein, Carnap). G.P. NEOCRITICISMO
(ingl. Neo-Criticism; fran- cese Néocriticisme; ted. Neukantianismus). Il mo- vimento
del « ritorno a Kant » iniziatosi in Germania verso la metà del secolo scorso e
che ha dato ori- gine ad alcune tra le più importanti manifestazioni della
filosofia contemporanea. I tratti comuni di tutte le correnti del N. sono i
seguenti: 1° la negazione della metafisica e la riduzione della filo- sofia a
riflessione sulla scienza, cioè a teoria della NEGATIVO conoscenza; 2° la
distinzione tra l’aspetto psicolo- gico e l’aspetto logico-oggettivo della
conoscenza, distinzione in virtù della quale la validità di una conoscenza è
completamente indipendente dal modo in cui essa viene psicologicamente
acquisita o con- servata; 3° il tentativo di risalire dalle strutture della
scienza, sia di quella della natura sia quella dello spirito, alle strutture
del soggetto che la renderebbero possibile. In Germania, costituirono la
corrente neo- criticista: 1° la Scuola di Marburgo (Marburger Schule) alla
quale hanno appartenuto F. A. Lange, H. Cohen, P. Natorp, E. Cassirer, e alla
quale si riconnette, in parte, anche Nicolai Hartmann; 2° la Scuola del Baden
(Badische Schule), che fu fondata da W. Windelband e H. Rickert; 3° lo
storicismo tedesco con G. Simmel, G. Dilthey, E. Troeltsch, ecc. Quest’ultimo
indirizzo formulò il problema della storia analogamente al modo in cui le altre
scuole kantiane formulavano il problema della scienza na- turale (v.
SToRICISMO). Fuori della Germania, si connettono all’indirizzo neocritico C.
Renouvier e L. Brunschvicg, in Francia; e S. H. Hodgson e R. Adamson, in
Inghilterra; Banfi in Italia. NEOHEGELISMO (ingl. Neo-Hegelianism; franc.
Néo-Hégélianisme; ted. Neuhegelianismus). Il ritorno all’idealismo romantico
che si è verificato in Inghilterra, in Italia e in America negli ultimi decenni
del secolo scorso e nei primi del nostro secolo. Il N., come l’idealismo
romantico di cui è una diretta filiazione, ha come sua tesi fonda- mentale
l’identità del finito e dell’infinito cioè la riduzione dell’uomo e del mondo
dell’esperienza umana all’Assoluto. H necidealismo anglo-ameri- cano e il
neocidealismo italiano si distinguono tra loro per il modo in cui effettuano
questa riduzione. L’idealismo anglo-americano l’effettua per via ne- gativa,
mostrando che il finito, per la sua intrinseca irrazionalità, non è reale o è
reale solo nella mi- sura in cui rivela e manifesta l’infinito. L’idealismo italiano
la effettua per via positiva, mostrando nella struttura stessa del finito,
nella sua intrinseca e necessaria razionalità, la presenza e la realtà del- l'infinito.
Questa era stata anche la via tenuta da Hegel e da tutto l’idealismo romantico.
Alla corrente inglese appartengono G. H. Stirling, T. H. Green, B. Bosanquet,
J. E. McTaggart; e specialmente F. H. Bradley, che è il maggiore rappresentante
di essa. In America la maggiore figura del N. è stata J. Royce. Dell'idealismo
italiano i maggiori fappresentanti sono stati G. Gentile e B. Croce. Su tutti,
v. IDEALISMO. NEOIDEALISMO. V. NEOHEGELISMO. NEOKANTISMO. V. NEOCRITICISMO. NEOPITAGORISMO
(ingl. Neo-Pyrhago- reanism; franc. Néo-pythagorisme; ted. Neupythago- NEOREALISMO
reismus). La reviviscenza della filosofia pitagorica che si manifestò nel I
secolo a. C. sia con la com- parsa di scritti pitagorici di falsa attribuzione
(Derti Aurei, Simboli, Lettere, attribuiti a Pitagora), e di altri scritti
attribuiti al lucano Ocello e ad Ermete Trismegisto sia con una fioritura di
filosofi che dichiaravano di ispirarsi alle dottrine del pitago- rismo antico.
Fra essi: Nigidio Figulo, Apollonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa e soprattutto
Numenio di Apamea (1 sec. d. C.). Le dottrine di questi scrit- tori non hanno
nulla di originale ma presentano tratti che divennero propri del neoplatonismo
(v.). NEOPLATONISMO (ingl. Neo-Platonism; franc. Néo-platonisme; ted.
Neuplatonismus). La scuola filosofica fondata in Alessandria da Am- monio Sacca
nel 1 secolo d. C. e che ha come suoi maggiori rappresentanti Plotino,
Giamblico e Proclo. Il N. è una scolastica: è cioè l’utilizzazione della
filosofia platonica (filtrata attraverso il neo- pitagorismo, il platonismo
medio e Filone) per la difesa di verità religiose cioè di verità che si rite- nevano
rivelate all’uomo ab antiquo e da lui ri- scopribili nell'intimità della
coscienza. I capisaldi del N. sono i seguenti: 1° il carattere rivelativo della
verità, che perciò è di natura religiosa e si manifesta nelle istituzioni religiose
esistenti e nella riflessione dell’uomo su se stesso; 2° il carattere assoluto
della trascendenza di- vina, per il quale Dio, considerato come il Bene, è
posto al di là di ogni determinazione conoscibile e ritenuto ineffabile; 3° la
teoria dell’emanazione cioè della deriva- zione necessaria da Dio di tutte le
cose esistenti, che diventano sempre meno perfette a misura che si allontanano
da Lui; e la conseguente distinzione tra il mondo intelligibile (Dio,
Intelletto e Anima del mondo) e il mondo sensibile (o materiale) che è
un’immagine o parvenza dell’altro; 4° il ritorno del mondo a Dio attraverso
l’uomo e la sua progressiva interiorizzazione, sino al punto dell’estasi cioè
dell’unione con Dio. Nel N. si sogliono distinguere: la Scuola Siriaca fondata
da Giamblico; la Scuola di Pergamo alla quale appartenne fra gli altri
l’imperatore Giuliano detto l’Apostata; e la Scuola di Atene il cui maggiore rappresentante
fu Proclo. Ma le dottrine fonda- mentali del N. hanno avuto, e continuano ad
avere, un’influenza profonda su molti indirizzi del pen- siero filosofico. Il
«platonismo » del Rinascimento è in realtà un N. che ripete, con alcune
variazioni, le tesi su esposte. Le variazioni che caratterizzano il N. ri- nascimentale
(quello di Cusano, Pico e Ficino) sono relative alla maggiore importanza
attribuita all’uomo e alla sua funzione nel mondo, conformemente a 617 quello
che è lo spirito generale del Rinasci- mento (v.). Una forma di razionalismo
religioso è invece il N. inglese che fiorì nella scuola di Cambridge nel sec.
xv (Cudworth, Moore, Whichcote, Smith, Culverwel); che da un lato si oppone al
materia- lismo di Hobbes e dall’altro sostiene che le idee fondamentali della
religione sono state stampate direttamente da Dio nella ragione e
nell’intelletto dell’uomo e perciò precedono la conoscenza empi- rica delle
cose naturali. Ma anche nel N. inglese ritornano molti temi del N.
rinascimentale, special- mente di Ficino. NEOPOSITIVISMO (ingl. Neo-Positivism;
franc. Néo-positivisme; ted. Neupositivismus). 1. Lo stesso che empirismo
logico (v.). 2. Così talora è stato chiamato il bergsonismo (Le Roy, Un
positivisme nouveau, 1901). NEOREALISMO (ingl. New Realism; fran- cese
Néo-realisme; ted. Neurealismus). Con questo termine si designano le correnti
del pensiero con- temporaneo che assumono come loro insegna la negazione
dell’idealismo gnoseologico (v.) cioè la negazione della riduzione dell’oggetto
della cono- scenza a un modo d’essere del soggetto. L’idealismo gnoseologico è
stato il clima dominante della filo- sofia dell’800: giacchè esso era
partecipato non solo dall'idealismo romantico ma anche dallo spi- ritualismo,
dal neocriticismo e in generale da tutte le filosofie coscienzialistiche.
Eccezioni a questa tendenza generale furono dapprima la filosofia dell’immanenza
di G. Schuppe e l’opera di Osvaldo Kiilpe (Einleitung in die Philosophie,
1895). Ma una nuova storia cominciò per il realismo soltanto a partire dal
saggio di G. E. Moore, «La confuta- zione dell’idealismo » pubblicato nel Mind
del 1903. In seguito difendevano il realismo in Inghilterra B. Russell e S.
Alexander; mentre in America un volume collettivo del 1912 intitolato appunto
Il nuovo realismo affermava le tesi di un realismo aggiornato, tesi che sotto
altra forma venivano riproposte alcuni anni dopo nei Saggi di realismo critico
(1920) pubblicati da un altro gruppo di filosofi americani. Nel primo gruppo la
figura più nota fu quella di W. P. Montague; nel secondo gruppo quella di G.
Santayana. Più tardi il nuovo realismo ha trovato sostenitori in A. N.
Whitehead e in N. Hartmann. Il nuovo realismo presenta nel suo interno tanti indirizzi
dottrinali diversi quanti sono i filosofi che lo professano; ma si fonda
tuttavia su una tesi fondamentale comune che costituisce la sua novità e il suo
punto di distacco dal realismo tradizionale nonchè la sua linea di difesa
contro l’idealismo. Questa tesi è la seguente: il rapporto conoscitivo (cioè il
rapporto nel quale l’oggetto della cono- 618 scenza entra col soggetto, cioè
con la mente che lo apprende) non modifica la natura dell’oggetto stesso.
Questa tesi si ispira alla nozione matematica della «relazione esterna» cioè
della relazione che non modifica i termini relativi. Essa, come è ovvio, elimina
del tutto la dipendenza esistenziale o qua- litativa dell'oggetto della
conoscenza dal soggetto e rende privo di senso l’idealismo. Lontanissimi come
sono tra loro, sotto tutti gli altri rispetti, Moore, Montague, Santayana,
Alexander, Hart- mann, condividono questa tesi. NEOTOMISMO (ingl. Neo-Thomism; francese Néo-thomisme;
ted. Neuthomismus). Con questo termine
o con quello assai meno appropriato di « neoscolastica » s'intende quel
movimento di ri- torno alla dottrina di S. Tommaso, nel seno della cultura
cattolica, che fu iniziato dall’enciclica Ae- terni Patris di Leone XIII (4
agosto 1879). Questo movimento consiste nella difesa polemica delle tesi filosofiche
tomistiche contro i diversi indirizzi della filosofia contemporanea e,
indirettamente, nella rielaborazione e nel rammodernamento di tali tesi. Una
delle prime figure del N. fu quella del cardinale belga Desiderato Mercier
(morto nel 1925); mentre tra le figure più note del mondo contemporaneo ci sono
quelle di E. Gilson e di J. Maritain. Abitualmente il tomismo accetta la
problematica della filosofia contemporanea ma cerca di ricon- durre tale
problematica alla sistematica tomistica. Uno degli effetti più importanti della
fioritura neotomista è la rinnovata importanza che hanno assunto, a partire
dagli ultimi decenni del secolo scorso, gli studi di filosofia medievale cioè
della scolastica classica. NEOVITALISMO. V. ViraLISMO. NESSO (lat. Nexus; ingl.
Bond; franc. Con- nexion; ted. Zusammenhang). La
connessione delle cose tra di loro o nell’ordine causale o nell’ordine finale:
Kant chiama il primo nexus effectivus, il secondo nexus finalis (Crit. del
Giud., $ 87). White- head ha chiamato con questo termine (nexus) le connessioni
reali tra le cose, da lui conside- rate come elementi ultimi della realtà
insieme alle cose stesse e alle percezioni (Process and Reality, 1929). NESTORIANISMO
(ingl. Nestorianism; fran- cese Nestorianisme; ted. Nestorianismus). La dot- trina
di Nestorio, patriarca di Costantinopoli (428- 431) secondo la quale, essendoci
in Cristo due nature, ci sono anche due persone, di cui l’una abita nell’altra
come in un tempio. Nestorio negava pure che Maria fosse madre di Dio e diceva
favola pagana l’idea di un Dio ravvolto in fasce e crocifisso. Questa
interpretazione del- l'incarnazione era stata già sostenuta da Diodoro di Tarso
(morto verso il 394) e dal suo discepolo NEOTOMISMO Teodoro di Mopsuestia
(morto verso il 428). Essa fu condannata dal concilio di Efeso del 431 ma continuò
per lungo tempo a sopravvivere, e tut- tora sopravvive presso gruppi della
Turchia asiatica e della Persia. NEUTRALISMO (ingl. Neutralism). Termine adoperato
da Peirce come sinonimo di monismo (Chance, Love and Logic, II, 1; trad. ital.,
pa- gina 121) (v. MonISMO). NEUTRALIZZAZIONE (ted. Neutralisie- rung). Con
questo termine Husserl ha indicato la sospensione della credenza per la quale
«quello che è esistente o possibile o verosimile o discutibile, come pure il
non-esistente, in qualsiasi negazione o affermazione, sono presenti alla
coscienza ma non nella maniera del reale bensì come ‘ mero pen- sato * o ‘mero
pensiero * » (Ideen, I, $ 109) (vedi EPOCHÉ). NEUTRO, MONISMO (ingl. Neutral
Mo- nism). Con questa espressione viene talvolta in- dicata in America la tesi
del neorealismo se- condo la quale le entità che entrano a comporre lo spirito
e la materia non sono nè mentali nè materiali, ma acquistano tali qualifiche in
virtù delle relazioni in cui entrano. In realtà questo punto di vista è stato
per la prima volta sostenuto dall’empirio-criticismo (v.) di Avenarius e da
Mach. NEWTONISMO (ingl. Newronianism; fran- cese Newtonianisme; ted.
Newtonianismus). Con questo termine è stato indicato soprattutto la dot- trina
di Newton della gravitazione universale. Cioè la generalizzazione delle leggi
della gravitazione a tutto l’universo e la formulazione di queste leggi mediante
l’unica formula: i corpi si attraggono proporzionalmente al prodotto delle
masse e in ragione inversa del quadrato delle distanze. Questa legge fu
enunciata da Newton per la prima volta nel Propositiones de motu del 1684, e
poi nei Principi matematici di filosofia naturale del 1687. NICHILISMO (ingl.
Nihilism; franc. Nihi- lisme; ted. Nihilismus). Termine usato più spesso con
intento polemico, per indicare dottrine che si rifiutano di riconoscere realtà
o valori la cui am- missione si ritiene importante. Così Hamilton usò il
termine per qualificare la dottrina di Hume che nega la realtà sostanziale
(Lecsures on Metaphysics, I, pag. 293-94); e in questo caso la parola non vuol dire
più che fenomenismo. In altri casi essa viene adoperata per indicare gli
atteggiamenti di coloro che negano determinati valori morali o politici. Soltanto
Nietzsche fece un uso non polemico del termine, servendosi di esso per
qualificare la sua opposizione radicale ai valori morali tradizionali e alle
tradizionali credenze metafisiche. «Il N., egli disse, non è soltanto un
insieme di considera- zioni sul tema: ‘Tutto è vano’; non è solo la NOLONTÀ credenza
che tutto merita di morire, ma consiste nel mettere la mano in pasta, nel
distruggere... È lo stato degli spiriti forti e delle volontà forti cui non è
possibile attenersi a un giudizio negativo: la negazione attiva risponde meglio
alla loro natura profonda + (Wille zur Macht, ed. Kròner, XV, $ 24). NIENTE. V.
NULLA. NIRVANA. L’estinzione delle passioni e del desiderio di vivere, quindi
della catena delle nascite, nella dottrina buddistica. « Quest’isola incompara-
bile in cui ogni cosa sparisce ed ogni attaccamento cessa, io la chiamo N.,
distruzione della vecchiaia e della morte» (Surtanipdta, V, 11). Nella
filosofia occidentale Schopenhauer ha fatto propria questa nozione, vedendo in
essa la negazione della volontà di vivere, la cui esigenza scaturisce dalla
conoscenza della natura dolorosa e tragica della vita (Die Welt, I, $ 71; II,
cap. 41). NODALE, LINEA (ted. Knotenlinie). Così Hegel chiamò il passaggio
dalla quantità alla qua- lità avvenuto per mutamento della quantità stessa (per
es., quando il mutamento della quantità di calore nell’acqua produce il
passaggio dell’acqua stessa dallo stato liquido al solido o all’aeriforme
(Wissenschaft der Logik, I, sez. III, cap. II, B; trad. ital., I, pa- gina 444
sgg.). Questo concetto ha avuto più fortuna fuori dello hegelismo che
nell’hegelismo. Kierkegaard ne trasse il suo concetto del salto (v.). Engels
fece del passaggio dalla quantità alla qualità una delle leggi fondamentali
della dialettica (Dialektik der Natur; trad. ital., pag. 57) (v. DIALETTICA;
SALTO). NOEMA (ted. Noema). Nella terminologia di Husserl, l’aspetto oggettivo
dell’esperienza vissuta: cioè l’oggetto, considerato dalla riflessione nei suoi
vari modi d’essere daro (ad es., il percepito, il ricordato, l’immaginato). Il
N. è distinto dall’og- getto stesso, che è la cosa: per es., l’oggetto della percezione
dell’albero è l’albero, ma il N. di questa percezione è il complesso dei
predicati e dei modi d’essere dati all’esperienza, per es., l'albero verde, illuminato,
non illuminato, percepito, ricordato, ecc. (Ideen, I, $ 88). L'aggettivo
corrispondente è Noe- matico. NOESI (ted. Noesis). Nella terminologia di Husserl,
l’aspetto soggettivo dell’esperienza vis- suta, costituito da tutti gli atti di
comprensione che mirano ad afferrare l’oggetto, come il perce- pire, il
ricordare, l’immaginare, ecc. (/deen, I, $ 92). L'aggettivo corrispondente è
Noetico. NOETICA (ingl. Noetic; franc. Noétique; te- desco Noétik). Così
Hamilton chiamò la parte della logica che studia «le leggi fondamentali del pensiero
» cioè i quattro princìpi di Identità, Con- traddizione, Terzo escluso e Ragion
sufficiente (Lectures on Logic, V, I, pag. 72). Quest’uso è stato seguito da
pochi altri autori. 619 NOIA (ingl. Boredom; franc. Ennui; ted. Lang- weile).
Moralisti e filosofi hanno talora insistito sul carattere cosmico o radicale di
questo sentimento. « Senza il divertimento, diceva Pascal, noi saremmo nella N.
e la N. ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il
divertimento ci diletta e così ci fa arrivare inavvertitamente alla morte» (Pensées,
171). Schopenhauer osservava che « non appena miseria e dolore concedono
all’uomo una tregua, la N. è subito tanto vicina che egli per necessità ha
bisogno di un passatempo »; e vedeva perciò la vita continuamente oscillare tra
il dolore e la N. (Die Welt, I, $ 57). Più profonda- mente e anticipando
l’esistenzialismo, Leopardi vedeva nella N. l’esperienza della nullità di tutto
ciò che è: «Or che cos'è la N.?» si chiedeva. « Niun male nè dolore particolare
(anzi l’idea e la natura della N. esclude la presenza di qualsiasi particolar
male o dolore) ma la semplice vita pie- namente sentita, provata, conosciuta,
pienamente presente all’individuo, ed occupantelo » (Zibaldone, VI, pag. 421).
Heidegger ha ripetuto queste nota- zioni, scorgendo nella N. il sentimento che
rivela la totalità delle cose esistenti, nella loro indiffe- renza. «La vera
N., egli ha detto, non è quella che ci viene da un libro o da uno spettacolo o
da un divertimento che ci annoiano, ma quella che ci invade quando ‘ci si
annoia’: la N. profonda che, come nebbia silenziosa, si raccoglie negli abissi
del nostro esserci, accomuna uomini e cose, noi stessi con tutto ciò che è
intorno a noi, in una singolare indifferenza. È questa la N. che rivela l’esistente
nella sua totalità » (Was ist Metaphysik? 58 ediz., 1949, pag. 28). La N. in
questo senso è molto vicina alla nausea (v.) di cui parla Sartre e che è
anch’essa l’esperienza dell’indifferenza delle cose nella loro totalità. Il
precedente di essa può forse essere scorto nella malinconia (Sckhwermut) che
secondo Kierkegaard è lo sbocco inevitabile della vita estetica. « Se si
domanda a un malinconico quale ragione abbia per essere così e che cosa gli pesi,
risponderà che non lo sa, che non lo può spiegare. In questo consiste
l’infinità della malin- conia » (Entweder-Oder, in Werke, II, pag. 171). In
questo senso la malinconia è l’accidia medievale (Ibid., II, 168) ed è
considerata da Kierkegaard come «l’isterismo dello spirito» nonchè come il peccato
fondamentale in quanto «è peccato non volere profondamente e sentitamente»
(/bid., pa- gina 171). NOLONTA (lat. Noluntas; ingl. Nolition; fran- cese
Nolonté; ted. Nolitio). Il non volere o rifuggire. Il termine è rarissimo, in
tutte le lingue. Secondo S. Tommaso, «il desiderio del bene si chiama volontà
in quanto è il nome dell’atto di volontà; ma la fuga dal male si dice piuttosto
nolontà. 620 Sicchè come la volontà è del bene, così la N. è del male» (S. 7h.,
II, 1, q. 8, a. 1). Nello stesso senso il termine ricorre in Wolff (Phil.
practica, I, $ 38). È chiaro che in questo senso la N. è vo- lontà positiva,
come la cosiddetta volontà. Altri autori invece l’hanno intesa nel senso di
volontà inibita o assenza di volontà (RENOUVIER e PRAT, Monadologie, pag. 231).
Questo secondo senso è decisamente improprio. NOME (gr. évoua; lat. Nomen; ingl. Name; franc.
Nom; ted. Name). La parola o il simbolo che denota
un oggetto qualsiasi. I problemi che il N. fa sorgere come parola o simbolo,
per es. quello della sua origine o della sua validità, si trovano discussi
nella voce linguaggio (v.). Qui occorre soltanto richiamare le determinazioni
specifiche che i logici hanno dato al concetto di N. Quando Platone definisce
il N. come «lo strumento adatto a insegnare e a farci discernere l’essenza, al modo
in cui la spola è adatta a tessere la tela » (Crat., 388 b), la sua definizione
si adatta a qualsiasi termine o espressione linguistica. Aristotele invece ha
dato la prima analisi specifica del nome. « Il N., egli ha detto, è un suono di
voce significativo per convenzione, che prescinde dal tempo e le cui parti non
sono significative se prese separatamente » (De Int., 2, 16a 19). In quanto «
prescinde dal tempo », il N. si distingue dal verbo che ha sempre una
determinazione temporale. In quanto non ha parti di per sè significative, il
nome si distingue dal discorso. E poichè Aristotele osserva che l’espres- sione
infinita « non uomo» non è un N., i logici posteriori aggiunsero alla
definizione aristotelica del N. la caratterizzazione « finita »; nonchè quella
di « retta », per escludere i casi obliqui del N. che sono di interesse per il
grammatico e non per il logico (Pietro Ispano, Summul. Log., 1.04). Lo stesso
Aristotele avvertiva (De /nt., 2, 16a 23) che il N. non sempre è semplice; e in
questo senso la definizione di esso veniva così modificata da Jungius nel sec.
xvi: « Per N. si intende un simbolo o segno, istituito per una cosa determinata
e per la nozione che rappresenta la cosa, sia che si tratti di un N.
grammaticalmente unico, sia che si tratti di un N. composto da più vocaboli
(Log. Hambur- gensis, 1638, IV, 2, 10). Nella logica contemporanea, la funzione
del N. è stata analizzata soprattutto a proposito di quella che Carnap ha
chiamata «l’antinomia della relazione- N. ». Questa antinomia era stata scorta
da Frege (* Uber Sinn und Bedeutung +, 1892, in Aritmetica e logica, ed.
Geymonat, pag. 215-52) ma fu formulata come antinomia da Russell (s On Denoting
», 1905, ora in Logic and Knowledge, pag. 41-56). L’antino- mia risulta dal
fatto che due nomi sinonimi (aventi cioè lo stesso significato) debbono poter
essere NOME sostituiti l’uno all’altro senza che muti il significato e il
valore di verità del contesto. Ora « Sir Walter Scott» e «l’autore di Waverley»
sono nomi sino- nimi perciò sostituibili. Tuttavia se nella frase « Giorgio IV
domandò una volta se Scott era l’au- tore di Waverley» si sostituisce ad
«autore di Waverley » l’altro N. sinonimo «Scott» la frase risulta falsa perchè
diventa: « Giorgio IV domandò una volta se Scott era Scott ». Questa antinomia
ha avuto nella logica contem- poranea due soluzioni principali: la prima della quale
consiste essenzialmente nel ridurre la denota- tazione a una descrizione in
termini direttamente o indirettamente riducibili a esperienze elementari. Questa
soluzione è stata proposta da Russell (che la espose nel saggio citato e poi
nel primo vol. dei Prin- cipia Mathematica, 1910). Secondo Russell, la frase «
Giorgio IV, ecc. » può significare: a) « Giorgio IV desiderava sapere se un
uomo e solo un uomo scrisse Waverley e se Scott fu quell'uomo +; oppure può
significare 5): « Un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e Giorgio IV
desiderava sapere se Scott fu quell'uomo». In questo secondo caso « l’autore di
Waverley ricorre, dice Russell, in modo primario (primary occurrence) perchè
suppone che
Giorgio IV ha una qualche diretta
conoscenza di Scott. Nella prima invece la frase ricorre in modo secondario nel
senso che non suppone una diretta conoscenza di Scott («On Denoting»?, Op.
cif., pag. 72). Questa teoria oltre a presupporre la differenza tra conoscenza
diretta e conoscenza indiretta, equivale a ridurre i nomi propri a nomi comuni
e i nomi comuni a nomi propri, cioè deno- tanti elementi ricavati
dall’esperienza diretta. Teorie simili a queste sono state date da Quine
(Methods of Logic, 1950, $ 33; From a Logical Point of View, 1953, cap. 1) e da
altri. La seconda soluzione dell’antinomia della rela- zione-N. è quella
proposta dallo stesso Frege. Essa consiste nel distinguere il significato
(Bedeutunp, Meaning) come denotazione, dal senso (Sinn, Sense). La denotazione
è il riferimento del N. all’oggetto: « Sir Walter Scott » e « l’autore di
Waver/ey » hanno la stessa denotazione perchè si riferiscono allo stesso
oggetto. Il senso è invece, come diceva Frege, « qualcosa che viene subito
afferrato da chi conosca sufficientemente la lingua (o in genere il complesso di
segni) cui il N. proprio appartiene » (« Uber Sinn und Bedeutung », $ 1; ed.
ital. cit., pag. 219); sicchè due nomi possono avere diversi sensi, pur riferendosi
allo stesso oggetto. Questo è proprio il caso delle due espressioni citate; e
poichè è possibile comprendere il senso di un N. senza cono- scere la sua
denotazione, le domande del tipo di quella attribuita a Giorgio IV significano
una ri- chiesta di informazione concernente l'identità delle NON CAUSA PRO
CAUSA loro denotazioni. Questa soluzione è stata ripetuta con varianti da
Carnap (Meaning and Necessity, $ 31-32) e da Church (/ntr. to Mathematical
Logic, 1958, $ 01). E sembra una soluzione preferibile perchè non esige
particolari presupposti sulla natura del linguaggio. NOMINALE, DEFINIZIONE. V.
Derini- ZIONE. NOMINALISMO (lat. Nominalismus; franceseNominalisme; ted.
Nominalismus). La dottrina dei filosofi nominales o nominalisti che
costituirono una delle grandi correnti della Scolastica. I termini nominalista
(nominalis) o terminista (ferminista) furono usati solo al principio del sec.
xv (v. TER- MINIsMO). Ma già Ottone di Frisinga nella sua cro- naca Sulle gesta
di Federico (I, 47) affermava che Roscellino » fu il primo nei nostri tempi a
proporre in logica la dottrina delle parole (sententiam vocum) ». AI principio
del sec. x11 il N. veniva difeso da Abe- lardo (v. UNIVERSALI); ma il suo
trionfo nella Scolastica fu dovuto all’opera di Guglielmo di Ochkam (1280-1349)
che non per nulla fu detto Princeps Nominalium. Così Ockham esprimeva la sua
convinzione in materia: « Nessuna cosa fuori dell’anima nè di per sè nè per
qualcosa che le venga aggiunta, di reale o di razionale, e comunque si consideri
e si intenda, è universale: giacchè tanta è l'impossibilità che una cosa fuori
dell’anima sia in qualsiasi modo universale (a meno che ciò non avvenga per
convenzione come quando si considera universale la parola ‘uomo’ che è
singolare) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per qualsiasi considerazione o
secondo qualsiasi essere, sia l’asino » (/n Sent., I, d. II, q.7 S-T). Dal
punto di vista positivo, il N. ammette che l’universale o concetto è un segno
dotato della capacità di essere predicato di più cose. In questo senso il
concetto era già stato definito da Abelardo (v. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI). Nel
delineare una breve storia del N., a proposito di Nizolio, Leibniz diceva che
«sono nominalisti coloro che credono che, oltre le sostanze singolari, non ci
sono che i puri nomi e quindi eliminano la realtà delle cose astratte e
universali », e Leibniz faceva cominciare il N. così inteso da Roscellino e
includeva tra i nominalisti, oltre lo stesso Nizolio, anche Tommaso Hobbes (De
stilo philosophico Nizolii, 1670, Op., ed. Erdmann, pag. 69). Queste notazioni
e inclusioni leibniziane sono state accettate dagli storici della filosofia. In
epoca più vicina a noi, il termine è stato ado- perato per designare
l’interpretazione convenziona- listica della fisica: per es. Poincaré lo
adoperava nei confronti di Le Roy(La science et l’hypothèse, pag. 3). Qualche
volta i logici moderni usano il termine per indicare la dottrina che il
linguaggio delle scienze 621 contiene solo variabili individuali, i cui valori sono
oggetti concreti e non già classi, proprietà e simili (Quine, From a Logical
Point of View, VI, 4 sgg.; CARNAP, Meaning and Necessity, $ 10). NOMINALIZZAZIONE
(ted. Nominalisie- rung). Husserl ha inteso per «legge di N.» quella secondo la
quale «ad ogni proposizione, ed a ogni forma parziale distinguibile nella
proposizione, corrisponde un elemento nominale» (/deen, I, $ 119): il che
significa, per es., che alla proposizione « S è P» può corrispondere l’elemento
unico nominale «l'essere P di S», nella quale «esser P» può signi- ficare la
simiglianza, la pluralità, ecc. NOMOLOGIA (ingl. Nomology; franc. Nomo- logie;
ted. Nomologie). Termine raramente usato nella filosofia dell’800 per indicare
la scienza della legislazione. Husserl ha chiamato « N. aritmetica » la
matematica universale (Logische Untersuchungen, I, $ 64). NOMOTETICO (ted.
Nomothetisch). Kant chiama N., cioè dante leggi, il giudizio riflettente (v.) in
quanto fornisce massime per l’unificazione delle leggi naturali; ed esclude che
sia nomotetico il giudizio trascendentale « che contiene le condizioni per la
sussunzione sotto categorie + e non fa che «indicare le condizioni
dell’intuizione sensibile sotto le quali può esser data realtà (applicazione) ad
un concetto dato » (Crit. del Giud., $ 69). Windel- band ha chiamato
nomotetiche le scienze naturali in contrapposto alle scienze dello spirito o
scienze storiche dette idiografiche (Préludien, 5* ediz., II, pag. 145) (v.
SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE). NON (ted. Nicht). Secondo Heidegger, il N. esprime
la limitazione fondamentale dell’esistenza giacchè « l’Esserci, essendo come
poter essere, è sempre o nell’una o nell’altra possibilità, ma N. è mai l’una e
l’altra perchè, nel progetto esistentivo, ha sempre rinunciato ad una » (Sein
und Zeit, $ 58). Il N. esprime così l’esclusione delle possibilità che è sempre
implicita nella scelta di quelle che l’Esserci (cioè l’uomo) fa entrare nel suo
progetto. In questo senso Heidegger parla del N. come della colpa fondamentale
dell’esistenza: « L'idea formale esisten- ziale del colpevole va quindi
definita così: esser fondamento di un essere che è determinato da un N., cioè
esser fondamento di una nullità» (/bid.). NON CAUSA PRO CAUSA (gr. cò ui altiov
© atriov). Uno dei sofismi enunciati da Aristotele (£/ .Sof., 5, 167b 21) che
consiste nell’assumere come causa (cioè come premessa) ciò che non lo è, donde
segue una conseguenza impossibile e l’apparente confutazione dell’avver- sario.
È una fallacia che si verifica specialmente nella riduzione all’assurdo.
L'esempio fatto da Aristotele è il seguente. Si voglia ridurre all’assurdo l’affermazione
che l’anima e la vita sono la stessa 622 NON-ENS cosa. Si procede così: la
morte e la vita sono con- trarie; la generazione e la corruzione sono contrari;
ma la morte è corruzione, quindi la vita è genera- zione. Ma ciò è impossibile,
perchè ciò che vive non genera ma è generato; quindi l’anima e la vita non sono
la stessa cosa. La fallacia qui consiste nell’eliminare la premessa: « Anima e
vita sono la stessa cosa» e sostituirla con l’altra « Morte e vita sono cose
contrarie». (Cfr. Pretro IsPANO, Summ. Log., 7.56-57; ARNAULD, Log., III, 19,
3; JuNGIUS, Log., VI, 12, 11; ecc.). NON-ENS LOGICUM. Così W. Hamilton chiamava
l’atto del pensiero negativo cioè il non pensare a niente di preciso, che
equivale a non pensare (Lectures on Logic, I, 2* ed., 1867, p. 76). NON IO
(ingl. Non Ego; franc. Non moi; tedesco Nicht Ich). Con questo termine Fichte
indicava il mondo della natura e in generale il mondo og- gettivo, in quanto è
posto dall’Io ma opposto al- l’Io stesso. « Non v’è nulla di posto
originariamente, tranne l'Io; e questo soltanto è posto assolutamente. Perciò
un’opposizione assoluta non può aversi se non ponendo qualcosa di opposto
all’Io. Ma ciò che è opposto all’Io è = Non-Io » (Wissenschafts- lehre, 1794, $
2, 9). NOOGONIA (ted. Noogonie). Come « sistema di N.» Kant ha designato la
dottrina di Locke, in quanto descrive la genesi dei concetti a partire dall’esperienza
(Crit. R. Pura, Anal. dei Principi. Nota alle anfibolie dei concetti della
riflessione). NOOLOGIA (lat. Noologia; franc. Noologie; ted. Noologie). Termine
inventato da Calov nei suoi Scripta philosophica (1650) per indicare una delle
due scienze ausiliarie della metafisica [l’altra è la gnostologia (v.)] e
precisamente quella che ha per oggetto le funzioni conoscitive. Il termine è stato
ripreso nel secolo successivo da Crusius e altri, nello stesso senso o in sensi
analoghi. Kant chiamò noologisti coloro che, come Platone, riten- gono che le
conoscenze pure derivano dalla ragione, in contrapposizione agli empiristi che
le ritengono derivate dall’esperienza (Crit. R. Pura, Dottr. Trasc. del Metodo,
cap. IV). Ampère propose di chiamare noologiche tutte le scienze dello spirito (Essai
sur la philosophie des sciences, 1834). Nes- suno di questi usi ha avuto
fortuna. NOOSFERA (franc. Noosphère). Termine ado- perato da Le Roy per
indicare il dominio dell’evo- luzione propriamente umana, perciò contrapposto al
dominio dell’evoluzione biologica (biosfera) e tale che si compie solo con
l’aiuto di mezzi spiri- tuali: l'industria, la società, il linguaggio,
l’intelli- genza, ecc. (L’exigence idéaliste et le fait de l’évo- lution, 1927,
pag. 195-96). NORMA (lat. Norma; ingl. Norm; franc. Norme; ted. Norm). Una regola o criterio di giudizio. LOGICUM La N. può
essere anche costituita da un caso con- creto, un modello o un esempio; ma il
caso concreto, il modello o l’esempio valgono come N. solo se possono essere
utilizzati come criteri di giudizio degli altri casi, o delle cose cui
l’esempio o il modello fanno riferimento. La N. si distingue dalla massima (v.)
perchè non è, come la massima (nel significato 2) solo una regola di condotta,
ma può essere regola o criterio di qualsiasi operazione o attività. E si
distingue dalla /egge (v.) perchè può mancare del carattere costrittivo della
legge stessa; per es., una N. del costume diventa legge quando viene resa
coattiva da una pubblica sanzione. La N. è concetto recente, nato nell’ambito
del neocriticismo tedesco. È un concetto che si è formato attraverso la
distinzione e la contrapposizione tra il dominio empirico del farto (cioè della
necessità naturale) e il dominio razionale del dover essere (cioè della
necessità ideale). La N. non deriva la sua validità dal fatto che venga o non
venga seguita o applicata; ma solo dal dover essere che esprime. I filosofi
della scuola del Baden (Windelband e Rickert) hanno insistito su questo
carattere della norma. Ha detto Windelband: « Il sole della neces- sità
naturale splende ugualmente sul giusto e sull’in- giusto. Ma la necessità che
avvertiamo nella validità delle determinazioni logiche, etiche ed estetiche, è
una necessità ideale, che non è quella del Mussen e del
non-poter-essere-altrimenti, ma quella del Sollen ed del
poter-essere-altrimenti » (Préludien, 43 ediz., 1911, II, pag. 69 sgg.). In
questo senso ha inteso la N. anche Kelsen che ha posto il concetto di essa alla
base della sua teoria del diritto. « La N., egli ha detto, è l’espressione
dell’idea che qualcosa debba accadere, e specialmente che un individuo debba
comportarsi in una data maniera. Nulla è detto dalla N. sull’effettivo
comportamento dell’individuo in questione » (Genera! Theory of Law and State,
1945, I, C, a, S; trad. ital., pag. 36). In
questo senso si è parlato e si parla di una «trascen- denza» della N. nei
confronti delle situazioni che essa regola: con tale trascendenza si è
insistito (talora op- portunamente) sull’indipendenza del valore della N. dalla
sua effettiva applicazione. Per es. non c'è dubbio che le norme dirette allo
scopo di ottenere un buon prodotto agricolo o industriale, quali sono
determinate da apposite discipline scientifiche e tecnologiche, rimangono
valide indipendentemente dal fatto che esse siano ignorate o trascurate nella
maggior parte dei casi. Questa
indipendenza tuttavia non significa che le norme abbiano un'origine misteriosa
o inaccessibile o siano depositate in qualche regione dell’essere che abbia
solo un riferimento indiretto e lontano con i campi del- l’esperienza umana che
esse mirano a regolare. Le norme esprimono, abitualmente, la disciplina NOUMENO
più opportuna di determinate attività, in vista di dare a tali attività la
maggiore efficienza e preci- sione possibile. Se quindi esse non sono sempre generalizzazioni
di quel che già è in atto o che già si fa, perchè possono anche ispirarsi ad un
ordina- mento del tutto diverso, non sono neppure estranee ai campi
dell’attività umana che mirano a regolare. In questo senso Dewey diceva: «La
differenza che si suole registrare tra i modi in cui gli uomini pensano e
quelli in cui devono pensare è del tutto simile a quella che corre fra la buona
e la cattiva coltivazione o la buona e la cattiva pratica medica. Gli uomini
pensano come non devono quando seguono metodi d’indagine che l’esperienza delle
indagini passate mostra non adatti a raggiungere il fine prefissato» (Logic,
cap. VI; trad. ital., pag. 156). Da questo punto di vista una N. è sem- plicemente
una formula tecnica per lo svolgimento efficace di un’attività determinata. Si
possono pertanto distinguere due concetti di N.: 1° la N. come criterio
infallibile per il rico- noscimento o la realizzazione di valori assoluti. Questo
è il concetto che è stato elaborato dalla filosofia dei valori (v.) e che viene
tuttora accettato dalle dottrine assolutistiche; 2° la N. come proce- dura che
garantisce lo svolgimento efficace di un’attività determinata. NORMALE (ingl.
Normal; franc. Normal; te- desco Normal). 1. Ciò che è conforme alla norma. 2.
Ciò che è conforme a un’abitudine o a una consuetudine o a una media
approssimativa o ma- tematica o all’equilibrio fisico o psichico. In questo senso
si dice, ad es., «condurre una vita N.» per dire una vita conforme alle
consuetudini di un certo gruppo sociale; o « ha un peso N.» o «una altezza N.»
per dire che ha il peso o l’altezza corrispondenti alla media di quelli degli
individui della stessa età, razza, ecc.; o «una mente N.» o «un’organismo N.»
per indicare la buona salute mentale o fisica. Questo uso del termine non è del
tutto improprio: perchè, sebbene le norme cui esso fa riferimento siano
ottenute da generalizzazioni empiriche, esse sono tuttavia adoperate come
criterio di giudizio e stabiliscono quindi una « normalità ». NORMATIVO (ingl.
Normative; franc. Nor- matif; ted. Normativ). L'aggettivo ha due sensi
principali, che corrispondono ai due sensi che sono attribuiti alla parola
norma e cioè: 1° è N. ciò che prescrive la regola infallibile per raggiungere la
verità, la bellezza, il bene, ecc., cioè un bene assoluto; 2° è N. una formula
tecnica che garan- tisce lo svolgimento efficace di una certa attività. Nella
seconda metà dell’800 sono state dette N. nel senso 1° le scienze filosofiche
speciali cioè la logica, l’etica e l’estetica, alle quali si attribuì il compito
di prescrivere le norme cui il pensiero, la 623 volontà e il sentimento
avrebbero dovuto adeguarsi per raggiungere la verità, il bene e la bellezza
(Win- delband, Rickert, Wundt, Simmel, Husserl, ecc.). La qualifica di N. è
stata in questo senso respinta dalle discipline anzidette (v. le voci
relative). Non si può tuttavia negare che esistano discipline N. nel senso 2°,
cioè nel senso di formulare, ipoteti- camente, tecniche atte a garantire lo
svolgimento efficace di determinate attività. NOTA (lat. Nota; ingl. Note;
franc. Note; ted. Merkmal). Segno o caratteristica di un og- getto. Sul
principio: «la N. di una N. è una N. della cosa stessa» che Kant volle
sostituire al dictum de omni et nullo come fondamento del sillogismo v.
SiLLOGISMO. NOTAZIONE (ingl. Noration; franc. Notation; ted. Noration). Si chiamano con questo termine i simboli primitivi
della logica. La più comune clas- sificazione di tali simboli è quella che li
divide in quattro classi e cioè costanti, variabili, connettivi e operatori.
Questi due ultimi sono talora detti rispettivamente operatori e astrattori (v.
le singole voci: CONNETTIVO; COSTANTE; OPERATORE). NOTAZIONE (gr. Etvpororia;
lat. Noratio; ingl. Notation; franc. Notationj ted. Notation). In logica,
l'argomento (/ocus) derivato dall’etimologia del nome; come quando Platone fa
derivare la voce séma (corpo) da séma (tomba) come argo- mento che il corpo è
la tomba dell’anima (Crar., 400 c). Questo tipo di argomento è chiarito da Cicerone
(7op., 8, 35) ed è ripreso dai Logici del ’600 (JunGIUS, Log., V, 25). NOUMENO
(gr. voovpevov; ingl. Noumenon; franc. Nouméne; ted. Noumenon). Questo termine è
stato introdotto da Kant per indicare l’oggetto della conoscenza intellettuale
pura, che è poi la cosa in sè (v.). Nella dissertazione del 1770 Kant dice: «L'oggetto
della sensibilità è il sensibile; ciò che non contiene nulla che non possa
essere conosciuto dall’intelligenza è l’intelligibile. Il primo dalle scuole degli
antichi era detto fenomeno, il secondo N.» (De mundi sensibilis, ecc., $ 3). In
realtà la parola N. è talora usata dai filosofi greci, ma non in con- trapposto
con fenomeno, bensì talora in contrap- posto con sensibile come in Platone: «
Se intellezione e opinione vera sono due cose diverse, allora ci saranno senza
dubbio enti che, quantunque non siano sensibili per noi, sono soltanto pensati»
(Tim., 51 d); e talora in contrapposto con l’oggetto direttamente afferrabile,
come negli Stoici: « La comprensione si produce, secondo gli Stoici, 0 con la
sensazione e allora è comprensione di cose bianche o nere o ruvide o lisce o
col ragionamento e allora è comprensione di nessi dimostrativi come quando si
dimostra che gli dèi esistono e che eser- citano la provvidenza. Delle cose
pensate invece 624 alcune sono pensate secondo l’occasione, altre se- condo la
somiglianza, altre secondo la composi- zione e altre secondo contrarietà»
(Dioa. L., VII, 52). Più frequente è negli antichi (soprattutto in Platone, in
Aristotele e nei Neoplatonici) l’uso del termine intelligibile (vontéc) che
però viene contrapposto non a fenomeno, ma a sensibile (cfr., ad es.,
ARISTOTELE, Et. Nic., X, 4, 1174 b 34). NOZIONE (gr. tota, rpéinyic; lat.
Notio; ingl. Nozion; franc. Notion; ted. Notion). Due si- gnificati
fondamentali: uno generalissimo, per cui N. è qualsiasi atto d’operazione
conoscitiva; l’altro specifico, per cui è una speciale classe di atti od operazioni
conoscitive. Cicerone, che introdusse il termine, lo fa corri- spondere sia ad
tyvorx che ha significato genera- lissimo, sia a rp6Anyis che è
l’anticipazione, cioè una specie particolare e privilegiata di conoscenze (Top.,
7, 31). Nel Medioevo Giovanni di Salisbury, adoperò il termine nel senso
generale, riferendolo appunto al greco toa (Meral., II, 20); ed in senso
generalissimo lo adoperava anche Jungius, che intendeva per N. «la prima
operazione del nostro intelletto cioè quella con la quale espri- miamo una cosa
con un’immagine » (Log. Hambur- gensis, 1638, Prol., 3). Locke invece intendeva
restringere il termine a quelle idee complesse « che sembra abbiano origine e
costante esistenza più nel pensiero degli uomini che nella realtà delle cose »
(Saggio, II, 22, 2); mentre Leibniz osservava che « molti applicano la parola
N. a ogni sorta di idee o di concezioni, sia a quelle originali, sia a quelle
derivate » (Nouv. Ess., II, 22, 2). Berkeley a sua volta restringeva il termine
a indicare la conoscenza che lo spirito ha di se stesso e della relazione tra
le idee: conoscenza che non è a sua volta un’idea (Princ. of Human Knowledge,
I, $ 27, 89, 140, ecc.; cfr. la nota al $ 27 della edizione dei Principles, in
Works, ed. T. E. Jessop, II, pag. 53). Anche Kant dava del termine un signi- ficato
ristretto, intendendo per esso «il concetto puro in quanto ha la sua origine
unicamente nel- l’intelletto » e riservando il termine « rappresenta- zione »
per il significato generale di N. (Cris. R. Pura, Dial. trasc., I, sez. 1).
Viceversa Wolff aveva affermato: «La rappresentazione delle cose nella mente è
la N., da altri detta idea» (Lop., $ 34). Tutti i significati specifici
proposti per il termine
non hanno avuto fortuna; gli è rimasto
ora quasi esclusivamente il significato generico di operazione o atto o
elemento conoscitivo in generale. NOZIONI COMUNI (gr. xorval Evora; latino Notiones
communes). Sono le anticipazioni (v.) degli Stoici, alle quali spesso si è
fatto riferimento nella storia della filosofia: cfr., ad es., SPINOZA, Etàh.,
II, 38, Cor.; LEIBNIZ, Nouv. Ess., Avant-propos; ecc. NOZIONE NULLA (gr. undéy,
tò ud 8v; lat. Nihil; ingl. No- thing,
Nothingness; franc. Néant; ted.
Nichts). Due concezioni del N. si sono intercalate nella storia della filosofia:
1° il N. come non-essere; 2° il N. come alterità o negazione. Queste due
concezioni hanno i loro capistipite rispettivamente in Parmenide e Platone.
Parmenide affermò che «il N. non è» (Fr., 6, 2) e che «non si può nè conoscere
nè esprimere » (/bid., 4); Platone, decidendosi a una specie di « parricidio »
verso Parmenide (Sof., 242 d), ammise l’essere del non-essere e definì il N.
come alterità. « Risulta, egli scrisse, che c’è un essere del non-essere, così
per il movimento come per tutti i generi, giacchè in tutti i generi l'alterità,
che rende ciascuno di essi altro da sè, fa un non-essere dell’essere di
ciascuno: sicchè correttamente diremo che tutte le cose non sono ed insieme
sono e par- tecipano dell’essere » (/bid., 256 d). Sicchè mentre per Parmenide
il N. è assoluto non-essere quindi non è pensabile nè esprimibile in alcun
modo, per Platone il N. è l’alterità dell’essere cioè la nega- zione di un
essere determinato (per es., del movi- mento) e l’indefinito riferimento a un
altro genere dell’essere (a ciò che non è movimento). 1° Alla tesi di
Parmenide, portava un appoggio Gorgia affermando che «il N. non è perchè se esistesse
sarebbe insieme non-essere ed essere: non- essere in quanto pensato come tale,
essere in quanto sarebbe non-essere » (Fr., 3, 26). Il N. definito da queste
proposizioni è il N. assoluto: quella « certa idea negativa del niente cioè di
ciò che è infinita- mente lontano da ogni sorta di perfezione » di cui parlava
Cartesio, opponendola a Dio che include tutte le perfezioni (Méd., IV); o quel
«concetto vuoto senza oggetto » che è la negazione del « più alto concetto da
cui si suol prendere le mosse in una filosofia trascendentale » cioè
dell’oggetto, di cui parlava Kant (Crif. R. Pura, Anal. dei Princ.; Nota alla
Anfibolia dei concetti della riflessione). Del N. così inteso è stato fatto un
uso preva- lentemente teologico e metafisico: da un lato è servito a definire
Dio, quando si è voluto insistere sulla sua eterogeneità dal mondo o a definire
la materia quando si è voluto insistere sulla sua ete- rogeneità dalle cose;
dall'altro, è servito a intro- durre nell'essere una condizione o un elemento
che ne spiegasse certi caratteri. Il primo uso ricorre frequentemente nella
teo- logia negativa. Già Scoto Eriugena aveva identifi- cato Dio col N. perchè
Dio è Superessentia (cioè al di sopra della sostanza) e perchè il niente è, dall'altro
lato, «la negazione e l’assenza di ogni essenza o sostanza, anzi di tutte le
cose che sono state create in natura » (De divis. nat., III, 19-21). Questa
dottrina viene frequentemente ripetuta nel Medioevo: come N. o «N. del N.» o «
quintes- NULLA senza del N.» viene indicato Dio nel Zoher, uno dei libri della
Kabala (cfr. SfRouYA, La Kabbale, Paris, 1957, pag. 322). Un « N. superessente
» Dio è detto da Maestro Eckhart (Op., ed. Pfeiffer, pag. 139); e «un N.
eterno» da Bòhme (My- sterium Magnum, I, 2). In tutte queste espressioni il N.
esprime la negazione totale delle forme d’es- sere conosciute, ritenute
inadeguate alla natura di Dio. AI secondo uso del concetto di N. hanno fatto ricorso
i Neo-platonici per accentuare la differenza tra la materia e le cose cioè tra
il carattere informe dell’una e le determinazioni delle altre. Così per Plotino
la materia è il non-essere perchè è priva di corporeità, di anima, di
intelligenza, di vita, di forma, di ragione, di limite, di potenza: cioè di tutti
i caratteri che l’essere possiede. « Bisogna dire, dice Plotino, che essa è
non-essere ma non nel senso del movimento che non è la quiete o reciprocamente,
bensì è veramente il non-essere, un’immagine o fantasma della massa corporea e una
aspirazione all’esistenza » (Enn., II, 6, 7. Nello stesso senso la materia è
caratterizzata da S. Agostino: « Se si potesse dire che il N. è e non è
qualcosa, direi che questa è la materia » (Conf., XII, 6, 2). Il terzo uso è
proprio della filosofia moderna ed è diretta a risolvere l’essere nel divenire
o la pos- sibilità in impossibilità. AI primo scopo è diretta la concezione del
N. sostenuta da Hegel. Egli cor- rettamente osserva che il vecchio detto Ex
nihilo nihil fit non esprime altro che la negazione del divenire, e contro
questa negazione afferma l’in- dissolubilità e la convertibilità reciproca
dell’essere e del nulla. « Dell’essere e del N., egli scrisse, è il caso di
dire che in nessun luogo, nè in cielo nè in terra, c'è qualcosa che non
contenga in sè tanto l’essere quanto il nulla. Senza dubbio, in quanto si parla
di un certo qualcosa e di qual- cosa di reale, quelle determinazioni non si
trovano più nella loro completa verità, in cui stanno come essere e come N., ma
vi si trovano in una determinazione ulteriore e intese, per es., come positivo
e negativo... Ma il positivo e il negativo contengono il primo l’essere, il
secondo il N. come loro base astratta. Così perfino in Dio la qualità, cioè
l’attività, la creazione, la potenza, ecc., contiene essenzialmente la
determinazione del nega- tivo; coteste qualità consistono nella produzione di un
altro » (Wissenschaft der Logik, I, sez. I, cap. I, C, nota I; cfr. Enc., $
87). La caratteristica di una dottrina siffatta è il teorema che il N. è il
fonda- mento della negazione, non già la negazione del nulla. Questo teorema è
espresso da Hegel nel passo citato dicendo che il positivo e il negativo contengono
come loro base astratta il nulla. Nella 49) — ABBagNnavO, Dizionario di
filosofia. 625 filosofia contemporanea lo stesso teorema è espli- citamente
messo innanzi da Heidegger. «È il N., egli dice, che è l'origine della
negazione, non viceversa » (Was ist Metaphysik?, 1949, 5* ediz., pag. 33). Da
questo punto di vista, il N. è «la ne- gazione radicale della totalità
dell’esistente » (/bid., 1949, 5* ediz., pag. 27), cioè è N. assoluto. Ma in- sieme
costituisce il fondamento dell’essere e preci- samente dell’essere dell’uomo,
in quanto questo essere è instabile (hinf@llie). L’instabilità dell’es- sere
dell’uomo è vissuta nella situazione emotiva dell’angoscia. « L’esistente non è
affatto distrutto dall’angoscia in modo che rimanga, così, il nulla. Come
potrebbe accadere diversamente, dato che l’angoscia si trova nella più completa
impotenza di fronte all’esistente nella sua totalità? In realtà il N. si rivela
proprio con e nell’esistente in quanto questo ci sfugge e si dilegua nella sua
totalità » (Ibid., 1949, 5* ediz., pag. 31). Questo significa che il N. è
vissuto dall'uomo in quanto l’essere del- l’uomo (l'esistenza) non è e non può
essere rurto l’essere: l’essere dell’uomo consiste nel non essere l’essere
nella sua totalità, cioè nel N. dell’essere. Perciò Heidegger dice che il N. è
lo stesso annul- lamento (« È proprio il N. stesso che annulla»; Ibid., 5*
ediz., 1949, pag. 31) e che esso è «la con- dizione che rende possibile, nel
nostro esserci, la rivelazione dell’esistente come tale » (Ibid., 53 ediz., 1949,
pag. 32). Il problema e la ricerca dell’es- sere nascono dal fatto che l’uomo
non è tutto l’essere, cioè che il suo essere è il N. della totalità dell’essere.
Sartre sostituisce alla nozione di esi- stenza quella di coscienza ma continua
a intendere per essa l’essere dell’uomo che è il N. dell’essere: finisce così
col ripetere i concetti di Heidegger. « Il N. non è, egli dice, il N. è srato;
il N. non si an- nienta, il N. è sfaro annientato. Resta dunque che deve
esistere un essere — che non potrebbe essere l’in sè — che ha per proprietà di
annullare il N., di reggerlo col suo essere, di sostenerlo perpetua- mente con
la sua stessa esistenza: un essere per il quale il N. viene alle cose» (L’étre
er le néant, pag. 58). Quest’essere è la coscienza che, essendo costituita da
possibilità, è sempre aperta verso il nulla. « Una possibilità resta sempre
aperta che esso si riveli come un nulla. Ma dal fatto stesso che si prospetti
che un esistente possa sempre risolversi come N., ogni questione suppone che si
realizzi un arretramento nientificatore, in rapporto al dato, e diviene una
semplice presentazione, oscillante tra l'essere e il N.» (/bid., pag. 59). In
questo modo l’uomo ha la possibilità di circoscrivere « un N. che lo isoli »
cioè di mettersi fuori dell’essere, per met- terlo in questione e sottrarsi
alla sua totalità. È chiaro ciò che queste speculazioni sul N. intendono suggerire:
l’essere proprio dell'uomo, in quanto 626 costituito da possibilità, che come
tali possono non realizzarsi, e che in ogni caso escludono l’essere completo o
totale, e manifestandosi quindi in modo eminente nel dubbio, nel problema,
nella progetta- zione, ecc., è il N. del rutto dell’essere. Si tratta cioè di
speculazioni che vogliono definire il finito (la limitazione propria
dell’esistenza umana) ser- vendosi di due infiniti: il tutto e il nulla. 2° La
seconda concezione fondamentale del N., il cui capostipite è Platone, considera
il N. come alterità o negazione. Per questa concezione non c’è un « N. assoluto
» cioè un N. che sia, nella terminologia kantiana, la negazione di ogni og- getto.
In questa terminologia il N. è soltanto pri- vazione di qualche cosa: come
l’ombra o il freddo (nihil privativum) o un ente immaginario (ens imaginarium)
o l’oggetto di un concetto che contraddice se stesso (nihil negativum) (Crit. R.
Pura, Anal. dei Princìpi, Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione).
Da questo punto di vista il N. è un oggetto (nel senso più gene- rale della
parola); e c’è una nozione del N., a differenza di ciò che pensava Wolff quando
definiva il N. come «ciò a cui non corrisponde alcuna no- zione » (Ont., $ 57).
In questo senso aveva ragione il vecchio Fredegiso di Tours (sec. 1x) ad
affermare che il N. è qualcosa; giacchè, come egli diceva, «se qualcuno dirà
che gli sembra che non sia N., questa stessa negazione lo spingerà a
riconoscere che il N. è qualcosa dal momento che dire: ‘ Mi sembra che il N.
sia N.” è equivalente a dire ‘ Mi sembra sia qualcosa ’» (De Nihilo et
Tenebris, in P. L., 105, col. 751). Ciò significa che, dal momento che si parla
del N., sia pure per dire che è N., il N. è un qualcosa di cui si parla, cioè
un oggetto in gene- rale. Considerazioni di questo genere possono sem- brare
puramente dialettiche, ma conservano il loro valore anche nella logica
contemporanea (cfr. GEYMONAT, Saggi di filosofia neorazionalistica, Torino,
1953, pag. 101 sgg.). Questo concetto del N. non ha tuttavia avuto molta
fortuna tra i filosofi, e se ne intende anche la ragione: non si presta a un
uso teologico o metafisico. La migliore illu- strazione di esso nella filosofia
contemporanea è quella data da Bergson: « L’idea di abolizione o di N. parziale
si forma nel corso della sostituzione di una cosa ad un’altra dal momento che
tale sostituzione è pensata da uno spirito che preferirebbe mantenere l’antica
cosa al posto della nuova o che almeno concepisce questa preferenza come possibile.
Essa implica dal lato soggettivo una preferenza, dal lato oggettivo una
sostituzione, e non è altro che una combinazione o piuttosto una interferenza
tra il sentimento di preferenza e questa idea di sostituzione» (Év. créatr., 88
ediz., 1911, pag. 305-06). Ciò vuol dire che si dice che « non c’è NULLIBISTI N.»
quando non c’è la cosa che ci aspettavamo di trovarci o che poteva esserci, e
che l’idea del N. assoluto è una « pseudo idea », altrettanto assurda di quella
di un circolo quadrato (/bid., pag. 307). Si può insistere un po’ meno
sull’aspetto soggettivo di questo concetto del N. e di più sull’aspetto oggettivo;
si può dire, ad es., che il N. esprime la negazione o l’assenza di una
possibilità determinata o di un gruppo di possibilità, senza ricorrere alla no-
zione di preferenza o di sostituzione; ma l’analisi di Bergson rimane
sostanzialmente corretta sia nella sua tesi positiva sia in quella negativa.
Essa è d'altronde conforme al concetto che della negazione hanno i logici
contemporanei; per es. a quello che Carnap espose in una critica rimasta famosa
al concetto del N. di Heidegger, concetto in cui egli vide riassunte tutte le
magagne della metafisica. Carnap affermò allora che la sola nozione di N. logicamente
corretta è la negazione di una possibilità determinata; che dire « Non c’è N.
fuori » significa «Non c’è qualcosa che sia fuori» «— (Fx) x è fuori» (*
Ùberwindung der Metaphysik», in Erkenntnis, II, 1931, pag. 229 sgg.). Poichè la
negazione che qualcosa sia fuori implica che qualcosa poteva esser fuori, la
negazione è, in questo senso, l’esclu- sione di una possibilità determinata. NULLIBISTI
(ingl. Nullibists; ted. Nullibisten). Così Henri Moore chiamò coloro che
credono che l’anima non occupi spazio e non abbia perciò una sede determinata
nel corpo (Enchiridion Metaphysicum, 1671, I, 27, 1). NUMERO (gr. &piduéc;
lat. Numerus; inglese Number; franc. Nombre; ted. Zahl). Nella storia di questo
concetto si possono distinguere quattro fasi concettuali diverse che hanno dato
luogo a quattro diverse definizioni di esso, e precisamente: 1° la fase
realistica; 2° la fase soggettivistica; 3° la fase oggettivistica; 4° la fase
convenzionalistica. 1° La fase realistica è caratterizzata dalla tesi che il N.
è un elemento costitutivo della realtà; della realtà in quanto accessibile, non
ai sensi, ma alla ragione. Fu questa la tesi propria dei Pita- gorici, i quali
credevano, secondo la testimonianza di Aristotele, che « le cose sono esse
stesse numeri », cioè « composte di numeri come di loro elementi + (Mer., XIV,
3, 1090a 21). A questa credenza è connessa la definizione del N. come « un
sistema di unità » che fu propria dei Pitagorici (STOBEO, Ecl., I, 18): una
definizione sulla quale si modellò quella stessa di Euclide (« moltitudine di
unità +, Z7., VII, 2) e che è rimasta per molto tempo a fondamento delle
matematiche. A sua volta Platone riteneva che il N. si trovasse dovunque ci
fosse un ordine, cioè un limite dell’illimitato. Tra la molteplicità illi- mitata
(per es. dei suoni vocali) e l’unità assoluta, il N. si inserisce come un
limite (per es. la distin- NUMERO zione ed enumerazione delle lettere
dell’alfabeto): perciò si trova sempre dove c’è ordine ed intelli- genza (Fil.,
18a sgg.). Dall’altro lato, il numero in questo senso non è legato a qualcosa
di visibile o di tangibile: è perciò diverso dal numero di cui si avvale l’uomo
nei suoi compiti pratici (Rep., 525 d). Con questa tesi (che non è quella dei
pla- tonici pitagoreggianti che consideravano le idee come numeri; cfr. ARIST.,
Met., XIV, 3) è sostan- zialmente d’accordo lo stesso Aristotele. «Le entità
matematiche, egli dice, non sono sostanze più dei corpi; precedono logicamente,
ma non nell’esistenza, le cose sensibili e non possono esistere
separatamente. Ma dal momento che non
possono neppure risiedere nelle cose sensibili, o non debbono essere affatto o
devono essere in qualche modo speciale, che non è l’esistenza assoluta» (Mer., XIII,
3, 1077b 12). Questo modo d'’esistenza speciale proprio delle entità
matematiche è definito dalle stesse proposizioni matematiche: « È stretta- mente
vero, dice Aristotele, che ci sono entità matematiche e che sono tali quali le
matematiche dicono che esse sono » (/bid., XIII, 3, 1077 b 31). Aristotele
intende dire, che le entità matematiche hanno un’esistenza analoga alle entità
della fisica, per es. al movimento: sono astratte dalle cause sensibili ma non
sono separabili da esse. Da questo punto di vista, il numero è « una pluralità
misurata o una pluralità di misura»; e l’unità non è un N. ma misura del N.
(Mer., XIV, 1, 1088a 5): una definizione la quale ripete quella platonica, e
anticipa quella euclidea già ricordata. 2° La seconda fase concettuale della
nozione di N. si può far cominciare con Cartesio. «Il N. che consideriamo in
generale, egli disse, senza riflettere su alcuna cosa creata, non esiste fuori del
nostro pensiero come non esistono tutte le altre idee generali che gli
Scolastici comprendono sotto il nome di universali » (Princ. Phil., I, 58). Il
N. è in altri termini, un’idea, un atto o una manifestazione del pensiero. La
definizione che ne risulta è quella di operazione: il N. è un’opera- zione di
astrazione eseguita sulle cose sensibili. Questo concetto del numero si trova
ripetuto molte volte nella filosofia moderna. Hobbes pose il N. tra le cose «
non esistenti » che sono soltanto «idee od immagini» (De Corp., VII, $ 1).
Locke vede nel N. un’idea complessa e precisamente un «modo semplice ottenuto
mediante la ripetizione dell’unità » (Saggio, II, 16 2); e nello stesso senso
Leibniz dice che il N. è un’idea adeguata o compiuta cioè « un’idea così
distinta che tutti i suoi ingredienti sono distinti» (Nouv. Ess., II, 31, 1). Berkeley
afferma che il numero «è interamente la creatura dello spirito » (Princ. of
Human Knowledge, I, 12). Newton afferma che per N. bisogna intendere 627 «non
tanto la moltitudine delle unità quanto il rapporto tra la quantità astratta di
una qualità ed una quantità dello stesso genere che si assume come unità»
(Arithmetica Universalis, cap. 2). Una definizione analoga a questa è data da
Wolff secondo la quale «il N. in genere ha con l'unità la stessa relazione che
una retta qualsiasi può avere con una retta data » (Ont., $ 406). Questa
definizione, come quella di Newton, fa del N. l’operazione con cui si stabilisce
un rapporto di misura. Kant non faceva che esprimere lo stesso concetto
generale affermando che il N. è uno scherma (v.) e precisamente che esso è «la
rappresentazione che comprende la successiva addizione di uno a uno (omogenei)
» (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. l). La novità del concetto kantiano
è che il N. non è un’operazione empirica cioè effettuata sul materiale
sensibile ma un’operazione puramente intellettuale che opera sul molteplice
dato dall’in- tuizione pura (del tempo) il quale è assoluta- mente omogeneo.
Questo fa del N. qualcosa di indipendente dall’esperienza e dotato di un genere
di validità che non è quella empirica; ma il N. è pur sempre un’operazione del
soggetto. Mentre questa concezione kantiana veniva ripresentata numerose volte
nella filosofia dell’800, Stuart Mill ritornava al concetto del N. come
operazione empirica di astrazione. « Tutti i numeri, egli diceva, devono essere
numeri di qualcosa: non ci sono numeri in astratto ». Pertanto i numeri sono
prodotti da una «induzione reale, da una inferenza reale da fatti a fatti» e
tale induzione è nascosta soltanto dalla sua natura comprensiva e dalla
conseguente generalità del linguaggio cui mette capo (Logic, II, 6, 2). Le
posizioni di Kant e di Stuart Mill rimangono in qualche modo tipiche per questa
fase soggettiva del concetto di N.: il N. è una pura operazione intellettuale
per Kant; è una genera- lizzazione empirica per Stuart Mill; in ogni caso appartiene
alla sfera della soggettività. All’ambito
di questa concezione del N. appartengono
le dottrine di Cantor e Dedekind. Per Cantor il N. è fondato sulla facoltà del
pensiero di aggruppare gli oggetti e di astrarre dalla loro natura e dal loro
ordine, dando così luogo al N. cardinale, o soltanto dalla loro natura, dando
così luogo al N. ordinale. Dedekind a sua volta fondò il concetto di N. sulla operazione
di appaiare o accoppiare le cose insieme. Per quanto matematicamente feconde,
queste nozioni mantengono il concetto di N. nell’ambito della soggettività. 3°
La terza fase concettuale della nozione di N. cioè quella secondo la quale il
N. è oggettivo ma non reale fu iniziata dallo scritto di Frege sui Fondamenti
dell’aritmetica (1884). Frege riconosceva al N. il carattere concettuale ma col
carattere con- 628 cettuale gli riconosceva anche l’oggettività. Ciò in primo
luogo esclude che il N. sia un’operazione o una realtà psicologica, un’idea nel
significato settecentesco del termine: «Il N. non costituisce un oggetto della
psicologia né può considerarsi come un risultato di processi psichici, più che
non possa considerarsi tale il Mare del Nord », egli dice. «Io faccio una netta
distinzione fra ciò che è ogget- tivo e ciò che è palpabile, reale e occupa uno
spazio. Per es. l’asse terrestre e il baricentro del sistema solare sono
oggettivi eppure non direi che sono reali come lo è la terra » (Die Grundlagen
der Arith- metik, $ 26; trad. ital., pag. 70-71). La matematica aveva già
stabilito l’insufficienza della definizione di N. come collezione di unità:
questa definizione infatti porterebbe ad escludere che 0 ed 1 siano numeri (e
Aristotele riconosceva la cosa per ciò che riguarda l’1; Mer., XIV, 1, 1088 a
5). Frege assume come base della definizione di numero l'estensione (v.) del
concetto e assume di dire che «il concetto F è ugualmente numeroso del concetto
G ogni qualvolta esiste la possibilità di porre in corrispondenza biunivoca gli
oggetti che cadono sotto G e quelli che cadono sotto F». Posto ciò, dà del
numero la definizione seguente: «Il N. naturale che spetta al concetto F non è
altro che l’estensione del concetto ‘egualmente numeroso ’ ad F+» (/bid., $ 68;
pag. 134). Questa definizione di Frege è stata riespressa da Russell in termini
di classi anzichè di concetti. Dice Russell: « Quando si ha una relazione di
termine a termine fra tutti i ter- mini di una collezione e tutti i termini di
un’altrdiciamo che le due collezioni sono simili. Noi pos- siamo allora vedere
che due collezioni simili hanno lo stesso N. di termini e definire il N. di una
colle- zione data come la classe di tutte le collezioni simili ad essa. Ne
risulta la seguente definizione formale: ‘il N. dei termini di una classe data
si definisce come la classe di tutte le classi simili alla classe data *» (Our
Knowledge of the External World, 3* ediz., 1926, cap. 7; trad. franc., pag.
163). La definizione di Russell, che fu posta alla base sia dei Principles of
Mathematics (1905) sia dei Principia Mathematica che egli pubblicò nel 1910 in
collabo- razione con Whitehead (le due opere fondamentali della logica
matematica contemporanea), ha avuto vasta accoglienza nella filosofia e nella
matema- tica contemporanea. Essa tuttavia è apparsa talora troppo ristretta per
le possibilità di sviluppo della matematica odierna: la quale non intende
rimanere legata a un concetto di numero che risulti comunque precostituito per
essa. 4° La quarta fase è quella che si è venuta realizzando in stretta
connessione con l’assiomatica moderna e si può connettere con i nomi di Peano, NUMINOSO
Hilbert, Zermelo, Dingler. Per essa, il N. è un segno, definito da un adatto
sistema di assiomi. Dice, ad es., Dingler: « Noi ci costruiamo una serie di
segni (segni grafici) sempre riproducibili che deve possedere le seguenti
proprietà: a) la serie ha un primo termine; 5) la serie possiede una regola di
costruzione enunciabile in modo finito tale che: a) è sempre determinato
univocamente quale termine della serie viene immediatamente a destra di un
termine già segnato; 8) ogni termine della serie è diverso da tutti i termini
che lo precedono a sinistra + (Die Methode der Physik, 1937, cap. II, 3, $ 2; trad,
ital., pag. 137-38). Questo punto di vista può essere riassunto nel modo
seguente: a) non esiste un unico oggetto o entità detta « N.» di cui siano
specificazioni i numeri definiti nei vari sistemi numerici; 5) la validità dei
vari sistemi numerici dipende soltanto dalla consistenza intrinseca di ciascun
si- stema, quale risulta definita dagli assiomi fonda- mentali; c) il concetto
di N., quale risulta nell’ambito di un sistema numerico, non è legato a una
inter- pretazione determinata ma è suscettibile di inter- pretazioni
indefinitivamente variabili. Il N. in altri termini non è privo affatto di
interpretazione (come un segno che non significhi niente) e non è legato ad
un'unica interpretazione privilegiata; ma è caratterizzato dalla possibilità di
interpretazioni diverse. Questa nozione del N. è quella abitualmente presupposta
dai più recenti sviluppi della matema- tica (v.). NUMINOSO (ingl. Numinous;
ted. Numinose). Così Rudolf Otto chiamò la coscienza di un myste- rium
tremendum cioè di qualcosa di misterioso e terribile che ispira timore e
venerazione: coscienza che sarebbe la base dell’esperienza religiosa dell’u- manità
(Das Heilige, 1917; trad. ital., // sacro, Bologna, 1926). NYAYA. Uno dei
grandi sistemi filosofici dell’India antica, caratterizzato dalla importanza in
esso assunta dalla dottrina della conoscenza e dei suoi oggetti. Il N. enumera
quattro mezzi di conoscenza: percezione, inferenza, analogia e testi- monianza;
definisce la conoscenza vera come quella che non è soggetta a contraddizioni o
a dubbi e che riproduce l’oggetto come esso è; e si ferma a deter- minare
l'elenco degli oggetti conoscibili e dei loro tratti caratteristici. Tra questi
include sia il mondo fisico con i suoi elementi, sia l’uomo nel suo corpo e le
sue attività spirituali, sia lo spazio o il tempo, Dio e in generale le
condizioni di esistenza delle cose fisiche o spirituali (cfr. G. Tucci, Storia
della filosofia indiana, 1957, pag. 112 sgg.). O O. Questa lettera nella Logica
formale « aristo- telica » viene usata come simbolo della proposizione particolare
negativa (v. A). G. P. OBBEDIENZA (lat. Oboedientia; ingl. Obe- dience; franc. Obéissance;
ted. Gehorsamkeit). È, secondo
Spinoza, il significato specifico della fede. Questa infatti consiste «
nell’avere, intorno a Dio, quei sentimenti tolti i quali, viene anche meno lO.
a Dio e che sono invece necessariamente posti quando è posta l’O.» (7ract.
rheologico-politicus, cap. 14). Questa riduzione della fede all’O. è una espressione
dell’indirizzo di dottrina che riduce la fede ad atto pratico (v. FEDE). OBBIETTIVO (ingl. Objective;
franc. Objectif; ted. Obiektive). 1. Lo stesso che
oggetto, quando la parola si adopera nel senso di fine o scopo (v. OGGETTO). 2.
Nel senso specifico proposto da Meinong, è l’oggetto del giudizio, in quanto
distinto dall’og- getto della rappresentazione. Per es., se si dice: « È vero
che vi sono gli antipodi », l'O. è costituito da «che vi sono gli antipodi ».
L’O. non è di ne- cessità esistente. Se A non è, il non-essere di A è un O.
allo stesso titolo dell’essere di A (Uber Annahmen, 1902, pag. 142 sgg.). OBBIETTO.
V. OgaetTO. OBBIEZIONE (ingl.
Objection; franc. Objec- tion;
ted. Einwurf). Un argomento la cui conclu- sione contraddice una certa tesi.
Leibniz osservava già che la verità non può soffrire ad opera di « O. in- vincibili
». « Bisogna, egli diceva, cedere sempre alle dimostrazioni sia che si
propongano per affermare, sia che si avanzino in forma di obbiezioni. Ed è ingiusto
e inutile voler indebolire le prove degli avversari col pretesto che sono solo
O.: giacchè l’avversario ha lo stesso diritto e può invertire i nomi, onorando
i suoi argomenti con il nome di prove e abbassando i nostri con quello
spregiativo di O.» (Théod., Discours, $ 25). OBBLIGAZIONE (lat. Obligatio; ingl. Obli- gation; francese Obligation; ted. Verpflichtung).
x. Il carattere costrittivo che ad un rapporto interper- sonale è conferito da
una legge giuridica o da una norma morale. Questo carattere è diverso dalla ne-
cessità (v.) per la quale è impossibile che la cosa sia o accada altrimenti:
1’O. non impedisce che, in linea di fatto, il rapporto che essa regola si
atteggi altri- menti; ma implica, in questo caso, l'intervento di una sanzione.
Talvolta il carattere obbligatorio del rapporto si esprime con la nozione di
necessità mo- rale o ideale (v. NECESSITÀ) senza che con ciò si in- tenda
ridurlo alla necessità vera e propria. Soltanto Bergson ha sostanzialmente
cercato di ridurre l’O. alla necessità di fatto, intendendo per O. le abitu- dini
sociali e per O. in generale «l’abitudine di contrarre abitudini » (Deux
Sources, cap. I). 2. Nella logica terministica medievale, l'impegno per cui
l'interlocutore ammette nella discussione qualcosa che precedentemente non
ammetteva. Questa è la definizione data da Ockham (Summa Log., III, 38). Ockham
ammette sei specie di ob- bligazioni: l'istituzione, la petizione, la
posizione, la deposizione, la dubitazione e il sit verum. L’istituzione
(institutio) consiste nel dare a un vocabolo un nuovo significato per la durata
della disputa e non oltre (Summa Log., III, III, 38) La petizione (petitio)
consiste nell’obbligare l’inter- locutore a questo o quell’atto che concerne la
sua ‘ funzione, per es. a concedere una proposizione (Ibid., III, III, 39). La
deposizione (depositio) è l'obbligazione a sostenere una proposizione come falsa
(Ibid., III, III, 42). La dubitazione (dubitatio) 630 è l’obbligazione di
sostenere qualcosa come dubbia (Ibid., III, III, 43). Per la posizione e il sit
verum vedi le rispettive voci. OBIETTAZIONE (ted. Objektation). Secondo Nicolai
Hartmann, il termine significa « divenire oggetto per un soggetto» e definisce
la natura della conoscenza. L’O. è il contrario della obietti- vazione: questa
è la trasformazione di qualcosa di soggettivo in forma oggettiva mentre
l’obietta- zione esprime il processo per cui un oggetto indi- pendente dal
soggetto diventa oggetto di conoscenza (Systematische Philosophie, 1931, $ 11).
OBVERSIONE (ingl.
Obversion; franc. Ob- version; ted.
Obversion). Questo termine di origine recente (e dovuto probabilmente a JEVONS,
Ele- mentary Lessons in Logic, pag. 85) designa la trasformazione di una
proposizione in una propo- sizione equipollente mediante la doppia negazione: per
es., la trasformazione della proposizione « tutti gli uomini sono mortali» in «
nessun uomo è non mortale ». OCCAMISMO (ingl. Ockhamism; franc. Occa- misme;
ted. Ockamismus). Con questo termine è stato chiamato sin dal sec. xv
l’indirizzo fatto pre- valere da Ockham nell’ultimo periodo della scola- stica
medievale, indirizzo caratterizzato dai capi- saldi seguenti: 1° l’empirismo,
cioè il privilegio accordato all’esperienza (o « conoscenza intuitiva +)
per la prova e il controllo della verità;
2° il nomi- nalismo, cioè la negazione della realtà degli univer- sali e la
loro riduzione a segni naturali; 3° il zer- minismo, cioè la logica della
supposizione (v.) per la quale i concetti sono termini che stanno in luogo
delle cose reali; 4° lo scetticismo teologico per il quale si ritiene
impossibile dimostrare o ra- zionalizzare le verità della fede e si attribuisce
alle stesse prove dell’esistenza di Dio un valore solo probabile. Per
quest’ultimo punto, Lutero si chiamò e fu chiamato occamista. Gli altri punti furono
difesi e illustrati nella scolastica della se- conda metà del sec. xrv e dei
primi decenni del Sec. XV. OCCASIONALISMO (ingl. Occasionalism; franc.
Occasionalisme; ted. Occasionalismus). La dottrina che la causa di tutte le
cose è soltanto Dio e che le cosiddette cause (seconde o finite) sono soltanto
occasioni di cui Dio si avvale per mandare ad effetto i suoi decreti. Questa
dottrina fu per la prima volta difesa dalla sètta filosofica araba dei
Motakallimun (cfr. MAIMONIDE, Guide des égarés, I, 73); e fu poi ripresa
nell’età car- tesiana, da quel gruppo di pensatori che vollero utilizzare la
dottrina di Cartesio per una difesa delle credenze religiose tradizionali, cioè
da Luigi De La Forge, Geraldo di Cordemoy, Giovanni Clauberg e Arnoldo
Geulincx, tutti vissuti nel OBIETTAZIONE sec. xvi. Geulincx fu il migliore
espositore della dottrina, che mira sostanzialmente a negare al- l’uomo ogni
effettivo potere nel mondo e ad at- tribuirlo a Dio. Contro l’O. si schierarono
invece Spinoza e Leibniz; mentre in sua difesa scriveva Nicolò Malebranche,
traendone la conseguenza che la conoscenza umana, non potendo essere prodotta dalle
cose (che non sono cause), è una visione delle cose in Dio (Recherche de la
vérité, 1674-75). OCCASIONE (ingl. Occasion; franc. Occasion; ted.
Gelegenheit). La situazione che provoca o fa- cilita l’intervento di un’azione
libera. Cause occa- sionali: le cause considerate come occasioni per l'azione
diretta di Dio (v. OCCASIONALISMO). Kierkegaard ha messo in luce il valore
dell’O. come «categoria del finito » e che può essere « sia pretesto sia causa
». In questo senso l’O. è « l’ul- tima categoria, la vera categoria di
transizione dalla sfera dell’idea a quella della realtà » (Aut Aut, «I primi
amori»; trad. franc., Prior e Guignot, pag. 186 sgg.). OCCULTE, QUALITÀ. V.
OccuLTo. OCCULTISMO (ingl. Occultism; franc. Oc- cultisme; ted. Okkultismus).
La credenza in feno- meni che si ritengono prodotti da forze occulte o nella
validità delle scienze occulte. Per O. si può perciò anche intendere l’insieme
di tali scienze cioè la magia, l’astrologia, la metapsichica, la teosofia, ecc.
(v. le singole voci). OCCULTO (ingl. Occul; franc. Occulte; te- desco Okkult).
Ciò che si nasconde alla vista e perciò può essere scoperto solo da chi ha una seconda
vista, nel senso di essere iniziato a una forma superiore di sapere. Scienza
occulta in questo senso è, in primo luogo, la magia: Cornelio Agrippa nel De
occulta philosophia (1510) includeva nella magia tutte le scienze possibili. Ma
scienze O. si chiamano oggi anche la teosofia, la parapsico- logia, ecc., sia
perchè hanno a che fare con feno- meni che si ritengono manifestazioni di forze
O. sia perchè si ritiene che lo studio di tali fenomeni debba essere riservato
a coloro che sono stati ini- ziati a un ordine superiore di conoscenze
esoteriche. Qualità O. si cominciarono a chiamare, a partire dal sec. XVII, le
cause formali e finali dell’aristotelismo e della scolastica, intendendosi
sottolineare con questa espressione che appellarsi a tali cause equivaleva ad
appellarsi a fattori più sconosciuti dei fenomeni stessi, quindi incapaci di
spiegarli. « Gli aristotelici, diceva Newton, dettero il nome di qualità O. non
alle qualità manifeste ma a quelle qualità che sup- ponevano esser nei corpi
come cause sconosciute di effetti manifesti » (Opricks, 1704, III, 1, q. 31). OFELIMITÀ
(ingl. Ophelimity; franc. Ophé- limité; ted. Ophelimitàt). Termine creato da
Vil- fredo Pareto (Cours d’économie politique, Lausanne, OGGETTIVO 1896, $
5-6), per designare la qualità fondamentale degli oggetti economici cioè il
valore d’uso, che non sempre coincide con l’utilità; ad es., uno stupefacente
ha O. ma non utilità. OGGETTITÀ (franc. Objectité; ted. Objektitàr). Termine di
cui Schopenhauer si servi per defi- nire il corpo e le cose naturali; che
sarebbero «l’O. della volontà» nel senso di essere «la volontà oggettivata
ossia divenuta rappresentazione » (Die Welt, I, $ 18, 25, ecc.). OGGETTI,
TEORIA DEGLI (ted. Gegen- standstheorie). Così A. Meinong chiamò la scienza che
considera gli oggetti in quanto oggetti cioè prescindendo dalle loro
specificazioni (realtà o ir- realtà, ecc.). Questa scienza non è la metafisica nel
senso tradizionale perchè questa considera la totalità degli O. esistenti, che
sono solo una piccola parte degli oggetti possibili (cfr. Uber Annahmen, 1902;
Gegenstandstheorie, 1904; Zur Grundlegung der allgemeinen Werththeorie, 1923)
(v. OBBIETTIVO; OGGETTO). OGGETTIVISMO (ingl. Objectivism; francese Objectivisme;
ted. Objektivismus). Qualsiasi dot- trina la quale ammetta che esistano oggetti
(signi- ficati, concetti, verità, valori, norme, ecc.) validi indipendentemente
dal soggetto cioè indipendente- mente dalle credenze e dalle opinioni dei vari soggetti.
OGGETTIVITÀ (ingl. Objectivity; francese Objectivité; ted. Objektivitàt). 1. In
senso ogget- tivo: carattere di ciò che è oggetto. In questo senso Husserl
parlava di una «O. primaria» che apparterrebbe alle cose e le privilegerebbe di
fronte ad altri oggetti come proprietà, relazioni, stati di fatto, insiemi,
ecc. (Zdeen, I, $ 10) (v. OGGETTO). 2. In senso soggettivo: carattere della
consi- derazione che cerca di vedere l’oggetto così com'è prescindendo dalle
preferenze o dagli interessi di chi lo considera e soltanto in base a procedure
intersoggettive di accertamento e di controllo. In questo significato, l’O. è
l'ideale della ricerca scien- tifica: ideale cui essa si avvicina nella misura
in cui dispone di procedure adeguate. OGGETTIVO (ingl. Objective; franc. Objectif; ted. Objektiv). Ciò che esiste come oggetto o ha un
oggetto o appartiene ad un oggetto. Questo aggettivo ha, a prima vista, assai
più significati del corrispondente sostantivo; giacchè oltre ai si- gnificati
che sono connessi a quest’ultimo, è stato usato a significare: ciò che è valido
per tutti; ciò che è esterno rispetto alla coscienza o al pensiero; ciò che è
indipendente dal soggetto; ciò che è con- forme a certi metodi o regole; ecc. A
tali signi- ficati ha dato prevalentemente luogo la determina- zione kantiana
dell’oggetto di conoscenza come oggetto reale o empiricamente dato. Si possono 631
enumerare tre significati fondamentali del termine: 1° ciò che esiste come
oggetto; 2° ciò che ha un oggetto; 3° ciò che è valido per tutti. I due ultimi sono
strettamente connessi tra loro e con gli altri significati elencati. 1° Il
primo significato è quello corrispondente al significato fondamentale di
oggetto: O. è ciò che esiste come termine o limite di un'operazione attiva o
passiva. A tale definizione risponde in primo luogo l’uso che del termine fu
fatto nel- l’ultima età della Scolastica da Duns Scoto in poi. Per esso infatti
fu inteso ciò che esiste come og- getto dell’intelletto, in quanto è pensato o
imma- ginato, senza che ciò implichi che esista anche fuori dell’intelletto
stesso o nella realtà. In questo senso adoperavano il termine Duns Scoto (De
An., 17, 14), Antonio Andrea (Super artem veterem, 1517, f. 87r.), Francesco
Majrone (In Sent., I, d. 47, q. 4) e Durando di S. Pourgain (In Sent., I, d.
19, q. S, 7). Dice Walter Burleigh: « Sebbene l’universale non abbia esistenza
fuori dell’anima, come i moderni dicono, non c’è dubbio tuttavia che, secondo
il parere di tutti, l’universale ha esi- stenza O. nell’intelletto giacchè
l’intelletto può in- tendere il leone in universale senza intendere questo leone
» (Super artem veterem, 1485, f. S9r.) « Esistere oggettivamente » significa,
in questo caso, esistere sotto forma di rappresentazione o di idea cioè come
oggetto del pensiero o della percezione: un significato che ricorre
identicamente in Car- tesio (Médir., III, 11), in Spinoza (Er., I, 30; II, 8
cor.; ecc.) e in Berkeley (Siris, $ 292). In tutti questi casi, l’O. non
designa nè ciò che è reale nè ciò che è irreale, ma semplicemente ciò che è oggetto
dell’intelletto e che può, ad una seconda considerazione, rivelarsi sia reale
che irreale. 2° Corrispondentemente alla limitazione che l’oggetto di
conoscenza ha ricevuto da Kant come oggetto «reale», c’è il secondo significato
di O. come di ciò che ha per oggetto una realtà empiri- camente data. In questo
senso Kant afferma che la conoscenza è «oggettiva» o « oggettivamente valida ».
Già nelle sue distinzioni terminologiche Kant include questo significato: « Una
percezione che si riferisca unicamente al soggetto, come mo- dificazione del
suo stato, è sensazione; una per- cezione O. è conoscenza. Questa è o
un’intuizione o un concetto. Quella si riferisce immediatamente all’oggetto ed
è singolare; questo gli si riferisce mediatamente, per mezzo di una nota, che
può essere comune a più cose» (Cri. R. Pura, Dialet- tica, libro I, sez. I. Da
questo punto di vista, «validità O.» e «realtà» coincidono. Dice infatti Kant:
«Le nostre considerazioni insegnano la realtà, cioè la validità O., dello
spazio rispetto a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno 632 come
oggetto» (/bid., $ 3); e analogamente dice del tempo: « Le nostre
considerazioni dimostrano la realtà empirica del tempo cioè la sua validità O. rispetto
a tutti gli oggetti che possono essere le- gati ai nostri sensi » (/bid., $ 6).
In tal senso, O. è ciò che è empiricamente reale; e l’empiricamente reale è,
per Kant, il prodotto di una sintesi che, per essere effettuata nella coscienza
comune o ge- nerica, vale per tutti i soggetti pensanti e non per uno solo di
essi (Pro/eg., $ 22). Kant dice: «I giu- dizi sono © soggettivi, quando le
rappresentazioni vengono riferite solo ad una coscienza in un sog- getto ed in
esso unificate; o sono O. quando sono collegate in una coscienza genericamente
cioè ne- cessariamente +» (/bid., $ 22). Queste considerazioni servono di
passaggio alla definizione di O. che Kant dette nel dominio pratico e
sentimentale: chiamando O. le leggi pratiche «che possono es- sere riconosciute
valide per la volontà di ogni essere razionale » (Crir. R. Prat., $ 1); e «
prin- cipio O. + l'accordo universale nel giudizio di gusto (Crit. del Giud., $
22). 3° Queste considerazioni kantiane stabiliscono il trapasso al terzo
significato fondamentale di O., cioè «valido per tutti». Questo significato
assai diffuso nelle scuole criticiste e idealiste contempo- ranee, fu ben
espresso da Poincaré: « Una realtà completamente indipendente dallo spirito che
la concepisce, la vede o la sente, è una impossibilità. Un mondo esterno in
questo senso, se anche esi- stesse, ci sarebbe inaccessibile. Ma ciò che chia- miamo
realtà O. è, in ultima analisi, ciò che è comune a più esseri pensanti e
potrebbe essere comune a tutti» (La valeur de la science, 1905, pag. 9).
Poincaré riferiva questa considerazione alle matematiche; ma quasi
contemporaneamente lo stesso concetto di oggettività veniva fatto valere nella
metodologia delle scienze sociali da Max Weber: il quale osservava che «la
verità scientifica è quella che è valida per tutti coloro che cercano la verità
» e che anche nelle scienze sociali ci sono risultati che non sono soggettivi
nel senso di essere validi per una sola persona e non per le altre (« L’og- gettività
nelle scienze sociali e nella politica sociale », 1904, in 7he Methodology of
the Social Sciences, 1949, pag. 84). Questo tipo di oggettività si chiama oggi
intersoggettività; e la condizione fondamentale di essa è riconosciuta nel
possesso e nell’uso di speciali tecniche procedurali che, in un dato campo, garantiscano
la messa a prova e il controllo dei risultati di un'indagine. « Valido per
tutti» signi- fica perciò anche « intersoggettivamente valido » o « conforme a
un metodo qualificato +». E allo stesso concetto di O. si connettono i
significati di « indi- pendente dal soggetto» e di «esterno alla co- scienza +.
Ciò che è O. nel senso d'esser valido OGGETTIVO, IDEALISMO per tutti è difatti
indipendente da questo o quel soggetto, cioè dalle sue particolari preferenze o
valutazioni; e dall’altro lato il solo mezzo che un soggetto particolare ha per
disciplinare o tenere a freno le sue preferenze e valutazioni è quello di far
ricorso a qualificati procedimenti di metodo. Infine l’equivalenza tra O. ed
esterno è la trascri- zione di questi stessi concetti sul piano di quel linguaggio
coscienzialistico nel quale le parole «esterno» ed «interno» trovano una
qualche giusti- ficazione del loro uso (v. ESTERIORITÀ; REALTÀ). OGGETTIVO,
IDEALISMO (ted. Objektiver Idealismus). Uno dei tre tipi fondamentali di
filosofia cioè di intuizione del mondo, secondo Dilthey, e precisamente quella
che è fondata sul sentimento e dominata dalla categoria del valore. In questo tipo
di filosofia Dilthey comprendeva Eraclito, gli Stoici, Spinoza, Leibniz,
Shaftsbury, Goethe, Schel- ling, Schleiermacher, Hegel, e riteneva proprio di essa
il panteismo (Das Wesen der Philosophie, 1907, III, 2; trad. ital., in Critica
della Ragione storica, pag. 469) (v. IDEALISMO DELLA LIBERTÀ; NATURALISMO). OGGETTO
(lat. Obiectum; ingl. Object; fran- cese
Objet; ted. Objekt, Gegenstand). Il termine di una
qualsiasi operazione, attiva o passiva, pratica, conoscitiva o linguistica. Il
significato della pa- rola è generalissimo e corrisponde al significato di cosa
(v.). O. è il fine a cui si tende, la cosa che si desidera, la qualità o la
realtà percepita, l’immagine fantasticata, il significato espresso o il
concetto pen- sato. La persona è oggetto di amore o di odio, di stima, di
considerazione o di studio; e in questo senso l’io stesso è o può essere
oggetto. Ogni attività o passività ha come suo termine o limite un’O., qualificato
in corrispondenza del carattere specifico dell'attività o della passività.
Accanto a questo significato generalissimo e fondamentale, per il quale il
termine è insostituibile, si riscontra talora, nel linguaggio filosofico e nel
linguaggio comune, un significato più ristretto o specifico, per il quale l’O.
è tale solo se provvisto di una particolare vali- dità: ad es. se è «reale» o
«esterno» o « indipen- dente», ecc. (v. OGGETTIVO). Questo secondo significato
tuttavia non elimina ma presuppone il primo. La parola è stata introdotta nella
filosofia dagli Scolastici del sec. xm. Essa è chiaramente definita da San
Tommaso il quale dice che «l’O. di una potenza o di un abito è propriamente ciò
sotto la cui ragione (ratio) è compreso tutto ciò che si rife- risce alla
potenza o all’abito in questione. Per es.: l’uomo e la pietra si riferiscono
alla vista in quanto sono colorati: ciò che è colorato è dunque l’O. proprio
della vista» (S. 7%., I, q.1, a. 7). Questa nozione di O. veniva
sostanzialmente ripresa da OGGETTO Duns Scoto che definiva l’O. di un sapere
come la materia (subjectum) del sapere stesso in quanto appresa o conosciuta.
Una materia conoscibile diventa, secondo Duns, O. conosciuto mediante un abito
intellettuale che sia relativo a questo oggetto (Op. Ox., Prol., q. 3, a. 2, n.
4). Jungius non faceva che esprimere nel modo più semplice la stessa no- zione
quando affermava: « Si dice O. ciò intorno cui vertono le facoltà, gli abiti e
i loro atti» (Logica, 1638, I, 9, 37). Wolff a sua volta diceva: «O. è l’ente
che termina l’azione dell’agente o nel quale terminano le azioni dell’agente:
sicchè è quasi un limite dell’azione » (Ont., $ 949). Questo significato è
rimasto fondamentale nel- l'uso che del termine è stato fatto nella filosofia moderna
e contemporanea. La questione del carat- tere reale o ideale dell’O. in
generale o di una classe specifica di O. (ad es. degli O. fisici o cose), non
ha influito su di esso. Così l’O. della conoscenza può essere considerato
un’idea (come voleva Berkeley) o una rappresentazione (come voleva
Schopenhauer) o una cosa materiale (come voleva la Scuola scozzese del senso
comune) o un fenomeno (come voleva Kant), ma esso è sempre, come O., il termine
o limite dell'operazione conoscitiva. Tuttavia proprio Kant inizia l’uso
ristretto del termine per il quale l’O., o più esattamente l’O. di conoscenza
è, di preferenza, l’O. « reale» o «empirico ». Dice Kant infatti: « C'è gran
differenza tra l'essere qualcosa data alla mia ragione come O. assolutamente o solo
come O. nell’idea. Nel primo caso, i miei con- cetti passano a determinare
l’O.; nel secondo non c'è realmente che solo uno schema al quale non viene
attribuito direttamente alcun O., neppure ipoteticamente, ma che serve soltanto
a rappresen- tare altri O., nella loro unità sistematica, per mezzo della
relazione loro all’idea. Così io dico: il concetto di una intelligenza suprema
è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve consistere in ciò
che esso si riferisca direttamente ad un O. (poichè il suo valore oggettivo non
può essere giu- stificato in questo modo) ma è solo uno schema, ordinato
secondo le condizioni della massima razio- nalità del concetto di una cosa in
generale » (Crif. R. Pura, Dialettica, Appendice). Queste considera- zioni di
Kant tornano a dire che l’idea della ragion pura, propriamente parlando, non ha
O. perchè l'O. è soltanto quello empirico (la cosa naturale) e l’idea si
riferisce solo indirettamente a un gruppo di tali oggetti. Tuttavia questo
significato specifico dell'O. non elimina, neppure per Kant, il significato generale
e fondamentale. Kant infatti non solo considera il concetto di O. come il
concetto « più alto » in filosofia (v. Ia chiusa di questo articolo), ma anche
parla di una « distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e
noumeni» e considera 633 lo stesso noumeno come « l’O. di un’intuizione non sensibile»
ammessa in linea ipotetica, in quanto potrebbe essere propria di un intelletto
divino (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III). D'altronde per Kant, oltre
che l’O. di conoscenza, c’è «l’O. della ragion pratica» che è «la
rappresentazione di un O. come di un effetto possibile mediante la libertà »
(Crif. R. Prat., I, Libro I, cap. 2): il che vuol dire che l’O. è in questo
caso il termine o il risultato di un’azione libera. Ciò che in ogni caso
costituisce l’O. è la sua funzione di limite o termine di un’attività o di
un’operazione qualsiasi. Tale nozione non viene meno neppure nelle più radicali
forme dell’idealismo: per lo stesso Fichte l'O. è infatti il limite
dell’attività dell’Io. «L’Io pone se stesso come limitato dal non io +, egli
dice (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, A); e il non io non è che 1’O. (/bid., $
4, E, III; trad. ital., pag. 143). Analogamente, ogni altra determinazione che
i filosofi possono dare della natura dell’O. assume come punto di partenza la
definizione generale di esso. Ad es. l’O. può essere considerato come un dato
(come fanno abitualmente gli empiristi) o come un problema (come hanno fatto i
neocriticisti, per es. NatoRP, Platos Ideenlehre, pag. 367); ma può essere
l’una o l’altra cosa solo se viene considerato come il termine o il limite
dell’attività conoscitiva. Nella filosofia contemporanea, il ricorso della
nozione di intenzionalità (v.) ha permesso di rico- noscere chiaramente il
carattere generale della nozione di oggetto. Brentano che per primo ha reintrodotto
quella nozione, dice che « ogni fenomeno psichico include in sè qualcosa come
O., sebbene non sempre allo stesso modo. Nella rappresenta- zione c’è qualcosa
di rappresentato, nel giudizio qualcosa di riconosciuto o negato, nell'amore
qual- cosa di amato, nell’odio qualcosa di odiato, ecc. + (Psychologie vom
empirischen Standpunkt, 1874, I, pag. 115). E Husserl ha ancora generalizzato il
concetto, distinguendo l’O. dall’ « O. afferrato ». « Si deve notare, egli ha
detto, che l’O. intenzionale di una coscienza (preso come pieno correlato di questa)
non è affatto uguale all’O. afferrato (erfass- tes). Noi siamo soliti di
assumere senz’altro l’essere afferrato nel concetto di O. (di O. intenzionale) in
quanto, pensando ad esso o parlandone, ne facciamo un O. nel senso
dell'afferrato. ...Certo non possiamo rivolgerci ad una cosa fisica se non afferrandola;
e lo stesso si dica di tutte le oggettività schiettamente rappresentabili...
Invece nell’atto del valutare, in quello del gioire, dell’amare, dell'agire,
noi siamo rivolti rispettivamente al
valore, all’O. felicitante, all’O. amato, all’azione, senza afferrare nulla di
tutto questo » (Zdeen, I, $ 37). Parallelamente ed analogamente, Meinong
difendeva il significato 634 generalissimo della nozione di O. (Gegenstand) dividendola
nelle due classi degli O. della rappre- sentazione od obbietti (Objekre) e
degli O. del giudizio od obbiettivi (Objektive) (Uber Annahmen, 1902, pag. 142
sgg.). Quasi contemporaneamente, nel dominio della logica matematica, Frege
difen- deva una nozione sostanzialmente identica dell’O., identificando l’O.
con il significato. « Il significato di una parola, egli diceva, è l’O. che noi
indichiamo con essa» (Uber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 3; trad. ital., pag.
222): e intendeva dire che l’O. è il termine o il limite dell’operazione
linguistica, cioè dell’uso del segno. A sua volta Wittgenstein diceva «Il nome
variabile ‘x’ è il segno proprio dello pseudo concetto oggetto. Ogni qualvolta
il termine O. (‘ cosa ’, ‘ entità ’, ecc.) è usato corretta» mente, viene
espresso nel simbolismo logico dal nome variabile» (7ract. /ogico-philos.,
4.1272). Non molto lontano da questa è la nozione di O. esposta da Dewey per il
quale O. è il risultato di un’opera- zione di indagine. «Il nome O., egli dice,
sarà riservato alla materia trattata nella misura in cui essa è stata prodotta
e ordinata in forma sistematica per mezzo dell’indagine; proletticamente,
oggetti sono gli obbiettivi dell’indagine. L’ambiguità che si potrebbe
riscontrare nell’uso del termine in questo senso (poichè di regola la parola si
applica alle cose osservate e pensate) è soltanto apparente, giacchè le cose
esistono come O. per noi solo in quanto siano state preliminarmente determinate
quali risul- tati di indagine » (Logic, cap. 6; trad. ital., pag. 175). È
facile vedere che la differenza tra queste defini- zioni di O. è soltanto la
differenza fra le attività o le operazioni che si considerano: l’O. è il
termine del significato, se si considera il linguaggio e in generale l’uso dei
segni; è il termine di un’operazione di inda- gine se si considera la ricerca
scientifica; e così via; ma in ogni caso è (come già ritenevano gli Scolastici)
il termine o il limite di un’operazione determinata. La parola O. è perciò il
termine più generale di cui disponga il linguaggio filosofico. Kant aveva
ragione a questo proposito affermando che se «il più alto concetto da cui si
suol prendere le mosse in una filosofia trascendentale è la divisione di possibile
e impossibile», poichè ogni divisione presuppone un concetto da dividere, «
dev'essere addotto un concetto ancora più alto e questo è il concetto di un O.
in gezerale, assunto in modo problematico e senza decidere se esso sia qualcosa
o niente» (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei concetti
della riflessione). È ovvio che il concetto di O. non coincide interamente con nessuna
delle sue specificazioni possibili. Le cose, i corpi fisici, le entità logiche
e matematiche, i valori, gli stati psichici, ecc., sono tutti O., specificati o
specificabili per via di particolari modi d’essere OGNI o di particolari
procedure di accertamento; ma nessuna di queste classi di O. possiede
un’oggettività privilegiata e nessuna si presta ad esprimere, nel suo àmbito,
la caratteristica dell'O. in generale. OGNI (gr. nic; lat. Omnis; in. Any; fr. Chaque; ted. Jeder). Nella logica contemporanea, O.» è
un operatore di campo, di cui il simbolo più usato è ‘(x) *», per es. in
formule come ‘(x)-f(x) ”, che si legge « per ogni x, f(x) è vero». Esso corri- sponde
ad un prodotto logico (o congiunzione logica) operato nel campo di validità
della (x), cioè alla congiunzione ‘f(a) e f(b) e f(c) e... *. Ove f(x) sia un
predicato, questa equivale alla formula consueta ‘ O. x è f” o anche ‘tutti gli
x sono f della logica tradizionale. Aristotele aveva usato «O.» nella
proposizione universale afferma- tiva: «Ogni A è B» e quest’uso fu seguito
dalla logica medievale. In questo uso la funzione di « O. » non si distingue da
quella di «tutti». Tuttavia la logica terministica medievale distinse due
significati di « tutti »: il significato collettivo per cui, ad es., sì dice «
Tutti gli Apostoli sono 12» dal quale non segue che « Questi Apostoli sono 12»;
e il signifi- cato distributivo per cui, ad es., si dice « Tutti gli uomini
desiderano naturalmente conoscere +, dal quale segue «O. uomo desidera
naturalmente co- noscere ». In quest’ultimo caso «O.» indica una disposizione
della cosa che può fungere da soggetto o da predicato (Pietro Hispano, Summ.
Log., 12.04-06). Nella logica moderna la distinzione tra O. e tutto è stata
fatta valere da Frege (Grundgesetz der Arithmetik, 1893, I, $ 17) e da Russell.
Quest’ul- timo ritiene che tale distinzione consiste nel fatto che
un’asserzione contenente una variabile x, per es. ‘x = x”, può essere fatta
valere o per lutti gli esempi o per uno qualsiasi degli esempi senza decidere a
quale esempio si faccia riferimento. In questo secondo caso si fa uso
dell’operatore ogni. Così nelle dimostrazioni di Euclide si assume, per
ragionare, un triangolo qualsiasi ABC senza determinare che specie di triangolo
sia. In tal caso, il triangolo ABC vale come una variabile reale: esso è
qualsiasi triangolo, per quanto rimanga lo stesso attraverso la dimostrazione.
L’operatore tutti invece fa leva su variabili apparenti che sono quelle le
quali, comunque determinate, non mutano il valore della funzione. Russell
ritiene che la distin- zione tra rutti e O. sia necessaria al ragionamento
deduttivo
(Marhematical Logic as Based on the Theory of Types, 1908, in Logic and
Knowledge, pag. 64 sgg.; cfr. Principles of Mathematics, $ 60-61; Principia
Mathematica). OLIGARCHIA. V. Governo, FORME DI. OLISMO
(ingl. Holism; franc. Totalisme; te- desco Holismus). 1. Una variante della
dottrina ONIROLOGIA dell’evoluzione emergente (v.) che consiste nel capovolgimento
dell’ipotesi meccanistica e nel rite- nere che non già i fenomeni biologici
siano dipen- denti da quelli fisico-chimici, ma questi ultimi dai primi. Questa
ipotesi non è che una forma appena mascherata di vitalismo. Cfr., J. C. SMuTs, Holism and
Evolution, 1927; J. S. HALDANE, The Philoso- vhical Basis of Biology, 1931;
DRIEscH, Zur Kritik es Holismus, 1936. 2.
K. Popper ha chiamato O. la tendenza degli storicisti a sostenere che
l’organismo sociale, come quello biologico, è qualcosa in più della semplice
somma complessiva dei suoi membri ed è anche qualcosa in più della semplice
somma com- plessiva delle relazioni esistenti tra i membri (The Poverty of
Historicism, 1944, $ 7). OLOMERIANI (ingl.
Holomerians; ted. Holo- merianer). Così Henry More chiamò
coloro che credono che l’anima risieda nella totalità del corpo piuttosto che
in una parte di esso (Enchiridion Metaphysicum, I, 27, 1). OMEOMERIE (gr. suotoptperar;
ingl. Homeo- meries; franc. Homéomériesj ted. Homoiomerien). Con questa espressione che significa «
parti simili » Aristotele chiamò i semi di Anassagora cioè le parti (che non
sono elementi perchè sempre a loro volta divisibili) che secondo Anassagora
com- pongono un corpo e che sono in prevalenza simili al corpo stesso. Così,
per quanto in ogni corpo vi siano particelle o semi di tutti gli altri corpi, in
ogni corpo tuttavia è prevalente una certa specie di particelle che è quella
che dà nome al corpo stesso (ARIST., De Caelo, III, 3, 302 b 3; Met., I, 3,
984a 14; cfr. Diog. L., II, 8; Lu- crEzIO, De rer. nat., I, 830; Sesto EMPIR.,
Adv. Math., X, 25). OMINISMO (ted. Hominismus). Termine creato da Windelband
per indicare il relativismo e cioè la dottrina che l’uomo è la misura di tutte
le cose (v. RELATIVISMO). OMOGENEITÀ (ingl. Homogeneity; fran- cese
Homogénéité; ted. Homogeneitàt). La relazione tra cose che appartengono allo
stesso genere (per es., bianco e nero); o hanno la stessa composizione (per
es., le parti di un oggetto composto dallo stesso materiale); o che hanno tra
loro parti simili cioè che si corrispondono termine a termine (per es., due
orologi costruiti allo stesso modo). Spencer usò il termine nel senso di
indifferenziazione e definì l’evoluzione come il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo,
cioè da ciò che è indifferenziato a ciò che è differenziato in parti tra loro
diverse (First Principles, $ 145). Kant chiamò «principio della O.» la regola della
ragione di cercare unificazioni concettuali sempre più estese cioè generi
sempre più alti; 635 regola che farebbe da contrapposto simmetrico a quella
della specificazione (v.) e con questa conflui- rebbe nella legge dell’affinità
(v.) (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica trascendentale). Hamilton ripetette
sostanzialmente queste nozioni kantiane. Egli chiamò «legge di O.» l’enunciato
che « Due concetti per quanto differenti tra loro possono sempre essere
subordinati a un concetto più alto; o che, in altri termini, le cose più
dissimili devono, in certi rispetti, essere simili». Accanto a questa, Hamilton
enunciò pure «la legge di eterogeneità » secondo la quale «Ogni concetto
contiene sotto di sè altri concetti; e perciò, quando venga divisa, si discende
sempre ad altri concetti, mai agli indi- vidui; o che, in altri termini le cose
più omogenee o simili devono in certi rispetti essere eterogenee o dissimili ».
Queste due leggi governano, secondo Hamilton, tutta la classificazione delle
cose in generi e specie (HAMILTON, Lectures on Logic, $ 40; vol. I, 22 ediz.,
1865, pag. 209-10). OMOIUSIA-OMUSIA (gr. suorcvola, suovola). Si disse che
l’intera disputa teologica che mise capo al Concilio di Nicea (325) vertesse
intorno a un iota: cioè alla differenza tra l’omoiusia, la dottrina di Ario che
ammetteva solo una somi- glianza tra la sostanza di Dio-Padre e quella del Logos
e l’omusia cioè la dottrina di Atanasio che ammetteva l’identità della sostanza
di Dio-Padre con quella del Logos. La decisione del Concilio in favore
dell’omusia stabilì il principale caposaldo dogmatico della teologia cristiana.
OMOLOGIA (gr. suoroyla; ingl. Homology; franc. Homologie; ted. Homologie). 1. Per gli Stoici questo era il termine tecnico per
indicare l'accordo con la natura quale regola fondamentale della con- dotta
(STOBEO, Ecl., II, 76, 3): termine che Cice- rone tradusse con convenientia (De
Fin., III, 6, 21). 2. L’O. è oggi un concetto scientifico variamente de- finito
nelle varie discipline. In geometria si dicono omologhi gli elementi di due
figure simili che si corrispondono. In biologia si dicono omologhi gli organi
che si corrispondono per la loro situazione nei confronti dell’intero
organismo, pur non avendo la stessa funzione (com'è invece degli organi ana- loghi)
(v. ANALOGIA). OMONIMIA (ingl. Homonymy; franc. Homo- nymie; ted. Homonymie). In Aristotele designa l’am- biguità di un
termine, cioè il fatto che il termine stesso venga usato a denotare cose
diverse. L’O, della frase si chiama anfibolia (v.) (v. EquIvoco; UNIVOCO). G.
P. OMOTEISMO (ingl. Homotheism; ted.
Homo- theismus). Lo stesso che antropomorfismo
(v.). Ter- mine creato da Ernesto Haeckel. ONIROLOGIA. L'’interpretazione dei
sogni (v. SOGNO). 636 ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA. Vedi TEODICRA. ONORE (gr. «ia; ingl. Honor; franc.
Honneur; ted. Ehre). Ogni
manifestazione di considerazione e di stima tributata ad un uomo da altri
uomini, come pure l’autorità o il prestigio o la carica di cui venga
riconosciuto investito. Gli antichi con- siderarono l’O. come uno dei beni
fondamentali della vita sociale; e Aristotele riconobbe che c’è una virtù nei
confronti dell'O., come c'è una virtù (la liberalità) nei confronti del denaro.
Tale virtù è la magnanimità (v.), il cui eccesso è l'ambizione e il cui difetto
è la piccolezza d’animo (Et. Nic., II, 7, 1107b 20). Questa accentuazione
dell’im- portanza dell’O. ritenuto come «il premio della virtù e del ben fare»
(/bid., VIII, 14, 1163b 3) deriva all’etica greca, dalla quale è passata nel costume
e nel diritto della tradizione occidentale, dalla sua impostazione
aristocratica. La « rispetta- bilità » è, nel mondo moderno, l’analogo di
questo antico concetto. È abbastanza ovvio tuttavia che «il ben fare +
(svepyeota) del quale, oltre che della virtù, l'O. dovrebbe essere il premio,
secondo Ari- stotele, include una buona dose di conformismo ai pregiudizi
dominanti nel gruppo o nella classe sociale che conferisce l’O. e l’analogo
moderno dell’O., la rispettabilità, non include una dose minore di conformismo.
Non fa perciò meraviglia che l’O. abbia spesso suggerito e continui a sug- gerire
azioni immorali o malvagie o veri e propri delitti, sia nella vita privata, sia
nei rapporti tra i popoli, nei quali 1’O. ha spesso avuto una parte predominante
nel suscitare o mantenere vivi i con- flitti. ONTICO (ingl. Ontic; franc.
Ontique; tedesco Ontisch). Esistente: distinto da ontologico che si riferisce
all’essere categoriale cioè all’essenza o alla natura dell’esistente. Ad es.,
la proprietà empirica di un oggetto è una proprietà O., la possibilità o la
necessità è una proprietà ontologica. La distin- zione è stata sottolineata da
Heidegger: «‘ Onto- logico’ nel senso che alla parola è dato dalla volga- rizzazione
filosofica (e qui si fa avanti la radicale confusione) significa ciò che invece
dovrebbe venir detto O. cioè un atteggiamento verso l'ente tale da lasciarlo
essere in se stesso, in ciò che è e com'è. Ma con tutto ciò non è ancora stato
posto il pro- blema dell’essere, nè tanto meno raggiunto ciò che deve
costituire il fondamento per la possibilità di una ‘ontologia ’» (Vom Wesen des
Grundes, I, n. 14; trad. ital., pag. 23). ONTOGENESI. V. BrogENETICA, LEGGE. ONTOLOGIA.
V. METAFISICA. ONTOLOGICA, PROVA. V. Dio, Prove DI. ONTOLOGISMO (ingl.
Ontologism; francese Ontologisme; ted. Ontologismus). La dottrina se- ONNIPOTENZA,
ONNISCIENZA condo la quale «il lavoro filosofico non comincia nell’uomo ma în
Dio, non sale dallo spirito all'Ente, ma discende dall’Ente allo spirito»
(GIOBERTI, Intr. allo studio della fil, 1840, II, pag. 175). L’O. si oppone
allo psicologismo che segue il cam- mino opposto e si ritiene proprio della
filosofia moderna a cominciare da Cartesio. La tesi fonda- mentale dell'O. è
che l’uomo possiede una visione o intuizione immediata o diretta dell’ente: o
del- l’ente genericamente inteso come nozione generale dell’essere, come
ritiene Rosmini; o dell’ente in- teso come lo stesso Ente supremo cioè Dio,
come ritiene Gioberti. Questa tesi fondamentale deriva agli ontologisti
dall’agostinismo scolastico che aveva sempre insistito sulla diretta
illuminazione dell’in- telletto umano da parte di Dio; e, più immediata- mente,
dagli Occasionalisti e da Malebranche che avevano ridotto ogni specie di
conoscenza alla vi- sione in Dio (v. AGOSTINISMO; OCCASIONALISMO). L’O. rientra
tuttavia nel quadro di quel ritorno romantico alla tradizione che, nella prima
metà dell’800, domina la filosofia europea e fa leva sui due concetti
strettamente connessi di rivelazione e di tradizione: difatti l'intuizione
dell’ente è intesa come la rivelazione che l’ente fa di se stesso al- l’uomo. L’O.
di Rosmini limita questa rivelazione alla nozione generale dell’essere o
«essere possibile », inteso come forma fondamentale e originaria della mente
umana e come condizione di ogni conoscenza, che sarebbe sintesi tra l’idea
dell'essere e un dato sensibile (Nuovo saggio sull’origine delle idee, 1830, $
492, 537). L’atto della conoscenza così intesa è la percezione intellettiva
(v.). Gioberti invece ri- tenne che Dio si rivela all'uomo (all’intuito) nella
sua stessa attività creatrice; e vide l’intuito stesso espresso pienamente
nella formula «l’Ente crea l’esistente » che pone in relazione tre realtà: la
Causa prima, le sostanze create e l’azione crea- tiva (Intr. allo studio della
fil., 1840, II, pag. 183). Sia Rosmini che Gioberti sono in polemica con la
filosofia moderna che accusano di soggettivismo, di psicologismo e di nullismo;
ma in realtà, come si è detto, la loro dottrina è di stampo schiettamente romantico
e trova riscontro nella filosofia del se- condo Schelling, in quella di
Schleiermacher e di altri epigoni romantici. Una continuazione del- l’O. nella
filosofia contemporanea si può conside- rare la filosofia di P. Carabellese,
che ha cercato di conciliare Rosmini con Kant. Carabellese con- sidera la
coscienza, che è il punto di partenza e l’unico fondamento della filosofia,
come la consa- pevolezza che il soggetto ha dell’essere; ma, a differenza di
Rosmini e di Gioberti, considera l’essere come assolutamente immanente alla co-
scienza stessa. Tuttavia anche Carabellese chiama OPINIONE tale essere Dio; e
considera Dio come il fonda- mento dell’oggettività di tutte le cose
particolari che la coscienza può attingere (Critica del concreto, 1921; 7
problema teologico come filosofia, 1931). ONTOTEOLOGIA. V. TroLogia, 2°. OPERATORE
(ingl. Operator; franc. Opé- rateur; ted. Operator). In logica: un simbolo
impro- prio [o sincategorematico (v.)], che può essere usato, insieme con una o
più variabili e con una o più costanti o forme, per produrre una nuova costante
o forma. Questa è la definizione data da A. Church (Intr. to Mathematical
Logic, 1956, $ 06): ed è la definizione più generica che permette di
comprendere nell’ambito del termine, oltre i quantificatori, anche: l’operatore
di astrazione © astrattore (che viene indicato con una variabile preceduta
dalla lettera 2) e al quale secondo taluni logici si riducono tutti gli altri;
e l’O. di descri- zione o descrittore « (1) che, se è la variabile dell'O. come
in (? x), si legge: «l’x tale che ». Gli O. quan- tificatori o quantificatori
sono: il quantificatore uni- versale, per cui si usa la notazione «(x)» messa prima
dell’operando e che si legge « per tutti gli x è vero che»; il quantificatore
esistenziale, per il quale si usa abitualmente la notazione (3) che, se x è la
variabile del quantificatore, come in (HA x), si legge «esiste un x tale che».
L’applicazione di uno o più quantificatori a un operando si chiama quantificazione.
Le notazioni citate sono quelle adoperate più comunemente nella logica contem- poranea,
ma non sono le sole. Per maggiori rag- guagli, confronta la citata Insroduction
di Church. OPERAZIONE (lat. Operatio; ingl. Operation; franc. Opération; ted.
Operation). 1. Attività in generale. Questo è il significato che il termine
ebbe nel Medioevo, quando fu usato come traduzione del greco èvépyera che vale
attualità o attività. Questo è il senso in cui adoperò la parola S. Tom- maso
(ad es., S. 7à., II, 1, q. 3, a. 2), e per il quale vale il principio che «il
modo di operare di cia- scuna cosa segue il suo modo d’essere» (/bid., I, q.
89, a. 1). 2. Funzione nel significato 1: cioè l’attività ca- ratterizzata da
un certo fine e propria di un essere determinato. In tal senso si dice, ad es.,
che «l’O. della fisica è quella di calcolare risultati che possono essere
confrontati con l’esperimento » o che «l’O. della scienza è di dimostrare »,
ecc. 3. Funzione nel significato 2: relazione o corre- lazione. In questo senso
si parla di O. matematiche o logiche. 4. Tecnica manuale cioè procedimento
manipo- lativo da effettuarsi secondo regole determinate; per es., O. di
misura, O. di produzione, ecc. OPERAZIONISMO (ingl. Operationism; fran- cese
Opérationisme; ted. Operationismus). La dot- 637 trina secondo la quale il
significato di un concetto scientifico consiste unicamente in un determinato insieme
di operazioni. Ha proposto per primo questa dottrina P. W. Bridgman che così
l’ha il- lustrata, con un esempio rimasto classico: « Noi conosciamo ciò che
intendiamo per lunghezza se possiamo dire qual è la lunghezza di qualsiasi og- getto
e il fisico non richiede niente di più. Per trovare la lunghezza di un oggetto
dobbiamo ese- guire certe operazioni fisiche. Il concetto di lun- ghezza è
perciò fissato quando le operazioni con le quali la lunghezza è misurata sono
fissate: cioè il concetto di lunghezza implica niente di meno e niente di più
che l’insieme delle operazioni con le quali la lunghezza è determinata. In
generale con un concetto noi non intendiamo niente di più che insieme di
operazioni; i/ concetto è sinonimo con il corrispondente insieme di operazioni.
Se il concetto è fisico, come la lunghezza, le operazioni sono operazioni
fisiche reali, per es., quelle con cui la lunghezza è misurata; se il concetto
è mentale, come, per es., la continuità matematica, le opera- zioni sono
operazioni mentali cioè quelle mediante le quali determiniamo se un dato
aggregato di grandezze è continuo» (The Logic of Modern Physics, 1927, pag. 5).
Come si vede le opera- zioni cui Bridgman faceva riferimento sono quelle di cui
al significato 4 e 1; ma la sua dottrina è stata estesa in riferimento a
qualsiasi specie di operazione ed è stata soprattutto utilizzata, fuori della
fisica, dagli psicologi (cfr. S. S. STEVENS, « Psychology and the Science of
Science », in Read- ings in Philosophy of Science, ed. P.P., Wiener, 1953, pag.
158-84). In base a quest’estensione della dot- trina dell'O. e conseguentemente
del concetto di ope- razione, i soli caratteri riconoscibili al tipo di opera- zione
che può valere come significato dei concetti scientifici sono quelli della
pubblicità e ripetibilità: il primo esclude il carattere privato di certe
attività puramente mentali, il secondo prescrive l’inter- soggettività delle
operazioni stesse. Si dubita tut- tavia oggi che il criterio operazionistico
possa valere per tutti i concetti scientifici (cfr., ad es., G. BERGMANN,
Philosophy of Science, 1957, pa- gina 56 sgg.). OPINIONE (gr. 36ta; lat.
Opinio; ingl. Opi- nion; franc. Opinion; ted. Meinung). Il termine ha due
significati: nel primo, più comune e ristretto, designa ogni conoscenza (o
credenza) che non includa alcuna garanzia della propria validità; nel secondo
designa genericamente qualsiasi asserzione o dichiarazione, conoscenza o
credenza, sia che includa sia che non includa una garanzia della propria
validità. Questo secondo significato viene più spesso usato che definito
esplicitamente. Nel primo significato, l’O. si contrappone alla scienza (v.). 638
Il primo significato si trova già in Parmenide che contrappone «le opinioni dei
mortali» alla verità (Fr., 1, 29-30). Ma entrambi i significati si trovano già
in Platone. Questi da un lato considera l’O. come qualcosa di mezzo tra la
conoscenza e l’igno- ranza (Rep., 478 c), e come comprendente la sfera della
conoscenza sensibile (congettura e credenza) (Ibid., VI, 510 a); e da questo
punto di vista af- ferma che neppure l’O. vera sta ferma nell’anima « finchè
non venga legata con un ragionamento c usale » e così diventi scienza (Men., 98
a; cfr. Fil., 59 a). Dall’altro considera come O. il discorso che l’anima fa
con se stessa e in cui consiste il pen- siero (Teet., 190 a-c): nel qual senso
la scienza stessa non è che una specie di opinione. I due significati si
ritrovano egualmente in Aristotele, che da un lato afferma, con Platone, che le
O., a dif- ferenza della dimostrazione e della definizione, sono soggette a
mutare c perciò non costituiscono scienza (Met., VII, 15, 1039b 31); dall’altro
dichiara: «Per principi intendo le O. comuni sulle quali tutti gli uomini
fondano le loro dimostrazioni: per es., che un’asserzione dev'essere
affermativa o negativa, che niente può simultaneamente essere e non essere,
ecc.» (/bid., III, 2, 996 b 27). Nella tradizione posteriore, il significato
generico si è perduto ed è rimasto l’altro. Gli Stoici defini- rono l’O. «un
assenso debole e fallace» (SESTO EMP., Adv. math., VII, 151; cfr. Cicer.,
Tusc., IV, 7, 15); e nello stesso senso Epicuro chiamò l’O. « un’assun- zione a
cui può capitare di essere sia vera che falsa » (Dio. L., X, 33). In altre
parole, S. Tommaso esprimeva la stessa cosa dicendo: «L’O. è l’atto dell’intelletto
che si porta su una parte della contrad- dizione con la paura dell’altra » (S.
7à., I, q. 79, a. 9). Wolff chiamava O. «la proposizione insuffi- cientemente
provata? (Log., $ 602); e Spinoza identificava l’O. con la conoscenza del primo
genere, che è la più bassa ed incerta e procede da segni (Et., IT, 40, Scol.
IM. Kant parimenti dice: « L’O. è una credenza insufficiente tanto
soggettivamente quanto oggettivamente, accompagnata dalla consa- pevolezza ».
La consapevolezza consiste nel fatto che « non si può presumere di opinare
senza almeno sapere qualcosa per mezzo del quale il giudizio problematico abbia
una certa connessione con la verità »: altrimenti, «tutto è soltanto un giuoco dell’immaginazione
senza la minima relazione con la verità » (Cri. R. Pura, Dottr. del Metodo,
cap. 2, sez. 3). Kant affermava pure (/oc. cit.) che « nei giudizi derivanti
dalla ragion pura non è affatto permesso opinare»; e che pertanto non si può opinare
nè nel dominio della matematica nè nel dominio morale. Ma Hegel negava che ci
fossero opinioni anche nel dominio della filosofia. « Un’O. egli diceva, è una
rappresentazione soggettiva, un OPPOSIZIONE pensiero casuale, un’immaginazione
che io mi formo in questa o quella maniera e che altri può avere in modo
diverso: l’O. è un pensiero mio, non già un pensiero in sè universale, che sia
in sè e per sè. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacchè non ci sono
opinioni filosofiche » (Geschichte der Philosophie, in Werke, ed. Glockner, XVII, pag. 40; trad. ital., vol. I, pag. 21). Questo punto di vista è
stato ed è condiviso da tutte le filosofie assolu- tistiche ed è in realtà il
punto di vista della metafisica tradizionale. Quello espresso da Kant, circa
l’im- possibilità delle opinioni in campo scientifico, è stato invece condiviso
dalla scienza positivistica dell’800. Ma il fallibilismo che prevale oggi sia
nella scienza che nella filosofia rende assai meno sdegnosi e sprezzanti verso
l’opinione. Da un lato non si ritiene che l’O. sia così privata o
incomunicabile come Hegel affermava. Un’O. scientifica o filosofica può essere
condivisa da molti proprio come O. cioè senza l’illusorio o surrettizio suo
camuffamento in verità purchè rappresenti, a una certa fase della ricerca,
l’ipotesi più ragionevole o la teoria meglio appoggiata dai fatti. Dice Dewey:
« Nella soluzione di problemi che pretendono ad una esattezza minore della
trattazione dei casi giuridici, i giudizi sono chiamati O. per distinguerli dai
giudizi o asserzioni veramente giustificati. Ma se l’O. professata è fondata, è
essa stessa prodotto di indagine e in quanto tale è un giudizio » (Logic, 1939,
VII; trad. ital., pag. 179). Dall'altro lato, le stesse ipotesi o teorie meglio
stabilite presentano una certa latitudine di interpretazioni possibili che lascia
vasto campo a una diversità di opinioni. Infine la ripugnanza, condivisa (e con
buone ragioni) da scienziati e filosofi a considerare come assoluta o
necessaria la verità scientifica o filosofica, dimi- nuisce il divario tra la
verità stessa e l’O. o tra l’O. e la scienza. Il concetto di O. non è oggi
mutato da quello che gli antichi definivano: un impegno debole e soggetto a
revisione, l’assenza di ogni garanzia di validità, costituiscono, anche oggi, le
caratteristiche che si riconoscono proprie dell’opi- nione. Il campo dell’O. si
è tuttavia esteso assai di più di quanto gli antichi non ritenessero e di quanto
non ritenevano nè ritengano i filosofi assolutisti; e soprattutto si è
indebolita la nettezza dei confini tra scienza e O.: giacchè non c’è posto o
regione della scienza in cui non si intersechino fra loro O. e verità. OPPOSIZIONE
(gr. 4 dvrixetueva; lat. Oppo- sitio; ingl. Opposition; franc. Opposition; ted. Gegen- satz, Opposition). La relazione di esclusione
fra ter- mini o oggetti in generale. Aristotele distinse quattro forme di
opposizione: 1° l’O. correlativa come, ad es., quella che intercede tra il
doppio e la metà; 2° 1°O. contraria come quella che intercede tra il bene e ORDINE
il male, il bianco e il nero, ecc.; 3° l’O. tra pos- sesso e privazione come
quella che intercede tra la vista e la cecità; 4° l’O. contraddittoria che è la
contraddizione (Car. 10, 11 b 15 sgg.) (v. su cia- scuna di queste forme le
singole voci: CONTRAD- DIZIONE; (CONTRARIETÀ; ‘CORRELAZIONE; POSSESSO; ed
inoltre QUADRATO DEGLI OPPOSTI). ORA (gr. 7è vv; lat. Nunc; ingl. Now; fran- cese
Instant; ted. Jetzr). Con questo termine s’in- tende nel linguaggio della
tradizione filosofica, l’istante come limite o condizione del tempo, quindi diverso
dall'attimo (v.) che è una specie di incontro tra l'eternità e il tempo.
Secondo Aristotele, l'O. è il presente istantaneo, senza durata, che funge da limite
mobile tra il passato e il futuro (Fis., IV, 11, 219 a 25). La nozione ritorna
frequentemente nelle speculazioni medievali sul tempo. Talvolta l’O. fu
concepita come una res fluens che subito si corrompe e manca ed è soppiantata
da un’altra (cfr. PIETRO AUREOLO, In Sent., II, d. 2, q.1, a. 3). Questa
concezione fu combattuta da Ockham che identificò l’istante con la posizione
del mobile il cui movimento si assume come misura del tempo (Summulae in libros
physicorum, IV, 8). Nella filo- sofia contemporanea, il termine è stato
adoperato da Husserl per indicare l’orizzonte temporale del- l’esperienza
vissuta. Poichè nessuna esperienza può cessare senza la coscienza di cessare o
di essere cessata, questa coscienza è un nuovo istante pre- sente od ora. « Ciò
significa che ogni O. di un’espe- rienza ha un orizzonte di esperienze che
hanno anch’esse la forma originaria dell’O. e come tali costituiscono
l’orizzonte originario dell’io puro, il suo complessivo originario O. di
coscienza » (Ideen, I, $ 82). ORDINE (gr. t4Ec; lat. Ordo; ingl. Order; franc.
Ordre; ted. Ordnung). Una qualsiasi relazione tra due o più oggetti che possa
essere espressa con una regola. Questa nozione, che è la più generale, fu
espressa da Leibniz per la prima volta in un passo del Discorso di metafisica
(1686): « Ciò che passa per straordinario lo è solo rispetto a qualche O. particolare
stabilito tra le creature perchè, quanto all’O. universale, tutto è
perfettamente armonico. Ciò è talmente vero che non solo non accade nulla nel
mondo che sia assolutamente fuori regola, ma non si saprebbe nemmeno immaginare
qualcosa che sia tale. Supponiamo infatti che qualcuno segni una quantità di
punti sulla carta in un modo qualsiasi: io dico che è possibile trovare una
linea geometrica la cui nozione sia costante e uniforme secondo una certa
regola, e tale che passi per tutti questi punti proprio nell’O. con cui la mano
li ha tracciati. E se qualcuno traccia una linea continua, ora retta ora curva
ora d'altra natura, è possibile trovare una nozione o regola o equazione comune
639 a tutti i punti di questa linea in virtù della quale i mutamenti stessi
della linea risultano spiegati. Per es. non vi è alcun viso il cui contorno non
faccia parte di una linea geometrica e non possa essere tracciato d’un sol
tratto a mezzo di un certo movi- mento regolato. Ma quando una regola è molto complessa
ciò che le appartiene passa per irregolare. Così si può dire che in qualunque
modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato sempre regolare e
fornito di un O. generale » (Discours de mét., $ 6). L’O. in questo senso
consiste semplice- mente nella possibilità di esprimere con una regola, cioè in
modo generale e costante, una relazione qualsiasi intercedente tra due o più
oggetti qualsiasi. La nozione di O. in questo senso non si distingue pertanto
da quella di relazione costante. Ma questo è però solo il significato
generalissimo della nozione stessa. Nell'ambito di esso si possono distinguere tre
nozioni specifiche: 1° L’O. seriale; 2° L’O. totale; 3° Il grado o livello. 1°
L’O. seriale è quello proprio della relazione di prima e dopo. Aristotele
osservò che questa rela- zione ricorre là dove vi è un principio perchè in tal
caso le cose possono essere più o meno vicino al principio. Un prima o un dopo
può essere deter- minato rispetto allo spazio e al tempo o al movi- mento o
alla potenza o alla disposizione. Anche nella conoscenza qualcosa vien prima
dell’altra o per de- finizione o nel senso in cui la sensazione vien prima del
concetto. In generale di due cose vien prima quella che può stare senza
l’altra: tale, è secondo Aristotele, l’espressione più generale di questa forma
d’ordine (Mer., V, 11, 1018 b 9). Aristotele sembra così privilegiare come O.
seriale 1’O. causale che è per l’appunto quello nel quale la causa può stare
senza l’effetto, ma l’effetto non può stare senza la causa onde viene dopo di
essa: un’inter- pretazione che ritorna frequentemente nella tradi- zione
filosofica. Sant'Agostino diceva, per es.: «O dimostrate che qualche cosa può
avvenire senza causa o credete con me che nulla avviene se non per un certo O.
di cause», identificando così la nozione stessa di O. con quella di causalità
(De Ord., I, 4, 11). E Spinoza faceva coincidere l’O. delle cose con la loro
connessione causale; e consi- derava come sinonimi le due espressioni «1’O. di
tutta la natura» e «il nesso delle cause» (Er., II, 7, Scol.). Kant non solo
effettuava la stessa identificazione ma addirittura considerava l’O. causale
come condizione dell’O. temporale. « Una cosa, egli diceva, può acquistare il
suo posto deter- minato nel tempo solo a condizione che si presup- ponga, nello
stato precedente, un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre, cioè secondo
una regola; donde risulta in primo luogo che non posso capo- volgere la serie e
fare che il conseguente sia ante- 640 riore al precedente; e in secondo luogo
che, quando lo stato precedente è posto, un determinato avveni- mento deve
immancabilmente e necessariamente seguire » (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ.,
cap. II, sez. 3, Analogie dell’esperienza). Analogamente, per Bergson, l’O.
naturale è quello «fisico» o « geometrico» o «automatico », fuori del quale non
c’è che l’O. « vitale » o « voluto » cioè l'O. dei fini (Év. créatr., 83 ediz.,
1911, pag. 251-52). Tuttavia questo privilegio accordato all’O. causale non
sempre oscura il concetto formale dell’ordine seriale. S. Tommaso riprendeva la
definizione di Aristotele: «Si parla sempre di O., egli diceva, nei confronti
di qualche principio. E poichè si parla di principio in molti modi; cioè
secondo il luogo, come quando si parla del punto; secondo
l’intelletto, come quando si parla del
principio della dimostrazione; e secondo le cause singole; così anche si parla
dell’O.» (S. 7A., I, q. 42, a. 3). In questo passo l’O. causale è soltanto una
esempli- ficazione dell’O. generale. Allo stesso modo Wolff definiva 1'’O. come
«l’ovvia similitudine per la quale le cose si collocano l’una rispetto
all'altra o si seguono l’un l’altra »: dove l’ovvia similitudine è la costanza
della relazione (Ont., $ 472). Lo stesso Kant esprimeva chiaramente il concetto
di O. seriale quando identificava l’O. con la regolarità, come fece a proposito
del concetto formale di natura (Crit. R. Pura, $ 26). C. I. Lewis, osserva che
1°O. aritmetico, che viene imposto agli oggetti naturali, consente «ad una
infinita molteplicità di essere sottoposta ad una finita semplicità di regole »
(Mind and the World-Order, 1929; ediz. 1956, pag. 363). I matematici e i
logici, da Cantor in poi, considerano come O. una relazione delimitata da certe
regole. Per es., se si assume la relazione precede, bastano le regole seguenti
a ottenere un O. semplice: 1° nes- sun termine precede se stesso; 2° se 4
precede 6 e b precede c, allora a precede c; 3° se a e è sono due termini
differenti qualsiasi, o 4 precede 6 o b precede a. Si può infine avere quello
che Cantor chiamò un «insieme ben ordinato » ammettendo una quarta regola: in
ogni classe non vuota di
termini c'è un primo termine cioè un
termine che precede tutti gli altri della classe (cfr. A. CHURCH, Intr. to
Mathematical Logic, $ 55). 2° La seconda specie di O. è quella che consiste nella
disposizione reciproca delle parti di un tutto: come notava Aristotele, questa
specie di O. può concernere il luogo, la potenza o la forma (Mer., V, 19, 1022
b 1). Questo è IO. che gli Stoici defi- nivano, secondo la testimonianza di
Cicerone (Tusc., I, 40, 142) come «la disposizione degli oggetti nei loro
luoghi adatti ed appropriati »; una definizione la quale, come è ovvio,
presuppone che sia predisposto, per ogni oggetto, il luogo adatto ORESSI ed
appropriato in vista del fine che è proprio dell’og- getto; ed è perciò fondata
sul concetto di fine. Se l’O. seriale è, essenzialmente, un O. causale, l’O.
totale è, essenzialmente, un O. finale. È questo 1’O. che Aristotele aveva
paragonato a quello di un esercito o di una casa e di cui aveva detto: «Tutte
le cose sono ordinate insieme intorno ad un'unica cosa: come in una casa in cui
gli uomini liberi hanno regolato tutta o la maggior parte della loro attività
mentre gli schiavi contribuiscono poco al bene comune» (Mer., 12, 10, 1075a
18). È l’O. che S. Tommaso chiamava «O. dei fini» o « degli agenti » (S. 7%.,
I, II, q.109 a. ©, che Kant ha chiamato O. morale o regno dei fini (v.) e
Bergson «O. vitale» (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 251). Ovviamente, quando
quest’O. viene attribuito al mondo, si considera il mondo stesso, o almeno il suo
O., come il prodotto di un agente libero. 3° Infine il terzo concetto di O. è
quello di grado o livello. Già S. Tommaso faceva la distin- zione tra l’O. come
gerarchia e l’O. come singolo grado della gerarchia stessa: « Nel primo senso, egli
diceva, l’ordine comprende sotto di sè diversi gradi; nel secondo è un grado
solo, sicchè si parla di più ordini di un’unica gerarchia » (S. 7h., I, q. 108,
a. 2). In questo secondo senso l'O. è sempli- cemente il grado, il piano o il
livello, di un O. totale. ORESSI. V. APPETIZIONE. ORFISMO (lat. Orphismus; ingl. Orphism; franc.
Orphisme; ted. Orphismus). Una setta filoso- fico-religiosa
assai diffusa nella Grecia a partire dal sec. VI a. C. e che si riteneva
fondata da Orfeo. La credenza fondamentale della setta era che la vita terrena
fosse una semplice preparazione per una vita più alta, che poteva essere
meritata per mezzo di cerimonie e di riti purificatori, che costi- tuivano
l’armamentario segreto della setta. Questa credenza passò in diverse scuole
filosofiche della Grecia antica (Pitagorici, Empedocle, Platone); ma l’importanza
attribuita da alcuni filologi e filosofi, nei primi decenni di questo secolo,
all’O. nella determinazione dei caratteri della filosofia greca non viene
riconosciuta da alcuno. Cfr. O. KERN, Orphicorum
Fragmenta, Berlino, 1923; I. M. Lin- FORTH, The Arts of Orpheus, 1941. ORGANICISMO
(ingl. Organicism; franc. Or- ganicisme; ted.
Organizismus). Ogni dottrina che interpreti il mondo, la natura o la società
per ana- logia con l'organismo. L’O. è pertanto assai antico e diffuso giacchè
sotto di essi ricadono sia le an- tiche speculazioni fisiche del mondo come «
grande animale» sia le speculazioni politiche dello Stato concepito per
analogia con l’uomo. Ma in realtà il termine (che è recente e deriva dalla
biologia) viene abitualmente riferito soltanto a dottrine re- centi; in
particolare, a quella di Whitehead il quale ORGANISMO ha chiamato il suo
proprio punto di vista con questo termine o con quello di «filosofia dell’or- ganismo
». La dottrina di Whitehead fa proprio il concetto classico di organismo, come
totalità le cui parti non precedono il tutto, e considera l’in- tero universo
come un organismo in questo senso (Process and Reality, 1929). Essa è un O.
anche perchè attribuisce la sensibilità a tutto il mondo reale (/bid., pag.
249). Fuori della filosofia, il termine è stato talora adoperato per designare le
teorie sociologiche che interpretano la società umana come un organismo: ad
es., la dottrina di Spencer (Principles of Sociology, 1876). ORGANICO (ingl. Organic; franc. Organique; ted. Organisch). Che è un
organismo o appartiene all'organismo. Oltre i significati relativi a questo termine,
l’aggettivo è stato ed è talora adoperato per indicare quella subordinazione
delle parti al tutto che si ritiene propria dell’organismo. Così Saint-Simon e
Comte adoperarono l’aggettivo O. per indicare le epoche in cui tutte le
manifestazioni della vita sono subordinate ad un unico principio, come avvenne,
ad es., nel Medioevo nei confronti del principio teologico (v. CRISI). ORGANISMO
(gr. èpravixdv obpa; lat. Corpus Organicum; ingl. Organism; franc. Organisme;
te- desco Organismus). Il corpo vivente in ciò che specificamente lo distingue
da quello non vivente. Il concetto di O. fu per la prima volta formulato da
Aristotele nel modo seguente: «Se la scure deve spaccare il legno, deve di
necessità essere dura; e se dev'essere dura, dev’essere di necessità di bronzo
o di ferro. Ora esattamente allo stesso modo, il corpo, che è uno strumento
come la scure — giacchè sia le sue singole parti sia esso stesso nella sua
totalità hanno ciascuno un loro fine — deve di necessità essere fatto così e
così, se deve compiere la sua funzione » (De Part. An., I, 1, 642a 10). In
questa nozione il tratto fonda- mentale è che l’intera struttura dell’O. è
subordi- nata alla sua funzione cioè al suo fine di sopravvivere come O.; e da
questo tratto deriva l’altro, della subordinazione delle parti al tutto. Perciò
Aristo- tele dice, a proposito della composizione degli ani- mali, che una casa
non esiste in vista dei mattoni e delle pietre, ma mattoni e pietre esistono in
vista della casa (/bid., II, 1, 646a 27); e che «la scienza della natura si
occupa della composizione e della totalità della sostanza e non delle parti che
non possono esistere separatamente dalla so- stanza stessa » (/bid., I, 5, 645
a 33). La subordi- nazione delle parti al tutto che, esso solo, è la so- stanza,
è rimasta la caratteristica fondamentale dell'organismo. Ma questa
caratteristica è ovvia- mente determinata dalla struttura finalistica del- l'organismo.
Proprio perchè questo nella sua to- 41 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 641
talità dev’essere adatto al suo fine e subordinato ad esso, le parti dell'O.
devono essere subordinate alla totalità dell’O. stesso. Il concetto di fine è rimasto
pertanto da Aristotele in poi a fondamento della nozione di O. e rimase tale
anche quando, con Cartesio, l’O. cominciò ad essere considerato come una
macchina. «Coloro che sanno, diceva Cartesio, quanti automi o macchine moventi
l’in- gegnosità umana può costruire senza adoperare che pochi pezzi
relativamente alla grande moltitu- dine di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene,
ecc., che sono nel corpo di ciascuno di noi, considerano questo corpo come una
macchina che, essendo uscita dalle mani di Dio, è incomparabilmente meglio
ordinata e ha in sè movimenti più am- mirevoli di quelle che possono essere
inventate dagli uomini » (Disc., V). Un orologio o una mac- china infatti non è
senza scopo; ed equiparando l’O. a una macchina, Cartesio non intendeva ne- gare
la sua finalità ma semplicemente presentare la tesi che la struttura
finalistica dell’O. dipende, non già da una forza esterna all’O. stesso cioè dall’anima,
ma dalla varietà e dalla coordinazione delle parti, cioè dalla stessa
organizzazione. Del resto anche Leibniz, che insistè fortemente sull’or- dinamento
finalistico dell’universo, considerò l’O. come una macchina. «Ogni corpo
organico, egli disse, è una specie di macchina divina o di automa naturale che
sorpassa infinitamente tutti gli automi artificiali » (Mon., $ 64). Solo da
Kant la finalità di un automa o di una macchina fu per la prima volta distinta
da quella dell’organismo. «In un orologio, osserva, Kant, una parte è lo
strumento che serve al movimento delle altre ma non è la causa efficiente della
produzione delle altre: una parte esiste bensì in vista delle altre, ma non per
mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell’oro- logio e della sua forma...
sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le idee di un tutto possibile
mediante la sua causalità ». Nell’O. in- vece, «ogni parte è concepita come
esistente solo per mezzo delle altre e per le altre e il tutto, vale a dire
come uno strumento (organo) +: come « uno strumento che produce le altre parti
ed è recipro- camente prodotto da esse +. In altri termini le parti di un O.
sono nello stesso tempo causa ed effetto l’una rispetto all’altra e tutte
rispetto alla totalità dell’organismo. In tal senso l’O. non possiede la semplice
forza motrice, come la macchina, ma ha anche « una forza formatrice tale che si
comunica alle materie che non l’hanno e che perciò può or- ganizzare; una forza
formatrice che si propaga e che non può essere spiegata con la sola facoltà del
movimento » (Crit. del Giud., $ 65). Queste notazioni kantiane, chiarendo assai
bene il finalismo intrinseco dell’O., rendono in qualche 642 modo inutile il
finalismo complessivo della natura o lo fanno passare in seconda linea.
L’organizza- zione finalistica dell’O. infatti può essere compresa o ammessa
indipendentemente dal finalismo uni- versale della natura. Tuttavia, le
speculazioni della filosofia romantica sull’organismo, pur prendendo lo spunto
dai concetti kantiani, tendono appunto a risolvere la finalità intrinseca
dell'O. nella finalità universale; o meglio ad estendere la prima all’in- tero
universo. Dice, ad es., Schelling: « Nel pro- dotto naturale è ancora congiunto
quello che, nell’operare libero, si è separato in servizio del fenomeno. Ogni
pianta è interamente quello che dev'essere; il libero è in essa necessario e il
neces- sario libero... Solo la natura organica dà la com- pleta immagine della
libertà e della necessità riunite nel mondo esterno » (System des
transzendentalen Idealismus, V; trad. ital., pag. 289). Ancora più
arbitrariamente, Hegel considera come primo O. la terra perchè è « un sistema
universale di corpi individuali » (Enc., $ 338); ed afferma che, nono- stante
la vitalità naturale si rompa nella moltepli- cità degli animali viventi,
questi « nell’idea sono una sola vita, un unico sistema organico di vita »
(Ibid., $ 337). Qui l’O. non è considerato nei suoi tratti specifici ma
semplicemente dissolto nel fina- lismo cosmico. E a questo stesso risultato
giunge la dottrina di Bergson che vede nell’O. il risultato di uno slancio
vitale (o corrente di coscienza) che penetra e assoggetta la materia bruta.
Quello che dal punto di vista della scienza è una « macchina », dal punto di
vista della filosofia è l’equilibrio rag- giunto dallo slancio vitale nel suo
sforzo formatore. « Per noi, egli dice, l’insieme di una macchina or- ganizzata
rappresenta bensì l'insieme del lavoro organizzativo (benchè anche questo non
sia vero che approssimativamente) ma le parti della mac- china non
corrispondono alle parti del lavoro giacchè la materialità della macchina non
rappre- senta più un insieme di mezzi adoperati ma un insieme di ostacoli
aggirati: è una negazione più che una realtà positiva» (Év. créatr., 8* ediz., 1911,
pag. 102). La realtà positiva è soltanto lo slancio vitale, cioè la coscienza. La
disputa metafisica tra finalismo e meccanismo o tra materialismo e vitalismo
non influisce sul con- cetto di organismo. Quella che dopo Kant si è convenuto
di chiamare « finalità interna» dell’O. non è stata messa in dubbio neppure
(come si è visto) da coloro che concepivano l’O. come mac- china. Dall’altro
lato la risoluzione della finalità intrinseca dell’O. nel finalismo cosmico,
che è cara a tutte le forme del vitalismo e in generale a tutte le
interpretazioni metafisiche dell’O., non aiuta per nulla a chiarire il concetto
di O. perchè non fa che dare, con l'appello a una tesi generica, una solu- ORGANISMO
zione apparente al problema di intendere le forme specifiche di azione della
finalità organica. I biologi contemporanei tendono pertanto a mettersi fuori dell’antitesi
fra meccanismo e finalismo. Goldstein ritiene inutile l’appello all’enselechia
come quello al finalismo cosmico; ma ritiene indispensabile in- sistere
sull’azione dell'O. come totalità. Questo con- duce ad ammettere il finalismo
interno dell'O. stesso: « L’ipotesi di un compito determinato, egli dice, è
superflua per la comprensione dell’O., ma l’ipotesi di uno scopo determinato
(la realizzazione dell’essenza dell'O.) è assai feconda per la nostra comprensione
dell’O. » (Der Aufbau des Organismus, 1934, pag. 264). Più recentemente Simpson
ha detto: « Noi sappiamo che il fuoco non è un elemento O principio separato ma
è un processo e un’orga- nizzazione della materia in cui la condotta della materia
è diversa da quella che è nel non-fuoco. Allo stesso modo, la veduta
materialistica non è abbandonata quando la vita viene considerata come un
processo e un’organizzazione in cui la condotta della materia è diversa da
quella che si riscontra negli stati non viventi » (The Meaning of Evolution, 1952,
pag. 125). Dall'altro lato la capacità del- l’O. di sfruttare le possibilità o
opportunità che la sua struttura o le sue proprie variazioni o l’am-biente
stesso gli offrono, quello che Simpson chiama l’opportunismo della vita, non è
altro che la stessa « finalità intrinseca » di cui parlano gli altri biologi. Questa
era stata anche riconosciuta da uno dei fondatori del Circolo di Vienna, Moritz
Schlick. «Un gruppo di processi o di organi, egli aveva detto, è chiamato
finalistico rispetto a un effetto definito, se quest’effetto è l’effetto
normale nella cooperazione dei processi o degli organi. L’accento qui va sulla
cooperazione; in un caso specifico, questi processi, dipendenti dalle
circostanze, pos- sono accadere in vari modi ma sono dipendenti l’uno
dall’altro e legati insieme in modo che pro- ducono sempre approssimativamente
la stessa sorta di effetti » (« Naturphilosophie », in Die Philosophie in ihren
Einzelgebieten, Berlin, 1925; trad. ingl., in Readings in the Philosophy of
Science, 1953, pag. 529). Questo concetto di finalismo non ha certamente nulla
a che fare con la tesi del finalismo universale: si tratta di un finalismo
limitato, spe- cifico, che procede per tentativi e riesce solo in certi casi:
non dell’infallibile piano universale in cui tutti gli esseri trovano una loro
salvaguardia. Esso è stato talvolta chiamato releonomia (v.). Da questo punto
di vista l’O. può essere considerato una macchina, dotata tuttavia di unità
funzionale, coerente ed integrale e, per di più, che si costruisce da sè, sul
fondamento di un piano o progetto che si mantiene relativamente invariante da
una gene- razione all’altra (cfr., ad es., J MonoD, Le hasard ORIZZONTE et la
nécessité, 1970, cap. III). V. CIBERNETICA; SISTEMA; STRUTTURA. ORGANO (gr.
8pyavov; lat. Organum; inglese Organ; franc. Organe; ted. Organ). Nel senso
spe- cifico della biologia, dalla quale il termine è pas- sato alla filosofia,
l’O. fu definito da Aristotele in base alla funzione da esso compiuta e per
ana- logia con lo strumento inorganico: « Ogni stru- mento, egli disse, ed ogni
parte del corpo ha un suo fine cioè una sua azione specifica... Come la sega è
fatta per segare ma non il segare per la sega, sicchè il segare è la sua
funzione specifica così il corpo è fatto per l’anima e le parti del corpo hanno
per natura ciascuna la propria funzione» (De Part. An., 1, 5, 645b 12). Questo
concetto è rimasto costante, nella biologia, nella filosofia e in tutti gli
altri campi in cui viene adoperato. ORGANON (gr. 3pyavov; lat. Organum). Con questo
titolo fu indicato, dai commentatori greci, l'insieme delle opere logiche di
Aristotele cioè: il libro delle Categorie; il libro dell’Interpretazione; i due
libri degli Analitici primi; i due libri degli Analitici posteriori; gli otto
libri dei Topici e il libro degli Elenchi sofistici. Due altre volte il nome di
O. compare come titolo di libro: cioè col Novum Organum (1620) di Francesco
Bacone che esplici- tamente contrappose la sua logica alla logica ari- stotelica;
e col Neues O. (1764) di J. H. Lambert, il filosofo illuminista tedesco con il
quale Kant intrattenne un’importante corrispondenza. L’uso di tale titolo
tuttavia non ha un rapporto preciso con il compito attribuito alla /ogica (v). ORIENTAMENTO
(ingl. Orientation; fran- cese Orientation; ted. Orientierung). Questo termine fu
introdotto in filosofia da Kant che intese per esso il problema del modo in cui
la ragione deve condursi fuori dei limiti, assai ristretti, del sapere empirico
cioè della conoscenza effettiva: « Orien- tarsi nel pensiero in generale, disse
Kant, signi- fica: data l’insufficienza dei princìpi oggettivi della ragione,
determinarsi nel dominio del verosimile, secondo un principio soggettivo della
ragione stessa » (Was Heisst: sich im Denken Orientieren?, 1786, A, 310). Kant
escludeva che l’uomo potesse orien- tarsi in base alla fede o ad un supposto
sapere intuitivo. Il termine è stato ripreso da Jaspers che ha intitolato «O.
filosofico nel mondo » il primo volume della sua Philosophie (1932). LO. nel
mondo, si ha secondo Jaspers quando l’uomo considera se stesso come un elemento
o cosa del mondo, fra innumerevoli elementi o cose, e cerca di trovare così la
sua via. L’O. però mette capo soltanto alla rottura del mondo in una
molteplicità di prospet- tive cosmiche (Phil., I, pag. 69 sgg.). Fuori di questi
significati specifici, il termine viene ampia- mente adoperato, con significato
assai poco pre- 643 ciso, nel linguaggio comune e filosofico contem- raneo. ORIGINE
(lat. Origo; ingl. Origin; franc. Ori- gine; ted. Ursprung). Il termine ha due
significati che vengono spesso confusi: 1° cominciamento o atto o fase
iniziale; 2° fondamento o principio. Il «ritorno alle O.» che fu il tratto
caratteristico del Rinascimento (v.) è una nozione fondata sullo scambio dei
due significati. E sullo stesso scambio si fondò l’importanza dei cosiddetti
problemi di origine, quali furono dibattuti nel sec. xvm e nel sec. x1x: l’O.
delle idee, della vita, del linguaggio, delle specie viventi, ecc.; giacchè nei
problemi così posti l’O. non significava solo la nascita nel tempo ma altresì
il principio o il fondamento dell'oggetto di cui si cercava l’origine. Lo
stesso significato equivoco aveva la parola nel vecchio problema dell’O. del
male: Se Dio c’è, donde viene il male? E se non c’è, donde viene il bene? (cfr.
S. Aco- stino, Conf., VII, 5). «Giudizio di O.» chiamò H. Cohen il giudizio nel
quale qualcosa è dato, non come materiale grezzo, ma come ciò che il pensiero
stesso può trovare: come il segno x della matematica che significa, non
l’indeterminatezza, ma la determinabilità (Logik, 1902, pag. 83). ORIZZONTE (gr. repityov; lat.
Horizon; in- glese Horizon; franc. Horizon; ted. Horizont). Il li- mite che circoscrive le possibilità di una
ricerca, di un pensiero o di un’attività qualsiasi: un limite che si può
spostare ma si ripresenta dopo ogni sposta- mento. Il termine fu introdotto in
filosofia da Anassi- mandro (sec. vi a. C.) che considerò il Principio
(l’infinito o apeiron) come ciò che « abbraccia tutte le cose e le dirige »
(ARIST., Fis., III, 4, 203 b 11). Nel senso moderno il concetto fu chiarito da
Kant che intese per orizzonte il limite o la mi- sura dell’estensione della
conoscenza e distinse un orizzonte /ogico che concerne i poteri conoscitivi in
rapporto all’interesse dell’intelletto; un orizzonte estetico che concerne il
gusto in rapporto all’in- teresse del sentimento e un orizzonte pratico che
concerne l’utile in rapporto all’interesse della vo- lontà. In generale «
l’orizzonte concerne il giudizio e la determinazione di ciò che l’uomo può
sapere, riesce a sapere © deve sapere»; e può essere ogger- tivo, nel qual caso
è storico oppure razionale; o soggettivo nel qual caso è universale o assoluto oppure
particolare o privato (Logik, Einleitung, $ VI, A). La nozione è stata ripresa
nella filosofia contem- poranea e in primo luogo da Husserl, che ha inteso per
O. il limite temporale (inteso come presente o ora) in cui cade ogni esperienza
vissuta (/deen, I, $ 82); poi da Jaspers attraverso il quale è passata nel
corrente uso filosofico. Dice Jaspers: « Noi sempre viviamo e pensiamo in un O.
circoscritto. 644 Per il fatto stesso che si tratta di un O., abbiamo il
presentimento di un O. più vasto che comprenda a sua volta l’O. raggiunto:
sorge così il problema di un O. che abbracci ogni altro O. (O. conglobante, das
Umgreifende). L’O. conglobante è un O. nel quale si offre a noi ogni tipo
determinato di realtà e di verità ma è anche ciò in cui ogni singolo O. è compreso
come in quell’O. che tutto congloba e che non è neppure più pensabile come O. »
(Vernunft und Existenz, 1935, pag. 29). Mentre il concetto di O. conglobante,
che è quello di O. di tutti gli orizzonti possibili, rimane proprio della
filosofia di Jaspers, quello di O. può essere utilmente adoperato da qualsiasi
indirizzo filosofico per indicare i limiti di validità di una ricerca
determinata, o il tipo di validità cui aspirano gli strumenti di cui si serve (cfr.
C. D. Burns, The Horizon of Experience, 1934; ABBAGNANO, Possibilità e libertà,
1956, pa- gina 95 segg.). ORMICA, TEORIA (ingl. Hormic Theory). Così è
comunemente chiamata nella letteratura an- glosassone la teoria secondo la
quale le emozioni dipendono da certi istinti fondamentali (spuì = = istinto),
che sarebbero alla base di tutta l’attività psichica. La teoria è stata
sostenuta da G. F. Stout, J. Dewey, S. Alexander, T. P. Nunn (che per primo ha
adoperato l’espressione) e principalmente da W. McDougall. Su di essa vedi J.
C. FLUGEL, Studies in Feeling and Desire, London, 1955 (v. EMOZIONE). ORTOGENESI
(ingl. Ortlogenesis). La dot- trina che l’evoluzione della vita segua una linea
retta o tenda a seguirla. Le interpretazioni date dai biologi a questo concetto
sono disparate; sostanzialmente l’O. è la tesi difesa da coloro che ammettono
il finalismo della vita. Talora, ma più raramente, il punto di vista opposto
all’O. si chiama poligenesi: il riconoscimento di linee di evoluzione diverse e
disparate nei fenomeni della vita (con- fronta G. G. Simpson, The Meaning of
Evolution, 1952, pag. 132). OSSERVAZIONE (ingl. Observation; francese Observation;
ted. Beobachtung). L'accertamento o la constatazione di un fatto, sia che si
tratti di un accertamento spontaneo od occasionale sia che si. tratti di un
accertamento metodico o progettato. L’O. è stata talora ristretta al primo
significato, nel qual caso ad essa si contrappone l’esperienza o l'esperimento
come accertamento deliberato o metodico (cfr. C. BERNARD, /ntroduction è
l’étude de la médecine expérimentale, 1865, I, cap. 1). E talora è stata
ristretta al secondo significato, nel qual caso ad essa si contrappone
l’esperienza in- genua o primitiva o comune o occasionale (in tal senso il
termine è adoperato solitamente nel lin- guaggio scientifico contemporaneo).
Stando ciò, si possono comprendere sotto il termine entrambi ORMICA, TEORIA i
significati e distinguere: 1° lO. naturale, che è quella nella quale le
condizioni dell’O. non sono progettate o progettabili; e 2° l’O. sperimentale
(o esperimento) che è l’O. progettata, caratterizzata dal controllo delle
variabili. In questo secondo tipo di O., si può agire sulla variabile
indipendente e si può studiare il corrispondente comportamento della variabile
dipendente cioè della funzione collegata. Ogni O., sia naturale che
sperimentale, presenta la divisione tra sistema osservante e sistema osservato.
La validità di questa divisione è stata messa a prova (e riconfermata) dalla
fisica dei quanta, a proposito delle relazioni di indetermi- nazione (v.) cioè
dell’azione che il sistema osser- vante esercita su quello osservato. Bohr e
Heisen- berg hanno mostrato che, mentre il limite tra sistema osservante e
sistema osservato non è rigido, nel senso che sono possibili descrizioni
diverse di uno stesso fenomeno nelle quali quel limite è diver- samente situato
(cfr. BoHR, « Wirkumsquantum und Naturbeschreibung », in Nasurwissenschaften, 1929
[26], pag. 484-85), esso non può venir meno senza che venga meno il carattere
fisico del sistema. Si può infatti evitare di calcolare l’azione disturba- trice
del sistema osservante includendo, nel calcolo, lo stesso sistema osservante.
Ma poichè anche così l’indeterminazione rimane a proposito dell'O. di quest’ultimo,
bisognerebbe includere nel sistema osservato anche i nostri occhi. In questo
caso, nota Heisenberg, «si potrebbe trattare quantitati- vamente la catena di
cause ed effetti solo quando si considerasse come parte del sistema osservato l’intero
universo; ma allora la fisica sparirebbe e rimarrebbe soltanto uno schema
matematico. La suddivisione del mondo in sistema osservante e sistema osservato
impedisce così la netta formula- zione della legge causale» (Die physikalischen
Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Come nota lo stesso Heisenberg,
per « sistema osservante + non si deve intendere necessariamente l’osservatore umano
giacchè per esso si può intendere anche una lastra fotografica o un apparato
qualsiasi. Perciò la divisione, tra sistema osservante e sistema osser- vato,
che la fisica ritiene indispensabile per dare significato fisico (cioè non
puramente matematico) ai suoi enunciati, non equivale alla distinzione filosofica
tradizionale tra oggetto e soggetto: alla quale d'altronde contrasta anche
l’asserita mobilità del limite di demarcazione fra i due sistemi. OSTACOLO
(ingl. Obstacle, Hindrance; francese Obstacle; ted. Hinderniss). Il limite di
una attività. Così definì l’O. Fichte: « Che significa un’attività determinata
e come diviene essa tale? semplice- mente per il fatto che ad essa viene
contrapposto un O.» (Sittenlehre, 1798, Intr., $ VI; Werke, IV, pag. 7). Cfr.
R. Le SENNE, Obstacle et Valeur, 1934. OTTIMISMO OSTENSIVO (gr. Sewmtwés; lat.
Ostensivus; ingl. Ostensive; franc. Ostensif; ted. Ostensiv). Si qualificano
così le prove dirette cioè che provano positivamente la verità di una tesi, per
distinguerle dalle prove indirette che tendono a provare una tesi
negativamente, con la dimostrazione della fal- sità del suo contrario. Le prove
indirette sono dette apagogiche (v. ABDUZIONE; RIDUZIONE). La distinzione è in
Aristotele (An. Pr., I, 23, 40b 27) ed è riprodotta da Leibniz (Nouv. Ess., IV,
8, 2). Secondo Kant, l’uso delle prove apagogiche do- vrebbe essere proscritto
in filosofia, mentre è le- gittimo nelle scienze sperimentali (Crit. R. Pura, Dottrina
trasc. del metodo, cap. 1, sez. 4). OTTIMISMO (ingl. Optimism; franc. Opti- misme;
ted. Optimismus). Questo termine si cominciò a diffondere nella cultura europea
durante le discus- sioni filosofiche sull’ordine e sulla bontà del mondo cui
dette luogo il terremoto di Lisbona del 1755. In un Poema sul disastro di
Lisbona (1755) Voltaire aveva combattuto la massima « tutto è bene » consi- derandola
come un insulto ai dolori della vita; e al- cuni anni dopo nel romanzo Candido
o l°O. (1759), aveva fatto una satira feroce di questa massima e del- l’intero
atteggiamento su di essa imperniato. L’O. trovava però altri difensori, tra i
quali Kant che, nello stesso anno 1759 pubblicava un breve scritto intitolato «
Saggi di talune considerazioni sull’O. » (Versuch einiger Betrachtungen iîber
den Optimismus) (in seguito da lui ripudiato) nel quale difendeva la bontà del
mondo in base alla tesi leibniziana che «quando Dio fa una scelta, sceglie
sempre la cosa migliore ». Come Voltaire diceva, l’O. non è altra cosa che la
teoria del finalismo universale. Così nel suo romanzo fa parlare il Dottor
Pangloss maestro di « metafisico-teologo-cosmolonigologia »: « È dimostrato che
le cose non possono essere altri- 645 menti: giacchè essendo tutto fatto per un
fine, tutto è necessariamente volto al fine migliore. Notate bene che il naso è
stato fatto per portare le lenti; e così noi abbiamo le lenti, ecc. ». Leibniz aveva
detto che « Dio ha scelto il mondo che è più perfetto cioè quello che è nello
stesso tempo il più semplice in ipotesi e il più ricco in fenomeni » (Disc. de
mét., $ 6); e che «se nel mondo non ci fosse il minimo male, non si tratterebbe
più del mondo: il quale tutto considerato e sommato è stato trovato il migliore
dal creatore che l’ha scelto » (7héod., I, 9). Questo può essere espresso con
la frase con cui Candide costantemente conclude le sue sfortunate peripezie: «
Noi vi- viamo nel migliore dei mondi possibili: frase che è rimasta come
l’espressione popolare dell’ot- timismo. L’O. è sempre proprio di tutte le
dottrine che ammettono il finalismo universale e specialmente: 1° delle
dottrine spiritualistiche a sfondo teologico, come sono la metafisica
aristotelica e quella scola- stica, il leibnizianesimo e le forme moderne e contemporanee
del coscienzialismo spiritualistico; 2° delle dottrine idealistiche (nel senso
romantico del termine) che condividono il principio della coincidenza tra
realtà e razionalità (principio che significa ciò che Voltaire esprimeva
dicendo che «le cose non possono essere altrimenti +), delle quali è tipica la
dottrina di Hegel. L’opposto dell’O., non è il pessimismo che, nella
formulazione data ad esso da Schopenhauer, pur predicando che «la vita è dolore
+ ritiene il mondo nella sua totalità finalisticamente organizzato in vista
dell’ordine migliore (Die Welt, I, $ 28); ma la negazione del finalismo con il
riconoscimento del carattere imperfetto, accidentale e problematico degli
ordini riscontrabili nell’universo. p P, p. Nella logica contemporanea con P
viene indicato un determinato calcolo delle proposizioni e con p (e le lettere
che seguono in ordine alfabetico q, ”, ecc.) una singola proposizione. PACE (ingl. Peace; franc.
Paix; ted. Friede). La più famosa
definizione della P. è quella data da Cicerone nelle Filippiche: « Pax est
tranquilla libertas » (Phil, 2, 44, 113): una definizione che è stata molte
volte ripetuta. Più in generale la P. è stata definita da Hobbes come la
cessazione dello stato di guerra cioè come la cessazione del con- flitto
universale fra gli uomini. Pertanto « Cercare di conseguire la P.+ è, secondo
Hobbes, la prima legge di natura (Leviath., I, 14). Come Hobbes, Kant riteneva
che lo stato di P. fra uomini non è affatto uno stato di natura e che pertanto
esso dev'essere istituito perchè «la mancanza di osti- lità non significa
ancora sicurezza e se questa non è garantita da un vicino ad un altro (il che
può solo aver luogo in uno stato legale) questo può trattare come nemico quello
a cui tale garanzia abbia richiesto invano» (Zum ewigen Frieden, 1796, $ 2). Un
concetto metafisico è invece la P. per Whitehead, che la intende come «
l’armonia delle armonie che placa la turbolenza distruttiva e completa la
civiltà» (Adventures of Ideas, XX, 8 2). PAIDEIA. V. CULTURA. PALINGENESI (gr.
raQiryevecla; ingl. Pa- lingenesis; franc. Palingénésie; ted. Palingenesie). Secondo
gli Stoici, la rinascita del mondo dopo la fine di un ciclo di vita (NEMES., De
nat. hom., 38; cfr. MARC’AURELIO, Ricordî, XI, 1: «la periodica rinascita del
mondo»). La parola è stata usata spesso in questo senso o in senso analogo (per
es., da C. BONNET, Palingénésie philosophique, 1769, e da GiosERTI, Protologia,
1857) e talora anche in sensi ristretti o particolari: per designare la
rinascita dell'anima o, in senso retorico, per indicare un qualsiasi
rinnovamento radicale (v. APOCATASTASI). PAMPNEUMATISMO (ted. Panpneuma- tismus).
Termine adoperato da Eduard von Hart- mann, nello stesso senso di pampsichismo
(cfr. Phi- losophischen Fragmente, pag. 68). PAMPSICHISMO (ingl. Panpsychism;
fran- cese Panpsychisme; ted. Panpsychismus). Il termine, che viene spesso
confuso con ilozoismo (v.), designa in realtà una teoria simmetrica e opposta
all’ilo- zoismo. Questo consiste nell’attribuire alla materia (o alle sue
parti) poteri o attività psichiche ed è perciò materialismo; il P. consiste nel
ridurre la materia stessa ad anima, cioè a proprietà o attri- buti psichici ed
è spiritualismo. Con ciò la materia non viene negata (come fa l’immaterialismo
[v.]); ma i suoi attributi fondamentali, per es., l’esten- sione, il movimento,
ecc., vengono ridotti all’azione di forze o attributi spirituali. In questo
senso la nascita del P. si può ricono- scere nei Platonici inglesi del ’600
(Scuola di Cam- bridge). Cudworth partendo dal principio che « nessun effetto
può sorpassare la forza della pro- pria causa» negava che la vita e l’essere, e
tanto meno la ragione e l’intelletto, potessero derivare da una materia senza
vita. E concludeva che «lo spirito è l’essere primogenito, il signore naturale di
tutto ciò che è» (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 4). Ma
poichè le cose non possono essere prodotte dal meccanismo della ma- teria, e
poichè Dio non produce immediatamente e miracolosamente tutte le cose, bisogna
ammettere una natura plastica che sia uno strumento inferiore e subordinato di
quella parte della provvidenza che consiste nel movimento regolare e ordinato della
materia (/bid., I, 1, 3). A sua volta More elaborava il concetto della monade
fisica cioè di una particella così piccola da non poter essere PARADOSSO ulteriormente
divisa. La monade fisica non ha grandezza fisica propriamente detta, ma è
tuttavia estesa e l’estensione è una qualità spirituale, in- corporea, un
attributo di Dio (Enchiridion Meta- physicum, I, 9, 3; I, 8, 15). In questo
modo Cud- worth e More riducevano la materia e il meccanismo, nei loro
attributi fondamentali — estensione e movimento — a una manifestazione di
elementi o forze spirituali. Proprio a questi autori si è probabilmente ispi- rato
Leibniz, che ha dato al P. la sua forma clas- sica. Secondo Leibniz, la materia
stessa è costituita da monadi nel senso di essere un aggregato di sostanze
spirituali, come un gregge di pecore o come un mucchio di vermi. Gli elementi
della materia perciò non hanno niente di corporeo: sono atomi di sostanza o
punti metafisici, come si po- trebbero chiamare le monadi (Op., ed. Gerhardt, IV,
pag. 483). Il P. di Leibniz fu riprodotto da Lotze nel Microcosmo (I; trad.
ital., pag. 50) che identificò gli atomi di cui parla la teoria mecca- nistica
della scienza con centri di forza spirituale, cioè con monadi nel senso
leibniziano. Il P. è la caratteristica metafisica dello spiritualismo con- temporaneo
(v. SPIRITUALISMO): di quello francese (Ravaisson, Lachelier, Hamelin) come di
quello inglese (Ward) e italiano (Martinetti, Varisco). PANANIMISMO. Lo stesso
che animismo (v.). PANCALISMO (ingl. Pancalism; franc. Pan- calisme). Termine
adoperato da J. M. Baldwin per indicare la sua propria dottrina secondo la
quale la bellezza, come oggetto della attività estetica, realizza la
conciliazione tra l’attività conoscitiva e l’attività pratica, unificando il
mondo dell’espe- rienza (cfr. Genetic Theory of Reality, being the Outcome of
Genetic Logic, as Issuing in the Aesthetic Theory of Reality called Pancalism,
1915). PANCOSMISMO (ingl. Pancosmism; francese Pancosmisme).Lo stesso che
materialismo. Il termine fu usato da Grote per designare la dottrina dei presocratici
ilozoisti (Plaro and the Other Compa- nions of Socrates, 1, 1, 18). Il termine
non ha avuto fortuna. PANENTEISMO (ingl. Panentheism; francese Panenthéisme;
ted. Panentheismus). Termine creato da Christian Krause (1781-1832) per
designare una sintesi tra teismo e panteismo che consisterebbe nell’ammettere
che tutto ciò che è, è in Dio ed esiste come rivelazione o realizzazione di Dio
(Vorlesungen iiber das System der Philosophie, 1828, pag. 254 sgg.). In realtà
questo punto di vista è proprio quello del panteismo classico e pertanto non si
vede l’utilità del termine, che difatti non ha avuto fortuna (v. Dio). PANLOGISMO
(ingl. Panlogism; franc. Pan- logisme; ted. Panlogismus). Termine che fu adope-
647 rato da J. E. Erdmann per designare la dottrina di Hegel (Geschichte der
neueren Philosophie, 1853, III, 2, pag. 853) e che viene tuttora adoperato (seppure
non troppo frequentemente) per designare la stessa dottrina o dottrine
analoghe, che am- mettano, cioè, l’identità del razionale e del reale. PANSATANISMO
(ted. Pansatanismus). Ter- mine adoperato polemicamente da O. Liebmann per
designare la dottrina di Schopenhauer, in contrapposto caricaturale con
panteismo (Zur Ana- Iysis der Wirklichkeiît, 2> ediz., 1880, pag. 230). PANSOFIA
(lat. Pansophia). Termine adope- rato da G. A. Comenius per designare il
principio «insegnare tutto a tutti» (Pansophiae Prodromus, 1639; Schola
Pansophiae, 1670). Kant chiama P. l’insieme della polistoria che è il sapere
storico e della polimatia che è il sapere razionale (Logik, Intr., $ vi). PANSPERMIA
(ted. Panspermie). La dot- trina sostenuta da S. Arrhenius che la vita sulla terra
proviene da semi organici diffusi in tutto l’universo (Werden der Welten,
1907). PANTEISMO (ingl. Pantheism; franc. Pan- théisme; ted. Pantheismus). Il
termine panteista fu usato per la prima volta da J. Toland (Socianinism Truly
Stated, 1705) e quello di P. dal suo avver- sario Fay (1709). È la dottrina che
considera Dio come la matura del mondo, cioè che identifica la causalità divina
con la causalità naturale. Una forma di P. umanistico è la cosiddetta «
teologia senza Dio ». V. Dio; Dio, MORTE DI. PANTELISMO (ted. Panthelismus). Lo
stesso che volontarismo (v.). Il termine fu usato da E. von Hartmann
(Philosophischen Fragmente, pa- gina 68). PARABOLA (gr. rapaBorn; lat.
Parabola; in- glese Parable; franc. Parabole; ted. Parabel). Argo- mento che
consiste nell’addurre un paragone o un parallelo: come quando Socrate afferma
che non si devono scegliere a sorte i governanti come non si scelgono a sorte
gli atleti per una gara. Così illustra Aristotele la nozione (Rer., II, 19, 1393
b 4). Un senso analogo la parola ha negli Evangeli (cfr. Marc., XII, 1). PARADIGMA
(gr. rapdderyua; ingl. Paradigm; franc.
Paradigme; ted. Paradigma). Modello
o esempio. Platone adoperò la parola nel primo senso (cfr. Tim., 29b, 48 e;
ecc.) in quanto con- sidera come P. il mondo degli esseri eterni, di cui è
immagine il mondo sensibile. Aristotele nella logica usa il termine nel secondo
significato (An. Pr., II, 24, 68 b 38); sul quale v. ESEMPIO. PARADOSSO (gr.
rapàdotoc Xoyvos; ingl. Pa- radox; franc.
Paradoxe; ted. Paradox). Ciò
che è contrario alla «opinione dei più», cioè al si- stema di credenze comuni
cui si fa riferimento; 648 oppure contrario a principi che si ritengono ben stabiliti
o a proposizioni scientifiche. La riduzione di un discorso a un'opinione
paradossale è con- siderata da Aristotele negli Elenchi sofistici (cap. 12) come
il secondo dei fini che si propone la Sofistica (la prima essendo la
confutazione, cioè il provar falsa l’asserzione dell’avversario). Bernardo Bol-
zano intitolò Paradossi dell’infinito (1851) il libro in cui presentò per primo
il concetto dell’infinito non più come limite di una serie ma come un tipo speciale
di grandezza, dotato di proprie caratte- ristiche: concetto che doveva venire
definitivamente stabilito nella matematica ad opera di Cantor e Dedekind (v.
INFINITO). E, sul suo esempio, sono stati chiamati talvolta P. le
contraddizioni che na- scono dall’uso del procedimento riflessivo, e che più
comunemente si chiamano antinomie (v.). Nel senso religioso, si è chiamato P.
l’afferma- zione dei diritti della fede e della verità del suo contenuto in
contrasto con le esigenze della ragione. P. è, per es., la trascendenza
assoluta e l’ineffabi- lità di Dio affermata dalla teologia negariva (v.); P. è
il «credo quia absurdum» (v.) di Tertulliano; P. è l’intera fede secondo
Kierkegaard, perchè tutte le categorie del pensiero religioso sono im- pensabili
e la fede crede nonostante tutto e assume tutti i rischi (cfr. Die Krankheit
zum Tode, 1849). Kierkegaard vide nel P. il rapporto stesso tra l’uomo e Dio: «
Il P. non è una concessione ma una care- goria: una determinazione ontologica
che esprime il rapporto tra uno spirito esistente e conoscente, e la verità
eterna » (Diario, VIII, A 11). PARALLELISMO PSICOFISICO (ingl. Psy- chophysical
Parallelism; franc. Parallélisme Psycho- physique; ted. Psycho-physischer
Parallelismus). La espressione fu coniata da Teodoro Fechner (Zend- avesta, II,
pag. 141), per designare la dottrina che gli eventi psichici e quelli fisici
costituiscono due serie parallele di eventi, che non agiscono gli uni sugli
altri ma sono causalmente determinati soltanto dagli eventi omogenei: gli
eventi mentali dagli eventi mentali e gli eventi fisici dagli eventi fisici.
Questa dottrina era suggerita dall’esigenza (o dal desiderio) di non sottoporre
gli eventi mentali alla causalità degli eventi fisici e dall’impossibilità di
considerare quest’ultimi dipendenti dai primi. Essa è servita per parecchi
decenni come ipotesi di la- voro della psicologia sperimentale nel suo primo
organizzarsi a scienza autonoma o relativamente autonoma (v. PsicoLogia). Fu
pertanto ammessa e seguita da coloro che contribuirono ai primi passi di questa
scienza e in particolare da Wundt. Questi intese come « principio del P.
psicofisico » il prin- cipio che « tutti i contenuti empirici che apparten- gono
contemporaneamente alla sfera di considera- zione mediata o scientifica e a
quella immediata o PARALLELISMO PSICOFISICO psicologica stanno in relazione
reciproca, in quanto ogni evento elementare del campo psichico esprime un
corrispondente evento nel campo fisico » (System der Philosophie, 2% ediz.,
1897, pag. 602). Questa dottrina veniva da un lato contrapposta al mo- nismo
(v.) che tende a ridurre gli eventi mentali agli eventi fisici o almeno a
sottoporre gli eventi mentali alla causalità degli eventi fisici; e dall’altro,
allo spiritualismo (v.) che consiste nel tentativo simmetrico e opposto. Essa
perciò è stata bene accettata come ipotesi di lavoro di una ricerca che non
voleva ancorare la sua validità ad una deter- minata metafisica. Nel periodo in
cui la dottrina del P. ha costituito il presupposto della psicologia
sperimentale ed è stato il tema di numerosissime discussioni tra psico- logi e
tra filosofi, si è cercato di connetterla con qualche illustre precedente
storico; e il più ovvio di tali precedenti era senza dubbio la metafisica di
Spinoza. Spinoza difatti aveva detto che « un modo dell’estensione e l’idea di
questo modo sono una sola e medesima cosa espressa in due ma- niere » (Er., II,
VII, Schol.); ed aveva negato l’in- terferenza della causalità dell’estensione
e della causalità del pensiero, affermando che la causa di un pensiero è sempre
un pensiero che la causa di un corpo è sempre un corpo (/bid., III, 2), mentre l’ordine
e la concatenazione delle cose sono sempre le stesse (/bid., III, 2, Schol.).
Queste affermazioni potevano essere interpretate come espressione della dottrina
del P.: per quanto l’intento di Spinoza non fosse quello di garantire
l’indipendenza cau- sale reciproca dei fatti fisici e dei fatti mentali, quanto
quello di garantire la loro comune subor- dinazione alla diretta causalità di
Dio. La dottrina di Spinoza non è veramente un P. ma un monismo panteistico.
D'altronde, la dottrina del P. deve i suoi successi, non alla sua validità
metafisica ma, all’opposto, alla limitazione dell'impegno metafisico che essa
implicava, potendo essere accettata come ipotesi di lavoro indipendentemente
dalla credenza monistica o da quella spiritualistica e non esclu- dendo nè
l’una nè l’altra. Quando la psicologia ha abbandonato la dottrina in esame,
questa è caduta da sè e ha cessato di essere un tema vivo di discussione (v.
PSICOLOGIA). PARALOGISMO (gr. rapadoyionée; inglese Paralogism; franc.
Paralogisme; ted. Paralogismus). Da Aristotele (Soph. E/., passim) in poi
questo ter- mine viene usato per indicare un sillogismo o co- munque un
argomento falso in forma (v. anche FaLLacia). In Kant « P. della Ragion pura »
designa la falsa argomentazione della psicologia razionale, la quale si illude
di poter dedurre dal semplice « io penso » determinazioni materiali ma @ priori
del concetto (idea) di «anima». G. P. PARTE PARAPSICOLOGIA. V. METAPSICHICA. PARENETICA
(gr. rapawverixà réxym; latino Praeceptiva; ingl. Parenetic; franc.
Parénétique). Secondo gli Stoici, quella parte della morale che consiste nel
fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle varie circostanze: lo
stesso che precettistica (cfr. SenECA, Ep., 95). Parenetico: esortatorio. PARENTESI
(ingl. Parentheses; franc. Paren- thèses; ted. Parenthese). In logica e in
matematica, le P. sono un segno di associazione. Cosl nell’espres- sione [n —
(x — y)] le P. interne servono esclusiva- mente a mostrare l’associazione delle
parti x — y dell’espressione. Nella terminologia della fenome- nologia
contemporanea « mettere in P.» significa effettuare la sospensione o epoché
fenomenologica (v. EPOCHE). PARIMPARI (gr. dprionépirtov; ingl. Even-0dd; franc. Pair-impair;
ted. Gerade-ungerad). Così i Pitagorici
antichi definirono l’unità, come principio del numero e delle cose, in quanto
essa sarebbe limitata come l'impari e illimitata come il pari (ARIST., Mer., I,
5, 986 a 15). PAROLA (lat. Verbum; ingl. Word; franc. Pa- role;
ted. Wort). 1. Secondo la distinzione fatta prevalere da Saussure tra P.,
lingua (v.) e linguag- gio (v.), la P. sarebbe la manifestazione linguistica dell’individuo.
A differenza della lingua, che è una funzione sociale, registrata passivamente
dall’indi- viduo, la P. è «l’atto individuale di volontà e di intelligenza nel
quale conviene distinguere: 1° le combinazioni nelle quali il soggetto parlante
utilizza il codice della lingua per esprimere il suo pensiero personale; 2° il
meccanismo psicologico che gli permette di esteriorizzare queste combinazioni »
(Cours de Linguistique Générale, 1916, pag. 31). 2. Il termine P. ha
un’ambiguità, che i logici hanno messo in chiaro. La P. può essere infatti da
un lato un singolo evento, che è nuovo ogni volta che si ripete; e in tale
senso diciamo, per es., che un libro è composto di cinquantamila parole.
Dall'altro il termine può significare la P.-significato, che è la stessa per
quante volte si ripeta e in tal senso possiamo dire, dello stesso libro, che
esso è composto di cinquemila parole. Nel primo senso, ad es., la P. è, se si
ripete dieci volte in una pagina, è dieci parole; nel secondo senso, è una sola
parola. Peirce propose di chiamare la parola nel primo significato token (segno
o gettone) e nel secondo significato type (tipo) (Coll. Pap., 4.537) (v. Tipo).
Altri parlano allo stesso proposito e corrispondente- mente di segno e simbolo
(cfr., M. BLACK, Language and Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181 sgg.).
PARONIMO (gr. napfwpoc; lat. Denomina- tivus). Così Aristotele chiamò gli
oggetti che trag- gono la loro designazione da un certo nome, modifi- 649 candone
il caso: come grammatico che deriva da grammatica e coraggioso da coraggio
(Car., 1, la 11). I P. hanno tra di loro in comune l’essenza espressa dalla
definizione (cfr. Boezio, In Car., I, P.L. 64, col. 167; Pietro Ispano, Summ.
Log., 3.01; JunGIUS, Logica Hamburgensis, I, 2, 16). In questo sono simili ai
sinonimi o univoci. Aristotele considera i P. come una certa specie di oggetti
de- signabili, accanto agli omonimi o equivoci e ai sinonimi o univoci (v.
Equrvoco; UNIVOCO). PARSIMONIA, LEGGE DELLA. V. Eco- NOMIA. PARSISMO (ingl.
Parsism; franc. Parsisme; ted. Parsismus). La religione dualistica degli
antichi Persiani [v. MALE 1 5); Zoroastrismo]. PARTE (gr. uépoc; lat. Pars; ingl. Part; fran- cese
Part; ted. Teil). Aristotele distinse tre
significati principali del termine: 1° ciò cui mette capo la divisione di una
quantità e in questo senso due è P. di tre, a meno che non si restringa il
significato di parte all’unità di misura, nel qual caso solo uno (e non due) è
P. di tre; 2° ciò a cui mette capo la divisione di un genere che non sia una
quantità e in tal senso sono parti le specie di un genere; 3° ciò a cui mette
capo l’analisi di una proposizione che vale da definizione; e in questo senso
il genere è P. della specie (perchè è la specie che viene definita) (Met., V,
25, 1023 b 12). San Tommaso a sua volta chiamò parti quanzitative, quelle nel
significato 1° di Aristotele; parti essenziali quella nei significati 2° e 3°
(S. 7h., I, q.76, a.8; III, q.90, a. 2). E aggiunse ad esse: la P. subbiettiva
«alla quale è presente, simultaneamente ed egualmente, l’intera virtù del tutto
come l’intera virtù dell’animale in quanto tale si conserva in qualsiasi specie
animale +; e la P. potenziale « alla quale è presente il tutto se- condo
l’intera sua essenza, come l’intera essenza del- l’anima è presente a ognuna
delle sue potenze » (S. 7h., III, q. 90, a. 3). Ma è abbastanza ovvio che queste
due ultime specie di P. sono state escogitate a scopi teologici. Altre
distinzioni sono state in- trodotte per altri scopi come quella tra la P. prossima
e la P. remota, a seconda che tra la P. e il tutto cada o non cada un’altra P.
(cfr. JuNGIUS, Log., 1, 9, 11-12); e quella tra la P. aliquota e la P. aliquanta,
a seconda che la ripetizione della parte arrivi esattamente ad adeguare il
tutto o risulti, a un certo punto, minore o maggiore di esso (con- fronta
WOoLFF, Onf., $ 360). La maggior parte di queste distinzioni sono oggi cadute
in disuso e lo stesso concetto di P., col venir meno del vecchio assioma, «la
P. è minore del tutto » (v. INFINITO), ha cessato di essere definito a partire
dal tutto e viene abitualmente definito mediante un certo tipo di relazione.
Così Peirce dice: « Una P. di una collezione, detta il furto 650 di essa, è una
collezione tale che ogni cosa che sia u della P. è « del tutto, ma qualcosa che
è « del tutto non è « della P. » (Co//. Pap., 4.173). PARTECIPAZIONE (gr.
pé8eE; lat. Parte cipatio; ingl. Participation; franc. Participation; ted.
Teilnahme, Partizipation). 1. Uno dei due con- cetti di cui Platone si avvalse
per definire il rap- porto tra le cose sensibili e le idee; l’altro è quello di
presenza o parusia (rapovela). «Nient'altro rende bella una cosa, egli disse,
se non la presenza o la P. del bello in sè, quali che siano la via o il modo nei
quali presenza o P. abbiano luogo » (Fed., 100 d). Più tardi Platone intese la
P. come imitazione: «A me pare che le idee stiano come esemplari nella natura;
e che gli altri oggetti somiglino ad esse e ne siano copie; e che questa P.
delle cose alle idee non consiste in altro che nell’essere imma- gini di esse »
(Parm., 132 d). Platone stesso non ha dato molte altre determinazioni su questo
importante concetto della sua filosofia. Ad esso tuttavia fece ricorso la
metafisica medievale quando si trattò di distinguere « l’essere per essenza »
che appartiene solamente a Dio dall’ « essere per P. » che appartiene alle
creature: distinzione che garantiva la subordi- nazione dell’essere delle cose
all’essere di Dio. «Come ciò che ha fuoco e non è fuoco, è infocato (ignitum),
per P., dice San Tommaso, così ciò che ha l’essere e non è l’essere è ente per
P.» (S. 7h., I, q. 3, a. 4). Ma l’uso esteso che è stato fatto di questo
concetto nella metafisica tradizionale non ha molto contribuito a chiarirlo; e
il concetto è rimasto indefinito ed oscuro come era già per Platone. 2. L.
Lévy-Bruhl ha fatto un uso esteso del concetto di partecipazione per illustrare
la menta- lità dei primitivi. Nell’ambito di questa mentalità, la
partecipazione sarebbe anteriore alla distinzione tra le cose che si
partecipano. « La partecipazione non si stabilisce tra un morto e un cadavere
più o meno nettamente rappresentati (nel quale caso avrebbe la natura di una
relazione e dovrebbe es- sere possibile chiarirla mediante l’intelletto); essa non
viene dopo le rappresentazioni, non le pre- suppone, ma è anteriore ad esse o
almeno simul- tanea. Ciò che è dato per primo è la partecipa- zione» (Les
carnets, I; trad. ital., pag. 36-37). PARTICOLARE (gr. xatà pépoc; lat. Parti- cularis;
ingl. Particular; franc. Particulier). Che è una parte o appartiene ad una
parte. La proposi- zione P. fu definita da Aristotele nel modo seguente: «
Chiamo P. la proposizione che esprime l’inerenza a qualche cosa o la non
inerenza a qualche cosa o la non inerenza a ogni cosa» (An. Pr., I, 1, 24a 13).
Il contrario della proposizione P. è quella universale (v.). La logica
medievale indicò con la lettera / la proposizione P. affermativa e con lettera PARTECIPAZIONE
O la proposizione P. negativa. Una proposizione P. della forma «alcuni F sono
G» si può leggere in vari modi: « qualche F è G3, «qualche cosa è insieme F e G
», « qualche cosa che è un F è un G?», «c’è un FG», «ci sono FG», «FG esiste»,
ecc. (cfr. W. v. O.
QuInE, Methods of Logic, $ 12). PARTIZIONE (gr. pepiou6s; lat. Parzitio; ingl. Partition; franc. Partition; ted.
Partition). Gli Stoici intesero con questo termine « l’ordina- mento di un
genere nei suoi luoghi» (Diog. L., VII, 1, 62) cioè l’enumerazione delle parti
che compongono il tutto, come quando si enumerano le membra del corpo umano; e
la distinsero pertanto dalla divisione che è l’enumerazione delle specie appartenenti
a un genere (CicER., Top., 5-7, 28, 30) (v. DIVISIONE). PARUSIA. V.
PARTECIPAZIONE. PASSATO. V. Tempo. PASSIONE (ingl. Passion; franc. Passion; ted.
Leidenschaft). Questo termine può significare: 1° lo stesso che affezione, cioè
modificazione pas- siva nel senso più generale del greco rà$oc e del latino
passio (per questo significato v. AFFEZIONE); 2° lo stesso che emozione (v.),
nel qual significato esso è stato adoperato quasi universalmente sino al sec.
xvi, quando si è venuto determinando il significato specifico che oggi possiede
cioè; 3° l’azione di controllo e di direzione esercitata da un’emozione
determinata sull’intera personalità di un individuo umano. In questo senso, che
è il solo proprio e specifico, la parola viene oggi comunemente adoperata. Così
l’espressione francese, divenuta internazionale, «amour-passion » indica una
forma di emozione amorosa che domina la personalità ed è travolgente rispetto
ad ostacoli morali e sociali (cfr. pure « Crime de passion» o « Delitto
passionale +). Nelle frasi «P. del gioco» o « P. delle donne» o « P. del denaro
», il significato di un indirizzo dominante e globale impresso all’intera
personalità è altret- tanto chiaro, com’è chiaro nelle espressioni « P. politica
», «P. religiosa», ecc. Il concetto nasce con le analisi dei moralisti del °600
e °700 che hanno messo in luce la tendenza delle emozioni a pene- trare la
personalità e a dominarla. Pascal diceva «Quando si conosce la P. dominante di
qualcuno si è sicuri di piacergli » (Pensées, 106). Nella quale espressione
l’aggettivo « dominante » esprime bene il carattere della passione. Le Maximes
di La Roche- foucauld insistono con un certo cinismo su questo carattere
dominante delle passioni (« Se resistiamo alle nostre passioni, è più per la
loro debolezza che per la nostra forza», 122), e Vauvenargue nel Discours sur
la liberté (1737) diceva: « Per resistere alla P. bisognerebbe almeno voler
resistere. Ma farà la P. nascere il desiderio di combattere la P., PASSIONE 651
nell’assenza della ragione vinta e dispersa?». E ag- giungeva: « Le passioni
hanno appreso agli uomini la ragione» (Réflexions et maximes, 154). Nello stesso
spirito Helvètius dichiarava: «Le passioni sono nel campo morale ciò che il
movimento è nel campo fisico » (De l’esprit, III, 4); e Condillac defi- niva la
P.: « Un desiderio che non permette di averne altri o che, almeno, è il più
dominante » (7raité des sensations, I, 3, $ 3). Kant ci ha dato a questo pro- posito
le determinazioni più precise. La P. è l’incli- nazione che impedisce alla
ragione di paragonarla con le altre inclinazioni e così di effettuare una
scelta fra esse (Antr., $ 80). Perciò la P. esclude il dominio di sè cioè
impedisce o rende impossibile che la vo- lontà si determini in base a princìpi
(Crir. del Giud., $ 29). Kant insiste, con notazioni felici, sulla capa- cità
della P. di dominare l’intera condotta dell’uomo, di impadronirsi della sua
personalità. A differenza dell’emozione che è precipitosa e irriflessiva, la P.
prende tempo ed è riflessiva, per raggiungere il suo scopo, sebbene possa
essere violenta. L’emo- zione è come un fiotto che rompe la diga; la P. è come
una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. L'emozione è come
un’ebrezza che si smaltisce, sebbene ne segua il mal di capo; la P. invece è
come una malattia per intossicazione o per deformazione, che ha bisogno di un
medico interno o esterno dell’anima, il quale, tuttavia, non sa per lo più
prescrivere una cura radicale, ma, quasi sempre, solo palliativi (Antr., $ 74).
Per il pericolo che la passione rappresenta per la scelta razionale e la
libertà morale dell’uomo, Kant rigetta ogni esaltazione delle passioni. Egli cita
la frase: « Nulla di grande nel mondo è stato mai compiuto senza violente
passioni », per commen- tarla così: « Questo si può ammettere di parecchie inclinazioni,
di quelle cioè delle quali la natura vi- vente (anche quella dell’uomo) non può
far a meno, come di un bisogno naturale e fisico. Ma che esse possano, anzi
debbano, diventar passioni, questo la Provvidenza non ha voluto. Spiegarle da
questo punto di vista può esser concesso a un poeta, per es., al Pope, il quale
scrisse: « Se la ragione è una bussola, le passioni sono i venti »; ma il
filosofo non può ammettere questo principio neppure per valutare le passioni
come un artificio provvisorio della Provvidenza la quale le avrebbe poste nella
natura umana prima che gli uomini fossero arrivati ad un grado conveniente di
civiltà » (Antr., $ 80). Il Romanticismo accetta e fa suo il concetto della P.
che i moralisti francesi e Kant avevano elaborato; concetto secondo il quale
essa non è un’emozione o uno stato affettivo particolare, ma piuttosto il
dominio totale e profondo che uno stato affettivo esercita su tutta la
personalità (o «soggettività +) dell’individuo. Dall’altro lato però il
Romanticismo capovolge la valutazione negativa della P. che aveva data Kant. Ed
è significativo che colui il quale ha espresso con più rigore il punto di vista
romantico su questo punto, cioè Hegel, non ha fatto che capovolgere le
valutazioni kan- tiane. Hegel definisce la P. come «la totalità dello spirito
pratico in quanto si pone in una singola delle molte determinazioni limitate
che sono tra loro in contrasto (Enc., $ 473)». Ed aggiunge: «La P. contiene
nella sua determinazione che essa è confinata ad una particolarità della
determinazione del volere, nella quale l’intera soggettività dell’in- dividuo
s’immerge, quale che sia poi il contenuto di questa determinazione. Ma per
questo carattere formale la P. non è nè buona nè cattiva: la sua forma esprime
solo che un soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l'interesse vivente
del suo spirito, dell’ingegno, del carattere, del godi- mento. Niente di grande
è stato compiuto, nè può esser compiuto, senza passione. È soltanto una moralità
morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della P.
in quanto tale » (Enc., $ 474). Qui, mentre s’insiste sul carattere totale
della P., che limita ad un unico contenuto o determinazione « l’intera
soggettività dell'individuo » e cioè «l’interesse vivente del suo spirito,
ecc.» si riprende la frase criticata da Kant e si dichiara espressione di una
moralità morta o ipocrita la condanna kantiana. E il curioso è che Kant aveva in
anticipo criticato un altro tratto caratteristico della filosofia di Hegel: la
giustificazione delle passioni come strumenti della provvidenza cosmica, come
«astuzie » della Ragione infinita per realiz- zare i suoi scopi: tesi che è fra
le più caratteristiche della filosofia della storia di Hegel (Philosophie der
Geschichte, ed. Lasson, pag. 63 sgg.). Da un diverso punto di vista
l’esaltazione della P. fu fatta anche da Nietzsche che vedeva un sintomo di
debolezza nella « paura dei sensi, dei desideri e delle passioni, quando essa
arriva a sconsigliarli +; e vedeva nella P. dominante «la forma suprema della
salute » perchè in essa «la coordinazione dei sistemi interni e il loro lavoro
al servizio di uno stesso fine sono meglio realizzati: il che è pressapoco la
definizione della salute» (Wille zur Macht, ed. Kroner, $ 778). Un punto di
vista equidistante tra la condanna e l’esaltazione della P. sembra prevalere
nella cultura contemporanea. Così, ad es., si esprime Dewey: « La fase
emozionale, appassionata dell’a- zione non può nè deve essere eliminata a
vantaggio di una esangue ragione. Più passioni, non meno, è la risposta... La
razionalità non è la forza da evocare contro impulsi ed abiti, ma piuttosto il raggiungimento
di una armonia operante fra diversi desideri » (Human Nature and Conduct, pag.
195-96). 652 PASSIVO (gr. ra8ntx6c; lat. Passivus; inglese Passive; franc.
Passif; ted. Passiv). Che subisce un'azione, che è affetto da qualche cosa. È
l’ag- gettivo corrispondente ad affezione (v.) e contrario ad attivo (V.). PASTORALE,
FILOSOFIA (lat. Pastoralis philosophia). Così chiamò Bacone quella filosofia «che
contempla il mondo placidamente e quasi per ozio »: rimprovero che egli rivolge
anche alla filosofia di Telesio (Phil. Works, III, $ 45). PATETICO (ingl.
Parhetic; franc. Parhétique; ted. Pathetisch). F. Schiller designò con questo termine
una delle specie del sublime (v.) pratico e precisamente quello che deriva da
un oggetto in se stesso minaccioso per la natura fisica dell’uomo, quindi
doloroso. Il sublime pratico contemplativo invece è quello nel quale non è
l’oggetto ma la contemplazione di esso a istituire la sua temibilità e quindi
la sublimità (Vom Erhabenen, zur weiteren Ausfuhrung einiger Kantischen Ideen,
1793; Uber das Pathetische, 1793). PATOLOGICO (ingl. Parhological; franc. Pa- thologique;
ted. Pathologisch). Ciò che è una malattia o la manifestazione di una malattia.
Il solo uso specificamente filosofico di questo termine è quello che Kant ne
fece designando con esso tutto ciò che concerne o costituisce «la facoltà di
desiderare inferiore» cioè il complesso delle inclinazioni naturali umane. Dal
punto di vista kantiano, non P. è soltanto la cosiddetta «facoltà di desiderare
superiore » cioè la ragion pratica in quanto indi- pendente da tutte le
inclinazioni sensibili (Cri. R. Prat., $ 3, scol. I). G. Bentham chiamò
patologia la considerazione e la classificazione dei moventi sensibili della
condotta, indicando con quel termine «la teoria della sensibilità passiva »;
mentre chia- mava dinamica « l’uso possibile, da parte del mora- lista e del
legislatore di quegli stessi moventi per determinare la condotta umana in vista
della mas- sima felicità possibile » (Springs of Action, 1817). PATRISTICA
(ingl. Patristic; franc. Patri- stique; ted. Patristik). Si indica con questo
nome la filosofia cristiana dei primi secoli. Essa consiste nell’elaborazione
dottrinale delle credenze reli- giose del cristianesimo e nella loro difesa
contro gli attacchi dei pagani e contro le eresie. La P. è caratterizzata dalla
mancanza della distinzione tra religione e filosofia. La religione cristiana
appare ai Padri della Chiesa, come l’espressione compiuta e definitiva della
verità che la filosofia greca aveva solo imperfettamente e parzialmente
raggiunta. Difatti la Ragione (/ogos) che si è fatta carne nel Cristo e che si
è nella parola di Lui rivelata piena- mente agli uomini, è quella stessa a cui
i filosofi pagani si sono ispirati e che hanno cercato di tradurre nelle loro
speculazioni. PASSIVO La P. si suole comunemente dividere in tre periodi. Il
primo che va sino al 200 circa è dedicato alla difesa del Cristianesimo contro
i suoi avversari pagani e gnostici (Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo,
Ireneo, Tertulliano, Minucio Felice, Ci- priano, Lattanzio). Il secondo periodo
che va dal 200 a circa il 450 è caratterizzato dalla formulazione dottrinale
delle credenze cristiane. È il periodo dei primi grandi sistemi di filosofia
cristiana (Clemente Alessandrino, Origene, Basilio, Gregorio Di Na- zianzio,
Gregorio di Nissa, Sant'Agostino). Il ferzo periodo che va dalla metà del v
secolo sino alla fine dell’vm secolo è caratterizzato dalla rielabora- zione e
sistemazione delle dottrine già formulate e dalla mancanza di formulazioni
originali (Nemesio, Pseudo Dionigi, Massimo Confessore, Giovanni Damasceno,
Marciano Capella, Boezio, Isidoro di Siviglia, Breda il Venerabile). L'eredità
della P. fu raccolta, agli inizi della rinascita carolingia, dalla Scolastica
(v.). PAURA. V. EMOZIONE. PAZZIA (gr. uopla; lat. Srultitia; ingl. Madness; franc. Folie; ted.
Wahn). 1. Quella che Platone chia- mava la P.
buona, cioè la P. che non è malattia o perdizione, è stata intesa in due modi
diversi e cioè: 1° come inspirazione o dono divino; 2° come amore della vita e
tendenza a viverla nella sua semplicità. 1° Il primo significato è quello che
le attribuì Platone nel Fedro, affermando che «i maggiori beni ci sono elargiti
per mezzo d’una P. che è un dono divino » (Fedr., 244 a). Questa P. si
manifesta in quattro forme: a) la P. profetica, che è a fonda- mento della
mantica cioè dell’arte per cui si predice il futuro; 5) la P. purificatoria che
consente di allon- tanare i mali per mezzo di purificazioni e di inizia- zioni
nel presente e nell’avvenire; c) la P. poetica che è ispirata dalle muse
(Ibid., 244a, 245 a); e finalmente, la forma più alta cioè d) la P. amorosa
alla quale l’uomo è invogliato dal ricordo della bellezza ideale risvegliato in
lui dalla bellezza delle cose del mondo (/bid., 249 e). Ovviamente le prime tre
forme di P. sono forme di ispirazione divina, riconducibili all’entusiasmo
(v.). L'amore invece, è P. in un senso diverso cioè come aspirazione all’essere
autentico, risvegliata da quella mani- festazione « più amabile e più evidente»
di esso che è la bellezza. Ora questo è già il secondo signi- ficato di pazzia.
2° Nel secondo significato, la P. è infatti amore della vita nella sua
semplicità, contrapposta alla saggezza artificiosa ed arcigna e alla scienza di
chi sa tutto tranne che vivere ed amare. L’Elogio della pazzia (Stultiae laus,
1509) di Erasmo da Rotterdam è la più famosa difesa di questo secondo
significato del termine. Ecco come Erasmo delinea il ritratto del saggio stoico:
« Egli è sordo alla voce dei sensi, PECCATO ORIGINALE non sente alcuna
emozione, l’amore e la pietà non fanno alcuna impressione sul suo cuore duro come
diamante, nulla gli sfugge, mai non dubita, la sua vista è da lince, tutto pesa
con la massima esattezza, non perdona nulla; trova in se stesso la sua
felicità, si crede il solo ricco della terra, il solo savio, il solo re, il
solo libero: in una parola si crede il tutto; e il più bello è che è il solo a
credersi tale ». Ora, si domanda Erasmo, chi non preferirebbe a questo saggio «
un uomo qualsiasi, tolto alla folla degli uomini pazzi, il quale, per quanto
pazzo, sapesse comandare o obbedire ai pazzi e farsi amare da tutti; e che
fosse compiacente con la moglie, buono con i figli, allegro nei banchetti, socievole
con tutti quelli con i quali convive, e infine che non si credesse straniero a
tutto ciò che appartiene all'umanità?» (E/, 30). La P. di cui parla Erasmo è la
semplicità della vita, che si contenta di nutrire illusioni e speranze; o, nel campo
della religione è la fede e la carità contrap- poste alle cerimonie esterne, ai
riti meccanizzati e all’ipocrisia dei bacchettoni (Ibid, 54). Questa forma di
P. non ha, ovviamente, nulla a che fare con un’ispirazione divina, ma è umana e
laica e non per nulla l’elogio di essa è uno dei documenti più significativi
del Rinascimento. 2. Lo stesso che psicosi (v.). PECCATO (lat. Peccatum; ingl.
Sin; fran- cese Péché; ted. SuUnde). La trasgressione intenzio- nale di un
comando divino. Il termine ha una con- notazione prevalentemente religiosa: P.
non è la trasgressione di una norma morale o giuridica ma la trasgressione di
una norma che si ritiene imposta o stabilita dalla divinità. Il riconoscimento
del carattere divino di una norma e l'intenzione di violarla, sono i due
elementi di questo concetto: elementi senza i quali il concetto stesso si con- fonde
con quelli di colpa, delitto, errore, reato, ecc., che esprimono la
trasgressione di una norma morale o giuridica. Il concetto del P. è stato in
questi termini elabo- rato dalla teologia cristiana. Sant'Agostino definiva il
P. come «ciò che è detto o fatto o desiderato contro la legge eterna +,
intendendo per legge eterna la volontà divina che è diretta a conservare
l’ordine del mondo e a far sì che l’uomo desideri di più il bene maggiore e
meno il bene minore (Contra Faustum, XXII, 27). E San Tommaso non faceva che
accettare questa definizione annotando che la legge eterna per l’uomo è
duplice: « L’una è vicina ed omogenea, cioè la stessa ragione umana, l’altra è
la regola prima, cioè la legge eterna che è quasi la ragione di Dio» (S. Th.,
II, 1, q.71, a. 6). San Tommaso insiste da un lato sulla volontarietà, cioè
intenzionalità, del P.: volontarietà per cui si potrebbe definire il P.
mediante la sola volontà 653 se non fosse che anche gli atti esterni
appartengono al P. stesso e devono pertanto essere menzionati nella definizione
di esso (/bid., ad 2°). Dall'altro lato insiste sul punto che ogni P. è, come
tale, un P. contro Dio, per quanto i peccati contro Dio costituiscano, da un
altro punto di vista, una spe- ciale categoria di peccati (S. Th., II, 1, q.
72, a. 4, ad 1°) Questo concetto del P. si può dire che sia rimasto immutato
attraverso i tempi. Kant lo ripete defi- nendo il P. «la trasgressione della
legge morale in quanto comando divino» (Religion, I, sez. IV; II, sez. 1, c;
trad. ital., Durante, pag. 31, 68); e lo ripete Kierkegaard affermando che il
P. è davanti a Dio e che esso consiste « nel voler disperatamente essere se
stesso o nel non voler disperatamente essere se stesso » il che significa che
consiste nella disperazione di non aver fede (Die Krankheit zum
Tode, II, cap. I; trad. ital, Fabro, pag.
300). Ciò che Kierkegaard aggiunge è il carattere eccezionale del P. che
corrisponde al carattere eccezionale della fede. Il P. non è di tutti i giorni.
« Essere un peccatore nel senso più rigoroso, egli dice, è ben lungi dall’es- sere
un merito. Ma d’altra parte, come si può tro- vare una coscienza essenziale del
P. (che è d'altronde indispensabile per il Cristianesimo) in una vita tal- mente
immersa nella trivialità, così ridotta allo scim- miottamento piatto degli
altri, che è quasi impossi- bile darle un nome, che è troppo priva di spirito per
poterla chiamare P.? + (/bid., II, B, Aggiunta A; trad. ital., pag. 328). PECCATO
ORIGINALE (lat. Peccatum Ori- ginale; ingl. Original Sin; franc. Péché
originel; ted. Erbsind). Le discussioni filosofico-teologiche intorno al P.
originale hanno avuto di regola per oggetto il modo in cui tale P. si è
trasmesso da Adamo agli altri uomini. San Tommaso enu- merava due ipotesi
principali addotte per la so- luzione di questo problema e cioè: l’ipotesi del traducianesimo
(v.) secondo la quale «l’anima ra- zionale si trasmette con il seme sicché da
un'anima infetta derivano anime infette »; l’ipotesi dell’eredi- tarietà
secondo la quale «la colpa dell'anima del primo parente si trasmette alla
prole, per quanto non si trasmette l’anima stessa, al modo in cui i difetti del
corpo si trasmettono di padre in figlio ». Entrambe queste ipotesi sembravano a
San Tommaso insostenibili ed egli annunciava la sua dicendo che «tutti gli
uomini che nascono da Adamo possono considerarsi come un unico uomo in quanto
hanno la stessa natura, che essi ricevono dal primo parente; al modo in cui
nelle città tutti gli uomini che appar- tengono alla stessa comunità si
ritengono un unico corpo e l’intera comunità quasi un unico uomo » (II,. 1,
q.81, a. 1). Alcuni secoli dopo, nella sua Teodicea (1710) Leibniz enumerava le
stesse ipotesi 654 (Théod., I, $ 86), che sono rimaste quelle tra le quali ha
oscillato il pensiero teologico. D'altronde un’interpretazione filosofica (e
non teologica) del P. originale si ha soltanto con Kant e Kierkegaard. Kant
osservò che non bisogna confondere la questione dell’origine temporale di una
cosa con quella della sua origine razionale: al problema dell’origine temporale
cerca di rispon- dere la dottrina biblica del P. originale; ma al problema
dell’origine razionale del male risponde la dottrina del « male radicale »
secondo la quale la disposizione innata dell’uomo al male deriva dalla natura
delle sue massime. « La proposizione: l’uomo è cattivo, dice Kant, non
significa altro se non che l’uomo è consapevole della legge morale e che
tuttavia ha accolto nella sua massima di allontanarsi occasionalmente da tale
legge. Dire che egli è cattivo per natura significa che ciò vale per tutta la
specie umana; non già nel senso che tale qualità si possa dedurre dal concetto
della specie umana (dal concetto di uomo in generale) giacchè allora sarebbe
necessaria; ma nel senso che l’uomo, così come lo si conosce per esperienza, non
può essere giudicato diversamente o nel senso che si può presupporre la
tendenza al male in ogni uomo, anche nel migliore, come oggettivamente necessaria
» (Religion, I, 3; trad. ital, Durante, pag. 18). Sostanzialmente identica con
questa è l’interpretazione che del P. originale ha dato Kier- kegaard,
scorgendo la condizione e la realtà psico- logica di esso nell’angoscia. «Il
divieto di Dio, egli dice, angoscia Adamo perchè sveglia in lui la possibilità
della libertà. Ciò che nell’innocenza era il nulla dell'angoscia è ora entrato
nell’innocenza stessa ed è qui di nuovo un nulla cioè /a possibilità angosciante
di potere. Cosa sia ciò che egli può, egli non ne ha idea alcuna; altrimenti si
presup- porrebbe, come avviene di solito, quel che segue, cioè la differenza
tra il bene e il male. Non c’è in Adamo che la possibilità di potere, come
forma superiore di ignoranza, come superiore espressione di angoscia, perchè in
un senso più alto, questa possibilità è e non è, ed Adamo l’ama e la fugge»
(Der Begriff Angst, I, $ S; trad. ital, Fabro, pag. 54). Anche qui, come si
vede, non si tratta dell’origine temporale ma dell’origine razionale del P.
originale; e anche qui quest’origine è vista in una possibilità: nella
possibilità indeterminata o « indefinita », come Kierkegaard la chiama, che è
anche la possibilità di agire contro il divieto divino. Secondo Kierkegaard,
come secondo Kant, il P. originale consisterebbe pertanto nel prospettarsi di
una possibilità che, come tale, può implicare l'infrazione alla norma morale o
al divieto divino. PEDAGOGIA (ingl. Pedagogy; franc. Péda- gogie; ted.
Pédagogik). Questo termine che in PEDAGOGIA origine significò la pratica o la
professione dell’edu- catore è passato poi a significare qualsiasi reoria dell’educazione:
intendendosi per reoria non solo un'elaborazione ordinata e generalizzata delle
mo- dalità e delle possibilità dell’educazione ma anche una riflessione
occasionale o un presupposto qualsiasi della pratica educativa. In questo
senso, la pedagogia non aveva nell'antichità classica la dignità di una scienza
autonoma ma era considerata come parte dell’etica o della politica ed elaborata
perciò unicamente rispetto al fine che l’etica o la politica proponevano
all'uomo; mentre dall’altro lato gli espedienti o i mezzi pedagogici venivano considerati
soltanto nei confronti della prima edu- cazione cioè nei confronti
dell’educazione dell’età infantile, perciò delle più elementari acquisizioni (il
leggere, lo scrivere e il far di conto). La riflessione pedagogica appare così,
fino a un certo punto, divisa in due branche, che procedono ognuna per conto
suo: la prima, di natura schiettamente filo- sofica ed elaborata in vista del
fine che l'etica propone per l’uomo; la seconda, di natura empirica o pratica,
elaborata in vista del primo e più elemen- tare addestramento del bambino alla
vita. Si può dire che questi due tronconi vengono per la prima volta a saldarsi
nel sec. xvil per opera di G. A. Comenio, che ebbe la pretesa di portare nel dominio
della P. quella organizzazione metodolo- gica che Francesco Bacone aveva avuto
la pretesa di portare nel dominio delle altre scienze; ed elaborò pertanto un
completo sistema pedagogico, fondato sul principio della pansofia (v.), che
partiva dalla considerazione del fine educativo per giungere alla considerazione
dei mezzi e degli strumenti didattici. A partire da Comenio, l’esperienza
pedagogica dell’occidente si è andata arricchendo e appro- fondendo con i
tentativi di trovare nuovi metodi dell’educazione. L’opera di Locke, di
Rousseau, di Pestalozzi, di Fròbel, è molto importante sotto questo punto di
vista e anche perchè cercò di accor- dare i metodi di educazione con le nuove
concezioni filosofiche che via via si presentavano. Si può dire così che Locke
rappresenta la P. dell’empirismo, Rousseau la P. dell’illuminismo, Pestalozzi
la P. del criticismo e Fréebel quella del romanticismo. Tuttavia,
l’organizzazione scientifica della P. deve molto a Herbart che per la prima
volta distinse e unì i due tronconi della tradizione pedagogica in un sistema
coerente. Herbart infatti distinse la considerazione dei fini dell’educazione,
che la P. deve attingere dall’erica e la considerazione dei mezzi educativi che
la P. deve attingere invece dalla psicologia; e cercò di elaborare
distintamente e correlativamente queste due parti integranti (Allgemeine
Padagogik, 1806; Umris péidagogischer Vorlesungen, 1835). PENA Da questo punto
in poi la psicologia è diventata la scienza ausiliaria fondamentale della
pedagogia. La sola e non felice eccezione a questa connessione è stata
rappresentata da quella forma dell’idealismo romantico che è prevalsa in Italia
nei primi decenni del nostro secolo. Questa forma di idealismo negava la
diversità delle persone, ritenendole unite nello Spirito universale, e
identificava pertanto lo svi- luppo personale dell’uomo con lo sviluppo univer-
sale dello Spirito. Queste tesi venivano presentate come una risoluzione della
P. nella filosofia. Diceva Gentile: « Quando per spirito non s’intende se non appunto
lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma dello Spirito, la
filosofia stessa (tutta la filosofia, posto che la realtà sia concepita
assoluta- mente come Spirito) diventa P. e la forma scientifica dei singoli
problemi pedagogici diventa la filosofia » (Sommario di pedagogia, II, 1912,
pag. 15). Contem- poraneamente, tuttavia, si faceva il tentativo sim- metrico e
opposto di ridurre la P. a scienza mecca- nica, sul modello della fisica,
cambiandole il nome in pedologia (v.): sul fondamento che con la padro- nanza
del meccanismo psicologico si può dirigere la formazione mentale degli uomini
al modo con cui si possono dirigere, utilizzando le leggi di natura, le forze
della natura. La P. contemporanea, nella sua forma più matura, si può far
cominciare proprio quando questo duplice e opposto tentativo di riduzione
dell’uomo a spirito assoluto o a meccanismo viene tralasciato e l’uomo comincia
ad essere inteso e considerato come natura senza essere degradato a meccanismo.
La nozione di condizionamento (v. ConDIZIONE) è quella che oggi prevale nella
P. e che ha espulso da essa sia l’indeterminismo idealistico sia il
determinismo meccanistico. Inoltre l’esperienza pedagogica si è oggi arricchita
attraverso la considerazione del fatto educativo nelle società primitive:
considerazione che ha reso possibile da un lato una generalizza- zione del
concetto stesso di educazione (v.) dall’altro confronti e paralleli efficaci
sul terreno dei mezzi educativi. Oltre alla psicologia, l'antropologia e la sociologia
concorrono oggi a fornire alla P. il suo armamentario di mezzi educativi;
laddove il pro- blema dei fini rimane aperto e i fini stessi tendono a essere
presentati, dal punto di vista pedagogico, in forma ipotetica piuttosto che
nella forma asso- luta e dogmatica con cui venivano assunti dalla P.
tradizionale (v. CULTURA; EDUCAZIONE). PEDOLOGIA (ingl. Paidology; franc. Pédo-
logie; ted. Paidologie). La scienza esatta dell’educa- zione, in opposizione
alla pedagogia che sarebbe l’arte empirica dell’educazione. Questo fu almeno il
significato dato al termine da coloro che l’intro- dussero: il tedesco O.
Chrisman (Paidologie, 1894) e il francese E. Blum (cfr. i suoi articoli in
Revue 655 Philosophigue, maggio 1897, novembre 1898). La P. avrebbe dovuto
avere come presupposto la psi- cologia sperimentale e da essa desumere gli
strumenti dell’educazione, relativamente alle varie età del- l’uomo. Questo
concetto non è venuto meno cd è anzi a fondamento di buona parte della
psicologia contemporanea; ma il termine P., dopo una breve voga, è stato
abbandonato. PEDOTECNICA (franc. Pédorechnique). Una «Società di P.» fu fondata
nel 1906 a Bruxelles da Decroly: il termine aveva lo stesso significato di
pedologia. PEIRASTICA (gr. respaotixi réxm). Secondo Aristotele, l’arte di
mettere alla prova una tesi, deducendo le conseguenze di essa. È una parte della
dialettica e si distingue dalla sofistica in quanto si rivolge all’avversario
ignorante mentre la sofistica tende a mettere in iscacco anche colui che è
dotato di scienza (E/. Sof., 8, 169b 25; 171 b 4). PELAGIANISMO (ingl.
Pelagianism; francese Pélagianisme; ted. Pelagianismus). La dottrina del monaco
inglese Pelagio che ai princìpi del sec. v insegnò a Roma e a Cartagine, in
polemica con S. Agostino, la dottrina che il peccato di Adamo non ha indebolito
la capacità umana di fare il bene, ma è solo un esempio cattivo che rende più difficile
e gravoso il compito dell’uomo. S. Ago- stino combattè con molti scritti questa
tesi a par- tire dal 412, sostenendo la tesi opposta: che con Adamo e in Adamo
ha peccato tutta l’umanità e che quindi il genere umano è una sola « massa dannata
», nessun membro della quale può essere sottratto alla punizione se non dalla
misericordia e dalla non dovuta grazia di Dio (cfr. De Civ. Dei, XIII, 14) (v.
GRAZIA). PENA (gr. 8; lat. Poena; ingl. Penalty; fran- cese Peine; ted.
Strafe). Privazione o afflizione prevista da una legge positiva per chi si
renda colpevole di una infrazione di essa. Il concetto della pena varia a
seconda delle giustificazioni che sono state date di essa; e tali
giustificazioni variano a seconda che si tenga presente come scopo della pena;
1° l’ordine della giustizia; 2° la salvezza del reo; 3° la difesa dei
cittadini. 1° Il più antico concetto della pena è quello che le attribuisce
l'ufficio di ripristinare l'ordine proprio della giustizia. Questo è il compito
che le attribuisce Aristotele: il quale nega che la giustizia consista nella P.
del taglione e ritiene che il fine della P. consista nel ripristinare la
proporzione in cui la giustizia consiste: « Quando uno abbia rice- vuto
percosse e un altro le abbia inferte oppure quando uno abbia ucciso e l’altro
sia morto, il dànno e il diritto non hanno tra loro un rapporto d’uguaglianza;
ma il giudice cerca di rimediare a 656 questa inuguaglianza con la P. che
infligge, ridu- cendo il vantaggio carpito » (Er. Nic., V, 4, 1132 a 5; cfr. 8,
1132 b 21). Questo concetto era stato già esteso dall'uomo al mondo da
Anassimandro di Mileto che aveva affermato: « Tutti gli esseri devono, secondo
l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia»
(Fr. I, Diels). La P. serve qui a ripristinare l’ordine cosmico. Questa è anche
la funzione che le si attribuisce da un punto di vista religioso. Plotino dice:
« Noi compiamo la funzione che è propria, per natura, dell'anima finchè non ci
sviamo nel molteplice dell’universo; e se ci sviamo paghiamo la P. sia con il
nostro stesso sviamento sia con la sorte di- sgraziata che ci attende più tardi
» (Emn., II, 3, 8). Le stesse parole si trovano in S. Agostino (De Civ. Dei, V,
22). E S. Tommaso dice: « Poichè il peccato è un atto contrario all’ordine è
ovvio che chiunque pecca agisce contro un certo ordine; e così dallo stesso
ordine consegue che esso sia represso: e questa repressione è la P.» (S. 7h.,
I, II, q. 87, a. 1). Nello stesso spirito Kant affermava, in modo solo
apparentemente paradossale: « Anche quando la società civile si dissolvesse con
il consenso di tutti i suoi membri (se per es., un popolo abi- tante un'isola
si decidesse a separarsi e a disperdersi per tutto il mondo), l’ultimo
assassino che si tro- vasse in prigione dovrebbe prima venir giustiziato, affinchè
ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul
popolo che non ha reclamato quella punizione » (Mer. der Sitten, J, II, sez. 1,
E; trad. ital., pag. 144). Dallo stesso punto di vista Hegel considerava la P.
come «la vera conciliazione del diritto con se stesso », come «rispetto
oggettivo e conciliazione della legge che restaura se stessa mediante
l’annullamento del delitto e si realizza quindi come valida » (Fil. del Dir., $
220). Quelle citate sono le voci principali che possono esser raccolte tra i
filosofi in favore della teoria della P. come ripristino dell’ordine di
giustizia. Ma queste voci hanno ispirato e tuttora
ispirano numerose dottrine giuridiche
nonchè isti- tuzioni e leggi su di esse fondate. 2° Il concetto della P. come
salvezza o emenda- mento del reo va spesso congiunto con quello precedente. La
più celebre difesa di esso è forse il Gorgia platonico la cui tesi è che è
meglio subire l'ingiustizia anzichè commetterla e che, per chi ha commesso
ingiustizia, la cosa migliore è di subirne la pena. «Se una colpa viene
commessa, dice Platone, bisogna al più presto recarsi colà dove si possa
pagarne la P. cioè presso il giudice come presso il medico, affinchè la
malattia dell’in- giustizia non diventi cronica e non renda l’anima guasta e
inguaribile + (Gorg., 480 a). Difatti, « colui che paga la P. patisce un bene»
nel senso che PENA «se è punito giustamente, diventa migliore» e «si libera dal
male» (/bid., 477 a): sicchè la P. è una purificazione o liberazione che
dev’essere voluta dallo stesso colpevole. Questo ufficio puri- ficatore è
spesso riconosciuto da coloro che vedono nella P. la restituzione della
giustizia. Se Kant affermava che «la P. non può mai esser decretata come un
mezzo per raggiungere un bene sia a pro- fitto del criminale stesso sia a
profitto della società civile, ma deve essergli applicata soltanto perchè ha
commesso un delitto» (Mer. der Sitten, I, II, sez. 1, E; pag. 142) negando così
ogni connessione fra le due concezioni della P., S. Tommaso stesso riconosceva
invece tale connessione. « Le P. della vita presente, egli diceva, sono
medicinali; e così quando una P. non basta a trattenere l’uomo, se ne aggiunge
un’altra, come fanno i medici che adoperano diverse medicine quando una sola
non è efficace » (S. TA., II, 2, q. 39 a. 4, ad 3°). Hegel analogamente
affermava che la P. non è soltanto la conciliazione della legge con se stessa
ma anche la conciliazione del delinquente con la sua legge cioè con la legge «
conosciuta e valida per lui e a sua protezione »: conciliazione nella quale il
delinquente trova « l’appagamento della giustizia e il suo fatto proprio »
(Fil. del Dir., $ 220). 3° La terza concezione della P. è quella che le attribuisce
l’ufficio della difesa sociale. Da questo punto di vista la P. è: a) un movente
o stimolo per la condotta dei cittadini; 5) una condizione fisica che mette il
delinquente nell’impossibilità di nuocere. I filosofi hanno soprattutto
accentuato il primo carattere. Già Aristotele notava che tutti coloro che non
hanno sortito da natura un’indole liberale, e sono i più, si astengono da atti
vergognosi soltanto per la paura delle pene. «I più, dice egli, obbediscono
alla necessità più che alla ragione e alle P. più che all’onore» (Et. Nic., X,
9, 1180 a 4; cfr. 1179b 11). Ma questo che Aristotele rite- neva un movente per
le anime servili viene assunto, dalla concezione in esame della P., come il
movente unico e fondamentale. Hobbes afferma che «è inefficace la proibizione
che non sia accompagnata dal timore delle P. ed è quindi inefficace una legge che
non contenga entrambe le parti, quella che vieta di commettere un torto e
quella che punisce chi lo commette » (De Cive, 1642, XIV, $ 7). Questo concetto
doveva essere fatto proprio dalla filosofia giuridica dell’illuminismo. Lo
riprende Samuele Pufendorf il quale assegna alla P. il compito principale « di
distogliere, con la sua acerbità, gli uomini dai peccati» (De jure naturae,
1672, VIII, 3, 4), senza escludere tuttavia l'emendamento del reo (/bid., VIII,
3, 9). Ma fu specialmente Cesare Beccaria che fece prevalere questo concetto,
da lui posto a base dell’opera Dei diritti e delle pene PENSIERO (1764).
Secondo Beccaria, la P. non è che il motivo sensibile per rafforzare e
garantire l’azione delle leggi sicchè « le pene che oltrepassano la necessità di
conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di loro natura» (Dei
diritti e delle pene, $ 2). Dallo stesso punto di vista Bentham consi- derava
la P. come una delle varie specie di san- zioni (v.) che hanno la funzione di
essere « stimolanti della condotta umana » in quanto « trasferiscono la condotta
e le sue conseguenze nella sfera delle spe- ranze e dei timori: delle speranze
di un’eccedenza di piaceri, dei timori che prevedono per anticipazione un’eccedenza
di dolore (Deontology, 1834, I, 7). Gli stessi concetti fondamentali sono stati
fatti valere dalla cosiddetta «Scuola positiva italiana » (Lombroso, Ferri,
ecc.) che li ha difesi, con una certa fortuna, nelle dispute
filosofico-giuridiche intorno al diritto penale. Non c'è dubbio che la maggior
parte dei giuristi, dei filosofi del diritto nonchè dei codici e dei diritti positivi
vigenti nelle varie nazioni del mondo si ispirano a una concezione mista o
eclettica della P. considerandola, il più delle volte, sotto tutti e tre gli
angoli visuali qui prospettati. Questo sin- cretismo non dà nessuna difficoltà
dal punto di vista teorico, anche se i tre punti di vista non hanno tra loro lo
stesso grado di omogeneità. I primi due si legano abbastanza bene insieme e si
trovano, anche in linea di fatto, frequentemente uniti mentre il terzo
appartiene a un differente ordine di pen- siero: i primi due si ispirano a
un’etica del fine, l’altro a un'etica del movente (v. ETICA). Ma le difficoltà
cominciano sul terreno pratico, quando si tratta di stabilire la misura della
pena. Su questo campo difatti le tre diverse concezioni manifestano la loro
eterogeneità. Dal primo punto di vista, tutte le infrazioni all’ordine della
giustizia sono equivalenti: un furto insignificante rompe quest'ordine come un
delitto perpetrato con frode o violenza. Dal secondo punto di vista, si è
portati a credere che la pena, come la purga, sia tanto più efficace quanto è
più forte. Ed è solo dal terzo punto di vista, come già notava Hegel, cioè dal
punto di vista della dannosità per la società civile, che le P. si lasciano
graduare con una misura op- portuna (cfr. HeGEL, Fil. del Dir., $ 218). Su
questo terreno pertanto la confusione o la mescolanza dei vari concetti di P. è
tutt'altro che innocente ed è il motivo principale del disordine e delle
sperequa- zioni esistenti nei sistemi penali vigenti. PENSANTE, PENSIERO. V.
ATTUALISMO. PENSIERO (gr. vénow, duvora; lat. Cogitatio; ingl. Thought; franc.
Pensée; ted. Denken). Si pos- sono distinguere i seguenti significati del
termine: 1° qualsiasi attività mentale o spirituale; 2° l’atti- vità
dell’intelletto, o della ragione in quanto distinta 42 — ABBAGNANO, Dizionario
di filosofia. 657 da quella dei sensi e della volontà; 3° l’attività
discorsiva; 4° l’attività intuitiva. 1° Il significato più vasto del termine,
per il quale con esso si intende qualsiasi attività spiri- tuale o l’insieme di
tali attività, fu introdotto da Cartesio. «Con la parola ‘pensare’, egli diceva,
intendo tutto ciò che accade in noi in modo tale che noi lo percepiamo
immediatamente da noi stessi: perciò non solamente intendere, volere, im- maginare,
ma anche sentire è la stessa cosa che pensare » (Princ. Phil., I, 9; cfr. Méd.,
ID). Questo significato si trova conservato nei cartesiani (cfr., ad es.,
MALEBRANCHE, Recherche de la vérité, I, 3, 2) e accettato da Spinoza che
include tra i modi del P. «l’amore, il desiderio e ogni altra affezione del- l'animo
» (Et., II, assioma III). Locke accennava a questo significato, pur notando che
in inglese pen- siero significa più propriamente « l’operazione dello spirito
sulle proprie idee » (cioè P. discorsivo) e pre- ferendo perciò la parola «
percezione» (Saggio, II, 9, 1). Lo stesso significato veniva accettato da Leibniz
che definiva il P. come «una percezione congiunta con la ragione, percezione
che le bestie, per quanto possiamo vedere, non posseggono? (Op., ed. Erdmann,
pag. 464); e osservava che si poteva prendere il termine P. anche nel
significato più generale di percezione, nel qual caso il P. ap- parterrebbe a
tutte le entelechie (cioè anche agli animali) (Nouv. Ess., II, 21, 72). La
tradizione di questo significato si interrompe con Kant e non viene più ripresa
nella filosofia moderna. 2° Il secondo significato è quello per cui il termine
designa l’attività dell’intelletto in genere, .in quanto è distinta da un lato
dalla sensibilità, dall’altro dall’attività pratica. In questo significato Platone
adopera talvolta la parola vénow, come quando designa con essa l’intera
conoscenza in- tellettiva, che comprende sia il P. discorsivo ($wvota) sia
l'intelletto intuitivo (voce) (Rep., VII, 534); talaltra la parola Suvoa, come
fa quando definisce il P. in generale come il dialogo dell’anima con se stessa.
«Quando l’anima pensa, egli dice, non fa altro che discutere con se stessa per
via di do- mande e risposte, affermazioni e negazioni; e quando, presto o tardi
o d’un subito, si determina e asserisce e non dubita più, diciamo che essa è giunta
ad una opinione» (7eer., 190e, 19la; cfr. Sof., 264 e). Nello stesso senso
generale Ari- stotele adopera la parola Suvowa come quando dice: « Pensabile
significa ciò di cui c'è un P.» (Met., V, 15, 1021 a 31). Questo significato,
che è il più esteso (dopo quello precedente), si è conservato nella tradizione e
viene condiviso da tutti coloro che ammettono la nozione dell’intelletto come
facoltà di pensare in generale: in realtà le due nozioni coincidono. 658 S.
Agostino (De Trin., XIV, 7) e S. Tommaso (S. Th., II, 2, q. 2, a. 1) ammettono
questo signi- ficato generico accanto a quello specifico di P. di- scorsivo (v.
oltre). Il P., in questo senso, costituisce l’attività propria di una certa
facoltà dello spirito umano in quanto distinta da altre facoltà e precisa- mente
quella di cui è propria l’attività conoscitiva superiore (non sensibile). Wolff
definiva in questo senso: « Diciamo di pensare quando siamo consa- pevoli di
quel che accade in noi e che rappresenta le cose che sono fuori di noi»
(Psychol. empirica, $ 23). Questo significato costituisce anche oggi l’uso più comune
del termine nel linguaggio ordinario. 3° Il terzo significato di P. è quello
che lo specifica come P. discorsivo. È questo il P. che Platone chiamava
dianoia e considerava come l’or- gano proprio delle scienze propedeutiche cioè
del- l'aritmetica, della geometria, dell'astronomia e della musica: P. che
Platone riteneva avvicinamento e preparazione al pensiero intuitivo
dell’intelletto (Rep., VI, S11 d). S. Agostino negava che il Verbo di Dio
potesse chiamarsi P. in questo senso (De Trin., XV, 16); e lo negava S.
Tommaso, perchè il pensare è in questo senso «una considerazione dell’intelletto
accompagnata dall’indagine, anteriore, perciò, alla perfezione che l'intelletto
attinge nella certezza della visione » (S. 7h., II, 2, q. 2, a. 1; cfr. I, q.
34, a. 1). Questo è, secondo S. Tommaso, il significato « più proprio » della
parola « P.». E a questo significato è riconducibile l’altro che egli distingue
come terzo significato (il primo essendo quello generico di cui al n. 2) del P.
come «atto della facoltà cogitativa» (virtus cogitativa) o ragione particolare
(ratio particularis); che è il P. che cor- risponde alla capacità valutativa
degli animali e consiste nel riunire e paragonare le intenzioni par- ticolari,
come la ragione intellettiva o P. discorsivo consiste nel riunire e paragonare
le intenzioni universali (Ibid., I, q. 78, a. 4). Vico non faceva che esprimere
gli stessi concetti affermando, nel De antiquissima Italorum sapientia (1710)
che a Dio appartiene l’intendere (intelligere) che è la co- noscenza perfetta,
risultante da tutti gli elementi che costituiscono l'oggetto e all’uomo solo il
pensare (cogitare) che è quasi l’andar raccogliendo alcuni degli elementi
costitutivi dell’oggetto (De anriquis- sima Italorum sapientia, I, 1). Alla
stessa nozione di P. si riferiva l’empirismo quando affermava, per es., con
Hume che tutto ciò che il P. può fare con- siste « nel potere di comporre,
trasportare, aumen- tare o diminuire i materiali forniti dai sensi e dalla esperienza
» (/ng. Conc. Underst., 1I; trad. ital., 1910, pag. 17). E questo è infine il
concetto che del P. ebbe Kant. « Pensare, egli disse, è collegare rappre- sentazioni
in una coscienza +» (Prol/., $ 22). Il che significa che « pensare è la
conoscenza per con- PENSIERO cetti »; che «i concetti si riferiscono come
predicati di giudizi possibili a qualche rappresentazione di un oggetto ancora
indeterminato» e che pertanto, quando questo oggetto non è dato all’intuizione sensibile,
si ha bensì un «P. formale» ma non una conoscenza vera e propria che consiste
nella unità del concetto e dell’intuizione (Crif. R. Pura, Anal. dei concetti,
sez. 1, $ 22). Al P. in questo senso si riferiva Hamilton considerandolo «
l’atto o il prodotto della facoltà discorsiva o facoltà delle re- lazioni »
(Lectures on Logic, V, 10; I, pag. 73). Dal punto di vista di questa nozione,
l’attività del P. è definita in termini di sintesi, unificazione, confronto, coordinazione,
selezione, trasformazione, ecc., dei dati che sono offerti al P., ma non da lui
stesso prodotti. Pertanto la caratteristica del P. come at- tività discorsiva è
in ultima analisi una caratteri- stica negativa: il P. discorsivo non si
identifica mai con il suo oggetto ma verte intorno a questo og- getto cioè lo
caratterizza o lo esprime. In questo senso Frege chiama P. il contenuto di una
propo- sizione cioè il suo senso (v.) («Uber Sinn und Bedeu- tung», $ 5; trad.
ital., in Aritmetica e logica, pag. 225). In questo stesso senso Wittgenstein
diceva: « Il P. è la proposizione significante » e identificava P. e linguaggio,
sul fondamento che «la totalità delle proposizioni è il linguaggio» (Tracratus
logico- philosophicus, 3.5; 4; 4.001). 4° La caratteristica propria del
concetto del P. come intuizione è la sua identità con l’oggetto. Il P. è in
questo senso l’attività propria dell’intel- letto intuitivo: cioè di
quell’intelletto che è visione diretta dell'intelligibile, secondo Platone
(Rep., VI, 511 c); o che, secondo Aristotele, si identifica con l’intelligibile
stesso nella sua attività (Mer., XII, 2, 1072 b 18 sgg.). Per il P. così inteso
gli antichi usarono costantemente la parola inze/letto (v.) e si è visto come
S. Agostino e S. Tommaso si rifiutassero di estendere ad esso il significato di
« P. ». Ma nell’idealismo romantico, mentre l’in- telletto veniva degradato a
facoltà dell’immobile (v. INTELLETTO), il P. veniva promosso al posto già
tenuto dall’intelletto intuitivo e identificato con esso. Così fece per primo
Fichte identificando il P. stesso con l’Io o Autocoscienza infinita (Wis- senschaftslehre,
1794, $ 1) e così fecero Schelling e Hegel. Schelling affermava: « Il mio io
contiene un essere che precede ogni pensare e rappresentare. Esso è in quanto è
pensato ed è pensato perchè è... Esso si produce con il mio P., per via di una
cau- salità assoluta» (Vom Ich als Prinzip der Philosophie, 1795, $ 3). Hegel a
sua volta espresse nella forma più chiara l’identificazione del P. con
l’autoco- scienza creatrice cioè come attività che coincida con la sua propria
produzione. Definendo la logica come «scienza del P.» egli affermava che « essa
PERCEZIONE contiene il P. in quanto è insieme anche la cosa in se stessa o
contiene la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro P.»
(Wissenschaft der Logik, Intr., Concetto generale; trad. ital, I, pag. 32). E
partendo dal concetto discorsivo del P. così Hegel giunge al concetto intuitivo
di esso: « Il P. nel suo aspetto più prossimo appare anzitutto nel suo
ordinario significato soggettivo, come una delle attività o facoltà spirituali
accanto ad altre, alla sensibilità, all’intuizione, alla fantasia, all’appeti- zione,
al volere, ecc. Il prodotto di questa attività, il carattere o forma del P. è
l’universale, l’astratto in genere. Il P. come attività è perciò l’universale attivo,
è propriamente quello che fa se stesso giacchè il fatto, il prodotto, è appunto
l’univer- sale. Il P., rappresentato come soggetto, è il pen- sante; e la
semplice espressione del soggetto esi- stente come pensante è l’io » (Enc., $
20). In altri termini il P. è insieme l’attività produttiva e il suo prodotto
(l’universale o concetto): è perciò l’es- senza o la verità di ogni cosa
(Zbid., $ 21). Da Hegel in poi questa nozione intuitiva del P. è stata talora
qualificata dai suoi sostenitori come il concetto «speculativo » del P. stesso:
e assunto come l’unico concetto adeguato del P. inteso nella sua infinità,
nella sua forza creatrice. Ma in realtà si è sempre trattato dalla vecchia
nozione di in- telletto intuitivo, estesa anche all’uomo, senza più tener conto
dei limiti e delle condizioni che gli antichi ponevano a questa estensione. PENTIMENTO
(lat. Paenitentia; ingl. Re- pentance; franc. Repentir; ted. Reue). L'afflitto ri- conoscimento d’una propria colpa.
Questa è la definizione sulla quale i filosofi si accordano, pur esprimendola
con parole diverse (S. ToMMASsO, S. Th., III, q. 85, a. 1; CARTESIO, Passions
de l’dme, IN, 191; Spinoza, Etica, III; Definizione delle pas- sioni, 27;
HegeL, Werke, ed. Glockner, X, pa- gina 372; ecc.). I filosofi sono pure
d’accordo nell’ammettere il valore morale del pentimento. Spi- noza per quanto
ritenga che il P. « non è una virtù cioè non deriva dalla ragione » e che
pertanto chi si pente è doppiamente misero o impotente (cioè una volta perchè
ha agito male e una seconda volta perchè se ne affligge) riconosce che colui
che è sottoposto al P. si può tuttavia ridurre molto più facilmente degli altri
a vivere secondo ragione (Eth., IV, 54). Montaigne che dedicò al P. uno dei suoi
più notevoli saggi (Essaîs, III, 2) aveva tuttavia notato che il P. non deve
trasformarsi nel desiderio «di essere un altro ». « Il P., egli scrisse, non
tocca propriamente le cose che non sono in nostro potere, come non le tocca il
rimpianto. Io immagino infinite nature più alte e più regolate della mia; ma
con ciò non miglioro le mie facoltà come il mio braccio e il mio spirito non
divengono più vigorosi perchè 659 io ne concepisca un altro che lo sia »
(/bid., ed. Rat, III, pag. 28). In senso analogo si esprime Kierkegaard che ha visto
nel P. il punto culminante della vita etica e nello stesso tempo il segno del
suo interno con- flitto. Il P. è inerente alla scelta che, nella vita etica, l’uomo
fa di se stesso. « Scegliere se stessi è iden- tico al pentirsi di se stesso...
Anche il mistico si pente, ma si pente fuori di sè non dentro di sè; si pente
metafisicamente e non eticamente. Pentirsi esteticamente è repellente perchè è
una sdolcinatura; pentirsi metafisicamente è cosa inutile e fuori posto poichè
non è l’individuo che ha creato il mondo e non occorre che egli si prenda tanto
a cuore }a vanità del mondo stesso » (Entweder -Oder, in Werke, II, pag. 223;
Furcht und Zittern, in Werke, II, pag. 143). Cfr. M. ScHELER, Reue und Wiedergeburt, in Vom Ewigen
im Menschen, 4* ediz., 1954. PER
ACCIDENS (gr. xatà cvpfefyx6c). Ciò che è o accade senza connessione necessaria
col soggetto dell’accadimento, come quando accade che un musico costruisce;
difatti tra l’esser musico e l’esser costruttore non c'è connessione (confronta
ARISTOTELE, Mer., V, 7, 1017a 10). PERATOLOGIA. Termine con cui Ardigò in- dicò
la parte generale della filosofia cioè quella parte che ha per oggetto ciò che
è al di là dei sin- goli campi delle scienze filosofiche speciali cioè della
psicologia e della sociologia (Opere filoso- fiche, II, 1884, passim). PERCETTO
(ingl. Percepi). Nel linguaggio della psicologia contemporanea, il P. è
l’esperienza
privata di un oggetto cioè il modo in cui
l’oggetto appare a un singolo soggetto. Il nome è stato co- niato per analogia
con « concetto ». PERCEZIONE (gr. dvraiyic; lat. Perceptio; ingl. Perception; franc.
Perception; ted. Wahr- nehmung, Perception). Si possono
distinguere di questo termine tre significati principali: 1° un signi- ficato
generalissimo per il quale designa qualsiasi attività conoscitiva in generale;
2° un significato più ristretto per il quale designa l’atto o la funzione conoscitiva
cui un oggetto reale è presente; 3° un significato specifico o tecnico per il
quale designa un'operazione determinata dell’uomo nei suoi rap- porti con
l’ambiente. Nel primo significato, la P. non si distingue dal pensiero. Nel
secondo signi- ficato, è la conoscenza empirica cioè immediata, certa ed
esauriente, dell’oggetto reale. Nel terzo significato, è l’interpretazione
degli stimoli. Solo nell’ambito di quest’ultimo significato, si può intendere
quello che la psicologia oggi discute come « problema della percezione ». 1°
Nel suo significato più generale il termine fu adoperato da Telesio, il quale
disse che « la sensa- zione è la P. delle azioni delle cose, degli impulsi 660 dell'aria
e delle proprie passioni e mutazioni, soprattutto di queste » (De rer. nat.,
VII, 3). Questa dottrina era presentata in opposizione polemica con la tesi che
la sensazione consistesse sempli- cemente nell’azione delle cose o nella
modificazione dello spirito: Telesio insiste che essa invece consiste nella P.
dell’una o dell’altra. La stessa dottrina veniva difesa da Bacone che
esplicitamente si rifaceva alla distinzione di Telesio (De Auem. Scient., IV,
3). E Cartesio a sua volta adoperava la parola per indicare tutti gli atti
conoscitivi, in quanto passivi rispetto all’oggetto, nei confronti degli atti
della volontà che sono attivi (Passions de l’éme, I, 17). Cartesio divise le
percezioni in quelle che si rapportano agli oggetti esterni, quelle che si
rapportano al corpo e quelle che si rapportano all'anima (/bid., I, 23-25). In
questo senso genera- lissimo, la parola fu usata anche da Locke: «La P. è la
prima facoltà dell’anima che si eserciti intorno alle nostre idee; perciò è la
prima idea che noi raggiungiamo per mezzo della riflessione e la più
semplice... Nella pura e semplice P., lo spirito, d’ordinario, è solamente
passivo non potendo a meno di percepire ciò che in atto percepisce» (Saggio,
II, 9, 1). Allo stesso modo, Leibniz intende la P. come ciò che l’anima
dell’uomo e l’anima del- l’animale hanno in comune, cioè come « l’espressione di
molte cose in una» e la distingue dalla apper- cezione o pensiero per il fatto
che quest’ultima è accompagnata dalla riflessione (Nouv. Ess., II, 9, 1; cfr.
Op., ed. Erdmann, pag. 438, 464, ecc.). Non diverso è il senso generale che
Kant attribuì alla parola chiamando P. una « rappresentazione con coscienza » e
distinguendola in sensazione, se essa viene riferita soltanto al soggetto e
conoscenza se è oggettiva (Crit. R. Pura, Dialettica, Libro I, sez. 1). È
abbastanza ovvio che P. in questo senso significa lo stesso che pensiero in
generale; e lo stesso Locke notava questa identità di significato, pur
preferendo per suo conto la parola P., perchè pensiero in inglese indica «
l’operazione dello spirito sulle proprie idee » mentre nella P. lo spirito
ordi- nariamente è passivo (Saggio, II, 9, 1). 2° Il secondo significato del
termine è più ristretto ed esprime l’atto conoscitivo oggettivo, quello che
afferra o manifesta un oggetto reale determinato (fisico o mentale). Questo è
il significato originario del termine, quale fu usato dagli Stoici come
equivalente di comprensione (xattAnpic): «Gli stoici definiscono a questo modo
la sensazione: la sensazione è P. mediante il sensorio oppure comprensione »
(AEzio, P/ac., IV, 8, 1; cfr. EPICURO, Fr. 250; PLoTINO, Enn., VI, 7, 3, 29;
ecc.). Cicerone tradusse con perceptio il termine greco, avendo so- prattutto
di mira il senso di rappresentazione catalet- tica (Acad., II, 6, 17; De
finibus, III, 5, 17); e in PERCEZIONE senso analogo il termine fu usato da S.
Agostino (De Trin., IV, 20) e da S. Tommaso il quale ultimo in- tendeva con
esso « una certa conoscenza sperimen- tale » (S. 7A., I, q. 63, a. 5, ad 2°).
La parola veniva reintrodotta nell’uso filosofico da Telesio e Bacone (come si
è detto) e da essi il suo significato comin- ciava ad essere distinto da quello
di sensazione. Ma soltanto Cartesio ne stabiliva il nuovo e più complesso
significato. Parlando delle percezioni esterne, egli affermava che, per quanto
esse siano prodotte da movimenti provenienti dalle cose esterne, « noi le
riferiamo alle cose che supponiamo esser loro cause in modo tale da credere di
vedere la torcia e di udire la campana, quando invece sentiamo solamente i
movimenti che vengono da esse» (Passions de l’îme, I, 23). Da questo punto in
poi la distinzione tra sensazione e P. diventa un teorema fondamentale della
teoria della per- cezione. Questa distinzione viene espressa da C. Bonnet
(Essai analytique sur les facultés de l’îame, 1759, XIV, 195-96) e dalla scuola
scozzese nel senso comune, specialmente da Reid (/nquiry into the Human Mind,
1764, VI, 20). In virtù di essa la sensazione viene ridotta all’idea semplice di
Locke: ad un’unità elementare prodotta diretta- mente nel soggetto dall’azione
causale dell’oggetto. La P., dall'altro lato, diventa un atto complesso che
include una molteplicità di sensazioni, presenti e passate, nonchè il loro
riferimento all'oggetto, cioè un atto giudicativo. Già Kant identificando la P.
con l’intuizione empirica (Prol., $ 10), che è la conoscenza oggettiva cioè il
risultato dell'attività giudicante esercitata sul molteplice sensibile, aveva considerato
incluso nella P. l’atto giudicativo. La presenza di un giudizio alla P. diviene
un luogo comune nella filosofia del sec. xrx. Hegel non faceva che portare al
limite questa tesi, quando considerava la P., e la cosa che ne è l’oggetto,
come un prodotto dell’Universale, cioè della Coscienza o del Pensiero. « Per
noi o in sè, egli diceva, l’Universale come principio è l’essenza della P., e
di contro a questa astrazione i due distinti, il percipiente e il percepito, sono
l’inessenziale » (Phdnomen. des Geistes, I, Co- scienza, II; trad. ital., I,
pag. 97). Ma al di fuori di questa tesi estremistica (che è stata tuttavia
ripe- tuta sino a qualche tempo fa dalle scuole idealistiche) la distinzione
tra sensazione e P. e il riconoscimento del carattere attivo o giudicativo
della P. ha avuto come base il riferimento di essa all'oggetto esterno. Così
fece Hamilton, che si ispirava alla dottrina della scuola scozzese (Lectures on
Metaphysics, 5® ediz., 1870, II, pag. 129 sgg.); e così fece Spencer che molto
contribuì a diffondere questo punto di vista (Principles of Psychology, 1855, $
353). Bol. zano (Wissenschaftslehre, 1837, I, pag. 161), Bren- tano
(Psychologie vom empirischen Standpunkte, PERCEZIONE 1874, I, 3, $ 1), Helmoltz
(Die Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879, pag. 36) sottolineavano l’azione del
pensiero o dell’intelletto nella P.; e Brentano identificava la P. stessa con
il giudizio o la cre- denza (/oc. cit.). In senso non diverso, Husserl distingueva
la P. dagli altri atti intenzionali della coscienza in base al tratto che essa
permette di « af- ferrare» l'oggetto (/deen, I, $ 37). Alla percezione la cosa
stessa è presente nel suo essere, come è presente alla cosa il soggetto che
percepisce (cfr. G. BRAND, Welt, Ich und Zeit, 1955, 3). Solo apparentemente diversa
è la nozione bergsoniana della « P. pura ». Dice Bergson: «La P. non è che una
selezione. Essa non crea nulla: il suo compito è quello di eliminare
dall’insieme delle immagini tutte quelle sulle quali io non avrei alcuna presa
e poi, dalle immagini ritenute stesse, tutto ciò che non interessa i bisogni di
quell'immagine particolare che chiamo corpo + (Matiére et mémoire, pag. 235).
In questo modo la P. delineerebbe, nello sterminato campo delle immagini
conservate della coscienza, l'oggetto determinato da servire ai bisogni
dell’azione e che delimita l’azione possibile del mio corpo. Ma anche cosl il
compito della P. rimane quello di afferrare o delineare un oggetto. Il concetto
di P. cui queste dottrine fanno riferi- mento, è sufficientemente uniforme: la
P. è l’atto con cui la coscienza « afferra » o « pone + un oggetto; e
quest’atto utilizza un certo numero di dati ele- mentari, cioè di sensazioni.
Tale concetto suppone pertanto: 1° la nozione di coscienza come attività introspettiva
o autoriflessiva; 2° la nozione dell’og- getto percepito come un’entità singola
perfettamente isolabile e data; 3° la nozione di unità elementari sensibili.
L'abbandono di questi tre presupposti ca- ratterizza la nuova fase del problema
della P., propria della psicologia e della filosofia contemporanee. 3° Per il
terzo concetto, la P. non è che l’inter- pretazione degli stimoli, cioè il
ritrovamento o la costruzione del significato di essi. Questa definizione è una
formula semplificata e generica per esprimere i tratti più evidenti che alla P.
riconoscono le teorie psicologiche contemporanee. F. H. Allport ha enumerate (e
criticamente analizzate) tredici tali teorie (Theories of Perception and the
Concept of Structure, 1955). Bisogna tuttavia osservare che esse, proposte,
come sono quasi tutte, da psi- cologi ricercatori che le hanno formulate come generalizzazioni
sperimentali, raramente rappresen- tano alternative che si escludano
mutuamente, mentre il più delle volte non fanno che porre in evidenza o
considerare come fondamentali fattori o condizioni che un certo ordine di
ricerche ha messo in luce. Si possono, tuttavia, distinguere due gruppi di
teorie: a) quelle che insistono sull’im- portanza dei fattori o delle
condizioni oggettive; 661 b) quelle che insistono sull’importanza dei fattori o
delle condizioni soggettive. a) Al primo gruppo di dottrine appartiene in primo
luogo la psicologia della forma (Gestalt- theorie) che è sostanzialmente una
teoria della percezione. La psicologia della forma s’inizia con il lavoro di
Max Wertheimer sulla P. del movimento (1912) e ha come suoi altri
rappresentanti principali Wolfgang Kéhler (Gestalt Psychology, 1929) e Kurt
Koffka (Beitràge zur Psychologie der Gestalt, 1919). L’obbiettivo polemico
della psicologia della forma sono i presupposti 2° e 3° della concezione tradizionale
della percezione. Essa ha mostrato, in primo luogo, che non esistono (salvo che
come astrazione artificiale) sensazioni elementari che entrino a comporre la P.
di un oggetto; e in secondo luogo che non esiste un oggetto di P. come entità isolata
o isolabile. Ciò che si percepisce è una totalità che fa parte di una totalità.
La psicologia della forma si è dedicata a determinare le «leggi» in base alle
quali tali totalità sono costituite, cioè le «leggi di organizzazione ». Esse
sono quelle della prossimità, della somiglianza, della direzione, della buona
figura, del destino comune, della chiu- sura, ecc.: leggi che possono essere
vedute in atto anche in esperienze semplicissime: come, ad es., quelle che
rivelano la tendenza a raggruppare insieme, in un’unica percezione, segni
simili o sufficientemente vicini o costituenti una figura regolare.
L'affermazione fondamentale della teoria della forma è che la P. concerne
sempre una totalità, le cui parti, se considerate separatamente, non presentano
i suoi stessi caratteri; che sono quelli della massima semplicità e chiarezza
possibile e della massima possibile simmetria e regolarità. Tali caratteri
hanno convinto talvolta i gestaltisti ad ammettere la cosiddetta teoria del «
tutto determinante »: cioè la teoria che il tutto tra- scende le sue parti e
determina dinamicamente le parti stesse secondo leggi sue proprie. Il tutto rassomiglia
così alla «cosa + di cui parla Husserl, nei confronti della P. trascendente: in
quanto l'essenza della cosa integra in sè, e nello stesso tempo trascende, la
totalità delle sue apparizioni. Questa è la teoria della P. che è
sostanzialmente accettata nella Phénoménologie de la perception (1945) di M.
Merleau-Ponty. Un'importante variante di essa è la teoria del campo topologico
di Lewin secondo la quale l’individuo, ridotto a un punto privo di di-
mensioni, è sottoposto all’azione delle forze che agiscono nel campo e che egli
sente come estranee al suo corpo. In questa condizione l’individuo è
considerato in «locomozione» cioè come moventesi verso una meta positiva o come
allontanantesi da una meta negativa. Lo spazio in cui avviene questo movimento
è il cosiddetto « spazio di vita » 662 cioè la regione nella quale l’individuo
ha esperienza della sua azione: uno spazio che non ha proprietà metriche o
direzioni determinate ed è perciò fopo- logico, nel senso che può avere ad ogni
momento qualsiasi dimensione o forma geometrica, purchè conservi le proprietà
che rendono possibile il movi- mento (LEWIN, Principles of Topological
Psychology, 1936). Varianti di questa teoria possono essere considerate quella
di Hebb che fa corrispondere al campo percettivo un campo fisiologico cioè un «
meccanismo di azione neutrale selettiva » che pren- derebbe posto, per ogni
particolareP., in qualche punto del sistema nervoso centrale (The Organization of
Behavior, New York, 1949); e quella del « campo tonico-sensorio » secondo la
quale «le proprietà percettuali di un oggetto sono una funzione del modo in cui
gli stimoli provenienti dall’oggetto mo- dificano l’esistente stato
tonico-sensorio dell’orga- nismo » (WERNER e WAPNER, « Toward a General Theory
of Perception», in Psychological Review, 1952, pag. 324-38). Tutte le teorie
qui accennate, imperniate come sono sui concetti di «totalità » o di «campo»,
privilegiano in qualche modo l’aspetto oggettivo della percezione. b) Un
secondo gruppo di teorie tiene invece d’occhio prevalentemente l’aspetto
soggettivo della P. medesima. Per tali teorie, cade anche il presup- posto 1°
della concezione 2* della P., cioè quello della coscienza. Queste dottrine
infatti non fanno ricorso alla nozione di coscienza e alla considera- zione
introspettiva. Una mole imponente di osser- vazioni sperimentali ha messo in
luce l’importanza, per la P., dello stato di preparazione o predisposi- zione
del soggetto cioè di quello che si chiama solitamente l’apparecchiatura (set)
percettiva. Il fatto fondamentale è che l'essere apparecchiati per un certo
stimolo o per una certa reazione ad uno stimolo, facilita l’atto del percepire
o lo fa compiere con maggiore prontezza, energia o intensità. L’appa- recchiatura
è, in altri termini, un processo selettivo che determina preferenze, priorità,
differenze quali- tative o quantitative in ciò che si percepisce. L’apparecchiatura
non è qualcosa di diverso dallo stesso processo percettivo nè è un meccanismo innato
o prefissato, ma uno schema variabile che è appreso o costruito, per quanto non
sempre volontariamente (cfr. il cap. 9 della citata opera di Allport). Le più
recenti teorie della P. tengono largamente conto di questi fatti. La teoria
rransa- zionale, per es., considera, in base ad essi, la P. come una
transazione cioè come un accadimento che prende posto tra l’organismo e
l’ambiente e non può quindi essere ridotto nè all’azione dell’og- getto o del
soggetto nè all’azione reciproca dei due. Come transazione, la P. deriva la sua
natura dalla situazione totale in cui prende posto e ha le sue PERCEZIONE radici
sia nell'esperienza passata dell’individuo sia nelle sue aspettazioni per il
futuro (DEWEY e BENTLEY, Xnowing and the Known, 1949; CANTRIL, AMES, HAsTORF,
ITTELSON, «Psychology and Scien- tific Research», in Science, 1949, pag. 461,
491, 517; ITTELSON e CANTRIL, Perception: a Trans- actional Approach, 1954). Da
questo punto di vista può essere agevolmente posto in luce il ca- rattere
attivo e selettivo della P., il fatto che essa si avvale di indizi, in base ai
quali rico- struisce il significato dell'oggetto e infine l’altro tratto
fondamentale, cioè che essa è costituita da probabilità, non da certezze.
Questi tratti sono messi innanzi dal cosiddetto funzionalismo che è stato chiamato
il «New.Look» della teoria della P.; ed hanno condotto alla teoria della
motivazione e alla teoria delle ipotesi. La prima teoria che è detta anche
teoria dello « stato direttivo » è fondata sul riconoscimento dell’infiuenza
che i bisogni corporei, le aspettazioni dell’individuo (ad es., un castigo o un
premio) e la personalità di lui hanno sull’oggetto percepito e sulla rapidità e
intensità della P. (BRUNER e KRECH, Perceprion and Perso- nality: a Symposium,
Durbam, 1950). Nella seconda teoria confluiscono tutti i dati sperimentali sui
quali hanno fatto leva le teorie del presente gruppo e buona parte dei dati
sperimentali sui quali si fondavano le teorie del primo gruppo. L’idea fondamentale
della teoria dell’ipotesi è che le percezioni (come d’altronde anche il ricordo
o il pensiero) costituiscono ipotesi che l’organismo avanza in determinate
situazioni e che sono confer- mate, abbandonate o modificate a seconda della situazione
stessa. L’apparecchiatura (ser) di cui parlava una delle precedenti teorie è
per l'appunto l’avvio a un'ipotesi di questo genere. L’apparec- chiatura
costituisce infatti l’aspettazione percettuale, che è fondata sull’esperienza
precedente e anticipa quella futura. Abitualmente, nella P., le apparec- chiature
sono state stabilite da lungo tempo, attraverso la precedente attività
percettiva e possono essere pronte ad entrare in azione quando l’organi- smo
entra in una data situazione. Attraverso tali apparecchiature, l’organismo
sceglie, organizza e trasforma le «informazioni» che gli giungono dall’ambiente.
Queste informazioni sono indizi o segnalazioni che servono sia a «evocare»
l’ipotesi sia a confermarla o smentirla. Le principali correla- zioni
funzionali tra le variabili che la teoria comporta sono le seguenti: I) Più
forte è l’ipotesi, maggiore è la probabilità della sua evocazione e minore la somma
di indizi richiesta per confermarla. Da ciò segue che quando l’ipotesi è
debole, è richiesta per la sua conferma una mole estesa di informazioni appropriate.
II) Più forte è l’ipotesi, maggiore è la somma di indizi richiesta per
infirmarla; e più debole PERFEZIONE l’ipotesi, minore è la quantità di indizi
contrari richiesti per infirmarla (cfr. l'art. di L. PostMAN, in Social
Psychology at the Crossroads, a cura di RoHRER e SHERIF, New York, 1951; e
ALLPORT, op. cit., cap. 15). Questa teoria non fa che riassu- mere, nella forma
meno dogmatica, sia i dati speri- mentali raccolti da un imponente numero di
osser- vatori sia i tratti essenziali che alla P. avevano riconosciuto le
dottrine contemporanee della psico- logia a partire dalla Gestalttheorie. Tali
tratti possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la P. non è la
conoscenza esauriente e totale dell’oggetto che le teorie di cui al numero 2°
vedevano in essa, ma un’interpretazione provvi- soria e incompleta, fatta in
base a indizi o a segna- lazioni. 2° La percezione non implica alcuna ga- ranzia
della sua validità cioè alcuna certezza. Essa si mantiene nella sfera del
probabile. 3° Come ogni conoscenza probabile, la P. deriva la sua validità dall’esser
messa a prova e dal riuscire confermata o rigettata dalla prova. 4° La P. non è
conoscenza perfetta e immodificabile, ma possiede la caratte- ristica della
correggibilità. PERCEZIONE INTELLETTIVA. Così Rosmini chiamò l’atto
fondamentale della cono- scenza, in quanto è una sintesi tra l’idea dell’es- sere
in generale e l’idea empirica derivante dalla sensazione (delle cose esterne) o
dal sentimento (che l’io ha di sè) (Nuovo saggio sull'origine delle idee, 1830,
$ 492, 537, ecc.). PERCEZIONI PICCOLE. V. Inconscio. PERCEZIONISMO (ingl.
Perceptionism; fran- cese Perceptionnisme; ted. Perceptionismus). La dottrina
che ammette la realtà degli oggetti della percezione. Lo stesso che realismo
ingenuo (vedi REALISMO). PERFECTIHABIA. Così Ermolao Barbaro tradusse in latino
il termine greco « entelechia » (cfr. LERBNIZ, Monad., $ 48). PERFETTO (gr. céews; lat.
Perfectus; in- glese Perfect; franc. Parfait; ted. Vollkommen). Aristotele distingueva tre significati del termine: 1°
ciò che non manca di alcuna sua parte o al di là di cui non può trovarsi alcuna
parte che gli appar- tenga; 2° ciò che possiede, nella sua specie, un’ec- cellenza
che non può essere sorpassata; e così è P. un flautista o un ladro di cui non
ci sia il migliore; 3° ciò che ha raggiunto il suo fine, posto che si tratti di
un fine buono (Mer., V, 16, 1021 b 12 sgg.). Nel primo senso è P. ciò che è
completo cioè non manca di alcuna sua parte integrante. Nel secondo senso è P.
ciò che è eccellente rispetto ad altro della stessa specie; nel terzo senso è
P. ciò che è reale o attuale perchè ha raggiunto il suo fine. Questi
significati sono rimasti propri del termine lungo la storia della filosofia. È
chiaro che mentre 663 il significato 2° è relativo quindi non metafisico, perchè
esprime solo l’eccellenza relativa di una cosa in un dato ordine di cose, gli
altri due sono assoluti e sono rimasti propri della tradizione metafisica. PERFEZIONE
(ingl. Perfection; franc. Per- fection; ted. Vollkommenheit). Questa parola è
stata usata dai filosofi soltanto corrispondentemente ai significati 1° e 3°
del corrispondente aggettivo: non si considera come P. la P. relativa cioè lo
stato di una cosa che eccelle fra quelle della sua specie. Dice S. Tommaso: «
La P. di una cosa è duplice, cioè prima e seconda. La prima P. è quella per la quale
una cosa è perfetta nella sua sostanza e tale P è la forma del tutto che emerge
dall’integrità delle parti. La P. seconda è quella del fine; ma il fine o è
l’operazione, come il fine del citarista è quello di suonar la cetra; o è la
cosa cui si perviene at- traverso l’operazione, come il fine del costruttore è
la casa che costruisce. La prima P. è causa della seconda P.: la forma è
infatti il principio delle operazioni » (S. 7h., I, q. 73, a. 1). Esattamente lo
stesso concetto veniva esposto da Kant: « La P. indica talvolta un concetto che
appartiene alla filosofia trascendentale, quello della totalità degli elementi
diversi che riuniti insieme costituiscono una cosa; ma esso può intendersi
anche come appartenente alla re/eologia, e allora significa l’ac- cordo delle
proprietà di una cosa con un fine» (Met. der Sitten, Intr., V, A; cfr. Crit.
del Giud., $ 15). Queste determinazioni riducono la P.: 1° alla integrità del
tutto; 2° alla realizzazione del fine. Ma tendono in realtà a privilegiare il
primo concetto che, applicato alla totalità dell’essere, ha portato nella
tradizione filosofica, a identificare P. e realtà. Lo stesso S. Tommaso infatti
ha descritto la P. di Dio e della creatura come consistente nel pos- sesso
dell’essere: « Dio, che è la totalità del suo essere, possiede l’essere secondo
l’intera virtù del- l’essere stesso e non può mancare di alcuna nobiltà che
competa a una cosa qualsiasi. Come ogni nobiltà e P. inerisce a una cosa in
quanto la cosa è, così ogni difetto le inerisce in quanto, in qualche modo, non
è» (Contra Gent., I, 28). Da questo punto di vista una cosa è tanto più
perfetta quanto più ha di essere; e poichè Dio ha tutto l'essere, è totalmente
perfetto. Queste equazioni costituivano luoghi comuni della scolastica
medievale. Lo stesso Duns Scoto le ripete, affermando che la forma nelle
creature implica qualche imperfezione perchè è forma partecipata e parziale,
mentre la forma non ha imperfezione in Dio perchè non è nè par- tecipazione nè
parte (Op. Ox., I, d. 8, q. 4, a. 3, n. 22). Esattamente a questo concetto di
P. faceva ricorso Cartesio affermando che le idee «che rap- presentano sostanze
sono senza dubbio qualcosa di più e contengono in sè più realtà oggettiva cioè 664
partecipano per rappresentazione a più gradi d’es- sere 0 di P., di quelle che
rappresentano soltanto modi o accidenti » (Med., III). Esplicitamente Spi- noza
identificava realtà e P. (Zr., II, def. 6); e Leibniz dichiarava di intendere
per P. « la grandezza della realtà positiva presa precisamente, mettendo da
parte i limiti o i confini delle cose che la posseg- gono» (Monad., $ 41). Kant
parlava in questo senso di una P. frascendentale che è «l’integrità di ogni
cosa nel suo genere + e di una P. metafisica come « l'integrità di una cosa
semplicemente come cosa in genere», distinguendo da esse la P. come attitudine
o convenienza di una cosa a vari fini (Crit. R. Prat., I, I, cap. I, scol. II).
Il concetto di P. è rimasto fissato, nel corso ulte- riore della filosofia, da
queste determinazioni: come integrità del tutto o rispondenza al fine; e co- stantemente,
nel primo significato, è stato iden- tificato con il concetto di essere. Fuori
delle sue sopravvivenze metafisiche e teologiche, la nozione di P. viene
scarsamente utilizzata nella filosofia contemporanea. Quando viene utilizzata,
il riferi- mento ai significati tradizionali è evidente: così accade, ad es.,
in Bergson che identifica la P. con l’assoluto ed entrambi con la totalità
dell’essere (‘ Introduction à la Métaphysique », in La pensée et le mouvant, 3*
ediz., 1934, pag. 204). PERFEZIONISMO (ingl. Perfectionism; fran- cese
Perfectionnisme; ted. Perfektionismus, Perfekti- bilismus). La parola viene
adoperata (raramente) in due significati: 1° per indicare l’ideale morale che consiste
nel perseguire la propria o altrui perfezione morale, cioè la capacità di agire
in conformità del dovere: capacità che implica anche la cultura delle facoltà
fisiche e mentali dell’uomo. In questo senso è P. l'ideale morale espresso da
Kant nella introduzione al secondo volume della Metafisica dei costumi; 2° per
indicare la credenza nel progresso accompagnata dall’impegno di contribuire al
pro- gresso stesso. In questo senso la parola viene talora usata nella
filosofia anglosassone contemporanea. PERFORMATIVO (ingl. Performative; fran- cese
Performatif). Così John L. Austin ha chia- mato una classe di enunciati che
hanno la forma apparente degli enunciati descrittivi ma non sono tali e
rispondono a due condizioni: 1° Non descri- vono nè riportano nè constatano
nulla e non sono veri o falsi. 2° Il pronunciare l’enunciato è l’effet- tuazione
di un’azione o di una parte di essa e precisamente di un’azione che non è
normalmente descritta come un semplice « dire qualcosa ». Esempi di P. sono il
classico «Si» con cui gli sposi ri- spondono alla domanda sacramentale nel
corso di una cerimonia matrimoniale; o le frasi seguenti: «Io chiamo questo
bastimento ‘ Regina Elisabetta ’ » pronunziata nella cerimonia del varo di una
nave PERFEZIONISMO quando si spezza la bottiglia contro lo scafo; « Lascio in
eredità il mio orologio a mio fratello » o frasi simili che ricorrono nei
testamenti; « Scom- metto con te mille lire che domani pioverà » (cfr. How to
do Things with Words, 1962, pag. 5). Austin ha chiamato illocuzione
(illocution) il P. per distinguerlo dalla locuzione che è un’espressione fornita
di denotazione e connotazione, e dalla perlocuzione, che è la forma persuasiva
di un’espres- zione (/bid., pag. 98 sgg.). PERIEKON. V. ORIZZONTE. PER
IMPOSSIBILE. V. Assurpo. PERIPATETISMO. V. ARISTOTELISMO. PERIPEZIA (gr.
repinttea; ingl. Peripety; franc. Péripétie; ted. Peripetie). Secondo Aristo- tele,
uno degli elementi fondamentali della tragedia e precisamente dell'intreccio
tragico. Consiste in un cambiamento improvviso di condizioni o di fortuna che
deve prodursi in modo verosimile e necessario (Poer., 11, 1452a 22). PERLOCUZIONE.
V. PERFORMATIVO. PER LO PIÙ (gr. tri tè rod; ingl. Mostly; ted. Zumeist).
L'espressione è adoperata da Ari- stotele per indicare ciò che accade in modo
uni- forme e costante ma non sempre e di necessità; accidentale è ciò che non
accade nè sempre nè per lo più (Mer., VI, 2, 1026 b 30). Ciò che è sempre o di
ecessità è l'oggetto delle scienze teoretiche; ciò che è per lo più, è oggetto
delle scienze pratico- poietiche; l’accidentale non può essere oggetto di
scienza. Heidegger ha adoperato l’espressione per indicare l'insieme dei modi
d’essere che costitui- scono la «medietà» (Sein und Zeit, $ 9) (v. ME- DIETÀ).
PERMANENZA (ingl. Permanence; francese Permanence; ted. Beharrlichkeit).
Secondo Kant «la P. esprime in generale il tempo come corre- lato costante di
ogni esserci dell'apparenza, di ogni mutamento e di ogni concomitanza ». La P.
è in altri termini il tempo come durata (Crif. R. Pura, Anal. dei princ., cap.
II, sez. 3, Prima analogia) (v. ANALOGIE DELL'ESPERIENZA). PERPETUITÀ. V.
ETERNITÀ. PER SÈ (gr. xad'asré; lat. Per se; ingl. By itself; franc. Par soi; ted. Fr sich). Ciò che è in virtù della sua
sostanza e non per altro; o che è nella coscienza e per la coscienza. Questi
sono i due significati fondamentali del termine, che risal- gono
rispettivamente ad Aristotele e Hegel. A) Per suo conto, Aristotele (Mer., V,
18, 1022 a 24 sgg.) enumerava cinque significati del termine: 1° si dice che
una cosa è per sè ciò che essa è in virtù della sua essenza necessaria o
sostanza. Ad es., Callia è per sè ciò che egli è sostanzialmente, cioè uomo; PERSONA
2° si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù di una parte della sua
essenza necessaria cioè in virtù di una parte della sua definizione (giacchè la
definizione esprime l’essenza necessaria). In tal senso si dice che Callia è
per sè animale perchè «animale » è parte della definizione di Callia; 3° in
terzo luogo si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù di una sua
qualità o deter- minazione primaria. In tal senso si dice che l’uomo è per sè
vivo in quanto la vita è una sua determina- zione primaria (essendo parte
dell’anima, che è sostanza dell’uomo); 4° si dice per sè quello ché non ha, o
di cui non si considera, una causa esterna. In questo senso l’uomo è per sè in
quanto è uomo, cioè in quanto la sua causa è la sua stessa sostanza, non in
quanto è animale o bipede, ecc.; 5° si dice che è per sè la cosa che è ciò che le
appartiene in proprio o appartiene a essa soltanto. In tal senso si può dire
che l’anima per sè pensa. Questi cinque significati sono in realtà tutti ri- conducibili
al primo cioè a quello per il quale si dice che è per sè la cosa che è in virtù
della sua sostanza. Difatti il significato 2° si riferisce alle parti della
sostanza, il significato 3° alle qualità o determinazioni che derivano dalla
sostanza, il significato 4° e il significato 5° alla causalità propria della
sostanza. Il significato fondamentale o gene- rico, per cui è per sè ciò che è
in virtù della sua sostanza, è rimasto quello al quale più frequente- mente si
è fatto riferimento nella storia della filo- sofia. Questo è, ad es., il
significato che all’espres- sione attribuiscono sia S. Tommaso che Duns Scoto.
S. Tommaso afferma che « Dio è lo stesso essere per sè sussistente » (S. 7h.,
I, q. 44, a. 1), in quanto l’essere appartiene all'essenza o sostanza di Dio
(4bid., I, q. 3, a. 4); e che l’anima non può corrompersi perchè è «forma per
sè sussistente » (Ibid., I, q. 75, a. 6). Duns Scoto riserva l’essere per sè
alla forma totale e perfetta in cui entrano tutte le parti ma che a sua volta
non è parte (Quodi., q. 9, n. 17). Entrambi i filosofi designano quindi come
per sè l’essere sostanziale, sebbene Duns Scoto restringa, più di S. Tommaso,
il significato di questo. B) Il secondo significato fondamentale del ter- mine
è quello che Hegel gli ha attribuito come es- sere attuale o effettuale [in
contrapposto a in sé (v.), essere possibile] e quindi come essere che si è svi-
luppato attraverso la riflessione e la coscienza. Dice Hegel « Diciamo che
qualcosa è per sè in quanto toglie l’esser altro, la sua relazione e la sua
comu- nanza con altro, in quanto cioè ha respinta e ha fatto astrazione da
esso... La coscienza contiene già in sè come tale la determinazione dell’essere
per sè in quanto si rappresenta un oggetto che sente, in- tuisce, ecc., in
quanto cioè ha in sè il contenuto 665 dell’oggetto stesso... Ma la coscienza di
sè è l’esser per sè compiuto e posto giacchè in essa l’aspetto del riferirsi ad
altro, ad un oggetto esterno, è su- perato» Wissenschaft der Logik, I, I, 3, A;
trad. ital., I, pag. 173-74). In questo senso la coscienza è per sè perchè ha
annullato o tolto di mezzo l’altro (l’og- getto esterno) e l’ha risolto in un
suo proprio contenuto interno. Sartre ha, nella filosofia con- temporanea,
ripreso questo concetto chiamando «essere per sè » o senz'altro « per sè » la
coscienza in quanto è l’annullamento o « il niente » dell’oggetto, cioè dell’in
sè (L’étre et le néant, pag. 115 sgg.). Lo stesso significato è attribuito
all’espressione da Merleau-Ponty (Phénoménologie de la perception, 1945, pag.
423 sgg.). PERSEITÀ (lat. Perseitas; ingl. Perseity; fran- cese Perséîté).
Termine adoperato nella Scolastica (ma raramente) per indicare lo stato e la
condizione di ciò che è per sé (v.). PERSONA (gr. rpSowrov, èingorao; lat. Per-
sona; ingl. Person; franc. Personne; ted. Person). Nel senso più comune del
termine: l’uomo nelle sue relazioni con il mondo o con se stesso. Nel senso più
generale (in quanto la parola è stata applicata a Dio oltre che all’uomo): un
soggetto di relazioni. Si possono distinguere le seguenti fasi del concetto: 1°
compito e relazione-sostanza; 2° auto-relazione (relazione con se stesso); 3°
etero- relazione (relazione col mondo). 1° Il termine P. significa maschera
(nel senso di personaggio: ingl. Character; franc. Personnage; ted. Rolle) e
proprio in questo senso fu introdotto nel linguaggio filosofico dallo stoicismo
popolare per indicare i compiti rappresentati dall’uomo nella vita. Dice
Epitteto: «Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il
quale sarà o breve o lungo secondo la volontà del poeta. E se a costui piace
che tu rappresenti la P. di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente.
Il simile se ti è assegnata la P. di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo
comune. Atteso che a te si spetta solamente di rappresentare bene quella qual
si sia P. che ti è destinata: lo eleggerla si ap- partiene a un altro »
(Manuale, 17, trad. Leopardi; cfr. Dissertazioni, I, 29, ecc.). Il concetto di
com- pito in questo senso può essere ridotto a quello di relazione: un compito
non è che un complesso di relazioni che legano l’uomo a una data situa- zione e
lo definiscono nei rispetti di essa. La no- zione di P. si rivelò perciò utile
quando si trattò di esprimere le relazioni che intercedono tra Dio e il Cristo
(considerato come il Logos o Verbo) e tra essi e lo Spirito; ma nel contempo fu
la fonte di fraintendimenti e di eresie. Difatti, da un lato la relazione
sembrava alcunchè di aggiunto, e di accidentalmente aggiunto, alla sostanza
della cosa; 666 tale almeno era il suo concetto nella filosofia tra- dizionale
e in particolare in quella aristotelica (v. RELAZIONE). Dall’altro, il nome
stesso di P., evocando la maschera da teatro, sembrava impli- care il carattere
apparente o non sostanziale della persona. Di qui nacquero le lunghe dispute
trini- tarie che caratterizzano la storia dei primi secoli del Cristianesimo e
che portarono alle decisioni del Concilio di Nicea (325). Per evitare il
riferi- mento della nozione di P. alla maschera, gli scrittori greci
adottarono, invece di prosopon, la parola hypostasis, che nel suo significato
di «supporto » ben rivela le preoccupazioni che ne suggerirono la scelta. Ma
circa il carattere accidentale che la relazione sembra avere per sua natura,
molti padri della Chiesa non trovarono di meglio che negare che la P. fosse
relazione e insistere sulla sua so- stanzialità. Così faceva, ad es., S.
Agostino, affer- mando che P. significa semplicemente « sostanza » e che perciò
il Padre è P. rispetto a sè (ad se) non rispetto al Figlio, ecc. (De Trin.,
VII, 6). Boezio dava su questo fondamento la definizione di P. che rimase
classica in tutto il Medioevo: «P. è la so- stanza individuale di natura
razionale » (De duabus naturis et una persona Christi, 3, P. L., 64, col.
1345). Ma, come S. Tommaso notava (S. 7h., I, q. 29, a. 4, contra), lo stesso
Boezio ammetteva che «ogni nome attinente alle P. significa una rela- zione »;
e d’altronde non c’era altro modo di chia- rire il significato delle persone
divine oltre quello di chiarire le relazioni fra di esse nonchè le loro relazioni
con il mondo e con gli uomini. S. Tom- maso pertanto, in uno dei suoi testi più
notevoli per chiarezza e forza filosofica (a prescindere dal significato
teologico-religioso), cioè nella sua de- lucidazione del dogma trinitario,
ripristina il si- gnificato del concetto di P. come relazione, pure affermando
nello stesso tempo la sostanzialità della relazione in divinis. « Non c'è in
Dio distinzione se non in virtù delle relazioni di origine. Ma la relazione in
Dio non è come un accidente che ine- risca al soggetto, ma è la stessa essenza
divina sicchè è sussistente al modo stesso in cui sussiste l’essenza divina.
Come la deità è Dio così la paternità divina è Dio Padre, che è P. divina:
dunque la P. divina significa la relazione in quanto sussistente; cioè
significa la relazione nella forma della sostanza, che è l’ipostasi sussistente
nella natura divina; sebbene ciò che sussiste nella natura divina non sia altro
che la natura divina » (S. 7h., I, q. 29, a. 4). In tal modo, insieme col
carattere sostanziale o ipostatico della P., veniva energicamente sottoli-
neato il suo significato di relazione. Questo per ciò che riguarda le P.
divine. Per ciò che riguarda la P. in generale, S. Tommaso affermava che, a
differenza dell’individuo che di per sè è indistinto, PERSONA «la P., in una
natura qualsiasi, significa ciò che è distinto in tale natura; come nella
natura umana significa queste carni e queste ossa e quest’anima che sono i
princìpi che individuano l’uomo » (/bid., I, q. 29, a. 4). Anche nel senso
comune la P. perciò è, secondo S. Tommaso, distinzione e relazione. 2° A
partire da Cartesio, mentre s’indebolisce o vien meno il riconoscimento del
carattere sostan- ziale della P., si accentua la sua natura di relazione e
specialmente di autorelazione o relazione del- l’uomo con se stesso. Il
concetto di P. inquesto senso si identifica con quello di Io come coscienza e
viene prevalentemente analizzato a proposito di ciò che si chiama l'identità
personale cioè l’unità e la continuità della vita cosciente dell’io. Locke afferma
che la P. « è un essere intelligente e pensante che possiede ragione e
riflessione e può considerare se stesso, cioè la stessa cosa pensante che egli
è, in diversi tempi e luoghi; il che fa soltanto mediante quella coscienza che
è inseparabile dal pensare ed essenziale ad esso» (Saggio, II, 27, 11). La P. è
qui identificata con l'identità personale cioè con la relazione che l’uomo ha
con se stesso, e quest’ul- tima con la coscienza. Leibniz è d’accordo con Locke
su questo punto; ma insiste anche sull’iden- tità fisica o reale come un’altra
componente della P., oltre l’identità morale o della coscienza (Nouv. Ess., II,
27, 9). Il rapporto consapevole dell’uomo con se stesso diventa da questo punto
in poi la caratteristica fondamentale della persona. Dice Wolff: «La P. è
l’ente che conserva la memoria di sè cioè ricorda di essere quello stesso che
prece- dentemente fu in questo o quello stato + (Psychol. rationalis, $ 741). E
Kant analogamente afferma: « Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il
proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli esseri viventi sulla
terra. Per questo egli è una P. e, in forza dell’unità di coscienza persistente
attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, è una sola e medesima P.»
(Antr., $ 1). Hegel in- tendeva per P. il soggetto autocosciente in quanto «semplice
riferimento a sè nella propria individua- lità » (Fil. del Dir., 8 35). Lotze
dice: « L'essenza della P. non si richiama a una passata o presente opposizione
dell’io nei confronti del non io, ma con- siste in un immediato essere per sè»
(Mikrokosmus, I, 1856, pag. 575). E Renouvier: «La coscienza prende il nome di
P. quando è portata a quel grado superiore di distinzione e di estensione
insieme, in cui essa attinge la conoscenza di sè e dell’universale e il potere
di formare concetti ed applicare quelle leggi fondamentali dello spirito che
sono le categorie + (Nouvelle monadologie, 1899, pag. 111). Poichè la P. è in
questo senso semplicemente la relazione dell’uomo con se stesso, che è la
definizione della coscienza, essa si identifica con la coscienza; e PERSONALISMO
tale identificazione è l’unico dato concettuale che si può rintracciare in
quella esaltazione retorica della P. che contrassegna alcune forme contem- poranee
del personalismo (v.). 3° Contro la precedente interpretazione della P. stanno
ovviamente le posizioni filosofiche che si rifiutano di ridurre l’essere
dell’uomo alla coscienza e polemizzano contro la forma più radicale di questa interpretazione,
che è lo hegelismo. In questo senso l'antropologia della sinistra hegeliana e
del mar- xismo, per quanto non si sia dichiaratamente preoccupata di illustrare
il concetto di P., costi- tuisce l'avvio a un rinnovamento di tale concetto o
la messa in luce di un aspetto sul quale la tradi- zione filosofica era rimasta
muta: cioè quello per il quale la P. umana è costituita o condizionata essen- zialmente
dai « rapporti di produzione e di lavoro » cioè dai rapporti in cui l'uomo
entra con la natura e con gli altri uomini per soddisfare i suoi bisogni (cfr.
Marx, Deutsche Ideologie, I). Dall'altro lato, la dottrina morale kantiana
aveva già dato del concetto di P. una caratterizzazione in termini di etero-relazione,
cioè di relazione con gli altri. Quando Kant diceva che «gli esseri ragionevoli
sono chiamate persone perchè la loro natura li indica già come fini in se
stessi vale a dire come qualcosa che non può essere adoperato unicamente come
mezzo » (Grundlegung zur Metaphysik der Sit- ren, IN), faceva consistere la
natura della P., dal punto di vista morale, nel rapporto inter-soggettivo. Tuttavia
soltanto con la fenomenologia il concetto di P. come etero-relazione fa il suo
ingresso esplicito in filosofia. Già Husserl, considerando l’io come il « polo
di tutta la vita intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti che essa
crea » (Carr. Med., $ 44) accentuava quella relazione ad altro in cui l’inten- zionalità
consiste. Ma è soprattutto con Scheler che la P. viene esplicitamente definita
corne + rap- porto con il mondo». La P. è secondo Scheler definita
essenzialmente da tale rapporto, come l'io è definito dal rapporto con il mondo
esterno, l'individuo dal rapporto con la società, il corpo dal rapporto con
l’ambiente. Secondo Scheler «il mondo non è che il correlato oggettivo della P.,
quindi ad ogni P. individuale corrisponde un mondo individuale» (Der
Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 408). Le sfere oggettive che si possono
distinguere nel mondo (oggetti interni, oggetti esterni, oggetti corporei,
ecc.) diventano concrete soltanto come parti di un mondo che è il correlato di
una P. cioè come dominio delle possi- bilità d'azione della P. stessa. La P. in
questo senso non va confusa con l’anima, l’io o la coscienza: uno schiavo, ad
es., è tutte queste cose ma non è P. perchè non ha la possibilità d’agire sul
proprio corpo e un elemento del suo mondo gli sfugge 667 (Ibid., pag. 499). «La
P., dice ancora Scheler, è data solo là dove è dato un poter fare per mezzo del
corpo e precisamente un poter fare che non si fonda solo sul ricordo delle
sensazioni occasionate dai movimenti esterni e delle esperienze attive, ma
precede l’agire effettivo (/bid., pag. 499). Nono- stante i numerosi e non
sempre coerenti andirivieni metafisici che Scheler ha fatto subìre alla sua
dot- trina, il suo concetto della P. come di un « rapporto con il mondo » è
stato fecondo anche perchè è stato assunto come punto di partenza dall’analisi
esisten- ziale di Heidegger (Sein und Zeit, $ 10): la quale si è precisamente
imperniata sul concetto della P. umana, cioè dell’esserci, come rapporto con il
mondo. Questo concetto di P. che, come si è visto non coincide con quello di
io, è stato formulato in ter- mini analoghi ed è abitualmente adoperato nelle scienze
sociali. Le definizione abitualmente ricor- rente in tali scienze della P. come
«l’individuo provvisto di status sociale» fa riferimento appunto alla rete dei
rapporti sociali che costituiscono lo status della persona. La considerazione
della P., come dell’unità individuale con cui si ha a che fare nel dominio
considerato da quelle scienze, corrisponde alla stessa determinazione
concettuale del termine come di un agente morale, o un soggetto di diritti
civili e politici o, in generale, un membro di un gruppo sociale. L'uomo è P.
in quanto, in tali suoi compiti, è essenzialmente definito dalle sue relazioni
con gli altri. PERSONA CIVILE (lat. Persona Civilis; ingl. Juristic Person;
franc. Personne juridique; ted. Juristische Person). Secondo Hobbes la P. in questo
senso è «ciò a cui sono attribuite parole e azioni umane o proprie o altrui»:
se alla P. sono attribuite azioni proprie, si tratta di una P. naturale, se le
sono attribuite azioni altrui si tratta di P. artificiale (De Homine, 15, $ 1).
Questa di Hobbes è la più generale e nello stesso tempo precisa definizione
della P. civile e giuridica che sia stata data da filosofi. Hegel stesso non fa
che definire la P. in questo senso come generica «capacità giuridica » (Fil.
del dir., $ 36). PERSONALISMO (ingl. Personalism; fran- cese Personnalisme;
ted. Personalismus). Il termine è stato ed è usato a designare tre dottrine
diverse ma connesse, cioè: 1° Una dottrina reologica cioè quella che afferma la
personalità di Dio, come causa creatrice del mondo, in polemica con il
panteismo che identifica Dio e il mondo. Questo è il senso origi- nario in cui
il termine è stato adoperato per le prime volte da Schleiermacher (Reden,
1799), e poi da Goethe, Feuerbach, Teichmiiller, ecc. 2° Una dottrina
metafisica cioè quella se- condo la quale il mondo è costituito da una totalità
668 di spiriti finiti che costituiscono nel loro insieme un ordine ideale nel
quale ognuno di essi conserva la sua autonomia. Questa concezione fu presen- tata
per la prima volta con il nome di P. da G. H. Howison, in polemica con Royce e
in ge- nerale con l’idealismo assoluto (nella discussione pubblicata con il
titolo The Conception of God, 1897). In seguito il termine fu usato per desi- gnare
la stessa concezione fondamentale da Re- nouvier (Le personnalisme, 1903) da W.
E. Hocking e da altri scrittori in America dove fu creata anche una rivista
destinata a difenderla (The Personalist, 1919). Il P. in questo senso non è che
uno spiri- tualismo monadologico di stampo leibniziano- lotziano; e il termine
P. è rimasto infatti in America a indicare la dottrina che in Europa si chiama
spiritualismo (v.). 3° Una dottrina
efico-politica cioè quella che insiste sul valore assoluto della persona e sui
suoi legami di solidarietà con le altre persone, in pole- mica contro il
collettivismo da un lato, che tende a vedere nella persona nient'altro che
un’unità numerica, e l’individualismo dall’altro che tende a indebolire i
legami di solidarietà tra le persone. In questo senso il termine è stato
adoperato da Eugenio Diihring nella sua Geschichte der National- Okonomie del
1899; e ripreso, dopo la seconda guerra mondiale, da E. Mounier (Le
personnalisme, 1950) e, sulla sua scia, da numerosi pensatori cattolici,
sostenitori del P. metafisico. Nell’ora- toria piuttosto confusa, che è la
caratteristica dominante di questo indirizzo, il tratto concettuale che si
riesce a scorgere è il concetto della persona come auto-relazione o coscienza. PERSONALITÀ
(ingl. Personality; franc. Per- sonnalité; ted. Personlichkeit). 1. La
condizione o il modo d’essere della persona. In questo senso il termine fu già
usato da S. Tommaso (S. 7h., I, q. 39, a. 3, ad 4°) ed è comunemente usato dai filosofi
(che spesso lo adoperano come sinonimo di persona). 2. Nel significato tecnico
della psicologia con- temporanea, la P. è l’organizzazione che la persona imprime
alla molteplicità dei rapporti che la costi- tuiscono. In questo senso
Nietzsche parlava di persona e osservava che « alcuni uomini si compon- gono di
più persone e la maggior parte non sono affatto persone. Dovunque predominano
le qualità medie che importano affinchè un tipo si perpetui, essere una persona
sarebbe un lusso... si tratta di rappresentanti o di strumenti di trasmissione
» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 394). A questi concetti di Nietzsche sono
vicini quelli della psicologia contemporanea. Dice H. J. Eysenck: «La P. è la più
o meno stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento,
dell’intelletto e del PERSONALITÀ fisico di una persona: organizzazione che
determina il suo adattamento totale all’ambiente. Il carattere denota il più o
meno stabile e durevole sistema di comportamento conativo (volonta) della
persona. Il temperamento il suo più o meno stabile e durevole sistema di
comportamento affettivo (emozione); l’intelletto il suo più o meno stabile o
durevole sistema di comportamento cognitivo (intelligenza); il fisico il suo
più o meno stabile e durevole sistema di configurazione corporea e di dotazione
neuro- endocrina » (The Structure of Human Personality, 1953, pag. 2). In
questa definizione in cui entrano elementi già accertati da Roback, Allport,
McKin- non, l’elemento dominante è costituito dal concetto di organizzazione,
struttura o sistema: cioè dal- l'elemento che consente la previsione probabile
del comportamento di una persona. Non molto diversa dalla precedente è quindi
l’altra definizione, pura- mente funzionale, data della P. allo scopo di
rendere possibili le ricerche ad essa relative; «P. è ciò che permette la
previsione di quello che una persona farà in una data situazione » (R. B.
CATTEL, Per- sonality, 1950, pag. 2). Dalla P. in questo senso, l'io si
distingue come quella parte della P. stessa che è nota o aperta alla persona e
a cui la persona fa riferimento con quel pronome: parte che può non coincidere,
e abitualmente non coincide, con la totalità della P. (v. Io). PERSPICACIA (gr.
dvyylvora; lat. Perspica- citas; ingl. Perspicacity; franc. Perspicacité; te- desco
Scharfsinn). Prontezza di mente, secondo Platone (Carm., 160 a); giustezza di
mira, secondo Aristotele (Er. Nic., VI, 9, 1142b 6). La prima definizione
coglie la rapidità del processo intellettivo, l’altra la sua buona riuscita; e
sembrano defini- zioni complementari. Kant invece ha definito la P. come «la
capacità di notare le più piccole somi- glianze e dissomiglianze »: capacità
che dà luogo a osservazioni che si chiamano sottigliezze o addi- rittura
sofisticherie, quando sono inutili (Ansr., I, $ 44) (v. SAGACIA). PERSPICUITÀ
(lat. Perspicuitas; ingl. Per- spicuity; franc. Perspicuité; ted.
Perspicuitàt). È il termine latino che traduce il greco tvapyera (cfr. Cicer.,
Acad., II, 6, 17) (v. EvIDENZA). PERSUASIONE (gr. rei06; lat. Persuasio; in- glese
Persuasion; franc. Persuasion; ted. Uberreduny). 1. Una credenza la cui
certezza poggia su basi pre- valentemente soggettive, cioè private e
incomunica- bili. La distinzione tra persuasione e insegnamento razionale fu
stabilita già da Platone. «Il pensiero, diceva Platone, si genera in noi per
via di insegna- mento, l’opinione per via di persuasione. Il primo si fonda
sempre su un ragionamento vero, l’altra manca di questa base; l’uno rimane
saldo di fronte alla P., l’altra se ne lascia modificare » (7im., 51, e). PESSIMISMO
669 Kant espose chiaramente questo stesso concetto: «Se la credenza ha il suo
fondamento nella natura particolare del soggetto, si chiama persuasione. La P.
è una semplice apparenza perchè il fondamento del giudizio, che è unicamente
nel soggetto, viene considerato come oggettivo. Quindi un tal giudizio ha solo
una validità privata e la credenza non si può comunicare + (Crit. R. Pura,
Dottrina del me- todo, cap. II, sez. 3). Da questo punto di vista la pietra di
paragone che consente di distinguere tra P. e convinzione (v.) è «la
possibilità di comu- nicare la credenza e ritrovarla valida per la ragione di
ogni uomo» (/bid.); la convinzione è comuni- cabile, la P. non lo è. La
distinzione kantiana è stata accettata e semplificata da C. Perelmann e
L. Olbrechts-Tytecha: « Ci proponiamo di
chiamare persuasiva un’argomentazione che pretende valere soltanto per un
uditorio particolare e di chiamare convincente quella che si crede ottenga
l’adesione di ogni essere razionale » (Traité de l’argumentation, 1958, $ 6).
Talvolta, la P. è stata distinta dalla convinzione in quanto si è ritenuto che
essa coin- volga il sentimento oltre che la ragione e che per- tanto essa sola
possa impegnare ciò che Pascal chia- mava «l’automa », cioè i comportamenti
affettivi e abituali dell’uomo. Diceva Pascal: « Noi siamo automi tanto quanto
siamo spirito; di là viene che lo strumento per il quale la P. si fa non è la sola
dimostrazione » (Pensées, 252). D’Alembert ha espresso molto bene questo punto
di vista: «La convinzione tiene più allo spirito, la P. al cuore; si dice che
l’oratore deve non solo convincere cioè provare ciò che enuncia, ma anche
persuadere cioè toccare e commuovere. La convinzione suppone qualche prova, la
P. non sempre... Ci si persuade facilmente di ciò che fa piacere; si è talvolta
dolenti d’esser convinti di ciò che non si voleva credere » (CEuvres posthumes,
1799, II, pag. 89). Altre volte la P. è stata considerata come la forma
superiore della certezza perchè connessa con la stessa verità oggettiva. Così
ha fatto Heidegger che l’ha intesa come «un modo della certezza » e
precisamente
quello fondato sulla testimonianza dello
stesso « ente scoperto » cioè dello stesso vero (Sein und Zeit, $ 52).
Analogamente Jaspers ha posto la P. al di sopra della «conferma pragmatica » e
della « evi- denza costrittiva » come il terzo ed ultimo grado della verità
oggettiva (Vernunft und Existenz, 1935, III, $ 3). Dall’altro lato, si è
insistito sul carattere «emotivo » della P., nel senso che essa farebbe appello
a motivi « non razionali » (C. L. STEVENSON, Ethics and Language, 1944, cap.
6). Ciò che emerge da queste indicazioni è il carattere privato e in una certa
misura incomunicabile della P. o per meglio dire dei motivi che sono a
fondamento della credenza in cui essa consiste. 2. L'atto o il procedimento del
persuadere, cioè l’indurre alla persuasione. PERSUASIVO (gr. mbavév; lat.
Persuasibile; ingl. Persuasive; franc. Persuasif; ted. Uberzeugend). Il
criterio della verità difeso dagli scettici della Nuova Accademia e in primo
luogo da Carneade. Persuasiva è la rappresentazione che appare vera, che può
anche essere falsa ma è per /o più vera. Diceva Carneade: « Poichè raramente ci
si imbatte nel caso di una rappresentazione vera, non ci si deve rifiutare di
credere alla rappresentazione che per lo più dice il vero: infatti giudizi e
azioni si regolano sul per lo più » (Sesto EMP., Adv. Math., VII, 175). La
rappresentazione persuasiva, secondo i seguaci di Carneade, deve poi essere
anche coerente e ponderata, sebbene questi caratteri non aggiun- gano nulla
alla sua persuasività (/bid., VII, 184). PESSIMISMO (ingl. Pessimism; franc.
Pessi- misme; ted. Pessimismus). In generale, la credenza che lo stato delle
cose, in qualche parte del mondo o nella totalità di esso, è il peggiore
possibile. Il termine cominciò ad essere adoperato in Inghil- terra, ai
principi del sec. x1X, per antitesi con ot- timismo. La tesi del P. potrebbe
perciò essere espressa come il rovesciamento di quella dell’ottimismo, con l’asserzione
che il nostro mondo è il peggiore dei mondi possibili. Ma espresso in questa
forma il P. è un’intera metafisica e si può parlare di P. solo a proposito
della filosofia di Schopenhauer e dei suoi seguaci. Comunemente, però, si parla
di P. anche in un senso più limitato e parziale: cioè quando ricorre almeno una
delle tesi seguenti: 1° Nella vita umana i dolori superano i pia- ceri e la
felicità è irraggiungibile. In questa forma il P. fu difeso dal cirenaico
Egesia, detto «il per- suaditor di morte » (Dioc. L., II, 8, 94). 2° Nella vita
umana i mali superano i beni, sicchè essa è un complesso di vicende malvagie, ignobili
o ripugnanti. In questa forma il P. fu difeso dal Padre apologista Arnobio ai
princìpi del rv secolo: la stessa esistenza dell'uomo appare ad Arnobio inutile
all'economia del mondo, il quale resterebbe immutato se l’uomo non ci fosse (Adv.
nationes, II, 37). 3° Ogni vita è in generale male o dolore. Questa è la tesi
del P. metafisico, quale si trova sostenuta nel Buddismo antico e da
Schopenhauer (Die Welt, I, $ 57 sgg.). 4° Il mondo è nella sua totalità la
manifesta- zione di una forza irrazionale: secondo Schopen- hauer di una «
Volontà di vita » che dilania e tor- menta se stessa (Die Welt, I, $ 61);
secondo E. Hartmann, di un principio inconscio che di- ventando
progressivamente consapevole distrugge le illusioni che reggono il mondo
(Philosophie des Unbewussten, 1869). 670 PETITIO Tutte le forme del P. negano
la possibilità del progresso e in generale di ogni miglioramento nel campo
specifico in cui si fanno valere. Ciò che esse non negano è invece il carattere
finalistico del mondo: che è ammesso e difeso sia da Schopenhauer (Die Welt, I,
$ 28) sia da Hartmann (Op. cit.; trad. franc., II, pag. 65). La cosa è tanto
più strana in quanto l’essenza dell’ortimismo (v.) sta per l’ap- punto nel
finalismo; e il P. pretende di essere l’antitesi dell’ottimismo. PETITIO
PRINCIPII. È la notissima fa/- lacia (v.), già analizzata da Aristotele (Top.,
VIII, 13, 162 b; Soph. El., 5, 167 b; An. pr., II, 16, 64 b), consistente nel
presupporre per la dimostrazione un equivalente o sinonimo di ciò che si vuol
dimostrare (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 7.53). G. P. PIACERE (gr. iSovh;
lat. Voluptas; inglese
Pleasure; franc. Plaisir; ted. Lust).
P. e dolore costituiscono le tonalità fondamentali di qualsiasi tipo o forma di
«emozione». La determinazione delle loro caratteristiche dipende dalla funzione
che si attribuisce alle emozioni ed è perciò connessa con la teoria generale
delle emozioni stesse. Qui c’è da osservare che la parola conserva, nella
tradizione filosofica, un significato diverso da felicità anche quando viene
collegata con questa: il P. è difatti l'indice di uno stato o condizione
particolare 0 temporanea di soddisfazione, mentre la felicità è uno stato
costante e duraturo di soddisfacimento totale o quasi totale (v. FELICITÀ). La
più famosa definizione del P. fu quella data da Aristotele, che utilizzava
d’altronde concetti platonici (Rep., IX, 583 sgg.; Fil., 53c): «Il P. è l’arto
di un abito che è conforme natura » (Er. Nic., VII, 12, 1153 a 14): nella quale
si deve ricordare che abito significa « disposizione costante ». Questa definizione
serviva ad Aristotele a sganciare il P. dalla sua connessione con la
sensibilità: giacchè un abito può essere sia sensibile che non sensibile. Dal
Rinascimento in poi la funzione biologica del P. fu quella sulla quale si
fondarono le defini- zioni di esso. Telesio lo considera come ciò che favorisce
la conservazione dell’organismo (De rer. nat., IX, 2). Cartesio definì la
gioia, ritenuta una delle sei emozioni fondamentali come « l’emo- zione
piacevole dell'anima nella quale consiste il godimento del bene che le
impressioni del cer- vello le rappresentano come suo» (Passions de l’éme, $
91). Spinoza affermava: « Per gioia intendo la passione per la quale la mente
sale ad una per- fezione maggiore » (Er., III, 11): che è una parafrasi della
definizione aristotelica. Mentre ad una defi- nizione biologica ritornava
Hobbes, vedendo nel P. il segno di un movimento giovevole al corpo, tra- smesso
dagli organi senzienti al cuore (De Corp., 25, 12). Nietzsche affermava: «Il
P.: sensazione PRINCIPII di un accrescimento di potenza » (Wille zur Macht, ed.
Kròner, $ 660). Di fronte a queste teorie che si possono dire positive del P.,
sta la teoria nega- tiva di Schopenhauer secondo la quale il P. è semplicemente
la cessazione del dolore, sicchè è conosciuto o sentito solo mediatamente,
attraverso il ricordo della sofferenza o della privazione pas- sata (Die Welt,
I, $ 58). La psicologia moderna ha conservato i tratti tradizionalmente
riconosciuti al piacere. Ha cioè riconfermato la sua funzione biologica ma
nello stesso tempo ha riconfermato, sulla base dell’osser- vazione, il
carattere arrivo che Aristotele ricono- sceva al P. (cfr. J. C. FLugEL, Studies
in Feeling and Desire, 1955, pag. 118 sgg.). Principio di P. (ingl. Pleasure
Principle; tedesco Lustprinzip) ha chiamato Freud uno dei due prin- cìpi
fondamentali che regolano il funzionamento mentale, e precisamente quello che
dirige l’attività psichica alla liberazione dal dolore. L’altro prin- cipio
sarebbe quello di rea/tà, per il quale la ri- cerca del P. non si effettua per
le vie più brevi, ma obbedendo alle condizioni imposte dal mondo esterno
(7riebe und Triebschicksale, 1915). PIANO (ingl. Plane; franc. Plan; ted. Schicht). Questa nozione viene adoperata in filosofia per designare
gradi o livelli dell’essere caratterizzati da qualità proprie, cioè non
riducibili a quelle di altri gradi o livelli. Il concetto di P. fu in questo
senso introdotto da Boutroux: « Nell’universo, egli di- ceva, si possono
distinguere parecchi mondi, che formano come P. sovrapposti gli uni agli altri.
Al di sopra del mondo della pura necessità, cioè della quantità senza qualità,
che è identico con il nulla, si possono distinguere: il mondo delle cause, il
mondo delle nozioni, il mondo fisico, il mondo vivente e il mondo pensante» (De
la contingence des lois de la nature, 1874, Concl.). Ogni P. è ca- ratterizzato
secondo Boutroux: 1° da una certa dipendenza dal P. inferiore; 2° dalla
irreducibilità delle sue qualità fondamentali e delle sue leggi spe- cifiche
alla qualità o alle leggi del P. inferiore. In questo consisterebbe la
contingenza della realtà. Una concezione analoga è stata ripresa da N. Hart- mann
che ha distinto quattro piani della realtà: l’inorganico, l’organico, lo
psichico e lo spirituale (Der Aufbau der realen Welt, 1940). Anche Hart- mann
ammette che ogni P. della realtà sia regolato da leggi proprie e irreducibili;
ma a differenza di Boutroux accentua la dipendenza dei P. superiori dagli
inferiori. Ad es., le leggi del mondo psichico non sono riducibili a quelli del
mondo organico, ma le presuppongono, aggiungendosi ad esse: rap- presentano
perciò un super-dererminismo che si aggiunge al determinismo delle leggi
inferiori. Perciò la conclusione cui mette capo l’analisi della stra-
PLATONISMO 67) tificazione dell’essere fatta da Hartmann non è la contingenza
ma la super-necessità (v. LIBERTÀ). PICNATOMI (ted. Pyknatomen). Così E. Hae-
ckel chiamò gli atomi, dotati di movimento e di sensibilità, che egli riteneva
elementi costitutivi di ogni forma d'essere, in quanto prodotti dal con- densarsi
(picnosi) della materia primitiva (Weltratsel, 1899; trad. ital., 1904, pag.
296 sgg.). PIETÀ. V. CoMPAssIoNE. PIETISMO (ingl. Pietism; franc. Piétisme; te-
desco Pietismus). Una reazione contro l’ortodossia protestante che si determinò
nell’Europa setten- trionale e specialmente in Germania nella seconda metà del
xvii secolo. Il capo di questo movimento fu Filippo Spener (1635-1705) e una
delle sue figure più eminenti fu il pedagogista Augusto Franke (1663-1727). Il
P. intendeva ritornare alle tesi ori- ginarie della Riforma protestante: libera
interpreta- zione della Bibbia e negazione della teologia; culto interiore o
morale di Dio e negazione del culto esterno, dei riti e di ogni organizzazione
ecclesiastica; impegno nella vita civile e negazione del valore delle
cosiddette « opere» di natura religiosa. Da quest’ultimo tratto deriva
l’accoglimento, nelle isti- tuzioni educative del P., di molti insegnamenti di carattere
pratico e utilitario (cfr. A. RITSCHL, Geschichte des Pietismus, 3 voll,
1880-86). PIGRIZIA DELLA RAGIONE. V. RAgION PIGRA. PIRRONISMO (ingl. Pyrrhonism; franc. Pyr- rhonisme;
ted. Pyrrhonismus). La forma estrema dello
scetticismo greco, quale fu difesa da Pirrone di Elide che visse al tempo di
Alessandro Magno (che seguì nella sua spedizione in Oriente) e morì verso il
270 avanti Cristo. Conosciamo la sua dot- trina dai Si/loi (versi scherzosi) di
Timone di Fliunte e dalle esposizioni di Diogene Laerzio e di Sesto Empirico.
La tesi fondamentale del P. è la necessità di sospendere l’assenso. Poichè per
l’uomo le cose sono inafferrabili, l’unico atteggiamento legittimo è quello di
non giudicarle nè vere nè false, nè belle nè brutte, nè buone nè cattive, ecc.
Il non giudicare significa anche il non preferire o il non rifuggire: sicchè la
sospensione del giudizio è già di per se stessa afarassia, cioè assenza di
turbamento. Dio- gene Laerzio racconta che Pirrone andava in giro senza
guardare e senza scansar nulla, affrontando carri se ne incontrava, precipizi,
cani, ecc. (Dog. L., IX, 62). Un ritorno al P. si ebbe più tardi, tra la fine dell’ultimo
secolo a. C. e la fine del 1 secolo d. C. per opera di Enesidemo di Cnosso, che
insegnò in Alessandria, di Agrippa e del medico Sesto Em- pirico. Quest'ultimo
che svolse la sua attività tra il 180 e il 210 d. C. ci ha lasciato tre
scritti: /po- tiposi Pirroniana, Contro i dogmatici, Contro i ma- tematici, che
costituiscono la summa di tutto lo scetticismo antico. La tesi pirroniana della
sospen- sione dell’assenso è mantenuta rigorosamente; ma come guida per la
condotta della vita sono assunte l’apparenza sensibile e le norme della vita
comune (Ip. Pirr., I, 21) (cfr. Mario DAL PRA, Lo scetti- cismo greco, 1950). PISTIS
SOPHIA. Secondo la cosmogonia degli Gnostici è l’ultimo degli Eoni (v.) cioè
delle emanazioni, l’eone decaduto, che dà origine alla materia (IePoLITO,
Philosophumena, VI, 30 sgg.) (cfr. GNOSTICISMO). PITAGORISMO (ingl.
Pythagoreanism; fran- cese Pytliagorisme; ted. Pythagoreismus). La dot- trina
dell’antica scuola pitagorica, dottrina che poco o nulla deve al fondatore di
essa, Pitagora, del quale ben poco si sa di certo e che probabil- mente non
scrisse nulla. Le tesi caratteristiche del P. furono le seguenti: 1° la
dottrina della metempsicosi (v.) sulla quale erano fondate le credenze mistiche
e i riti della setta; 2° la dottrina che i numeri costituiscono i principi o
gli elementi costitutivi delle cose: dot- trina, che attraverso il platonismo,
ha presieduto anche agli inizi della scienza moderna; 3° la dottrina che i
corpi celesti (che i Pitago- rici portavano a dieci per ragioni di simmetria) girino
tutti intorno a un fuoco centrale (hesria) di cui il sole sarebbe un riflesso.
Questa dottrina è il primo accenno di quello che sarà, nell’età moderna, il
sistema copernicano. Cfr. I Pitagorici, Testimonianze e frammenti, a cura di
Maria Timpanaro Cardini, Firenze, 1958 e la bibliografia ivi contenuta. PIÙ-VITA,
PIÙ-CHE-VITA (ted. Mehr Leben, Mehr-als-Leben). Espressioni coniate da G.
Simmel per indicare rispettivamente il pro- cesso della vita e le forme cui
esso dà luogo. Come «P.-vita », la vita è il processo che supera con- tinuamente
i limiti che pone a se stessa. Come « P.-che-vita » la vita è l'insieme delle
forme finite che emergono dal processo vitale e si contrap- pongono ad esso
(Lebensanschauune, 1918, pa- gine 22-23). PLASTICA, NATURA (ingl. Plastic
Nature; franc. Nature Plastique; ted. Plastische Natur). La forza P. o
formativa, diretta ed emanata da Dio, ma diversa da lui, cui è affidato il
compito di or- dinare la materia. È il concetto della natura ectipa ammesso dai
Platonici di Cambridge (v. EcTIPO). PLATONISMO (ingl. Platonism; franc. Pla- tonisme;
ted. Platonismus). Gli elementi della dot- trina platonica che sono stati
assunti, a partire da Aristotele, come caratteristici di tale dottrina, possono
essere ricapitolati nel modo seguente: 672 1° La dottrina delle idee secondo la
quale oggetto della conoscenza scientifica sono entità o valori che hanno uno
status diverso da quello delle cose naturali e caratterizzato dall’unità e
dalla immutabilità (v. Ipea). In base a questa dottrina la conoscenza
sensibile, che ha per oggetto le cose nella loro molteplicità e mutevolezza,
non ha il minimo valore di verità e può solo ostacolare l'acquisizione della
conoscenza autentica. 2° La dottrina della superiorità della saggezza sulla
sapienza, cioè del fine politico della filosofia: la quale ha come suo scopo
finale la realizzazione della giustizia nei rapporti fra gli uomini e quindi in
ogni singolo uomo (v. SAPIENZA). 3° La dottrina della dialettica come procedi- mento
scientifico per eccellenza cioè come metodo attraverso il quale la ricerca
associata in primo luogo giunge a riconoscere un’unica idea e in secondo luogo
passa a dividere l’unica idea nelle sue articolazioni specifiche (v.
DIALETTICA). Questi sono anche i tre punti sui quali Aristotele polemizzò con
Platone e che, mentre segnano il distacco tra P. e aristotelismo, sono rimasti
at- traverso i secoli a caratterizzare il P. stesso. Essi, com'è ovvio, non
esauriscono la dottrina originale di Platone, che pertanto non coincide con il
«P.». È da notare che le tesi su esposte non caratte- rizzano il cosiddetto P.
del Rinascimento. Ma in realtà questo P. è un neoplatonismo, che si rifà alle
tesi fondamentali del neoplatonismo antico (v.). PLEROMA (gr. r\mpwue). Secondo
lo gnostico Valentino (tr secolo) la totalità della vita divina in quanto piena
o perfetta (IRENEO, Adv. haer., I, 11, 1). PLURALISMO (ingl. Pluralism; franc.
Plura- lisme; ted. Pluralismus). x. A partire da Wolff, questo termine è stato
contrapposto ad egoismo (v.) come e quel modo di pensare per cui non si
abbraccia nel proprio io tutto il mondo, ma ci si considera e comporta soltanto
come cittadini del mondo» (KANT, Antr., I, $ 2). Ma mentre il termine egoismo è
rimasto a designare un atteggiamento morale giacchè per la dottrina metafisica
corrispondente è prevalso quello di solipsismo (v.) il termine P. nell’uso che
ne è stato fatto in seguito, ha assunto un significato metafisico, passando a
designare la dottrina che ammette nel mondo una pluralità di sostanze. Di tale
dottrina l’espressione tipica è la monadologia di Leibniz; e in questo senso il
ter- mine è stato ripreso da alcuni spiritualisti moderni (J. Warp, The Realm
of Ends or Pluralism and Theism, 1912; W. JaMEs, A Pluralistic Universe, 1909).
James ha soprattutto insistito sull’esigenza cui il P. viene incontro: quella
di considerare l’universo, anzichè come una massa compatta in cui tutto è
determinato nel bene o nel male e non PLEROMA c’è posto per la libertà, come
una specie di repub- blica federale in cui gli individui siano bensì soli- dali
tra loro ma conservino la loro autonomia e libertà. L’universo pluralistico è,
secondo James, un pluriverso o multiverso: la sua unità non è l’implicazione
universale o l’integrazione assoluta, ma continuità, contiguità e
concatenazione: è una unità di tipo sinechistico, nel senso dato a questa parola
da Peirce (A Pluralistic Universe, pag. 325). Un universo così fatto si
differenzia dall’universo monadologico di Leibniz proprio per il carattere non
assoluto nè necessitante dell’unità che lo costi- tuisce. Dio stesso,
nell'universo pluralistico, è finito. 2. Nella terminologia contemporanea si
indica spesso con questo nome il riconoscimento della possibilità di soluzioni
diverse di uno stesso pro- blema o di interpretazioni diverse di una stessa realtà
o concetto o di una diversità di fattori o di situazioni o di sviluppi nello
stesso campo. Così si parla di « P. estetico » quando si ammette che un'opera
d’arte possa essere trovata « bella » per motivi diversi, che non hanno nulla a
che fare l’uno con l’altro. E si parla di P. sociologico quando si ammette o si
riconosce l’azione di più gruppi sociali relativamente indipendenti gli uni
dagli altri. PLUSVALORE (ingl.
Surplus Value; francese Plus-value; ted. Mehrwert).
Uno dei concetti fonda- mentali dell'economia di Marx. Poichè il valore si genera
dal lavoro e non è altro che lavoro mate- rializzato, se l’intraprenditore
corrispondesse al sa- lariato il totale valore prodotto dal suo lavoro, non si
avrebbe il fenomeno, schiettamente capita- listico, del denaro che genera
denaro. Ma poichè l’intraprenditore corrisponde al salariato, non il corrispondente
del valore da lui prodotto, ma solo il costo della sua forza-lavoro (vale a
dire ciò che basta a produrla, il minimo vitale) si ha il feno- meno del P.,
che non è altro, che quella parte di valore prodotto dal lavoro salariato, di
cui il ca- pitalista si appropria (cfr. Kapital, I, sez. 3). PNEUMA (gr.
mvedua; lat. Spiritus; inglese Pneuma; franc. Pneuma; ted. Pneuma). Il termine ha
ricevuto un significato tecnico soltanto dagli Stoici che hanno inteso per esso
quello spirito o soffio animatore mediante il quale Dio agisce sulle cose,
ordinandole, vivificandole e dirigendole. « Pare agli Stoici, dice Diogene
Laerzio, che la natura sia un fuoco artefice diretto alla generazione, cioè uno
P. della specie del fuoco e dell’attività formativa (VII, 156; PLuT., De Stoic.
repugn., 43, 1054). Virgilio alludeva a questa concezione con i versi famosi: «
Spiritus intus alit Totamque infusa per artus, Mens agitat molem et toto se
corpore miscet » (En., VI, 726): ai quali versi Giordano Bruno ricorreva per
illustrare la sua concezione dell’Intel- letto artefice o «fabro del mondo» (De
/a causa, POESIA 673 principio e uno, II). I maghi del Rinascimento par- lavano
nello stesso senso dello spirito attraverso il quale l’anima del mondo opera in
tutte le parti dell'universo visibile (AGRIPPA, De Occulta philo- sophia, I,
14). Nel senso stoico, il P. era stato inteso nel libro della Sapienza (I, 5-7,
ecc.). E in senso analogo, S. Paolo aveva parlato del « corpo pneu- matico »
che egli contrapponeva al « corpo psichico + o animale, come quello che è vivo
e vivifica e risor- gerà dopo la morte (I Cor., XIV, 44 sgg.). P., nella tradizione
cristiana, non è altro che lo Spirito Santo del quale S. Tommaso diceva: « Il
nome di spirito nelle cose corporee sembra significare un certo movimento o
impulso giacchè chiamiamo spirito il respiro ed il vento. Ma è proprio
dell’amore di muovere e di spingere la volontà dell'amante verso l’amato. E
poichè la divina persona procede per via dell'amore col quale Dio è
conveniente- mente amato, essa si chiama Spirito Santo » (S. 7h., I, q.36, a.
1). Infine dalla stessa dottrina dello spirito vivificante deriva quella degli
spiriti « psi- chici » « animali » 0 « corporei » che furono ammessi dalla
medicina antica (v. PNEUMATICI) e da quella medievale e di cui i filosofi fanno
spesso menzione. Menzionarono gli spiriti animali S. Tommaso (In Sent., IV, 49,
3; cfr. S. Th., I, q. 76, a. 7, ad 2°); e più tardi Telesio (De rer. nat., V,
5); Bacone (Nov. Org., II, 7; De Augm. Scient., IV, 2), Hobbes (De Corp., 25,
10) e specialmente Cartesio che ne riespose per conto proprio la dottrina
(Passions de lame, I, 10). Nel senso comune di aria o respiro, la parola viene
invece usata da alcuni filosofi che considerano l'anima come aria: per es., da
Anassimene, per il quale la dottrina non è che un corollario del prin- cipio
che tutto è aria (Fr. 2, Diels); e da Epicuro (Ad Herod., 63). PNEUMATICA. V.
PNEUMATOLOGIA. PNEUMATICI (gr.
rvevuérixor; lat. Spiritales; ingl. Pneumatics; franc. Pneumatiques; ted. Pneu- matiker). Con questo termine sono stati
indicati: 1° i seguaci della scuola medica di Galeno: il quale, ispirandosi
agli Stoici, aveva identificato nello pneuma (v.) il principio della vita e
distingueva lo pneuma psichico che ha sede nel cervello, il pneuma zotico o
animale che ha sede nel cuore e il pneuma fisico o naturale che ha sede nel
fegato, attribuendo a ciascuno di essi speciali funzioni nell’organismo; 2°
alcuni padri della Chiesa e alcuni gnostici che insistevano sulla distinzione,
che si trova nel Nuovo Testamento (v. PNEUMA) tra corpo psichico o animale e
corpo P. e sulla superiorità di quest’ultimo; 3° alcuni chimici del sec. xvn e
xvin (Boyle, Black, Cavendish, ecc.) che iniziarono le ricerche sui gas e
scoprirono un certo numero di elementi e composti gassosi. 43 — ABDAGNANO,
Dizionario di filosofia. PNEUMATOLOGIA o PNEUMATICA (ingl. Preumatology; franc.
Pneumatologie, Pneu- matique; ted. Pneumatologie, Pneumatik). Leibniz introdusse
il termine pneumatica per indicare «la conoscenza di Dio, delle anime e delle
sostanze semplici in generale» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann,
pag. 199). Il termine voleva significare «scienza degli spiriti» e fu ripreso
da Wolff per indicare l’insieme della psicologia e della teologia naturale
(Log., 1728, Disc. Prel., $ 79). Crusius adottava il termine P. per indicare
«la scienza dell’essenza necessaria di uno spirito e delle distinzioni e
qualità che possono essere date a priori» (Entwurf der notwendigen Vernunft wahrheiten,
$ 424). Rosmini escludeva dalla P.
la considerazione di Dio e la restringeva
allo studio degli « spiriti creati » cioè dell'anima umana e degli angeli
(Psico/., 1850, $ 27). D’Alembert restringeva il termine a significare « la
prima parte della scienza dell'uomo + cioè «la conoscenza speculativa del- l’anima
umana » che indicava anche con il nome di metafisica particolare. La conoscenza
delle opera- zioni dell'anima invece costituiva per D’Alembert l'oggetto della
logica e della morale (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in CEuvres,
edizione Condorcet, 1853, pag. 116). Kant osservava a questo proposito che la
psicologia razionale non potrà mai diventare pneumatologia cioè vera e propria
scienza, allo stesso modo in cui la teologia non può diventare teosofia (Crit.
del Giud., $ 89). Il termine è ora caduto completa- mente in disuso. POESIA
(gr. rolnoc; lat. Poesia; ingl. Poetry; franc. Poésie; ted. Dichtung). Una
forma finale dell'espressione linguistica, di cui il ritmo o la musica sia
condizione essenziale. Si possono distin- guere tre concezioni fondamentali e
cioè: 1° la P. come stimolo o partecipazione emotiva; 2° la P. come verità; 3°
la P. come modo privilegiato di espressione linguistica. 1° La concezione della
P. come stimolo emotivo fu esposta per la prima volta da Platone: « La parte dell'anima
che nelle nostre private disgrazie ci sforziamo di tenere a freno e che ha sete
di lacrime e vorrebbe sospirare e lamentarsi a suo agio. essendo questa la sua
natura, è proprio quella cui i poeti procurano soddisfazione e compiacimento..,
Riguardo all’amore, alla collera e a tutti i movimenti dolorosi o piacevoli
dell'anima, che sono insepara- bili da ogni nostra azione, si può dire che gli
stessi effetti produca l'imitazione poetica: giacchè mentre bisognerebbe
inaridirli essa li innaffia e nutrisce e così rende padrone di noi quelle
facoltà che do- vrebbero invece ubbidire affinchè noi divenissimo più felici e
migliori » (Rep., X, 606 a-d). Platone osserva a questo proposito che il lato
emotivo 674 dell’arte non è minore per il fatto che in essa si tratta di
emozioni altrui perchè « necessariamente le emozioni altrui diventano nostre »
(/bid., 606 b). Non c’è dubbio pertanto che la caratteristica fondamentale
della P. imitativa (nonchè la ragione per la sua condanna) sia per Platone la
partecipa- zione emotiva su cui essa è fondata e il rafforzamento delle
emozioni che a tale partecipazione consegue. Giambattista Vico da un lato
estese la partecipa- zione emotiva, riconosciuta propria della P., all’in- tero
universo; dall’altro tolse ad essa il carattere di condanna che Platone le
aveva attribuito. « Il sublime lavoro della P., egli scrisse, è alle cose insensate
dare senso e passione ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate
fra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive.
Questa degnità filologico-filosofica ne approva che gli uomini del mondo
fanciullo, per natura, furono sublimi poeti» (Scienza Nuova, 1744, Degn. 37).
La P. è pertanto secondo Vico legata ai «robusti sensi» e alle « vigorosissime
fantasie » degli uomini primitivi o bestioni; e il suo triplice scopo è quello
di « ritruovare favole sublimi confa- centi all’intento popolaresco », di
«perturbare all’eccesso » e di « insegnare il volgo a virtuosamente operare»
(/bid., II; cfr. Lettera a Gherardo degli Angioli). Da questo punto di vista P.
e filosofia stanno agli antipodi e «la fantasia tanto è più robusta quanto è
più debole il raziocinio » (/bid., Degn. 36). Lo stesso concetto della P. come
stimolo o partecipazione emotiva si trova nella teoria dell’empatia (v.) che
considera l’attività estetica come la proiezione delle emozioni del soggetto
nell’oggetto estetico. L’empatia è, secondo il principale sostenitore della
teoria Teodoro Lipps, un atto originale, essenzialmente indipendente dall’associazione
delle idee e radicato profonda- mente nella stessa struttura dello spirito
umano (Aesthetik I, 1903, pag. 112 sgg.): essa è così postu- lata come una
facoltà a sè alla quale è affidata, con la funzione di animare la bruta
materialità del mondo esterno, quella di rendere il mondo familiare e piacevole
all’uomo. Infine l’ultimo erede di questo concetto della P. è il neocempirismo contemporaneo.
Sulla base della distinzione tra l’uso simbolico del linguaggio e il suo uso
emotivo, nella P. è stata riconosciuta « la suprema forma del linguaggio
emotivo » cioè di quel linguaggio che ha unicamente lo scopo di stimolare «
emozioni e atteg- giamenti » (I. A. RICHARDS, Principles of Literary Criticism,
1924; 148 ediz., 1955, pag. 273). La funzione simbolica (o scientifica) del
linguaggio consiste nel simbolizzare il riferimento all’oggetto e nel
comunicare tale riferimento all’ascoltatore cioè nel causare nell’ascoltatore
il riferimento allo stesso oggetto. Invece la funzione emotiva consiste nel- POESIA
l’esprimere emozioni, atteggiamenti, ecc., nell’evocarli nell’ascoltatore:
funzioni che possono essere com- prese in quella della «evocazione » cioè della
stimola- zione dell’emozione (C. K. OGDEN, I. A. RICHARDS, The Meaning of
Meaning, 1923, 10 ediz., 1952, pag. 149). Ovviamente, questo punto di vista non
è che la ripetizione quasi letterale del punto di vista platonico. E non
diverso significato ha la defini- zione data da C. Morris del discorso poetico
come « discorso principalmente valutativo-apprezzativo » cioè diretto a
«ricordare e sostenere valutazioni già raggiunte» o a «esplorare nuove
valutazioni + (Signs, Language and Behavior, 1946, V, 7). 2° La concezione
della P. come verità ri- monta ad Aristotele. Aristotele riportò la P. alla tendenza
all’imitazione, che ritenne innata in tutti gli uomini come manifestazione
della tendenza al conoscere (Poer., 6, 1448 b 5-14). L’imitazione poetica ha,
secondo Aristotele, una validità cono- scitiva superiore all’imitazione
storiografica, perchè la P. non rappresenta le cose realmente accadute ma «le
cose ibili secondo verisimiglianza e necessità » (/bid., 1451 a 38). Perciò
essa «è più filosofica e più elevata della storia perchè esprime l’universale
mentre la storia esprime il particolare. Si ha l’universale infatti quando a un
individuo di una certa indole accade di dire o di fare certe cose in base alla
verisimiglianza e alla necessità, ed è questo a cui mira la P. che dà nome al
per- sonaggio proprio in base a tal criterio. Si ha invece il particolare
quando si dice, ad es., che cosa fece Alcibiade e che cosa gli capitò » (/bid.,
9, 1451 b 1, 10). Queste famose determinazioni aristoteliche equivalgono a
porre la P. nella sfera della verità filosofica: giacchè questa coglie
l’essenza necessaria delle cose e l'essenza, nel dominio delle vicende umane, è
costituita dai rapporti di verisimiglianza e necessità che sono oggetto della
poesia. La P. pertanto non ha un grado di verità inferiore alla filosofia ma ha
la stessa verità della filosofia nel dominio che le è proprio e che è quello
dei fatti umani. Questa concezione della P. ha dominato la tradizione
filosofica, nella quale possono distin- guersi di essa due interpretazioni
fondamentali: A) si può scorgere nella P. una verità per grado o per natura
diversa da quella intellettuale o filosofica; B) si può scorgere nella P. la
verità filosofica assoluta. A) La prima posizione è quella con cui è nata l'estetica
moderna. Baumgarten affermò che l’og- getto estetico, la bellezza, è «la
perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale » e che perciò esso non
coincide con l’oggetto dell’intelletto cioè con la conoscenza distinta
(Aesthetica, 1750-58, $ 14). Come perfezione della conoscenza sensibile, la
bellezza è universale, ma di un’universalità diversa da quella della conoscenza
perchè astrae POESIA dall’ordine e dai segni e realizza una forma di unificazione
puramente fenomenica (/bid., $ 18). In particolare la P. è, secondo Baumgarten,
« un discorso sensibile perfetto» tale cioè che i suoi vari elementi (le
rappresentazioni, i loro nessi, le voci o segni che le esprimono) tendono alla conoscenza
delle rappresentazioni sensibili (Medi- tationes philosophicae de nonnullis ad
poema perti- nentibus, 1735, $ 1-9). La determinazione « sensibile + chiarisce
il carattere della P. per il quale essa ha per oggetto rappresentazioni chiare,
sì, ma confuse: mentre le rappresentazioni chiare e distinte cioè com- plete e
adeguate non sono sensibili e quindi neppure poetiche, sicchè filosofia e P.
non si trovano insieme, richiedendo la prima quella distinzione di concetti che
la seconda respinge al di fuori del suo dominio (Medit., cit., $ 14).
Analogamente Vico affermava: « La sapienza poetica, che fu la prima sapienza
della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed
astratta quale questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette
essere di tali primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e
tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie» (Sc. Nuova, 1744, II, Della
sapienza poetica). Ma fu Hegel che dette a questa tesi la migliore espressione.
«La P., egli scrisse, è più antica del linguaggio prosastico artisticamente
formato. Essa è la rappresentazione originaria del vero, è il sapere nel quale
l’universale non è stato ancora separato dalla sua esistenza vivente nel
particolare, nel quale la legge e il fenomeno, lo scopo e il mezzo non sono
ancora stati contrapposti l’uno all’altro, per poi venir di nuovo connessi con
il ragionamento, ma si compren- dono l’uno nell'altro e attraverso l’altro.
Perciò la P. non si limita ad esprimere attraverso l’immagine un contenuto che
è già conosciuto per sè nella sua universalità, ma all’apposto, conformemente
al suo concetto immediato, essa rimane nell’unità sostanziale nella quale non
ancora è stata fatta una tale separazione o stabilito un tale rapporto + (Vorlesungen
iiber die Aesthetik, ed. Glockner, III, pag. 239). Con ciò la P. (come l’intero
dominio dell’arte) rimane pur sempre, per Hegel, al di qua o al di sotto della
filosofia, nella quale soltanto l’Idea si rivela o si attua nella sua vera
natura, che è universalità o ragione, non immediatezza o immagine; ma
appartiene tuttavia, insieme con la filosofia e con la religione (alla quale
anche è subor- dinata) alla sfera della Verità assoluta. Nell’idea- lismo di
derivazione romantica il concetto di P. è rimasto sostanzialmente quello
espresso da Hegel. Croce, dopo avere insistito sulla priorità dell’arte rispetto
alla conoscenza intellettuale vera e propria, quindi sulla sua relativa
autonomia di fronte alla filosofia (con la quale però non ha mai negato 675 che
l’arte condividesse lo status di conoscenza), ha finito per insistere sempre
più sui caratteri di totalità e di universalità dell’espressione artistica: caratteri
che ravvicinano tale espressione alla verità filosofica. « L'espressione
poetica, egli scrisse, è, diversamente dal sentimento, una feorési, un conoscere
e perciò stesso, laddove il sentimento aderisce al particolare e per alto e
nobile che sia nella sua scaturigine, si muove necessariamente nella unilateralità
della passione, nell’antinomia del bene e del male e nell’ansia del godere e
del soffrire, la P. riannoda il particolare all’universale, accoglie sorpassandoli
del pari dolore e piacere e di sopra il cozzare delle parti contro le parti,
innalza la visione delle parti nel tutto, sul contrasto l'armonia, sull’angustia
del finito la distesa dell’infinito. Questa impronta di universalità e di
totalità è il suo carat- tere » (La poesia, 1936, pag. 8-9). Con ciò il valore
della P. veniva posto proprio nella sua teoreticità cioè nella sua validità
conoscitiva; e la P. veniva ad essere quello che già Hegel aveva detto che
fosse: una verità filosofica che si manifesta nell’immediatezza dell'immagine
anzichè nell’universalità del concetto. B) Accanto a questa concezione sta
l’altra che, pur essendo strettamente imparentata con essa, vede nella P. non
l’approssimazione alla verità assoluta ma la stessa verità assoluta. Già Schiller
si era espresso, a proposito della poesia in questi termini. Nello scritto
Sulla poesia ingenua e senti- mentale (1795-96) aveva affermato che il poeta o
è natura egli stesso cioè sente naturalmente e quindi imita la natura; o si
sente estraniato dalla natura e ne va in cerca nostalgicamente configurandola
come ideale. Nel primo caso, il poeta è ingenuo come nell’antica Grecia; nel
secondo caso è sentimentale, come nell'età moderna. Ma in entrambi i casi, la
P. è l'assoluto. Difatti la P. ingenua è rappre- sentazione assoluta cioè
conclusa, totale e definitiva; e la P. sentimentale è rappresentazione
dell’assoluto cioè di un ideale compiuto, per quanto lontano, di perfezione
(Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 122 sgg.). Schiller fu ben deciso a mantenere
su questo punto la superiorità della P. sulla filosofia: egli non esitava ad
affermare che«l’unicoverouomo è il poeta e nei suoi confronti il miglior
filosofo è solo una caricatura » (Carteggio Goethe-Schiller, 7-1-1795; trad.
Santangelo). Questa tesi rappresenta indubbia- mente un filone importante e ben
determinato della concezione romantica della poesia. Diceva Schelling: «La
facoltà poetica è ciò che nella prima potenza è l’intuizione originaria; e
viceversa, la sola intui- zione produttiva che si ripeta nella più alta potenza
è ciò che noi chiamiamo facoltà poetica » (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, VI, $ 3). La facoltà poetica realizza in atto l’unità
dell’attività conscia e dell’attività inconscia, che costituisce 676 la natura
dell’Io assoluto. « Ciò che chiamiamo natura è un poema, chiuso in caratteri
misteriosi e mirabili. Ma se l’enigma si potesse svelare noi vi conosceremmo
l'odissea dello Spirito, il quale, per mirabile illusione, cercando se stesso,
sfugge se stesso» (/bid.). Nella filosofia contemporanea questo punto di vista
è stato riespresso da Hei- degger: « La P. è la nominazione fondatrice del- l'essere
e dell’essenza di tutte le cose; non è un qualsiasi semplice dire ma è quello
per il quale si trova inizialmente rivelato tutto ciò che noi dibattiamo e
trattiamo in seguito nel linguaggio di tutti i giorni. In conseguenza, la P.
non riceve mai il linguaggio come una materia da manipolare e che gli sarebbe
presupposta ma al contrario è la P. che comincia a rendere possibile il
linguaggio. La P. è il linguaggio primitivo di un popolo e l’essenza del
linguaggio dev'essere compresa a partire dall’essenza della P.» (Holderlin und
das Wesen der Dichtung, 1936, $ 5). Come linguaggio originario, la P. è la
verità stessa vale a dire la manifestazione o svelamento dell’Essere (Holzwege,
1950, pag. 252 sgg.). 3° La terza concezione fondamentale è a prima vista meno
filosofica delle altre perchè non consiste nel riconoscere alla P. un compito
determi- nato in una metafisica particolare nè nel connet- terla con una
determinata facoltà o categoria dello spirito o nel riservarle un posto
nell’enciclopedia del sapere umano, ma soltanto nel porre in luce certi tratti
che la P. possiede nelle sue più riu- scite realizzazioni storiche e nel
riassumerli in una definizione generalizzante. Tuttavia questo è il solo
procedimento che può dar luogo a una defi- nizione funzionale della P.: ad una
definizione cioè che si presti ad esprimere e a orientare l’effettivo lavoro
dei poeti. A tale definizione hanno pertanto contribuito i poeti stessi, più
che i filosofi, per quanto anche questi hanno talora saputo cogliere aspetti
importanti di essa. Ovviamente, da questo punto di vista, la P., almeno a prima
vista, non è che un certo modo privilegiato di espressione linguistica:
privilegiato in virtù di una speciale funzione che gli si riconosca. Il
privilegio ricono- sciuto al modo poetico dell’espressione è frequente- mente
determinato come «libertà ». Kant dopo aver detto che « le arti della parola »
sono l’eloquenza e la P., afferma: «L’eloquenza è l’arte di trat- tare un
compito dell’intelletto come se fosse un libero giuoco dell'immaginazione; la
P. è l'arte di dare ad un libero giuoco dell’imma- ginazione il carattere di un
compito dell’intel- letto » (Crit. del Giud., $ 51). Qui la nozione di « giuoco
» serve a sottolineare il carattere libero del- l’attività poetica nei
confronti di qualsiasi scopo uti-litario; e la nozione di « compito
dell’intelletto » sta POESIA a significare la disciplina che la P. si dà pur
nella libertà del suo giuoco. Da questo punto di vista la funzione
dell’espressione poetica è la liberazione del linguaggio dai suoi usi utilitari
e la sua elabora- zione in una disciplina autonoma. Sugli stessi carat- teri
dell'espressione poetica ha insistito Dewey. Se tra prosa e P. egli dice, non
c’è una differenza esattamente definibile, tra prosaico e poetico c’è un abisso
in quanto sono termini estremi limitativi di tendenze dell’esperienza. Il
prosaico realizza il potere delle parole di esprimere « per mezzo del- l'estensione
»; il poetico quello di esprimere per mezzo dell’intensione. Il prosaico è
questione di descrizione e di narrazione e accumula dettagli; il poetico,
inverte il processo, « condensa e abbrevia, dando così alle parole un’energia
di espansione che è quasi esplosiva ». Perciò nella P. « ogni parola è
immaginativa, come fu in verità anche in prosa fino a quando, per il logorio
dell’uso, le parole non furono ridotte ad essere semplici enumeratori +» e «la
forza immaginativa della letteratura è un’inten- sificazione della funzione
idealizzante assolta dalle parole nel linguaggio ordinario » (Art as
Experience, 1934, cap. 10; trad. ital, pag. 284-85). L'inten- sione di cui
parla Dewey non è un'intensità emotiva, ma un’intensità espressiva, cioè una
carica maggiore del significato delle parole non consunte dall’uso. Ora che
alla P. sia affidata questa funzione di conservare e ripristinare nel
linguaggio la sua carica di significato, di ripulirlo e mantenerlo efficiente,
di rinnovarlo e perfezionarlo, è quanto hanno detto, da un secolo a questa
parte, molti poeti che hanno riflettuto sul loro proprio lavoro. Le tesi
fondamentali della concezione della P. elaborata o presupposta dai poeti
moderni possono essere ricapitolate nel modo seguente: 1° L'indipendenza della
P. da ogni scopo interessato o utilitario. Questo carattere venne espresso con
la formula dell’arte per l’arte, alla quale aderirono nel secolo scorso artisti
come Flaubert, Gautier, Baudelaire, Walter Pater, Oscar Wilde e Allan Poe.
L'obbiettivo contro cui questa formula è diretta è la subordinazione della P. all’emozione
o alla verità o al dovere; il suo signi- ficato positivo è la libertà della P.
nel senso in cui era stato affermato, per es., da Kant. « Comporre semplicemente
versi, scrivere un romanzo, scal- pellare il marmo, son cose che andavan bene
una volta, dice Flaubert, quando non c’era la missione sociale del poeta. Ora
ogni opera deve avere il suo significato morale, il suo ben dosato
insegnamento; bisogna che un sonetto abbia una portata filosofica, che un
dramma pesti le dita ai monarchi e. che un acquarello ingentilisca i costumi.
L’avvocatume s'insinua dappertutto insieme con la smania di discutere, di
perorare e arringare» (Leftre dè POESIA Louise Colet, 18 settembre 1846). E
Gautier pro- clamava nell’editoriale introduttivo del periodico L’artiste (14
dicembre 1856): «Noi crediamo nell'autonomia dell’arte; per noi l’arte non è un
mezzo per un fine; un artista che persegue un
obbiettivo diverso dal bello non è,
secondo noi, un artista ». La formula dell’arte per l’arte è perciò sostanzialmente
la difesa della P. contro ogni tentativo di farne lo strumento di propaganda di
uno scopo qualsiasi. 2° Il riconoscimento della bellezza come unico fine della
poesia. Poichè l’arte non può essere subordinata al bene o al vero o a cose che
pretendano avere tali caratteri, rimane, come suo unico fine, la bellezza; e
precisamente la bellezza formale cioè indipendente dai contenuti che le sono
offerti dall'emozione o dall’intelletto. Dice Flaubert: « Poeta della forma!
Ecce la gran parola ingiuriosa che gli utilitari gettano in faccia ai veri
artisti... Non ci sono bei pensieri senza belle forme e vice- versa... Si
rimprovera chi scrive in buono stile di trascurare l’idea, il fine morale; come
se il compito del medico non fosse di sanare, quello del pittore di dipingere,
quello dell’usignolo di cantare e il fine dell’arte non fosse, anzitutto, il
bello +» (Lettre à Louise Colet, 18 settembre 1846). E Poe affermava: « La P.
come arte della parola è la creazione ritmica della bellezza. Il solo arbitro
di essa è il gusto: con l’intelletto o con la coscienza essa ha solo relazioni
collaterali. Ameno che non sia per caso, non si cura assolutamente nè del
dovere nè della verità » (« The Poetic Principle », Works, ed. Har- rison, XIV,
pag. 275). 3° Il carattere oggettivo della bellezza, per cui essa è al di là
dell’emozione vissuta. Diceva Flaubert: « Meno si sente una cosa € più si è
atti ad esprimerla qual è (qual è sempre, in sè, nella sua universalità. liberata
da tutte le sue contingenze effimere), Bisogna però possedere la facoltà di
farla sentire a se stessi, facoltà che non è altro che il genio » {Lettre à
Louise Colet, 6 luglio 1852). E T. S. Eliot ha ribadito: «La P. non è un libero
movimento dell’emozione ma una fuga dall'emozione; non è l'espressione della
personalità, ma la fuga dalla personalità. Naturalmente però solo coloro che posseggono
personalità ed emozione sanno che cosa s'intende dire accennando alla necessità
della fuga da queste cose... L'emozione dell’arte è impersonale. E il poeta non
può raggiungere questa impersonalità senza arrendersi interamente all’opera che
dev'essere fatta» (7hie Sacred Wood, 1920; trad. ital., pag. 124-25). Nello
stesso senso Unga- retti ha detto: « Tutta la mia attività poetica, dal 1919,
si svolgeva in quel senso; un senso più obbiettivo... cioè una proiezione e una
contempla- zione dei sentimenti negli oggetti, un tentare di 677 elevare a idee
e miti la propria esperienza biografica » (La terra promessa, Nota di Leone
Piccioni). 4° Il carattere costruttivo della P. e costruito della bellezza. Su
esso hanno insistito Poe, Bau- delaire e Valéry. Il primo ha descritto la
costruzione di una P. come una specie di lavoro artigiano (« The Philosophy of
Composition » in Works, ed. Harrison, XIV, pag. 196). Baudelaire dal suo canto
ha insistito sul concetto dell’arte come com- posizione: «Tutto l’universo
visibile, egli ha detto, non è che un magazzino di immagini e di segni ai quali
l'immaginazione darà un posto e un valore relativo; è una specie di foraggio
che l’immagina- zione deve digerire e trasformare» («Salon de 1859 », (Euvres,
ed. Le Dantec, II, pag. 232). Ma è soprattutto Valéry che ha insistito, ai
nostri giorni, sul carattere dell’arte come costruzione: « Le crea- zioni
dell’uomo, egli ha detto, sono fatte o in vista del proprio corpo — e tale
principio egli chiama utilità — o in vista della propria anima; e questo egli
cerca sotto il nome di bellezza. Ma d’altra parte colui che costruisce o che
crea, impegnato com'è con il resto del mondo e col movimento della natura che
tendono perpetuamente a dissol- vere, corrompere o rovesciare quel che egli fa,
deve ravvisare un terzo principio che tenta di comunicare alle proprie opere e
che esprima la resistenza che dev’essere da queste opposta al proprio destino
di periture. Crea insomma la solidità e la durata. Ecco le grandi
caratteristiche di un’opera completa. L'architettura soltanto le esige e le
porta al punto più alto. Ad essa io guardo come all’arte più completa »
(Eupalinos, trad. ital., pag. 141-42). Il carattere architettonico dell’arte è
così condizionato dalla resistenza che essa incontra nelle forze naturali e
dalla vittoria sopra questa resistenza. Dall’altro lato un corollario, del
carat- tere costruttivo o architettonico dell’attività poetica è il controllo
sull’ispirazione, controllo sul quale aveva già insistito Baudelaire: « Un
nutrimento sostanzioso e regolare, egli aveva scritto, è la sola cosa
necessaria agli scrittori fecondi. L'ispirazione è decisamente la sorella del
lavoro giornaliero. Questi due contrari non si escludono più che non si escludano
i contrari che costituiscono la natura. L’ispirazione obbedisce, come la fame,
come la digestione, come il sonno» (« Conseils aux jeunes littérateurs +, 6,
Euvres, ed. Le Dantec, II, pag. 388). 5° L’insistenza sul carattere
comunicativo della poesia. Diceva Flaubert: « Il poeta deve simpatiz- zare con
tutto e con tutti per comprenderli e descriverli » (Lettre à M.Ile Leroyer de
Chantepie, 12 dicembre 1857). E Baudelaire: « Preferisco il poeta che si mette
in comunicazione permanente con gli uomini del suo tempo e scambia con essi pensieri
e sentimenti tradotti in un nobile linguaggio 678 sufficientemente corretto. Il
poeta, situato su uno dei punti della circonferenza dell’umanità, rinvia sulla
stessa linea, in vibrazioni più melodiose, il pensiero umano che gli fu
trasmesso. Ogni vero poeta dev’essere un’incarnazione» (« Pierre Du- pont +,
CEuvres, ed. Le Dantec, II, pag. 404). 6° La ricerca della perfezione formale
cioè dell’esattezza o della precisione espressiva. Flau- bert voleva che la P.
fosse «precisa quanto la geometria » (Lettre à Louise Colet, 14 agosto 1853) e
affermava: « Più un’idea è bella e più la frase è armoniosa. La precisione del
pensiero fa (anzi è, essa stessa) la precisione della parola» (Lettre à M.lle
Leroyer de Chantepie, 12 dicembre 1857). Mallarmé ha insistito su quest’aspetto
della P.: «L'arte suprema, egli diceva, consiste nel lasciar vedere, col
possesso impeccabile di tutte le facoltà, che si è in estasi, senza aver
mostrato come ci s’innalzava verso le cime» (Lettre à Henri Cazalis, 27
novembre 1863). Valéry ha scritto allo stesso proposito: «Ho cercato
l’esattezza nei pensieri, sicchè, palesemente generati dall’osservazione delle cose,
si mutino, come per processo spontaneo, negli atti della mia arte. Ho
distribuito le mie attenzioni; ho rifatto l'ordine dei problemi; comincio dove
prima finivo per andare un poco più in là... Avaro di fan- tasie, concepisco
come se inseguissi » (Eupalinos; trad. ital., pag. 91). E Ungaretti ha detto
nello stesso senso: «Sognavo una P. dove la segretezza dell’a- nimo, non
tradita nè falsata negli impulsi, si conci- liasse a una estrema sapienza di
discorso » (Quaranta sonetti di Shakespeare, Nota intr.). Mallarmé ha esteso la
preoccupazione dell’esattezza allo stesso segno scritto. « L’armatura
intellettuale del poema, egli ha detto, si dissimula e sostiene — ha luogo — nello
spazio che isola le strofe e fra il bianco della carta: significativo silenzio
che non è meno bello a comporsi degli stessi versi » (Lertre non datée à
Charles Morice; cfr. Propos sur la poésie, edi- zione Mondor, pag. 164). 7°
Infine, e come ricapitolazione di tutti gli aspetti precedentemente enumerati
della P.: il compito ad essa attribuito di tenere in efficienza il linguaggio.
Questo compito è stato illustrato con tutta l’energia e la chiarezza
desiderabili da Fzra Pound. La funzione della letteratura egli ha scritto « non
è la coercizione o la persuasione per via emotiva» nè il forzare la gente a una
certa opinione. « Essa riguarda la chiarezza e il vigore di qualsiasi pensiero
e opinione. Riguarda la preser- vazione e la pulizia stessa degli strumenti, la
salute della sostanza stessa del pensiero. Tranne che nei casi rari e limitati
di invenzione nelle arti plastiche o nella matematica, l’individuo non può
pensare e comunicare il suo pensiero, il reggitore e il legi- slatore non
possono agire efficacemente e redigere le POETICA loro leggi, senza le parole,
e la solidità e validità di queste parole sono affidate alla cura dei maledetti
e disprezzati letterati » (Literary
Essays; trad. ital., pag. 47). Da questo punto di vista « mantenere efficiente
il linguaggio è altrettanto importante ai fini del pensiero come in chirurgia
tener lontano dalle bende i bacilli del tetano » e questo compito è proprio
della P. che « è semplicemente linguaggio carico di significato al massimo
grado possibile + (Ibid., pag. 49). C’è un triplice modo in cui la P. esegue
questo compito e perciò ci sono tre generi di P.: la melopea, per cui «le
parole sono caricate, al di là del loro significato comune, di qualche qualità
musicale che condiziona la portata e la direzione di quel significato »; la
fanopea, che è «un proiettare le immagini sulla fantasia visiva +; e la
/ogopea, per cui le parole vengono usate non solo nel loro significato diretto
ma anche in vista delle consuetudini d’uso, del contesto, delle conco- mitanze
abituali, delle accezioni note e del giuoco ironico (/bid., pag. 52). Non c’è
dubbio che queste notazioni di Pound costituiscono il punto culminante dell’estetica
contemporanea della poesia. POETICA. V. ESTETICA. POIETICO (gr. romuxés; ingl.
Poietic; fran- cese Poietique; ted. Poietik). Produttivo o creativo, in quanto
distinto da pratico. Secondo Aristotele l’arte è produttiva mentre l’azione non
lo è (£r. Nic., VI, IV, 1140a 4). Plotino chiamava P. le cause efficienti
(Enn., VI, 3, 18, 28). V. ENCICLOPEDIA. POLARITÀ (ingl. Polarity; franc.
Polarité; ted. Poldritar). La connessione necessaria di due princìpi tra loro
opposti. In questo senso il concetto fu adoperato da Schelling nello scritto
Sull'amima del mondo (1798). L’anima del mondo, secondo Schelling, agisce nella
natura mediante le due forze opposte della attrazione e della repulsione, il
cui conflitto costituisce il dualismo e la cui unifica- zione costituisce la P.
della natura (Werke, I, II, pag. 381). Talvolta il concetto di P. è stato
genera- lizzato in un vero e proprio principio. Così ha fatto, nella filosofia
contemporanea, Morris R. Cohen che l’ha inteso come « il principio non del- l’identità
ma della necessaria compresenza e reci- proca subordinazione delle
determinazioni opposte +. Nella fisica, questo principio sarebbe rappresentato dalla
legge di azione e reazione e da quella che là dove c’è forza c’è resistenza. In
biologia, sarebbe espresso dall’aforisma di Huxley che il protoplasma riesce a
vivere solo morendo di continuo. Nell’etica, si esprimerebbe nella dipendenza
reciproca tra sacri- ficio di sè e realizzazione di sè (/nrroduction to Logic,
IV, 2; trad. ital., pag. 125). POLEMICO (ingl. Polemic; franc. Polémique; ted.
Polemisch). Kant ha inteso per « uso P. della ragione » la difesa degli
enunciati di essa contro POLITICA le negazioni dogmatiche. Le negazioni
dogmatiche degli enunciati razionali sono le negazioni scettiche, considerate
da Kant come le posizioni di un dogma- tismo negativo, semplicemente
preparatorio rispetto ad una critica della ragione cioè ad un esame dei limiti
e dei confini precisi della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dottrina
trascendentale del metodo, cap. 1, sez. 2). POLIADICO (ingl. Polyadic). Nella
logica contemporanea sono qualificati con questo termine gli enunciati (o le
relazioni) costituiti da tre o più termini: per es., l’enunciato «Tizio deve a
Caio mille lire» dove compaiono tre termini, Tizio, Caio e mille lire (cfr., ad
es., DEWEY, Logic, XVI; trad. ital., pag. 413 sgg.). POLIGENESI. V. ORTOGENESI.
POLIGONIA. Gioberti parlò di una «P. del cattolicesimo » cioè del rifrangersi
della parola rivelata nell’individualità dei singoli pur mantenen- dosi una,
come uno è il poligono sebbene abbia infiniti lati (Riforma cattolica, ed.
Balsamo-Crivelli, pag. 147-48). Lo stesso che multilateralità. POLILEMMA (ingl.
Polilemma; franc. Poli- lemme; ted. Polilemma). Termine moderno per indicare un
dilemma (v.) a tre o più alternative (TRroxLER, Logik, II, 1829, pag. 102; B.
ERDMANN, Logik, 1892, $ 75). POLIMATIA (gr. roQvpadia). Il saper molte cose.
Disse Eraclito: «Il saper molte cose non insegna ad avere intelligenza;
altrimenti l’avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora e tanto più a Senofane e
ad Ecateo» (Fr. 40, Diels). Kant ha chiamato P. il possesso delle conoscenze
razionali, mentre polistoria sarebbe il sapere storico o dei fatti e pansofia
l'insieme dei due (Logik, Intr., $ VI). POLISEMIA (ingl. Polysemy; franc. Poly-
sémie; ted. Polysemie). La diversità dei riferimenti semantici (dei «
significati ») posseduti da una stessa parola (cfr. BréAL, Essai de sémantique,
cap. 14; S. ULLMANN, The Principles of Semantics, 2* ediz., 1957, pag. 63, 114,
174). POLISILLOGISMO
(ingl. Polysyllogism; franc. Polysyllogisme; ted. Polysyllogismus). Ter- mine settecentesco per indicare un sillogismo
mol- teplice o composto, cioè una catena di sillogismi. Tale catena può essere
ordinata in modo tale che ogni sillogismo sia il fondamento di quello che segue
e la conseguenza di quello che precede. Il sillogismo della serie che contiene
la ragione della premessa di un altro sillogismo è chiamato prosil- logismo;
quello che contiene la conseguenza di un altro sillogismo è chiamato
episillogismo (v.). Ogni catena di ragionamenti è perciò costituita di pro- sillogismi
e di episillogismi (WOLFF, Log., $ 492-94; KANT, Logik, $ 86; HAMILTON,
Leciures on Logic, $ 68; B. ERDMANN, Logik, $ 85). 679 POLITEISMO (ingl.
Polytheism; franc. Po- Iythéisme; ted. Polytheismus). Sulla nozione di P., v.
Dro, 3, «). Il P. è ben lungi dall’essere una cre- denza primitiva e
grossolana, inconciliabile con la riflessione filosofica. Poichè esso è
presente già nella distinzione tra la divinità e Dio, sono in realtà politeistiche
molte filosofie talora assunte come ti- picamente monoteistiche, per es.,
quella di Ari- stotele. Il P. è stato talora esplicitamente difeso dai filosofi
moderni. Già Hume osservava nella Storia naturale della relîgione (1757), che
il pas- saggio dal P. al monoteismo non deriva dalla riflessione filosofica ma
dal bisogno umano di adu- lare la divinità per tenersela buona; e che al mono- teismo
si accompagna spesso l’intolleranza e la persecuzione giacchè il riconoscimento
di un unico oggetto di devozione conduce a considerare as- surdo ed empio il
culto di altre divinità (Essays, II, pag. 335 sgg.). Nell’età moderna sulla
superio- rità del P. hanno insistito Renouvier (Psychologie rationelle, 1859,
cap. 25) e James (A Pluralistic Universe, 1909); ma politeistiche sono molte
altre dottrine, compresa quella di Bergson. Max Weber ha considerato il P. come
la lotta fra i diversi valori o le diverse sfere di valori tra cui l’uomo deve
pren- dere posizione e che non si conclude mai con la vittoria di un valore
solo. In questo senso il mondo dell’esperienza non arriva mai al monoteismo ma si
ferma al P. (Zwischen zwei Gesetze, 1916, in Gesammelte Politische Schriften,
pag. 60 sgg.). POLITICA (gr. rormxh; lat. Politica; inglese Politics; franc.
Politique; ted. Politik). Sotto questo nome sono state intese più cose e
precisamente: 1° la dottrina del diritto e della morale; 2° la teoria dello
Stato; 3° l’arte o la scienza del governo; 4° lo studio dei comportamenti
intersoggettivi. 1° Il primo concetto è quello esposto nell’Etica di
Aristotele. La ricerca intorno a ciò che dev'essere il bene e il bene supremo
sembra appartenere, dice Aristotele, alla scienza più importante e più archi- tettonica.
«E questa pare che sia la politica. Essa infatti determina quali scienze sono
necessarie nelle città e quali, e fino a che punto, ciascun cittadino deve
apprenderle» (E. Nic., I, 2, 1094a 26). Questo concetto della P. è rimasto
lungamente nella tradizione filosofica. Diceva, ad es., Hobbes: «La P. e
l’etica, cioè la scienza del giusto e del- l’ingiusto, dell’equo e dell’iniquo,
si può dimostrare a priori in quanto i princìpi coi quali si può giu- dicare
che cosa siano il giusto e l’equo o i loro contrari, cioè le cause della
giustizia, cioè le leggi o le convenzioni, li abbiamo fatti noi stessi» (De Hom.,
X, $ 5). In questo senso Althusius intitolava il suo trattato sul diritto
naturale Politica metho- dice digesta (1603): e trattati di P. furono conside-
rati tutti gli scritti sul diritto naturale (v. DIRITTO). 680 2° Il secondo
significato del termine è quello esposto nella Politica di Aristotele. «È
chiaro, diceva Aristotele, che c'è una scienza cui spetta di cercare quale sia
la migliore costituzione: quale più di ogni altra sia adatta a soddisfare i
nostri ideali, quando non vi fossero impedimenti esterni; e quale si adatti
alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica. Poichè è quasi
impossibile che molti possano attuare la migliore forma di go- verno, il buon
legislatore e il buon uomo politico devono sapere quale sia la migliore forma
di go- verno in senso assoluto e quale sia la migliore forma di governo entro
certe condizioni date + (Pol., IV, 1, 1288 b 21). In questo senso la P. ha due
compiti, secondo Aristotele: 1° quello di de- scrivere la forma di uno Stato
ideale; 2° quello di determinare la forma del migliore Stato possibile in
rapporto a circostanze date. Ed effettivamente la P. come teoria dello Stato ha
seguito o la via utopistica della descrizione dello Stato perfetto, secondo
l’esempio della Repubblica di Platone, o quella più realistica dei modi e delle
vie per mi- gliorare la forma dello Stato, che è quella che Aristotele stesso
seguì in una parte del suo trattato. Le due parti tuttavia non sono sempre
agevol- mente distinguibili e non sempre sono state di- stinte. Quando a
partire da Hegel lo Stato cominciò a essere considerato come « il Dio reale +
(v. STATO)
e il carattere della divinità dello Stato
fu accettato dalla scuola storica, la P., come teoria dello Stato, volle avere
carattere descrittivo e normativo in- sieme. Così Treitschke delineava il
compito di essa in questo senso: «Il compito della P. è triplice: deve in primo
luogo investigare, dall’osservazione del mondo reale degli Stati, qual'è il
concetto fon- damentale dello Stato; in secondo luogo indagare storicamente ciò
che nella vita politica i popoli hanno voluto, prodotto e conseguito e il
perchè lo hanno conseguito; e in terzo luogo, ciò facendo, essa giunge a
scoprire alcune leggi storiche e a stabilire gli imperativi morali » (Politik,
1897, Intr.; trad. ital, I, pag. 2-3). Come già nell’opera del Treitschke, la
P. come teoria dello Stato è stata spesso una teoria dello Stato come forza:
tale in- fatti essendo il significato di ogni divinizzazione dello Stato (v.). 3°
La P. come arte o scienza di governo è il concetto che Platone espose e difese
nel Politico con il nome di «scienza regia » (Pol., 259a-b) e che Aristotele
assunse come rerzo compito della scienza politica. « Un terzo ramo della
ricerca è quello il quale considera in che modo un governo è sorto e in che
modo, una volta sorto, può essere conservato per il maggior tempo possibile »
(Zbid., IV, 1, 1288 b 27). Fu questo il concetto della P. di cui Machiavelli
accentuò il crudo realismo con POLITICA famose parole: «E molti si sono
immaginati re- pubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti
essere in vero. Perchè elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe
vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare,
impara piuttosto la ruina che la preservazione sua; perchè uno uomo, che voglia
fare in tutte le parti professione di buono, con- viene rovini infra tanti che
non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mante- nere,
imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità
» (Princ., XV). In questo senso Wolff definiva la P. come «la scienza di
dirigere le azioni libere nella società civile o nello Stato » (Log., Disc., $
65). E questa è la scienza o l’arte politica cui si fa più frequente rife-
rimento nel discorso comune. Riferendosi appunto a questo concetto Kant diceva:
« Per quanto la massima: L’onestà è la migliore P., implichi una teoria che la
pratica purtroppo smentisce assai spesso, tuttavia la massima parimenti
teoretica l’onestà è migliore di ogni P., è al di sopra di ogni obiezione, è
anzi la condizione indispensabile della P.» (Zum ewigen Frieden, Appendice, I).
E Hegel dall’altro lato diceva: « Si è discusso molto, un tempo, dell’antitesi
tra morale e P. e dell’esi- genza che la seconda sia conforme alla prima. A questo
punto conviene solo notare in generale che il bene di uno Stato ha un diritto
del tutto diverso dal bene del singolo e che la sostanza etica, lo Stato, ha la
sua esistenza, cioè il suo diritto, immediata- mente in un'esistenza non
astratta ma concreta e che soltanto quest’esistenza concreta, non una delle molte
proposizioni generali, ritenute per precetti morali, può essere principio del
suo agire e del suo comportamento. Anzi, la veduta del torto pre- sunto che la
P. deve sempre avere, in questa antitesi presunta, si fonda ancora sulla
superficialità delle concezioni della moralità, della natura dello Stato e dei
suoi rapporti dal punto di vista morale» (Fil. del Dir., $ 337). Queste parole
di Hegel non sono che la riconferma del principio del machia- vellismo. Ciò che
Hegel chiama l’esistenza dello Stato non è altro che la realtà effettuale di
Ma- chiavelli che la P. dovrebbe sempre avere presente. Per quanto Hegel
dichiarasse superata l’antitesi tra P. e morale, il contrasto tra le due
esigenze è tuttora vivo nella pratica politica e nella coscienza comune e le
forme di equilibrio, da esse raggiunte, sono tuttora provvisorie e instabili. 4°
Infine il quarto significato di P. è quello che essa ha cominciato ad avere a
partire da Comte e si identifica con quello di sociologia. Comte chiamò Sistema
di P. positiva (1851-54) la sua massima trattazione di sociologia in quanto ri-
tenne che i fenomeni politici sono soggetti, sia POSITIVISMO nella loro
coesistenza sia nella loro successione, a leggi invariabili, il cui uso può
permettere di in- fluenzare i fenomeni stessi. G. Mosca intese per P. proprio
la scienza della società umana in questo senso. Così egli giustificava il
termine: « Noi lo studio delle tendenze suddette [cioè delle « leggi o tendenze
psicologiche costanti alle quali ubbidi- scono i fenomeni sociali :] chiamiamo
scienza po- litica. Ed abbiamo scelta questa denominazione perchè fu la prima
usata nella storia dello scibile umano, perchè ancora non è caduta in disuso ed
anche perchè il nome nuovo di sociologia che, dopo Augusto Comte si è da molti
scrittori adot- tato, non ha ancora una significazione ben deter- minata e
precisa e, nell’uso comune, comprende tutte le scienze sociali» (Elementi di
scienza poli- tica, 1922, I, I, $ II). Ma in questo senso il termine è oggi
diventato improprio. POLITICISMO (franc. Politisme; ted. Poli- tismus). La
prevalenza o l’importanza eccessiva che le esigenze politiche assumono talora,
nella vita moderna, rispetto alle altre esigenze, cioè alle esi- genze
scientifiche, artistiche, morali, religiose, ePOLITOMIA (franc. Polytomie; ted.
Poly- tomie). La divisione non dicotomica. Kant osserva che la P. esige
l’intuizione: o l’intuizione a priori come accade in matematica o l'intuizione
empirica come nelle scienze della natura. In altri termini la P. è sempre
empirica mentre la dicotomia, fon- data com'è sul principio di contraddizione,
è a priori (Logik, $ 115). POLIVALENTE, LOGICA. V. Terzo ESCLUSO, PRINCIPIO
DEL. POLIZETESI. V. INTERROGAZIONE MULTIPLA. PONTE DEGLI ASINI (lat. Pons
asinorum; ingl. Asses’
bridge; franc. Pont aux dines; tedesco Eselsbrilcke).
Così fu chiamato, per la sua appa- rente difficoltà, un diagramma costruito dal
logico Pietro Tartareto (la cui attività letteraria cade fra il 1480 e il
1490), che aveva lo scopo di aiutare lo studente a trovare il termine medio nelle
varie figure del sillogismo. Il diagramma è riportato da PRANTL, Geschichte der
Logik, IV, pag. 206. Il termine è stato talora esteso a indicare un punto
difficile di qualsiasi insegna- mento o dottrina. POPOLO (lat. Populus; ingl. People;
francese Peuple; ted. Volk). Una
comunità umana carat- terizzata dalla volontà degli individui che la com- pongono
di vivere sotto lo stesso ordinamento giuridico. L’elemento geografico non è
sufficiente a caratterizzare il concetto di P.: come Cicerone diceva, « P. non
è qualsiasi agglomerato di uomini in qualsiasi modo riunito, ma un agglomerato
di gente associata dal consenso allo stesso diritto e da una comunanza
d’interesse » (Rep., I, 25, 39). 681 Al P. si contrappone pertanto la plebe che
è l’in- sieme di quelle persone le quali, pur vivendo in- sieme con il P., non
partecipano allo stesso ordi- namento giuridico. Dall’altro lato il concetto di
P. si distingue da quello di razione (v.) perchè questo contiene un insieme di
elementi necessitanti che si assommano nella nozione di un comune destino al quale
gli individui non possano legittimamente sottrarsi. Dal concetto di P., il
concetto di nazione cominciò a formarsi quando, a partire da Mon- tesquieu si
misero in luce le cause naturali e tradi- zionali (clima, religione,
tradizioni, usi e co- stumi, ecc.) che contribuiscono a formare quello che
Montesquieu chiamò «spirito generale» o « spirito della nazione » (Esprit des
lois, XIX, 4-5). La differenza tra P., nazione e plebe era abbastanza chiaramente
stabilita da Kant (Antr., II, Il carat- tere del popolo): ma il concetto di P.
veniva spesso confuso con quello di nazione nel nazionalismo ottocentesco (v.
NAZIONALISMO; SPIRITO NAZIONALE). PORISTICO (ingl. Poristic; franc. Poristique;
ted. Poristik). Da porisma = corollario. Il termine designa ciò che è un
corollario o concerne un corollario. PORRE (gr. v.8va; lat. Ponere; ingl.
Posit; franc. Poser; ted. Setzen). Questo verbo è stato usato nel linguaggio
filosofico con due differenti significati: 1° asserire o assumere come ipotesi;
2° P. in essere, produrre. 1° Il primo significato è quello che già Platone e
Aristotele usavano: il primo nel senso di stabilire un’ipotesi (Teer., 191 c):
il secondo in quello di stabilire una premessa (An. Pr., I, 1, 24b 19) 0 ammettere
una tesi (7op., II, 7, 113 a 28). Corrispon- dentemente, la parola posizione
vale genericamente asserzione e Kant afferma che l’esistenza può es- sere
posta, cioè asserita o riconosciuta, non dedotta (Der einzig mògliche
Beweisgrund zu einer Demon- stration des Daseins Gottes, I, $ 2). Il verbo è
comu- nemente usato ancor oggi specialmente nel senso di assumere in via
d’ipotesi o come assioma (v.). 2° Nel senso di P. in essere o produrre o
creare, il verbo fu usato da Fichte: « L'essere, l’essenza del quale consiste
puramente in ciò che esso pone se stesso come esistente è l’Io, come assoluto
sog- getto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si pone; l’Io perciò è
assolutamente e necessaria- mente per l’Io» (Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Quest’uso
si conserva in tutta la tradizione del- l’idealismo romantico e in generale per
ogni filo- sofia la quale identifichi ragione e realtà e così l’atto logico del
P. con l’atto reale del produrre. POSITIVISMO (ingl. Positivism; franc. Posi- tivisme;
ted. Positivismus). Il termine fu adoperato la prima volta da Saint-Simon per
designare il metodo esatto delle scienze e l’estensione di esso
682 alla filosofia (De la religion
Saint-Simonienne, 1830, pag. 3). Esso fu adottato da Augusto Comte per la sua
filosofia e per opera di Comte passò a desi- gnare un grande indirizzo
filosofico che, nella seconda metà del sec. xrx, ebbe numerosissime e svariate
manifestazioni in tutti i paesi del mondo occidentale. La caratteristica del P.
è la romanti- cizzazione della scienza: l’esaltazione di essa ad unica guida
della vita singola ed associata dell’uomo, cioè ad unica conoscenza, ad unica
morale, ad unica religione possibile. Come romanticismo della scienza, il P.
accompagna e stimola la nascita e l’affermazione dell’organizzazione
tecnico-industriale della società moderna ed esprime l’esaltazione ottimistica
che ha accompagnato l’origine dell’industrialismo. Si possono distinguere due
forme storiche fondamen- tali del P.: il P. sociale di Saint-Simon, Comte e
Stuart Mill, nato dall’esigenza di costituire la scienza a fondamento di un
nuovo ordine sociale e religioso unitario; e il P. evoluzionistico di Spencer che
estende a tutto l’universo il concetto di progresso e cerca di farlo valere in
tutti i rami della scienza (per il positivismo evoluzionistico, v. EvoLuzio- Nismo).
Le tesi fondamentali del P. sono le seguenti: 1° La scienza è l’unica
conoscenza possibile e il metodo della scienza è l’unico valido: pertanto il
ricorso a cause o princìpi che non sono accessibili al metodo della scienza non
dà origine a cono- scenze; e la metafisica che fa appunto tale ricorso è priva
di qualsiasi valore. 2° Il metodo della scienza è puramente de- scrittivo, nel
senso che descrive i fatti e mostra quei rapporti costanti tra i fatti che sono
espressi dalle leggi e consentono la previsione dei fatti stessi (Comte); o nel
senso che mostra la genesi evolutiva dei fatti più complessi a partire da
quelli più semplici (Spencer). 3° Il metodo della scienza, in quanto è l’unico valido,
va esteso a tutti i campi dell’indagine e dell’attività umana; e l’intera vita
umana, singola e associata, dev’essere guidata da esso. Il P. ha presieduto
alla prima attiva partecipa- zione della scienza moderna all’organizzazione sociale
e costituisce tuttora un concetto della filo- sofia che rimane una delle
alternative fondamentali di tale disciplina: ciò anche dopo che sono state abbandonate
le illusioni totalitarie del P. romantico, cioè la sua pretesa di assorbire
nella scienza ogni manifestazione dell’uomo. POSITIVISMO GIURIDICO (ingl. Juridical Positivism; franc.
Positivisme juridique). Così Hans Kelsen
ha chiamato la sua dottrina formalistica del diritto e dello stato (Genera/
Theory of Law and State, 1945; cfr. specialmente l’appendice « La dot- trina
del diritto naturale e il P. giuridico +) (v. Di- RITTO; STATO). POSITIVISMO
GIURIDICO POSITIVISMO LOGICO (ingl. Logica! Posi- tivism; franc. Positivisme
logique; ted. Neupositi- vismus). V. EMPIRISMO LOGICO. POSITIVO (ingl.
Positive; franc. Positif; te- desco Positiv). 1. Ciò che è posto, stabilito o
rico- nosciuto come un fatto. Leibniz chiamava « verità P.» le verità di fatto,
in quanto si distinguono dalle verità di ragione perchè costituiscono « leggi che
Dio si è compiaciuto di dare alla natura» (Théod., Discours, $ 2). Nello stesso
senso si parla di religione P., come religione che di fatto è stabilita e vige
come un complesso di istituzioni storiche, a differenza della religione
naturale che può non valere di fatto; e di diritto P. come diritto vigente in
uno stato determinato, in contrapposizione con il diritto naturale che può non
avere validità di fatto. Le espressioni «fatto P.» e «realtà P.» hanno valore
analogo perchè designano il fatto o la realtà riconosciuta o riconoscibile come
tale in virtù di un metodo obbiettivo. Il significato fonda- mentale del
termine è pertanto, in questa accezione: ciò che vige di fatto o ha realtà
effettiva. Comte non faceva che esprimere questo significato affer- mando:
«Considerato nella sua accezione più antica e più comune, la parola P. designa
il reale r opposizione al chimerico » (Discours sur l’esprit positif, $ 31). Il
positivismo chiamò P. il metodo della scienza in quanto diretto al
riconoscimento puro e semplice dei fatti e dei loro rapporti (v. Post- TIVISMO).
In senso non diverso Schelling chiamò P. la conoscenza che considera l’atto con
cui la realtà è posta. Egli distinse le condizioni nega- tive della conoscenza,
che sono quelle senza cui la conoscenza non è possibile, dalle condizioni P.
che sono quelle per cui la conoscenza diventa effettiva. Le prime sono le forme
razionali del- l’essere e dicono ciò che l’essere può o dev'essere, le seconde
esprimono l’esistenza stessa e consistono sostanzialmente nella volontà di Dio
di manifestarsi (Werke, II, III, pag. 57 sgg.). 2. Lo stesso che affermativo.
In questo senso il termine ricorre in locuzioni come « dichiarazioni P.» o «
notizie P.» o anche per designare dottrine che caratterizzano i loro oggetti
con affermazioni, anzichè con negazioni; per es., «teologia P.» in contrasto
con teologia negativa; «esistenzialismo P.»+; ecc. 3. Lo stesso che
positivista, nel senso in cui da Comte in poi si dice « filosofi positivi ». POSIZIONE
(gr. Otorc; lat. Positio; inglese Posit; franc. Position; ted. Setzung, Position). 1. Assunzione non dimostrata: 1° della pre- messa di
un ragionamento; 2° dell’esistenza di qualcosa. 1° Nel primo senso il termine
viene costante- mente usato da Aristotele (cfr. An. Post., I, 2, POSSIBILE 72a
15)e in tutta la tradizione logica anche recente, nella quale viene talora
esplicitamente ridefinito (cfr. H. REICHENBACH, The Rise of Scientific Phi- losophy,
1951, pag. 240). 2° Kant distinse per la prima volta la P. relativa che è il
riconoscimento dell’essere predicativo, cioè
dell’essere espresso dalla copula, che pone in relazione due determinazioni di
una cosa, dalla P. assoluta che è il riconoscimento dell’esistenza della cosa
stessa. «In un esistente, diceva Kant, non è posto nulla più che nel puro
possibile (si tratta infatti dei predicati di essa); ma attraverso un esistente
è posto qualcosa in più che un puro possibile perchè si tratta della P.
assoluta della cosa stessa » (Der einzig méògliche Beweisgrund zu einer Demonstration
des Daseins Gottes, 1763, $ 3). Per Kant la P. è il riconoscimento (empirico)
di una esistenza; nell’idealismo romantico, a partire da Fichte, la P. fu
intesa come creazione. Dice Fichte: « Ciò il cui essere (o essenza) consiste
solamente in questo, che esso pone se stesso come esistente, è I’Io come
assoluto soggetto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si pone »
(Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Il concetto di P. in questo senso non si distingue
da quello di creazione. Torna a distin- guersi da esso l’uso che invece ne ha
fatto Husserl, che ha visto nella P. l'affermazione dell’esistenza del- l'oggetto
intenzionale. Egli ha distinto la P. attuale che si ha quando l’oggetto
intenzionale è presente, dalla P. porenziale che si ha quando non lo è (Ideen, I,
$ 113). Husserl usa anche il termine posizionalità (tedesco Positionalitàt) per
indicare in generale il ca- rattere, comune a tutte le esperienze vissute, di
porre l'oggetto intenzionale (come esistente o come desi- derato o come voluto,
ecc.). Talvolta sono chia- mati P. gli stessi oggetti fisici in quanto non
defini- bili in termini di esperienza ma riconosciuti esistenti solo come utili
intermediari tra l’esperienza e il lin- guaggio (QuINE, From a Logical Point of
View, II, 6). 2. Nella logica terministica medievale una ob- bligazione (v.) e
precisamente quella che consiste nell’obbligo di sostenere una proposizione
come vera (OckHam, Summa Log., III, III, 40). POSSESSO (ingl. Possession;
franc. Possession; ted. Besirz). 1. Una qualche garanzia della possi- bilità di
disposizione e d’uso di una cosa. Questo è il concetto di Kant: « Ciò che è
giuridicamente mio (mem juris) è ciò con cui io sono così legato che l’uso che
un altro potrebbe farne senza il mio consenso mi danneggerebbe. Il P. è la
condizione soggettiva della possibilità dell’uso in generale» (Met. der Sitten,
I, $ 1). La nozione di P. riguarda pertanto il rapporto tra l’uomo e le cose ed
esprime una certa garanzia (che può avere significati e limiti diversissimi)
della possibilità d’uso che un individuo determinato ha nei confronti di una
cosa 683 determinata. Solo impropriamente la nozione di P. viene riferita ai
rapporti tra le persone. 2. Nel significato più generale, il termine de- signa
qualsiasi relazione predicativa e esistenziale; e si dice, per es., «La cosa x
possiede la qualità a » o «L'oggetto x possiede l’esistenza ». In questo senso
l’uso del termine corrisponde a quello che Aristotele ne fece contrapponendolo
a privazione (cfr. Met., X, 4, 1055a 33) (v. PRIVAZIONE). POSSIBILE (gr. cò
Suvaréy; lat. Possibilis; in- glese Possible; franc. Possible; ted. Moglich).
Ciò che può essere o non essere. Questa definizione nominale è abitualmente
presupposta dalle definizioni con- cettuali che sono state date del termine, ma
solo queste ultime consentono la trattazione dei pro- blemi propri della
nozione. Le definizioni concettuali di possibile possono essere: A) definizioni
negative, di natura logica; 8) definizioni positive. A loro volta quest'ultime
possono essere: 1° definizioni della possibilità reale; 2° definizioni della
possibilità oggettiva. Le tre classi di definizioni che così risul- tano
corrispondono quasi perfettamente alle tre specie del P. distinte da Aristotele
nella metafisica: « Il P. significa: 1° ciò che non è di necessità falso; 2°
ciò che è vero; 3° ciò che può essere vero » (Mer., V, 12, 1019b 30). 1° Le
definizioni negative del P. sono di natura
logica e definiscono il P. come ciò che
non è neces- sariamente falso o non include contraddizione. Nel primo senso,
definiva il P. Aristotele nel passo citato. Questo concetto è rimasto nella
tradizione filosofica, sotto la denominazione di «P. /ogico» distinto dal «P.
reale». S. Tommaso lo chiama «P. assoluto» e dice che risulta ex habitudine terminorum
cioè dalla non ripugnanza del predicato col soggetto (S. 7h., I, q. 25, a. 3);
Duns Scoto lo chiama P. logico e lo ritiene proprio della « compo- sizione
dell’intelletto » in quanto i termini di essa non includono contraddizione (Op.
Ox., I, d.2, q. 6, a. 2, n. 10). Ockham ritiene che il P. in questo senso non è
altro che il non-impossibile (Summa Log., II, 25). Fu questo il concetto su cui
insistette Leibniz: «Quando vi dico che c’è un'infinità di mondi P., intendo
che non implichino contraddi- zioni, così come si possono fare romanzi che non si
effettueranno mai e che sono tuttavia possibili. Per essere P., basta che una
cosa sia intelligibile » (Lettera a Bourguet, 1712, in Op., ed. Gerhardt, III,
pag. 558). Leibniz distingueva il P. in questo senso dal compossibile (v.) che
è la possibilità oggettiva. La nozione di P. in questo senso rimane fissata
nella scuola wolffiana (WoLFF, Ontolog., $ 85; Crusius, Vernunftwahrheîten, $
56; LAMBERT, Dianoiologie, $ 39); e contro di essa, che tuttavia riconosceva
valida nei suoi limiti, Kant affermava la nozione di possibilità oggettiva (Der
einzig mogliche 684 Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes,
1763, II, 1). I due teoremi fondamentali propri di questa nozione del P. sono i
seguenti: I) la riduzione del P. al non-impossibile; II l’inferenza del P. dal
necessario, nel senso che ciò che è necessario deve essere possibile. Sono due
teoremi stretta- mente connessi tra loro. Aristotele li espresse per la prima
volta nella famosa trattazione del P. che ricorre nel De interpretatione. Il
necessario deve essere P., ragionò Aristotele, perchè, se non fosse P., sarebbe
impossibile: il che è contraddittorio (De Interpr., 13, 22b 28 sgg.).
L’identificazione di P. con non-impossibile è già chiara in questo ragionamento;
ma ad ogni modo è resa esplicita da Aristotele. Il quale osserva che sia nel
caso di possibilità appartenenti a enti immutabili, sia nel caso di possibilità
appartenenti a enti mutevoli è sempre vera la proposizione « non è impossibile
che sia » (De Int., 13, 23 a 13). La stessa dottrina veniva ripetuta da S.
Tommaso con l’esplicita limitazione al P. logico (Contra Gent., III, 86). E gli
stessi teoremi ricorrono nelle dottrine contemporanee sul possibile. Peirce
dice: « È essenzialmente o logica- mente P. ciò che una persona che non conosce
fatti ma è a giorno del ragionamento e ha familiari
le parole che esso comprende, è incapace
di dichia- rare falso » (Coll. Pap., 4, 67). Qui la nozione di falso ha
sostituito quella di contraddittorio ma il P. viene sempre ridotto a ciò che
non è falso. Carnap a sua volta definisce il P. come il « non impossibile » (Meaning
and Necessity, $ 39-3). E tale definizione è quella più frequentemente seguita
nella logica contemporanea. Ovviamente, pertanto, la nozione del P. in questo
senso implica un concetto ben definito della impossibilità, cioè della
contraddi- zione o falsità logica. Ma questo concetto non sembra a disposizione
dei logici, stante il loro disaccordo sulla nozione contraria e complementare a
quella di impossibilità, cioè sulla nozione di necessità (v.). Ovviamente da
questo punto di vista l’opposto del possibile è l’impossibile. 2° La
definizione del P. come possibilità reale è quella che identifica il P. stesso
col potenziale (v.), e che vede nel potenziale ciò che è destinato infalli- bilmente
a realizzarsi. Fu per questa interpretazione che Diodoro Crono, il famoso
filosofo di Megara, af- fermava, con l'argomento vittorioso (v.), che tutto ciò
che è P. si realizza e che ciò che non si realizza non è P. (ARIST., Mer., 9,
3, 1046 b 29 sgg.; EPITTETO, Diss., II, 19, 1; CicERONE, De Fato, 6 sgg.).
Diodoro Crono derivava da questo principio la tesi della necessità di tutto ciò
che è: nulla di ciò che è stato, è o sarà, ha potuto, può o potrà essere
diverso da come è stato, è o sarà. Ma lo stesso Aristotele, che combatteva la
tesi di Diodoro Crono facendo leva POSSIBILE sugli altri significati di P.,
ammetteva talora il teorema fondamentale proprio di questa concezione della
possibilità: « Non può esser vero che qualcosa è P. ma non sarà; giacchè in tal
caso non vi sarebbero impossibilità » (Mer., IX, 4, 1047 b 3). Questa concezione
del P. fu fatta propria dalla Scolastica araba a partire da Avicenna. La
divisione di Avi- cenna tra l’essere necessario e l’essere P. è infatti la
divisione tra ciò che deriva il suo essere da se stesso (e questo è Dio) e ciò
che deriva il suo es- sere da altro (e queste sono le cose create). Ciò che è
P., da questo punto di vista, è tale finchè non è nulla; appena comincia ad
essere, questo è segno che sono presenti futte le condizioni o le cause del suo
essere ed esso è diventato necessario: s'intende, necessario per altro (Met.,
II, 1-2; ALGAZEL, Mer., I, 8; ecc.). Questo «necessario per altro » era il
contingente (v.). Questa dottrina è stata molte volte ripetuta nella storia
della filosofia. Una delle sue migliori espres- sioni fu data da Hobbes: «È
impossibile l’atto per la cui produzione non ci sarà mai una potenza piena.
Poichè la potenza piena è quella nella quale concorrono tutte le condizioni che
si richiedono per produrre l’atto, se non ci sarà mai la potenza piena,
mancherà sempre qualcuna delle condizioni senza le quali l’atto non può
prodursi: sicchè questo atto non potrà mai prodursi, cioè sarà un atto impossibile.
L'atto che non è impossibile, è possi- bile. Perciò ogni atto P. deve
verificarsi ogni tanto: se non si verificasse mai, mai concorrerebbero tutte le
condizioni che si richiedono alla produzione di esso e sarebbe quindi, per
definizione, un atto im- possibile, il che è contro l'ipotesi» (De Corp., 10, $
4). Questa elaborazione del concetto di P. non è che la ripetizione
dell'argomento vittorioso di Dio- doro Crono: argomento che ricorre ogni volta
che si riduce il P. a una pofenzialità cui debbano essere presenti tutte le
condizioni di realizzazione e che perciò è destinata infallibilmente a
realizzarsi. Questo è il concetto che del P. aveva Hegel: il quale distingueva
dalla mera possibilità, che è «la vuota astrazione della riflessione in sè »
cioè una semplice rappresentazione soggettiva, la possibilità reale che si ha
quando si danno tutte le condizioni di una cosa sicchè la cosa deve diventare
reale: possibilità reale che, come è ovvio, non si di- stingue dalla necessità
(Enc., $ 147). La nozione della possibilità reale in questo senso è spesso ado-
perata dai seguaci di Hegel, sia idealisti che marxisti. Spesso questa nozione
è stata adoperata per desi- gnare la predeterminazione degli eventi storici
nelle loro condizioni e quindi per fondare la possi- bilità di una previsione
infallibile dei futuri sviluppi della storia. Così ha usato il concetto G.
Lukàcs (Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923; tradu- POSSIBILE zione
francese, 1960, pag. 104 sgg.). Nello stesso significato di potenzialità il
concetto viene assunto in un libro di S. Buchanan nel quale la possi- bilità è
definita come «l’idea regolativa per l’ana- lisi del tutto nelle sue parti » e
le parti sono defi- nite come «le potenzialità del tutto » (Possibility, 1927,
pag. 81 sgg.). Infine, l’ultima illustrazione di questo concetto è la
cosiddetta «legge modale fondamentale» di N. Hartmann, che comprende le sei
tesi seguenti: « 1° ciò che è realmente P. è anche realmente effet- tuale; 2°
ciò che è realmente effettuale è anche realmente necessario; 3° ciò che è
realmente P. è anche realmente necessario e reciprocamente; 4° ciò il cui non
essere è realmente P. è anche real- mente ineffettuale; 5° ciò che è realmente
ineffettuale è anche realmente impossibile; 6° ciò il cui non essere è
realmente possibile è anche realmente impossibile + (Moglichkeit und
Wirklichkeit, 1938, pag. 126). Queste tesi non sono altro che la riduzione
esplicita del concetto di possibilità reale al concetto di necessità: riduzione
contro la quale veramente non si saprebbe trovare alcuna obiezione. Fa parte di
questa nozione del P. la riduzione del concetto di P. o all’ignoranza o ad un
fantasti- care post factum. La prima via fu seguita da Spinoza: « Chiamo P., le
cose singolari, egli disse, in quanto, considerando le cause da cui debbono
essere prodotte, ignoriamo se esse siano determinate a produrle » (Et., IV,
def. 4; Cogit. Met., I, 3). La seconda via è quella tenuta da Bergson: «Il P. è
il miraggio del presente nel passato; e giacchè sappiamo che l’avvenire finirà
per farsi presente e l’effetto del miraggio continua a prodursi, noi diciamo
che nel nostro presente attuale, che sarà il passato di domani, l’immagine del
domani è già contenuta, sebbene non arriviamo ad attin- gerla. Qui sta
precisamente l’illusione + (« Le pos- sible et le réel», 1930, in La pensée et
le mouvant, 38 ediz., 1934, pag. 128). Secondo questo concetto, l’opposto del
P. è il reale o attuale. 3° Il terzo concetto del P. è quello della pos- sibilità
oggettiva, che risale a Platone. La possi- bilità di agire o di subire
un’azione fu da Platone assunta come la stessa definizione dell’essere in generale
(v. EsseRE) contro i materialisti da un lato e gli idealisti dall’altro. « Dico
che esiste tutto ciò che ha per natura la possibilità di fare una cosa
qualunque o di subire un’azione (e sia pure tutto ciò in misura piccolissima e
per una volta sola e rispetto alla cosa più insignificante). E pongo perciò
questa definizione: gli enti non sono altro che possibilità » (Sof., 247 e).
Aristotele definiva la possibilità in questo senso come «ciò che può essere
vero + (Mer., V, 12, 1019b 32). E S. Tom- maso difendeva questa possibilità
contro il neces- 685 sitarismo arabo: « Il P. o contingente che si oppone al
necessario ha questo nel suo concetto, che non deve realizzarsi necessariamente
quando non è: giacchè esso non segue necessariamente dalla sua causa +» (Contra
Gent., III, 86). Ockham includeva lo stesso concetto tra i significati del
termine P., come « ciò che non è in atto e tuttavia può essere » o che « non è
nè necessario nè impossibile » (Summa Log., II, 25). Il concetto leibniziano
del compossi- bile (v.) non è che un’altra espressione di questa stessa nozione
della possibilità, la quale veniva difesa da Kant fin dal periodo precritico,
quando mostrava, in contrasto con la scuola wolffiana, l’insufficienza del
concetto di possibilità logica. « Che vi sia una possibilità e che tuttavia non
vi sia nulla di reale, è contraddittorio, osservava Kant; giacchè, se non
esiste nulla, neppure è dato nulla che sia pensabile e ci si contraddice se
ancora si vuole che ci sia qualcosa di P. » (Der einzig mògliche Beweisgrund zu
einer Demonstration des Daseins Gottes, I, 2, 2). O, in altri termini, « col
togliere il materiale e i dati a ogni P., viene anche negata ogni possibilità »
(/bid., I, 2, 3). Kant sembra qui negare perfino la legittimità della nozione
di P. logico. Altrove, ammette anche questa possibilità: « Il con- cetto è P.
tutte le volte che non si contraddice. Questo è il carattere logico della
possibilità e con ciò il suo oggetto è distinto dal niki! negativum. Ma esso
non può essere un concetto vuoto... Questo è un ammonimento a non conchiudere
senz'altro dalla possibilità (/ogica) dei concetti alla possibilità (reale)
delle cose (Crit. R. Pura, Dialettica, II, cap. 3, sez. 4, nota [A 597, B
625]). La possibilità oggettiva o reale è dunque fondata sui dati della esperienza
ed è una possibilità che l’esperienza sola, e non già il semplice concetto,
autorizza ad ammettere. Non si tratta tuttavia di una possibi- lità reale nel
senso di cui al 2° cioè di una poten- zialità destinata infallibilmente a
realizzarsi: «Le proposizioni che le cose possono essere P. senza essere reali
e che perciò non si possa concludere dalla possibilità alla realtà, valgono
giustamente per la ragione umana» (Crif. del Giud., $ 76). Kant chiama reale o
trascendentale la possibilità che si fonda sui dati dell’esperienza ma non la identifica
con la necessità: essa significa solo che al concetto può corrispondere un
oggetto (Critica R. Pura, Analitica dei Princ., cap. III [A 244, B 303)). Se
Kant insisteva sulla connessione del P. og- gettivo con l’esperienza,
Kierkegaard insisteva, in polemica con Hegel, sull’indeterminazione del P. stesso.
Rispondendo negativamente alla domanda se il passato sia più necessario
dell’avvenire, Kierke- gaard afferma che il P. non diventa necessario per il
fatto che si realizza, ma rimane P.: «Il passato 686 non è necessario nel
momento in cui diviene; non è divenuto necessario divenendo (che sarebbe una
contraddizione); e lo diviene ancora meno attra- verso l’intendimento della
persona ». In questo caso infatti il passato guadagnerebbe ciò che l’intelletto
perderebbe: cioè non sarebbe inteso per quello che è, ma per un’altra cosa
(Philosophische Brocken, IV, Intermezzo, $ 4; trad. franc. pag. 162 sgg.).
L’in- tera speculazione di Kierkegaard è fondata su questa nozione della
possibilità oggettiva e inde- terminata, mediante la quale egli illustra le
nozioni di angoscia (v.) e di disperazione (v.). Talvolta tut- tavia lo stesso
Kierkegaard fa uso di espressioni che non sono rigorosamente compatibili con
l’in- determinazione oggettiva delle possibilità, come, ad es., «Ogni cosa è
P.» o «tutte le possibilità ». Considerando le possibilità come infinite si
viene ad escludere la loro indeterminazione e limitazione: difatti ciò che
manca a una di esse per realizzarsi infallibilmente può essere sopperito dalle
altre, se sono infinite; e le possibilità si trasformano allora in potenzialità
necessarie. Nella filosofia contemporanea tuttavia il concetto di possibilità
oggettiva viene inteso nel suo senso empiricamente determinato e finito. Peirce
parla di « possibilità sostanziali » (in opposizione alle possi- bilità
logiche) come quelle che sono fondate su informazioni che concernono i fatti e
le loro leggi; e ritiene che tali possibilità coinciderebbero con la necessità
solo nell'ipotesi di un’informazione onni- sciente (Coll. Pap., 4.67). Dewey
intende la possi- bilità, nell’ambito della matematica e in generale della
ricerca scientifica, come possibilità di operazioni o di trasformazioni (Logic,
XV e XX, 3). Witt- genstein afferma che la possibilità è ciò che viene espresso
da una proposizione sensata; in quanto questa è distinta dalla tautologia, la
proposizione della logica o della matematica, che «non dice nulla », e dalla
contraddizione (Tractatus, 5.525). In altri termini, la proposizione sensata
non è altro, per Wittgenstein, che l’espressione della possibilità di un fatto.
Lukasiewicz e Tarski hanno formulato i principi di una logica del P., diretta a
evitare il determinismo (vedi i testi citati in TERZO ESCLUSO, PrincIPIO DEL).
Reichenbach ha a sua volta distinto, dalla possibilità logica, la possibilità
fisica e la possibilità tecnica: la prima significa qualcosa che non
contraddice alle leggi empiriche e la seconda qualcosa che è dentro il regno
dei metodi pratici conosciuti (« Verifiability Theory of Meaning », in Proceedings
of the American Academy of Arts and Sciences, 1951 [80°], pag. 53). Egli ha
inoltre posto la possibilità fisica a fondamento della probabilità (Theory of
Probability, $ 74). Ma è chiaro che questo punto di vista può essere
generalizzato e che una possibilità oggettiva può essere individuata POSSIBILE soltanto
in un particolare contesto, cioè sulla base delle condizioni o delle regole che
vigono in un campo determinato. Ad es., per ciò che riguarda l’uomo, la
possibilità fisica che egli ha di effettuare un’azione determinata non coincide
necessariamente con le possibilità giuridiche o morali che gli sono offerte dal
sistema sociale in cui vive. Molte possibilità che il suo organismo fisico gli consente
di mandare ad effetto gli sono precluse dalle regole giuridico-morali. Per ogni
possibilità oggettiva, quindi, è indispensabile il riferimento a un contesto di
condizioni e di regole tecniche de- terminate e non si può parlare di
possibilità senza specificare questo contesto se non dando luogo ad equivoci.
Lo stesso vale, del resto, anche nel do- minio delle scienze: una possibilità
logico-matema- tica non sempre è una possibilità fisica cioè tale che può
essere mandata ad effetto in base alle leggi della fisica, e via dicendo (cfr.
J. R. Lucas, The Concept of Probability, 1970, pag. 6 e passim). Nel campo
della metodologia storiografica, la nozione di possibilità oggettiva fu
chiarita indi- spensabile da Max Weber (Kritische Studien auf den Gebiet der
kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; cfr. specialmente la seconda parte; trad.
ingl., in The Methodology of the Social Sciences, pag. 164sgg.; trad. ital., in
Z/ metodo delle scienze storico-sociali, pag. 207 sgg.); e viene adoperata
anche nelle più recenti trattazioni (ad es., W. Dray, Laws and Explanation in
History, 1957, VI, 3; cfr. STORIA; STORIOGRAFIA). Nel campo delle scienze
biologiche la nozione è stata utilizzata da Goldstein (Der Aufbau des
Organismus, 1934; trad. franc., 1951); e tende ad essere utilizzata nel dominio
psichiatrico (cfr., ad es., M. TORRE, « La categoria del possibile in
psicopatologia », in Note e Riviste di psichiatria, 1957). Inoltre la genetica
e la teoria dell'evoluzione fa un uso continuo di questo concetto designandolo talvolta
con altro nome (per es., con il nome di opportunità; cfr. G. Simpson, The
Meaning of Evo- lution, cap. XII, « The Opportunism of Evolution »). Nella psicologia del comportamento il concetto è stato
usato per definire la stessa nozione di cosa (v.). Nella sociologia, i concetti
che implicitamente o esplicitamente fanno ricorso alla nozione del P. sono i
più numerosi. Lévy-Bruhl ha parlato del «limite del P.» come costitutivo
dell’esperienza razionale, perciò come deficiente o assente nella mentalità
primitiva (Les cernets, 1949; trad. ital., pag. 98 sgg.). L’intera teoria della
probabilità, comunque venga interpretata, assume a suo fon- damento questa
stessa nozione del P. (cfr., ad es., REICHENBACH, Theory of Probability, $ 74;
e Popper, che parla della probabilità come di un « vettore nello spazio delle
possibilità »; v. PROBABILITÀ). Infine è quasi superfluo ricordare l’importanza
che POTENZA la nozione di possibilità oggettiva ha per la filosofia esistenzialistica
che trova in essa il suo principale strumento di analisi (v. EsISTENZIALISMO).
È chiaro che secondo questa terza interpretazione l'opposto del P. non è
l’impossibile ma il non-possibile. POSSIBILITÀ. V. PossIsiLe. POST HOC ERGO
PROPTER HOC. Ce- lebre fallacia (v.), costituente un caso particolare della
fallacia non causa pro causa (cfr. ARISTOTELE, Soph. El., 5, 167 b), la quale
consiste nello stabilire una connessione causale, quindi necessaria, sulla base
di una connessione meramente accidentale o secondaria. Nel caso del post hoc
ergo propter hoc, il sofisma consiste nello stabilire, per il semplice fatto
che B viene dopo A, una connessione di causa ed effetto tra A e B. G.P. POSTPREDICAMENTII
(gr. pera tds xamr-
voplas; lat. Postpredicamenta; ingl.
Postpredica- ments; franc.
Post-prédicaments; ted. Postpràdika- mente).
Con questo termine cominciarono ad essere chiamati dai commentatori di
Aristotele (per es., da Filopono, vi secolo, In Car., 39a, 33) quei concetti
che Aristotele annunziò dopo le categorie nel libro che a queste s'intitola e
cioè quelli di opposizione (oppositio) di priorità (prius), di si- multaneità
(simul), di movimento (motus) e di avere (habere) (Cat., 10-15). Per tali
concetti vedi le relative voci. POSTULATO (gr. attua; lat. Postularum; ingl.
Postulate; franc. Postulat; ted. Postulat). In generale una proposizione la
quale si ammette, o si chiede che sia ammessa, allo scopo di rendere possibile
una dimostrazione o un procedimento qualsiasi. Il termine è nato nelle
matematiche ed è stato illustrato da Aristotele correlativamente a quello di
assioma (v.). Mentre gli assiomi sono di per sè evidenti e vanno ammessi
necessariamente pur non essendo dimostrabili, il P., pur essendo dimostrabile,
viene assunto e utilizzato senza di- mostrazione. Il P. inoltre è una
proposizione che non è già ammessa o creduta da colui al quale si rivolge
(altrimenti sarebbe inutile chiedergli di am- metterla); ed in questo
differisce dall’iporesi (v.) che è anch’essa una proposizione dimostrabile, non
dimostrata, ma ritenuta vera da colui al quale il discorso si rivolge (An.
Post., 10, 76b 24 sgg.). La distinzione tra assiomi e P. fu fatta propria da
Euclide nei suoi Elementi: mentre gli assiomi esprimono verità evidenti e sono
chiamati da Eu- clide nozioni comuni, i P. esprimono ciò che si richiede di
ammettere e concernono l’esistenza di determinati elementi geometrici. La
distinzione tra P. e assioma è venuta meno nella logica e nella matematica
moderna (v. ASSIOMATICA). Kant chiamò « P. del pensiero empirico » i prin- cipi
a priori corrispondenti alle categorie della mo- 687 dalità, secondo i quali
ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (intuizioni pure e
categorie) è possibile; ciò che si accorda con le condizioni materiali
dell’esperienza (con le sensa- zioni) è reale; e ciò la cui connessione con la
realtà è determinata secondo le condizioni universali del- l’esperienza è o
esiste necessariamente (Cri?. R. Pura, Analitica dei principi, cap. II, sez.
III, 4). Chiamò poi «P. della ragione pratica» le condizioni che ren- dono
possibile la moralità, cioè la libertà, l’immor- talità e l’esistenza di Dio
(Crit. R. Pratica, Dialet- tica, sez. II). POTENZA (gr. Sévapis; lat. Porentia;
inglese Power; franc. Puissance; ted. Vermògen). 1. In generale il principio, o
la possibilità, di un muta- mento qualsiasi. Questa fu la definizione data da Aristotele
del termine. Aristotele stesso distinse questo significato fondamentale in vari
significati specifici e precisamente: a) la capacità di effettuare un mutamento
in altro o in se stesso, che è la P. attiva; b) la capacità di subire un
mutamento, da altro o da se stesso, che è la P. passiva; c) la capacità di
mutare o essere mutato in meglio piut- tosto che in peggio; d) la capacità di
resistere a qualsiasi mutamento (Mer., V, 12, 1019 a 15; IX, 1, 1046 a 4).
Queste distinzioni sono rimaste pressochè immutate nella tradizione filosofica
(v. ATTO). L’in- tera tradizione medievale le ha ripetute senza va- riazioni e
ancora nel sec. xv Wolff le ripeteva in formule epigrafiche che nulla mutano ai
vecchi concetti (Ontologia, 1729, $ 716). Locke stesso, nella sua analisi
famosa della nozione, non ne aveva alterato il concetto (Saggio, II, 21, 1). Il
concetto implica tuttavia un’ambiguità fonda- mentale perchè può essere inteso:
A) come possi- bilità; B) come preformazione e quindi predeter- minazione o
preesistenza dell’attuale. In Aristotele e in tutti coloro che si rifanno alla
metafisica ari- stotelica i due significati sono entrambi presenti e vengono
spesso confusi. Così quando Aristotele difende il concetto della potenza contro
la nega- zione che ne aveva fatto Diodoro Crono (v. Pos- SIBILITÀ), intende la
P. nel senso A); mentre quando afferma « che non può essere vero dire che qualcosa
è possibile ma non sarà» (Mer., IX, 4, 1047 b 3); o quando afferma la
superiorità del- l’atto sulla P. in base al principio che, senza l’atto, la P.
non sarebbe (non ci sarebbe l’uovo senza la gallina), egli intende la P. come
preformazione e predeterminazione e la considera come un modo d'essere
diminuito o preparatorio dell'atto (/bid., IX, 8, 1049 b 4). Una confusione
analoga si trova nel saggio di Bergson «Il possibile e il reale» (1930),
giacchè in esso Bergson, respingendo il concetto di possibile come « non
impossibile » cioè come « non impedito ad essere » lo identifica invece 688 con
quello di potenziale e considera il potenziale come «il miraggio del presente
nel passato » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 128-30). Poichè il
concetto di potenziale fa costantemente riferimento all'attualità o realtà,
mentre quello di possibile non ha necessariamente questo riferi- mento, le
nozioni di preformazione, preesistenza e predeterminazione possono essere
considerate stret- tamente connesse con quella di potenza. 2. Facoltà o potere
dell’anima (v. FACOLTÀ). 3. Dominio o predominio, come nell’espressione «volontà
di P.». POTENZIAMENTO, LOGICA DEL. Un tentativo di logica simbolica consistente
nell’elimi- nazione delle leggi di tautologia e di assorbimento e
nell’introduzione dei simboli di potenza e di coef- ficiente. Questo tipo di
logica dovrebbe fondarsi sul principio che ogni relazione modifica gli enti
rela- tivi: principio che è il contrario di quello solitamente ammesso dalla
logica simbolica contemporanea (cfr. P. Mosso, Principi di logica del P.,
Torino, 1924; A. PASTORE, La logica del P., Napoli, 1936). POTERI DELLO STATO.
V. Srato. PRAGMATICA (ingl. Pragmatics; franc. Prag- matique; ted. Pragmatik).
Una delle parti della semiotica (v.) e precisamente quella che comprende l'insieme
delle ricerche che hanno per oggetto la relazione dei segni con gli interpreti,
cioè la situa- zione in cui il segno viene usato. Su questo aspetto della
semiotica avevano già insistito C. S. Peirce e Ogden e Richards; ma è stato
soprattutto Morris a considerare la P. come parte integrante della semiotica; e
il punto di vista di Morris è largamente accettato nella logica contemporanea
(cfr. C. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, 1938, cap. V; CARNAP,
Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 2). Le altre parti della
semiotica sono la semantica e la sintassi (v.). PRAGMATICO (gr. rpaypatiw6c;
ingl. Pragma- tic; franc.
Pragmatique; ted. Pragmatisch). L'agget-
tivo fu usato per la prima volta da Polibio che distinse nettamente la storia «
P.», che si occupa di fatti, dalla storia che si occupa di leggende, come fa
quella che parla della genealogia delle famiglie e della fon- dazione delle
città (IX, 1, 4). Polibio aggiunge pure che la storia P. è la più utile a
insegnare come l’uomo debba regolarsi nella vita associata. L'agget- tivo ha
poi avuto un uso frequente nella storia poli- tica specialmente tedesca, a
proposito di decisioni costituzionali delle quali si voleva sottolineare il
carattere meritorio e che perciò erano dette «sanzioni P.+. Kant diceva: «Si
chiamano P. le sanzioni che non derivano propriamente dai diritti degli stati
considerati come leggi necessarie ma da sollecitudine per il benessere
generale. Una storia è composta pragmaticamente quando rende POTENZIAMENTO,
LOGICA DEL prudenti cioè quando insegna alla società di oggi come possa
procurarsi il proprio vantaggio meglio o almeno altrettanto bene della società
di ieri» (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II, Nota). A sua volta Kant
chiama P. gli imperativi ipotetici della prudenza, che hanno in vista il
benessere (Ibid., JI, Nota). Chiama P. la fede che è fondata su un giudizio
soggettivo della situazione, per es., quella di un medico che non conosce bene
la malattia che deve curare (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. 2, sez.
3). E chiama P. la sua antropologia in quanto considera non ciò che l’uomo è
per natura, ma ciò che l’uomo stesso fa di sè (Antr., Pref.). Nel linguaggio
contemporaneo la parola ha ripreso il suo senso originario. Quando non si rife-
risce a pragmatismo, designa semplicemente ciò che è azione o appartiene
all’azione. PRAGMATISMO (ingl. Pragmatism, Pragma- ticism; franc. Pragmatisme;
ted. Pragmatismus). 11 termine venne introdotto in filosofia nel 1898 da una
relazione di W. James alla California Union nella quale James si riferiva alla
dottrina esposta da Peirce in un saggio del 1878 intitolato « Come render
chiare le nostre idee ». Alcuni anni più tardi Peirce dichiarava di avere
inventato il nome P. per la teoria che «una concezione, cioè il significato
razio- nale di una parola o di altra espressione, consiste esclusivamente nella
sua portata concepibile sulla condotta della vita»; e di aver preferito questo
nome a praticismo o praticalismo perchè questi ultimi, per chi conosce il senso
che la filosofia kantiana attribuisce a « pratico +, fanno riferimento al mondo
morale dove non ha luogo l’esperimento, mentre la dottrina proposta è per
l’appunto una dottrina sperimentalistica. Tuttavia nello stesso arti- colo
Peirce dichiarava che, di fronte all'estensione di significato che il P. aveva
ricevuto ad opera di W. James e di F. C. S. Schiller, preferiva il termine pragmaticismo
per indicare la sua propria conce- zione, strettamente metodologica, del P. («
What Pragmatism Is +, The Monist, 1905; Coll. Pap. 5. 411-37). Lo stesso Peirce
veniva in tal modo a distinguere due versioni fondamentali del P. che possono
essere così caratterizzate: 1° un P. meto- dologico che è sostanzialmente una
teoria del signi- ficato; 2° un P. metafisico che è una teoria della verità e
della realtà. 1° Il P. metodologico non intende definire la verità o la realtà
ma soltanto una procedura per determinare il significato dei termini o meglio
delle proposizioni. Diceva Peirce nell’articolo del 1878 che solitamente si
assume come la data di nascita del P.: « È impossibile avere nella mente
un’idea che si riferisca ad altro che agli effetti sensibili delle cose. La
nostra idea di un oggetto è l’idea dei suoi effetti sensibili... Sicchè la
regola per PRAGMATISMO raggiungere l’ultimo grado di chiarezza nell’ap- prensione
delle idee è la seguente: Considerare quali sono gli effetti, i quali possono
concepibil- mente aver portata pratica, che l’oggetto della nostra concezione
pensiamo che abbia. La concezione di questi effetti è l’intera nostra
concezione dell’og- getto » (Chance, Love and Logic, 1, 2,$3; Coll. Pap., 5.401-2).
Il principio da cui discende questa regola metodologica è che « l’intera
funzione del pensiero è quella di produrre abiti di azione » cioè credenze. La
regola proposta da Peirce era pertanto suggerita dall’esigenza di trovare un
procedimento sperimen- tale o scientifico per fissare le credenze; intendendo per
procedimento scientifico o sperimentale quello che non fa ricorso al metodo
dell'autorità o al me- todo a priori (Ibid., I, 1, $ 2, pag. 9 sgg.). Allo
stesso tipo di P. si può dire appartenga quello di Dewey che, per evitare ogni
equivoco, preferì il termine strumentalismo (v.). «L'essenza dello strumenta- lismo
pragmatico, egli scrisse, è quella di concepire sia la conoscenza sia la
pratica come mezzi per rendere sicuri, nell'esistenza sperimentata, i beni, cioè
le cose eccellenti di qualsiasi specie» (7he Quest for Certainty, 1929, pag.
37). Da questo punto di vista Dewey condivideva lo sperimentali- smo di Peirce
perchè riteneva che « la sperimenta- zione entra nella determinazione di ogni
proposi- zione garantita » (Logic, 1939, pag. 461); e metteva in luce il
carattere strumentale od operativo di tutti i procedimenti del conoscere,
considerati come mezzi per passare da una situazione indeterminata a una
situazione determinata cioè nello stesso tempo distinta e unificata (Logic,
cap. VI). Sono pertanto abbastanza ovvie le parentele strettissime di questo tipo
di P. da un lato con la metodologia scientifica contemporanea e in particolare
con l’operazio- nismo (v.) e dall’altro lato con le impostazioni fon- damentali
della logica simbolica. Su quest’ultimo aspetto, insistettero i pragmatisti
italiani Giovanni Vailati e Mario Calderoni. Il primo osservava a questo
proposito che il fondamentale punto di contatto tra logica e P. «sta nella loro
comune tendenza a riguardare il valore, e il significato stesso, di
un’asserzione come qualche cosa di inti- mamente connesso all'impiego che si
può o si desi- dera farne per la deduzione e la costruzione di determinate
conseguenze o gruppi di conseguenze » (« Pragmatismo e logica matematica »
1906, in // me- todo della filosofia, pag. 198). Queste parole defi- niscono
bene il carattere funzionale del P. di ispi- razione metodologica. 2° La
concezione del P. metafisico è quella di W. James e di F. C. S. Schiller e le
sue tesi fonda- mentali consistono nel ridurre la verità a utilità e la realtà
a spirito. La seconda di queste tesi, il P. metafisico la condivise con buona
parte della filo- 44 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 689 sofia
contemporanea; e James stesso riconobbe e vantò l’accordo sostanziale della sua
filosofia con quella degli spiritualisti francesi e specialmente di Bergson. La
prima tesi è quella caratteristica di questa forma di pragmatismo. Il suo
presupposto è il principio che essa ha in comune col P. meto- dologico: la
strumentalità del conoscere. Ma questo presupposto viene inteso e realizzato da
essa in forma totalmente diversa. In primo luogo, essa cerca di mettere in luce
la dipendenza di tutti gli aspetti della conoscenza (o del pensiero) dalle esi-
genze dell’azione e pertanto dalle emozioni in cui tali esigenze si concretano.
Anche la « razionalità » è, secondo James, una specie di sentimento (« Il sen- timento
della razionalità » in The Will to Believe, 1897). Da questo punto di vista, le
azioni e i desideri umani condizionano la verità: ogni tipo di verità, anche
quella scientifica. Pertanto non è legittimo, da questo punto di vista,
rifiutarsi di credere a dottrine che sono in grado di esercitare un’azione benefica
sulla vita dell'uomo, per il fatto che queste dottrine non sono appoggiate da
prove ra- zionali sufficienti. In casi come questi bisogna correre, affermava
James, il rischio di credere. E F. C. S. Schiller portava alle estreme
conseguenze questa dottrina riesumando il detto di Protagora «l’uomo è misura
di tutte le cose» e affermando la relatività della conoscenza rispetto
all’utilità per- sonale o sociale (Humanism, 1903). Mentre Schiller si fermava
a questo relativismo, James dava il varco, attraverso di esso, al teismo e alle
dottrine spiritua- listiche tradizionali, sul fondamento che esse sono utili
all’azione e benefiche alla vita umana. E per quanto cercasse di limitare il
dogmatismo di queste dottrine, insistendo $ul carattere pluralistico del-
l’universo (v. PLURALISMO) e sul carattere finito della divinità (v. Dio), il
P. fu per lui essenzialmente una via d’accesso alla metafisica tradizionale.
Uno dei motivi che James adduceva per giustificare l’esercizio della volontà di
credere è che la credenza può produrre la propria giustificazione: così ac-
cade talvolta nei rapporti umani quando il credere che un tale ci sia amico, ci
fa comportare amiche- volmente verso di lui e ce ne procura l'amicizia.
Difficilmente si può fare un uso teologico o meta- fisico di questa
proposizione; essa è tuttavia di- ventata un teorema abbastanza importante
della sociologia contemporanea. Per tutto il resto, mentre il P. metodologico
ha trovato la sua continuazione negli studi di logica e di metodologia e in
alcune correnti del neo-empirismo, il P. gnoseologico ha confluito nelle
correnti spiritualistiche (confronta H. W. ScHnemER, A History of American Phi-
losophy, 2* ediz., 1957). A questo P. metafisico si riconnettono le altre manifestazioni
che il P. ha avuto fuori del mondo 690 anglosassone. In primo luogo si
riconnette ad esso la filosofia di Hans Vaihinger esposta nell’opera Filosofia
del come se (Philosophie des Als Ob, 1911), nella quale afferma il carattere
fittizio di ogni cono- scenza e il carattere biologico della preferenza ac- cordata
a una conoscenza piuttosto che all’altra. Si riconnette ad esso anche il P.
pluralistico di A. Aliotta (La guerra eterna e il dramma dell’esi- stenza,
1917) che ha le stesse accentuazioni spiri- tualistiche del P. di James (cfr.
dell’ALIOTTA, // sa- crificio come significato del mondo, 1947). E infine ci si
riconnette il fideismo pragmatistico di Michele De Unamuno quale si trova
esposto nel Commento al Don Chisciotte (1905) e nel Sentimento tragico della
vita (1913); e di Giuseppe Ortega y Gasset (Il tema del nostro tempo, 1923;
Intorno a Galileo, 1933; Storia come sistema, 1935, ecc.); che però,
soprattutto negli ultimi scritti, rivela l’influenza dell’esistenzialismo di
Heidegger. PRASSIOLOGIA (ingl. Praxiology; francese Praxéologie). Termine
creato da Kotarbifisky per designare «la teoria generale dell’attività efficace
» che dovrebbe comprendere la totalità dei domini dell’attività utile dei soggetti
agenti, dal punto di vista dell’efficacia delle loro azioni (Praxiology, An Introduction
to the Science of Efficient Action, Oxford, 1965; l’opera polacca originale è
del 1955). V. TECTOLOGIA.
PRATICO (gr. rpaxtxéc; lat. Practicus; in- glese Practical; franc. Pratique;
ted. Praktisch). In generale, ciò che è azione o concerne
l’azione. Ci sono tre significati diversi: 1° ciò che dirige l’azione; 2° ciò
che è traducibile in azione; 3° ciò che è razionale nell’azione. 1° Il primo
significato è*quello filosofico tra- dizionale. Platone già distingueva la
scienza pratica (per es., l'edilizia) che è quella «insita per sua
natura nelle azioni» da quella
conoscitiva (come l’aritmetica) che è priva di riferimento all’azione (Pol.,
258 d-e). Aristotele a sua volta diceva che 4 nelle scienze P. l’origine del
movimento è in qualche decisione di chi agisce perchè ‘P.” e ‘ scelto * sono la
stessa cosa » (Mer., VI, 1, 1025 b 22). Le scienze P. erano per Aristotele la
politica, l’economia, la retorica e la scienza militare; e della politica è parte
fondamentale l’etica (Ef. Nic., I, 2, 1094 b). Questo significato è rimasto
uniforme nella tra- dizione filosofica. Ad es., il significato in cui S.
Tommaso diceva che la teologia è parzial- mente scienza pratica (S. Th., I, q.
1, a. 4) e quello in cui Duns Scoto diceva che essa è totalmente scienza P.
(Op. Ox., Prol. q. 4, n. 31) è quello tradizionale: P. è ciò che dirige
l’azione. Simil- mente Wolff definiva la filosofia P. come la scienza che «
dirige le azioni libere mediante re- gole generalissime» (Philos. practica, $
3), e la PRASSIOLOGIA divideva, come Aristotele, in Etica, Economia e Politica.
Questo significato prevale nell’uso filo- sofico del termine. 2° Nel secondo
significato, che appartiene al linguaggio comune più che a quello filosofico,
P. è ciò che è facilmente o immediatamente traduci- bile in azione, nel senso,
ad es., che può aver suc- cesso 0 procurare vantaggio. In questo senso un'idea si
dice « P.» perchè può avere realizzazione e può condurre al successo. Uomo P. è
l’uomo che ha idee P., cioè idee facilmente realizzabili o realizza- bili con
probabilità di vantaggio 0 successo. Questo significato non trova abitualmente
posto nel lin- guaggio filosofico. 3° Il terzo significato è il più ristretto e
fu ado- perato da Kant. Questi infatti intende per P.: « Tutto ciò che è
possibile per mezzo della libertà ». Ma la libertà non ha nulla a che fare con
l’arbitrio animale; così «ciò che è indipendente da stimoli sensibili, quindi
può esser determinato da motivi che non sono rappresentati se non dalla
ragione, dicesi libero arbitrio e tutto ciò che vi si connette, o come
principio o come conseguenza, è detto P. » (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo,
cap. II, sez. 1). Quest'uso ristretto del termine, caratteristico di Kant, non
ha avuto seguito. PRAXIS. Con questo termine (che è la tra- scrizione della
parola greca che significa azione) si designa, nella terminologia marzxistica,
sia l’in- sieme dei rapporti di produzione e di lavoro che costituiscono la
struttura sociale, sia l’azione tra- sformatrice che l’azione rivoluzionaria
deve eser- citare su tali rapporti. Marx diceva che bisogna spiegare la
formazione delle idee a partire dalla « prassi materiale » e che di conseguenza
le forme e i prodotti della coscienza possono essere elimi- nati non già
mediante «la critica intellettuale » ma solo mediante «il rovesciamento pratico
dei rap- porti sociali esistenti » (/4eologia tedesca, 2; tradu- zione ital.,
pag. 34) (v. MATERIALISMO STORICO). Per «rovesciamento della P.?, Engels intese
la reazione dell’uomo alle condizioni materiali dell’esistenza, la sua capacità
di inserirsi nei rapporti di produzione e di lavoro e di trasformarli
attivamente: questa possibilità è il capovolgimento del rapporto fonda- mentale
tra struttura e sovrastruttura per il quale è solo la prima (cioè la totalità
dei rapporti di pro- duzione e di lavoro) che determina la seconda cioè l'insieme
delle attività spirituali umane (cfr. ENGELS, Antidihring, 1878). PREAMBULA
FIDEI. Così S. Tommaso chiamò l'insieme di quelle verità la cui dimostra- zione
è necessaria alla fede stessa, tra le quali in primo luogo l’esistenza di Dio
(In Boet. de Trinit., a. 3) (v. Dro, Prove DI; TOMISMO). PREANIMISMO. V.
Animismo. PREFORMAZIONE PRECISIONE (ingl. Precision; franc. Pré- cision; ted.
Pràcisione). Il procedimento per il quale si considera la singola parte di un
tutto, prescin- dendo dal tutto e dalle altre parti, in modo da riu- scire a
determinarla nei suoi caratteri propri. Così la P. fu definita dalla Logica di
Arnauld (I, 5) che perciò la considerava come una forma particolare
dell’astrazione (v.). Il risultato di questo procedimento è, ovviamente,
l’esatta caratterizza- zione delle parti di un tutto; e pertanto nel linguaggio
corrente, « P.» è diventato sinonimo di esattezza e « preciso » di esatto.
Peirce ha parlato, nel senso proprio, di astrazione precisiva (v. ASTRAZIONE). PREDESTINAZIONE
(lat. Praedestinatio; ingl. Predestination; franc. Prédestination; tedesco Pradestination).
Nella teologia cristiana, è la scelta che Dio fa degli eletti cioè di coloro
che si salve- ranno: scelta che, secondo Sant'Agostino, è stata fatta prima
della creazione del mondo (De Prae- destinatione, 10). Per i problemi relativi,
v. GRAZIA. La P. è sempre P. alla salvezza; ma è stata talora anche sostenuta
(e condannata dalla Chiesa) la P. doppia cioè quella alla salvezza e alla
dannazione. Tale dottrina fu sostenuta, per es., dal monaco Godescalco di
Corbie e fu combattuta da Hinkmar (rx sec.). In età moderna la sostennero i
Calvinisti (v. PRETERIZIONE). PREDETERMINISMO (ingl. Predeterminism; franc.
Prédéterminisme; ted. Pràdeterminismus). Ter- mine adoperato da Kant per
designare il determi- nismo rigoroso cioè quello secondo il quale « le azioni volontarie,
in quanto avvenimenti di fatto, banno le loro ragioni sufficienti nel tempo
anteriore, il quale, insieme con ciò che contiene, non è più in nostro potere»
(Religion, I, cap. IV, Osserva- zione generale) (v. IDETERMINISMO). PREDICABILI
(gr. xemnyopovpeva; lat. Prae- dicabilia; ingl. Predicables; franc.
Prédicables; ted. Pradicabilien). Gli universali, in quanto adatti per natura
ad essere predicati di più cose. Porfirio per primo enumerò i cinque universali
semplici o primitivi cioè il genere, la specie, la differenza, il proprio e
l’accidente (Isag., 1). Aristotele aveva enumerati come elementi di ogni
proposizione o problema quattro elementi, cioè la definizione, il proprio, il
genere e l’accidente (Top., I, 4, 101 b 24); ma questa enumerazione, includendo
la defini- zione (che è composta del genere e della specie) non prende in
considerazione la semplicità degli elementi. L’enumerazione di Porfirio rimase
classica ed entrò a far parte integrante della logica tradi- zionale. Non ha
avuto seguito invece la proposta kantiana di chiamare P. i concetti
dell'intelletto derivati dalle categorie: come sarebbero, secondo Kant, i
concetti di forza, azione, passione, derivabili dalla 691 categoria della
causalità; di presenza e resistenza, derivabili dalla categoria della
reciprocità; del sorgere, del perire, del mutare, derivabili dalle categorie
della modalità, ecc. (Crit. R. Pura, $ 10). La nozione è sparita dalla logica
contemporanea (v. le singole voci). PREDICAMENTO. V. CATEGORIA. PREDICATIVO
(ingl. Predicative; franc. Pré- dicatif, ted. Pradicativ). 1. Si chiama P.
l’uso del verbo essere come copula di una proposizione cioè nel suo significato
non esistenziale (v. ESSERE). 2. Si chiama P. una definizione che non è impredicativa
nel senso che Poincaré ha dato a questo termine (v. IMPREDICATIVA,
IDEFINIZIONE) € pertanto si chiama P. anche la teoria che esclude per principio
le definizioni impredicative o il calcolo proposizionale fondato su tale
esclusione (cfr., ad es., CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic, $ 58) (v.
ANTINOMIA). PREDICATO (ingl. Predicate; franc. Prédicat; ted. Prédikat). Nella
Logica aristotelica la proposi- zione consiste nell’affermare (o negare)
qualcosa di qualcosa: essa quindi si scinde in due termini essenziali, il
soggetto, ossia ciò di cui si afferma (o nega) qualcosa, e il P.
(xamyopovpevov), che è appunto quello che viene affermato (o negato) del
soggetto: così in « Socrate è bianco », ‘ Socrate ’ è il soggetto, ‘bianco’ il
predicato. Il quale P. può essere essenziale, proprio, oppure semplice- mente
accidentale. Attraverso Boezio questa dottrina è passata nella Logica medievale
(cfr. Pietro Ispano, 1.07: « Subiectum est de quo aliquid dicitur; praedi- catum
est quod de altero dicitur+) e attraverso questa in tutta la Logica
occidentale. Nella Logica contemporanea, essendo entrata in crisi la conce- zione
predicativa della proposizione (ossia quella concezione che fa consistere
quest’ultima, appunto, nell’attribuzione di un P. ad un soggetto), il ter- mine
« P.» ha un uso alquanto oscillante. Russell (Princ. Math. 13, pag. S1 sgg.) dà
il nome di «P.» alle funzioni proposizionali di primo ordine, cioè quelle che
contengono solo variabili individuali (cioè, va- riabili sostituibili solo con
nomi propri, denotanti individui). Hilbert e Ackermann (Grundzilge der theoretischen
Logik), ritornando in qualche modo all’uso classico, intendono propriamente con
«P.» il funtore di una qualsiasi proposizione funzionale con una o più
variabili. Analogamente, ma con maggiore precisione, Carnap (cfr., per es.,
Ein- fiihrung in die symbolische Logik, 1954, pag. 4 sgg.) usa «P.» per
indicare il simbolo di proprietà o relazioni attribuite ad individui. G.P. PREDIZIONE.
V. PREVISIONE. PREESISTENZA. V. METEMPSICOSI. PREFORMAZIONE (ingl.
Preformation; fran- cese Préformation; ted. Praformation)i. Col nome 692 di
teoria della P. (o preformismo) fu designata nel sec. xvi la teoria sulla
formazione degli or- ganismi secondo la quale gli organi di esso sono già
preformati nell’uovo. Già Malpighi nel 1637 aveva avanzato questa teoria,
riconoscendo che gli organi si trovano preformati nell’uovo, non sotto la forma
che avranno nell’embrione o nell'adulto, ma sotto la forma di filamenti o
stamina ciascuno dei quali è la potenza di un organo parti-
colare (La formazione del pollo
nell’uovo, 1637). Questa teoria venne accettata nel *700 da molti biologi come
Haller, Spallanzani, Bonnet che si chiamavano « ovisti », per distinguersi
dagli « ani- maculisti » che verso la fine del'600 avevano ri- tenuto che lo
spermatozoo fosse un piccolo omiciat- tolo provvisto di tutte le parti del feto
umano. La dottrina della P. veniva accettata da Leibniz il quale riteneva che
«Dio ha preformato le cose in modo che i nuovi organismi non sono che la conseguenza
meccanica di un organismo precedente + (Théod., pref.). Kant riteneva che, una
volta am- messo il principio teleologico per la produzione degli esseri
organizzati, restano solo due ipotesi per spiegare la causa della loro forma
finale: o l’occa- sionalismo, secondo il quale Dio interviene diretta- mente in
ogni nuova formazione organica; o il prestabilismo, secondo il quale un essere
organico produce il suo simile. A sua volta il prestabilismo può essere o
teoria della P. se la generazione si considera come semplice sviluppo di una
forma preesistente; o teoria dell’epigenesi se la generazione si considera come
produzione. Kant non nascondeva la sua simpatia per la teoria dell’epigenesi in
quanto gli sembrava che riducesse di molto, rispetto all’altra, l'azione delle
cause soprannaturali e si prestasse ad una prova empirica (Crir. del Giud., $
81). La
moderna teoria dell’evoluzione ha
eliminato il fondamento stesso del contrasto tra teoria della P. e teoria
dell’epigenesi (v. EPIGENESI; EvOLU- ZIONE). PREFORMAZIONISMO o PREFORMI. SMO.
V. PREFORMAZIONE. PRELOGICO (franc. Prélogique). Aggettivo introdotto da L.
Lévy-Bruhl per caratterizzare la mentalità dei popoli primitivi in quanto
ritenuta indifferente al principio di contraddizione e fondata sulla
partecipazione (v.) (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures,
1910, pag. 78 sgg.). In se- guito Lévy-Bruhl ha abbandonato questo concetto. «Non
c'è una mentalità primitiva che si distingua dall’altra per due caratteri che
le sono propri (mistico e P.). C'è una mentalità mistica più ac- centuata e più
facilmente osservabile fra i primitivi che non nelle nostre società, ma che è
presente in tutto lo spirito umano » (Les carnets, 1949, VI; trad. ital., pag.
161). PREFORMAZIONISMO O PREFORMISMO PREMESSA (gr. npéraow; lat. Praemissa; ingl.
Premise; franc. Prémisse; ted. Pramisse). Ogni proposizione da cui si inferisce
un’altra pro- posizione. PREMOZIONE (lat. Praemotio; ingl. Pre- motion; franc.
Prémotion). Termine adoperato dai teologi del ’600 per indicare la
determinazione fisica, da parte di Dio, della volontà umana: deter- minazione
fisica, che non eliminerebbe la libertà dell’uomo. Malebranche discusse questa
nozione nelle sue Réflexions sur la P. physique (1705). PRENOZIONE (ingl.
Prenotion; franc. Pré- notion; ted. Vorbegriff). Termine introdotto da Durkheim
per indicare i concetti prescientifici fondati su una generalizzazione
imperfetta o fretto- losa, che F. Bacone chiamava anticipazioni o idoli (Régles
de la méthode sociologique, pag. 23) (v. ANTICIPAZIONE). PRENSIONE (ingl.
Prehension). Termine col quale Whitehead in Process and Reality (1929) ha designato
la percezione in quanto con essa il soggetto apprende o afferra una «entità
reale» cioè una cosa o un evento. In realtà il nome stesso di perce- zione ha
già questa connotazione (v. PERCEZIONE). PREOCCUPAZIONE. V. Cura. PREPERCEZIONE
(ingl. Preperceprion; fran- cese Préperception; ted. Praperzeption). Così
talora è stata chiamata la funzione selettiva che l’attenzione intellettuale
esercita sulla percezione sensibile (cfr., ad es., JAMES, Princ. of Psychol.,
I, pag. 438-45). PRESCIENZA. V. TEODICEA. PRESCISSIONE (ingl. Prescission).
L’astra- zione « precisiva », che Peirce distingue dall’astrazione ipostatica,
come l’operazione di scelta che è impli- cita nel più semplice fatto di
percezione: in quanto, ad es., percepire un colore significa prescindere dalla
forma e in ogni caso isolare questa deter- minazione « colore » dalle altre con
cui il colore si presenta unito (Coll. Pap., 1.549 n; 2.428; 4.235) (v.
ASTRAZIONE). PRESENTAZIONE (ingl. Presentation; fran- cese Présentation; ted.
Prasentation). Conoscenza immediata o diretta: percezione o intuizione. Il termine
è stato introdotto da Spencer che distin- gueva la conoscenza presentativa che
si ha quando «il contenuto di una proposizione è la relazione fra due termini
entrambi i quali sono direttamente presenti, come quando pungo il mio dito e
sono simultaneamente conscio della pena e del posto in cui essa è » dalla
conoscenza rappresentativa che è il ricordo o l’immaginazione dell’altra
(Prince. of Psychology, $ 423). Il termine fu accettato da molti psicologi
dell’ 800, ma è oggi caduto in disuso. PRESENTAZIONISMO (ingl. Presentatio- nism;
franc. Présentationisme). Così Hamilton PREVISIONE chiamò il suo «realismo
naturale» cioè la dot- trina secondo la quale la percezione è una rela- zione
immediata con l’oggetto esistente (Disser- tations on Reid, pag. 825). PRESENTE. V. ATTIMO; Ora; TEMPO. PRESENZA (ingl. Presence; franc. Présence; ted.
Anwesenheit). Il termine è adoperato in due significati
principali: 1° l’esistenza di un oggetto in un certo luogo, per cui ad es., si
dice « x era pre- sente alla riunione di ieri sera»; 2° l’esistenza dell'oggetto
in un rapporto conoscitivo immediato;
e così si dice che è presente un oggetto
che è visto o che è dato a una qualsiasi forma di intuizione o di conoscenza
immediata. Nell'ambito del primo significato gli Scolastici distinguevano, a
scopo teologico (cioè per descrivere la presenza di Dio o degli angeli nelle
cose o quella del corpo di Cristo nel pane nel sacramento dell’altare) due
forme di P., quella detta circum- scriptiva per la quale una cosa è tutta in
tutto lo spazio che occupa e parte in ciascuna parte dello spazio; e quella
definitiva per la quale una cosa è tutta nella totalità del suo spazio e tutta
anche in ciascuna parte di questa totalità. La prima P. è un modo d'essere
quantitativo; la seconda esclude ogni quantità (cfr., per es., S. ToMMAsO, S.
7h., I, q. 52, a. 2; OCKHAM, Quodi., VII, q. 19). Heidegger ha chiamato P. o
semplice P. (Vor- handenheit) il modo d'essere delle cose, in quanto diverso
dal modo d’essere dell’uomo che è l’esi- stenza (Sein und Zeit, $ 9). Sartre
invece ha parlato della « P. all’essere del Per-sè » cioè della coscienza, nel
senso che tale presenza implicherebbe che «il Per-sè è il testimone di sè in P.
dell’essere come non essente l’essere »: il che significherebbe che la P.
all’essere è « P. del Per-sè in quanto non è» (L’étre et le néant, pag.
166-67). PRESTABILISMO. V. PREFORMAZIONE. PRESUNZIONE (lat. Praesumptio; ingl. Pre- sumption; franc.
Présomption; ted. Prasumtion). I. Un giudizio anticipato e
provvisorio, che si ritiene valido fino a prova in contrario. Per es., « P. di
colpa » è un giudizio di colpevolezza che viene mantenuto finchè non sia stata
addotta una prova in contrario; e significato analogo hanno espressioni «P. di
verità» o «P. pro» o «P. contro» una pro- posizione qualsiasi. 2. Fiducia
eccessiva nelle proprie possibilità; e in questo senso si dice presuntuoso
colui che nutre tale fiducia. PRESUPPOSTO (ingl. Presupposition; fran- cese
Présupposition; ted. Voraussetzung). 1. La premessa non dichiarata di un
ragionamento: cioè la premessa di cui si fa uso nel corso di un ragiona- mento
ma che non è stata preventivamente enun- ciata e nei cui confronti pertanto non
esiste un 693 impegno definito. Il P., a differenza della premessa, del
postulato, dell’ipotesi, ecc., è introdotto surret- tiziamente nel corso di un
ragionamento e limita o dirige il ragionamento stesso in modo subdolo o nascosto.
Esso si può anche definire come una regola surrettizia di inferenza. Pertanto
il principio dell’eliminazione dei P. è fondamentale per tutti i campi della
ricerca nel mondo moderno. L’espres- sione « eliminazione dei P.» (ted.
Voraussetzungslo- sigkeit) pare sia stata coniata soltanto da Fr. Strauss (Leben
Jesu, 1836, pag. IX): ma l'esigenza che tale espressione racchiude è quella con
la quale è nata sia la scienza moderna, che con Galilei ha cercato di liberarsi
dei P. metafisici, sia la filosofia moderna che con Bacone e Cartesio ha
affermato l’esigenza di una ricerca radicale cioè fondata soltanto su premesse
dichiarate. L'eliminazione dei P. è anche diretta a evitare che nell’ambito di
un certo campo di ricerche agiscano credenze che appartengono a campi diversi e
che queste limitino in modo incon- trollabile la ricerca stessa. Un uso più
ristretto e tecnico ha fatto, del principio dell’eliminazione dei P., Husserl
il quale si è avvalso di esso per la delimi- tazione della sfera fenomenologica
(Logische Unter- suchungen, II, Intr., $ 7). 2. Lo stesso che premessa o
postulato o ipotesi. Questo secondo significato può condurre a con- fusioni. PRETERIZIONE
(ingl. Preterition; franc. Pré- térition). Concetto di cui la teologia
calvinista si è avvalsa per attenuare la dottrina della doppia predestinazione:
i reprobi sono tali perchè Dio li ha «trascurati» nella sua scelta (cfr.
CALVINO, Institutions de la religion chrétienne, III, cap. 24). PREVISIONE (gr.
rpéyvwer; ingl. Prediction; franc. Prévision; ted. Voraussage). Uno degli scopi
fondamentali della spiegazione scientifica o questa stessa spiegazione. Nella
scienza antica, l’impor- tanza della P. fu accentuata soltanto nell’ambito della
medicina (IPPOCRATE, Prognostikon, I). Ga- lileo ne esponeva il concetto
affermando che «la cognizione di un solo effetto acquistata per le sue cause ci
apre l’intelletto ad intendere ed assicurarsi d’altri effetti senza bisogno di
ricorrere all’espe- rienza » (Discorsi intorno a due nuove scienze, in Opere,
ed. Utet, II, pag. 799). La P. fu utilizzata da Hume nella sua critica della
causalità: « Essendo costretti dalla consuetudine a trasferire il passato al
futuro, in tutte le nostre inferenze, quando il passato si è manifestato del
tutto regolare e uni- forme, noi aspettiamo l’avvenimento con la mas- sima
sicurezza e non lasciamo posto per qualche supposizione contraria » (Ing. Conc.
Underst., VI). Fu messo in primo piano da Comte con la sua formula «Scienza,
donde P.; P., donde azione» (Cours de phil. pos., 1830, I, pag. 51). E fu
espresso 694 da Hertz nella parole con cui si apre l’Introduzione dei
Prinzipien der Mechanik (1894): « Il più diretto e in un certo senso il più
importante problema che la nostra consapevole conoscenza della natura ci rende
capaci di risolvere è l’anticipazione degli eventi futuri, sicchè poi possiamo
ordinare le nostre faccende presenti in accordo con tali anticipazioni ». Peirce
fondava sulla P. la verità pratica dell’ipotesi scientifica: « Nell’induzione
non è il fatto previsto che in qualche misura necessiti la verità dell’ipotesi
o la renda probabile. Ma è il fatto che esso è stato previsto con successo e
che è un campione scelto a caso di tutte le P. che possono essere basate sul-
l'ipotesi e che costituiscono la verità pratica di essa » (Coll. Pap., 6.527).
Nel neoempirismo contemporaneo, alcuni filosofi tendono a ridurre la P. alla
spiegazione altri a ridurre la spiegazione alla previsione. Nel primo senso si
esprime Carnap secondo il quale «la na- tura di una P. è la stessa, rispetto
alla conferma e all’attestazione, di quella di un enunciato circa un evento
presente non direttamente da noi osser- vato, per es., circa un processo che
ora è in corso nell’interno di una macchina o un evento politico in Cina («
Testability and Meaning », in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 87).
Nel secondo senso, si esprime Quine il quale dichiara di pen- sare che lo
schema concettuale della scienza è da ultimo uno strumento per prevedere
l’esperienza futura alla luce dell’esperienza passata (From a Logical Point of
View, II, 6). L'identità della logica della P. con quella della spiegazione è
stata asse- rita da Feigl (in Readings, cit., pag. 417-18); mentre Hempel ha
sostenuto la tesi della identità struttu- rale (o della simmetria) di
spiegazione e P. nel senso «che ogni spiegazione adeguata è potenzial- mente
una P. e inversamente ogni P. adeguata è potenzialmente una spiegazione +
(Aspects of Scien- tific Explanation, 1965, pag. 367). Popper, dopo aver
asserito che tutte le scienze teoretiche, anche quelle sociali, sono scienze di
P., ha insistito sulla distinzione tra la P. scientifica e la profezia sto- rica
perchè quest’ultima manca del carattere con- dizionale della prima. « Le P.
ordinarie della scienza, egli ha detto, sono condizionali. Esse asseriscono che
certi mutamenti (per es., della temperatura dell’acqua in un bollitoio) sarà
accompagnato da altri cambiamenti (per es., il bollire dell’acqua)» (Conjectures
and Refutations, 1965, pag. 339). Reichenbach usò il termine post-vedibilità
(post dictability) per indicare la possibilità di determi- nare «i dati passati
in termini di osservazioni date » (Philosophic Foundations of Quantum
Mechanics, 1944, pag. 13). Il termine postvisione o retrovisione (postdiction
or retrodiction) è stato poi adoperato per indicare l’inverso logico di una P.
cioè l’in- PRIMALITÀ ferenza che procede da un evento presente all’in- dietro,
verso una condizione iniziale già conosciuta (Hanson, The Concept of the
Positron, 1963, pag. 193). V. SPIEGAZIONE. PRIMALITÀ (lat. Primalitas; ted.
Primalitàt). Il principio costitutivo dell’essere, secondo Cam- panella. Ci
sono tre P.: il potere (potentia) il sapere (sapientia) e l’amore (amor) che in
Dio sono infinite e nelle cose sono invece limitate dai loro contrari, l’impotenza,
l’insipienza e l’odio, che costituiscono il non essere (Metaphysica, 1638, VI,
Proem.). Il termine vale lo stesso che principio (v.). PRIMARIE E SECONDARIE,
QUALITÀ. V. QUALITÀ. PRIMARIO (lat. Primarius; ingl. Primary; franc. Primaire;
ted. Primàr). 1. Ciò che è primo o più importante in un campo qualsiasi; o ciò
che è primo nel senso che condiziona ciò che vien dopo, senza essere
condizionato da esso. Questo era uno dei sensi, e il senso fondamentale, che
Aristotele attribuiva alla parola «prima» (Mer., V, 11, 1019a 2), ed è quello
che più frequentemente è connesso con l’uso del termine. « Qualità P.+, ad es.,
sono le qualità di cui i corpi non possono mancare e che condizionano le «
qualità secondarie ». « Scuola P. + è quella che tutti debbono frequentare e
che prepara agli altri tipi di scuola. « Attenzione P.» è stata detta da alcuni
psicologi l’attenzione primitiva o originaria, ecc. Si dice pura «importanza
P.» per dire importanza fondamentale o condizionante. 2. Lo stesso che
primitivo (v.). PRIMATO (ingl. Primacy; franc. Primauté; ted. Primat).
L'importanza primaria o condizionante di una cosa rispetto alle altre. Dice
Kant: « Per P. tra due o più cose legate mediante la ragione, intendo la
superiorità di una di esse in quanto è il primo motivo determinante del legame
con tutte le altre ». Più precisamente « P. della ragion pratica » significa la
prevalenza dell’interesse pratico sull’in- teresse teoretico nel senso che la
ragione ammette, in quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere
nel suo uso teoretico e che non costi- tuiscono una sua estensione conoscitiva:
i postulati della ragion pratica (Crit. R. Pratica, II, cap. 2, sez. 3). La
parola P. è stata usata nel campo politico per indicare la funzione
predominante che un certo elemento (popolo, nazione, classe, gruppo sociale,
ecc.) ha o deve avere nella totalità cui appartiene. Gioberti ha parlato in
questo senso del P. morale e civile degli Italiani (1843). In questa sua
estensione il termine acquista significati anche più vaghi e arbitrari che nel
primo. PRIMITIVISMO (ingl. Primirivism; franc. Pri- mitivisme). 1.
L'atteggiamento o la mentalità dei popoli primitivi specialmente nel suo
aspetto per cui l’individuo si conforma, presso di essi, alle PRINCIPIO valutazioni
dell’ambiente. In questo senso il termine è usato, per es., da Scheler
(Sympathie, cap. III; trad. franc., pag. 362, n. 2). 2. La credenza che la
forma più perfetta della vita umana è quella che essa ebbe nel primo periodo dell’umanità
(mito dell’età dell’oro); o quella che essa riveste nei popoli primitivi,
ritenuti più gio- vani (mito del « buon selvaggio +). Per questo signi- ficato di
P., vedi LovEJsoy e Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity, 1935;
Boas, Essays on Pri- mitivism and Related Ideas in the Middle Ages, 1948). PRIMITIVO (ingl. Primitive; franc. Primitif; ted.
Primitiv). 1. Lo stesso che originario (v. ORIGINE) nel duplice senso di questo
termine cioè: a) come ciò che appartiene alla fase iniziale di uno sviluppo o
di una storia e in questo senso si dice « la nebu- losa P.», «l’umanità P.», o
anche «le P. popola- zioni italiche »; 5) come ciò che funge da condizione,
principio o premessa e perciò determina altre cose mentre non è determinato da
esse; in questo senso si dice « proposizione P. », « funzione P.» e si chia-
mano «simboli P. » quelli introdotti direttamente, cioè senza l’aiuto di altri
simboli. 2. Ciò che è semplice nel senso che costituisce la forma più
elementare che un certo oggetto può assumere e in questo senso si parla di «
uomini P. » o semplicemente de «i P.». Durkheim si è servito per definire i P.
di questo significato e insieme di quello di cui in a) (Les formes élémentaires
de la vie religieuse, 1937, pag. 1). Ma Lévy-Brubl ha scritto: «Con questo
termine improprio, ma di uso quasi indispensabile, intendiamo semplicemente
designare i membri delle società più semplici che conosciamo » (Les fonctions
mentales dans les so- ciétés inférieures, 1910, pag. 2). Nello stesso senso si
adopera oggi la parola primario (v.). Per ciò che concerne le interpretazioni
del mondo P., esse possono essere raggruppate in due classi: a) la classe di
quelle interpretazioni che conside- rano il mondo P. come prelogico,
preempirico e mistico, quindi completamente diverso, quanto alla sua
costituzione, dal mondo della società civile. È questa l’interpretazione che è
stata specialmente difesa da Lévy-Bruhl (del quale oltre lo scritto citato,
vedi: La mentalité primitive, 1922; L’éme primitive, 1927; L’expérience
mystique et les sym- boles chez les primitifs, 1938); ma che dallo stesso Lévy-Bruhl
è stata corretta nel senso di sfumare o attenuare la differenza tra la
mentalità P. e quella non P., considerandola come differenza di grado più che
di qualità (Les carnets, 1949); b) la classe di quelle interpretazioni le quali
am- mettono che anche le comunità P. sono in possesso di un considerevole
patrimonio di conoscenze fon- date sull’esperienza e sulla ragione e che l’uomo
P. tende a ricorrere alla magìa o al misticismo solo 695 quando le conoscenze
da lui possedute non aiu- tano più. Questa è l’interpretazione specialmente sostenuta
da Bronislaw Malinowski (Magic, Science, and Religion, 1925) e seguita oggi da
quasi tutti i sociologi. PRIMO MOBILE. V. MosiLe, Primo. PRIMO MOTORE. V. Dro,
Prove DI. PRIMORDIALE (ingl. Primordial; franc. Pri- mordial). Lo stesso che
originario (v.). PRINCIPIO (gr. &pyh; lat. Principium; inglese Principle;
franc. Principe; ted. Prinzip, Grundsat2). Il punto di partenza e il fondamento
di un processo qualsiasi. I due significati di « punto di partenza » e di
«fondamento» o «causa» sono strettamente connessi nella nozione di questo
termine, che fu introdotto in filosofia da Anassimandro (SIMPLICIO, Fis. 2A,
13), cui Platone faceva ricorso frequente- mente nel senso di causa del
movimento (Fedr., 245 c) o di fondamento della dimostrazione (Teet., 155 d) e
di cui Aristotele fu il primo a enumerare esaurientemente i significati. Tali
significati sono i seguenti: 1° punto di partenza di un movimento, per es., di
una linea o di una strada; 2° punto di par- tenza migliore, per es., quello che
rende più facile im- parare una cosa; 3° punto di partenza effettivo di una
produzione, per es., la chiglia di una nave o i fondamenti di una casa; 4°
causa esterna di un pro- cesso o di un movimento, per es., un insulto che pro- voca
una zuffa; 5° ciò che con la sua decisione deter- mina movimenti o mutamenti,
per es., il governo 0 le magistrature di una città; 6° ciò da cui parte un processo
di conoscenza, per es., le premesse di una dimostrazione. Aristotele aggiunge a
questa elen- cazione: « Anche ‘causa’ ha gli stessi significati: giacchè tutte
le cause sono princìpi. Ciò che tutti i significati hanno in comune è che, in
tutti, P. è ciò che è punto di partenza o dell’essere o del divenire o del
conoscere + (Mer., V, 1, 1012 b 32-1013 a 19). Queste notazioni di Aristotele
contengono pres- sochè tutto quel che la tradizione filosofica posteriore ha
detto intorno ai princìpi. Solo un altro significato occorre forse distinguere:
come punto di partenza e causa, il P. è talora assunto come l’elemento costi- tutivo
delle cose o delle conoscenze. Questo probabil- mente era uno dei sensi în cui
la parola era usata dai presocratici: un senso che Aristotele stesso talvolta
adopera (Mer., I, 3, 983 b 11; ITI, 3, 998 b 30, ecc.). In questo senso
Lucrezio chiamava P. gli atomi (De nat. rer., II, 292, 573, ecc.); e gli Stoici
distinguevano elementi e P. solo per il fatto che i P. sono ingenerabili e
incorruttibili (Dog. L., VII, 1, 134). Nel sec. xvi, Cristiano Wolff definendo
il P. come « ciò che contiene in sè la ragione di qualche altra cosa» (Onf., $
866) osservava che questo significato era conforme alla nozione aristotelica 696
e che da questa nozione non si erano allontanati gli Scolastici (Onr., $ 879).
Baumgarten, al quale tanto deve la terminologia filosofica moderna, ripe- teva
la definizione di Wolff (Mer., $ 307). Kant da un lato restringeva l’uso del
termine al campo della conoscenza, intendendo per P. «ogni proposizione generale,
anche desunta per induzione dall’espe- rienza, che possa servire da premessa
maggiore in un sillogismo », ma dall'altro introduceva la nozione di «P.
assoluto » o «P. in sè» cioè di conoscenze sintetiche originarie e puramente
razionali, cono- scenze che egli riteneva insussistenti, ma alle quali pensava
che la ragione facesse appello nel suo uso dialettico (Crir. R. Pura,
Dialettica, II, A). Nella filosofia moderna e contemporanea la no- zione di P.
tende a perdere la sua importanza. Essa infatti include la nozione di un punto
di par- tenza privilegiato: e privilegiato non relativamente, cioè rispetto a
certi scopi, ma assolutamente ed in sè. Un punto di partenza di questo genere
diffi- cilmente potrebbe oggi essere ammesso nel dominio delle scienze.
Poincaré a giusto titolo osservava che un P. non è che una legge empirica che
si trova comodo sottrarre al controllo dell’esperienza me- diante opportune
convenzioni: un P. perciò non è nè vero nè falso ma soltanto comodo (La valeur
de la science, 1905, pag. 239). Nel dominio matematico e logico, in cui
opportunità di questa natura non si presentano, il termine è caduto in disuso
per indicare le premesse di un discorso ed è stato sosti- tuito da assioma o
postulato. Frequentemente si chiamano P., in questi campi, particolari teoremi di
cui si voglia sottolineare l’importanza per lo sviluppo ulteriore di un sistema
simbolico. Peirce ha chiamato P. guida (Leading Principle) il P. che «
dev’essere supposto vero per sostenere la validità logica di un argomento
qualsiasi » (Coil. Pap., 3.168; cfr. Dewey, Logic, I; trad. ital., pag. 46). PRINCIPIO
ATTIVO (gr. rò rorotv). Così gli Stoici chiamarono la Ragione o la Causa o Dio,
in quanto informa la materia (che è il P. passivo) producendo in essa i singoli
esseri (DioG. L., VII, 134); principio che essi identificarono col Fuogo inteso
come calore o spirito animatore (/bid., VII, 156; CiceR., De nat. deor., II,
24). PRINCIPIO DI AZIONE MINIMA; DI CAUSALITÀ; DI CONTRADDIZIONE; DI IDENTITÀ;
DEGLI INDISCERNIBILI; DI INDIVIDUAZIONE; DI RAGION SUFFI- CIENTE; DEL TERZO
ESCLUSO; ecc. V. i relativi termini. PRIORITÀ (ingl. Priority; franc. Priorité;
te- desco Prioritàt) 1. Precedenza nel tempo. 2. Carattere di ciò che è
primario (v.). PRIVAZIONE (gr. otépnow; lat. Privatio; in- glese Privation;
franc. Privation; ted. Privation). La PRINCIPIO ATTIVO mancanza di ciò che, a
qualsiasi titolo, potrebbe o dovrebbe essere. Questo è il senso della
definizione che Wolff dette del termine: «Il difetto di una realtà che poteva
essere o a cui l’essere di per sè non ri- pugna» (Onr., $ 273). Aristotele
aveva incluso tra i significati del termine (tutti riducibili a quello ora enunciato)
anche la mancanza di un attributo che non appartiene naturalmente alla cosa
come quando si dice che una pianta è priva di occhi (Mer., V, 22, 1022 b 22).
Ma questa generalizzazione eccessiva rende il concetto pressocchè inutile.
Wolff stesso di- stingueva le entità privative che consistono in una mancanza
(come cecità, morte, tenebre, ecc.) e i nomi relativi, dalle entità positive e
dai loro nomi (Ont., $ 273-274); una distinzione che fu riprodotta da Stuart
Mill, il quale osservava a questo proposito: «I nomi cosiddetti privativi
connotano due cose: l’as- senza di certi attributi e la presenza di altri a
partire dai quali la presenza dei primi poteva naturalmente attendersi »
(Logic, I, 2, $ 6). Queste distinzioni si sono conservate nella logica
ottocentesca di stampo tradizionale (cfr., per es., SIGWART, Logik, 1889, I,
822). PROBABILE (ingl. Probable; franc. Probable; ted. Wahrscheinlich). 1. Un
evento o una proposi- zione con un sufficiente grado comparativo di con- ferma
o di credibilità (v. PROBABILITÀ, 1). 2. Una classe o sequenza di eventi dotata
di un certo grado di frequenza relativa (v. PROBABILITÀ, 2). 3. Ciò che viene
ritenuto vero dai più o dai com- petenti. Questo è il concetto dell’endoxor che
Ari- stotele pose a base della dialettica (v.) e ha poco o nulla a che fare con
le due precedenti nozioni. PROBABILISMO (ingl. Probabilism; francese Probabilisme;
ted. Probabilismus). 1. Lo scetticismo della Nuova Accademia in quanto, pur
negando l’esistenza di un criterio di verità, riconosceva un criterio
sufficiente a dirigere la condotta della vita, in ciò che Arcesilao chiamava il
plausibile (Sesto E., Adv. Math., VII, 158) e Carneade il probabile (Ibid, VII,
166; Ip. Pirr., I, 33, 226). 2. La dottrina, cui faceva frequentemente appello la
casistica dei Gesuiti del sec. xv, che basti, per non peccare, nei casi in cui
l’applicazione della regola morale è dubbia, attenersi ad una opinione probabile,
intendendosi per opinione probabile quella sostenuta da qualche teologo.
Leibniz osservava a questo proposito: « Il difetto dei moralisti rilas- sati è
stato in buona parte quello d’aver avuto una nozione troppo limitata e troppo
insufficiente del probabile che essi hanno identificato con l'opina- bile di
Aristotele » mentre il probabile è, secondo Leibniz, un concetto assai più
esteso (Nouv. Ess., IV, 2, 14). Il P. ebbe, specialmente nel sec. xvu, innumerevoli
varianti tra le quali si possono ricor- PROBABILITÀ dare: il probabiliorismo,
secondo il quale, nei casi in cui l’applicazione di una regola morale è
incerta, bisogna seguire non una qualsiasi opinione proba- bile ma la più
probabile; e il tuziorismo secondo il quale bisogna attenersi alla opinione che
si con- forma alla legge. Si tratta di dottrine e dispute che non hanno
significato fuori della casistica gesuitica del xvi secolo (cfr. A. SCHMITT,
Zur Geschichte des Probabilismus, 1904). 3. L'indirizzo della scienza
contemporanea per il quale il carattere di probabilità viene riconosciuto ad un
numero esteso di conoscenze od a tutte (v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE;
DETERMINISMO). PROBABILITÀ (gr. 16 etx6c; lat. Probabdilitas; ingl.
Probability; franc. Probabilité; ted. Warh- scheinlichkeit). Il grado o la
misura della pos- sibilità di un evento o di una classe di eventi. La P. in
questo senso suppone sempre un’al- ternativa ed è la scelta o preferenza
accordata ad una delle alternative possibili. Se si dice, ad es., «
probabilmente domani pioverà » si esclude come meno probabile l’alternativa «
domani non pioverà »; se si dice «la P. che una moneta cada di testa è di una
metà +», questa determinazione desume il suo significato dal confronto con
l’altra alternativa possibile, che essa cada di croce. Si può esprimere questo
carattere della P. dicendo che essa è sempre la funzione di due argomenti. Un
altro carattere generale della P. (comunque intesa) è che essa, dal punto di
vista quantitativo, viene espressa con un numero reale i cui valori vanno da 0
a 1. Il problema cui la nozione di P. dà luogo è quello del significato cioè
del concetto stesso di probabilità. Quanto al calcolo delle probabilità esso,
finchè non venga interpretato, non dà luogo a problemi: i matematici sono
d’accordo su tutto ciò che può venire espresso in simboli matematici, mentre il
disaccordo comincia, anche tra essi, dove si tratta di interpretare tali
simboli. Carnap (The Two Concepis of Probability, 1945, ora in Readings in the
Phi- losophy of Science, 1953, pag. 441 sgg.) e Russell (Human Knowledge, 1948,
V, 2) hanno entrambi insistito sull’esistenza di due concetti diversi e irreducibili
di P., che il primo ha chiamato rispetti- vamente P. induttiva (o grado di
conferma) e P. statistica (o frequenza relativa), e il secondo grado di
credibilità e P. matematica. Altri nomi sono stati proposti per questi due tipi
di probabi- lità. Kneale ha chiamato accettabilità il primo tipo e caso
(chance) il secondo (Probability and Induction, 1949, pag. 22); Braithwaite ha
chiamato il primo ragionevolezza e il secondo P. (Scientific Expla- nation,
1953, pag. 120). I due concetti si sono fronteggiati negli ultimi quarant'anni,
cercando ognuno di eliminare l’altro; e si possono vedere tipicamente
rappresentati nelle 697 posizioni di Von Mises e di Jeffreys. Il primo rigetta
come soggettivistico il concetto di P. indut- tiva e ritiene che sia privo di
senso l’uso del termine P. al di fuori del suo concetto statistico
(Probability. Statisties and Truth, 1928, ed. 1939, lect. I, III), Il secondo
invece ritiene che la definizione cosid- detta oggettiva della P. è
inutilizzabile e che neppure gli statistici la usano perchè « tutti usano la
nozione di grado di credenza ragionevole, abitual- mente senza neppure notare
che la usano » (Theory of Probability, 1939, pag. 300). Poichè le osserva- zioni
di Carnap e Russell tolgono significato a questa polemica ma nello stesso tempo
confermano l’esistenza di due concetti diversi di P., si possono assumere tali
concetti per costituire un prospetto delle dottrine relative. E per evitare
qualificazioni polemiche (e inesatte) come quelle di « sogget- tivo» e
«oggettivo», ecc., si può semplicemente assumere come tratto distintivo dei due
concetti di P. la funzione che ognuno di essi adempie e parlare
conseguentemente di 1° P. singolare; 2° P. collettiva. 1° Il primo concetto di
P. può essere in- fatti caratterizzato dicendo che esso ha in vista il grado di
possibilità di un evento singolo: pertanto i suoi argomenti sono per l’appunto eventi
o fatti o stati di cose o circostanze ed essa è espressa in proposizioni del
tipo « Domani pro- babilmente pioverà ». L’antecedente storico remoto di questa
nozione è il concetto neo-accademico di rappresentazione persuasiva (v.): della
quale Car- neade enumerava i gradi, determinati o da prove o da indizi negativi
o positivi (v. PERSUASIVO). I fondatori del calcolo delle P. ebbero in vista appunto
questo concetto di probabilità. Giacomo Bernouilli intitolò il suo trattato,
che fu il primo scritto importante in proposito, Ars conjectandi (1713). Allo
stesso concetto si ispirava la grande opera di Laplace intitolata Théorie
analytique des pro- babilités (1812). Nell’introduzione di quest'opera Laplace
affermava che «la P. degli eventi serve a de- terminare il timore o la speranza
delle persone inte- ressate alla loro esistenza » (Essai philosophique sur les
probabilités, I, 4); e tutta la sua opera non si oc- cupa di statistica ma di
metodi per stabilire l’accet- tabilità delle ipotesi. Da questo punto di vista,
la P. era definita come « il rapporto dei numeri dei casi favorevoli a quello
di tutti i casi possibili ». E il principio fondamentale per valutare le P. era
il cosiddetto principio di indifferenza o di equiproba- bilità, secondo il
quale, in mancanza di ogni altra informazione, si assume che i vari casi sono
ugual- mente possibili: sicchè ad es., quando un dado è gettato, si assume che
ognuna delle sue facce ha uguali P. di apparire, sicchè ciascuna faccia ha la stessa
P. di 1/6 (op. cit., I, 3). 698 Per quanto questa teoria sia stata sottoposta a
critiche accanite, essa è stata ripresa nel 1921 dal- l'economista inglese John
Maynard Keynes nel suo Trattato sulla P. e più tardi riesposta da F. P. Ramsey (The
Foundations of Mathematics, 1931) e da H. Jef-
freys (Theory of
Probability, 1939). Tutti questi scrittori
definiscono la P. come un « grado di cre- denza razionale» ed ammettono la
validità del principio di indifferenza ma, come ha notato lo stesso Carnap, il
carattere soggettivistico di quella definizione è solo apparente; giacchè ciò
che essi hanno cercato di determinare sono i gradi di con- ferma che possono
essere stabiliti in favore di un’ipotesi determinata. E difatti i gradi di
credenza potrebbero essere soltanto stabiliti con metodi psicologici mentre in
realtà i metodi proposti da quegli autori non hanno nulla di psicologico ma sono
logici e si riferiscono alla disponibilità e alla natura delle prove che
possono confermare un’ipo- tesi. Fondandosi su questo concetto oggettivo della P.
singolare, Carnap ha costruito un sistema di logica quantitativa induttiva, sul
fondamento del concetto di conferma assunto nelle sue tre forme: positiva,
comparativa e quantitativa (Logica! Foun- dations of Probability, 1950). Il
concetto positivo di conferma è la relazione tra due enunciati i (ipotesi) e p
(prova) che può essere espressa da enunciati di questa forma: « i è confermato
da p»; « i è appog- giato da p »; « p è una prova (positiva) per i+; « p è una
prova che sostanzia (o corrobora) l'assunzione di i». Il concetto comparativo
(topologico) di conferma è usualmente espresso in enunciati che hanno la forma
«i è più fortemente confermato (o appoggiato o sostanziato o corroborato, ecc.)
da p che i’ da p'». Infine il concetto quantitativo (o metrico) di conferma
cioè il concetto di grado di conferma può essere, nei vari campi, determinato da
procedure analoghe a quelle con cui si è introdotto il concetto di temperatura
per spiegare quelli di «più caldo» o «meno caldo» o il concetto di quoziente
intellettuale per determinare i gradi com- parativi di intelligenza. Carnap ha
anche difeso, intendendolo tuttavia in forma limitata, il principio di
indifferenza, applicandolo alle distribuzioni sta- tistiche anzichè alle
distribuzioni singole. La teoria di Carnap è stata in proposito largamente
discussa e accettata. Altre determinazioni del concetto di grado di conferma
sono state proposte (cfr., ad es., HELMER e OPPENHEIM, « A Syntactical
Definition of Probability and Degree of Confirmation» in Journal of Symbolic
Logic, 1945, pag. 25-60). Soltanto il concetto di P. singola, cioè di grado di
conferma, è quello a cui si fa comunemente riferimento nelle faccende della
vita e che viene assunto, esplicitamente o implicitamente, come guida dei
comportamenti individuali. C'è da osser- PROBABILITÀ vare che tra gli indizi o
prove che possono essere assunti a conferma di un’ipotesi qualsiasi cioè a fondamento
di un giudizio di P. nulla vieta che rientri la considerazione delle frequenze
statistiche cui il secondo concetto di P. riduce la P. stessa. Ma talvolta la
P. statistica entra nella determinazione della P. singola con segno invertito:
ad es., per un giocatore del lotto la frequenza con cui un certo numero è
uscito negli ultimi tempi è un indice di P. negativa: i numeri « buoni » sono
per lui quelli che, in un periodo di tempo abbastanza lungo, sono stati i meno
frequenti. Per una difesa di questo concetto di P., proprio in rapporto ai
limiti e alle possibilità della conoscenza umana, cfr. J. R. Lucas, The Concept
of P., Oxford, 1970. 2° Il secondo concetto fondamentale della P. è quello
della P. collettiva o statistica, i cui argomenti non sono mai eventi o fatti
individuali ma classi, specie o qualità di eventi e che quindi possono essere
espressi soltanto con funzioni proposizio- nali (v.) e non con proposizioni.
L’antecedente storico più lontano di questa nozione è il concetto aristotelico
del verisimile (v.): « Probabile è ciò che tutti sanno come per lo più accada o
non accada, sia o non sia» (An. Pr., II, 27, 70a 3; Ret., I, II, 1357 a 34). Ma
la formulazione rigorosa del con- cetto è stata effettuata solo recentemente da
Fischer (in Philosophical Transactions of the Royal Society, serie A, 1922),
von Mises (Probability, Statistics and Truth, 1928), Popper (Logik der
Forschung, 1934) e Reichenbach (Wakrscheinlichkeitslehre, 1935; Theory of
Probability, 1948). Come illustrazione di questa nozione di P. si può scegliere
l’elaborazione che di essa ha dato von Mises con il concetto della
frequenza-limite. Se per n osservazioni l’evento esaminato ha luogo m volte il
quoziente m/n è la frequenza rela- tiva della classe di eventi in questione:
relativa, s'intende, al numero n di osservazioni. Ma se si vuol parlare di
frequenza semplicemente, senza limitare l’estensione delle osservazioni, si può
supporre che la funzione m/n, quando numeratore e denominatore divengono via
via maggiori, tenda a un valore limite; e si può assumere questo valore- limite
come misura della frequenza, cioè come misura della P. nel senso proposto.
Così, per es., se gettando una moneta 1000 volte si ha per la testa una
frequenza di 550; gettandola 2000 volte si ha, sempre per la testa, una
frequenza di 490; gettandola 3000 volte, una frequenza di 505; gettandola 4000 volte
una frequenza di 497; gettandola 10.000 volte una frequenza di 5003; e così
via; poichè il valore limite di queste serie è 05, si assumerà questo valore
limite come valore della P. dell’accadimento in questione. Ma tale accadimento
non è mai un accadimento singolo; e pertanto la P. così PROBLEMA calcolata non
servirà a prevedere il risultato della prossima gettata della moneta e a
consentire, per es., a un giocatore di scegliere la sua scommessa. La P. del
genere vale per classi di eventi e non per eventi singoli. Non si può, ad es.,
parlare della P. che un individuo qualsiasi ha di morire entro l’anno anche
quando si conosce il limite di frequenza della mortalità nel gruppo a cui egli
appartiene (cfr. anche di von Mises, Kleines Lehrbuch des Positivismus, $ 14).
Reichenbach ha affermato a questo proposito: «L’asserzione concernente la P. di
un caso singolo ha un significato fittizio, costruito attraverso il
trasferimento di significato dal caso generale a quello particolare. L’adozione
dei significati fittizi è giustificabile non per motivi conoscitivi ma perchè
serve agli scopi dell’azione considerare tali asserzioni come provviste di
signi- ficato » (Theory of Probability, pag. 377). L’altra caratteristica
fondamentale della teoria è l’elimina- zione del principio di indifferenza cioè
della P. a priori. La teoria statistica della P. infatti non può dire nulla
circa la P. di una classe di eventi senza prima aver determinate le frequenze
dell’evento stesso e quindi un grado di P. qualsiasi può essere determinato
solo a posteriori, cioè dopo avere effettuato la determinazione delle frequenze
(REI- CHENBACH, 0p. cit., $ 70, pag. 359 sgg.). La teoria collettiva o
statistica della probabilità è stata largamente accettata nella filosofia
contem- poranea (si vedano, oltre gli scritti citati, quello di J. O. Wispom,
Foundations of Inference in Natural Science, 1952, e quello di BRAITAWAITE,
Scientific Explanation, 1953). Un’ulteriore determinazione di questa dottrina è
stata data da Popper, specialmente in vista della sua utilizzazione nella
teoria dei quanti. Come si è detto, la P. statistica non concerne eventi singoli
ma classi o sequenze di eventi. Popper pro- pone di considerare come decisive
le condizioni sotto le quali la sequenza è prodotta cioè di consi- derare le
frequenze stesse come dipendenti dalle condizioni sperimentali e pertanto come
costituenti una qualità disposizionale dell’ordinamento speri- mentale. Dice
Popper: « Ogni ordinamento speri- mentale è adatto a produrre, se ripetiamo
l’esperi- mento più volte, una sequenza con frequenze che dipendono da questo
particolare ordinamento. Queste frequenze virtuali possono essere dette probabilità.
Ma poichè le P. vengono a dipendere dall’ordinamento sperimentale, esse possono
essere considerate proprietà di questo ordinamento. Esse caratterizzano la
disposizione o propensione del- l'ordinamento sperimentale a dare origine a
certe frequenze caratteristiche, quando l’esperimento è ripetuto più volte » («
The Propensity Interpretation of the Calculus of Probability, and the Quantum Theory
», in Observation and Interpretation, A_sym- 699 posium of Philosophers and
Physicists, ed. by Kérner, 1957, pag. 67). Il vantaggio di questa interpretazione
sarebbe quello di considerare come fondamentale «la P. del risultato di un
singolo esperimento rispetto alle sue condizioni, piuttosto che la frequenza
dei risultati in un seguito di esperi- menti » (/bid., pag. 68). Popper
avvicina questo con- cetto a quello di campo (v.) e osserva che in questo caso
una P. può essere considerata come « un vet- tore nello spazio delle
possibilità » (Ibid.). Questa in- terpretazione tende ovviamente a diminuire la
di- stanza tra i due concetti fondamentali di probabilità. PROBLEMA (gr.
rpéfimua; lat. Problema; ingl. Problem;
franc. Problème; ted. Problem). In generale,
ogni situazione che includa la possibilità di un’alternativa. Il P. non ha
necessariamente ca- rattere soggettivo; non è riducibile al dubbio per quanto
anche il dubbio sia, in un certo senso, un problema. Esso è piuttosto il
carattere proprio di una situazione che non ha significato unico o che in- clude
comunque alternative di qualsiasi specie. Un P. è la dichiarazione di una
situazione di questo genere. La nozione di P. fu elaborata dalla matematica antica
nella distinzione da quella di teorema (v.). Per problema fu intesa una
proposizione che da certe condizioni note muove alla ricerca di qual- cosa di
ignoto. Alcuni geometri (probabilmente quelli della scuola platonica)
ritenevano che la loro scienza fosse costituita essenzialmente da problemi; altri,
da teoremi (PRocLo, Comm. al I di Euclide, 77, 7-81, 22, Friedlein). Aristotele
definiva il P. come un procedimento dialettico che tende alla scelta o al
rifiuto oppure alla verità e alla cono- scenza + (Top., I, 11, 104b): nella
quale le parole «scelta + o « rifiuto » stanno a indicare le alternative che si
presentano ai problemi di ordine pratico mentre «verità» e «conoscenza»
designano le alternative teoretiche. Aristotele esemplifica la sua definizione
dicendo che un P. del primo genere è se il piacere sia un bene o no; e un P.
del secondo genere è se il mondo sia eterno (/bid., 104b 8). Poichè, dove ci
sono P., ci sono anche sillogismi contrari, i P. possono nascere, secondo
Aristotele, solo dove manca un discorso concludente: il P. in altri termini
appartiene al dominio della dia- lettica cioè dei discorsi probabili, non a
quello della scienza. Comunque, il P. conserva per Ari- stotele il carattere di
indeterminazione, che gli è dato dall’alternativa. Nell’uso matematico del termine,
questo carattere è andato tuttavia atte- nuandosi. La logica medievale aveva
trascurato l’analisi e la definizione di questa nozione; e quando essa comincia
ad attrarre di nuovo l’attenzione dei logici, cioè nel sec. xvii, il
significato che essi le attribuiscono è desunto dalle matematiche. Così Jungius
dice che «Il P. o la proposizione proble- 700 matica è una proposizione
principale che enuncia che qualcosa può essere fatto o mostrato o trovato » {Logica
Hamburgensis, 1638, IV, 11, 7). Leibniz no- tava che « per P. i matematici
intendono le questioni che lasciano in bianco una parte della proposizione » (Nouv.
Ess., IV, II, 7). E proprio appellandosi all'uso matematico, Wolff definiva il
P. come «una proposizione pratica dimostrativa » intendendo per « proposizione
pratica » quella «per la quale si afferma che qualcosa può o deve essere fatta
» ed escludendo esplicitamente il significato aristo- telico del termine (Log.,
$ 276, 266). Non molto diversa da questa è la definizione di Kant: «P. sono proposizioni
dimostrabili bisognose di prove o tali che esprimano un’azione il cui modo
d’effettuazione non è immediatamente certo? (Logik, $ 38). Anche nel pensiero
moderno la nozione di P. è stata ed è tra le più trascurate. I filosofi, pur parlando
continuamente di P. e ritenendo come loro compito la soluzione di un certo
numero di essi e specialmente di quelli che essi stessi defini- scono
«massimi», non si sono troppo curati di analizzare la corrispondente nozione.
Il più delle volte il P. è stato considerato come una condizione o situazione
soggettiva e confuso con il dubbio. Lo stesso Mach lo definiva in questo senso,
come «il disaccordo tra i pensieri e i fatti o il disaccordo dei pensieri tra
loro» (Erkenntniss und Irrtum, cap. XV; trad. franc., pag. 252-53). Solo
recente- mente è stato riconosciuto il carattere di indeter- minazione
oggettiva, che definisce il P.: questo è accaduto nella Logica (1939) di Dewey.
Nel P. Dewey ha visto la « proprietà logica primaria ». Il P. è la situazione
che costituisce il punto di par- tenza di qualsiasi indagine cioè la situazione
inde- terminata. «La situazione indeterminata diventa problematica nello stesso
processo di assoggetta- mento all’indagine. Essa si produce per cause reali,
come avviene, per es., nello squilibrio orga- nico della fame. Non c’è di nulla
di intellettuale o di conoscitivo nell’esistenza di situazioni del genere,
salvo che esse sono la condizione necessaria di operazioni o indagini
conoscitive. Il primo risul- tato del promuovere l’indagine è che la situazione
è riconosciuta come problematica (Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 161).
L’enunciazione del P. consente l’anticipazione di una soluzione possibile che è
l’idea; e l’idea esige quello sviluppo dei rapporti inerenti al suo significato
che è il ragionamento. Infine, la soluzione effettiva è la determinazione della
situazione iniziale cioè il raggiungimento di una situazione unificata nelle
sue relazioni e distin- zioni costitutive. Un’analisi analoga a questa nella
sua struttura fondamentale è quella data da G. Boas, che definisce il P. come
«la coscienza di una devia- zione dalla norma» (The Inquiring Mind, 1959, PROBLEMATICA
pag. 56). All’analisi di Dewey va tuttavia aggiunta una determinazione
fondamentale: cioè il ricono- scimento del fatto che un P. non viene eliminato o
distrutto dalla sua soluzione. Un «P. risolto » non è un P. che non si
presenterà mai più come tale, ma è un P. che continuerà a presentarsi con pro- babilità
di soluzione. La scoperta di un medicamento che guarisce una malattia è la
soluzione di un P.; con essa il P. non risulta eliminato giacchè la malattia continuerà
a presentarsi; ciò che la soluzione consente è pertanto la possibilità, entro
certi limiti garantita, di risolvere il P. tutte le volte che si presenta.
Proprio in base a questo carattere del P., si parla della problematicità dei
campi in cui il P. si presenta. E in questo senso il P. è di- verso non solo
dal dubbio che, una volta risolto viene eliminato e soppiantato dalla credenza,
ma anche dalla questione che, una volta trovata la sua risposta, perde il suo
significato. PROBLEMATICA (ted. Problematik). Una raccolta ordinata o
sistematica di problemi. PROBLEMATICISMO. Termine diffuso in Italia da Ugo
Spirito per designare la dottrina della « vita come ricerca »: una vita
condannata a cercare la verità senza trovarla e perciò a oscillare fra dogma- tismo
e scetticismo (La vita come ricerca, 1937). PROBLEMATICITÀ. Carattere di un
campo di indagine nel quale la soluzione dei problemi non elimina i problemi
stessi. Ad es., «P. dell'esperienza + è il carattere per il quale
nell'esperienza i problemi cosiddetti risolti non sono che possibilità di solu-
zioni prospettate in anticipo, con qualche garanzia di successo, dei problemi
che via via insorgono. Il termine viene adoperato frequentemente nella filo- sofia
contemporanea senza chiarimenti espliciti. PROBLEMATICO (ingl. Problematic;
fran- cese Problématique; ted. Problematisch). 1. Ciò che è un problema o
concerne un problema. 2. Ciò che non implica contraddizioni ma neppure garanzia
della sua verità, sicchè può essere affermato o negato ad arbitrio. Questo è il
significato che Kant attribuì al termine: «La proposizione P. è quella che
esprime solo una possibilità logica (non oggettiva) ossia una libera scelta di
assumere tale proposizione come valida + (Crit. R. Pura, $ 9). « Chiamo P. un
concetto che non contiene contraddizioni e che, come limitazione di concetti
dati, si connette con altre conoscenze, ma la cui verità oggettiva non può
essere in alcun modo conosciuta » (/bid., Anal. dei Princ., cap. III). PROCESSIONE
(gr. rp6080g; lat. Processio; ingl. Procession; ted. Procession)i. La
derivazione delle cose da Dio, secondo i Neoplatonici: in quanto tale
derivazione dà luogo a realtà di rango inferiore, che somigliano a quelle da
cui provengono. « Ogni P. si compie per via di simiglianza delle cose seconde PROGETTO
rispetto alla prime » dice Proclo (/st. Theol., 29; cfr. PLoTINO, Enn., IV, 2,
1, 44; V, 2, 2; SCOTO ERIUGENA, De divis. nat., III, 17, 19, 25). La teologia
cristiana ha adoperato la stessa nozione per determinare il rapporto tra le
persone divine. S. Tommaso distin- gueva a questo proposito una processio ad
extra, nella quale l’azione tende verso qualcosa di esterno e la processio ad
intra per la quale l’azione tende a qualcosa di interno come accade nella P.
che va dall’intelletto all'oggetto dell’intendere, che rimane dentro
l’intelletto stesso. In questo secondo senso è da intendersi, secondo S.
Tommaso, la P. delle persone divine da Dio padre (S. Th., I, q. 27, a. 1). PROCESSO
(lat. Processus; inglese Process; franc. Processus; ted. Process). 1.
Procedimento, modo d’operare o d’agire. Per es., «il P. di com- posizione e di
risoluzione » per indicare il metodo che consiste nel discendere dalle cause
all’effetto o nel risalire dall’effetto alle cause (cfr., ad es., S. Tommaso,
S. Th., III, q. 14, a. 5); «P. all’infinito » per indicare il risalire da una
causa all’altra senza fermarsi (/bid., I, q. 46, a. 2). 2. Divenire o sviluppo,
per es., « il P. della storia ». In questo senso il termine è adoperato da
Whitehead per indicare il divenire del mondo (Process and Reality, 1929). 3.
Una qualsiasi concatenazione di eventi, per es., il « P. della digestione » o «
il P. chimico ». PRODOTTO LOGICO. È la figura (a-5) ri- sultante da una
moltiplicazione logica (v.). G.P. PRODUZIONE (gr. roleoc; lat. Productio; ingl. Production;
franc. Production; ted. Production). Porre
in essere qualcosa che potrebbe non essere. Platone definiva arte produttiva
«ogni possibilità che diventi causa di generazione di cose che prima non erano
+ (Sof., 265 b) e Aristotele vedeva nella P. il compito proprio dell’arte e la
distingueva dall’azione e dal sapere: «Ogni arte concerne la generazione e
cerca gli istrumenti tecnici e teorici per produrre una cosa che potrebbe
essere e non essere e il cui principio risiede in colui che la pro- duce e non
nell’oggetto prodotto » (Eric. Nic., VI, 4, 1140 a 10). Da questo punto di
vista la P. si distingue dall’azione che è l’operazione che ha in se stessa il
suo fine: una differenza sulla quale insi- stette S. Tommaso (v. Azione). Il
platonismo aveva tuttavia sminuito questa differenza. Plotino aveva affermato
che per la natura « essere ciò che è significa produrre; essa è contemplazione
e oggetto di con- templazione perchè è ragione; e poichè è contempla- zione e
oggetto di contemplazione e di ragione, essa produce. La P. non è che
contemplazione» (Enn., III, 8, 3). Queste considerazioni sono state spesso ripetute
da un punto di vista idealistico: il che non toglie che la migliore definizione
del termine in questione sia rimasta quella aristotelica. 701 PROERESI. V.
SCELTA. PROFONDO (ingl. Profound, Deep;
franc. Pro- fond; ted. Tief). Ciò che ha
un significato nascosto e inesprimibile. Ii termine ha acquistato un signifi- cato
tecnico nella filosofia e nella psicologia contem- poranea per indicare ciò che
nell’ambito dei problemi rimane fuori dall’esplicita formulazione dei problemi stessi
pur costituendo una sfera che può in qualche modo essere « sentita » o «intuita
» e perciò inter- pretata o espressa metaforicamente; o ciò che nel- l'ambito
di un campo d'indagine si sottrae alla portata dei procedimenti propri del
campo stesso ma fa sentire la sua presenza nel modo oscuro che si è detto. Già
Husserl polemizzava contro la nozione del P. in filosofia. «La scienza vera e
propria, egli diceva, non conosce, per tanto che si estende la sua dottrina
autentica, alcun senso profondo. Ogni momento di una scienza perfetta è un
tutto di ele- menti di pensiero, ciascuno dei quali è inteso imme- diatamente e
non possiede perciò alcun senso P.» (Phil. als strenge Wissenschaft, 1910, in fine; tradu-
zione ital., pag. 81). La nozione di P.
prevale oggi soprattutto nel dominio di certi indirizzi psicologici e
antropologici come la psicanalisi, l’intuizionismo, l’esistenzialismo; e
nonostante la ricchezza delle analisi cui ha dato luogo comincia oggi a
suscitare una reazione critica salutare. « Le psicologie abis- sali, ha scritto
Y. Belaval, e le filosofie che si ispi- rano ad esse non hanno fatto nascere
nuovi feno- meni: hanno supposto processi e intenzioni nascoste, hanno avanzato
nuove idee sull’uomo, ma a queste ipotesi e idee manca sempre d'esser formulate
nella lingua delle conoscenze progressive in cui ciascuna parola designa
univocamente un fenomeno deter- minato e ciascuna regola di sintassi
un’operazione tecnica precisa» (Les conduites d’échec, 1953, pag. 274). PROGETTO
(ingl. Plan; franc. Projet; tedesco Projekt, Entwurf). In generale,
l’anticipazione delle possibilità: cioè qualsiasi previsione, predizione, predisposizione,
piano, ordinamento, predetermina- zione, ecc., nonchè il modo d'essere o
d’agire che è proprio di chi fa ricorso a possibilità. In questo senso, nella
filosofia esistenzialistica il P. è il modo d’essere costitutivo dell’uomo 0,
come dice Heidegger (che per primo ha introdotta la nozione) la sua « costi- tuzione
ontologico-esistenziale » (Sein und Zeit, $ 31). Heidegger ha insistito pure
sulla tesi che ogni pro-
gettazione, in quanto anticipa
possibilità che di fatto son tali, ricade sul fatto stesso e non procede al di
là: sicchè la massima dell’uomo che progetta se stesso è: « Divieni ciò che
sei» (/bid.). Altrove Heidegger ba detto che il P. del mondo in cui propriamente
consiste l’esistenza umana è antici- patamente dominato dallo stato di fatto
che esso cerca di trascendere e perciò finisce per ridursi 702 e appiattirsi a
questo stato di fatto (Vom Wesen des Grundes, 1929, 3; trad. ital., pag. 67
sgg.). Sartre ha sostanzialmente ripetuto questi concetti di Hei- degger
insistendo tuttavia sulla gratuità perfetta dei «P. di mondo» in cui
l’esistenza consiste. Egli ha chiamato « P. fondamentale » o « iniziale » quello
costitutivo dell’esistenza umana nel mondo e ha considerato tale P.
continuamente modifica- bile ad arbitrio: « L’angoscia, che, quando è svelata, manifesta
alla nostra coscienza la nostra libertà, testimonia la modificabilità perpetua
del nostro P. iniziale» (L’érre et le néant, 1943, pag. 542). Per quanto
caratteristica della filosofia esistenzia- listica, la nozione di P. è entrata
a far parte della terminologia filosofica e scientifica contemporanea. Essa si
è dimostrata utile a esprimere aspetti im- portanti delle situazioni umane, sia
di quelle più generali analizzate dalla filosofia sia di quelle spe- cifiche
che costituiscono l’oggetto delle scienze an- tropologiche: psicologia,
sociologia, ecc. V. STRUT- TURA e MODELLO, PROGRESSO (ingl. Progress; franc. Progrès; ted.
Fortschrift). Il termine designa due cose: 1° una
qualsiasi serie di eventi che si svolga in un senso desiderabile; 2° la
credenza che gli eventi nella storia si svolgano nel senso più desiderabile, realizzando
una perfezione crescente. Nel primo senso, si parla, ad es., del « P. della
chimica » o del «P. della tecnica»; nel secondo senso, si dice semplicemente «
il P.». In questo secondo senso la parola designa non soltanto un bilancio
della storia passata ma anche una profezia per l’avvenire. Il primo senso
ristretto del termine non fa na- scere problemi e si incontra dappertutto.
Anche gli antichi lo possedettero; e specialmente gli Stoici lo adoperarono per
indicare l’avanzare dell’uomo sulla via della saggezza o della filosofia
(STOBEO, Ecl., II, 6, 146: il termine è rpoxor). Il secondo senso del termine
fu sconosciuto all’antichità clas- sica e al Medioevo. La concezione generale
che gli antichi ebbero della storia fu quella della decadenza a partire da una
perfezione primitiva (età dell’oro) o quella di un ciclo di eventi che si
ripete identica- mente senza limiti (v. StorIA). Solitamente la prima enunciazione
della nozione di P. si attribuisce a Francesco Bacone che così la espose in un
passo famoso del Novum Organum (1620): « Per antichità dovrebbe intendersi la
vecchiezza del mondo che va attribuita ai nostri tempi e non a quella
giovinezza nel mondo che fu presso gli antichi. E come da un uomo anziano
possiamo aspettarci una conoscenza molto maggiore delle cose umane e un più
maturo giudizio che da un giovane, per via dell’esperienza e del gran numero di
cose da lui vedute, udite e pensate, così dell’età nostra (se avesse coscienza
delle sue forze e volesse sperimentare e comprendere) PROGRESSO sarebbe giusto
aspettarsi assai più gran cose che dai tempi antichi essendo la nostra per il
mondo l’età maggiore, arricchita da innumerevoli esperi- menti e osservazioni »
(Nov. Org., I, 84). Bacone conclude facendo suo il motto di Aulo Gellio (o
meglio che Aulo Gellio attribuiva a un vecchio poeta): veritas filia temporis
(Noct. Att., XI, 11). Alcuni decenni prima concetti simili a questi erano però
stati esposti da Giordano Bruno nella Cena delle Ceneri (1584). Nel sec. xvn la
nozione di pro- gresso fa i suoi primi passi soprattutto attraverso la disputa
sugli antichi e i moderni (v. ANTICHI); mentre nel sec. xvi, con Voltaire,
Turgot e Con- dorcet prevaleva nella concezione della storia. Ma solo il sec.
xx vide l’affermazione totale del concetto che nei primi decenni diveniva il
vessillo del romanti- cismo e assumeva il carattere della necessità. Il
concetto della necessità del piano
progressivo della storia veniva espresso da Fichte nel modo più energico:
«Qualsiasi cosa realmente esista, egli diceva, esiste per assoluta necessità:
ed esiste neces- sariamente nella precisa forma in cui esiste ». Questa necessità
è razionalità pura: « Nulla è come è perchè Dio vuole arbitrariamente così, ma
perchè Dio non può manifestarsi altrimenti che così... Comprendere con chiara
intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno ed immutabile, in quanto guida
la specie umana, è compito dei filosofi. Fissare di fatto la sfera sempre
cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia
della specie umana è compito dello storico, le cui sco- perte sono solo
casualmente ricordate dal filosofo (Grundziige des gegenwdrtigen Zeitalters,
1806, 9). L’identica concezione veniva difesa dal positi- vismo che con Augusto
Comte, esalta il P. come l’idea direttiva della scienza e della sociologia, considerandolo
come «lo sviluppo dell'ordine» ed estendendolo anche alla vita inorganica e
animale (Politique positive, 1851, I, pag. 64 sgg.). On the Origin of Species
(1859) di Darwin, dava una base positiva o scientifica al mito del P. adducendo
prove in favore di un trasformismo biologico interpretato in senso ottimistico
o progressivo. E l'opera di SPENCER, First Principles (1862), utilizzava la no-
zione di P. per una interpretazione metafisica, che intendeva essere positiva o
scientifica, dell’in- tera realtà. Queste sono soltanto le tappe salienti
dell’affer- mazione di un concetto che ha dominato tutte le manifestazioni
della cultura occidentale ottocentesca e che ancora rimane sullo sfondo di
molte concezioni filosofiche e scientifiche. Le implicazioni principali della
nozione sono le seguenti: 1° il corso degli eventi (naturali e storici)
costituisce una serie uni- lineare; 2° ogni termine di questa serie è
necessario nel senso che non può essere diverso da quello PROPOSIZIONE che è;
3° ogni termine della serie realizza un incre- mento di valore sul precedente;
4° ogni regresso è apparente o costituisce la condizione di un P. ulteriore.
Talvolta, come nella filosofia di Hegel, si limitano le condizioni di validità
della proposi- zione 3° perchè si ammette che la storia costituisca un circolo
nel quale le fasi più alte, già realizzate, costituiscano le condizioni di
quelle più basse, sì che queste posseggono la stessa razionalità o perfe- zione
del tutto (cfr. HEGEL, Wissenschaft der Logik, I, I, I, cap. II, nota I, «Il
progresso infinito»; Croce, La storia come pensiero e come azione, 1938, pag.
25). Ma nessuna di quelle quattro tesi può trovare un appoggio nelle regole
della meto- dologia storiografica che consentono di delimitare, oggi, il campo
detto «storia +; e nessuna di esse è compatibile con tali regole. L'idea del P.
cade perciò fuori del dominio della storiografia scienti- fica; e dall’altro
lato la credenza nel P. è stata fortemente indebolita, nella cultura
contemporanea, dall’esperienza delle due Guerre e dal mutamento che esse hanno
prodotto nel dominio della filosofia, smantellando quell’indirizzo romantico
del quale costituiva un caposaldo. Quest’idea può pertanto, allo stato attuale
degli studi, essere considerata va- lida soltanto come una speranza o un
impegno morale per l’avvenire, non come un principio di- rettivo
dell’interpretazione storiografica. Sul periodo aureo della credenza nel P.
cfr. J. B. Bury, The Idea of Progress, 1932 (v. STORIA). PROIEZIONE (ingl.
Projection; franc. Pro- jection; ted. Projektion). Con questo termine veniva
frequentemente indicato, nella psicologia dell’800, il riferimento della
sensazione all’oggetto, riferimento per il quale l’oggetto viene localizzato
nello spazio circostante, per quanto la sensazione si verifichi solo
nell’organodi senso. Alla fortuna del termine contribuì soprattutto Helmbholtz
(Physiologische Optik, 1867, pag. 602). Il termine è ora caduto in disuso
giacchè il problema stesso non sussiste più negli stessi termini, dato il nuovo
concetto di percezione (v.). Tecniche proiettive si chiamano oggi quelle tec- niche
di accertamento psicologico che consistono nel presentare al soggetto un
materiale (special- mente figure) di significato ambiguo che il soggetto può
interpretare secondo le sue tendenze o bisogni o repressioni e la cui
interpretazione può rivelare perciò lo stato del soggetto. Il più conosciuto di
questi artifici proiettivi è quello introdotto nel 1921 dallo svizzero
Rorschach (cfr. H. H. ANDERSON, e G. L. ANDERSON, An Introduction to Projective
Techniques, 1951). Nella psicanalisi il concetto di P. è usato per descri- vere
il processo mediante il quale un soggetto attribuisce a un altro soggetto gli
atteggiamenti o 703 sentimenti di cui si vergogna o che comunque trova difficile
o penoso riconoscere a se stesso (confronta J. R. SMITHIES, « Analysis of
Projection » in British Journal of Philosophy of Science, 1954, pag. 120). PROLEGOMENI
(ingl. Prolegomena; francese Prolégomènes; ted. Prolegomena). Trattazione
preli- minare, introduttiva e semplificata. Il termine ricorre nel titolo di
alcune opere di filosofia come quella di Kant, P. a ogni futura metafisica che
si presenterà come scienza (1783). PROLEPSI. V. ANTICIPAZIONE. PROPEDEUTICA
(gr. rporadela; ingl. Pro- paedeutics; franc. Propédeutique; ted. Propàdeutik). Insegnamento preparatorio. Così Platone chiamò l’insegoamento
delle scienze speciali (aritmetica, geometria, astronomia e musica) rispetto
alla dialet- tica (Rep., VII, 536 d). E così si chiama anche oggi la parte
introduttiva di una scienza o un corso di studi che faccia da preparazione ad
un altro corso. PROPENSIONE (lat. Propensio; ingl. Pro- pensity; franc. Propension;
ted. Neigung). Tendenza, nel significato più generale.
Hume usava il termine per definire l'abitudine: « Ovunque la ripetizione di un
atto o di un’operazione particolare produce una P. a rinnovare l’atto o
l’operazione senza la costrizione di un ragionamento o di un processo intellettuale,
diciamo che questa P. è effetto dell’abi- tudine » (Ing. Conc. Underst., V, 1). PROPORZIONE. V. ANALOGIA. PROPOSIZIONALE CALCOLO,
FUN- ZIONE. V. CALCOLO; FUNZIONE PROPOSIZIONALE. PROPOSIZIONE (gr. rpéraow;
lat. Propositio; ingl. Proposition; franc. Proposition; ted. Satz). Un
enunciato dichiarativo o ciò che è dichiarato, espresso o designato da un tale
enunciato. I due usi del termine sono stati nettamente distinti da Carnap
conformemente ad una lunga tradizione (Intr. to Semantics, 1941, $ 37) ma
vengono ancora spesso confusi, per quanto la distinzione sia stata largamente
accettata nella logica contemporanea (cfr. CHURCH, Intr. to Mathematical Logic,
$ 04; W. KnEALE e M. KNEALE, The Development of Logic, p. 49 sg.). I due usi
sono comandati da due concetti diversi della P. e precisamente dai seguenti: 1)
La P. come espressione verbale di un'operazione mentale, detta spesso giudizio.
2) La P. come entità oggettiva o valore di verità di un enunciato. 1. La
dottrina che la P. è l’espressione verbale di un’operazione mentale fu
formulata per la prima volta da Aristotele: il quale ritenne che il complesso (ovurdoxt)
dei termini (nome e verbo) del discorso dichiarativo (16106 &ropavrixèc)
corrisponda a un pensiero (vinua) cui inerisce necessariamente l’es- sere vero
o falso e che pertanto « il vero e il falso » vertono sulla composizione e
sulla divisione (oivdears 704 xal Bratprorc) (De Interpr., 1, 16 a 9 sg.). Il discorso
dichiarativo è così l’espressione di un pensiero che procede componendo e
dividendo: la composizione dà origine all’affermazione, la divi- sione alla
negazione (/b., 6, 17 a 23). Negli Analitici (cioè nella teoria del sillogismo)
Aristotele chiamò il discorso dichiarativo « prorasis» (il cui equiva- lente
latino è « propositio ») cioè « premessa del ragionamento », e definì la
protasis come « il discorso che afferma o nega qualcosa di qualcosa» (An. Pr.,
I, 1, 24 b 16); o come «l'’asserzione di uno dei membri della contraddizione»
(Zb. II, 12, 77 a 37). Da questo punto di vista, la P. differisce dal problema
(v.) soltanto per la forma: giacché mentre il problema consiste nel chiedersi
ad es.: « È l’uomo animale terrestre bipede o non lo è??, la P. consiste
nell’asserzione «L'uomo è animale terrestre bipede» o nell’asserzione
contraddittoria (Top., I, 4 101 b 28). Ma in ogni caso, la verità o falsità di
una P. dipende dal fatto che la composi- zione o divisione dei termini, nella
quale essa con- siste, corrisponda o meno a quella che l’intelletto trova nelle
stesse cose esistenti. « Tu non sei bianco, dice Aristotele, perché noi
crediamo con verità che tu sei bianco ma, perché tu sei bianco, noi diciamo la
verità asserendo questo. Se alcune cose stanno sempre insieme e non possono
essere divise ed altre son sempre divise e non possono stare insieme e altre
cose ancora possono essere o com- poste o divise, l’« essere » consisterà
nell’essere com- binato o nell’essere diviso e il « non essere » nell’esser diviso
o nell’esser più cose» (Mer., IX, 10, 1051 a 34). La P., nel combinare i suoi
termini, esprime l’azione combinante o dissociante dell’intelletto che segue la
combinazione e dissociazione delle cose esistenti. Questa dottrina è rimasta
sostanzialmente im- mutata nella tradizione antica, fatta eccezione per gli
Stoici (e per il filone da essi iniziato) che intro- dussero la nozione di
enunciato (v.). La tradizione medievale e buona parte della logica moderna l’ha
conservata. San Tommaso diceva che la verità e la falsità sono nell’intelletto
in quanto precede componendo e dividendo: « infatti, aggiungeva, in ogni P. una
forma significata dal predicato o si ap- plica a qualche cosa significata dal
soggetto o si allontana da questa cosa » (S. Th., I, q. 16, a. 2). Nello stesso
indirizzo della logica terministica, Ockham ammetteva una « P. mentale », che
iden- tificava con l’atto dell’intelletto (Liber periermenias, proemium), per
quanto facesse dipendere la verità della P. dalla suppositio (v. oltre, 2). A
partire dall’età carteziana, il termine «P.» è sostituito dal termine
«giudizio» perché l’attenzione della logica filosofica si concentra sempre di
più sull’opera- zione intellettuale che trova espressione nella P. (v.
Giupizio, 4). PROPOSIZIONE Ma ad un atteggiamento mentale riduce la P. anche
Russell, che tuttavia la distingue da enunciato. Egli infatti la considera come
« credenza + o « atteg- giamento proposizionale » ed afferma pertanto che le P.
devono essere definite come eventi psicologici (o fisiologici) di una certa
specie: immagini com- plesse, aspettazioni, ecc. Ciò è reso evidente, secondo Russell,
dal fatto che le P. possono essere false (An Inquiry into Meaning and Truth,
cap. XIII, A; ed.
Pelican Books, p. 172; cfr. Human Knowledge, p. 449-50) v. Giupizio, 3. 2. La dottrina che la P. costituisce il designato dell’enunciato
assume forme diverse a seconda della
natura che si attribuisce al designato
stesso. Tal- volta il designato è inteso come « P. in sé» o «en- tità» di
qualche tipo, tal’altra come oggetto o situazione oggettiva o stato di cose o
carattere. In ogni caso, questa interpretazione della P. pre- scinde da ogni
riferimento ad atti o ad operazioni mentali. Gli stoici, che introdussero la
nozione di enun- ciato (v.), ritennero che esso esprime una condi- zione o uno
stato di cose. Essi affermavano che «chi dice ‘È giorno’ mostra di ritenere che
è giorno. Ora se è giorno realmente, l’enunciato che sta dinnanzi a noi è vero,
se non è giorno è falso » (Dro. L., VII, 65). Da questo punto di vista, il fatto
che è giorno è il significato o il valore di verità dell’enunciato « È giorno
». La logica termi- nistica medievale indicò il significato denotativo dei
termini della P. con il concetto della supposizione (v.), secondo la quale una
P. è vera se i termini da cui essa risulta stanno per il medesimo oggetto esistente
(cfr. OckHaM, Summa Logicae, Il, 2). Nelle Laws of Thought (1854) Boole
distingueva le P. primarie che esprimono una relazione tra cose e le P.
secondarie che esprimono una relazione tra P. (Cap. IV, $ 1). Ma già Bolzano
aveva oppo- sto alla P. verbale la P. in sé (Satz un sich), che è quella valida
indipendentemente dal fatto di essere o non essere espressa O pensata e
costituisce l’ele- mento delle matematiche pure (Wissenschaftslehre, 1837, $
19). Riprendendo la polemica di Husserl contro lo psicologismo, Meinong
distingueva in ogni « giudizio » (termine per lui equivalente a P.) l’obiettivo
(Objektiv) che è il contenuto interno del giudizio e l’obietto (Objekt) che è
l’entità esterna al quale il giudizio si riferisce (Uber Annahmen, 1902, p.
52). Questa distinzione equivale, a tutti gli effetti, a quella che Frege aveva
stabilito tra senso e significato (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892) (v.
SIGNIFICATO). A proposito della P., Frege aveva detto che mentre il senso
(Sinn) della P. è un « pen- siero +, non inteso però soggettivamente ma come «
contenuto oggettivo che può costituire il possesso comune di molti», il
significato (Bedeutung) della PROPOSIZIONE FUNZIONALE P. stessa è il suo «
valore di verità » cioè «la circo- stanza che essa è vera o falsa ». In tal
modo la P. può essere considerata come un nome proprio e il vero o falso è
l’oggerto della P. stessa. Ma poiché tutte le P. vere avranno lo stesso
significato (il vero) e così tutte le proiezioni false (il falso), ne segue che
una P. non può ridursi né al suo solo significato né al suo solo senso (che
sarebbe un puro pensiero) ma deve risultare dall'insieme dei due (Ueber Sinn
und Bedeutung, $ 5, in Phil. Wri- tings of G. F., ed. Geach and Black, p. 63 sg.). Nelle proposizioni indirette od oblique in cui en- trano
verbi come «dire», «udire», «pensare», « credere », «concludere » e simili,
come ad es. in questa: « Copernico credeva che le traiettorie dei pianeti
fossero circolari», la P. secondaria intro- dotta dal clte vale solo come il
nome di un pensiero e perciò può essere variata senza compromettere il valore
di verità della P. intera (/b., $ 6; in Geach, p. 66 sg.). Su questi concetti
di Frege s’imperniano le discus- sioni della logica contemporanea intorno alla
natura della proposizione. Delle due dimensioni della P. ammesse da Frege,
Wittgenstein ha cercato di eli- minare il senso (Sinn, come « pensiero » o «
conte- nuto oggettivo ») ed ha usato la parola senso (Sinn) per intendere ciò
che Frege intendeva per significato (Bedeutung), usando quest’ultima parola
solo per la denotazione dei nomi e dei segni. La P., egli dice è una
raffigurazione (Bild, picture) della realtà. lo infatti vengo a conoscere la
situazione da essa rappresentata appena comprendo la proposizione. E comprendo
la P. senza che il suo senso mi venga spiegato » (Tractatus, 4.021). Da questo
punto di vista, « la forma universale della P. è: le cose stanno così e così »
(/b., 4.5). Perciò comprendere una P. significa semplicemente sapere «come
stanno le cose nel caso che essa sia vera » (/b., 4.024), e non c'è bisogno
pertanto di ricorrere a un pensiero o a un qualsiasi contenuto oggettivo. Il «
senso » di cui parlava Frege è quindi inutile secondo Witt- genstein perché il
senso della P. è lo stesso suo significato; e «la P. mostra il proprio senso »
(/b., 4.022). Dall’altro lato, Wittgenstein afferma che «la P. ha un senso
indipendentemente dai fatti » (4.061) e che «le P. ‘p’ e “non p’ hanno un senso
opposto per quanto in esse si esprime una unica e sola realtà » (4.0621): il
che implicherebbe, nella terminologia di Frege, un senso indipendente dal
significato. Contrariamente a Wittgenstein, alcuni logici con- temporanei
tendono a ridurre il significato al senso e perciò adoperano il termine «
significato » (Mea- ning) a indicare quello che Frege chiamava senso. Così Ayer
ha definito la P. come la «classe di enunciati che hanno lo stesso significato
(signifi- 45 — ABDBAGNANO, Dizionario di filosofia. 705 cance) intenzionale per
ognuno che li capisce» (Language Truth and Logic, [1936], 1948, p. 88). Nello
stesso senso Quine ha considerato le P. come «ia significati degli enunciati»
(From a Logical Point of View, VI, 2; p. 109; Word and Object, 1960, $ 42). Più
vicini alla posizione di Frege sono quelle di Carnap e Church. Carnap ha
distinto l’estensione di un enunciato che è il suo valore di verità,
dall’intensione di esso che è la P. che esso esprime. Nel senso di Carnap
tuttavia la P. è un’entità oggettiva come la « proprietà », per quanto soltanto
di natura logica. Si può par- lare, secondo Carnap, di P. anche a proposito di enunciati
falsi perché le P. sono entità com- plesse, composte da altre entità; e se
anche si ammette che i componenti ultimi di una P. devono essere
«esemplificati» (cioè devono essere veri), non è detto che la P. nel suo
complesso debba esserlo (Meaning and Necessity, $ 6; p. 26-30). Church, che ha
accettato la terminologia di Frege, usa il termine « P.» come equivalente del «
senso » di Frege e afferma che è per una decisione in qualche modo arbitraria
che neghiamo il nome di P. ai sensi degli enunciati (dei linguaggi naturali) in
quanto esprimono un senso ma non hanno valore di verità (Zntr. to Mathematical
Logic, $ 04, op. 27). Dall’altro lato Bergmann si è servito del termine di
Brentano e Husserl «intenzione» per reinter- pretare il «significato» di Frege.
L'intenzione è l’oggetto degli atti intenzionali e la P. è il « carat- tere»
corrispondente all’intenzione stessa. « Nel paradigma, egli dice, l’intenzione
è un fatto es- presso da ‘questo è verde *. Chiamo carattere cor- rispondente
“la P. questo è verde’; e uso P. come un nome generale per questa specie di ca-
rattere» (Logic and Reality, 1964, p. 32). Le discussioni in corso tra i logici
sulle P., nonché sulle loro equivalenze o sinonimie e su altri problemi
relativi, rimangono imperniate sulla distinzione tra senso e significato o su
distinzioni corrispondenti. PROPOSIZIONE ATTRIBUTIVA; ATO. MICA; COMPARATIVA;
DICHIARATIVA; DISCRETIVA; SECONDARIA. V. i relativi aggettivi. PROPOSIZIONE
FUNZIONALE (inglese Functional Proposition; franc. Proposition fonctionelle; ted.
Funktionellsatz). Con questo termine si designano le P. molecolari (ossia P.
complesse, composte di P. semplici mediante i semplici connettivi logici ‘non
’,‘0’,‘e’, ‘implica ’) la cui verità (o falsità) sia funzione unicamente della
verità o falsità delle componenti. La questione se esistano P. molecolari non
funzionali è stata largamente discussa nella Logica contemporanea: contro la
tesi estensionale, principalmente sostenuta dal Wittgenstein, secondo 706 cui
tutte le P. molecolari sono funzioni-verità delle componenti, Russell e altri
hanno sostenuto la possibilità di P. composte che non fossero funzioni, come,
per es., « A crede p» (dove ‘A * è un nome di persona e ‘p’ una P.). G. P. PROPRIETÀ
(ingl. Property; franc. Propriété; ted. Eigenschaft). 1. La determinazione o
caratteri- stica propria di un oggetto in uno dei sensi del ter- mine proprio
(v.). 2. Qualsiasi qualità, attributo, determinazione che serva a
contrassegnare un oggetto o a distinguerlo dagli altri. PROPRIETÀ COMMUTATIVA,
DISTRI- BUTIVA. V. COMMUTATIVO, DISTRIBUTIVO. PROPRINCIPIA. Termine adoperato
da Cam- panella per indicare i due princìpi che entrano a costituire le cose
finite, cioè l’Essere e il Non-essere (Mer., II, 2, 2) (v. PRIMALITÀ). PROPRIO
(gr. t3uov; lat. Proprium; ingl. Proper; franc. Propre; ted. Eigene). 1. Una
determinazione che appartiene a tuffa una classe di oggetti ed appar- tiene
sempre e solo a questa classe, pur non facendo parte della definizione di essa.
Questo è il senso fondamentale del termine, quale fu chiarito da Aristotele
(Top., I, 5, 102 a 18) e che entrò a far parte della tradizione logica (cfr.
ARNAULD, Log., I, 7; Jungius, Logica Hamburgensis, I, 1, 33). In questo senso
il P., pur non facendo parte dell’es- senza sostanziale di una cosa, è
strettamente con- nesso con tale essenza o deriva in qualche modo da essa.
L'esempio addotto da Aristotele è il poter apprendere la grammatica: questa
determinazione è un P. dell’uomo nel senso che chi è capace di apprendere la
grammatica è uomo ed è uomo chi è capace di apprendere la grammatica: le due determinazioni
« uomo +» e «capace di apprendere la grammatica » sono reciprocabili. In questo
senso il P. è una determinazione privilegiata che sta tra l’essenza e le
determinazioni accidentali. 2. Lo stesso Aristotele tuttavia chiama proprie
anche le determinazioni accidentali
quando di- stingue dal P. per sè «che viene stabilito rispetto a tutti gli
oggetti e separa l’oggetto in questione da ogni altro, come nel caso in cui il
P. dell’uomo sia l’essere un animale mortale che può accogliere il sapere » dal
P. rispetto ad altro « che è quello che di- stingue l'oggetto non da ogni altro
oggetto ma solo da qualche oggetto dato » (Top., V, 1, 128b 34). Il «P. per sè»
è il P. nel senso stretto cioè la deter- minazione che appartiene sempre a
tutto un oggetto dato e solo ad esso, mentre il P. « rispetto ad altro » fu
distinto da Porfirio (sulla base delle stesse consi- derazioni aristoteliche)
in tre altre determinazioni e cioè: 1° ciò che appartiene ad una sola specie ma
non a tutti gli individui della specie: in questo senso l’esser filosofi è P.
dell’uomo; 2° ciò che appar- PROPRIETÀ tiene a tutti gli individui di una
specie ma non ad una sola specie; e in questo l’essere bipede è P. dell’uomo;
3° ciò che appartiene a tutti gli individui di una sola specie ma non sempre; e
in questo senso l’incanutire è P. dell’uomo. Porfirio enumerava come quarto
significato quello più ri- stretto (/sgg., 12, 12 sgg.). I quattro significati
di Porfirio vennero abitualmente riprodotti dalla logica medievale (cfr., ad
es., Pietro IspaNO, Summ. Logi- cales, 2.13); ma a partire dalla Logica di
Arnauld (I, 7), pur facendosi menzione delle quattro distin- zioni di Porfirio,
si preferì limitare il concetto di P. a quello più ristretto. Ed in realtà, nel
suo signi- ficato esteso, il concetto di P. può includere qualsiasi determinazione,
a qualsiasi titolo attribuita ad un oggetto: perciò perde ogni caratteristica o
utilità spe- cifica. Comunque, la nozione è strettamente legata all'impianto
della logica aristotelica e alla stretta connessione di questa con la teoria
della sostanza, sicchè essa è caduta nella logica contemporanea. PROSILLOGISMO.
V. PoLISILLOGISMO. PROSPETTIVA (ingl. Prospect; franc. Per- spective; ted. Perspektive). Una qualsiasi anticipa- zione
dell’avvenire: progetto, speranza, ideale, illu- sione, utopia, ecc. Il termine
esprime lo stesso concetto di possibilità (v.) ma da un punto di vista più
generico e meno impegnativo, giacchè possono apparire come prospettive cose che
non hanno ab- bastanza consistenza per essere possibilità autentiche. Nella
filosofia contemporanea il termine è stato ado- perato specialmente da Ortega y
Gasset, Blondel, Mannheim, senza tuttavia una chiara formulazione concettuale.
Per prospertivismo (ted. Perspektvismus) Nietzsche intese la condizione per la
quale « ogni centro di forza — e non l’uomo soltanto — co- struisce tutto il
resto dell’universo partendo da se stesso cioè prestando all’universo
dimensioni, forma e modello commisurati alla propria forza » (Werke, ed.
Kriner, XVI, $ 636). Il termine è stato talora usato per designare la filosofia
di Ortega y Gasset. PROSSIMO. (gr. tè v rainolov; lat. Proximus; ingl. Neighbour;
franc. Prochain; ted. Néchste). Nell’interpretazione
che il Vangelo di Luca (X, 29-37) dà della massima biblica « Ama il P. tuo come
te stesso » (Levitico, XIX, 18), P. è l’altro uomo in generale,
indipendentemente da ogni legame di razza, di amicizia o di parentela, in
quanto usa a noi misericordia o noi la usiamo a lui. Il che vuol dire che la
misericordia va usata a qualsiasi uomo in quanto tale, che comunque si incontri
con noi e non ristretta a una cerchia predeterminata di persone. PROTASI. V.
PROPOSIZIONE. PROTENSIONE (ingl. Prorensity; ted. Pro- tention). Durata di
coscienza. Termine introdotto PROVA da Kant il quale osservava: « La felicità è
l’appa- gamento di tutte le nostre propensioni tanto exten- sive nella loro
molteplicità, quanto intensive cioè rispetto al grado e anche protensive
rispetto alla durata + (Crift. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. II, sez. II).
Husserl ha chiamato P. «il prericordo riproduttivo in senso proprio» cioè lo
stato di aspettazione che prepara la riproduzione del ri- cordo (/deen, I, $
77). PROTOCOLLO (ingl. Protocol; franc. Protocol; ted. Protokoll). Termine
introdotto dal Circolo di Vienna per indicare la registrazione del dato imme- diato
o esperienza diretta (sensazione, percezione, emozione, pensiero, ecc.). Le «
proposizioni proto- collari» sono quelle che contengono unicamente P. e perciò
fanno diretto riferimento ai dati imme- diati. Le proposizioni protocollari,
mentre sono lo strumento di ogni verificazione empirica, non hanno a loro volta
bisogno di verifica perchè la loro verità è garantita dal P. che contengono e
che le fa corri- spondere immediatamente al dato empirico (con- fronta R.
CARNAP, in Erkenntnis, II, 1931, pag. 437 seguenti). La nozione di P. rimane
legata alla fase del neopositivismo che esigeva, per dichiarare signifi- cante
una proposizione, la verifica diretta della pro- posizione mediante protocolli.
Ma Carnap stesso a partire dallo scritto Testability and Meaning (1936) li- mitava
questa esigenza, affermando che gli enunciati, per essere significativi,
debbono essere confermabili cioè contenere soltanto « predicati-cosa
osservabili ». Questi predicati-cosa non sono più P., cioè dati dell’esperienza
immediata, ma piuttosto nomi di qualità elementari (per es., « rosso +). Per
una critica del concetto di P., nello stesso ambito del positivismo logico,
cfr. K. PoPPER, Logik der Forschung, 1934; trad. ingl., 1958, $ 26 (v.
ESPERIENZA). PROTOFILOSOFIA (ingl. Protophilosophy; franc. Protophilosophie; ted.
Protophilosophie). Ter- mine
adoperato soprattutto da sociologi per indi- care la filosofia dei popoli
primitivi cioè quella che si esprime nella forma del mito (v.). PROTOLOGIA
(ingl. Protology; franc. Proto- logie; ted. Protologie). Termine adoperato da
alcuni scrittori italiani del primo ’800 specialmente da Ermenegildo Pini (P.,
3 voll., 1803) per indicare quella che Fichte chiamava dottrina della scienza o
scienza delle scienze. Il termine fu adottato da Vincenzo Gioberti per l’ultima
sua opera, pubblicata postuma (P., 1857). Gioberti definisce la P. come «la
scienza dell’ente intelligibile intuita per via del pensiero immanente» scienza
che è la base di ogni altra scienza ed è anteriore anche all’on- tologia. L’uso
di questo termine si è fermato a Gioberti. PROTON PSEUDOS (gr. mpétov yessoc). La
falsità della premessa maggiore in quanto 707 determina la falsità del
sillogismo (ARISTOTELE, An. Pr., II, 18, 66 a 16). PROTOTESI (ingl. Protothesis; franc. Proto-
thèse; ted. Protothese). Termine adoperato da W.
Ostwald per indicare le ipotesi che sono suscetti- bili di verifica
sperimentale allo stato attuale della scienza e che perciò si distinguono da
quelle che non lo sono (Die Energie und ihre Wandlungen, 1888, $ 68). In
realtà, nessuna ipotesi è come tale diret- tamente verificabile (v. IPOTESI;
TEORIA). PROTOTIPO (gr. rpwrérurog; lat. Prototypus; ingl. Prototype; franc.
Prototype; ted. Prototyp). Modello originario. Lo stesso che archetipo (v.).
PROTRETTICO (gr. rporpertxéc). Esorta- zione alla filosofia (cfr. PLAT.,
Eutid., 278 c; Crr- sippo, Stoicorum Fragmenta, III, 189). La parola fu
adoperata come titolo di libro da Aristotele, Epicuro, Cleante ed altri. PROVA
(gr. texuipuov; lat. Probatio; ingl. Proof; franc. Preuve; ted. Beweis). Un
procedimento adatto a stabilire un sapere cioè una conoscenza valida.
Costituisce P. ogni procedimento del genere, qualunque sia la sua natura: il
mostrare ad oculos una cosa o un fatto, l’esibire un documento, il riportare
una testimonianza, l’effettuare un’indu- zione sono P. come sono P. le
dimostrazioni della matematica e della logica. Il termine è pertanto più esteso
di dimostrazione (v.): le dimostrazioni sono P. ma non tutte le P. sono
dimostrazioni. Il concetto fu stabilito nel senso ristretto da Ari- stotele.
«Dicono che la P. è ciò che produce il sapere» egli scrisse; e perciò distinse
la prova dall’indizio o segno, che dà soltanto una conoscenza probabile (An.
Pr., II, 27, 70 b 2). E nella Retorica aggiunse: «Quando si pensa che ciò che
si è detto non può essere confutato, si pensa che si è portata una P., in
quanto una P. è sempre dimostrata e perfetta 1; e il sillogismo stesso è una P.
necessaria in questo senso (Rer., I, 2, 1357 b 5). Lo stesso concetto di un
procedimento che stabilisce o scopre una cono- scenza fu espresso dagli Stoici
nella definizione del segno indicativo come di « un enunciato che proce- dendo
in sana connessione scopre ciò che consegue + (Sesto E., Jp. Pirr., II, 104); o
del ragionamento dimostrativo come di quello che, «per mezzo di premesse
convenute scopre, per via di deduzione, una conclusione non manifesta» (/bid.,
II, 135). I procedimenti cui si fa allusione in queste defini- zioni sono P. in
quanto sono « discopritivi +, cioè in quanto producono (e giustificano)
conoscenze. Nel sec. xvi Locke riproduceva a suo modo, cioè sul presupposto
cartesiano della superiorità dell’in- tuizione, questo concetto di P.: « Quelle
idee inter- medie che servono a dimostrare la concordanza fra due altre idee
sono chiamate P.; e quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente 708 percepita
la concordanza o discordanza, questa è detta una dimostrazione; poichè allora
la cosa è mostrata all’intelletto e lo spirito è portato a vedere che essa sta
così » (Saggio, IV, 2, 3). Ma la dottrina di Locke segna una svolta importante
nella storia del concetto di P. perchè ammette, per la prima volta, la
possibilità di P. probabili. «La probabilità, diceva Locke, non è che
l’apparenza della concor- danza o discordanza tra due idee mediante l’inter- vento
di P. il cui legame non è costante e immutabile o almeno non è percepito come
tale, ma è o appare tale per lo più ed è sufficiente a indurre lo spirito a
giudicare che la proposizione è vera o falsa, piuttosto che non il contrario »
(/bid., IV, 15, 1). Wolff dal suo canto pur identificando la P. con il sillogismo
distingue da essa la dimostrazione in quanto sarebbe un sillogismo « che si
avvale soltanto di premesse che sono definizioni, esperienze indu- bitabili e
assiomi» (Logica, $ 498). Ma furono soprattutto Hume e Kant che stabilirono le
distin- zioni fondamentali in questo campo. Hume propose di distinguere tutti
gli argomenti in dimostrazioni, P. e probabilità, intendendo per P. « quegli
argomenti tolti dall'esperienza che non soffrono dubbio ed obiezioni » (Ing.
Conc. Underst., VI, nota): nella quale distinzione le dimostrazioni sarebbero
limi- tate al dominio delle pure connessioni di idee. Kant a sua volta distinse
quattro specie di P.: 1° la P. logica rigorosa, che va dal generale al
particolare ed è la dimostrazione vera e propria; 2° il ragiona- mento per
analogia; 3° l’opinione verosimile; 4° l’ipotesi cioè il ricorso a un principio
esplicativo semplicemente possibile (Crir. del Giud., $ 90). Egli affermò che
le P. dimostrative o apodittiche si trovano soltanto nel dominio delle
matematiche giacchè queste procedono mediante la costruzione dei concetti: e
che i principi di P. empirici non possono dare nessuna P. apodittica (Crit. R.
Pura, Dottrina del Metodo, cap. I, sez. II). Questa era sostanzialmente
un’accettazione del punto di vista di Hume. Dewey ha anch’egli accettato questo
punto di vista, osservando che c’è « da un lato la dimostrazione razionale, che
è questione di rigorosa consequenzialità nel discorso, dall’altro la dimo- strazione
puramente ostensiva» (Logic, cap. XII; trad. ital., pag. 327). La distinzione
tra dimostra- zione o « P. logica» o « deduttiva » o « necessaria + e la P. in
generale ricorre frequentemente (cfr., ad es., W. HAMILTON, Lectures on Logic,
1866, II, pag. 38; G. BERGMANN, Philosophy of Science, 1957, pag. 4). Ma mentre
l’analisi dei procedi- menti di P. usati dalle singole scienze (e quindi della
nozione di P. in generale) ha ricevuto poca attenzione dai filosofi
metodologici e non ha fatto progressi, la nozione di P. logica è stata ripetu- tamente
claborata da matematici e logici. I prin- PROVA cìipi della «teoria della P.»
furono stabiliti da D. Hilbert nel modo seguente: « Una P. è una figura che ci
deve stare come tale davanti; essa consiste di conseguenze derivate secondo lo
schema seguente N 3 T T nel quale ognuna delle premesse cioè le formule Se S-+T
o è un assioma, cioè posta direttamente come tale, o coincide con la formula
finale 7 di un ragionamento precedentemente giunto alla P. cioè consiste
nell’assunzione di tale formula finale. Una formula si dice suscettibile di P.
se essa o è un’as- sioma cioè assunta come un’assioma con un atto di posizione,
o è la formula finale di un’altra P. + (« Die logischen Grundlagen der
Mathematik », in Mathematische Annalen, 1923, pag. 152). In altri termini una
P. logica è un procedimento che con- siste in una manipolazione di formule:
manipola- zione che è a sua volta un insieme di formule. Dice Church, « Una
sequenza finita di una o più formule ben formate è una P. se ciascuna delle formule
ben formate della sequenza o è un assioma o è immediatamente inferita dalle
precedenti for- mule della sequenza per mezzo di una delle regole di inferenza
» (Intr. to Mathematical Logic, 1956, $ 07). Wittgenstein aveva già detto a
questo propo- sito: « La P. in logica è solo un espediente mecca- nico per
riconoscere più facilmente la tautologia quando è complicata» (Tractatus
logico-philoso- phicus, 6.1262). La teoria matematica della P. è sostanzial- mente
la riduzione della P. alla P. della non contradditorietà. Ora un teorema
stabilito da K. Gédel nel 1931 afferma che si può sol- tanto provare, con
l’aiuto di una parte delle matematiche, la non contraddizione di una parte più
ristretta delle matematiche stesse; ma non si può provare la non contraddizione
dell’insieme delle matematiche o di una parte più estesa di esse. Si può, ad
es., dimostrare la non contraddizione della teoria dei numeri interi partendo
dalla teoria dei numeri reali, non reciprocamente (cfr. CARNAP, Logical Syntax
of Language, 1937, $ 35-36; QUINE, Mathematical Logic, 1940, cap. 7). Il
teorema di Gédel porta, come osserva Quine, alla maturità una nuova branca
della teoria matematica cioè la branca conosciuta come metamatematica o «
teoria della P.», il cui oggetto è la stessa teoria mate- matica (Me:rhods of
Logic, $ 41). Questo teorema stabilisce tuttavia che una P. della coerenza è
sempre relativa perchè il risultato di essa vale soltanto finchè si ammette la
coerenza del sistema in base al quale essa viene effettuata (cfr. Quine, From a
Logical Point of View, pag. 99 sgg.). Cfr. pure E. NAGEL e J. R. NEWMANN,
Gòdel’s Proof., 1958 (v. MATEMATICA), PSICANALISI PROVVIDENZA (gr. mpévota;
lat. Providentia; ingl.
Providence; franc. Providence; ted. Vorsehung). Il governo divino del mondo: che viene abitual- mente
distinto dal destino, in quanto è considerato come esistente in Dio stesso
mentre il destino è questo governo visto attraverso le cose del mondo (v.
Destino). La nozione di provvidenza fa parte integrante del concetto di Dio
come creatore dell’or- dine del mondo o come quest'ordine stesso (v. Dio). Per
i problemi connessi col concetto di P., vedi MALE; TEODICEA. PROVVIDENZIALISMO
(ingl. Providentia- lism). 1. La fiducia nell’azione della provvidenza. 2. La
dottrina che vede nella storia un ordine o un piano provvidenziale. In
quest’ultimo senso il termine è adoperato in italiano (v. STORIA). PRUDENZA
(lat. Prudentia; ingl. Prudence; franc. Prudence; ted. Klugheit). V. SAGGEZZA. PSEUDOCONCETTO. P. o « finzioni con- cettuali » 0 «
concetti finiti » chiamò Croce le nozioni che comunemente si dicono concetti,
in contrapposto al «concetto puro» o « autentico concetto » con il quale egli
intese la stessa Ragione universale nella sua forma conoscitiva. I P.
servirebbero a conser- vare e a classificare le conoscenze acquistate (Logica, 1920,
cap. II. PSEUDOPROPOSIZIONI (ingl. Pseudosta- tement; ted. Pseudosdizen).
Termine adoperato da Carnap per indicare « espressioni che sono erronea- mente
considerate come proposizioni ma non hanno contenuto conoscitivo, per quanto
possano avere componenti di significato non cognitivo, per esempio emotivo »
(Meaning and Necessity, $ 4). Secondo Carnap, molte proposizioni della
metafisica classica sono P. in questo senso (cfr. Erkenntnis, II, 1931). PSICANALISI (ingl.
Psychoanalysis; francese Psychanalyse; ted. Psychoanalyse). Sotto il nome di P. vanno: 1° un metodo di cura per
certe malattie mentali; 2° una dottrina psicologica; 3° una dottrina metafisica;
infine, e più spesso, una certa disordinata mescolanza di queste tre cose. I
fondamenti della psicanalisi sono stati dallo stesso fondatore Sig- mund Freud
così riassunti nell’introduzione di una delle sue opere maggiori: 1° i processi
psichici sono in se stessi incoscienti e i processi coscienti sono soltanto
atti isolati, frazioni della vita psichica totale; 2° i processi psichici
incoscienti sono in buona parte dominati da tendenze che possono essere
qualificate «sessuali» nel senso stretto o largo del termine. Quest’ultimo
presupposto è in realtà la caratteristica fondamentale della P.; la quale è
essenzialmente il tentativo di spiegare l’intera vita dell’uomo, e non solo
quella privata o indivi- duale ma anche quella pubblica o sociale, con il ricorso
a una sola forza che è l’istinto sessuale o libido (v.) nel senso tecnico di
questo termine (Ein- 709 fiihrung in die Psychoanalyse, 1917, Intr.). Dal con- trasto
tra gli impulsi sessuali dell'inconscio e le soprastrutture morali e sociali
costituite da proi- bizioni e censure accumulate e consolidate dall’in- fanzia,
nascono i seguenti fenomeni: a) i sogni, che sarebbero espressioni deformate e
simboliche dei desideri repressi (cfr. Die Traumdeutung, 1900); b) gli arti
mancati cioè i lapsus, le sviste, che sono falsamente attribuite al caso; e
perfino gli scherzi e l’umorismo (cfr. Zur Psychopathologie des All- tagslebens,
1901; Der Witz und seine Bedeutung zum Unbewussten, 1905); c) le malattie
mentali che pertanto possono essere curate portando il paziente, attraverso la
confessione e la conversazione, a ri- conoscere i conflitti da cui emergono. A
questo proposito, il sintomo di una malattia dev’essere considerato come «il
segno e la sostituzione di una soddisfazione istintuale rimasta latente, il ri-
sultato di un processo di rimozione» (Hemmung, Symptom und Angst, 1926, cap. 2;
trad. ital., pa- gina 29). Uno dei fenomeni caratteristici della cura psicanalitica
è il cosiddetto transfert cioè il tra- sferimento dei sentimenti del malato
(positivi o negativi, cioè di amore o di odio) alla persona del medico
(Einflihrung cit., cap. 27; trad. franc., pa- gina 461 sgg.); d) la
sublimazione cioè il trasferi- mento dell’impulso sessuale ad altri oggetti,
tra- sferimento che darebbe luogo ai fenomeni cosiddetti spirituali: arte,
religione, ecc.; e) i cosiddetti com- plessi cioè sistemi o meccanismi
associativi, rela- tivamente costanti in tutti gli uomini e cui vanno attribuiti
i maggiori turbamenti mentali. La nozione e il termine di complesso fu
introdotta da un se- guace di Freud, C. G. Jung (Wandlungen und Symbole der
Libido, 1912). Ma Freud aveva già, nell’Inter- pretazione dei sogni, adombrato
tutti i fatti fonda- mentali del cosidetto « complesso di Edipo +, che è quello
per cui il bambino include nell’amore per la madre una certa gelosia o
avversione verso il padre. Nel 1923 nello scritto L’Ego e Es (Das Ich und das
Es) Freud dava una teoria psicologica che è stata largamente accettata dalla
psicologia contemporanea. Egli divideva lo spirito in tre parti: l’Ego che è
organizzazione e consapevolezza, perciò è in contatto con la realtà e cerca di
asservirla ai suoi fini; il Super Ego che è ciò che comunemente si chiama
coscienza morale, cioè l’insieme delle proibizioni che sono state instillate
all'uomo nei primi anni di vita e che poi lo accompagnano sempre, anche in
forma inconsapevole; e 1°Es che è costituito dagli impulsi molteplici della
libido, di- retta costantemente verso il piacere. Questa dot- trina su cui lo
stesso Freud è ritornato più tardi (cfr. Hemmung, Symptom und Angst, 1926) si è
rivelata abbastanza utile sia per la descrizione e 710 l'interpretazione delle
malattie mentali sia nella teoria della personalità. Freud e i suoi seguaci
hanno presentato e presen- tano i loro concetti non come ipotesi o strumenti di
spiegazione ma come realtà assolute, di natura metafisica. Ma una vera e
propria metafisica, anzi una mitologia Freud ha formulato in uno dei suoi ul- timi
scritti Das Unbehagen in der Kultur (1930, tradu- zione inglese, col titolo
Civilisation and its Discon- tents, 1943), nel quale ha considerato tutta la
storia dell’umanità come la lotta tra due istinti, l’istinto della vita o Eros
e l’istinto della Morte. « Questa lotta, egli ha scritto, è ciò in cui ogni
vita essenzial- mente consiste e perciò lo sviluppo della civiltà può essere
descritto come la lotta della specie umana per l’esistenza. Ed è questa
battaglia di titani che le nostre nutrici e governanti tentano di comporre con
le loro filastrocche sui cieli » (Civilisation and its Discontents, 1943, pag.
102). Questa dottrina non è che un’espressione, non molto aggiornata, del
dualismo manicheo. L’importanza della P. consiste in primo luogo nell’avere
sottolineato la funzione del fattore ses- suale in tutte le manifestazioni
della vita umana. Per la prima volta, con la P., questo fattore ha cessato di
essere una zona d’ignoranza obbligata per la scienza e per la filosofia e ha
potuto essere studiato nei suoi effettivi modi d’azione. In secondo luogo, la
P. ha fornito un insieme di concetti che, per quanto non molto compatibili tra
loro, si prestano ad essere utilizzati da varie branche della psicologia
contemporanea, soprattutto sc sottratti al dogmatismo con cui alcuni seguaci di
Freud li hanno trattati. Questo secondo aspetto positivo ha però una
controparte negativa: la P. fornisce a molti orecchianti il modo di apprestare
spie- gazioni apparentemente plausibili e molto a buon mercato dei fenomeni
umani più disparati, scam- biando anche, talora, questa spiegazione per una giustificazione
morale 0 metafisica. In terzo luogo, la P. ha avuto il merito di apprestare uno
stru- mento curativo che continua a dimostrarsi efficace, anche se molte delle
illusioni ottimistiche che esso aveva suscitato ai suoi inizi sono andate
perdute. Tra i molti indirizzi interpretativi, che hanno più o meno modificato
le dottrine fondamentali della P., se ne possono ricordare due, quella di Jung e
quella di Adier. Jung ha concepito l’istinto fon- damentale dell’uomo non già
come di natura ses- suale ma come una Energia originaria e creativa che si
identifica con il concetto generico della divi- nità e costituisce l'inconscio
collettivo che è il fondo comune della natura umana (Psicologia dell’in- conscio,
19425): Alfred Adler invece ha identificato l’istinto fondamentale dell’uomo
con la volontà di potenza di cui parlava Nietzsche cioè come uno PSICANALISI
ESISTENZIALE spirito di aggressione e di lotta che è in conflitto con l’altro
istinto, il sentimento della comunità umana che lega l’individuo a tutti gli
altri. Il gioco di queste due forze determinerebbe il carattere di ogni singolo
uomo e le sue manifestazioni patolo- giche (La conoscenza dell’uomo, 1927). PSICANALISI
ESISTENZIALE (franc. Psy- chanalyse existentielle). Sartre ha chiamato con questo
nome l’analisi filosofico-esistenziale in quanto cerca di determinare la
«scelta originaria » che è alla base di ogni umano « progetto di vita ». Il
prin- cipio di questa psicanalisi è che « l’uomo è una tota- lità e non una
collezione +; e il suo scopo è quello di « decifrare i comportamenti empirici
dell’uomo », Inoltre il suo punto di partenza è l’esperienza e il suo metodo è
quello comparativo (L’étre er le néant, 1943, pag. 656). La P. esistenziale si
differenzia da quella di Freud che Sartre chiama « empirica » perchè cerca di
determinare non già i « complessi » ma la scelta originaria (/bid., pag. 657). PSICHE
(ingl. Psyche; franc. Psyché; ted. Psy- che). Anima o coscienza (v. questi due
termini). PSICHEDELICO (ingl. Psychedelic). Aggettivo che dovrebbe significare
« manifestante la psiche », coniato recentemente per qualificare le esperienze prodotte
dall’uso dell’acido lisergico (LSD) o di altre droghe, in quanto assunte o
credute come rivelazioni di una realtà più profonda di quella che si manifesta
nell’esperienza comune e che è di natura divina o è la divinità stessa
immanente nel mondo (cfr. W. BRADEN, The Private Sea, London, 1967). PSICOFISICA.
V. PsicoLOGIA, b). PSICOGENESI (ingl. Psychogenesis; francese Psychogénèse;
ted. Psychogenese). Lo sviluppo dei processi mentali, o la considerazione di
tale sviluppo. PSICOGNOSI (ingl. Psychogrosy). Termine adoperato da Peirce per
indicare il complesso delle scienze psichiche (Coll. Pap., 1.242). PSICOGRARFIA
(ingl. Psychography; francese Psychographie; ted. Psychographie). Descrizione
dei processi o dei caratteri psichici di un individuo. PSICOIDE (ingl. Psychoid;
franc. Psychotd; ted. Psycholde). Nome dato dal biologo
vitalista H. Driesch alla forza psichica che presiede alla forma- zione e allo
sviluppo degli organismi (v. VITALISMO). PSICOLOGIA (ingl. Psychology; franc.
Psy- chologie; ted. Psychologie). La disciplina che ha per oggetto l’anima o la
coscienza o gli eventi caratteristici della vita animale ed umana, comunque tale
eventi siano poi caratterizzati al fine di deter- minarne la natura specifica.
Talvolta infatti tali eventi si considerano come puramente «mentali» cioè come
«fatti di coscienza»; talaltra come eventi oggettivi od oggettivamente
osservabili, cioè come movimenti, comportamenti, ecc.; ma in ogni caso PSICOLOGIA
l’esigenza cui queste definizioni rispondono è quella di delimitare il dominio
dell’indagine psicologica alla cerchia ristretta dei fenomeni caratteristici
degli organismi animali e specialmente dell’uomo. Dal
punto di vista dell’impostazione
concettuale (che è quello che interessa la filosofia) si possono distin- guere
i sei indirizzi fondamentali seguenti: a) P. ra- zionale; 5) P. psicofisica; c)
P. gestaltistica; d) P. com- portamentistica; e) P. del profondo; f)P.
funzionale. a) La P. razionale o filosofica è quella fondata da Aristotele che
per primo raccolse nel suo libro De Anima le opinioni che i suoi predecessori
ave- vano espresso intorno a questo soggetto. Questa P. ha per oggetto « la
natura, la sostanza, e le deter- minazioni accidentali dell'anima »,
intendendosi per anima «il principio degli esseri viventi» (De An., I, 1, 402 a
6). Il presupposto fondamentale di questa P. è esplicito in queste notazioni:
essa presuppone negli eventi che prende a studiare un principio unico e
semplice, una sostanza necessaria, dalla quale si lascino dedurre le
determinazioni che quegli eventi posseggono costantemente o per lo più. La P. è
in questo senso una scienza deduttiva del- l'anima nella quale i fenomeni
particolari entrano soltanto come conferme occasionali dei singoli teoremi che
la costituiscono. Ben a ragione nel sec. Xvili Wolff dava a questa P. il titolo
di « razio- nale » in quanto per essa si tratta di « derivare a priori dall’unico
concetto dell'anima umana tutte le cose che si osservano a posteriori competere
ad essa» (Log., Disc. prel., $ 112). Ma fu merito di Wolff aggiungere a tale P.
una P. s empirica + definita come «la scienza che stabilisce attraverso
l’esperienza i princìpi con i quali si possa rendere ragione di ciò che accade
nell’anima umana» (/bid., $ 111; Psy- chologia empirica, 1732, $ 1). La P.
razionale in questo senso rimane un indirizzo proprio delle filosofie che si
ispirano alla metafisica tradizionale, ma ha cessato di avere qualsiasi
efficacia sullo sviluppo scientifico della psicologia. b) La P. psicofisica o
più semplicemente la psicofisica ha costituito il primo indirizzo empirico o
sperimentale o scientifico della psicologia. Wolff aveva già prescritto per
essa il procedimento indut- tivo o sperimentale proprio di tutte le scienze
empi- riche; Maine di Biran, ai princìpi dell’800, le pre- scriveva il suo
campo d’azione: la coscienza (Essai sur les fondements de la psychologie,
1812). Con ciò tuttavia non c’erano ancora tutte le condizioni per la fase
scientifica della psicologia. Ne manca- vano due, strettamente connesse tra
loro; in primo luogo, il riconoscimento dello stretto rapporto tra gli eventi
psichici e gli eventi fisici mediato dal- l’azione del sistema nervoso; in
secondo luogo, l’introduzione di un qualche procedimento di mi- sura. La
realizzazione di queste due condizioni 711 condusse la P. a costituirsi come
psicofisica. Ciò avvenne per opera di Helmholtz, Weber, e Fechner: il primo dei
quali riusciva a misurare nel 1850 la velocità dell’impulso nervoso; mentre il
secondo enunciava la cosiddetta « legge » concernente il rap- porto tra lo
stimolo e la sensazione (e secondo la quale l’aumento dello stimolo necessario
per es- sere percepito come tale è proporzionale all’inten- sità dello stimolo
originario); e l'ultimo stabiliva la «legge psicofisica fondamentale » che
consisteva nella formula matematica esprimente la legge di Weber. Nel 1860
Fechner pubblicava gli Elementi di psicofisica che definivano la psicofisica
come «la scienza esatta delle relazioni funzionali o re- lazioni di dipendenza
fra lo spirito e il corpo». Questo fu e rimase il programma della P. scien- tifica
in questa prima fase della sua organizzazione: un programma nel quale trovarono
posto agevol- mente i risultati delle analisi dell’empirismo inglese da Locke a
Spencer. Quest'ultimo nei Principi di P. (1855) aveva anch’egli definito come
psico- fisica il compito della P. asserendo che «la P. si distingue dalle
scienze sulle quali poggia [dall’ana- tomia e dalla fisiologia] perchè ciascuna
delle sue proposizioni prende in considerazione sia il feno- meno interno
connesso sia il fenomeno esterno connesso, al quale si riferisce » (Principles
of Psy- chology, 3* ed., 1881, pag. 132). Dall’empirismo inglese, la P. desunse
due tratti fondamentali che l’accompagnarono in questa prima fase della sua costituzione
cioè l’atomismo (v.) e l’associazio- nismo (v.): sicchè le sue strutture
teoretiche fon- damentali possono ricapitolarsi nel modo seguente: 1° La P. ha
per oggetto i « fenomeni interni » o « fatti di coscienza » e il suo principale
strumento di indagine è l’introspezione o riflessione. Per questo aspetto
l’indirizzo in esame della P., fu spesso chia- mato P. soggettiva o riflessiva
o, più raramente, ‘ critica ’. 2° I fatti di coscienza o fenomeni interni sono
studiati dalla P. nella loro connessione funzio- nale con i fenomeni esterni
cioè fisiologici o fisici. Per quest’aspetto che è il più proprio della fase in
questione tale P. fu chiamata psicofisica o anche (da Wundt) P. fisiologica. A
questo aspetto si collega l’ipotesi che ha sorretto in questa fase il lavoro
sperimentale della P.: il parallelismo psicofisico (v.). 3° La tendenza a
risolvere il fatto di coscienza in elementi ultimi (sensazioni, emozioni
elementari, riflessi o istinti elementari) e a spiegare i fenomeni più
complessi con la combinazione di tali elementi: (atomismo, associazionismo). 4°
Il carattere scientifico della P. è costituito dal ricorso ai procedimenti
dell’induzione, dell’espe- rimento e del calcolo matematico; il ricorso a tali 712
procedimenti stabilisce il carattere descrittivo che la P. rivendica per sè,
analogamente a quanto fanno
le altre discipline empiriche. c) La P.
della forma o gestaltismo o configurazio- nismo batte in breccia il caposaldo
3° della P. psico- fisica cioè l’atomismo e l’associazionismo. Essa consiste
nell’assumere come punto di partenza il principio simmetrico e opposto a quello
della P. associativa: non già l’elemento, ma la forma totale è il fatto
fondamentale della coscienza, giacchè questa forma non è mai riducibile ad una
somma o combinazione di elementi. La P. della forma ebbe come suoi fondatori
Wertheimer, Kéhler e Koffka; e pur mantenendo sostanzialmente immutato il
caposaldo 2° della psicofisica cessò di parlare di fatti o fenomeni di
coscienza per considerare forme o configurazioni o campi, colti nella loro
struttura totale. La P. della forma si è occupata soprattutto della percezione,
rispetto alla quale ha accumulato una mole ingente di lavoro speri- mentale (v.
PERCEZIONE, 3, @). d) La P. obiettiva o comportamentismo batte in breccia il
caposaldo 1° della P. psicofisica, negando che lo strumento fondamentale della
P. sia l’intro- spezione o riflessione e che i fatti di coscienza o fenomeni
interni siano l’oggetto di questa scienza; e asserendo che costituiscono invece
oggetto della P. le reazioni degli organismi agli stimoli: inten- dendosi per
reazioni, movimenti o fenomeni ogget- tivamente osservabili, che si producono
in rapporto agli eventi dell'ambiente che funzionano da stimoli. Nel 1907 il
fisiologo russo Bechterev pubblicava una P. obiettiva (che fu poi tradotta in
inglese e francese) che sosteneva appunto questa tesi; che più tardi gli studi
di Pavlov sui riflessi condizionati difesero e diffusero (v. AZIONE RIFLESSA).
Da quella data si può pertanto far cominciare il comporta- mentismo; che
tuttavia ebbe il suo nome alcuni anni più tardi, dall’americano J. B. Watson,
in un articolo del 1913 e poi in un libro intitolato Compor- tamento,
introduzione alla P. comparativa (Behavior. An Introduction to Comparative Psychology, 1914). In questa prima fase il comportamentismo assumeva il
carattere di un necessitarismo rigoroso; la reazione dell’animale era
considerata come l’effetto causale necessario dello stimolo, perciò come
infallibilmente prevedibile a partire da esso. L'abbandono di questo necessitarismo
e il riconoscimento del carattere sem- plicemente statistico o probabilistico
delle costanti riscontrabili nelle reazioni di risposta degli organismi agli
stimoli costituisce la fase più moderna del com- portamentismo stesso (v.
COMPORTAMENTISMO). e) Le cosiddette P. abissali o P. del profondo battono in
breccia il caposaldo 4° della P. scientifica classica, considerando la P. come
scienza non di descrizione ma di interpretazione. Per la psicanalisi
PSICOLOGIA infatti, che è la maggiore e
più coerente espressione delle P. abissali, l’interpretazione desume il suo punto
di partenza non già da fatti come fa la descri- zione, ma da sintomi e la
nozione di sintomo è difatti uno dei concetti fondamentali della psicanalisi (v.
Inconscio). Nell’interpretazione dei sintomi la psicanalisi segue una sola
regola fondamentale: quella di ridurre il sintomo stesso a simbolo o espres- sione
deformata di un bisogno o di un conflitto di natura vagamente sessuale,
attinente cioè alla libido (v. Lramo; PSICANALISI; SESSUALITÀ). Va- rianti
della psicanalisi sono la cosiddetta P. indi- viduale di Alfred Adler, la quale
insiste soprattutto sul carattere finalistico dei procedimenti psichici (Praxis
und Theorie der Individualpsychologie, 1924); e la P. analitica di C. G. Jung
che in realtà è molto poco analitica (nel senso proprio del termine) perchè non
fa che riconoscere il carattere simbolico a molti sintomi che lo stesso Freud
considerava come aventi un significato diretto (Collected Papers on Analy- tical
Psychology, 1916) (v. Inconscio; PROFONDO). f) La P. funzionale o funzionalismo
è quell’in- dirizzo il quale ritiene che l’oggetto della P. sia costituito
dalle funzioni od operazioni dell’orga- nismo vivente, considerate come unità
minime indi- visibili. Il funzionalismo si fa iniziare da uno scritto di Dewey
del 1896 sul Concerto dell’arco riflesso in P. nel quale si sosteneva che
l’arco riflesso non si può dividere in stimolo e risposta ma dev'essere considerato
come un’unità dalla quale soltanto stimolo e risposta traggono significato. Per
indicare l’unità della funzione lo stesso Dewey adoperò in seguito la parola
transazione (v.): che serviva a sotto- lineare l’impossibilità di considerare
come entità per sè stanti, e indipendenti dalla relazione in cui entrano, gli
elementi di una funzione qualsiasi (cfr. Knowing and the Known, 1949, in
collaborazione con A. F. Bentley). L’indirizzo funzionalistico abbandona i
presupposti 1°, 2° e 3° della P. tradi- zionale. Abbandona il presupposto 1°
perchè l’og- getto che prende a studiare non è un fatto di coscienza ma una
funzione cioè un’operazione con la quale l’organismo entra in rapporto con
l’ambiente. Abbandona il caposaldo 2° perchè il metodo di cui esso si avvale
non è quello introspettivo ma piut- tosto quello oggettivo o
comportamentistico: le fun- zioni devono essere studiate mediante procedimenti di
osservazione oggettiva. Infine il funzionalismo ha in comune con la P. della
forma l’abbandono del caposaldo 3°. Ma il carattere del funzionalismo che costituisce
la sua maggiore novità nei confronti degli altri indirizzi della P. è il suo
probabilismo: che consiste nel negare non solo ai procedimenti
della scienza ma anche a tutte le
funzioni conoscitive umane (compresa la percezione immediata), il carat- tere
della certezza infallibile e nel riconoscere a tutte PSICOLOGISMO queste
funzioni la possibilità di raggiungere solo validità probabile. Per questo
probabilismo, il fun- zionalismo costituisce l’inserzione della P. nel circolo delle
idee fondamentali della scienza contempo- ranea (cfr. BRUNSWIK, Psychology in
Terms of Objects, 1936; CANTRIL, AMES, HASTORF, ITTELSON, « Psychology and
Scientific Research», in Science, vol. 110, 1949; CANTRIL, The ‘ Why° of Man's Experience,
1950; trad. ital, Le motivazioni del- l’esperienza, 1958; v. pure le opere
citate nella bibliografia di quest’ultimo libro). PSICOLOGICO (ingl. Psychological; franc. Psy- chologique;
ted. Psychologisch). 1. Ciò che concerne la
psicologia; e in questa accezione il termine ha tanti significati diversi
quanti sono i diversi indirizzi concettuali della psicologia stessa. 2. Ciò che
concerne la coscienza dell’individuo cioè gli atteggiamenti o le valutazioni
individuali. In tal senso si dice, per es., che «si tratta di una questione
puramente P.» quando si tratta di una questione cui non si può trovare una base
nei fatti o nell’ambito di un determinato universo di discorso (per es.,
scientifico, logico, ecc.). PSICOLOGISMO (ingl. Psychologism; francese
Psychologisme; ted. Psychologismus). 1.
Termine di origine ottocentesca che designa in primo luogo qualsiasi filosofia
che assuma a suo fondamento i dati della coscienza cioè della riflessione
dell’uomo su se stesso. In questo senso lo P. fu inteso, in pole- mica con
l’idealismo hegeliano, da G. F. Fries (1773-1844) e da F. E. Beneke (1798-1854)
che en- trambi assunsero esplicitamente come metodo e compito della filosofia
l’auto-osservazione o co- scienza. Da questo punto di vista la psicologia, come
descrizione dell’esperienza interna, diventa l’unica filosofia possibile (cfr.
FrIEs, Neue oder an- thropologische Kritik der Vernunft, 1828; BENEKE, Die Philosophie
în ihrem Verhdltnis zur Erfahrung, zur Speculation und zum Leben, 1833). Più
generica- mente, e polemicamente, V. Gioberti intendeva per P. il procedimento
filosofico che va dall’uomo a Dio, in quanto contrapposto a quello che va da
Dio al- l'uomo. Quest'ultimo è l’onrologismo (v.). Lo P. è da Gioberti
considerato come la caratteristica di tutta la filosofia moderna da Cartesio in
poi (/ntr. allo studio della filosofia, 1840, II, pagina 175). 2. Nel suo uso
polemico, il termine è costante- mente usato per designare la confusione tra la
genesi psicologica della conoscenza e la sua validità; o la tendenza a ritenere
giustificata la validità di una conoscenza quando si è invece spiegata soltanto
il suo accadimento nella coscienza. In questo senso, colui che ha chiarito per
primo il concetto di P. (per quanto non ne abbia adoperato il nome) e ha iniziato
la polemica contro di esso, è stato Kant il quale distingueva, a proposito dei
concetti a priori, 713 la quaestio facti della loro « derivazione fisiologica +
cioè del loro accadere nella mente o nella coscienza dell’uomo, dalla quaestio
juris che consiste nel chiedersi il fondamento della loro validità e che esige
come risposta la deduzione (v. DEDUZIONE TRASCENDENTALE) (Crift. R. Pura, $
12). Questa distinzione che è sempre presente nell’opera di Kant, significa la
scoperta della dimensione /ogico- oggettiva della conoscenza: una dimensione,
la cui irreducibilità alla coscienza o alle condizioni sog- gettive del
conoscere è stata sostenuta da molte scuole kantiane: dalla scuola del Baden
(Windel- band, Rickert) dalla scuola di Marburgo (Cohen, Natorp) dalla
fenomenologia (Husserl) che hanno, nella filosofia degli ultimi decenni del
secolo scorso e nei primi del nostro, costantemente combattuto lo psicologismo.
Herman Lotze nella Logica del 1874 aveva sistematicamente fatto valere il punto
di vista antipsicologistico distinguendo costante- mente l’atto psichico del
pensare, che esiste solo come un determinato evento temporale, dal con- tenuto
del pensiero che ha altro modo d'essere, quello della validità. G. Frege aveva
fatto valere nel dominio della logica matematica lo stesso punto di vista. «
Non si prenda come definizione mate- matica, egli diceva, la semplice
descrizione del modo in cui si forma in noi una certa immagine nè come
dimostrazione di un teorema il resoconto delle condizioni fisiche o psichiche
che devono trovarsi in noi soddisfatte perchè ne possiamo com- prendere
l’enunciato. Non si confonda la verità di una proposizione con il suo venir
pensata! Oc- corre ricordarsi bene di questo: che una propo- sizione non cessa
di essere vera allorchè io non la penso più, come il sole non cessa di esistere
al- lorchè io chiudo gli occhi» (Die Grundlagen der Arithmetik, 1884, Intr.;
trad. ital, in Arifmetica e logica, pag. 23). Queste considerazioni venivano quasi
alla lettera ripetute da Husserl (Logische Untersuchungen, 1900, I, $ 17 sgg.),
il quale ribadiva più tardi che « se designiamo un numero come una formazione
psichica cadiamo in un assurdo, urtiamo contro il senso intrinseco del discorso
aritmetico, che sta prima di tutte le teorie ed è in ogni momento chiaramente
contemplabile nella sua piena validità + (Ideen, I, 1913, $ 22) e metteva in
guardia contro la tendenza a « psicologizzare l’eidetico » cioè a identi- ficare
le essenze con la coscienza che si ha di volta in volta di esse (/bid., $ 61).
L’indirizzo antipsicolo- gistico in questo senso è oggi alla base di filosofie
ap- parentemente disparate: dell’esistenzialismo, per es., nella forma che ha
assunto nell’opera di Heidegger in quanto è analisi delle situazioni umane
nella loro essenza e non nel loro accadere psichico (cfr. Sein und Zeit, $ T);
come dell’empirismo logico il cui principale rappresentante, R. Carnap, ha
costante- 714 mente polemizzato contro lo P. (cfr. Der /ogische Aufbau der
Welt, 1928, $ 151 sgg.; « Empiricism, Semantics and Ontology +, 1950, in
Readines in Phil. of Science, 1953, pag. 514). La polemica contro lo P. è
d’altronde frequente nell’empirismo logico (cfr., per es., A. Pap, Elements of
Analytic Philosophy, 1949, pag. 406). PSICOMETRIA (ingl. Psychometry; francese Psychométrie;
ted. Psychometrie). La misura della fre- quenza, dell'intensità o della durata
degli eventi psi- chici. Il termine (psycheometria) nonchè l’esigenza della
applicazione della misura a fatti psichici furono proposti da Wolff (Psychol.
empirica, $ 522, 616). Il ter- mine fu molto adoperato dalla psicofisica che
talvolta si identificò con la psicometria. Ora è caduto in disuso. PSICOPATIA
(ingl. Psychopathy; franc. Psy- chopathie; ted. Psychopathie). Qualsiasi
disordine o malattia mentale; o le forme meno gravi di tali malattie. In
quest'ultimo senso la P. sarebbe diversa dalla psicosi (v.). PSICOSI (ingl. Psychosis; franc. Psychose; ted.
Psychose). Nel significato ora in uso: malattia mentale
grave che implica perdita o disordine di processi mentali. Psiconevrosi o
semplicemente nevrosi: malattia o disturbo mentale meno grave. In generale
s’intende per P. l’indebolimento o la perdita del rapporto verificabile con le
cose o con gli altri, rapporto che è costitutivo della persona- lità (v.) e la
cui alterazione quindi comporta lo squilibrio della personalità stessa. Per
rapporto verificabile si può intendere un rapporto che può essere controllato o
non smentito dai criteri comu- nemente riconosciuti validi o che comunque non equivalga
alla negazione di ogni rapporto possibile. PSICOSOMATICO (inglese
Psychosomatic; franc. Psychosomatique; ted. Psychosomatik). Che concerne
l'influenza degli atteggiamenti mentali (cioè del modo di pensare e di sentire
di una persona) sui processi organici. Si chiama psicosomatica la branca della
medicina che studia tali influenze (con- fronta F. ALEXANDER, Psychosomatic
Medicine, 1949). PSICOTECNICA (ingl. Psychotechnic; fran- cese Psychotechnique; ted. Psychotechnik). L'appli- cazione della psicologia ai
problemi del lavoro e della produzione: l’ingegneria psicologica. PSICOTERAPIA
(ingl. Psychotherapy; francese Psychothérapie; ted. Psychotherapie). La
soluzione dei conflitti sia individuali sia di gruppo, o la cura di stati
mentali patologici mediante consigli, chiarimenti o suggerimenti verbali, senza
ricorso a mezzi mate- riali. La psicanalisi è la più nota e diffusa forma di psicoterapia.
Una forma più aggiornata è la cosid- detta «P. non direttiva» secondo la quale
il procedi- mento di cura consiste nel cercare di trovare, mediante una
conversazione amichevole con il paziente, l’imma- gine che egli si fa di se
stesso e dei suoi fini nella vita, PSICOMETRIA aiutandolo a liberarsi dai
conflitti (cfr. C. R. RoGERS, Counseling and Psychotherapy, 1937) (v.
PSICANALISI). PSITTACISMO (ingl. Psittacism; franc. Psit- tacisme; ted.
Psittazismus). L’uso delle parole senza il loro riferimento agli oggetti, come
fanno i pappagalli. Diceva Leibniz: « Si ragiona spesso con le parole senza
quasi aver l’oggetto nello spirito... +; e in questo caso «i nostri pensieri e
i nostri ragionamenti, contrari al sentimento, sono una specie di P.» (Nouv.
Ess., II, 21, 35). Sul lin- guaggio oratorio considerato come una specie di P.
cfr. C. K. OGpEN-I. A. RICHARDS, The
Meaning of Meaning, 10* ed., 1952, pag. 218. PUBBLICITÀ (ingl. Publicity; franc. Publicité; ted.
Offentlichkeit). Secondo Kant è il criterio per riconoscere immediatamente la
legittimità di una pretesa giuridica. Kant chiama formula tra- scendentale del
diritto pubblico il seguente principio: «Tutte le azioni relative al diritto di
altri uomini, la cui massima non è suscettibile di P., sono ingiuste + (Zum
ewigen Frieden, appendice II. PUBBLICO (ingl. Public; franc. Publique; ted.
Offentlich). L’aggettivo è usato in senso filo- sofico (specialmente da
scrittori anglosassoni) per designare quelle conoscenze o quei dati o elementi di
conoscenza che sono disponibili a chiunque in condizioni adatte e non
appartengono alla sfera privata e incontrollabile della coscienza. P. in questo
senso è ciò che Kant chiamava oggettivo (v.): ciò che può essere partecipato
ugualmente da tutti e perciò anche espresso o comunicato con il linguaggio (cfr.
B. RusseLL, Human Knowledge, II, 1; tradu- zione ital., pag. 81). PUNIZIONE. V.
Pena. PUNTO (lat.
Punctum; ingl. Point; franc. Point; ted.
Punkt). Leibniz ammise accanto al P. matema- tico e al P. fisico il P.
metafisico che è la sostanza spirituale come elemento costitutivo del mondo. Egli
così distingueva le tre specie di P.: « I P. fisici sono indivisibili solo in
apparenza; i P. matematici sono esatti ma sono solo modi; soltanto i P. metafisici
o di sostanza, costituiti dalle forme o anime, sono nello stesso tempo esatti e
reali; e senza di essi non ci sarebbe nulla di reale perchè nelle vere unità
non ci sarebbe molteplicità 1 (Sy- stème nouveau de la nature, 1695, $ 11). I
P. metafisici non sono che le monadi (v.). PURIFICAZIONE. V. CATARSI. PURISMO
(ingl. Purism; franc. ‘Purisme; te- desco Purismus). 1. In senso morale:
«specie di pedanteria relativa all’osservazione del dovere considerato nel
senso più largo + (KANT, Met. der Sitten, Dottrina della virtù, I, $ 7). a. In
senso linguistico: specie di pedanteria relativa alla pretesa di conservare a
una lingua la sua forma classica © originaria. PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS,
EDENTULI 3. In senso metafisico: specie di pedanteria relativa alla troppo
rigorosa separazione di una facoltà umana dall'altra. In questo senso la parola
fu usata da G. C. Hamann nel titolo del suo scritto Metacritica del P. della
ragione (1788, postumo) nel quale rimproverava a Kant questa specie di pedanteria
nei rispetti della ragione. PURO (ingl. Pure; franc. Pur; ted. Rein). x. Ciò che
non è mescolato con cose d'altra natura; o, più esattamente, ciò che è
costituito in modo rigo- rosamente conforme alla propria definizione. Questa seconda
definizione spiega l’amplissimo uso che i filosofi fanno di questo aggettivo;
in quanto, definito un oggetto, si trovano spesso a dover distinguere tra le
condizioni in cui l'oggetto appare rigorosamente conforme alla propria
definizione e le condizioni in cui invece si allontana in qualche misura da
essa: nelle prime condizioni, l’oggetto è detto puro. Anassagora chiamava P.
l'intelletto perchè esso « solo fra tutti gli enti è semplice e non mescolato »
(ARIsT., De an., 405a 16). Platone parlava di un piacere « P.» cioè non
mescolato di dolore (Fi/., 51 a, 52 c). Cartesio della matematica «P.» (Med.,
VI). Leibniz della « P.+ ragione (Op., ed. Erdmann, pag. 229-230, ecc.). E così
Wolff (Psychol. empirica, $ 495). « Atto P. » è stato detto il primo motore di
Aristotele in quanto è attività per- fetta, priva di potenza; ma l’espressione
non è ari- stotelica (cfr. Met., XIT, 6, 1071 b 22; 8, 1074 a 36). 2. Kant
chiamò P. o « assolutamente P.» una conoscenza « nella quale in generale non si
trova mescolata alcuna esperienza o sensazione e che perciò è possibile
completamente a priori» (Crit. R. Pura, Intr., $ vu). In questo senso la ragion
P. «è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa assolutamente a
priori ». Una scienza della ragion P. è, non una dottrina, ma una critica, in
quanto non può dare un sistema compiuto della ragion P. e può avere funzione
solo negativa « ser- vendo a epurare, non ad allargare, la nostra ragione e a
liberarla dagli errori » (/bid.). In questo senso il 715 contrapposto di P. è
empirico. L'aggettivo fu usato nello stesso senso da Fichte che chiamò P. l’Io assoluto
(o la sua attività) in quanto è diverso dall’io empiricamente condizionato ed
in quanto la sua attività prescinde completamente dall’espe- rienza
(Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, ID. Quest’uso è rimasto costante
nell’idealismo di ispi- razione romantica. Gentile chiamò arto P. il pen- siero
pensante in quanto indipendente da ogni condizione o contenuto empirico (Teoria
generale dello spirito come atto puro, 1920). 3. Nel linguaggio comune si dice
P. una scienza o una disciplina trattata teoreticamente cioè senza riguardo
alle sue applicazioni possibili; e P. è divenuta così il contrario di
applicato. Già Hamilton notava l’improprietà di questo uso (Lectures on Logic,
I, 1866, pag. 62). PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS, EDENTULI. Termini mnemonici
della logica tradizionale per esprimere l’equivalenza delle quattro proposizioni
modali rappresentate ognuna da una sillaba nell’ordine seguente: possibile,
contingente, impossibile, necessario. La vocale che si trova in ciascuna
sillaba cioè 4 o E 0 7 o U indica se il modo dev'essere affermato o negato e se
la proposizione dev'essere affermata o negata. A significa l’afferma- zione del
modo e l’affermazione della proposizione; E l’affermazione del modo e la
negazione della proposizione; / la negazione del modo e l’afferma- zione della
proposizione; U la negazione del modo e la negazione della proposizione. In tal
modo tutte le quattro proposizioni indicate dalla medesima parola sono
equipollenti, sicchè se l’una è vera, le altre sono anche vere (ARNAULD, Log.,
II, 8). Per es., se p è una proposizione qualsiasi, per la parola Purpurea si
ha: Possibile —="U= Non è possibile che non p. Contingente = U = Non è
contingente che non p. Impossibile = E = È impossibile che non p. Necessario =
A = È necessario che p. Analogamente per le altre parole. Q QUACCHERISMO (ingl.
Quakerism; francese Quakerisme). Il più radicale e liberale fra gli indirizzi religiosi
della Riforma. Il movimento fu iniziato nel 1649 in Inghilterra da George Fox e
il vero nome dei quaccheri fu «Società degli Amici» (Friends Society). Il nome
quaccheri fu coniato dal giudice Bennet perchè durante un lungo interro- gatorio
di George Fox questi gli ingiunse di « tre- mare alle parole del Signore». Tra
le maggiori personalità religiose che aderirono a questo movi- mento fu W.
Penn, che nel periodo delle persecu- zioni emigrò in America e fondò la colonia
di Penn- sylvania; e Robert Barkley che fu il teorico del movimento. Il Q. è
caratterizzato: 1° dalla risoluta avversione a ogni forma di culto esterno, di
rito, di predicazione, ecc.; 2° dal riconoscimento che l’unica guida dell’uomo
è la luce interiore che viene direttamente da Dio; 3° dal carattere attivo e
otti- mistico che tale fede interiore acquista nei quaccheri i quali ritengono
lo stesso peccato originale come una corruzione naturale superabile; 4° dalla
condanna di ogni violenza e quindi dall’avversione alla guerra. Nelle Lertere
sugli inglesi (1734) Voltaire esaltava la ragionevolezza e la validità della
religiosità propria dei quaccheri (Left., I-IV) (cfr. ELFRIDA Vipont, The Story
of Quakerism, 1652-1952, Lon- don, 1954). QUADRATO DEGLI OPPOSTI. Indicando, secondo
l’uso scolastico, con A, E, /, O rispettiva- mente la proposizione universale
affermativa (« ogni uomo corre +), l’universale negativa (« nessun uomo corre
+), la particolare affermativa (« qualche uomo corre +) e infine la particolare
negativa (s qualche uomo non corre +) e disponendole in Q. in questo modo: A
contrarie E 2uI9)|eqns subalterne I subcontrarie (0) se ne ottengono le
relazioni logiche fondamentali. A ed E sono contrarie: possono essere entrambe false,
ma non entrambe vere; A ed O, E ed / sono invece contradittorie: non possono
essere nè en- trambe vere nè entrambe false: / ed O sono sub- contrarie:
possono essere entrambe vere, ma non entrambe false; A ed /, E ed O
subalternate, nel senso che A si subalterna (implica) /, E si subalterna (implica)
O (ma non viceversa). L’origine di questo celebre artificio didattico,
certamente medievale, è oscura. Fu erroneamente attribuita dal Prantl al
platonico bizantino M. Psello, e perciò il Q. vien detto anche «Q. di Psello »;
ma se ne ha la documentazione più antica sinora conosciuta nelle Introductiones
în Logicam di Guglielmo di Shyres- wood (seconda metà del sec. xim), sebbene in
testi anteriori non mancassero esempi di paradigmi e schemi del genere. G. P. QUALITÀ
QUADRIFARMACO (gr. tetpapdppaxov). Con questo termine (che propriamente
significa una medicina composta di quattro elementi) Filodemo (Herc. Vol.,
1005, 4) indicò l’insieme delle quattro massime fondamentali dell’etica
epicurea e cioè: 1° non temere la divinità che non si occupa del- l’uomo; 2°
non temere la morte; 3° tener presente la facilità del piacere; 4° tener
presente la brevità del dolore (cfr. EPICURO, Ep. a Menec., 123, 124, 133). QUADRIVIO.
V. CULTURA, ARTE. QUAESTIO. Il metodo di trattazione proprio della scolastica
medievale a partire dal sec. xu. Il primo esempio del metodo è il Sic et Non di
Abelardo: una raccolta di opinioni (sententiae) di Padri della Chiesa, disposte
per problemi, in modo da far apparire le varie sentenze come risposte positive
o negative del problema proposto (donde il titolo, che suona sì e no). Nella
sua forma matura, la Q. è costituita dalle parti seguenti: 1° l’enunciato (es.:
« Utrum deum esse sit per se notum +); 2° l'elen- cazioni delle ragioni che
stanno in favore della tesi che sarà rigettata dall’autore (Ad primum sic pro-
ceditur. Videtur quod deum esse sit per se notum); 3° l’elencazione delle
ragioni che militano in favore della tesi opposta (Sed contra; ...); 4° l'enunciazione
della soluzione scelta dall’autore (Conclusio); 5° l’il- lustrazione di tale
soluzione; 6° la confutazione delle tesi addotte per la soluzione respinta,
nell’or- dine in cui sono state addotte (Ad primum ergo dicendum... Ad
secundum... +). L'ordine con cui le questioni venivano trattate era fornito da
qualche testo a cui l’intera raccolta serviva da commentario: da qualche libro
della Bibbia, da qualche opera di Boezio o di Aristotele o, più frequentemente,
dalle Sentenze di Pietro Lombardo. Quaestiones quod- libetales o più
semplicemente Quodlibeta erano le raccolte delle questioni che gli aspiranti
alla laurea in teologia dovevano discutere due volte all’anno (prima di Natale
e prima di Pasqua) su temi qual- siasi, de quolibet. Le quaestiones disputatae
erano invece il risultato delle disputationes ordinariae che i professori di
teologia tenevano durante i loro corsi sui più importanti problemi filosofici e
teologici (cfr., su questi argomenti, MARTIN GRABMANN, Die Geschichte der
scholastischen Methode, 1911, nuova ed., 1956). QUALCHE (ingl. Some; franc.
Quelque; te- desco Einige). Nella Logica contemporanea, « Q. » 0 «alcuni » è un
operatore di campo, di cui il simbolo più usato è «(4x)»., per es., in formule
come «(Ax).f(x)», che si legge «esiste almeno un x tale che f(x) è vero». Esso
corrisponde ad una somma o disgiunzione logica operata nel campo di validità della
(x), cioè alla disgiunzione «f(a) o f(5) o f(c) 0 ...». Ove f(x) sia un
predicato, questa equivale 717 alla formula consueta «qualche x è f» o anche
«alcuni x sono f» della Logica tradizionale. Già negli Ana- litici di
Aristotele, rìc (di solito al dativo rwì nella formula rò A tì té B breépyei,
«A inerisce a qual- che B +) viene usato con questo preciso valore, come segno
della proposizione particolare affermativa. Nel latino medievale, subentrando
come forma nor- male di proposizione la formula «homo currit », il tlc greco,
che già in Aristotele veniva riferito sempre al soggetto logico della
proposizione, viene tradotto con l’aggettivo aliguis e grammaticalmente concordato
col soggetto (così aliguis homo currit, ma aliqui homines currunt, sebbene le
due forme, in Logica, siano perfettamente sinonimiche): donde il nostro 4Q.» e
«alcuni». Tuttavia è nella Logica medievale che ne viene chiaramente
riconosciuta la funzione di operatore, cioè di segno non significante che ha
solo il compito di modificare la denotazione del termine che funge da soggetto.
G. P. QUALCOSA (gr. x; lat. Aliquid; ingl. Some-
thing; franc. Quelque chose; ted. Etwas). Un oggetto indeterminato.
Dice Wolff «Q. è ciò a cui risponde una determinata nozione » (On?., $ 59): il
che vuol dire che è ciò cui corrisponde una nozione che non includa
contraddizione. Di quest’ultimo tratto si avvale Baumgarten per definire il Q.
(Met., $ 8). E Kant diceva: «La realtà è Q., la negazione è niente » (Crit. R.
Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). Ed
Hegel: 4 L'essere determinato, riflesso in sè in questo suo carattere, è quel
che c’è, il Q. » (Enc., $ 90). Il con- cetto è ora di pertinenza della logica
(cfr. Quan- TIFICATORE). QUALIFICAZIONE. V. QuALITÀ. QUALITÀ (gr. nom; lat.
Qualitas; inglese Quality; franc. Qualité; ted. Qualitàt). La deter- minazione
qualsiasi di un oggetto. In quanto deter- minazione qualsiasi la Q. si
distingue dalla pro- prietà (v.) che (nel suo significato specifico) indica la
Q. che caratterizza o individualizza l’oggetto stesso ed è perciò propria di
esso. La nozione di Q. è estesissima e può difficilmente essere ridotta ad un
concetto unitario. Si può dire piuttosto che essa comprende una famiglia di
concetti che hanno in comune la funzione puramente formale di poter essere
adoperati come risposte alla domanda quale? Di questa famiglia Aristotele
distinse quattro mem- bri; e questa è ancora la migliore esposizione che si possa
dare del concetto di qualità. x. In primo luogo s’intendono per Q. gli abiti e
le disposizioni: che si distinguono tra loro perchè l’abito è più stabile e
duraturo della disposizione. Sono abiti la temperanza, la scienza e in generale
le virtù; sono disposizioni la salute, la malattia, il caldo, il freddo, ecc. (Car.,
8, 8 b 25; cfr. Met., V, 14, 1020a 8-12). Il ricorso ad abiti disposi- 718 zionali
si fa talora anche nella filosofia contempo- ranea (cfr., ad es., C. L.
STEVENSON, Ethics and Language, III, $ 4, 1950, 5* ed., pag. 46 sgg.): ma il
precedente aristotelico viene abitualmente ignorato. 2. Una seconda specie di
Q. è quella che con- siste in una capacità o incapacità naturale; e in questo
senso si parla di pugili, di corridori, di sani, di malati, ecc. (Car., 8, 9 a
14). Questa è la Q. che gli Scolastici chiamarono Q. attiva (cfr., ad es., S.
Tommaso, .S. 7h., III, q. 49, a. 2). 3. Il terzo genere di Q. è costituito
dalle affe- zioni e dalle loro conseguenze: queste sono le Q. sensibili vere e
proprie (colori, suoni, sapori, ecc.) (Cat., 8, 9a 27; cfr. Met., V, 14, 1020a
8). Gli Scolastici chiamarono queste specie di Q. qualità passive (cfr. S.
ToMmMaso, loc. cit.). 4. La quarta specie di Q. è costituita dalle forme o
determinazioni geometriche, per es., dalla figura (quadrato, circolare, ecc.) o
dalla forma (rettilinea, curvilinea) (Car., 8, 10a 10). Poco o nulla è stato
aggiunto, nel corso ulteriore della storia della filosofia a queste notazioni e
distinzioni aristoteliche a proposito della qualità. Se si vuole eliminare da
esse ciò che è dovuto alla loro più stretta connessione con la metafisica
aristo- telica, si può ottenere un’ulteriore semplificazione e ridurre a tre i
quattro gruppi precedenti caratte- rizzandoli nel modo seguente: a)
determinazioni disposizionali che compren- dono disposizioni, abiti, abitudini,
capacità, facoltà, virtù, tendenze, o come altro si vogliano chiamare le determinazioni
costituite da possibilità dell'oggetto; b) determinazioni sensibili cioè le
determina- zioni semplici o complesse che sono fornite da strumenti organici:
colori, suoni, sapori, ecc.; c) determinazioni misurabili cioè le determina- zioni
che si prestano ad essere sottoposte a metodi oggettivi di misura: numero,
estensione, figura, movimento, ecc. Con questa modifica la partizione
aristotelica cor- risponde esattamente a quella di Locke: difatti le Q. A sono
quelle che Locke incluse sotto la terza specie di Q., cioè tra quelle « che
tutti sono concordi a considerare soltanto come mere capacità che i corpi hanno
di produrre certi effetti, sebbene si tratti di Q. altrettanto reali
nell’oggetto quanto quelle che, per adattarmi al modo comune di parlare ho chiamate
Q., pur distinguendole dalle altre con il nome di Q. secondarie » (Saggio, II,
8, 10). Dal- l’altro lato le Q. B e C corrispondono a quelle che Locke chiamava
rispettivamente qualità primarie e secondarie (v. oltre). Così rettificata, la
distinzione tra le varie specie di Q. copre l’intero campo delle discussioni e
dei problemi cui essa ha dato luogo nella tradizione filosofica. QUALITÀ a) La
nozione di determinazione disposizionale è quella cui fa riferimento non
soltanto la nozione di Q. occulta, ma anche quelle di forza che la sop- piantò
agli inizi della scienza moderna. Diceva Newton: «Gli aristotelici dettero il
nome di Q. occulta, non a qualità manifeste ma a Q. che essi supposero al di là
dei corpi, come cause sconosciute di effetti manifesti: come sarebbero le cause
della gravità o dell'attrazione magnetica ed elettrica o delle fermentazioni,
se supponessimo che si trattasse di forze o azioni derivanti da Q. a noi
sconosciute e incapaci di essere scoperte e rese manifeste. Tali Q. occulte
impediscono il progresso della filosofia naturale, perciò sono state
abbandonate in questi ultimi anni» (Opricks, 1704, III, 1, 31). Nello stesso spirito,
Wolff definiva come Q. occulta quella « che è priva di ragion sufficiente» ed
aggiungeva: « Una Q. occulta è, per es., la gravità se viene concepita come una
forza primitiva o come una forza im- pressa alla materia da Dio, della quale
non si possa dare a priori nessuna ragione naturale. Tale è anche la forza
motrice se si assume come una forza primi- tiva impressa da Dio alla materia al
momento della creazione. Certamente Aristotele e i suoi seguaci, che ammisero
le Q. occulte, usarono questo termine in questo stesso significato » (Cosm., $
189). La notazione di Wolff è più chiara di quella di Newton: una forza è una
Q. occulta se di essa non si dà una ragione sufficiente naturale, non lo è se
si dà una tale ragione. Ma da questo appare anche che sia la nozione di Q.
occulta sia quella di forza sono riconducibili alla stessa nozione di Q., cioè
alla Q. come disposizione. Lo stesso significato di Q. è presente nel concetto di
qualificazione. « Qualificarsi per + o « essere quali- ficato per» significa
possedere la capacità o la competenza, cioè la qualità disposizionale, per
effet- tuare un dato compito o raggiungere un dato scopo. Talvolta tuttavia il
termine + qualificato » significa soltanto « limitato » o « caratterizzato da
date condi- zioni +, come avviene nel linguaggio giuridico. b, c) Le Q. nel
senso 2 e quelle nel senso C sono le Q. tradizionalmente distinte come primarie
e secondarie. I termini « primario » e « secondario » rimontano a Boyle; ma la
distinzione è assai antica e rimonta a Democrito (Fr. 5, Diels). Dopo molti
secoli essa fu ripresa da Galilei (cfr. Opere, ed. naz., VI, pag. 347 sgg.), da
Hobbes (De Corp.,
25, 3), da Cartesio (Princ. Phil., I, S7;
Med., VI) e da Locke (Saggio, II, 8, 9), che la diffuse nella filosofia
europea. La base della distinzione è la possibilità di quantificazione che le
Q. nel senso C hanno rispetto a quelle nel senso 8: per questa possibilità esse
si sottraggono alle valutazioni indi- viduali e appaiono come indipendenti dal
soggetto € pienamente « oggettive + o « reali». In seguito la QUANTITÀ distinzione
fu combattuta (per es., da Berkeley) soprattutto allo scopo di mostrare che
neppure le Q. primarie sono oggettive ma che tutte sono ugualmente soggettive
cioè consistono in «idee» (Principles of Human Knowledge, I, $ 87). Secondo Husserl
il significato della distinzione sarebbe il seguente: «La cosa sperimentata
fornisce il sem- plice hoc, un vuoto x, che diventa portatore delle determinazioni
matematiche e delle formule ine- renti e che esiste non già nello spazio
percettivo ma in uno spazio oggettivo di cui il primo è solo un indizio, cioè
in una varietà euclidea tridimen- sionale di cui è possibile una
rappresentazione solo simbolica» (/deen, I, $ 40). In questo senso le Q.
oggettive delineerebbero la natura di un og- getto trascendente rispetto alla
percezione sensibile e al quale la percezione sensibile accennerebbe come a un
di là. QUALITÀ DELLE PROPOSIZIONI (la- tino Qualitas propositionum; ingl. Quality
of Proposi- tions; franc. Qualité des
propositions; ted. Qualitàt des
Urteils). Fu probabilmente il neoplatonico Appuleo, contemporaneo di Galeno, ad
adoperare per primo le parole Q. e quantità per indicare rispettivamente la
distinzione delle proposizioni in affermative e negative e quella in universale
e particolare (De Int., pag. 266; cfr. PRANTL, Ge- schichte der Logik, I, pag.
581). Kant aggiunse ai due tradizionali giudizi di Q. il giudizio infinito (v.
INFINITO, GIUDIZIO). QUANTA, FISICA DEI. V. COMPLEMENTA- RITÀ; CONDIZIONE;
DETERMINISMO; FIsicA; INDE- TERMINAZIONE. QUANTIFICATORE. V. OPERATORE. QUANTIFICAZIONE
(ingl. Quantification; franc. Quantification; ted. Quantifikation). In Logica si
designa con « Q. » l’operazione mediante la quale, usando appositi simboli
detti quantificatori, si determina l’ambito o estensione di un termine della proposizione.
Nella Logica di Aristotele, e in tutta la Logica classica derivatane, si
conosceva solo la Q. del soggetto della proposizione: in Aristotele mediante
gli operatori «tutto » e «in parte» (s[il predicato] B appartiene a furto [il
soggetto] A»; « B appartiene in parte ad A +); nella Logica medie- vale o
moderna mediante gli operatori «omnis? e «aliquis» («omnis A est B»; «aliquis A
est B3). La proposizione quantificata con «tutto » era detta universale; quella
quantificata con «in partes (s qualche ») era detta particolare; quella non
quanti- ficata era detta indefinita. Nel sec. xx l’esigenza di assoggettare la
tradizionale sillogistica ad una specie di calcolo matematico indusse alcuni
logici inglesi (Bentham, 1827; Hamilton, 1833) a quantifi- care anche il
predicato, interpretando, per es., la proposizione universale affermativa
«tutti gli 719 A sono B» come «tutti gli A sono alcuni B». In tal modo però la
proposizione veniva unilateral- mente interpretata come una relazione di
inclusione o esclusione, parziale o totale, tra classi. La Logica contemporanea
ha ripreso ma integrato quella concezione. In essa però i quantificatori, che
ora sono il quantificatore universale [nella notazione russelliana, «(x).» =
«tutti»] e il quantificatore esistenziale [c. s., «(Hx).» = «esiste almeno un x
tale che... »]), di nuovo si riferiscono soltanto agli argomenti o variabili di
una funzione proposizionale, trasformando queste in variabili apparenti e le funzioni
in vere e proprie proposizioni (universali o particolari): per es., «x è
mortale» è una funzione; « (x). ‘x è mortale ’ » (= « tutti gli x sono La 1) è
una proposizione universale. QUANTIFICAZIONE DEL PREDICATO (ingl.
Quantification of Predicate). W. Hamilton fece prevalere, in polemica con la
logica tradizionale, il principio della Q. del predicato, asserendo: 1° che il
predicato è così estensivo come il soggetto; 2° che il linguaggio ordinario
quantifica ogni volta che occorra il predicato o direttamente mediante l’uso
dei quantificatori (ad es., « Pietro Giovanni Giacomo, ecc., sono tuffi gli
apostoli ») o indiretta- mente attraverso la limitazione e l’eccezione, come quando
si dice « La virtù è la sola nobiltà » oppure « Sulla terra 3% vi è niente di
grande se non l’uomo » (Lectures on Logic, Il, pag. 257 sgg.). QUANTITÀ (gr.
moody; lat. Quantitas; inglese Quantity; franc. Quantité; ted. Quantitàt). In
gene- rale, la possibilità della misura. È questo il concetto che di essa
ebbero Platone e Aristotele. Platone affermò che la Q. sta tra l’illimitato e
l’unità e che solo essa è l’oggetto del sapere; per es., è esperto di suoni non
chi ammette che i suoni sono infiniti nè chi cerca di ridurli ad un unico
suono, ma chi conosce la Q., cioè il numero di essi (Fil., 17a, 18 b).
Aristotele a sua volta definì la Q. come ciò che è divisibile in parti
determinate o determina- bili. Una Q. numerabile è una pluralità, che è divisi-
bile in parti discrete. Una Q. misurabile è una gran- dezza che è divisibile in
parti continue in una o due o tre dimensioni. Una pluralità finita è un numero,
una lunghezza finita una linea, un’estensione finita un piano e una profondità
finita un corpo (Met., V, 13, 1027a 7). Queste notazioni aristoteliche furono
ripetute nella scolastica ed entrarono anche a far parte delle nozioni
comunemente accettate ai princìpi dell’Età Moderna. Che la matematica potesse
defi- nirsi, come l’aveva definita Aristotele, « la scienza della Q. + non
parve cosa dubbia finchè gli sviluppi della matematica stessa non fecero
apparire troppo ristretta ed impropria questa definizione (v. MATE- MATicA).
Tenendo appunto l’occhio alle matematiche 720 Wolff, nel sec. xvi, definiva la
Q. come «ciò per cui le cose simili, rimanendo salva la loro somiglianza, possono
differire intrinsecamente » (Cosm., $ 348): una definizione che si potrebbe
agevolmente capo- volgere dicendo che la Q. è ciò per cui le cose dissimili,
rimanendo salva la loro dissimiglianza, possono essere simili. Ma in questa
forma che sa- rebbe più rispondente ai concetti matematici mo- derni, si
definirebbe non la Q. ma la grandezza (v.). Nella matematica infatti il termine
Q. è divenuto sinonimo di quello di grandezza, che è specifico di un certo
campo di indagine e che dipende dalla scelta opportuna dell’unità di misura.
Pertanto la Q. come categoria o concetto generalissimo cade oggi fuori
dell'ambito delle scienze e tutt'al più si può dire che essa costituisca il
tratto generalissimo in cui coincidono gli oggetti disparati delle scienze
positive: cioè la loro possibilità di esser sottoposti a misura. La tendenza
generale del pensiero scientifico a ridurre la qualità a Q. fu interpretata in
modo singolare da Hegel, che parlò di una « linea nodale dei rapporti di
misura». Il mutamento graduale della Q. porterebbe a un certo punto (« punto »
o «linea nodale +) a un mutamento della qualità; e il mutamento graduale di
questa nuova qualità porterebbe ad un altro punto nodale, e così via. Hegel
osservava che dal lato qualitativo, il passaggio a una nuova qualità «è un
salto: le due qualità sono poste completamente estrinseche l’una al- l’altra ».
E che perciò la gradualità del mutamento quantitativo non lascia comprendere il
divenire (Wissenschaft der Logik, I, sez. 3*, cap. 2, B; tradu- zione ital., I,
pag. 446-47). Con questo egli negava che il passaggio dalla Q. alla qualità o
viceversa servisse a qualcosa. Questo tuttavia non impedì a F. Engels di
considerare come legge fondamentale della dialettica «la conversione della Q.
in qualità » e di vedere in Hegel lo scopritore di questa legge (Dialektik der
Natur, trad. ital., pag. 57 sgg.) (v. Dia- LETTICA; NODALE, LINFA; SALTO). QUANTITÀ
DELLE PROPOSIZIONI. Fu il neoplatonico Appuleo (v. QUALITÀ DELLE PRO- POSIZIONI)
a chiamare per primo Q. la divisione delle proposizioni in universali e
particolari, indi- viduali e indefinite (ARIST., De Int., 7; An. Pr., I, 1).
Kant ridusse a tre le classi dei giudizi secondo la Q. e precisamente alle
proposizioni universali particolari e individuali (Crit. R. Pura, 89). Hamilton
parlò pure della Q. dei concetti, distinguendo la Q. intensiva, che è
l’intensione o comprensione dalla Q. estensiva che è l’estensione o denotazione
(Lectures on Logic, I, pag. 140 sgg.). QUANTOFRENIA (ingl. Quantophrenia; fran-
cese Quantophrènie). Così P. Sorokin ha chiamato la «mania della
quantificazione a tutti i costi » nel campo delle scienze psicologiche e
sociali (Fads and QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI Foibles in Modern Sociology and
Related Sciences, 1956, cap. VII-VIII). QUATERNIO TERMINORUM. Espres- sione
usata a indicare il tipo più comune di fallacia logica cioè la duplicità di
significato di uno dei ter- mini impiegati nel ragionamento: come nell’esempio tratto
da Seneca « Mus (il topo) è una sillaba; il topo rosicchia il formaggio; dunque
la sillaba ro- sicchia il formaggio » (Ep., 48) (v. EQUIVOCAZIONE). QUIDDITÀ
(lat. Quidditas; ingl. Quiddity; franc. Quiddité; ted. Quidditàt). Termine
introdotto dalle traduzioni latine (dall’arabo) delle opere di Aristotele del
sec. x1 come corrispondente della espressione aristotelica +6 71 fiv elvar
(quod quid erat esse). Il termine significa essenza necessaria (0 sostanziale)
o sostanza (v. ESSENZA; SOSTANZA).
QUIETISMO (ingl. Quietism; franc.
Quiétisme; ted. Quietismus). La credenza che lo stato di grazia o di unione con
Dio si può ottenere con l’abban- dono totale della propria volontà alla volontà
di Dio, al di fuori di ogni rito o pratica religiosa. I Q. è proprio di molti
indirizzi religiosi, ma il termine fu coniato a proposito della forma che esso assunse
nel seno del cattolicesimo per opera di Michele Molinos (1627-1696) le cui tesi
furono condannate dal Papa Innocenzo XI nel 1687. QUIETIVO (ingl. Quietive;
franc. Quiétif; ted. Quietiv.. Così Schopenhauer chiamò, per analogia ed
antitesi con motivo, la conoscenza filosofica in quanto porta alla negazione
della Volontà di vivere cioè all’ascetismo: quella nega- zione infatti « subentra
dopo che la compiuta cono- scenza del proprio essere è diventata Q. d'ogni
volere» (Die Welt, I, $ 68). Un Q. in questo senso è anche l’arte come
contemplazione disin- teressata delle idee platoniche (/bid., I, $ 70). QUINQUE
VOCES. Sono i cinque concetti generalissimi, o cinque tipi di predicato
universale (perciò dette anche « predicabili +) della Logica classica: genere,
specie, differenza, proprio e acci- dente. La loro distinzione e relativa
problematica ha il suo nocciolo nei Topici di Aristotele: ma la trattazione
formale ed esplicita di esse come cate- gorie fondamentali di tutta la scienza
della Logica
si trova nella Zsagoge di Porfirio. È
soprattutto dalla versione e commenti boeziani di quest'opera che esse
passarono nella Logica medievale. G.P. QUINTA ESSENZA (lat. Quinta essentia; ingl.
Quintessence; franc. Quintessence; ted. Quin- tessenz). 1. L’etere cioè la
sostanza che secondo Aristotele, compone i cieli, in quanto diversa dai quattro
elementi che compongono i corpi sublunari (v. ETERE). 2. L’estratto corporeo di
una cosa ottenuto mediante l’analisi alchimistica della cosa stessa con la
separazione dell'elemento dominante dagli QUOTIDIANITÀ altri elementi che sono
mescolati in essa. Secondo Paracelso, nella Q. essenza sono riposti gli arcani cioè
le forze operanti di un minerale, di una pietra preziosa, di una pianta; e di
esse si serve perciò la medicina per operare le guarigioni (De Mysteriis naturalibus,
I, 4). In questo senso si adopera anche oggi il termine per indicare il
principio attivo di una cosa o la sua parte più pura. QUODLIBETA. V. QuAESTIO. 46
— ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 721 QUOTIDIANITÀ (ted. Alltaglichkeit).
Ter- mine introdotto da Heidegger per indicare «il modo d'essere in cui
l’esserci (cioè l’uomo) si man- tiene innanzi tutto e per lo più». Tale modo
d’es- serci è il punto di partenza dell’interpretazione ontologica: il che vuol
dire che tale interpretazione fa riferimento alle situazioni in cui l’uomo
viene più frequentemente a trovarsi nelle comuni faccende della vita (Sein und
Zeit, $ 9) (cfr. MEDIETÀ). R RADICALISMO (ingl. Radicalism; franc. Ra- dicalisme;
ted. Radikalismus). 1. Il positivismo sociale che si sviluppò in Inghilterra
tra la fine del sec. xvi e la prima metà del sec. xIx e che ebbe tra i suoi
rappresentanti filosofici Geremia Bentham (1748-1832), Giacomo Mill (1773-1836)
e Giovanni Stuart Mill (1806-1873). Questo indirizzo si avvalse del positivismo
filosofico, dell’utilitarismo morale e delle dottrine economiche di Malthus e
Ricardo per sostenere riforme « radicali » nell’ordinamento dello stato e nel
sistema di distribuzione delle ric- chezze (v. LIBERALISMO). 2. Più
genericamente, il termine viene oggi usato a designare qualsiasi tendenza
filosofica o politica che proponga un rinnovamento radicale dei sistemi vigenti
cioè un mutamento nei princìpi su cui poggiano i sistemi delle credenze o delle
istituzioni tradizionali. RADICE (gr. pi&wpa; ingl. Roof; franc. Racine; ted.
Wurzel). Termine col quale frequentemente si è
indicato, nel linguaggio filosofico, un principio primo o un elemento ultimo.
Empedocle chiamò R. i quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) di cui le
cose sono composte (Fr., 6, Diels); e spesso d'allora in poi i filosofi si sono
serviti dello stesso termine per indicare elementi o princìpi. Scho- penhauer,
per es., intitolò una delle sue disserta- zioni La quadruplice R. del principio
di ragion sufficiente (1813). Di qui l’aggettivo radicale passato a indicare
ciò che concerne un principio o costituisce un principio. « Male radicale»
chiamò Kant la tendenza dell’uomo al male che è inerente alla sua stessa
struttura morale (cfr. Religion, cap. I). E radicale si chiama oggi un’analisi
che rimonta ai princìpi, o alle prime origini. Husserl, per es., insisteva
sulla radicalità della filosofia in quanto scienza dei veri princìpi e delle
prime origini, «La scienza di ciò che è radicale, dev'essere radi- cale anche
nel suo metodo e sotto ogni riguardo » (Phil. als strenge Wissenschaft, 1911;
trad. ital., pag. 83). RAGIONAMENTO (gr. 2oyioués; lat. Ratioci- natio; ingl.
Reasoning; franc. Raisonnement; tedesco Vernunftschluss).
Qualsiasi procedimento di infe- renza o di prova; perciò qualsiasi argomento,
conclu- sione, inferenza, induzione, deduzione, analogia, ecc. Diceva Stuart
Mill: « Inferire una proposizione da una o più proposizioni precedenti; credere
o pre- tendere che si creda ad essa come conclusione da qualcosa d’altro,
significa ragionare nel più esteso senso del termine» (Logic, II, I, 1). Stuart
Mill escludeva dall’ambito del R. soltanto «i casi nei quali la progressione di
una verità all’altra è solo apparente perchè il conseguente è una mera ripeti-
zione dell’antecedente » (/bid., II, 1, 3): e identificava ragionamento e
inferenza. Ma questa restrizione è venuta meno nell'uso corrente del termine,
che oggi comprende anche le inferenze tautologiche che si ritengono proprie
della matematica e della logica (cfr. P. F. StraWSON, /ntr. to Logical Theory, 1952,
pag. 12 sgg.). Pertanto la illustrazione dei significati del termine si può
trovare sotto le singole voci che costituiscono l’estensione del termine in
questione e specialmente sotto le seguenti: dedu- zione, induzione, prova,
dimostrazione, inferenza, sillogismo, argomento, analogia. Tuttavia la
classificazione fondamentale dei R. è quella che la divide in R. deduttivi e R.
indut- tivi. Questa distinzione, già stabilita da Aristotele (An. Pr., II, 23,
68 b 13) viene solitamente conser- vata anche oggi, talvolta con nomi appena
mutati. Peirce, ad es., parlava di R. esplicativi analitici o RAGIONEdeduttivi
da un lato; e dall’altro di R. amplificativi, sintetici o induttivi (Chance
Love and Logic, I, 4, 3; trad. ital., pag. 67): che sono appunto i nomi che più
frequentemente ricorrono per indicare le due specie fondamentali del
ragionamento. RAGIONAMENTO APAGOGICO. V. Apa- GOGICO. RAGIONAMENTO PER
ANALOGIA. V. ANALOGIA. RAGION DI STATO. Giovanni Botero che introdusse
l’espressione come titolo di un suo libro (Della R. di Stato, 1589) intese per
essa « la notizia dei mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare uno Stato »
cioè « un dominio fermo sopra i po- poli ». Ma in realtà l’espressione è
passata a indi- care il principio del machiavellismo volgare; e ciò ad opera
dello stesso Botero che, pur polemizzando contro Machiavelli, faceva suo il
principio del fine che giustifica i mezzi in materia politica (v. MAcHIA- VELLISMO).
RAGIONE (gr. 26y06; lat. Ratio; ingl.
Reason; franc. Raison; ted. Vernunft).
Il termine ha i seguenti significati fondamentali: 1° Guida autonoma dell’uomo
in tutti i campi nei quali un’indagine o una ricerca è possibile. In questo
senso si dice che la R. è una « facoltà » propria dell’uomo e che distingue
l’uomo dagli altri animali. 2° Fondamento o R. d’essere. Poichè la R. d’essere
di una cosa è la sua essenza necessaria o sostanza, espressa nella definizione,
si assume tal- volta per «R.» la sostanza stessa o la sua definizione. Questo è
un significato frequente nella filosofia aristotelica o che si ispira a quella
aristotelica. Per esso v. i termini ESSENZA ; FONDAMENTO; FORMA; SOSTANZA. 3°
Argomento o prova. In questo senso si dice « Ha avanzato le sue R. + o «
Bisogna sentire le R. dell’avversario ». A questo significato si riferisce pure
l’espressione « Aver R.+: che significa avere argomenti o prove sufficienti,
quindi esser nel vero. Per questo significato v. ARGOMENTO; PROVA. 4° Rapporto
in senso matematico. In questo senso si parla anche oggi di «R. diretta» o «R. inversa
» (in italiano e in francese) mentre il termine latino ratio è adoperato in
questo senso in inglese. Per questo significato v. RELAZIONE. Nel significato
di guida della condotta umana nel mondo, la R. può essere intesa in due
significati subordinati e cioè: 4) come facoltà generale di guida; 8) come
procedimento specifico di cono- scenza. A) Questo è il senso fondamentale, dal
quale la parola desume quella potenza di significato che ha fatto di essa, da
secoli, l'emblema della ricerca libera. La R. è la forza che libera dai
pregiudizi, 723 dal mito, dalle opinioni radicate ma false, dalle appa- renze e
consente di stabilire un criterio universale o comune per la condotta dell’uomo
in tutti i campi. Dall’altro lato, come guida propriamente umana, la R. è la
forza che consente all’uomo di liberarsi dagli appetiti che ha in comune con
gli animali, sottoponendoli a controllo e mantenendoli nella giusta misura.
Questa è la duplice funzione che è stata attribuita alla R. sin dai primordi
della filosofia occidentale. La polemica di Eraclito e Parmenide contro le
opinioni dei più, cioè contro le credenze stabilite, discordi tra loro e
fallaci, è condotta in nome di una R. che sia l’unico criterio di guida per tutti
gli uomini. Dice Eraclito: « Bisogna che si segua ciò che è universale, cioè
comune a tutti; e solo la R. è comune; ma i più vivono come se ciascuno avesse
una sua mente privata» (F7., 2, Diels). E Parmenide: « Allontana il tuo
pensiero da questa via di ricerca e non ti spinga su di essa l’abitudine di
lasciarti guidare da un occhio che non vede, da un orecchio che rimbomba e
dalla parola: giudica invece con la R.» (Fr., 1, 33-37, Diels). Platone e
Aristotele dall’altro lato oppongono la R. sia alla sensibilità in quanto fonte
delle comuni credenze (PLATONE, Fed., 83 a; ARISTOTELE, Mef., I, 1, 980b 26),
sia agli appetiti che l’uomo ha in co- mune con gli animali (PLATONE, Tim., 70
a; ARI- STOTELE, Er. Nic., I, 13, 1102 b 15). Nell’un caso e nell’altro, la
ragione ha nello stesso tempo una fun- zione negativa e positiva: negativa nei
confronti delle credenze infondate e degli appetiti animali; positiva nel senso
di dirigere le attività umane in modo uni- forme e costante. Ma furono
soprattutto gli Stoici che fecero prevalere la dottrina che la R. è l’unica
guida degli uomini. Essi infatti stabilivano una specie di divisione simmetrica
tra gli animali e gli uomini: agli animali è stato dato come guida l’istinto
che li porta a conservarsi e a cercare ciò che è vantaggioso; agli uomini è
stata data come più perfetta guida la R., sicchè per essi vivere secondo natura
significa vivere secondo R. (Dio. L., VII, 1, 85-86). Questi concetti
costituirono uno dei cardini della cultura classica. Cicerone diceva: « La R.,
per la quale sola ci differenziamo dai bruti, per mezzo della quale possiamo
congetturare, argomentare, ribattere, di- scutere, condurre a termine e
concludere, è certa- mente comune a tutti, differente per preparazione, ma
eguale quanto a facoltà di apprendere + (De Legibus, I, 10, 30). E Seneca
esaltava la R. per la sua immutabilità e universalità. «La R., diceva, è
immutabile e ferma nel suo giudizio perchè non è schiava ma signora dei sensi.
La R. è uguale alla R. come il giusto al giusto: dunque anche la virtù è uguale
alla virtù perchè la virtù non è altro che la retta R. » (Ep., 66). Da questo
punto di vista anche la metafisica stoica della R. per cui essa è, come 724 dice
lo stesso Seneca (/bid.), «una parte dello spirito divino infusa nel corpo
dell’uomo? non toglie l’autonomia di essa ma la esalta e conferma. A questi
concetti s’ispirava senza dubbio S. Ago- stino in quell’elogio della ragione
che forma gli ultimi capitoli del De Ordine: «La R., egli dice, è quel moto
della mente che può distinguere e colle- gare tutto ciò che si apprende » (De
Ord., II, 11, 30). Essa è la forza creatrice del mondo umano: ha inventato il
linguaggio, la scrittura, il calcolo, le arti, le scienze, ed è quanto di
immortale c’è nell'uomo (/bid., II, 19, 50). L’entusiasmo di S. Agostino per la
ragione si spiega facilmente: per S. Agostino la vita è ricerca e la R. è il
principio che istituisce e dirige la ricerca e la rende feconda. Il
neoplatonismo aveva tuttavia già subordinato la R. all’intelletto, ritenuto
superiore alla R. perchè dotato di quel carattere intuitivo o immediato che fa
di esso la diretta visione del vero. Secondo Plo- tino la R. emana
dall’intelletto « in quanto questo è presente in tutte le cose che sono »
(Enn., III, 2, 2). Essa è in altri termini la funzione formatrice e plasmatrice
dell’intelletto; e per disporre tutte le cose del mondo (buone e cattive) nel
loro ordine proprio, deve adattarsi alla materia (/bid., III, 2, 11-12). In
questo senso la R. è la tecnica della creazione e del governo del mondo:
giacchè fa sì che gli esseri creati non si distruggano a vicenda ma si accordino
e si combinino tra loro nel modo mi- gliore. «La R., dice Plotino, fa sì che
ciascun essere patisca o agisca, non a caso o disordinatamente, ma secondo
necessità » (/bid., II, 3, 16). Questo concetto della superiorità
dell’intelletto viene ereditato dalla scolastica medievale. R. e intelletto
vengono iden- tificate nel significato generale di guida (cfr., ad es., S.
ToMMAsO, S. Th., I, q. 29, a. 3, ad 49; q. 79, a. 8). Ma la R. viene poi
subordinata all’intelletto per il suo carattere discorsivo che appare inferiore
al carattere intuitivo di esso (v. oltre). Più tardi, lo stesso Bacone
considerava la R. come una parti- colare attività dell’intelletto (assieme alla
memoria e alla fantasia) e precisamente quella il cui compito consiste nel
dividere e comporre le nozioni astratte «secondo la legge della natura e
l'evidenza delle cose stesse » (De Aupm. Scient., II, 1). Sicchè solo con
Cartesio la R. ritorna ad essere la guida fonda- mentale dell’uomo. Identificando
la R. con il buon senso, Cartesio ripristina il concetto classico della R. e su
tale concetto imposta il problema nuovo del metodo. «La capacità di ben
giudicare e di distinguere il vero dal falso, che è propriamente ciò che si
chiama il buon senso o la R., è naturalmente uguale in tutti gli uomini; perciò
la disparità delle nostre opinioni non viene da ciò che le une sono più ragionevoli
delle altre ma solamente da ciò, che RAGIONE conduciamo i nostri pensieri per
diverse vie e non consideriamo le stesse cose. Non è sufficiente aver lo
spirito sano ma la cosa principale è applicarlo bene » (Discours, I). Queste
parole famose hanno reintrodotto nel mondo moderno il concetto antico (e
specialmente stoico) della R. come guida comune del genere umano. Sicchè
Spinoza poteva meravi- gliarsi che si volesse talvolta «sottomettere la R., massimo
dono di Dio e luce veramente divina, alle parole + e che non si stimasse un
delitto « par- lare indegnamente della R. che è la vera testi- monianza del
Verbo di Dio e dichiararla corrotta, cieca ed impura» (Traci.
theologico-politicus, cap. 15). Leibniz a sua volta insisteva sulla vecchia
tesi che la R. appartiene all'uomo e all’uomo soltanto (Nouv. Ess., IV, 17, 2).
E Locke riconosceva alla R. una determinazione fondamentale che costituisce la
sola autentica innovazione che il concetto moderno di essa presenta nei
confronti del concetto classico: l’essere cioè essa strumento della conoscenza
pro- babile oltre che della certa. « Come la R., diceva Locke, percepisce la
connessione necessaria e indubitabile che tutte le idee o prove hanno l’una con
l’altra, in ciascun grado di una qualunque dimostrazione che produca
conoscenza, così analo- gamente essa percepisce la connessione probabile che
unisce tra loro le idee o prove in ciascun grado di una dimostrazione cui
giudichi sia dovuto l’assenso + (Saggio, IV, 17, 2). Con questa determi- nazione,
la R. era qualificata per la funzione che l’illuminismo settecentesco le
affidava di valere come principio di critica radicale della tradizione e di un
rinnovamento altrettanto radicale del mondo umano. Kant cercava di realizzare
piena- mente l’ideale illuministico della ragione. Da un lato identificava la
R. con la stessa libertà di critica (« Sulla libertà di critica riposa
l’esistenza della R. che non ha autorità dittatoriale ma la cui sentenza è
sempre nient’altro che l’accordo di liberi cittadini ciascuno dei quali deve
poter formulare i suoi dubbi e persino il suo veto senza impedimenti +); dall’altro
intendeva portare la R. stessa davanti al suo proprio tribunale e istituire
quella « critica della R. pura + che « non s’immischia nelle contro- versie che
si riferiscono immediatamente agli oggetti ma è istituita per determinare e
giudicare i diritti della R. in generale» (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del
metodo, cap. I, sez. II). È in accordo con il concetto illuministico della R.
la definizione di Whitehead: «la funzione della R. è il promuovere l’arte della
vita »: nel senso che la R. avrebbe il compito di agire sull'ambiente per
promuovere forme di vita più soddisfacenti e perfette (The Function of Reason,
1929, cap. I; trad. ital., Cafaro, pag. 6 sgg.). Mentre quella che a prima
vista sembra la massima garanzia offerta all’efficacia della R. RAGIONE cioè il
credere che essa abiti la realtà e la domini, sicchè non ci sia realtà che non
sia razionale nè razionalità che non sia reale, costituisce piuttosto l'abbandono
della funzione direttiva della ragione. Hegel, che ha affermato nel modo più
rigoroso questo punto di vista, ha anche negato la funzione direttiva della R.:
« Ciò che sta tra la R. come spirito autocosciente e la R. come realtà
presente, ciò che differenzia quella R. da questa e non lascia trovare
l’appagamento in questa, è l’impaccio di qualche astrazione che non si è
liberata e non si è fatta concetto. Riconoscere la R. nel presente, quindi
godere di esso, questo riconoscimento razio- nale è la riconciliazione con la
realtà, che la filosofia consente a quelli i quali hanno avvertito l’interna esigenza
di comprendere » (Fi/. del dir., Pref.; tradu- zione ital., Messineo, pag. 17).
Ciò significa che la R. non dirige ma giunge post factum a comprendere la
realtà, cioè a giustificarla. B) Il riconoscimento della R. come guida costante,
uniforme e (talvolta) infallibile di tutti gli uomini in tutti i campi della
loro attività è accompagnato il più delle volte dalla determinazione di un
procedimento specifico nel quale si riconosce l'operazione propria della
ragione. Si possono ridurre ai seguenti concetti fondamentali le deter- minazioni
che sono state date o si dànno della tec- nica specifica della ragione: a) il
discorso; 5) l’auto- coscienza; c) l’autorivelazione; d) la tautologia. a) Il
procedimento discorsivo è la tecnica che più frequentemente è stata ritenuta
propria della ragione. Al procedimento discorsivo fa appello Platone per
segnare la differenza tra l’opinione vera e la scienza: le opinioni vere
possono dirigere
l'azione egualmente bene che la scienza,
ma tendono a sfuggire da ogni parte, come le statue di Dedalo, finchè «non
siano legate con un ragionamento causale » (Men., 98 a). Questa legatura o
connessione è la tecnica discorsiva. Tecnica discorsiva è l’intero procedimento
sillogistico di Aristotele, al di fuori della determinazione dei primi princìpi
che sono intuiti dall’intelletto; discorsiva è sia la sillogistica necessitante
sia quella dialettica (An. Posr., I, 33, 89 b 7; Er. Nic., VI, 11, 1143b 1).
Nello stesso senso gli Stoici definivano la R. come « un sistema di premesse e
di conclusioni» (Diog. L., VII, 1, 45). L’ufficio frequentemente attribuito
alla ragione di distinguere, collegare, paragonare, ecc. [cfr. i passi di
Cicerone e S. Agostino riportati in A)] non è che l’espressione dello stesso
procedimento. S. Tom- maso diceva: « Gli womini giungono a conoscere la verità
intelligibile procedendo da una cosa all'altra, perciò si chiamano ragionevoli.
È evidente che il ragionare sta all’intendere nello stesso rapporto in cui il
muovere sta allo star fermi o l’acquisire all’avere: delle quali cose, la prima
è propria di 725 ciò che è imperfetto, la seconda di ciò che è per- fetto » (S.
7A., I, q.79, a. 8). Ai princìpi dell’Età Moderna Cartesio prendeva a modello
lo stesso procedimento per determinare le sue regole del metodo: «Quelle lunghe
catene di ragioni, tutte semplici e facili, di cui i geometri hanno l’abitudine
di servirsi per giungere alle loro più difficili dimo- strazioni m’avevano dato
occasione di immaginare che tutte le cose che possono venire a conoscenza degli
uomini si connettono nello stesso modo » (Discours, II. La Logica di Portoreale
esprimeva diversamente gli stessi concetti (ARNAULD, Lop., III, 1), che anche
Locke poneva a base della sua dottrina della ragione: « Nella R. possiamo
consi- derare questi quattro gradi: il primo e più alto consiste nel trovare e
scoprire la verità; il secondo nel disporle in modo regolare e metodico e
siste- marle in un ordine chiaro e adatto, in modo che siano percepite con
evidenza e facilità la loro forza e le loro connessioni reciproche; il rerzo
consiste nel percepire tali connessioni; il quarto nel trarre una giusta
conclusione » (Saggio, IV, 17, 3). La di- stinzione che Spinoza stabiliva tra
il secondo genere di conoscenza, che egli appunto chiamava R., e il terzo
genere che chiamava scienza intuitiva è la distinzione tradizionale tra il
procedimento discor- sivo e l’intelletto intuitivo (Er., II, 40, schol. 2). E
Leibniz non faceva che trovare l’espressione più semplice per lo stesso
concetto della R. asserendo che la R. è «il concatenamento delle verità + (Op.,
ed. Erdmann, pag. 479, 393). Wolff chiamava «giudizio discorsivo» l’operazione
della R. in
quanto consiste nel collegamento delle
proposizioni (Log., $ 50-51). Il concetto della R. come discorso entra in crisi
con Kant. Kant, mentre riconosce il carattere discor- sivo a tutta l’attività
conoscitiva umana, ritenendo che solo Dio possiede la conoscenza intuitiva (v.
Di- scorsivo) distingue nettamente la R. dall’intelletto, nonostante il loro
comune carattere discorsivo. La R.è la facoltà «che produce da sè i concetti »
e perciò si può chiamare facoltà dei principi. Ma i concetti che la R. produce
non hanno alcuna base nell’espe- rienza perciò sono semplicemente fittizi. « Se
l’in- telletto può essere una facoltà dell’unità dei feno- meni mediante le
regole, la R. è la facoltà dell'unità delle regole dell’intelletto mediante i
princìpi. Essa perciò non si indirizza mai immediatamente all’espe- rienza o a
un oggetto qualsiasi ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze
molteplici di esso un’unità a priori per mezzo di concetti: unità che può dirsi
razionale ed è di tutt’altra specie di quella che può essere prodotta
dall’intelletto » (Crit. R. Pura, Dia- lettica trascendentale, Intr. II, a). La
R. procede, come l'intelletto, discorsivamente; ma considera i procedimenti
discorsivi dell’intelletto come compiuti 726 in idee di totalità e di unità
(l’anima, il mondo, Dio) che sono perfette ma inconfrontabili con l’espe- rienza,
quindi puramente fittizie e fonti solo di ragionamenti dialettici, cioè
sofistici (v. IDEA, ANTI- NOMIE). Il risultato di questa distinzione kantiana è
che il procedimento discorsivo valido è solamente quello dell'intelletto, i cui
concetti sono immedia- tamente derivati dall’esperienza; e che il proce- dimento
discorsivo razionale, con le sue pretese totalitarie, non dà luogo che a
nozioni fittizie. Dopo Kant pertanto diventa difficile mantenere la defi- nizione
della ragione come tecnica discorsiva. Il concetto della R. come discorso
consente la considerazione formale del procedimento razionale: cioè rende
possibile una /ogica, che è difatti la logica tradizionale così come è stata
elaborata dai filosofi a partire da Aristotele sino alla fine del sec. xx. La
logica intesa in questo senso è nello stesso tempo descrittiva e normativa:
descrittiva dei procedimenti propri della R., normativa nel senso che questa stessa
descrizione vale come regola per il retto uso della stessa ragione. In questo
senso la logica tra- dizionale era esattamente definita come «arte di ragionare
». b) Il concetto della R. come autocoscienza rimonta a Fichte. Esso è
caratterizzato dall’identi- ficazione di R. e realtà e presuppone il concetto della
R. come discorso. Come discorso, la R. è deduzione; e come deduzione ha un
unico prin- cipio che è l'Io. Dall’Io deriva, con necessità infal- libile,
l’intero sistema del sapere che è nello stesso tempo il sistema della realtà. «
Fonte di ogni realtà è l'Io. Solo per e con l’Io è dato il concetto della
realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere
sono una sola e medesima cosa » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, C; trad. ital.,
pag. 92). Le equazioni su cui questa dot- trina si fonda sono le seguenti: R. =
sapere dedut- tivo; sapere deduttivo = realtà; realtà + sapere = au- tocoscienza.
Schelling non faceva che esprimere queste equazioni asserendo: « La natura
attinge il suo più alto fine, che è quello di divenire interamente oggetto a se
stessa, con l’ultima e più alta riflessione che non è altro se non l’uomo o più
generalmente ciò che noi chiamiamo ragione. In tal modo per la prima volta si
ha il completo ritorno della natura a se stessa e appare evidente che la natura
è origi- nariamente identica a ciò che in noi si rivela come principio
intelligente e cosciente (System des trans- zendentalen Idealismus, 1800,
Intr., $ 1; trad. ital., pag. 9). Ed Hegel esprimeva lo stesso concetto nel modo
seguente: «L’autocoscienza, ossia la cer- tezza che le sue determinazioni sono
tanto ogget- tive — determinazioni dell’essenza delle cose — quanto suoi propri
pensieri, è la R.; la quale, in quanto è siffatta identità. è non solo la
sostanza RAGIONE assoluta, ma la verità come sapere» (Enc., $ 439). In altri
termini per Hegel la R. è l’identità dell’auto- coscienza come pensiero con
quelle sue manifesta- zioni o determinazioni che sono le cose o gli eventi; è
l’identità di pensiero e realtà. In forma epigrafica questo concetto veniva
espresso da Hegel nel modo seguente; «la R. è la certezza della coscienza di essere
ogni realtà: così l’idealismo esprime il con- cetto della R.» (Phdnomen. des
Geistes, I, V, l; trad. ital., pag. 209). Ovviamente, da questo punto di vista,
la R. non è discorsiva nel senso di conca- tenare tra loro espressioni
linguistiche ed effettuare la derivazione di una di esse dall’altra mediante regole
determinate o determinabili; ma è piuttosto la derivazione (pretesa) di tutte
le determinazioni del pensiero e della realtà l’una dall’altra in un unico
processo di cui si asserisce la perfetta « neces- sità ». Questo punto di vista
rende impossibile la considerazione formale delle procedure razionali che è
invece collegata con la concezione a della ragione. Come autocoscienza, la R.
non è mai formale: è sempre identica con la realtà: « L’intel- letto, dice
Hegel, determina e tien ferme le deter- minazioni. La R. è negativa e
dialettica perchè risolve in nulla le determinazioni dell’intelletto. Essa è
positiva perchè genera l’universale e in esso comprende il particolare»
(Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1* ediz.; trad. ital, pag. 5). « Com- prende
il particolare » significa che comprende le cose o determinazioni reali che non
sono altro, in ultima analisi, che le sue manifestazioni parti- colari. La
negazione della logica formale fa parte integrante di questo punto di vista,
perciò ritorna ogni volta che questo si presenta. Basti qui ricordare soltanto
il rifiuto di Croce della logica formale, fondata sullo stesso presupposto
hegeliano dell’iden- tità di R. e realtà, espresso nella forma dell’identità di
filosofia e storia: « La ricchezza della realtà, dei fatti, dell’esperienza che
parrebbe sottratta al con- cetto puro e quindi alla filosofia a cagione del dichiarato
distacco delle scienze empiriche, le viene invece ridata e riconosciuta; e non
più nella forma diminuita e impropria che è dell’empirismo sibbene in modo
totale o integrale. Il che si effettua mercè il congiungimento, che è unità, di
filosofia e storia » (Logica, 1920, pag. 392). c) Il concetto della R. come
autorivelazione o evidenza è stato stabilito da Husserl. Per Husserl la R. è lo
stesso manifestarsi fenomenologico degli oggetti (che possono essere cose Oo
essenze), sia che tale manifestarsi sia dotato del carattere neces- sario o
apodittico sia esso solo assertorio. Dice Husserl: « La visione per così dire
assertoria di una individualità, ad es., il percepire una cosa o uno stato di
fatto individuale si distingue nel suo carat- tere razionale dalla visione
apodittica della compren- sione di un'essenza o di un rapporto di essenze» (Ideen,
1, $ 137). Il termine più comprensivo cioè il concetto che comprende sia la
visione assertoria, che è data di fatto ma può essere diversa, sia la visione apodittica
che è necessaria, è la coscienza razionale che Husserl chiama pure, in
generale, evidenza (Ibid., $ 137). Da questo punto di vista il carattere fondamentale
della razionalità è la validità dell’atto di posizione: se l'oggetto è
veramente posto, l’atto è valido e la posizione ha carattere razionale (/bid., $
139). Ma ciò che dal punto di vista dell’atto noetico è la posizione
dell’oggetto, dal punto di vista oggettivo è il manifestarsi evidente dell’og- getto
stesso, il suo darsi o il suo rivelarsi (Ibid., $ 139). E poichè in ogni sfera
dell’essere il modo di autorivelarsi degli oggetti è diverso, ogni tipo di
realtà porta con sè «una nuova concreta dottrina della R.» (/bid., $ 152).
Questo concetto della R. come autorivelazione o autoevidenza è senz’altro accettato
da Heidegger: « Proprio perchè la fun- zione del /ogos è un puro lasciar vedere
qualcosa, un lasciar intuire l’ente, /ogos può significare R.» (Sein und Zeit,
$ 7, B). In forma più mitica lo stesso concetto è presentato da Jaspers: «La R.
non è affatto una vera e propria sorgente originaria ma, poichè è la
connessione di tutto, è simile a una sor- gente originaria nella quale vengono
alla luce tutte le sorgenti» (Vernunft und Existenz, 1935, II, 5; trad. ital,
pag. 50). La direzione verso cui la R. muove è un'infinita chiarezza; e ciò che
in essa cerca di chiarirsi è l’esistenza: « l’esistenza raggiunge la chiarezza
solo attraverso la R.: la R. ha un contenuto solo in virtù dell’esistenza »
(/bid., II, 6; pag. 53). È ovvio che anche da questo punto di vista una
considerazione formale del procedimento razio- nale è impossibile. La R. non è
mai formale perchè è sempre riempita dal contenuto che in essa si mani- festa
evidente o si chiarisce. d) Il concetto della R. come tautologia trova la sua
origine in Hume che per primo distinse netta- mente le « relazioni di idee »
dalle « cose di fatto ». «Alla prima classe appartengono le scienze quali la
geometria, l’algebra e l’aritmetica e in breve ogni proposizione certa
intuitivamente [nel senso lockiano] o dimostrativamente... Le proposizioni di
questa classe si possono scoprire con una pura operazione del pensiero e non
dipendono da cose che esistono in qualche luogo dell’universo » (/ng. Conc.
Underst., IV, 1). Hume veramente non af- fermò esplicitamente il carattere
tautologico o (come si dice con termine kantiano) analitico delle pro-
posizioni che esprimono semplici rapporti delle idee fra loro; ma in qualche
modo lo presuppose insistendo sul fatto che le proposizioni che esprimono cose
di fatto non sono logicamente derivabili l’una dall’altra. Tuttavia a formare
la concezione in 721 esame della R. è intervenuta anche un’altra compo- nente
concettuale che era stata per la prima volta esposta da Hobbes; la riduzione
della R. a calcolo delle proposizioni verbali. «La R., aveva detto Hobbes, non
è altro che il calcolo — cioè l’addi- zione e la sottrazione — delle
conseguenze dei nomi generali usati per contrassegnare e significare i nostri
pensieri: per contrassegnarli quando calco- liamo per noi stessi, per
significarli quando dimo- striamo o approviamo i nostri calcoli per gli altri uomini
» (Leviathan, I, 5). Quest’idea di Hobbes trovò la sua realizzazione soltanto a
partire dalla metà del sec. xx con la fondazione della logica matematica da
parte di G. Boole (Laws of Thought, 1854) che per la prima volta mostrò
l’impossibilità di ridurre il ragionamento matematico alle forme di
ragionamento descritte da Aristotele e cominciò a costruire una logica in
stretta connessione con i procedimenti del calcolo. I successi che questa logica
registrò in seguito, ad opera soprattutto di Frege e Russell (v. Logica),
costituiscono un ante- cedente storico indispensabile del concetto in esame della
ragione. Che tale procedimento avesse carat- tere tautologico apparve chiaro
soltanto più tardi, cioè nell’ambito del Circolo di Vienna, con l’opera di
Wittgenstein (1922). Il fondamento di quest’opera è la riduzione della R. al
linguaggio. Wittgenstein asseriva che « le proposizioni della logica sono tau- tologie»
(Tractatus logico-philosophicus, 6.1); che « le proposizioni della logica non
dicono nulla (sono le proposizioni analitiche) » (/bi4., 6.11) e che «le teorie
che fanno apparire fornita di contenuto una proposizione della logica sono
sempre false » (/bid., 6.111). E aggiungeva: «La caratteristica speciale delle
proposizioni logiche è che dal solo simbolo si può riconoscere che sono vere e
questo fatto rac- chiude in sè tutta la filosofia della logica. Parimenti uno
dei fatti più importanti è che la verità o falsità delle proposizioni non
logiche non si può ricono- scere soltanto dalla proposizione » (Tract., 6.113).
In tal modo il procedimento razionale ritenuto proprio di quelle discipline che
Hume diceva avere per oggetto soltanto relazioni di idee (cioè della logica e
della matematica) è stato ridotto alla tautologia. Wittgenstein dice che le
proposizioni della logica, come quelle della matematica (/bid., 6.21) non
dicono nulla. Ciò non vuol dire tuttavia che esse sono inutili perchè rivelano
l’identità di significato che c’è sotto forme proposizionali diverse e possono
pertanto essere usate per la trasformazione di una proposizione in un’altra che
abbia lo stesso significato ma una forma diversa. Tuttavia, nessuna delle
proposizioni della logica e della matematica fornisce alcuna informazione
intorno al mondo. La riduzione della R. a procedimento tautologico ha quindi i
seguenti risultati: 1° sono razionali, nel senso proprio del termine, solo i
procedimenti formali della logica e della matematica (come parte o tutto della
logica); perciò razionalità e logicità coincidono; 2° razionalità e logicità
non hanno nulla a che fare con la realtà. Pertanto questo con- cetto della R.
costituisce l'inversione simmetrica del concetto 5) che ha invece identificato
razionalità e realtà ed ha opposto entrambe le concezioni alla pura formalità
logica, dichiarata priva di valore (cfr., sulla concezione in esame, R. von
MISES, Kleines Lehrbuch des Positivismus, 1939, $ 10; trad. ital., pag. 164
sgg.; J. R. WeINBERG, An Exa- mination of Logical Positivism, 1950, cap. II;
tradu- zione ital, pag. 86 sgg.). Le quattro alternative tipiche che la teoria
della R. ha finora seguite sono chiaramente insufficienti di fronte al compito
che alla R. si assegna come guida autonoma dell’uomo in tutti i campi. La prima
di esse si è storicamente esaurita e l’abbandono della logica in cui essa si
esprimeva non è che un segno di quest’esaurimento. La 5) e c) rendono
impossibile la determinazione di procedimenti rigorosi; e la 5) mette in
pericolo la stessa funzione direttiva della ragione. La d) rende possibile lo
sviluppo di una disciplina autonoma che è la moderna logica mate- matica ma è
troppo ristretta per esprimere i compiti della R. in tutti i campi. È possibile
bensì, in tutti i campi, servirsi delle tecniche logico-matematiche costruite
sul fondamento della nozione di R. come tautologia; ma non tutti i procedimenti
che possono definirsi razionali possono ridursi a tali tecniche. Un
procedimento razionale è in generale quello che consente all’uomo di dominare
una situazione, di affrontare i mutamenti di essa e di correggere gli errori
eventuali del procedimento stesso. Pertanto la razionalità di un procedimento
si può determinare soltanto nei confronti della situazione specifica che esso
consente di affrontare. E la considerazione della R. rinvia subito (come voleva
Husserl) alla considerazione delle sfere o dei campi specifici, rispetto ai
quali soltanto si può decidere la razio- nalità di un procedimento. Da questo
punto di vista, la teoria della R. può essere oggi fornita, non da una
metafisica della R., ma dalle ricerche metodologiche e critiche che, dall'esame
dei proce- dimenti autonomi, di cui l’uomo dispone nei singoli campi di
ricerca, risalgano alle condizioni generali della loro progettabilità. RAGIONE
SUFFICIENTE.V. FONDAMENTO. RAGIONEVOLE (lat. Rationabilis o Rationalis; ingl. Reasonable; franc.
Raisonnable; ted. Verniinftig). 1. Chi ha la possibilità
d’uso della ragione; e in questo senso si dice che l’uomo è un animale ragionevole.
S. Agostino afferma che i dotti «chiamarono R. (rationabilis) chi usa o può far
uso della ragione, razionale (rationalis) ciò che è fatto o detto dalla ragione
+; e pertanto ritiene che bisogna chiamare razionale, per es., i discorsi o i bagni
e R. colui che li fa (De Ordine, XI, 31). Ma questa distinzione non regge molto
perchè gli antichi chiamarono razionale anche l’uomo (cfr., ad es., QuinTILIANO,
/nsf., V, 10, 56). E d’altronde chia- miamo oggi R. anche ciò che è conforme a
ragione. 2. Ciò che è conforme alla ragione o alle regole che essa prescrive in
un determinato campo d'indagine o in generale. In questo senso Locke parlava
della «ragionevolezza del cristianesimo ». E si parla di una « R. certezza »
per designare quella certezza che si può desumere dalle regole del campo cui si
fa riferimento, ma non è assoluta. Dewey dice: «La ragionevolezza è questione
di relazione tra mezzi e risultati... È R. ricercare e scegliere i mezzi che
con ogni probabilità produrranno gli effetti ai quali si tende » (Logic, I;
trad. ital., pag. 41-42). In entrambi i significati il termine R. (come quello
correlativo di ragionevolezza) implica una connotazione limitativa, la quale in
primo luogo esclude l’infallibilità della ragione; ed in secondo luogo include
la considerazione dei limiti e delle circostanze in cui la ragione stessa si
trova ad agire. Pertanto « esser R. » significa, nella lingua corrente, rendersi
conto delle circostanze e delle limitazioni che esse comportano con la rinuncia
ad un atteggia- mento, teoretico o pratico, di assolutismo. RAGIONI SEMINALI
(gr. 26yor oreppa- tixol; lat. Rariones seminales). Quelle parti della R. divina
da cui le cose si originano. Secondo gli Stoici, come ogni vivente è prodotto
da un seme, così ogni cosa è prodotta da una particella della R. divina, che
perciò è un seme razionale. La nozione sottolinea la predeterminazione di ciò
che si genera (Azzio, Plac., I, 7, 33; cfr. STOBEO, Ecl., I, 17, 3). La nozione
fu fatta propria dai neoplatonici (con- fronta PLOTINO, Enn., II, 3, 16) e da
S. Agostino (De diversis quaestionibus 83, q. 46). RAGION PIGRA (gr. &pydc
Asyoc; lat. Jenava ratio; ted. Faule Vernunft). Il ragionamento o l’ar- gomento
che persuade all’inerzia. Platone già chia- mava pigro l’argomento sofistico
che è inutile cercare perchè non si può cercare nè quello che si sa (dal
momento che si sa) nè quello che non si sa, dal momento che non si sa che cosa
cercare (Men., 86 b). Ma sotto il nome di R. pigra ci è stato specialmente
tramandato un argomento di pro- babile origine megarica, esposto dallo stoico
Cri- sippo (PLUTARCO, Moralia, II, pag. 574 e; cfr. Stoi- corum Fragmenta, II,
pag. 277) che Cicerone ha così riportato: « Se per te è destino di guarire da questa
malattia, guarirai sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai.
Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai,
sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Ora il tuo destino è l’una
o l’altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico » (De
Fato, 12, 28). Leibniz fece talora riferimento a questo vecchio argomento
megarico o stoico (Théod., I, 55). Più genericamente, Kant chiama R. pigra
«ogni principio il quale porti a considerare come assolutamente compiuta la
pro- pria ricerca sicchè la R. si metta tranquilla come se abbia pienamente
terminato il suo compito » (Crit. R. Pura, Dialettica; Appendice alla Dialet- tica
trascendentale: Dello scopo finale, ecc.). In questo senso più generale,
l’espressione è adoperata frequentemente anche oggi. RAGION PURA. V. Puro. RAMIFICATA
TEORIA DEI TIPI. Vedi ANTINOMIA. RANGO (ingl. Range; franc. Rang; ted. Rane). Termine talvolta adoperato dai logici per
indi- care l'insieme delle entità i cui nomi possono essere sostituiti alla
variabile di una formula. Il R. di una proposizione è l'insieme degli stati di
cose nei cui rispetti la proposizione è vera. // R. del significato di un
predicato P è l’insieme dei valori di x per i quali «Px» è vero o falso (cfr.,
specialmente per quest’uso, A. Pap, Semantics and Necessary Truth, 1958,
passim). RAPPORTO. V. RELAZIONE. RAPPORTO DI COSE. V. STATO DI cose. RAPPRESENTATIVO
(ingl. Representative; franc. Représentatif; ted. Vorstellend). 1. Il senso di
questo aggettivo è più ristretto di quello del corrispondente sostantivo
giacchè contiene costan- temente il riferimento al carattere di « similitudine
» o di «quadro», che rimane escluso da alcuni si- gnificati del sostantivo.
Così «idea R.» è l’idea che si concepisce come immagine o riproduzione del suo
oggetto. E si dice che la conoscenza ha natura R., se si ritiene che essa
costituisca l’immagine o la copia dell'oggetto. 2. Emerson chiamò uomini R.
quelli che Hegel chiamava « individui della storia universale » o altri romantici
chiamavano « eroi »: cioè quelli che sono i simboli e nel contempo gli
strumenti di realizza- zione delle aspirazioni di tutti gli uomini (Repre- sentative
Men, 1850). 3. Nel senso politico: sistema R., è il sistema che si fonda sul
principio della delega, da parte dei cittadini a un gruppo ristretto di essi,
di certi specifici poteri politici. RAPPRESENTAZIONE (lat. Repraesen- tatio;
ingl. Representation; franc. Représentation; ted. Vorstellung). Termine di
origine medievale per indicare l’immagine (v.) o l’idea ([v.] nel senso 2), o
entrambe le cose. L’uso del termine fu suggerito agli Scolastici dal concetto
di conoscenza come di una «similitudine» dell’oggetto. « Rappresentare qualcosa,
diceva S. Tommaso, significa contenere la similitudine della cosa» (De Verit.,
q. 7, a. 5). Ma fu soprattutto l’ultima scolastica che mise in voga il termine,
talvolta per indicare il significato delle parole (cfr., ad es., GRAZIADIO DI
ASCOLI, Perihermenias, 2). Ochkam distingueva tre signi- ficati fondamentali. «
Rappresentare, diceva, ha parecchi sensi. In primo luogo, si intende con questo
termine ciò con cui si conosce qualcosa e in questo senso la conoscenza è
rappresentativa e rappresentare significa esser ciò con cui si conosce qualcosa.
In secondo luogo si intende per rappre- sentare il conoscer qualcosa,
conosciuta la quale si conosce un’altra cosa; e in questo senso l’imma- gine
rappresenta ciò di cui è l’immagine, nell’atto del ricordo. In terzo modo
s’intende per rappre- sentare il causare la conoscenza al modo in cui l’oggetto
causa la conoscenza » (Quodl., IV, q. 3). Nel primo senso la R. è l’idea nel
senso più gene- rale; nel secondo senso, è l’immagine; nel terzo, è l’oggetto
stesso. Questi sono in realtà tutti i possi- bili significati del termine: il
quale fu reso di nuovo significativo dalla nozione cartesiana dell’idea come «quadro
» o «immagine» della cosa (Méd., III); e fu diffuso soprattutto da Leibniz che
considerava ogni monade come una R. dell’universo (Mon., $ 60). Proprio per
suggestione di questa dottrina Wolff introduceva il termine Vorstellung, per
in- dicare la cartesiana idea, nell’uso filosofico della lingua tedesca
(Verninftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, 1719, I, $
220, 232, ecc... A Wolff si deve la diffusione dell’uso del termine nelle altre
lingue europee. Kant fissava il significato generalissimo di esso, da lui
considerato come il genere di tutti gli atti o manifestazioni conoscitive
indipendentemente dalla sua natura di quadro o di similitudine (Crit. R. Pura, Dialettica,
libro I, sez. I). In tale significato gene- ralissimo il termine è stato poi
costantemente ado- perato nel linguaggio filosofico. Hamilton difendeva l’uso
della parola anche in inglese (Lectures on Logic, 2* ed., 1866, I, pag. 126). Ma
in questo senso i problemi inerenti alla R. sono quelli inerenti o alla
conoscenza in generale (v. ConosceENZA) o alla realtà che costituisce il termine
oggettivo della conoscenza (v. REALTÀ) 0, in un’altra direzione, quelli
relativi al rapporto tra le parole e gli oggetti significati (per i quali V.
SEGNO; SIGNIFICATO). RASOIO DI OCCAM. V. Economia. RAZIOCINIO. V. RAGIONAMENTO.
RAZIONALE (gr. 2oyixéc; lat. Rationalis, Ra- tionabilis; ingl. Rational; franc.
Rationnel; tedesco Verniinftig). 1. Ciò che costituisce la ragione o concerne
la ragione, in uno qualsiasi dei signifi- cati di questo rermine (v.). 2. Lo
stesso che ragionevole: ad es., « animale R. », «comportamento R. ». 3. Che ha
per oggetto la ragione cioè la sua forma o i suoi procedimenti. In questo senso
Se- neca (Ep., 89, 17) e Quintiliano (/rsr., XII, 2, 10) chiamarono « filosofia
R.+ la logica, come fecero poi anche Wolff (Philosophia rationalis sive logica,
1728) e altri. RAZIONALISMO (ingl. Rationalism; francese Rationalisme; ted.
Rationalismus). In generale, l’at- teggiamento di chi si affida ai procedimenti
della ragione per la determinazione di credenze o di tecniche in un dato campo.
Il termine fu usato fin dal sec. xvII per designare tale atteggiamento nel
campo religioso: « C'è una nuova sètta diffusa fra di essi [Presbiteriani e
Indipendenti] ed è quella dei razionalisti: ciò che la loro ragione gli detta, essi
lo tengono per buono nello Stato e nella Chiesa, finchè non trovano di meglio »
(CLARENDON, State Papers, II, pag. xL, alla data del 14-x-1646). In questo
senso Baumgarten diceva: «Il R. è l’errore di chi elimina nella religione tutte
le cose che sono al di sopra della propria ragione» (Ethica philo- sophica,
1765, $ 52). Kant fu il primo ad assumere il termine come insegna della propria
dottrina ed a estenderlo dal campo religioso agli altri campi d’indagine. Egli chiamò
R. la propria filosofia trascendentale (nello scritto del 1804 sui « Progressi
della metafisica », Werke, V, 3, pag. 101): mentre chiamava noolo- gisti o
dogmatici i filosofi che la storiografia tedesca dell’800 ha chiamato poi
razionalisti cioè da un lato Platone e dall’altro i wolfiani (Crit. R. Pura, Dottr.
del Metodo, cap. IV). Nel campo morale difendeva « il R. del giudizio, il quale
dalla natura sensibile non prende nient’altro che ciò che anche la Ragion pura
per sè può pensare, cioè la confor- mità alla legge » e che perciò si oppone
sia al mi- sticismo sia all’empirismo della Ragion pratica (Crit. R. Pratica,
I, cap. II, Della tipica del giudizio puro pratico). Nel campo estetico
analogamente parlava di un « R. del principio del gusto » (Critica del Giud., $
58). E infine caratterizzava come R. il suo punto di vista in materia
religiosa. « Il razio- nalista, egli diceva, in virtù del suo stesso titolo, si
deve mantenere dentro i limiti della capacità umana. Quindi non prenderà mai il
tono deciso del naturalista e non contesterà nè la possibilità nè la necessità
di una rivelazione... giacchè su questi punti nessun uomo può, mediante la sua
ragione, decidere cosa alcuna» (Religione, IV, sez. I; tra- duzione italiana
Durante, pag. 169). Dall’altro lato, Hegel fu il primo a caratteriz- zare come
R. l’indirizzo che va da Cartesio a Spinoza e Leibniz, contrapponendolo
all’empirismo dell’indirizzo che fa capo a Locke. Per R. egli intese la «
metafisica dell’intelletto » cioè «la ten- denza alla sostanza, per cui si
afferma, contro il dualismo, un'unica unità, un solo pensiero, al modo stesso
in cui gli antichi affermavano l’essere » (Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, III, pa- gina 329 sgg.; trad. ital., III, 2, pag. 68 sgg.). La contrapposizione
tra razionalismo ed empirismo è rimasta poi fissata negli schemi tradizionali
della storia della filosofia, per quanto lo stesso Hegel ne avvertisse il
carattere approssimativo. In quanto al R. religioso, Hegel affermava che esso è
« l’op- posto della filosofia» perchè pone «il vuoto al posto del cielo» e
perchè «la sua forma è un ra- gionare senza libertà non già un intendere
concet- tualmente » (/bid., I, pag. 113; trad. ital., I, pag. 95). In base a
queste notazioni storiche si può dire che il termine in questione può essere
inteso nei se- guenti significati: 1° come R. religioso, designa alcuni
indirizzi protestanti o un punto di vista sulla religione si- mile a quello di
Kant; 2° come R. filosofico, il termine designa pro- priamente la dottrina di
Kant (che lo fece suo); oppure l’indirizzo metafisico della filosofia moderna da
Cartesio a Kant; 3° nel suo significato generico, può essere adoperato a
designare qualsiasi indirizzo filosofico che faccia appello alla ragione. Ma in
questa ac- cezione così vasta il termine può indicare le filosofie più
disparate e manca di ogni capacità indivi- duante. RAZIONALIZZAZIONE (ingl.
Rationaliza- tion; franc. Rationalisation; ted. Rationalisierung). 1. Così è
stato talora chiamato il processo per il quale le scienze della natura
tendevano a costituirsi come discipline teoretiche adottando i procedimenti della
matematica: processo che si supponeva rea- lizzato perfettamente nella
meccanica razionale (cfr. HussERL, /deen, I, $ 9). L’ideale della R. è stato ora
sostituito da quello della assiomatizzazione (v. ASSIOMATICA). 2. Termine di
cui si avvalgono spesso psicologi e sociologi per indicare la tendenza a
cercare ar- gomenti e giustificazioni per credenze che ricavano la loro forza
non già da essi, ma da emozioni, interessi, istinti, pregiudizi, abitudini,
ecc. RAZZISMO (ingl. Racialism; franc.
Racisme; ted. Rassismus). La
dottrina che tutte le manife- stazioni storico-sociali dell’uomo e i suoi
valori (o disvalori) dipendano dalla razza e che esista una razza superiore
(«ariana » o « nordica +) de- stinata ad essere la guida del genere umano. Il fondatore
di questa dottrina è stato il francese Gobineau nel suo Essai sur l’inégalité
des races humaines (1853-55) che era diretto a difendere l’aristocrazia di
fronte alla democrazia. Verso il principio del ’900 un inglese tedeschizzato,
Houston Stewart Chamberlain diffuse il mito dell’arianesimo in Germania (Die
Grundlagen des XIX Jahrhunderts, 1899) identificando la razza superiore con
quella ger- manica. L’antisemitismo era antico in Germania e perciò la dottrina
del determinismo razziale e della razza superiore trovò qui facile diffusione risolvendosi
nell’appoggio del pregiudizio anti- ebraico e della credenza che esiste una
congiura giudaica per la conquista del dominio del mondo e che pertanto il
capitalismo e il marxismo e in generale quelle manifestazioni culturali e
politiche che indeboliscono l’ordine nazionale sono feno- meni giudaici. Dopo
la prima guerra mondiale il R. apparve ai Tedeschi come un mito consola- torio,
un’evasione dalla depressione della sconfitta; e Hitler ne fece il caposaldo
della sua politica. La dottrina fu elaborata da Alfredo Rosenberg nel Mito del
XX secolo (1930). Rosenberg affer- mava un rigoroso determinismo razziale. Ogni
ma- nifestazione culturale di un popolo dipende dalla sua razza. La scienza, la
morale, la religione, e i valori che esse scoprono e difendono dipendono dalla
razza e sono le espressioni della forza vitale della razza. Perciò pure la
verità è sempre tale soltanto per una razza determinata. La razza su- periore è
quella ariana che dal nord si è diffusa nell’antichità in Egitto, in India, in
Persia, in Grecia e in Roma e ha prodotto le antiche civiltà: civiltà che
decaddero perchè gli ariani si mescola- rono con razze inferiori. Tutte le
scienze, le arti, le istituzioni fondamentali della vita umana sono state
create da questa razza. Di fronte ad essa sta l’anti-razza parassitica ebraica,
che ha creato i veleni della razza: la democrazia, il marxismo, il capitalismo,
l’intellettualismo artistico e anche gli ideali di amore, di umiltà, di
uguaglianza dif- fusi dal cristianesimo, il quale rappresenta una corruzione
romano-giudaica dell’insegnamento del- l’ariano Gesù. L'insieme di questa
dottrina venne esplicitamente dal nazismo presentato come un mito, creato,
diffuso e mantenuto dalla stessa forza vitale della razza. Il che non vuol dire
che non si cercò di razionalizzarla, dando una base scien- tifica al concetto
di razza che ne era il fondamento. Ma in realtà proprio l’uso che il R. fa
della nozione di razza rivela, dal punto di vista scientifico e filo- sofico,
l’inconsistenza della dottrina. Il concetto di razza è oggi unanimemente con- siderato
dagli antropologi come un espediente classificatorio adatto a fornire lo schema
zoologico entro il quale possono essere situati i vari gruppi del genere umano.
La parola perciò deve essere riservata solo per quei gruppi umani contrasse- gnati
da differenti caratteristiche fisiche che pos- sono essere trasmesse per
eredità. Tali caratteri- stiche sono principalmente: il colore della pelle, la
statura, la forma della testa e della faccia, il colore e la qualità dei
capelli, il colore e la forma degli occhi, la forma del naso e la struttura del
corpo. Si distinguono, tradizionalmente (e conven- zionalmente) tre grandi
razze che sono la bianca, la gialla e la nera, cioè la caucasica, la mongolica e
la negroide. Pertanto i gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e
culturali non possono es- sere chiamati, a nessun titolo, « razze »j} non sono una
razza nè gli Italiani, nè i Tedeschi, nè gli In- glesi, non lo furono i Latini
o i Greci, ecc. Non esiste alcuna razza «ariana» o «nordica». Nè esiste alcuna
prova che la razza o le differenze razziali influiscano in un modo qualsiasi
sulle ma- nifestazioni culturali o sulle possibilità di sviluppo della cultura
in generale. Non vi è prova neppure che i gruppi, in cui si può distinguere il
genere umano, differiscano nella loro capacità innata di sviluppo intellettuale
ed emozionale. Al contrario, gli studi storici e sociologici tendono a
rafforzare la veduta che le differenze genetiche sono fattori insignificanti
nella determinazione delle differenze sociali e culturali fra gruppi diversi di
uomini. Vasti mutamenti sociali si sono verificati senza
essere in nessun modo connessi con
mutamenti del tipo razziale. Nè vi è prova che le mescolanze di razza producano
risultati svantaggiosi da un punto di vista biologico. È molto probabile che
non ci siano e non ci siano mai state, per quanto si può rimontare nel tempo,
razze «pure». I ri- sultati sociali delle mescolanze di razze, sia buoni che
cattivi, possono essere attribuiti a fattori so- ciali. Una dichiarazione sulla
razza fu emessa nel 1951 a Parigi, presso l’UNESCO da una commis- sione
composta da cinque cultori di genetica e sei antropologi appartenenti a sei
nazioni diverse. Essa consiste nell’esposizione dei capisaldi che si sono or
ora ricordati (e sui quali cfr. RUTH BE- NEDICT, Race, Science and Politics,
1940; e RALPH Linton, The Science of Man in the World Crisis, 7» ed., 1952). Ma
in realtà il R. dovunque si riscontri e comunque lo si giustifichi appartiene
al rango di quella che Veblen chiamava psichiatria applicata; cioè all'arte di
sfruttare per scopi parti- colari un certo pregiudizio esistente. Si tratta in questo
caso di un pregiudizio estremamente perni- cioso perchè contraddice ed ostacola
la tendenza morale dell’umanità verso l’integrazione universa- listica e perchè
fa dei valori umani, a cominciare dalla verità, fatti arbitrari che esprimono
la forza vitale della razza e così non hanno sostanza propria e possono essere
manipolati arbitrariamente per i fini più violenti od abbietti. REALE (lat. Realis; ingl. Real; franc.
Réel; ted. Real). 1. Che si riferisce alla cosa. Ad es., «definizione
R. + è la definizione della cosa e non del nome di essa. 2. Ciò che esiste di
fatto o attualmente: v. cor- rispondentemente ai vari sensi del termine REALTÀ.
3. Herbart chiamò Reali gli enti effettivamente esistenti «la cui natura
semplice e propria ci è sconosciuta ma sulle cui condizioni interne ed esterne
possiamo acquistare una somma di cono- scenze che può aumentare all'infinito ».
Tali enti sono tra loro irrelativi sicchè ogni loro rapporto dev'essere
considerato come una veduta acciden- tale (2uféllige Ansicht) che non qualifica
e non modifica la loro natura (Einleitung in die Philo- sophie, 1813, $ 152
sgg.). REALI, SCIENZE. V. SCIENZE, CLASSIFICA- ZIONE DELLE. REALISMO (lat.
Reglismus; ingl. Realism; franc. Réalisme; ted. Realismus). Il termine co- minciò
ad essere adoperato verso la fine del se- colo xv per indicare l’indirizzo più
antico della Scolastica in contrapposto all’indirizzo detto « mo- derno » dei
nominalisti o terministi. Il primo ad adoperarlo fu probabilmente Silvestro
Mazolino di Prieria nel Compendium dialecticae del 1496 (cfr. PRANTL,
Geschichte der Logik, IV, pag. 292). Il R. affermava la realtà degli universali
(generi e specie) intendendo tuttavia in modi diversi questa realtà stessa (v.
UNIVERSALE). Nel senso più generale e moderno, il termine fu ripreso da Kant
nella prima edizione della Critica della Ragion Pura, per indicare, da un lato,
la dottrina, opposta a quella da lui difesa, che considera lo spazio e il tempo
indipendenti dalla nostra sensibilità, che è il R. trascendentale; e dall'altro,
la dottrina, sua propria, che ammette la realtà esterna delle cose ed è il R.
empirico. « L’idealista trascendentale, diceva Kant, è un rea- lista empirico e
riconosce alla materia, come fe- nomeno, una realtà che non ha bisogno di
essere dedotta ma è immediatamente percepita » (Critica R. Pura, 13 ed.,
Dialettica trascendentale. Critica del quarto paralogismo della psicologia
trascenden- tale). Con Kant il termine entrava nell’uso filo- sofico per
designare dottrine di interesse attuale e non semplicemente storico. Fichte
affermava che «la dottrina della scienza è realistica» perchè « mostra che è
assolutamente impossibile spiegare la coscienza delle nature finite se non si
ammette l’esistenza di una forza indipendente da esse, ad essa opposta, e dalla
quale esse dipendano nella loro esistenza empirica » (Wissenschaftslehre, 1794,
$ V, II; trad. ital., pag. 231). Schelling parlava a sua volta di un idealismo
realistico (Real-/dea- lismus) o di un R. idealistico (/deal-Realismus) (Werke,
I, X, pag. 107) nello stesso senso di Fichte. Da allora in poi il R. è stato
qualificato e definito nei modi più diversi; e quasi sempre le dottrine che
l’hanno assunto come insegna hanno anche qualificato come realiste le dottrine
del passato che erano in accordo con il loro punto di vista. Così, ad es.,
Platone è stato classificato realista perchè ammette la realtà delle idee
(qualsiasi cosa ciò possa significare); ma è stato anche definito idealista in
quanto si tratta, per l’appunto, di idee. Simili notazioni (e le dispute che
fanno sor- gere) non sono altro che perdite di tempo. Meno inutile forse è
chiarire il significato delle più note forme che il R. ha assunto nella
filosofia moderna. In tal caso, oltre a quelle già ricordate, si possono richiamare
le seguenti: a) Il R. empirico di Kant ha assunto vari nomi rimanendo
sostanzialmente lo stesso cioè il ricono- scimento dell’esistenza delle cose
indipendente dal- l’atto del conoscere. W. Hamilton chiamò questo punto di
vista R. naturale o presentazionismo e lo ritenne proprio della Scuola scozzese
da cui deri- vava la sua filosofia (v. PRESENTAZIONISMO). L’arti- colo famoso
di G. E. Moore pubblicato nel Mind del 1903, « La confutazione dell’idealismo
», si ispira a un identico punto di vista: difende l'indipendenza dell'oggetto
conosciuto dall’atto psichico con cui viene conosciuto. Questa indipendenza
veniva rico- nosciuta come la tesi del R. ingenuo (ted. Naiven Realismus) da G.
Schuppe (Grundriss der Erkenntnis- theorie und Logik, 1910, pag. 1-2). O. Kiilpe chia- mava lo stesso punto di vista R.
scientifico (Die Realisierung, II, 1920, pag. 148). Mentre J. Ma- ritain che ha
difeso la stessa forma di R. come meglio rispondente alla tradizione tomistica,
l’ba chiamata R. critico (Distinguer pour unir, 1932, pag. 149). Infine lo
stesso tipo di R. è chiamato materialismo dai filosofi sostenitori del materia-
lismo dialettico: così fa, per es., Lenin (Materia- lismo e empiriocriticismo,
1909; trad. ital., pag. 75). Questa stessa forma di R., senza aggettivi o con aggettivi
vari, ricorre frequentemente nella filosofia contemporanea e si può riconoscere
agevolmente nell’esistenzialismo, nello strumentalismo, nell’em- pirismo logico
e in tutte le correnti filosofiche che assumono come loro punto di partenza il
pensiero scientifico. b) Il R. trasfigurato (Transfigured Realism) di H.
Spencer: « Il R. a cui siamo impegnati è quello che asserisce semplicemente che
l’esistenza ogget- tiva è separata e indipendente dall'esistenza sog- gettiva.
Ma esso non afferma che ognuno dei modi dell’esistenza oggettiva è in realtà
quello che sembra nè che le connessioni fra i modi sono oggettiva- mente quello
che sembrano. Perciò questo R. è nettamente distinto dal R. crudo; e per
segnare la distinzione si può propriamente chiamarlo R. tra- sfigurato »
(Principles of Psychology, $ 472). c) Il nuovo R., difeso in volume collettivo da
un gruppo di pensatori americani (E. B. HOLT, W. T. MARWIN, W. P. MONTAGUE, R.
B. PERRY, W. B. PITKIN, E. G. SPAULDING, The New Realism, 1912). Questa forma
di R. è fondata sul principio che la relazione conoscitiva non modifica gli
enti tra i quali intercorre e che pertanto il fatto che gli enti conosciuti ci
appaiono solo in relazione con noi non implica che il loro essere si esaurisca
in questa relazione. Enti oggettivi sono, secondo il nuovo R., anche i concetti
astratti di cui si avvale la scienza e l’errore stesso è un fatto oggettivo dovuto
a una distorsione fisiologica. Un punto di vista analogo a questo e come questo
ispirato dalle correnti della fenomenologia e del logicismo è stato difeso da
Nicolai Hartmann in una serie di opere a partire dai Grundziige einer
Metaphysik der Erkenntnis (1921). Sono costitutive del R. di Hart- mann le due
tesi seguenti: 1° il rapporto conoscitivo è estrinseco all'essere, che non
risulta modificato o qualificato da esso; 2° l’essere è costituito non solo da
cose ma anche da oggetti ideali o astratti o da valori. d) Il R. critico difeso
in un volume collettivo da un gruppo di pensatori americani (D. DRAKE, A. O.
Lovejoy, J. B. PRATT, A. K. RogERs, G. SAN- TAYANA, R. W. SeLLARS, C. A.
STRONG, Essays in Critical Realism, 1920) che difendeva fondamen- talmente il
punto di vista sostenuto da Santayana secondo il quale l’oggetto immediato
della cono- scenza è un'essenza (v.), mentre l’esistenza non è mai afferrata
immediatamente o intuita ma sem- plicemente affermata o posta o riconosciuta
per esigenze emozionali e pratiche che Santayana chia- mava con il nome di fede
animale (Scepticism and Animal Faith, 1923). REALTÀ (ingl. Reality; franc.
Réalité; tedesco Realitàt, Wirklichkeit). 1. Nel suo significato proprio e
specifico il termine designa il modo d’essere delle cose in quanto esistano
fuori dalla mente umana © indipendentemente da essa. La parola realitas fu
coniata nella tarda Scolastica e precisamente da Duns Scoto. Questi l’adoperò
per definire l’in- dividualità: che consisterebbe nell’ ultima R. del- l’ente»
la quale determina e contrae la natura comune ad esse hanc rem, alla cosa
singola (Op. Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1). Questa realitas fu chiamata da Duns
stesso o dagli scolari di Duns di preferenza haecceitas. Il termine doveva poi
passare a signi- ficare l’esse in re della scolastica nel senso, per es., in
cui S. Anselmo intendeva passare, con la prova ontologica, dall’esse in
intellectu dell’ Ente di cui non si può pensare niente di maggiore» al suo esse
in re (Prosl. 2); oppure nel senso in cui gli Scolastici parlavano
dell’universale in re cioè in- corporato nelle cose. L’opposto di R. è perciò idealità
che indica il modo d’essere di ciò che è nella mente e non è o non può essere o
non è ancora incorporato o attuato nelle cose. Il riferi- mento alle cose è
evidente anche in espressioni come « definizione reale » per indicare la
definizione della cosa e non del nome; e «diritti reali» per indicare diritti
che concernono le cose e non le persone. Il problema cui direttamente ha dato
luogo la nozione di R. è quello dell’esistenza delle cose o del « mondo esterno
». Questo problema è nato con Cartesio cioè col principio cartesiano che og- getto
della conoscenza umana è soltanto l’idea. Da questo punto di vista, diventa
immediatamente dubbia l’esistenza di quella R. cui l’idea sembra accennare ma
di cui non è prova come non è prova un dipinto della R. della cosa
rappresentata. Per giustificare la R. delle cose Cartesio aveva fatto ricorso
alla veridicità di Dio: nella sua perfezione Dio non può ingannarci e non può
permettere che ci siano in noi idee che non rappresentino nulla (Med., IV). Ma
all’esistenza di Dio, Cartesio era pervenuto, oltrecchè attraverso la
rielaborazione della prova ontologica, anche ammettendo il prin- cipio che «ci
dev'essere nella causa efficiente © totale almeno tanta R. quanta ce n’è
nell’effetto »: un principio in base al quale l’idea di Dio, che è l’idea della
perfezione massima, deve avere come causa un essere che ha tanta « R.» quanta è
quella che l’idea rappresenta: cioè Dio stesso (/bid., IM). Lo sviluppo
ulteriore del problema portò alla ne- gazione della realtà. L'empirismo inglese
con Ber- keley e Hume riconduceva la R. delle cose al loro essere percepito e
perciò la negava come un modo d’essere autonomo. Dall'altro lato, il
razionalismo risolveva, con Leibniz, le cose in elementi o atomi (monadi) di
natura spirituale e con ciò negava ugualmente il carattere specifico della loro
R. (vedi IMMATERIALISMO). La R. delle cose veniva in qualche modo riaf- fermata
da Kant. Kant conserva al termine R. (Realitàt) il suo significato specifico di
R. delle cose o, come egli anche dice, cosalità (Sachheit) (Crit. R. Pura,
Analitica, II, cap. I): al quale con- trappone la «idealità» dello spazio e del
tempo che sono forme dell’intuizione e non delle cose (Ibid., $ 3). Ma il
problema concerne per lui l’esi- stenza (Dasein) delle cose stesse. Questo è il
pro- blema che egli esamina nella « Confutazione del- l’idealismo ». La
soluzione qui prospettata è che «la coscienza della mia propria esistenza è
insieme coscienza immediata dell'esistenza di altre cose fuori di me». La prova
di questa asserzione è che la coscienza del tempo, cioè del mutamento, non sarebbe
possibile senza la coscienza di qualcosa di permanente; e questo qualcosa di
permanente, non potendo esser dato dalla stessa coscienza del tempo, può esser
dato soltanto dalla cosa esterna alla coscienza. Valida o no che fosse questa
dimo- strazione, è chiaro che Kant da un lato riteneva valido il primato della
coscienza stabilito da Car- tesio, per il quale appunto la R. delle cose
diventa un problema ed esige una dimostrazione; dall’altro, tendeva a
distruggere questa impostazione, con- nettendo la coscienza della propria
esistenza con la coscienza delle cose (v. Coscienza). Egli tuttavia non si
proponeva neppure il problema del modo d’essere specifico delle cose cioè del
tipo d’esistenza che ad esse è proprio. Eppure questo problema è strettamente
connesso con quello dell’« esistenza » delle cose e solo una qualche risposta
ad esso può dare significato alla soluzione positiva di questo ultimo; giacchè,
se le cose esistono nasce subito la domanda: qual’è il senso della loro
esistenza? Il problema della R. si deve pertanto ritenere composto di questi
due problemi, non separabili l'uno dall’altro: quello dell’esistenza e quello
del modo d’essere specifico delle cose. L’idealismo post-kantiano si soffermò
più sul secondo che sul primo di questi due problemi. Secondo Fichte, la R.
consiste in generale nell'attività dell’Io che « pone l’oggetto limitandosi» e
trasporta nell’og- getto una parte della sua attività. « Fonte di ogni R. (Realitàt)
è l’Io, dice Fichte. Solo per e con l’Io è dato il concetto della realtà. Ma
l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere sono una sola
e medesima cosa. Ma il concetto del porsi e quello dell’attività in generale
sono, a loro volta, una sola e medesima cosa. Dunque, ogni R. è attiva ed ogni
cosa attiva è R. » (Wissen- schaftslehre, $ 4, C). Questa idea della R. come attività
entrò a costituire il bagaglio del Romanti- cismo e influenzò il corso
ulteriore del problema, « L’attività è la vera e propria R. +, diceva Novalis (Fragmente,
190). Schopenhauer affermava decisa- mente «che l’essenza degli oggetti
intuibili è la loro azione; che proprio nell’azione consiste la R. dell’oggetto
e la pretesa di un’esistenza dell’oggetto fuori della rappresentazione del
soggetto e anche di un’essenza della cosa reale diversa dalla sua azione, non
ha senso alcuno, anzi è una contraddi- zione » (Die Welt, I, $ 5). Come si
vede, la riduzione della R. ad attività ha, in origine, un senso ideali- stico.
Essa è tuttavia servita ad avviare una nuova alternativa nella soluzione del
problema: quella che vede nella R. stessa non un semplice oggetto di
conoscenza, ma un modo d'essere che si rivela meglio ad altre forme di
esperienza. La nozione di attività che era rimasta cara al Romanticismo fornisce
il primo modello di questa soluzione. Dall’altro lato il sensismo di Condillac
aveva mostrato la derivazione dell'idea di R. dal senso del tatto; ma il senso
era stato in generale inteso da Condillac in modo attivo e dinamico come guidato
e sorretto dal bisogno e dai desideri (Trairé des sensations, 1754, I, 3, 1; I,
7, 3; II, 5, 5). Più tardi Destut de Tracy aveva messo in relazione l’idea di
R. con l’esperienza della resistenza che le cose oppongono al movimento
(/déologie, 1801, cap. 8). Nella filosofia contemporanea un’idea analoga è
stata ripresa da Dilthey (Contributo alla soluzione del problema dell'origine
della nostra cre- denza nella realtà del mondo esterno, in Gesammelte Schriften,
1890, V, 1, pag. 90 sgg.). La resistenza definirebbe il modo d'essere della R.,
cioè delle cose; e l’esperienza di questa R. sarebbe, corri. spondentemente,
volitiva e pratica, più che cono- scitiva. Scheler ha accettato questa
interpretazione della R. (Die Wissensformen und die Gesellschaft, pag. 455
sgg.). Una tesi sostanzialmente analoga fu presentata da Santayana nel libro
Scerricismo e fede animale (1923) nel quale egli mostrava come la credenza
nella R. è dovuta a esperienze puramente animali (la fame, la lotta, ecc.) ed è
giustificabile solo sulla base di tali esperienze. Lo stesso San- tayana aveva
presentato questa stessa nozione della R. nei Essays in Critical Realism
(1920), pubblicati da sette filosofi americani (v. REALISMO). Nella filosofia
più recente il problema della R. ha cessato quasi del tutto di essere il
problema del- l’« esistenza » delle cose per diventare, sempre più esclusivamente,
il problema del modo d’essere specifico delle cose stesse. Le elaborazioni di questo
problema seguono l’alternativa aperta dalle dottrine che riconoscono il
carattere non semplice- mente conoscitivo dell’esperienza della realtà. Hei- degger
ha esplicitamente negato il primato della coscienza dal quale nasceva il
problema dell’esi- stenza delle cose. «Il credere nella R. del ‘mondo esterno”
con diritto o meno, il dimostrare questa R., sufficientemente o no, il
presupporla, esplici- tamente o no, sono tutti tentativi che presuppon- gono
innanzi tutto il soggetto senza mondo, cioè non consapevole del proprio mondo,
il quale deve perciò incominciare col fondare la sicurezza del suo mondo »
(Sein und Zeit, $ 43, a). Il problema dell’esistenza del mondo esterno o delle
cose si eli- mina quindi da sè quando si sia eliminato il pre- supposto fallace
del « soggetto senza mondo » cioè il presupposto che l’uomo non sia già sempre,
e prima di tutto, un essere nel mondo. Ripristi- nato questo che è il carattere
fondamentale del modo d’essere dell’uomo, che perciò appunto è un « Esserci »
(indicando il ci la sua relazione con il mondo), il problema della R. diventa
il problema del modo in cui le cose del mondo si presentano all'uomo o sono in
rapporto con lui. Secondo Heidegger, questo modo d’essere è la « semplice presenza
+; giacchè l’esistenza è il modo d’essere riservato all’esserci cioè all'uomo.
«Se l’espres- sione R. significa l’essere dell’ente (res) sempli- cemente
presente dentro il mondo (e nient’altro viene infatti con essa pensato) ne
consegue allora per l’analisi di questo modo di essere: l’ente intra- mondano è
concepibile ontologicamente solo se è stato chiarito il fenomeno della
intramondanità. Ma questo si fonda nel fenomeno del mondo, il quale, da parte
sua, in quanto essenziale momento della struttura dell’essere-nel-mondo,
appartiene alla costituzione fondamentale dell’Esserci. L’es- sere-nel-mondo,
di nuovo, è ontologicamente arti- colato nella totalità dell’essere
dell’Esserci, che venne caratterizzata come Cura» (/bid., $ 43, b). Proprio
perchè l’essere dell’Esserci cioè l’esistenza umana è Cura, gli enti diversi da
sè di cui questa esistenza si prende cura cioè le cose (il cui modo d’essere è
la R.) sono caratterizzati dall’utilizza- bilità. «Il modo d’essere di questo
ente è l’uti- lizzabilità; questa non deve però essere vista come una visuale
considerativa... L’utilizzabilità è deter- minazione ontologico-categoriale
dell’ente così come esso è in sè » (/bid., $ 15). In tal modo Heidegger ha
messo in luce il carattere strumentale delle cose: quel carattere per cui esse
possono valere come mezzi per l’uomo. Ma Heidegger ritiene che questo carattere
non appartenga alle cose relativamente al loro rapporto con l’uomo ma
costituisca il loro essere «in sè», la loro essenza. A prescindere da questa
pretesa, l’analisi di Heidegger può essere assunta come una caratterizzazione
del modo d’essere delle cose o della « R.+, intesa nel suo significato proprio
e specifico. Dall’altro lato, questa stessa analisi ha mostrato il carattere
arbi- trario del «problema della R.» qual’era inteso da Cartesio in poi come
problema di una R. «esterna » alla coscienza. Essa ha infatti mostrato come
tale problema sorga dal presupposto di una tesi filosofica infondata cioè dalla
tesi di un « sog- getto senza mondo » o in altre parole di una esi- stenza
dell'uomo che non consista nel rapporto con il mondo. È significativo notare
che quasi contempora- neamente a queste analisi di Heidegger lo stesso problema
della R. esterna veniva dichiarato uno «pseudo problema» da un punto di vista
total- mente diverso, cioè da quello del Circolo di Vienna. Carnap
(Scheinsprobleme in der Philosophie; das Fremdpsychische und der
Realismus-streit, 1928) e Schlick (Positivismus und Realismus, rist. in Gesam- melte
Aufsdtze, 1938) rigettavano sia la tesi della irrealtà del mondo esterno sia
quella della sua R. come pseudo-asserzioni, in quanto nè l’una nè l’altra si
prestano ad una verifica sperimentale. Ma il Circolo di Vienna non presentava
alcuna nuova soluzione del secondo aspetto, assai più legittimo, del problema
della R.: cioè del pro- blema del modo d'essere delle cose. Su questo punto
esso si limitava, e i suoi continuatori tut- tora si limitano, a riproporre la
vecchia tesi di Mach (Analyse der Empfindungen, 1900) che le cose sono composte
di quegli stessi elementi ultimi, le sensazioni, che compongono l’io e che
questi elementi ultimi sono in sè neutrali, cioè nè oggettivi nè soggettivi.
Questa tesi ovviamente non dà conto del carattere specifico della R. delle
cose: non dà conto cioè del perchè un insieme di tali elementi neutri assuma a
volta a volta le caratteristiche di una «cosa» o di un «io». Oltre al
significato fin qui seguito nelle sue varie interpretazioni, la parola R. è
usata comunemente anche negli altri significati seguenti, che devono tuttavia
essere ritenuti secondari perchè designati più opportunamente con altri termini
del dizio- nario filosofico. 2. In contrasto con apparenza, illusione e simili,
R. significa talora l’essere in uno qualsiasi dei suoi significati
esistenziali. Così nell’opera di BRADLEY, Appearance and Reality (1893) il
contrasto annun- ciato nel titolo è il contrasto tra l’apparire e l’es- sere
giacchè esso non viene limitato alla R. nel suo senso specifico cioè al modo
d’essere delle cose. Nello stesso senso ma con accentuazione critica ha inteso
il termine Dewey: « Nella sua più breve formula la R. diventa l’esistenza quale
noi desideriamo che sia, dopo che abbiamo analiz- zato i suoi difetti e deciso
quelli da eliminare; la ‘R.’ è ciò che l’esistenza sarebbe se le nostre preferenze
razionalmente giustificate fossero così completamente stabilite nella natura da
esaurire e definire il suo essere intero, e perciò da rendere la ricerca e la
lotta non necessarie. Ciò che vien tagliato fuori (dal momento che il
turbamento, la lotta il conflitto e l’errore ancora esistono empi- ricamente,
qualcosa è tagliata fuori) essendo escluso per definizione dalla piena R., è
assegnato a un grado o ordine dell’essere che si afferma metafisi- camente
inferiore: un ordine variamente chiamato: apparenza, illusione, spirito mortale
o puramente empirico, in contrapposto a ciò che realmente e veramente è »
(Experience and Nature, cap. II, pag. 54). 3. In contrasto con possibilità,
potenzialità e talora anche con necessità, la parola significa attua- lità o
effettualità o ciò che si è attuato od effet- tuato e possiede l’esistenza di
fatto. Il termine tedesco Wirklichkeit, in distinzione da Realitàt, ha questo
senso specifico, per quanto non sempre i filosofi si attengono strettamente a
questa distin- zione. In questo senso la parola designa una delle categorie
della logica di Hegel: « La R. è l’unità immediata, che si è prodotta,
dell’essenza e del- l’esistenza o dell'interno e dell’esterno» (Enc., $ 142):
con che Hegel intende dire che la R. è l’essenza che si è attuata come
esistenza o l’interno che si è manifestato effettivamente nell’esterno. Sulla
distinzione di Wirklichkeit da Realitat insistette Lotze (Mikrokosmos, III,
pag. 535). N. Hartman ha a sua volta utilizzato la distinzione, scorgendo nella
effettualità (Wirklichkeit) il senso primario dell’essere (Mòoglichkeit und
Wirklichkeit, 1938) (v. ESSERE). REALTÀ PRESUNTIVA (ted. Prasumptive Wirklichkeit).
Così ha chiamato Husserl la R. delle cose nei confronti della « R. assoluta »
cioè neces- saria, della coscienza (/deen, I, $ 46). REAZIONE (ingl. Reaction;
franc. Réaction; ted. Reaktion). 1.
Un’azione uguale e di senso con- trario ad un’azione determinata. In questo
senso il termine è usato nella fisica newtoniana. 2. In psicologia: qualsiasi
risposta ad uno sti- molo. Tempo di reazione: l'intervallo di tempo tra lo
stimolo e la risposta. 3. In politica: il movimento che tende ad annul- lare o
neutralizzare gli effetti di una rivoluzione o di un mutamento qualsiasi; o
anche a rendere preventivamente impossibile ogni mutamento. RECETTIVITÀ (ingl. Receptivity; francese Reéceptivité;
ted. Receprivitàt). La capacità di
su- bire un'azione o di registrare l’effetto dell’azione subita. Kant chiamò R.
la capacità di rice- vere le impressioni e la contrappose al carattere attivo
della conoscenza che è fondato sulla « spon- taneità dei concetti» (Crit. R.
Pura, Logica tra- scendentale, Intr., I). RECETTORE (ingl. Receptor). Termine
della psicologia contemporanea per indicare qualsiasi organo o struttura con
cui l’organismo riceva gli stimoli. Sono R. tanto gli organi di senso (per es.,
l’occhio, l’orecchio, ecc.) quanto le strutture ner- vose che ricevono stimoli
dalla pelle, dai muscoli, dalle articolazioni, ecc. I primi sono chiamati
esterocettori, i secondi propriocettori. Talvolta si parla anche di
enterocertori per indicare i R. situati nei visceri. RECIPROCAZIONE (lat.
Reciprocatio; inglese Reciprocation). Nella logica del ’600, un modo di
confutazione che consiste nell’usare contro l’av- versario lo stesso argomento
di cui l’avversario si è avvalso: col che l’argomento stesso si dimostra
vizioso (cfr. JunGIUs, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 16, 20). RECIPROCITÀ
D'AZIONE (ingl. Recipro- city; franc. Reciprocité; ted. Wechselwirkung). È il
principio della connessione universale delle cose nel REALTÀ PRESUNTIVA mondo,
principio per il quale esse costituiscono una comunità, un tutto organizzato.
L'azione reci- proca non ha perciò nulla a che fare col principio di azione e
reazione enunciato da Newton. Kant fa dell’azione reciproca un principio puro
dell’in- telletto e vede in esso la terza analogia dell'espe- rienza (v.), la
quale si esprime dicendo « Tutte le sostanze, in quanto possono essere
percepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in un’azione reciproca
universale ». Come la succes- sione temporale trova il suo fondamento nella connessione
causale, così la simultaneità temporale trova il suo fondamento nella R.
d’azione tra le sostanze. Kant dice: «Senza comunità ogni per- cezione (dei
fenomeni nello spazio), sarebbe stac- cata dalle altre, e la catena delle
rappresentazioni empiriche, cioè l’esperienza, dovrebbe ricominciare daccapo ad
ogni nuovo oggetto, senza che la pre- cedente potesse minimamente collegarsi o
trovarsi con esso in rapporto temporale» (Crif. R. Pura, Analitica dei
princìpi, III, 3). Il senso della con- nessione reciproca è poi così chiarito
da Kant (loc. cit.): «La parola Gemeinschaft [= comunità] ha un doppio
significato, cioè può significare tanto communio, quanto commercium. Qui ce ne
serviamo nel secondo senso, come comunità dinamica, senza
la quale, anche quella spaziale (communio
spatii) non potrebbe mai essere conosciuta empiricamente ». Non c’è da
meravigliarsi che la filosofia della natura del Romanticismo abbia fatto tesoro
di questa nozione, di carattere così nettamente metafisico e spiritua- stico.
Schelling afferma (System des transzendentalen Idealismus, pag. 228) che « La
relazione di causalità non è costruibile senza l’azione reciproca +; e Hegel (Enc.,
$ 154 sgg.) vede nel passaggio dalla causalità all’azione reciproca il
passaggio dalla necessità allo svelamento della necessità, cioè alla libertà. Ciò
che questo significa è espresso con tutta chia- rezza da Lotze nel suo
Microcosmo (III°, pag. 482): « L’azione reciproca delle sostanze finite nel
mondo si può intendere soltanto se esse sono parti di una Sostanza infinita che
le abbraccia tutte in se stessa ». Questa nozione ricorre frequentemente nelle
conce- zioni spiritualistiche del mondo, e non è che la trascrizione, in
termini più moderni, di quella sim- patia universale (v. Simpatia) che le
concezioni magiche (v. MAGIA) ammettevano tra le cose del mondo. Non fa
meraviglia pertanto che Schope- nhauer affermasse che «l’azione reciproca non esiste
»; giacchè « essa presupporrebbe che l’effetto sia a sua volta la causa della
sua causa e che ciò che segue sia nello stesso tempo ciò che precede » (Uber
die vierfache Wurzel des Satzes vom zurei- chenden Grunde, 1813, $ 20). RECIPROCO
(ingl. Reciprocal; Converse; franc. Réciproque; ted. Reziprok). In logica si chiama
reciproca la proposizione ottenuta me- diante la conversione della proposizione
data, cioè mediante lo scambio del soggetto con il predi- cato. Il termine
latino tradizionale per tale pro- posizione è conversa, che fu adoperato da
Boezio (De syllogismo categorico, P. L., 64, col. 804; cfr. HAMILTON, Lectures
on Logic, II, pag. 259). Per «inversa» si intende invece comunemente la negativa
di una proposizione (v. CONVERSIONE). REDUPLICAZIONE (gr. iravadiràwa; la- tino
Reduplicatio; ingl. Reduplication; franc. Rédu- plication). Con questo termine
che significa predica- zione ripetuta, venivano indicate in logica alcune parole
usate per connettere il predicato al sog- getto quali come, in quanto, nella
qualità di, ecc. Ad es.: «l’uomo come animale è mortale». Le proposizioni in
cui ricorre la R. si chiamano redu- plicative (ARISTOTELE, An. Pr., I, 38, 49 a
26; Duns Scoro, In An. Pr., I, 35, in Opere, I, pag. 327 a; Jungius, Logica
Hamburgensis, II, 11, 22). REFERENTE. V. RIFERIMENTO. REGIME (lat. Regimen). In
generale, guida o direzione; o in particolare la guida e la direzione dello
Stato, il governo. REGIONE (ted. Region). 1. Termine adoperato da Husserl per
indicare «la superiore e completa unità di genere alla quale appartiene un
concreto » cioè «la totalità ideale di tutti gli individui pos- sibili di
un'essenza concreta » (/deen, I, $ 16). Ad es., «ogni oggetto empirico concreto
si inserisce, con la sua essenza materiale, in un genere mate- riale superiore,
cioè in una R. di oggetti empi- rici » (/bid., $ 9). Una regione in questo
senso è la natura (/bid., $ 10). Corrispondentemente, Husserl] parla di
«ontologia regionale » cioè ontologia che concerne le strutture di una
determinata regione. 2. In senso diverso, e connesso con la corri- spondente
nozione topologica (v. ToPoLoGia), il concetto è stato adoperato dalla
psicologia della forma. K. Lewin intende per R.: 1° ogni cosa in cui un oggetto
dello spazio di vita, per es., una persona, ha il suo posto o in cui si muove;
2° ogni cosa in cui si possono distinguere diverse posizioni o parti allo
stesso tempo o che è parte di un tutto più vasto. In base a questa definizione
la persona stessa è una R. nello spazio di vita e anche lo spazio di vita, come
un tutto, è una R. (Principles of Topo- logical Psychology, 1936, pag. 93). REGNO
(lat. Regnum; ingl. Realm; francese Royaume; ted. Reich). Termine introdotto in
filo- sofia da Bacone per indicare il dominio dell’uomo sulla natura (cfr. il
titolo della prima parte del Novum Organum: « Aforismi sull’interpretazione
della na- tura e sul R. dell’uomo »). Leibniz adoperò il ter- mine in un senso
diverso, come dominio o campo di validità di un principio; e parlò di un «R. 47
— ABBAGNANO, Dizionario di filosofiafisico della natura » e di un « R. morale
della grazia » (Mon., $ 87). Nello stesso senso Kant, parlò di un R. dei fini
(v. Fin), di un R. della libertà (cfr. Re- ligion, II, sez. ID; di un R. della
grazia e di un R. della natura (Crif. R. Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap.
II, sez. II). Più recentemente G.
Santayana ha adoperato il termine in signi- ficato analogo (Rea/ms of Being, 4
voll.: The Realm of Essence, The Realm of Matter, The Realm of Truth, The Realm
of Spirit, 1927-40). REGOLA (lat.
Regula; ingl. Rule; franc. Régle; ted. Regel). Si chiama R. qualsiasi
proposizione pre- scrittiva. Il termine è generalissimo e comprende le nozioni
più ristrette di norma, massima e legge. In questo senso definì la regola Wolff
come «una pro- posizione che enunci una determinazione conforme a ragione»
(Onrol., $ 475). E Kant analogamente affermava: « La rappresentazione di una
condizione generale cui un certo molteplice può essere sotto- posto si dice R.;
e, quando deve esservi sotto- posto, legge » (Crit. R. Pura, 1% ed., Deduzione dei
concetti puri dell’intelletto, 4). Questo signifi- cato generalissimo è rimasto
a caratterizzare la R. (v. Legge; Massima; NORMA). REGOLARITÀ (ingl. Regularity; franc. Régu- ralité;
ted. Regelmàssigkeit). In generale, confor- mità
alla regola. Kant vide nella R. la condizione nello stesso tempo del pensiero e
della realtà: « La R. che conduce al concetto di un oggetto è la con- dizione
indispensabile (conditio sine qua non) per percepire l’oggetto in un’unica
rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma» (Crit. del Giud.,
$ 22, nota). Kant considera la stessa na- tura in generale come «R. dei
fenomeni nello spazio e nel tempo » (Crif. R. Pura, $ 26) (v. Na- REGOLATIVO
(ingl. Regulative; franc. Régu- latif; ted. Regulativ). Kant chiamò R. l’uso
delle idee della ragion pura che le fa valere come semplici regole del lavoro
intellettuale, in contrapposto all’uso costi- tutivo di esse per il quale sono
considerate come co- stitutive dell’oggetto stesso dell’attività intellettuale.
«Io affermo che le idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo sicchè
per mezzo di esse possono essere dati i concetti di certi oggetti e che se sono
intese a questo modo sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Esse
hanno invece un uso R. eccellente e indispensabile: quello di indirizzare l’in-
telletto a un certo scopo in vista del quale le linee direttive di tutte le sue
regole convergono come in un punto: il quale sebbene non sia altro che un'idea (focus
imaginarius) cioè un punto da cui in realtà i concetti dell’intelletto non
muovono perchè esso è fuori dei limiti dell'esperienza possibile, serve nondimeno
a conferire a tali concetti la mag- giore unità con la maggiore estensione
possibile » (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica, Dell’uso regolativo,
ecc.) (v. IDEE). REGRESSIONE (ingl. Regression; franc. Ré- gresslon; ted.
Regression). In generale movimento inverso o ritorno. Spesso con significato
peggio- rativo di regresso cioè di un movimento opposto al progresso. Talvolta
è stato chiamato regressivo il metodo analitico e progressivo quello sintetico (cfr.
HamiLtoN, Lectures on Logic, II, pag. 7) (v. ANALISI). REGULA FIDEI. 1. Con
questa espressione si designa in teologia la regola che determina l’oggetto della
fede cioè il contenuto autentico della rivela- zione. Nella filosofia
patristica e scolastica, fu assunto come tale regola il « Simbolo degli
apostoli » (Symbolum Apostolorum) che comprendeva, oltre che il contenuto della
Bibbia, anche l’insieme della tradizione ecclesiastica (decisioni conciliari e
pa- pali, le opinioni degli scrittori approvati dalla Chiesa, ecc.) (cfr. M. GRABMANN, Die
Geschichte der scholastischen Methode, I, pag. 76 sgg.). Questa regola è rimasta valida per il cristianesimo
catto- lico mentre dal cristianesimo protestante è stata ristretta al contenuto
della Bibbia. La differenza tra cattolicesimo e protestantesimo s’impernia ap- punto
sulla differenza della regula fidei (v. RIFORMA). 2. Con la stessa espressione
si designa talora il principio che fa della fede la regola della verità. Così
questo principio viene espresso da S. Tom- maso: « Poichè la fede si fonda
sulla verità infalli- bile e poichè è impossibile dimostrare il contrario del
vero, è evidente che gli argomenti che si ad- ducono contro la fede non sono
dimostrazioni ma argomenti confutabili » (S. Th., I, q. 1, a. 8). REIFICAZIONE
(franc. Réification; ted. Ver- dinglichung). Termine adoperato da scrittori
marxisti per designare il fenomeno, sul quale Marx stesso aveva insistito per
il quale, nell’economia capita- listica, il lavoro umano diventa semplicemente l’attributo
di una cosa: «L’arcano della forma della merce consiste semplicemente nel fatto
che tale forma rimanda agli uomini, come uno specchio, i caratteri sociali del
loro proprio lavoro trasfor- mati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro,
in proprietà sociali naturali delle cose pro- dotte e quindi rispecchia anche
il rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo come un rap- porto
sociale di cose, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante
questo qui pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibil- mente
sopra sensibili, cioè cose sociali » (Kapiral, I, I, $ 4). Il termine R. per
indicare questo processo è stato usato e diffuso da G. Lukacs (cfr. Geschichte und
Klassenbewusstsein, 1922; traduzione francese, 1960, pag. 110 sgg.). RELATIVISMO
(ingl. Relativism; franc. Relati- visme; ted. Relativismus). La dottrina che
afferma la relatività della conoscenza, nel senso che fu dato a questa
espressione nel sec. xIx e cioè: 1° come azione condizionante del soggetto sui
suoi oggetti di conoscenza; 2° come azione condizionante reci- proca degli
oggetti di conoscenza. Questo duplice condizionamento d’ogni oggetto di
conoscenza fu per la prima volta assunto come fondamento del R. da W. Hamilton:
che insisteva da un lato sul fatto che tutti gli oggetti esistenti pos- sono
essere conosciuti solo in rapporto con le facoltà umane e sotto condizioni
determinate da queste facoltà stesse (Lectures on Metaphysics, I, 1870, 5* ed.,
pag. 148); dall'altro sulla condizio- nalità che gli oggetti di conoscenza
esercitano l’uno sull’altro (Discussion on Philosophy, 1852, pag. 13). Sul
fondamento di questi due punti (che non avevano niente di originale, perchè
possono essere agevol- mente riconosciuti come le tesi più generiche del- l’empirismo
e del criticismo) Hamilton affermava, nello stesso tempo, l’inconoscibilità
dell’Assoluto e l’esistenza di esso, giacchè si può credere anche in ciò che
non si conosce (Lectures, cit., II, pag. 530- 531). Queste tesi venivano
utilizzate per un’apolo- getica religiosa da E. L. Mansel (Philosophy of the Conditioned,
1866). Ma a diffonderle fu soprattutto il positivismo che, con Spencer,
accettava il punto di vista di Hamilton ammettendo la relatività della conoscenza
umana, l’inconoscibilità dell’Assoluto, e l’esistenza di esso (First
Principles, 1862, $ 23 sgg.). AI di fuori del positivismo, il R. è stato accet-
tato da alcune correnti del neo-criticismo e del prag- matismo. Nell’ambito del
primo C. Renouvier nei Essais de Critique Générale (1854-64) insisteva sulla relatività
del fenomeno, che non sussiste se non in rapporto ad altri fenomeni e in
rapporto al sog- getto conoscente (Essais, I, pag. 50 sgg.); e G. Simmel affermava
che « il R. si può formulare così, in rife- rimento ai princìpi della
conoscenza: i principi costi- tutivi fondamentali, esprimenti una volta per
tutte l’essenza delle cose, diventano princìpi regolativi, i quali sono
soltanto punti di vista per il progre- dire del conoscere » (Philosophie des
Geldes, 1900, pag. 68). Nell’ambito del pragmatismo, il R. veniva difeso da F.
C. S. Schiller; e diventava, da questo punto di vista, la negazione di ogni
verità « asso- luta » o «razionale» e il riconoscimento che la verità è sempre
relativa all'uomo cioè valida perchè utile a lui: onde Schiller vedeva nel
detto di Pro- tagora «l’uomo è misura di tutte le cose» la più grande scoperta
della filosofia (Studies in Humanism, 1902, pag. x sgg.). L’antica sofistica,
lo scetticismo e (parzialmente) l’empirismo e il criticismo diven- tavano da
questo punto di vista manifestazioni di un R. che andava in cerca dei suoi
precedenti e tentava di crearsi una tradizione. Ma in realtà il R. è stato
fenomeno moderno, legato alla cul- tura del sec. xrx, ed ha costituito una
specie di capovolgimento della filosofia dogmatica di questo secolo,
capovolgimento che ha gli stessi presup- posti di essa. Ciò si vede assai bene
nella mani- festazione estrema (la sola autentica) del R., cioè nella dottrina
esposta da O. Spengler nel suo libro Il tramonto dell'Occidente (1918-22): nel
quale si af- ferma la relatività non solo della conoscenza ma di tutti i valori
fondamentali della vita umana alle epoche della storia, considerate come entità
orga- niche ognuna delle quali cresce, si sviluppa e muore senza rapporto con
l’altra. Da questo punto di vista, la relatività investe non solo la verità
reli- giosa e filosofica ma anche quella morale e scien- tifica «Ogni cultura,
diceva Spengler, ha il suo proprio criterio, la cui validità comincia e finisce
con esso. Non vi è alcuna morale umana univer- sale » (Der Untergeane des
Abendlandes, I, cap. I, pag. 55). In questa forma, che è la sola rigorosamente coerente,
il R. afferma la relatività dei valori solo perchè considera necessario il
rapporto tra i valori stessi e l’epoca storica cui appartengono negando la
possibilità che essi possano relativizzarsi ad altri uomini, epoche e
circostanze, riuscendo così ad ottenere una autonomia parziale che smentirebbe il
relativismo. Lo stesso punto di vista si trova spesso difeso in quello che oggi
si chiama il R. culturale, il cui punto di partenza è il riconosci- mento della
diversità dei costumi e delle norme che vigono nell’ambito di culture diverse.
Questo R. ha radici remote (Erodoto, Protagora, e i Di- scorsi doppi, un testo
di ispirazione sofistica, forse della prima metà del sec. Iv a. C.); ma è ora
ap- poggiato dal riconoscimento, pressochè universale, della pluralità e della
eterogeneità delle culture. Ha difeso questo R. nella sua forma estrema
Herskovits (Cultural Anthropology, 1955); su di esso vedi il volume collettivo
Relativism and the Study of Man, a cura di ScHOECK e WicciNS, 1961). RELATIVITÀ,
TEORIA DELLA (inglese Theory of Relativity; franc. Théorie de la relativité; ted.
Relativitàtstheorie). Con questo termine s’in- tendono due corpi di dottrina
formulati da Ein- stein di cui il primo nel 1905 col nome di R. spe- ciale e il
secondo nel 1913 con il nome di R. generale. La relatività speciale s’impernia
sul rico- noscimento che la scelta di un sistema di riferi- mento,
indispensabile per effettuare misure, può influenzare i risultati di queste
misure; e che non essendoci un sistema di riferimento privilegiato (o «assoluto
1), come aveva creduto la fisica clas- sica, è indispensabile da un lato
specificare il sistema rispetto al quale la misura viene eseguita, dall’altro trovare
formule di trasformazione che rendano valide tali misure anche per altri
sistemi. La R. generale è sostanzialmente l’estensione del principio di R. a
tutti i sistemi, oltre che a quelli inerziali per i quali vale la R. speciale;
ed è perciò, sostanzialmente una teoria della gravitazione che riduce la
gravitazione stessa a una deformazione del continuo quadri- mensionale dello
spazio-tempo (cfr. A. EINSTEIN, L. INFELD, The Evolution of Physics, 1938;
tradu- zione italiana, 1950; e, per la bibliografia, il volume dedicato a
Einstein nella collezione « Living Philosophers » di Schilpp, 1949). La teoria
della R. ha avuto numerose interpre- tazioni filosofiche. Una di esse è quella
relativi- stica, che l’ha intesa come una conferma del re- lativismo filosofico
(cfr., ad es., A. ALIOTTA, // relativismo, l’idealismo e la teoria di Einstein,
1948). Un'altra è quella idealistica o spiritualistica che è stata difesa
specialmente da A. Eddington (The Nature of the Physical World, 1928; The
Philosophy of Physical Science, 1939). Ma in realtà la teoria della R. si
presta a interpretazioni filosofiche meno ancora delle teorie classiche. La R.
di cui essa parla non ha niente a che fare con la R. del relativismo: una
misura è bensì relativa ma non all’uomo o al soggetto conoscente, bensì al
sistema di riferimento e può essere espressa anche in base ad altri sistemi. Nè
la teoria della R. è più soggettivistica o ideali- stica della fisica classica.
La più importante lezione che la filosofia può trarre da essa è una lezione di metodo,
e può essere desunta dalle seguenti parole di Einstein: « Per il fisico, un
concetto ha valore soltanto quando è possibile discernere se esso nel caso
concreto conviene o no. Ci occorre perciò una definizione della contemporaneità
la quale fornisca il metodo per riconoscere mediante espe- rimenti se i due
colpi di folgore sono stati contem- poranei o no. Finchè questa condizione non
sia adempiuta, io come fisico (e anche come non fisico) mi affido a
un'illusione se credo di poter annettere un significato alla espressione di
contemporaneità + (Uber die spezielle und die allgemeine Relativitàts- theorie,
1917, $ 8; trad. ital., pag. 18). Queste parole esprimono l’esigenza generale
che una proposizione qualsiasi, per essere valida, deve poter essere attestata o
provata con metodo adatto (v. SIGNIFICATO). RELATIVO (lat. Relativus; ingl.
Relative; fran- cese Relatif; ted. Relativ). 1. Ciò che entra in una relazione
o funge da termine di una relazione. In questo senso si dice «il fenomeno x è
R. a y come a sua causa ». 2. Un termine che non ha significato, o non ha significato
esatto, se non in riferimento ad un altro termine. In questo senso « maggiore
+, « minore », « doppio », ecc., sono R. perchè si dicono sempre in riferimento
a qualche altra cosa. 3. Ciò che vale soltanto in determinate circo- stanze o
condizioni e non vale fuori di esse. In questo senso si dice che la conoscenza
è R. o che sono R. i valori; e che l’opposto di R. è l’« asso- luto » o 1°
incondizionato ». 4. Ciò che è una relazione o concerne una re- lazione. In
questo senso si dice, ad es., che «la conoscenza è R.» intendendo che essa
consiste nello stabilire relazioni tra dati. Ma l’aggettivo relazionale (v.) è
in questo caso più adatto. 5. Come sostantivo il termine è usato da Schroder (Algebra
der Logik, 1895) e da Peirce (Coll. Pap., 3.456-526: «The Logic of Relatives»,
1897). In questo senso il termine è sinonimo di relazione. RELAZIONALE (ingl.
Relational; tedesco Relational). Ciò che è una relazione o concerne una
relazione. L'aggettivo esclude il significato re- lativistico che il termine
relativo (v.) può avere. Esso è pertanto usato di preferenza dai filosofi che, pur
insistendo sull’importanza della relazione, non intendono giungere a
conclusioni relativistiche. N. Hartmann ha distinto a questo proposito re- lazionalità
da relatività: i valori, ad es., sono in relazione con l’uomo e con il suo
mondo senza perdere la loro irrelativa assolutezza (Erhik, 1949, pag. 140). Il
termine relazionismo è stato usato in Italia per indicare una filosofia che
consideri la relazione come il fatto essenziale dell’universo e dell'uomo, ma
senza implicazioni relativistiche (cfr. E. Paci, Dall’esistenzialismo al
relazionismo, 1957, pag. 45 e passim). RELAZIONE (gr. tò npéc ni; lat. Ad
aliquid, Relatio; ingl. Relation; franc.
Relation; ted. Re- lation). Il modo d’essere o di
comportarsi degli oggetti tra loro. Questa definizione non è che un semplice
chiarimento verbale del termine, che non può essere altrimenti definito in
generale, cioè fuori delle interpretazioni specifiche che i filosofi ne hanno
dato. Questa è d'altronde la definizione rettificata che Aristotele dette della
R.: come ciò «il cui essere consiste nel comportarsi in un certo modo verso
qualcosa » (Car., 7, 8 a 33); che so- stanzialmente coincide con quella di
Peirce: «La R. è un fatto circa un numero di cose » (Coll. Pap., 3.416). I due
problemi fondamentali ai quali il con- cetto di R. ha dato origine e dalle cui
soluzioni dipendono le determinazioni del concetto stesso, sono i seguenti: 1°
Devono essere considerate in- cluse, nel concetto di relazione, le
determinazioni sostanziali (essenziali e qualitative) o tali deter- minazioni
devono essere escluse dal concetto stesso? 2° Costituiscono le R. entità reali
o sono soltanto entità mentali? I problemi sono, ovviamente, inter- dipendenti
e sul fondamento delle risposte colle- gate che essi hanno ricevuto nel corso
della storia si possono distinguere tre dottrine fondamentali: A) quella che
ammette l’oggettività e la realtà delle R.; 8) quella che nega la realtà e
l’ogget- tività delle R.; C) quella che ammette l’ogget- tività delle R. ma non
la loro realtà. A) Platone ammise certamente l’oggettività delle R. ma è dubbio
se ne ammettesse la realtà. «Io credo che tu ammetta, egli disse, che di alcuni
degli enti si debba dire che sono unicamente per sè e di altri invece che sono
sempre in R. con altri » (Sof., 255 c-d). Però gli enti in R., come il diverso e
l’identico, non sono l'essere (/bid., 255 c-d): il che potrebbe anche voler
dire che non hanno esistenza o realtà, come tali. La dottrina di Ari- stotele è
ugualmente confusa su questo punto. Aristotele distinse tre specie di R.: 1° le
R. quan- titative, come quelle espresse da doppio, metà, ecc.; 2* le R.
potenziali che consistono in una potenza attiva o passiva, come l’esser causa o
causato, il tagliare o l’essere tagliato, ecc.; 3* le R. che hanno il loro
termine in un oggetto reale, come la mi- sura rispetto al misurabile, il
conoscere rispetto al conoscibile, la sensazione rispetto al sensibile (Met.,
V, 15, 1020 b 25). Questa distinzione sembra già implicare l’esistenza di R.
reali, quelle della specie 2* e 38; e infatti Aristotele stesso dice che: «alcune
R. si trovano di necessità dentro o in- torno alle cose cui sono riferite » e
che «tale è il caso della disposizione, del possesso e della sim- metria »
(Top., IV, 4, 125 a 33). Tuttavia buona parte del capitolo delle Caregorie
dedicato alle R. dibatte il problema se fra le R. ci siano sostanze; e la
conclusione, sebbene non categorica, è nega- tiva: certamente non ci sono fra
le R. sostanze prime e anche le sostanze seconde difficilmente si può dire che
siano R. (Car., 7, 8 b 15). Inoltre uno degli argomenti addotti da Aristotele
contro la dottrina delle idee è che essa condurrebbe ad ammettere la realtà
delle R.: laddove «la R. è meno di tutte le cose o natura o sostanza, vien dopo
la qualità e la quantità ed è piuttosto una de- terminazione della quantità,
come è stato detto, ma non materia +» (Mer., XIV, 1, 1088 a 21). In questo caso
Aristotele considera ovviamente soltanto le R. di specie 1*; ma la sua
affermazione non è condizionata da alcuna limitazione. Non fa me- raviglia
perciò che ad Aristotele si siano in se- guito appellati sia coloro che
negavano sia coloro che affermavano la realtà delle relazioni. Plotino riprodu-
ceva la dottrina di Aristotele con le stesse confusioni (Enn., VI, 1, 6). La
scolastica cristiana la stiliz- zava nella distinzione tra R. di ragione, R.
poten- ziale e R. reale, distinzioni che corrispondono esat- tamente
allespeciedistinte da Aristotele. Ma la scolastica cristiana aveva interesse
per motivi teo- logici, dovendo utilizzare il concetto di R. per il chiarimento
del dogma della trinità, ad ammettere la realtà delle R.; e questa era la tesi
difesa da S. Tommaso contro «coloro che affermarono la R. non esser cosa di
natura ma solo di ragione »; tesi che S. Tommaso dichiarò falsa perchè « le
stesse cose hanno l’una rispetto all’altra un ordine o una disposizione
naturale » (S. 7%., I, q. 13, a. 7). Su questa base S. Tommaso riesponeva le
distinzioni aristoteliche, difendendo il carattere reale delle R. in cui la
scienza e la sensibilità consistono, in quanto tali R. «sono ordinate a
conoscere o a percepire le cose» (/bid.). Le R. di ragione sono soltanto quelle
nelle quali entrambi i termini sono enti di ragione, cioè quelle che si hanno «
quando l'ordine o la disposizione non ci può essere se non secondo
l’apprensione della ragione come nel caso in cui si dice che una cosa è
identica all’altra » (Ibid.). Ma affermare la realtà delle R. significa privi- legiare
un certo tipo di R. cioè modellare tutte le R. sulle relazioni delle specie 22
e 3* aristoteliche o più precisamente significa considerare ogni tipo di R.
come una potenzialità o disposizione o una condizione o uno stato dei termini
relativi. Su questa natura della R. insistette, alla fine del se- colo x, Duns
Scoto, che avanzò la dottrina della R. come respectus: un termine che intende
tra- durre la parola greca oytow (usata, per es., da SimpLICIO, Ad Car., 61 B)
e significa disposizione. L'argomento principale addotto da Duns Scoto in favore
della sua teoria era che, se non si ammette un tale respecius non si riesce a
comprendere la composizione degli enti: giacchè se l’unione di a e b non è che
gli stessi a e 5 assoluti, il composto di a e b non differisce in nulla da a e
5 separati, perciò non è un composto (Op. Ox., II, d. 1, q. 4, n. 5). La
dottrina veniva seguita da tutti gli scrittori sco- tisti, ma combattuta da
Ockham e dai nomina- listi e terministi del sec. x1v (v. oltre). Nel sec. XVII Jungius
ancora faceva appello a tale dottrina, con- siderando la R. come habitudo o
respectus (Logica Hamburgensis, I, 8, 4). In epoca moderna, al pro- blema delle
R. è stata data un’impostazione ana- loga a quella di Duns da F. H. Bradley, il
quale ha mostrato che le R. non possono essere intese se non come attributi del
relativo e quindi come consistenti in una qualità o modificazione dei ter- mini
relativi. Ma in un modo o nell’altro la relazione è incomprensibile perchè non
fa che pre- dicare l’identico del diverso o il diverso dell’iden- tico
(Appearance and Reality, 1902, 2* ediz., pag. 21 seguenti). Questa dottrina
cosiddetta delle « R. in- terne » è stata specialmente combattuta dai logici matematici.
B) La seconda dottrina fondamentale della R. è quella che nega l’oggettività e
la realtà di esse e le considera accidentali o soggettive. Tale dottrina fu
presentata per la prima volta da Avicenna, che riproduceva un punto di vista
difeso dalla setta maomettana dei Motakallimun e si avvaleva di corrispondenti
tesi aristoteliche. Diceva Avicenna: « Se si pone che una R. esista, subito
bisogna dire che essa è un accidente, giacchè non vi è dubbio che non si può
intendere di per sì ma sempre di qualcosa rispetto a qualcosa » (Mer., III,
10). Af- fermare il carattere accidentale delle R. equivaleva per Avicenna a
negarne la realtà: giacchè, come accidenti, le R. non sono sostanze. Quando nel
sec. xIV questa dottrina fu ripresa da filosofi nomi- nalisti e terministi,
assunse la forma di una ridu- zione della R. a pura sentità di ragione», priva di
realtà o fondamento fuori dell'anima umana. Tale è la dottrina sostenuta da
Enrico di Gand (Quodl., IX, q. 3; V, q. 6), Herveus Natalis (Quodi., I, q. 9) e
Pietro Aureolo. Quest'ultimo affermava: «La R. non ha esistenza nelle cose, prescindendo
da ogni apprensione intellettivo-sen- sibile, ma esiste oggettivamente solo
nell’anima poichè nelle cose non ci sono se non fondamenti e termini:
l’abitudine e la connessione delle cose deriva dall'anima conoscitiva » (Z1
Sent., I, d. 30, q. 1). Questo fu pure il punto di vista difeso da Ockham il
quale istituì una critica minuziosa della dottrina del respectus. Secondo
Ockham questa dottrina moltiplicherebbe le entità all’infinito: «Col movimento
del mio dito riempirei tutto l’universo, il cielo e la terra, di nuovi
accidenti: giacchè mutando la posizione del dito rispetto alle altre parti del
cielo vi sarebbero altrettanti nuovi respectus in queste parti che sono
infinite e quindi infiniti nuovi accidenti» (Quod!. VII, q. 8; In Sent., II, q.
2, Y). Ogni corpo conterrebbe per motivi analoghi infinite realtà: giacchè ogni
corpo può essere considerato doppio rispetto alla sua metà e questa metà doppia
della sua metà e così via (Quodl., VI, q. 10; Summa Log., I, 50). Ockham tuttavia
non afferma il carattere puramente men- tale delle R., come aveva fatto
Avicenna (v. oltre). Questa dottrina si riaffacciò nell’ambito del carte- sianesimo.
Fu difesa da Locke che considerò le R. come idee complesse, consistenti « nel
considerare e confrontare un’idea con un’altra» (Saggio, II, 12, 7); e
riconobbe esplicitamente il carattere soggettivo di esse, pur non escludendo il
loro rife- rimento alle cose. « Poichè i modi misti e le R. non hanno altra
realtà da quella che posseggono nello spirito umano, a rendere reali questa
specie di idee altro non si richiede se non che siano così foggiate che vi sia
la possibilità di un'esistenza conforme ad esse » (/bid., II, 30, 4). Leibniz a
sua volta affermava che la realtà delle R. è mentale o fenomenica (Nouv. Ess.,
II, 12, 7) e che pertanto esse «hanno una realtà dipendente dallo spirito, come
le verità, ma non dallo spirito degli uomini, perchè c’è un'intelligenza
suprema che le determina tutte in tutti i tempi » (/bid., II, 30, 4). In
conformità di questo stesso concetto, Wolff definiva la R. come «ciò che non
conviene alla cosa assolutamente ma che s'intende solo quando essa viene
riferita ad altro» (Logica, $ 856); e aggiungeva che la R. « non aggiunge
alcuna realtà all’ente » (/bid., $ 857). La soggettività delle R. è poi il
principio fondamen- tale del kantismo (« Se sopprimessimo il nostro sog- getto
o anche solo la natura soggettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutte
le R. fra gli og- getti nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il
tempo sparirebbero» Crit. R. Pura, $ 8); e sullo stesso principio (il più delle
volte assunto implicitamente) è fondata buona parte della filo- sofia
contemporanea. C) La terza concezione fondamentale delle R.
è quella che le considera come non reali
ma og- gettive. Ockham che è stato il più deciso critico della realtà delle R.
ne aveva anche affermato, a suo modo, il carattere oggettivo. « Non è l’intel- letto,
egli diceva, che rende Socrate simile a un altro, più che non sia l’intelletto
a renderlo bianco » (In Sent., I, d. 30, q. 1 P): il che vuol dire che la relazione,
come intenzione o concetto dell’anima, si riferisce a più cose isolate o è più
cose isolate «come il popolo è più uomini e nessun uomo è popolo » (/bid.).
Tuttavia in queste affermazioni, come in quelle di Locke e di altri che
insistevano sul riferimento oggettivo della R. (come concetto o idea) tale
riferimento è inteso come riferimento alla realtà. La caratteristica della
dottrina moderna in pro- posito è che la oggettività della R. non implica la
sua realtà: cioè che il riconoscimento che la R. sia oggettiva non significa
che essa interceda in ogni caso tra cose o entità reali. Questo senso della R.
è strettamente connesso col significato che l’essere predicativo ha assunto
nella logica contemporanea (v. EsseRE). Da questo punto di vista l’intera mate-
matica e l’intera logica sono state definite « scienze delle R.+ (v. Logica;
MATEMATICA). In partico- lare, per ciò che riguarda la logica, sia il ca/colo proposizionale
sia quello delle classi possono essere considerati come vertenti esclusivamente
su R.: dal momento che R. sono i connettivi: e, o, non, se... allora di cui si
occupa il calcolo proposizionale; e R. sono le entità di cui si occupa
l’algebra delle classi. Tuttavia il calcolo delle R. costituisce anche una
branca specifica della logica contemporanea, branca che è stata fatta avanzare
specialmente da E. Schròder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce {The Logic of
Relatives, 1897, Coll. Pap., 3.456-526) In questo senso ristretto, si intendono
per R. le funzioni proposizionali diadiche o poliadiche cioè a due o più
variabili, che sono scritte nella forma f (x, }) 0, più frequentemente, nella
forma xRy. Le caratteristiche più generali della R. in questo senso sono le
seguenti: 1° Se R è tale che intercede non solo tra x e y ma anche tra y e x,
la R. si dice simmetrica. È, ad es., simmetrica la R. fra due fratelli. Nel
caso contrario la R. si dice asimmetrica. Le R. « prima», « dopo », «a sinistra
di» sono asimmetriche. 2° Se R è tale che quando x ha la R. R ayeyhalaR. Ra z,
anche x halaR. Raz, si dice transitiva. Sono transitive le R. « minore », 4
precede », «a sinistra»; è intransitiva la R. di paternità. 3° Se R è tale che
nessun termine sta nella R. R con se stesso, la R. si dice aliorelativa. Sono aliorelative
le R. « fratello +, « marito », « padre », ecc. 4° Se R è tale che, dati due
diversi termini del campo, x e y, può intercedere tra x e y o tra yexotraxe
yetra yex, la R. si dice coerente. È coerente la R. «maggiore o minore», non è coerente
la R. «antenato ». 5° Il termine x che ha la R. R ad uno 0 più termini (y,
z...) si chiama dominante; mentre si chiamano dominanti inversi i termini con
cui il termine x ha la R. R cioè i termini y, z, ecc. Nella R. di « paternità
», padre è il dominante, figli sono i dominanti inversi. 6° Il campo di una R.
consiste nell’insieme del dominante e dei dominanti inversi. Nel caso della R.
di paternità, il campo è l’insieme padre-figli. 7° Si dice che una R. ne
implica un’altra, se questa è valida ogni qualvolta che la prima è valida. Queste
nozioni elementari definiscono la natura oggettiva, tuttavia non reale, delle
R. così come sono costantemente adoperate dalla logica e dalla matematica
contemporanee. Si tratta di caratte- ristiche che generalizzano al massimo la
nozione di R., permettendo di includere in essa, e di chia- rire con essa, i
concetti più disparati (cfr. WHI- TEHEAD and RUSSELL, Principia mathematica,
vol. I, 1925). Per un’esposizione sommaria della nozione delle R. in ordine ai
concetti fondamentali della matematica cfr., dello stesso RUSSELL, Introduction
to Mathematical Philosophy, 1918; trad. ital., 1947. Per gli aspetti matematici
cfr. W. v. O. QuInE, Me- thods of Logic, 1952, specialmente $ 40. RELIGIONE (lat. Religio; ingl. Religion; fran- cese Religion; ted.
Religion). La credenza in una garanzia soprannaturale offerta all'uomo per la propria
salvezza; e le tecniche dirette a ottenere o conservare questa garanzia. La
garanzia, cui la R. fa appello, è soprannaturale nel senso che va al di là dei
limiti cui possono giungere i poteri ri- conosciuti propri dell’uomo; che
agisce 0 può agire anche là dove tali poteri sono riconosciuti impotenti; e che
il suo modo d’azione è misterioso o imperscrutabile. L'origine soprannaturale
della garanzia non implica necessariamente che essa sia offerta da una divinità
e che pertanto il rapporto con la divinità sia necessario alla R.: in realtà esistono
R. atee; e tale fu il buddismo pri- mitivo, ripreso o difeso in questo suo
carattere anche da scuole posteriori (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia
indiana, pag. 71 sgg.; 312 sgg.). Inoltre la determinazione del rapporto
dell’uomo con la divinità, quindi il compito di dimostrare l’esistenza di essa
e di chiarire i suoi caratteri e le sue fun- zioni nei confronti dell’uomo e
del mondo, è stato spesso ritenuto proprio della filosofia più che della R.; e
l’assolvimento di quel compito può anche avere carattere anti-religioso, come è
accaduto nel- l’epicureismo che ha inteso stabilire nello stesso tempo
l’esistenza della divinità e la sua indifferenza al mondo e agli uomini,
regolando su questa base i rapporti di essa con l’uomo (EPICURO, Lettera a Meneceo,
123-24; FILODEMO, De pietate, pag. 122; fr. 38, Usener). Dall'altro lato questo
stesso rap- porto tra l’uomo e Dio è oggi, da alcuni teologi, ritenuto proprio
della fede anzichè della R. perchè indipendente dalle forme mitiche che la R.
ha as- sunto ed è costitutivo dell’esistenza umana nel mondo (v. FepE; Dro;
Dio, MORTE DI). In ogni caso, la salvezza di cui la R. intende essere la
garanzia, non è necessariamente la sal- vezza da questo o quel male o dai mali
del mondo: può anche essere una salvezza dal mondo consi- derato come un male
nella sua totalità, come in- fatti accade nello stesso buddismo. Nella
definizione proposta, inoltre, occorre sottolineare la differenza tra la
credenza nella garanzia soprannaturale e le tecniche dirette a ottenere o
conservare tale ga- ranzia. Per tecniche s’intendono tutti gli atti o le pratiche
del culto: preghiera, sacrificio, rito, ceri- monia, servizio divino o servizio
sociale. La cre- denza nella garanzia soprannaturale è l’atteggia- mento
religioso fondamentale che può anche essere semplicemente interiore o privato e
costituisce la religiosità individuale; le tecniche dirette a ottenere e
conservare quella garanzia costituiscono invece il lato oggettivo e pubblico
della R., il suo aspetto istituzionale. Una R. naturale è costituita sempli- cemente
da quell’atteggiamento; una R. positiva è costituita essenzialmente da queste
tecniche. Il concetto di R. comprende tuttavia entrambi gli aspetti.
Etimologicamente, la parola significa probabilmente « obbligazione +; ma
Cicerone la fece derivare da relegere: « Quelli che compivano con accortezza
tutti gli atti del culto divino e per così dire li rileggevano attentamente,
furono detti religiosi da relegere, come eleganti da elegere, diligente da
dili- gere e intelligenti da intelligere; infatti in tutte queste parole si
nota il medesimo valore di /egere che c’è in R.» (De nat. deor., JI, 28, 72). Lattanzio invece (/nsr. Div., IV, 28) e S. Agostino
(Retract., I, 13) fanno derivare la parola da religare; e Lattanzio cita a questo
proposito l’espressione di Lucrezio « scio- gliere l'animo dai nodi della R.»
(De nat. rer., I, 930). È pure da notare che il greco non possiede l’esatto
equivalente della parola latina e moderna. Aarpela significa servizio divino e
si riferisce per- tanto solo al secondo degli elementi della reli- gione. S.
Agostino (De Civ. Dei, X, 1) stabiliva la corrispondenza tra religio e
Opnorele; ma anche questa parola si riferisce esclusivamente alle tecniche della
religione. Le diverse definizioni che sono state date della R. possono essere
classificate sul fondamento dei due fondamentali problemi cui esse rispondono
cioè: I. Sul fondamento del problema dell’origine della R. che è poi in realtà
il problema del tipo di validità propria della R.; II. Sul fondamento del
problema della funzione riconosciuta propria della R. cioè del carattere
specifico della garanzia che essa offre alla salvezza dell’uomo. I. Come accade
anche in altri casi, il problema dell’origine è in realtà il problema del tipo
di vali- dità che s’intende riconoscere alla R. stessa. Si possono distinguere
tre soluzioni di questo pro- blema cioè: 1° la dottrina dell’origine divina
della R.; 2° la dottrina dell’origine politica della R.; 3° la dottrina
dell’origine umana della religione. 1° La dottrina dell’origine divina della R.
esprime il riconoscimento del valore assoluto (0 infinito) della R. stessa.
Ovviamente, la pretesa di un’origine soprannaturale o divina è intrinseca ad ogni
R. giacchè ogni R. pone a suo fondamento una rivelazione originaria che ne
garantisca la verità oppure considera come continuamente con- fermate da
testimonianze soprannaturali le credenze e le istituzioni con cui si
identifica: il che vale lo stesso. Perciò, dal punto di vista della filosofia il
riconoscimento dell’origine divina o del valore assoluto della R., si effettua
mediante la tesi che la R. è rivelazione. Questa tesi è, si può dire, nien- t’altro
che l’espressione filosofica del valore asso- luto che la R. riconosce a se
stessa. Questo punto di vista è stato espresso con tutta chiarezza da Hegel: «
Nel concetto della vera R., egli ha detto, cioè di quella il cui contenuto è lo
Spirito asso- luto, è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, cioè
rivelata da Dio» (Enc., $ 564). Ed Hegel ag- giunge che «se a Dio si nega la
rivelazione non resterebbe altro contenuto da attribuirgli che l’in- vidia. Ma
se la parola spirito deve avere un sensoesso significa la rivelazione di sè»
(/bid., $ 564). Non diverso da questo è il concetto che della R. dette Schleiermacher:
«L'universo è un'attività ininter- rotta e ci si rivela in ogni momento. Ogni
forma che esso produce, ogni essere al quale dà, per la pienezza della sua
vita, un'esistenza particolare, ogni avvenimento che esso partorisce dal suo
seno sempre ricco e fecondo, è un’azione che esso eser- cita su di noi; e così
accettare ogni cosa partico- lare come una parte del Tutto, ogni cosa finita come
un’espressione dell’Infinito, in ciò consiste la R. + (Reden iiber die
Religion, 1799, II; traduzione ital., pag. 39). La stessa dottrina si può
esprimere dicendo che la R. è l’esperienza del divino e che essa, come ogni
esperienza, rivela la realtà del suo oggetto. Questo è il concetto che Bergson
dette della R. autentica cioè del misticismo: «Se le so- miglianze esteriori
tra i mistici cristiani possono dipendere da una comunanza di tradizioni e di insegnamenti,
il loro accordo profondo è segno di una identità di intuizione che si può
spiegare più semplicemente con l’esistenza reale dell’essere con cui si credono
in comunicazione» (Deux sources, III; trad. ital., pag. 270-71). 2° La dottrina
dell’origine politica della R. riduce la R. stessa ad uno stratagemma politico:
perciò riduce a zero il valore intrinseco di essa. Questa dottrina fu per la
prima volta sostenuta da Critia, uno dei trenta tiranni di Atene. Secondo Critia
«gli antichi legislatori finsero la divinità come una specie di ispettore delle
azioni umane, sia buone che cattive, affinchè nessuno recasse ingiuria o tra- dimento
al suo prossimo, per paura di una vendetta degli dèi ». Questo stratagemma fu
reso necessario dal fatto che « le leggi distoglievano bensì gli uomini dal
compiere aperte violenze ma che essi le com- mettevano di nascosto » sicchè «
un qualche uomo ingegnoso ed esperto inventò per gli uomini il timore degli dèi
onde ci fosse uno spauracchio per i mal- vagi anche per quello che di nascosto
facessero, di- cessero o pensassero » (Sesto EMmP., Adv. Math., IX, 54).
Concezioni analoghe ricorrono di tanto in tanto nella storia della filosofia:
si possono riconoscere nel libertinismo e in talune correnti del- l’illuminismo
e del marxismo. 3° La dottrina dell’origine umana della R. è quella che la
considera come una formazione umana, che ha le sue radici nella situazione del-
l’uomo nel mondo. Questa dottrina non è impe- gnata ad attribuire alla R. una
validità determinata: è piuttosto impegnata a comprenderla come un fe- nomeno
umano ed a esprimerla in un concetto abbastanza esteso da comprendere le sue
manife- stazioni disparate. La considerazione della R. da questo punto di vista
si è orientata verso due tipi di spiegazione. Il primo ha considerato la
religione come una forma di appagamento del bisogno feo- retico cioè del
bisogno di conoscenza. Il secondo ha considerato la religione come suggerita
all’uomo dalla situazione in cui egli viene a trovarsi nel mondo e cioè,
sostanzialmente, dai suoi bisogni pratici. Una soluzione del primo tipo fu
quella data da Epi- curo che vedeva l’origine della R. nelle immagini dei sogni
e nel bisogno dell’uomo di spiegare la regola- rità dei movimenti celesti
(LUCREZIO, De nat. rer., V, 1167 sgg.). La R. sarebbe contemplativa più che pratica.
Fu Hobbes il primo a riconoscere la sua origine pratica. Facendo proprio il
detto di Stazio -« Primus in orbe deos fecit timor + (Theb., III, 661), Hobbes
riconosceva la causa principale del sorgere della R. nel timore che deriva
all'uomo dalla sua incertezza per il futuro. «Dal momento che è sicuro che vi
sono cause di tutte le cose che sono state o saranno, è impossibile per l’uomo
che cerca con- tinuamente di garantirsi contro i mali che teme e di procurarsi
i beni che desidera, di non vivere nella perpetua preoccupazione del tempo a
ve- nire cosicchè ogni uomo, e specialmente quello più previdente, vive in uno
stato simile a quello di Prometeo ». Da questo stato di timore nonchè dalla speranza
di vedersi assicurati i beni di cui ha bi- sogno e dal desiderio di raggiungere
una cono- scenza completa del mondo, nasce, secondo Hobbes, la R. (Zeviath., I,
12). Una dottrina analoga, ma esposta in modo più articolato fu ripresentata da
Hume nella Storia naturale della religione (1757). La R. non sorge dalla
contemplazione ma dall’in- teresse dell’uomo per gli eventi della vita e quindi
dalle speranze e dai timori incessanti che lo agitano. Sospeso fra la vita e la
morte, tra la salute e la malattia, tra l'abbondanza e la privazione, l’uomo attribuisce
a cause segrete e sconosciute i beni di cui gode e i mali da cui è
continuamente minac- ciato (Natural History of Religion, II, in Essays, II,
pag. 316). Voltaire così esponeva lo stesso con- cetto: «È naturale che un
paese, spaventato dal tuono, afflitto dalla perdita delle sue messi, maltrat- tato
dal paese vicino, sentendo tutti i giorni la sua debolezza, sentendo
dappertutto un potere invisibile, abbia infine detto: ‘ C’è qualche essere al
di sopra di noi che ci fa del bene e del male » (Dicrionnaire philosophique,
1764, art. Religion, Il). Questa dottrina ha subìto un’eclissi sino ai primi decenni
del sec. xx. Da un lato infatti il concetto ro- mantico della R. come
rivelazione o sentimento del- l’infinito fu partecipato anche da filosofi che
nega- vano la validità della religione. Feuerbach, ad es., trasformando la
teologia in antropologia, affermava: «La R. è la coscienza dell’infinito:
perciò essa non è e non può essere altro che la coscienza che l’uomo ha, non
della limitazione, ma dell’infinità del suo essere » (Wesen der Christenthum,
1841, $ 1). Max Miiller analogamente vedeva l’essenza della R. nella potenziale
capacità umana di « afferrare l’in- finito » (Vorlesungen iber den Ursprung und
die Entwicklung der Religion, 1880, pag. 28). Per quanto con queste espressioni
si intendesse sotto- lineare l’origine umana della R., si faceva tut- tavia uso
di concetti che erano meglio serviti ad esprimere l’origine divina e il valore
assoluto della R. stessa. Dall’altro lato, anche nel campo dell’in- dagine
sociologica, la quale cominciava a prendere in esame le forme che la R. assume
presso i popoli primitivi, si manifestava la tendenza a considerare la R. sotto
l'angolo visuale della contemplazione, interpretandola come una concezione del
mondo (o filosofia) grossolana bensì ma non priva di una certa coerenza. E. B.
Tylor vedeva l’essenza della R. primitiva nell’animismo (v.) cioè nella
credenza in esseri spirituali assunti come presenti in tutte le cose e come
cause di tutti gli eventi (Primitive Culture, 1871). La R. sarebbe così una
metafisica della natura. Una metafisica della società essa sarebbe invece
secondo Durkheim, per il quale essa « è il mito che la società fa di se stessa
» nel senso che « quella realtà che le mitologie si sono rappre- sentate sotto
tante forme differenti, ma che è la causa obbiettiva universale ed eterna di
quelle sen- sazioni sul generis di cui è fatta l’esperienza reli- giosa, è la
società » (Formes élémentaires de la vie religieuse, 1937, pag. 597). Ciò vuol
dire che la R. primitiva consiste nell’attribuire a una supposta realtà i
caratteri stessi della società primitiva: cioè quei caratteri che la società
primitiva ritiene essen- ziali a se stessa. Queste tesi di Durkheim si fonda-
Vano soprattutto su una interpretazione del rfore- mismo. Il totem è secondo
Durkheim il simbolo della forza che sostiene l’individuo: forza che è la
società stessa; e da questa veramente la mente primitiva attinge tutte Je sue
categorie per l’inter- pretazione del mondo. In tal modo, la R. conserva per
Durkheim un carattere contemplativo: carat- tere che viene ad essa anche
riconosciuto dall’altro grande sociologo francese Lucien Lévy-Bruhl, che
esprime questa tesi identificando con il misticismo non soltanto la R. ma
l’intera vita dei popoli primitivi (L’expérience mystique et les symboles chez les
primitifs, 1938). Per tutti questi indirizzi filosofici e sociologici la R. è,
alla sua origine, un fatto cono- scitivo: è un tentativo di spiegarsi il mondo
o di formarsene un’idea in base a un certo numero di esperienze più
frequentemente ricorrenti nella vita degli uomini. Il ritorno alla concezione
settecentesca della R. cioè alla concezione che vede la radice di essa nella
situazione dell’uomo nel mondo, si effettua soltanto negli indirizzi più
moderni e critici della sociologia. Cominciò W. Robertson Smith a in- 745 sistere
sull’importanza che, nella R. primitiva, ha il secondo dei due elementi della
R. cioè le tec- niche. «La R. nei tempi primitivi non fu un si- stema di
credenze con applicazioni pratiche; fu un corpo di pratiche tradizionalmente
fissate alle quali ogni membro della società si conformava naturalmente. Gli
uomini formano regole generali di condotta prima di cominciare ad esprimere in parole
i princìpi generali; le istituzioni politiche sono più vecchie delle teorie
politiche e in ma- niera simile le istituzioni religiose sono più vecchie delle
teorie religiose » (Lectures on the Religion of the Semites, 1907, pag. 16).
Più tardi l’opera di G. Frazer (The Golden Bough, 1911-14) mostrava la stretta
connessione tra R. e magia, partendo dalla considerazione che l’uomo è dominato
in primo luogo dalla preoccupazione di controllare gli eventi naturali allo
scopo di piegarli alle esi- genze della vita. La differenza tra la magia e la
R. consiste, secondo Frazer, in questo: che la prima tende al diretto controllo
degli eventi naturali mentre la seconda cerca le vie di propiziarsi le potenze
su- periori che presiedono alla natura. Questa dot- trina è quella che ha avuto
la migliore accoglienza da sociologi e filosofi. A. Loisy sosteneva un punto di
vista assai vicino a quello di Frazer (Essai hi- storique sur le sacrifice,
1920) e B. Malinowski portava nuove prove alla stessa tesi. Secondo Ma- linowski
la R. e la magia sorgono e funzionano entrambe in situazioni di tensione
emozionale: crisi della vita, riuscite infelici, morte e iniziazione ai misteri
della tribù, amori infelici e odii insoddi- sfatti. R. e magia concordano anche
nell’offrire una via d’uscita da tali situazioni mediante credenze e pratiche
che si riferiscono al dominio del sopran- naturale. Si distinguono tuttavia tra
di loro, in quanto la magia ba una tecnica limitata e semplice, la R. comprende
un insieme di tecniche; la magia è limitata a una classe di persone che fa di
essa la sua professione; la R. invece è una faccenda di tutti e ogni individuo
vi ha parte attiva. E infine le funzioni dell’una e dell’altra sono diverse: la
fun- zione della magia è quella di sopperire, con stru- menti soprannaturali,
alla mancanza o all’imper- fezione degli strumenti naturali, mentre la funzione
della R. è quella di rafforzare certi speciali atteggia- menti: il coraggio e
la fiducia nella lotta contro le difficoltà (Magic, Science and Religion,
1925). Non molto diversa da questa, sebbene espressa in termini teologici e
mistici, fu la tesi difesa da Rudolf Otto nel suo libro intitolato // sacro
(1917). Dalla paura, secondo Otto, deriva il sentimento di essere davanti a un
potere superiore, che si cristallizza in ciò che egli chiama il tremendum o la
maiestas; dal senso di disperazione, di impotenza e di insignificanza deriva il
sentimento creaturale descritto nell’Antico testamento, e dalle fantasie
compensatrici nasce in- fine il concetto di ciò che è completamente altro, che
si mescola con gli eventi più familiari senza cessare di apparire nuovo ed
estraneo. Gli ingre- dienti costitutivi del soprannaturale erano così ri- condotti,
anche da Otto, alla situazione dell’uomo nel mondo. La quale rimane il punto di
partenza delle più moderne teorie della religione. Secondo Freud la R. «dà agli
uomini informazioni circa la sorgente e l’origine dell’universo, garantisce ad essi
la protezione e la felicità finale fra le mutevoli vicende della vita e guida i
loro pensieri e le loro azioni per mezzo di precetti che sono appoggiati dall’intera
forza della sua autorità » (A New Series of Introductory Lectures on
Psycho-Analysis, 1933, pag. 220). Su questi fondamenti Freud pensa che la R.
consista nella credenza in un padre sopran- naturale che salvaguarda gli uomini
dai pericoli e li compensa e punisce a seconda dei casi. Il rap- porto fra
l’uomo e la divinità si modellerebbe così sul rapporto tra figlio e padre
(/bid., pag. 222 sgg.). Prescindendo dallo sfondo psicanalitico di questa concezione,
i suoi caratteri non sono diversi da quelli delle altre cui si è fatto
riferimento: la R. è intesa come un correttivo, una difesa o una pro- testa nei
confronti della situazione di incertezza e di pericolo in cui l’uomo è nel
mondo. Tale è anche il concetto che Bergson ha dato della R. statica, al quale
egli ha contrapposto la R. dinamica cioè il misticismo. La R. statica sarebbe
infatti «la reazione difensiva della natura contro il po- tere disgregatore
dell’intelligenza »; nel senso che l’intelligenza fa vedere chiaramente
all’uomo l’in- certezza e pericoli della vita e l’inevitabilità della morte,
mentre la R. sarebbe l’insieme delle rea- zioni difensive contro le
rappresentazioni intellet- tuali della condizione umana nel mondo (Deux sources,
1932, cap., II; trad. ital, pag. 131 sgg.). Limitatamente alla R. primitiva,
una tesi analoga è stata difesa sulla base di un vasto materiale docu- mentario
da P. Radin nel suo libro sulla R. dei pri- mitivi(Primitive Religion, its
Nature and Origin, 1937). II. Il secondo problema del quale le definizioni proposte
della R. intendono costituire risposte è quello della funzione specifica della
religione. Questo problema può essere inteso in due sensi. In primo luogo, come
problema della garanzia che la R. pretende offrire alla salvezza dell’uomo e di
questo problema si possono addurre tre soluzioni prin- cipali: 1° la R. come
liberazione dal mondo; 2° la R. come verità; 3° la R. come moralità. In secondo
luogo, il problema stesso può essere inteso dal punto di vista della funzione
che la R. esercita nella so- cietà o nell'economia generale della vita umana
(4°). 1° La garanzia che la R. pretende di of- frire all'uomo può essere
innanzitutto quella della liberazione dal mondo, considerato nella sua tota- lità
come un male. Questa è la dottrina propria del buddismo: « Non c’è da godere di
ciò che è nato e diventato, di ciò che si è formato e costituito, che è
instabile, dipendente dalla vecchiezza e dalla morte, nido di malattie,
fragile, sorto per il transito di cibo. Fuggire da questo stato vuol dire
trovare un altro stato tranquillo, al di là del dominio del pensiero, stabile,
non nato, non formatosi, senza dolore, senza passione, gioia che pon fine ad
ogni condizione di miseria e distrugge per sempre ogni elemento di esistenza »
(Ztivuttaka, 43; trad. Pavolini). Questo stato in cui l’esistenza stessa è
distrutta è il nirvana. Ma secondo lo stesso buddismo il nirvana è anche lo
stato di beatitudine di chi già in questa vita ha eliminato da sè il desiderio
e quindi il germe della futura esistenza. Sotto questo aspetto, dallo stesso buddismo,
la salvezza è concepita non solo come liberazione dal mondo ma anche come
liberazione dai mali del mondo. Questi due aspetti sono in realtà presenti in
molte R. tranne che nella R. d'Israele che ignora il primo: la promessa di una beatitudine
che è al di là del mondo o che si rag- giungerà solo dopo la morte va
abitualmente con- giunta con la promessa di una felicità, di una pace o di un
benessere nella stessa esistenza mondana. Quando la felicità o la pace si può
raggiungere in questa esistenza solo oltrepassando la condizione umana e
deificandosi cioè unendosi con Dio o col principio cosmico, si ha il misticismo
(v.). Nel misticismo, Bergson ha visto la R. dinamica, la continuazione super
organica dello slancio vitale, l’impulso verso la creazione di una società
nuova fondata sull’amore universale (Les deux sources, 1932, cap. III). In
realtà il misticismo non è che una determinata soluzione del problema della
salvezza ed è la soluzione propria di una religiosità pri- vata, contemplativa
e solitaria cui ogni attività e i rapporti stessi fra gli uomini risultano
estranei e insignificanti. 2° Che la R. contenga la garanzia infal- libile
della propria verità e di ogni verità che possa essere collegata con essa, è
pretesa implicità in ogni R. come tale. Dal punto di vista filosofico questa
stessa tesi si presenta nella forma dell’iden- tità tra R. e filosofia e della
differenza puramente formale tra esse. Questa fu, per es., la dottrina sostenuta
da Hegel: « La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la R. perchè oggetto
di entrambe è la verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto cioè
Dio, e Dio solo, è la verità » (Enc., $ 1). La R. tuttavia si distingue dalla
filosofia in quanto esprime la verità non nella forma del con- cetto ma in
quella della rappresentazione e del sen- timento. «La R., dice Hegel, è il
rapporto con l’Assoluto nella forma del sentimento, della rap- presentazione,
della fede; e nel suo centro onni- comprensivo, tutto è soltanto come qualcosa
di accidentale e di evanescente » (Fi/. del Dir., $ 270). Il che vuol dire che
ciò che la R. intuisce in modo accidentale, approssimativo e confuso, la
filosofia dimostra con necessità (Enc., $ 573). È chiaro tuttavia che la
dottrina dell’identità tra R. e filosofia può anche essere affermata dal punto
di vista della superiorità della R. come forma o ri- velazione della verità:
così fa quella filosofia della fede di Haman, Herder e Jacobi contro la quale lo
stesso Hegel polemizza (v. FEDE, FILOSOFIA DELLA). È tuttavia evidente che in
tal caso non è alla R. che si affida la garanzia della verità, ma ad un organo,
la fede, dalla quale dipendono, quanto alla loro validità, sia la filosofia sia
la R. sia ogni altro sapere. Perciò l’attribuire alla R., come og- getto
specifico, la verità significa il più delle volte, dal punto di vista
filosofico, attribuirle la funzione di manifestare la verità in una forma, che
è bensì infallibile e certa, ma inferiore a quella che la verità stessa può
assumere nella filosofia. Così secondo Gentile, la R. è «l’esaltazione dell’og-
getto sottratto ai vincoli dello spirito, in cui con- siste l’idealità, la
conoscibilità e razionalità del- l'oggetto stesso » (Teoria gen. dello spirito,
1913, XIV, 7). L'essenza della R. è perciò il misti cismo che è l’annullamento
del soggetto nell’og- getto e per cui l'essere di Dio è il non essere del soggetto
(Discorsi di religione, 1920, pag. 78). La R. trova la sua verità solo nella
filosofia che risolve Dio nell’atto del pensiero. « Questo Dio come può essere
volontà da riconoscere e pregare e deprecare e a cui subordinarsi, se Dio è
dentro all'uomo, al suo io, ed è propriamente il suo io nel suo attuarsi? »
(Sistema di logica, II, 1922, IV, 8, 4). In modo più chiaro e sbrigativo Croce ha
detto che la R. è una forma provvisoria e im- perfetta della filosofia, per cui
il filosofo dovrebbe
vedere nell’uomo religioso « il suo
fratello minore, il suo se stesso di un momento prima » (Fil. della pratica,
1909, pag. 314). 3° Che la R. offra una garanzia ai valori morali dell’uomo,
intendendosi per morali i valori che presiedono all’ordine della vita
associata, è credenza assai antica. Era questo il compito fon- damentale che
Platone attribuiva alla R.: «La di- vinità che, secondo la tradizione, regge il
principio e la fine e il corso di tutti gli esseri, procede secondo la sua
natura nel suo andamento circolare; e ad essa tien dietro sempre la giustizia
punitiva per coloro che hanno abbandonato la legge divina» (Leggi, 715 e, 716
a). Nel mondo moderno questo punto di vista è stato assunto e difeso da Kant.
«La R., egli ha detto, considerata dal punto di vista soggettivo, è la
conoscenza di tutti i nostri doveri come co- mandi divini. Quella in cui io
devo prima sapere che qualcosa è un comando divino per riconoscerla poi come
mio dovere, è la R. rivelata (o che esige una rivelazione); quella invece in
cui io devo sa- pere che qualcosa è un dovere prima che la possa ri- conoscere
come un comando divino è la R. naturale + (Religion, IV, sez. I). Kant osserva
che questa de- finizione della R. previene parecchie interpretazioni false del
concetto di essa. In primo luogo, infatti, esclude che la R. richieda una
scienza di Dio e include che per essa basta possedere la semplice idea di Dio.
In secondo luogo quella definizione previene «la falsa idea che la R. sia un
insieme di doveri speciali che si riferiscono immediata- mente a Dio» e perciò
impedisce di ammettere, oltre i doveri umani etico-sociali, «i servizi da cortigiani
con i quali potremmo tentare di com- pensare le nostre mancanze ai doveri della
prima specie » (/bid., IV, sez. I, Nota). In questa inter- pretazione tuttavia
ciò che la R. garantirebbe è l’assolutezza del comando morale: non garantirebbe
invece (perchè rientra nella sfera della libertà umana) l'effettuazione del
comando morale cioè la vera e propria realizzazione dei valori morali nel
mondo. Alla R., tuttavia, si chiede o si attribuisce il più delle volte proprio
questa seconda specie di ga- ranzia: la garanzia cioè che i valori morali, e in
generale quelli che interessano l’uomo e la sua vita spirituale, non siano
unicamente affidati alla buona volontà degli uomini ma trovino nella prov- videnza
divina una loro salvaguardia infallibile che ne garantisca il trionfo finale.
In questo senso H. Héffding ha affermato che la R. è «la credenza nella
conservazione dei valori » (Religionsphilo- sophie, 1902, pag. 13): la fede
religiosa sarebbe la convinzione « della saldezza, certezza e della inin- terrotta
connessione della relazione fondamentale dei valori con la realtà» (/bid.,
1902, pag. 105). Questo è proprio quell’ottimismo provvidenzialistico che molti
indirizzi filosofici, idealistici e spiritua- listici desumono o credono di
desumere dalla R. e in nome del quale istituiscono più o meno inte- ressate
apologetiche religiose. 4° Considerando la funzione della R. non già nei
confronti della garanzia soprannaturale che essa pretende di offrire ma nei
confronti dei rap- porti inter-umani, tra i quali essa si inserisce come sistema
di credenze e di istituzioni, si può agevol- mente mettere in luce l’utilità
biologica e sociale della R. stessa. Non che l’accordo tra i filosofi sia
unanime su questo punto. Sostenendo la non ingerenza della divinità nelle
faccende umane gli Epicurei avevano di mira l'eliminazione del timore degli dèi
e consideravano pertanto la R. come fonte aggiuntiva di preoccupazione e paura
e non come aiuto (cfr. EricuRro, Ep. a Meneceo, 123; Ep. a Erodoto, T7; Mass.
Cap., 1). Anche qualche sociologo contemporaneo non manca di osservare che
spesso i riti religiosi e le credenze con essi associate sono fonti di angoscia
sicchè l’effetto psicologico del rito sembra quello di creare nel- l’uomo un
senso di insicurezza e di pericolo (cfr. A. R. RADCLIFFE-BROWN, Structure and
Func- tion in Primitive Society, 1952, pag. 148-49). Ma anche in questo caso si
può riconoscere la funzione sociale della R. e cioè il rafforzamento ad essa dovuto
dei vincoli sociali, soprattutto nella società primitiva (Ibid., pag. 157
sgg.). A. Loisy diceva: « Abbandonato alla mercè degli elementi, delle sta- gioni,
di ciò che la terra gli dà e gli rifiuta, delle buone o cattive possibilità
della sua caccia o della sua pesca, delle vicende delle sue lotte con i suoi simili,
l’uomo crede trovare il mezzo per regolariz- zare con simulacri di azione le
sue possibilità più o meno incerte. Ciò che egli fa non serve a niente rispetto
allo scopo che si propone, ma egli acquista fiducia nelle sue imprese, in se
stesso, osa e osando ottiene realmente più o meno ciò che vuole. Fiducia rudimentale
e attraverso un’umile strada; ma è il cominciamento del coraggio morale »
(Essai histo- rique sur le sacrifice, 1920, pag. 533). Questo punto di vista fu
più tardi sviluppato da Malinowski (Magic, Science and Religion, ed. Anchor
Books, 1925, pag. 89). Ed è come si è visto più o meno il punto di vista di
Bergson. È un punto di vista che i sociologi hanno riscontrato soprattutto nei confronti
delle società primitive; ma è pur noto (v. PRIMITIVI) che la sociologia
contemporanea tende a eliminare l’abisso tra mentalità primitiva e mentalità
secondaria o civile. AI di là dei limiti in cui le tecniche razionali gli
consentono il con- trollo degli eventi che lo interessano, limiti, nono- stante
tutto, assai ristretti, l’uomo rivendica di fatto la sua libertà di fede e si
affida a credenze libera- trici o consolatrici e a tecniche che gli promettono una
salvezza immancabile. Che egli possa o non possa ottenere da queste tecniche
ciò che promet- tono, la loro funzione è ben chiara: quella di dargli speranza
e coraggio e di consolidarlo nel suo rap- porto con gli altri uomini e con il
mondo. RES DE RE NON PRAEDICATUR. La massima di Abelardo (riferita da GIOVANNI
DI SA- LIsBuRY, Metalogicus, II, 17), secondo la quale l’universale non può
essere nè una cosa nè una voce ma soltanto un’espressione (sermo) giacchè solo
l’espressione può essere predicata di più cose (v. UNIVERSALE). RESIDUI E
DERIVAZIONI (ingl. Residues and
Derivations; franc. Résidus et dérivations). Con questi termini Vilfredo Pareto designò i due
fattori delle teorie non scientifiche che corrispondono ai due fattori delle
teorie scientifiche, cioè alle affer- mazioni sperimentali e alle deduzioni
logiche. I residui sono gli istinti, i sentimenti, gli inte- ressi, ecc., che
costituiscono i materiali delle teorie non scientifiche; e le derivazioni sono
le sistemazioni logiche o pseudologiche date a tale materiale (Traf- tato di
sociologia generale, 1916, $ 803, 850, 870, 1397). Cfr. la discussione di
questa dottrina in TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action, 2* ediz.,
1949, pag. 196 sgg. RESIDUI, METODO DEI (ingl. Method of Residues; franc. Méthode des résidus; ted. Rilck- standsmethode). Uno dei quattro metodi della
ri- cerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e pre- cisamente quello
espresso dalla regola: « Sottratta da un fenomeno la parte che si è
riconosciuta, per precedenti induzioni, come l’effetto di certi ante- cedenti,
il residuo del fenomeno è l’effetto dei rima- nenti antecedenti » (Logic, III,
8, $ 5) (v. Concomi- TANZA; (CONCORDANZA; DIFFERENZA). RESIDUO FENOMENOLOGICO
(tedesco Phanomenologische Residuum). Così Husserl ha chia- mato l’essere
proprio della coscienza in quanto «non viene toccato nella sua assoluta essenza
dalla neutralizzazione fenomenologica » cioè dall’epoché (Ideen, I, $ 33). RESPONSABILITÀ
(ingl. Responsibility; franc. Responsabilité; ted. Verantwortlichkeit). La possibilità
di prevedere gli effetti del proprio com- portamento e di correggere il
comportamento stesso in base a tale previsione. La R. è cosa diversa dalla semplice
imputabilità (gr. alzia; lat. Imputatio; in- glese Imputability; franc.
Imputabilité; ted. Zure- chenbarkeit) che significa l’attribuzione di un’azione
a un agente come alla sua causa. Alla nozione di imputabilità faceva
riferimento Platone quando, a proposito della scelta che le anime fanno del
proprio destino affermava: « Ciascuno è la causa della propria scelta, la
divinità non ne è imputabile» (Rep., X, 617e; cfr. Timeo, 42 d). Wolff definiva
l'imputazione come « il giudizio con il quale l’agente è dichiarato causa
libera di ciò che consegue dalla sua azione cioè del bene o del male che da
essa derivano sia a lui stesso sia agli altri » (Phi/osophia practica, I, $
527). E questa definizione era sempli- cemente ripetuta da Kant: «L’imputazione
(im- putatio) nel significato morale è il giudizio per mezzo del quale qualcuno
è considerato come au- tore (causa libera) di un’azione che è sottomessa a
leggi e si chiama fatto » (Mer. der Sitten, I, Intr., IV). L’imputabilità così
intesa è un concetto com- pletamente diverso da quello di responsabilità. Il
concetto e il termine di R. sono recenti e compaiono per la prima volta in
inglese e in fran- cese nel 1787 (precisamente compaiono in inglese nel
Federalist di Alessandro Hamilton, folio 64; cfr. R. McKron, in Revue
Internationale de Phi- losophie, 1957, n. 1, pag. 8 sgg.). Il primo signi- ficato
del termine fu quello politico, in espres- sioni come «governo responsabile» o
«R. del governo » che esprimevano il carattere per cui il governo
costituzionale agisce sotto il controllo dei cittadini ed in vista di questo
controllo. In filosofia, il termine fu usato nelle dispute sulla libertà; e
tornò utile soprattutto agli empiristi
inglesi che vollero mostrare
l’incompatibilità di un giudizio morale con la libertà e con la ne- cessità
assolute (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst., VIII,
2; STUART MILL, nota alla Analysis of the Phenomena of the Human Mind di J.
Mit, 1869, II, pag. 325). La
nozione di R. è infatti fondata su quella della scelta e la nozione di scelta è
essen- ziale al concetto della libertà limitata (v. LIBERTÀ). È chiaro infatti
che nel caso della necessità, la previsione degli effetti non potrebbe influire
sul- l’azione; e che tale previsione non potrebbe influire sull’azione nel caso
della libertà assoluta, che fa- rebbe il soggetto indifferente alla previsione
stessa. Il concetto di R. si inscrive pertanto in un deter- minato concetto
della libertà; ed anche nel lin- guaggio comune si dice « responsabile » una
per- sona o si apprezza il suo «senso di R.» quando si vuole indicare che la
persona in questione include, nei motivi del suo comportamento, la previsione degli
effetti possibili del comportamento stesso (cfr. il fascicolo citato della
Revue Internationale de Philosophie e specialmente gli articoli di McKeon, Abbagnano
e Weil. Per la distinzione tra imputa- bilità e R., cfr. SCHELER, Der
Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 504 sgg.) (V. INTENZIONE). RESTRIZIONE
(lat. Restrictio; ingl. Restric- tion; franc. Restriction; ted. Restriktion). A partire dalla logica del xm secolo, la limitazione
dell’esten- sione o denotazione di un termine comune in modo che esso si
riferisca a un numero minore di oggetti designati (cfr. Lamberto di Auxerre, in
PRANTL, Geschichte der Logik, III, pag. 31, n. 130). Pietro Hispano distinse
quattro specie di R.: quella fatta col nome, come quando si dice « uomo bianco
» per cui il termine uomo non sta per (non supponit pro) i negri; con il verbo,
come quando si dice « l’uomo corre » e la proposizione si riferisce solo ai
presenti; quella fatta per participio come quando si dice «l’uomo correndo
discute »; e quella fatta per im- plicazione come nel caso «l’uomo, che è
bianco, corre + (Summ. Log., 11.02). Il processo inverso è l'ampliamento o
estensione. Hamilton ha chiamato R. il rapporto di subalternazione (v.). RETORICA
(ingl. Rhetoric; franc. Rhétorique; ted. Rhetorik). L’arte di persuadere
mediante l’uso di strumenti linguistici. La R. fu la grande inven- zione dei
Sofisti e Gorgia di Leontini (sec. v a. C.) fu uno dei suoi fondatori. Il
dialogo di Platone che s’intitola a lui insiste sul carattere fondamentale della
R. sofistica: la sua indipendenza dalla dispo- nibilità di prove o argomenti
che producano un reale sapere o una convinzione razionale. Scopo della R. è
quello « di poter persuadere con discorsi i giudici nei tribunali, i
consiglieri nel consiglio, i membri dell’assemblea nell’assemblea e in ogni altra
riunione pubblica» (Gorg., 452 e). Il retore pertanto è abile « nel parlare
contro tutti e su ogni argomento, sicchè riesce, alla maggior parte delle persone,
più persuasivo di ogni altro, rispetto a tutto ciò che vuole» (/bid., 457 a).
La R. così intesa apparve a Platone più vicina all’arte culi- naria che alla
medicina: più diretta ad appagare il gusto che a migliorare la persona (/bid.,
465 c). Ad essa Platone contrappose una R. pedagogica o educativa che fosse
«l'arte di guidar l’anima per via di ragionamenti, non solo nei tribunali e
nelle assemblee popolari ma anche nelle conversazioni private » (Fedr., 261 a):
ma la R. così intesa si identifica con la filosofia. Platone pertanto non riservò
alla R. una funzione specifica. Riconobbe invece tale funzione Aristotele che
considerò la R. in stretta connessione con la dialettica e come la controparte
di essa (Rer., I, 1, 1354 a 1). La R. è, secondo Aristotele, «la facoltà di
considerare in ogni caso i mezzi disponibili di persuasione + (/bid., I, 2,
1355 b 26). Mentre ogni altra arte può istruire o persuadere soltanto intorno
ai suoi propri og- getti, la R. non è limitata da una speciale sfera di competenza
ma considera i mezzi di persuasione che si riferiscono a tutti gli oggetti
possibili (/bid., I, 2, 1355 b 26). La R. pertanto desume dalla Topica la
considerazione degli argomenti probabili (che sono appunto quelli che hanno la
capacità di per- suadere) e fornisce le regole per l’uso strategico di tali
argomenti. Questo concetto della R. stabilito da Aristotele è prevalso per
molti secoli. L’umanesimo sotto- lineò l’importanza della R. cui però intese
rico- noscere, sull’esempio platonico e ciceroniano, un valore sostanziale
(cfr. Testi umanistici sulla R. di M. Nizolio, F. Patrizi, P. Ramo, a cura di E.
GARIN, P. Rossi, C. VasoLI, 1953). Con Pietro Ramo, il compito della R. ritorna
ad essere sostan- zialmente quello aristotelico: «La tecnica della persuasione
che Ramo indaga nei testi ciceroniani, questa capacità di volgere il linguaggio
alle espres- sioni più compiute e tecnicamente elaborate dev’es- sere però
sempre unita all’esercizio della filosofia, alla quale resta affidata, per
mezzo della dialettica, la costruzione essenziale di tutti i princìpi cono-
scitivi. Perciò alla R. intesa nel significato più tecnico e particolare, il
Ramo concederà soltanto 750 le due funzioni propedeutiche della e/ocutio e
della pronunciatio... laddove invece affiderà alla dialettica contro le pretese
di Quintiliano e di Ci- cerone il compito di organizzare la vera sostanza del
discorso logico » (C. VasoLI, Op. cit., pag. 117- 118). Dopo la fioritura del
Rinascimento le sorti della R. decaddero sino alla quasi completa eclissi che
essa subì nel sec. xIx. Il dogmatismo razio- nalistico iniziato da Cartesio e
diventato massiccio nell’800, fu la causa maggiore della decadenza della
retorica. Dove la ragione è tutto e può tutto, un’arte che voglia cercare gli
strumenti della per- suasione è ovviamente fuori luogo. Perciò non fa
meraviglia che con l’abbandono del dogmatismo razionalistico la R. torna oggi
agli onori della ri- balta nel senso classico di arte della persuasione ma con
l’avvertimento moderno della molteplicità delle condizioni a cui l’arte della
persuasione deve guardare. Il Traité de l’argumentation di Perelman e
Olbrechts-Tyteca (1958) s’inizia con le seguenti parole: «La pubblicazione di
un trattato consa- crato all’argomentazione e il suo riattaccarsi a una vecchia
tradizione, quella della R. e della dialettica greca, costituiscono una rottura
con una conce- zione della ragione e del ragionamento, originata da Cartesio,
che ha impresso il suo sigillo sulla filosofia occidentale dei tre ultimi
secoli ». Non c’è alcun dubbio sulla correttezza di questa osserva- zione. Se
la ragione è infallibile e la ricerca umana può essere affidata in ogni campo
alle sue infalli- bili regole, non c’è posto per la R. che è l’arte della persuasione.
Ma se nella sfera del sapere umano la parte dell’incerto, del probabile,
dell’approssi- mativo è assai grande, la persuasione può avere la sua funzione
e l’arte di essa può essere coltivata. RETRODUZIONE (ingl. Retroduction). Ter- mine
introdotto da Peirce per indicare il primo stadio della ricerca, che procede,
come l’induzione, dal conseguente all’antecedente ma è compiuto in modo
spontaneo cioè senza un metodo rigoroso («Reality of God», in Values in a
Universe of Chance, pag. 368 sgg.) (v. ABDUZIONE). RETROSPEZIONE (ingl.
Retrospection; fran- cese Rétrospection). Bergson ha indicato con questo termine
la tendenza a «rigettare nel passato, allo stato di possibilità o di
virtualità, le realtà attuali » (La pensée et le mouvant, 3° ediz., 1934, pag.
26). RETTITUDINE (gr.
èp96mne, xarépwor; lat. Rectitudo; ingl. Rectitude; franc. Rectitude; ted.
Rechtlichkeit). Il criterio o la misura razionale delle
cose, cioè il principio per giudicarle. Platone dice, ad es., che «La R. del
nome è quella che mostra quale la cosa sia » (Crat., 428 e), intendendo che
questo è il criterio per giudicare della giustezza del nome. Aristotele usa
nello stesso senso l’espres- sione retta ragione (èp8dc Xbyoc) e identifica la retta
ragione con la saggezza (Er. Nic., VI, 13, 1144 b 23). Ma furono soprattutto
gli Stoici a dare un significato tecnico al termine intendendo per essa «la
convenienza o il bene stesso, che consiste nel raggiungere l’accordo con la
natura » (Cicer., De Fin., III, 14, 45). Poichè l’accordo con la natura è il
criterio di ogni valutazione la R. non è che questo criterio. In un senso
analogo, Duns Scoto chiamò rectitudines le proposizioni teologiche in quanto
forniscono la conoscenza del retto com- portamento dell’uomo di fronte a Dio
(Op. Ox., Prol., q. 4, n. 31). Ai nostri giorni Heidegger ha contrapposto la R.
alla verità intesa come rivelazione dell’essere. Se- condo Heidegger, fu
Platone a far prevalere per la prima volta il concetto della verità come R.
cioè come criterio del giudizio umano ed è stato per- tanto Platone a preparare
il terreno per la nascita del soggettivismo moderno (« Die Zeit des Welt- bildes
», 1938, in Holzwege, 1950, pag. 84). REVERSIBILE (ingl. Reversible; franc. Ré- versible;
ted. Umkehrbar). Si qualificano con questo termine
i processi che non hanno un senso definito (v. IRREVERSIBILE). RICERCA (gr.
tnenows; lat. Investigatio, Inqui- sitio; ingl. Inquiry; franc. Recherche; ted.
Unter- suchung). Per quanto il concetto di R. si connetta spesso strettamente
con quello di filosofia (come accade in Platone, cfr. ad es., Teet., 196 d; Men.,
81 e), difficilmente la R. stessa è stata fatta oggetto di indagine filosofica.
Nel mondo moderno Dewey ha considerato la logica come teoria della ricerca. «
Tutte le forme logiche, egli ha detto, con le loro proprietà caratteristiche,
nascono attra- verso il lavoro di R., e concernono il controllo della R. in
vista della attendibilità delle asserzioni prodotte +». In questo senso «la R.
sulla R. è causa cognoscendi delle forme logiche mentre l’indagine primitiva è
causa essendi delle forme rivelate da quell’indagine » (Logic, 1939, I; trad.
ital., pag. 34). La R. è definita da Dewey come «la trasforma- zione
controllata o diretta di una situazione indeter- minata in altra che sia
determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da
con- vertire gli elementi della situazione originaria in una totalità unificata
» (Logic, VI; trad. ital., pa- gina 157). RICETTIVITÀ (ingl. Receptivity;
franc. Ré- ceptivité; ted. Receptivitàt). La possibilità delle af- fezioni (v.)
cioè di accogliere o subire azioni. In questo senso Kant considera la
sensibilità come «la R. del nostro animo a ricevere rappresentazioni cioè a
subire affezioni in un modo qualunque » (Crit. R. Pura, Log. trasc., Intr., I).
Lo stesso che passività. È il contrario di spontaneità (v.) o atti- vità (v.). RIFLESSIONE
RICONCILIAZIONE. V. Sintesi. RICONOSCIMENTO (ingl. Recognition; franc.
Reconnaissance; ted. Anerkennung). 1. In generale, conoscere qualcosa per
quella che è. In questo senso si dice, per es.: «L'ho riconosciuto per un
ladro» Oppure «Riconosco la giustezza di questa osservazione ». 2. Uno degli
aspetti costitutivi della memoria in
quanto ad essa gli oggetti sono dati come
già pre- cedentemente conosciuti (v. MEMORIA). RICORDO. V. MEMORIA. RICORRENZA
(ingl. Recurrence; franc. Récur- rence; ted. Recurrenz). 1. Ciò che torna ad
accadere o si ripete a intervalli, regolari o irregolari. In questo senso si
dice ricorrente un evento che si ripete pressapoco allo stesso modo, ad
intervalli di tempo. 2. Si chiama anche con questo termine il ragio- namento
riflessivo o auto-referentesi che dà luogo alle antinomie logiche (v.
ANTINOMIE). 3. In matematica, s'intende per « ragionamento per R. » il
principio dell’induzione matematica (vedi INDUZIONE MATEMATICA). RICORSO. Vico
intese con questo termine il ritorno della storia sui suoi passi che si
verifica quando i rimedi che la Provvidenza dispone contro la corruzione degli
stati vengano meno o non agi- scano efficacemente. Il R. consiste nel
rinselvati- chirsi degli uomini, nel loro ritorno alla durezza della vita
primitiva che li disperde e falcidia, finchè il poco numero degli uomini
rimasti e l'abbondanza delle cose necessarie alla vita rendono possibile la rinascita
di un ordine civile, di nuovo fondato sulla religione e la giustizia (Scienza
Nuova, 1744, Conclusione). RIDUCIBILITÀ, ASSIOMA DI. V. ANTI- NOMIE. RIDUZIONE
(ingl. Reduction; franc. Réduc- tion; ted. Reduktion). 1. La trasformazione di
un enunciato in un altro equipollente più semplice o più preciso o tale che
riveli la verità o la falsità dell’enunciato originario. Si parla pure di «R. della
scienza ai termini dell’esperienza immediata» (Quine, From a Logical Point of
View, II, 5), o di R. delle estensioni alle intensioni o delle classi a proprietà
(CARNAP, Meaning and Necessity,$ 23, 33). 2. La spiegazione che consiste nel
considerare certi ordini di fenomeni come soggetti alle leggi, meglio stabilite
o più precise, di un altro ordine di fenomeni; per es., quella che consiste nel
con- siderare i fenomeni organici come soggetti alle leggi dei fenomeni fisici
e questi ultimi come soggetti alle leggi dei fenomeni meccanici. Su questo tipo
di spiegazione, cfr. E. NAGEL, « The Meaning of Reduction in the Natural
Sciences», 1949, in Science and Civilisation, ed. R. T. Staufer, 1949, pag.
99-138). 3. Per R. fenomenologica Husserl intese la stessa epoché
fenomenologica cioè la neutralizzazione del- l’atteggiamento naturale o la
messa in parentesi del mondo (/deen, I, $ 56 sgg.). Talvolta, più parti- colarmente,
intese per R. il momento positivo dell’epoché cioè quello della riflessione
interna sul- l’atto, che cerca di cogliere l’atto stesso nella sua intenzionalità
(cfr. specialmente Die XKrisis der europàischen Wissenschaften, 1954, pag.
247). 4. Per R. ai principi, v. RITORNO, 2. RIFERIMENTO (ingl. Reference;
franc. Ré- férence; ted. Bericht). x. In generale l’atto di porre un oggetto
qualsiasi in una relazione qualsiasi con un altro oggetto. In questo senso il
termine ha un significato assai esteso: uno stesso oggetto, per es., un
comportamento può essere riferito al suo au- tore, ai suoi effetti, al suo
fine, alle sue intenzioni, alle sue condizioni, ecc. Il senso specifico del R.,
cioè della relazione che esso stabilisce, è di volta in volta chiarito o
suggerito dal contesto. 2. Più particolarmente, si chiama R. l’atto che stabilisce
il rapporto tra il simbolo e il suo oggetto, cioè l’atto dell’interpretazione
(v.). Sono stati so- prattutto Ogden e Richards a diffondere in questo senso
l’uso del termine. Essi identificarono addi- rittura il R. con il pensiero ed
entrambi con quello che essi chiamarono il significato conoscitivo (The Meaning
of Meaning, 103 ediz., 1952, pag. 9 sgg.). Nell'ambito di questo significato,
gli stessi autori hanno chiamato referendo (referend) il veicolo o lo strumento
di un atto di R. e referente (referent) l’oggetto verso il quale l’atto di R. è
diretto. RIFIUTO, GRAN (ingl. Great Refusal; fran- cese Grand Refus). Il R.
della realtà in favore dell’immaginazione, e delle possibilità che essa scopre,
nell’arte. In tal senso l’espressione fu ado- perata da André Breton nel primo
manifesto dei surrealisti (1924) (Les manifestes du surréalisme, 1946).
L'espressione è stata fatta propria da H. Mar- cuse per indicare « la protesta
contro la repressione superflua, la lotta per la forma definitiva di libertà: il
vivere senza angoscia» (Eros and Civilization, 1954, cap. VII). V. UTOPIA. RIFLESSA,
AZIONE. V. AZIONE RIFLESSA. RIFLESSIONE (ingl. Reffection; franc. Ré- flexion; ted. Reflexion). In generale l’atto o il pro- cedimento
con il quale l’uomo prende a considerare le sue stesse operazioni. Questo
concetto è stato determinato in tre modi e cioè: 1° come cono- scenza che
l’intelletto ha di sè; 2° come coscienza; 3° come astrazione. 1° Aristotele,
per quanto non usi il termine R., ammette il fatto ovvio che l'intelletto « può
pen- sare se stesso» (De An., III, 429 b 9). Gli Scola- stici espressero questa
possibilità con il termine «R.s. S. Tommaso dice: « Poichè l’intelletto ri- flette
sopra se stesso, esso intende, secondo questa R., sia il suo intendere sia la
specie mediante la quale intende » (S. Th., I, q. 85, a. 2). Egli attribuisce anche
alla R. una funzione specifica giacchè l’in- telletto che ha per suo oggetto
proprio l’universale, non può intendere il particolare se non riflettendo su se
stesso e considerando ciò da cui astrae l’uni- versale (/bid., I, q. 86, a. 1).
La R. tuttavia non è dagli Scolastici ritenuta fonte autonoma di cono- scenza.
Ciò accade per la prima volta solo con Locke. 2° Con Locke, s°inizia il
concetto della R. come coscienza. Secondo Locke, la seconda delle due fonti
principali (la prima essendo la sensazione) dalle quali l’intelletto trae le
sue idee è la R., in- tesa come «la percezione delle operazioni che l’anima
nostra compie dentro di sè sulle idee che ha ricevuto mediante i sensi:
operazioni che, di- ventando l’oggetto delle R. dell’anima, producono nell’intelligenza
un’altra specie di idee che gli og- getti esterni non le avrebbero potuto
fornire e tali sono le idee di ciò che si chiama percepire, pensare, dubitare,
credere, ragionare, conoscere, volere, ecc. ». (Saggio, II, 1, 4). Locke chiama
pure senso interno la R.: la quale, in questo senso non è altro che la coscienza,
col quale nome fu spesso chiamata dai filosofi inglesi posteriori. La
definizione di Vauve- nargues « La R. è la potenza di ripiegarsi sulle idee, di
esaminarle, di modificarle o di combinarle in diversi modi: essa è gran
principio del ragionamento, del giudizio, ecc. » (Intr. à la connaissance de l’esprit
humain, 1746, I, 2) e quella di Leibniz «La R. non è altro che l’attenzione a
ciò che è in noi, mentre i sensi non ci danno affatto ciò che noi portiamo già
con noi» (Nouv. Ess., Avant- propos) danno lo stesso significato: la R. è
coscienza. Con questo termine, appunto, essa veniva definita da Kant. «La R.
(reffexio), egli diceva, non mira agli oggetti stessi per acquistarne
direttamente i con- cetti, ma è quello stato dello spirito in cui comin- ciamo
a disporci a scoprire le condizioni soggettive che ci rendono possibile
arrivare ai concetti. Essa è la coscienza della relazione tra le
rappresentazioni date e le varie fonti di conoscenza » (Crit. R. Pura, Analitica
dei Principi. Anfibolia dei concetti della riflessione). Kant distingueva
inoltre la R. /ogica, che è il semplice confronto delle rappresentazioni fra di
loro, dalla R. trascendentale che si dirige agli oggetti stessi e contiene « la
ragione della possibilità del paragone oggettivo delle rappresentazioni tra loro.
La R. trascendentale ha perciò per oggetto i concetti di identità-diversità, di
concordanza- posizione, di interno-esterno, di materia-forma, che per l’appunto
forniscono il fondamento di ogni possibile confronto tra le rappresentazioni »
(/bid.). Il carattere attivo e creativo della R., che porta alla luce la vera
natura di ciò su cui indaga e perciò in qualche modo produce tale natura, fu
uno dei punti fondamentali della filosofia di Hegel: « Poichè nella R. si
ottiene la vera natura e questo pensiero è mia attività, così quella vera
natura è parimenti il prodotto del mio spirito, cioè del mio spirito come Soggetto
pensante, di me nella mia semplice uni- versalità, come Io che è senz’altro da
sè, ossia della mia libertà » (Enc., $ 23). Una funzione me- tafisica fu
attribuita alla R. anche da Maine de Biran: «Chiamo R., egli disse, la facoltà
per la quale lo spirito appercepisce in un gruppo di sensazioni o in una
combinazione di fenomeni i rapporti comuni di tutti gli elementi con una unità
fondamentale, per es., di più modi o qualità con l’unità di resi- stenza, di
più effetti diversi con una medesima causa, di modificazioni variabili con lo
stesso io o soggetto, ecc.» (Fondements de la psychologie, ed. Naville, II,
pag. 225). Nè molto diverso da questo significato è quello attribuito al
termine da Husserl quando afferma: « Ogni cogifatio può di- ventare oggetto di
una cosiddetta percezione in- terna e successivamente oggetto di una
valutazione riflessa, di approvazione o disapprovazione, ecc.» (Ideen, I, $
68). In questo senso la R. è quella che Husserl chiama la percezione immanente,
cioè la percezione che costituisce un’unità immediata con il percepito, ed è la
coscienza stessa (/bid., $ 68). Husserl ha pure distinto la R. naturale, che si
ef- fettua nella vita comune dalla R. fenomenologica o trascendentale che si fa
praticando l’epoché (v.) universale quanto alla esistenza o alla non-esistenza del
mondo (Carr. Med., $ 15). 3° Il terzo concetto della R., è quello che la considera
come astrazione e precisamente astra- zione falsificatrice. Questo concetto
della R. fu
proprio dell’idealismo romantico.
Cominciò con Fichte, che vide nella R. l’atto con cui l’io con- sidera se
stesso come limitato dall’oggetto: « L’Io ha in sè la legge di riflettere sopra
se stesso come riempiente l’infinito. Ma esso non può riflettere sopra se
stesso, e in generale su nulla, se ciò su cui riflette non è limitato. Il
compimento di questa legge è dunque condizionato e dipende dall’og- getto »
(Wissenschaftslehre, 1794, $ 8). Come Schel- ling chiariva, la R. è in questo
senso un’astrazione perchè porta a separare l’oggetto dell'Io dall’Io stesso,
mentre in realtà l'oggetto non è altro che un prodotto dell’Io. « Quella
separazione dell’atto dal prodotto si chiama nell’uso ordinario del lin- guaggio
astrazione. Come prima condizione della R. compare dunque l’astrazione »
(System des trans- zendentalen Idealismus, III, epoca III, I; trad. ital., pag.
179). Hegel a sua volta, mentre esaltava (come si è visto) la R. come attività
che non solo mette in luce ma produce la natura razionale delle cose che
investiga, riteneva falsificatore l’intelletto ri- flettente. « Per
l’intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale l'intelletto
astraente, e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto
contro la ragione, codesto intelletto si com- porta come l’ordinario intelletto
umano o senso comune e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla
realtà sensibile; che i pensieri siano soltanto pensieri, nel senso che la
percezione sen- sibile dia loro sostanza e realtà; e che la ragione in quanto
resta in sè e per sè non produca altro che sogni » (Wissenschaft der Logik,
Intr.; trad. ital., I, pag. 27). In altri termini la R. è caratterizzata dalla
separazione tra concetto e realtà, separazione che è una falsa astrazione;
mentre la ragione è ca- ratterizzata dalla identità di concetto e realtà. In tal
modo, per Hegel, la filosofia della R. è quella del senso comune, che culmina
nella filosofia di Kant la quale afferma l’inconoscibilità della cosa in sè. Nella
filosofia contemporanea il termine è usato prevalentemente nel significato 2°
ed ha perciò come sinonimi i termini «consapevolezza », « co- scienza », «
introspezione », « senso interno +, « osser- vazione interiore ». RIFLESSIVA,
PSICOLOGIA. V. Psico- LOGIA, B). RIFLESSIVITÀ (ingl. Reflectivity; franc. Ré flexivité;
ted. Reflectivitàt). Il carattere di una re- lazione non aliorelativa: cioè
tale che un termine può averla con se stesso. Per es., la relazione non più
grande di è riflessiva (v. RELAZIONE). RIFLETTENTE E DETERMINANTE (ingl. Reflecting and
Determinant; franc. Réfléchis- sant
et déterminant; ted. Reflectierend und Bestim- mend). Giudizio determinante e
giudizio R. sono, secondo Kant, i due modi d’azione della facoltà
del giudizio (v. GIUDICATIVA, FACOLTÀ).
In genere, secondo Kant, il giudizio è «la facoltà di pensare il particolare
come contenuto nel generale ». Se è dato il generale (la regola, il principio,
la legge) il giudizio che opera la sussunzione del particolare è determinante.
Se invece è dato il particolare e il giudizio vi vede trovare il generale, esso
è sempli- cemente R. (Crit. del Giud., Intr., $ Iv). « Giudizio determinante »
significa giudizio che determina o costituisce l’oggetto: come fa, secondo
Kant, il giudizio intellettuale (considerato nella Critica della Ragion Pura)
il quale per l’appunto forma l’oggetto empirico unificando secondo le categorie
il materiale dell’esperienza. « Giudizio R.» significa giudizio che trova già
costituito l’oggetto e perciò deve limitarsi a riflettere su di esso per
trovare il modo di subordinarlo ad una unità o legge che è però semplicemente
soggettiva: come fa da un lato il giudizio di gusto, che giudica gli oggetti
secondo il criterio del bello, e dall’altro il giudizio te- 48 — ABBAGNANO,
Disionarin di filosofia. leologico che giudica gli oggetti secondo il criterio de
fine. RIFORMA (ingl. Reformation; franc. Réfor- mation; ted. Reformation). Il
rinnovamento della vita religiosa avvenuto nell’Europa del sec. xvi mediante il
ritorno alle origini del Cristianesimo. Preparata dall’umanista Erasmo da
Rotterdam
(1466-1536) la R. fu iniziata dall’opera
del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) che nel 1517 affiggeva, alle
porte della Cattedrale di Wittenberg, 95 tesi contro la vendita delle
indulgenze. Nel suo indirizzo complessivo la R. protestante appare come una
delle vie di realizzazione di quel ritorno ai principi che fu l’emblema del
Rinascimento (v.). Nel dominio religioso, il ritorno ai principi por- tava a
negare il valore della tradizione e quindi della Chiesa che se ne riteneva la
depositaria e l’interprete. Nello scritto Contro Enrico VIII d'In- ghilterra
(1522) Lutero contrapponeva alla tradi- zione ecclesiastica, e a tutti i riti e
le glosse che essa aveva accumulato nei secoli, il ritorno diretto alla parola
di Cristo, cioè al Vangelo. L’insegna- mento fondamentale del Vangelo è secondo
Lutero la giustificazione per mezzo della fede la quale im- plica due corollari
fondamentali: 1° la negazione del valore delle opere cioè delle tecniche
religiose (riti, sacrifici, cerimonie) e la riduzione dei sacra- menti a quelli
di cui la Bibbia fa menzione cioè battesimo, penitenza ed eucarestia, anch'essi
però sottratti a ogni giurisdizione sacerdotale e consi- derati come
espressione del diretto rapporto del- l’uomo con Dio. Al culto sacerdotale,
Lutero con- trappose l’esercizio dei doveri civili come l’unico «servizio
divino » che abbia valore religioso; 2° la
negazione della libertà umana e il
riconoscimento della predestinazione da parte di Dio. La fede è il segno sicuro
di questa predestinazione e quindi l’indizio della salvezza (De Libertate
Christiana, 1520). Su questo punto nacque la polemica tra Erasmo e Lutero: alla
Diatribe de libero arbitrio (1524) di Erasmo, Lutero rispondeva col De servo arbitrio
(1525) nel quale ribadiva il carattere imper- scrutabile della scelta divina
(cfr. PREDESTINAZIONE). Delle altre due principali figure della R. prote- stante
Ulrico Zuinglio (1484-1531) e Giovanni Cal- vino (1509-64), il primo si spinse
al di là di Lutero nella negazione delle forme religiose tradizionali, attribuendo
allo stesso sacramento dell’eucarestia un valore puramente simbolico e negando
l’obbe- dienza passiva all’autorità politica; il secondo con- siderò il ritorno
ai princìpi specialmente come ri- torno alla religiosità del Vecchio
Testamento. Nella sua /stituzione della religione cristiana (pubblicata in
latino nel 1536 e in francese nel 1541: questa traduzione è il primo testo
letterario della prosa francese) Calvino si propose infatti di mostrarel’unità
del Vecchio e del Nuovo Testamento e riprese specialmente da esso il principio
che la buona riuscita nelle faccende della vita è una prova evidente del favore
di Dio, un segno della sua pre- dilezione. Fu specialmente questo principio a
fare
dell’etica calvinista l’ispiratrice della
nascente bor- ghesia capitalistica; del suo spirito attivo e aggres- sivo,
sprezzante d’ogni sentimento e teso alla buona riuscita degli affari. RIGORISMO
(ingl. Rigorism; franc. Rigorisme; ted. Rigorismus). Nella terminologia
religiosa del sec. xvili R. si oppose a /assismo e designò il punto di vista di
coloro (specialmente Giansenisti e Padri dell’oratorio) che maggiormente erano
ostili al prin- cipio della morale rilassata (cfr. BAYLE, Dictionnaire historique
et critique, art. « Rigoristes +). Secondo Kant si chiamano di solito rigoristi coloro
che non ammettono « alcuna neutralità morale (adiaphora) nè negli atti, nè nei
caratteri umani» mentre si chiamano latitudinari gli altri (Religion, I,
Osservazione). Lo stesso Kant però (nello stesso passo) mostra di ac- cogliere
per conto suo il principio rigoristico: sicchè non a torto si è parlato e si
parla di «R. morale» a proposito della dottrina morale kantiana. RILEVANTE
(ingl. Relevant; franc. Relevant; ted. Bedeutend). Si chiama R. un enunciato
signifi- cante, specie se è importante per il significato com- plessivo del
contesto in cui ricorre. Si chiamano talora R. anche gli elementi di fatto
importanti per il giudizio di una situazione determinata. RIMORSO (ingl.
Remorse; franc. Remords; ted. Reue) (v. PENITENZA). RINASCIMENTO (ingl.
Renaissance; fran- cese Renaissance; ted. Renaissance). S’intende con questo
termine il movimento letterario, artistico e fi- losofico che va dalla fine del
sec. x1v alla fine del se- colo xvi e che si diffuse dall’Italia negli altri
paesi d'Europa. La parola e il concetto di R. hanno ori- gine religiosa, come è
stato accertato dagli studi di Hildebrand, Walser e Burdach: rinascita è la seconda
nascita, la nascita dell’uomo nuovo o spi- rituale di cui parlano l’Evangelo di
S. Giovanni e le Lettere di S. Paolo. Concetto e parola si con- servano per
tutto il Medio Evo a indicare il ritorno dell’uomo a Dio, la sua restituzione a
quella vita che egli ha perduto con la caduta di Adamo. A partire dal sec. xv
la parola viene invece usata per indicare un rinnovamento morale intellettuale
e politico ottenuto attraverso il ritorno ai valori di quella civiltà in cui si
ritiene che l’uomo abbia trovato la sua realizzazione migliore, cioè alla ci-
viltà greco-romana. Il R. fu pertanto portato a sottolineare polemicamente la
sua propria dif- ferenza di orientamento dall’età medievale, nel suo tentativo
di rapportarsi all’età classica e di desumere direttamente da essa
l'ispirazione delle RIGORISMO proprie attività. D’altra parte però non mancano
gli elementi di continuità tra il R. e il Medio Evo; e molti dei problemi
preferiti da umanisti e filo- sofi del R., sono gli stessi di quelli dibattuti
nel Medio Evo come sono le stesse le soluzioni. Si spiega quindi perchè
l’interpretazione del R. è oscillata fra i due estremi di una contrapposizione
radicale tra Medio Evo e R. o di una loro intrinseca continuità. La prima
posizione fu assunta da Jacopo Burckhardt (Die Kultur der Renaissance in
Italien, 1860) e ripetuta e amplificata da Gentile e dai suoi scolari.
Laseconda concezione si ispira soprattutto all’opera di K. Burdach (Vom
Mittelalter zu Refor- mation, Renaissance, Humanismus, 1926*), ed è stata portata
alla sua forma estrema da G. Toffanin (Storia dell’ Umanesimo, 1933). I
caratteri fondamen- tali dell’età del R. possono essere brevemente rica- pitolati
nel modo seguente: 1° L’umanesimo cioè il riconoscimento del va- lore dell’uomo
e la credenza che l’umanità si è realizzata nella sua forma perfetta
nell’antichità classica (v., su questo punto, UMANESIMO). 2° Il rinnovamento
religioso effettuato o con il tentativo di ricollegarsi a una rivelazione
originaria cui si sarebbero ispirati gli stessi filosofi classici, come fa il
platonismo (Cusano, Pico, Ficino); o mediante il tentativo di rifarsi alle
fonti originarie del Cri- stianesimo saltando a piè pari la tradizione medie- vale,
come fa la Riforma protestante (v. RIFORMA). 3° Il rinnovamento delle
concezioni politiche ef- fettuato col riconoscimento dell’origine umana o naturale
delle società e degli stati (Machiavelli) o col tentativo di ritornare alle
forme storiche ori- ginarie o alla natura delle istituzioni sociali [giusna- turalismo
(v.)]. 4° Il naturalismo cioè il risorto interesse per l’indagine diretta della
natura che si manifesta sia nell’aristotelismo, negli indirizzi magici, sia
nella metafisica della natura (Campanella e Bruno) sia nel primo affermarsi
della scienza moderna. Sul R. cfr. la Bibliografia di H. BARON, « Renais- sance
in Italien», in Archiv fiir Kulturgeschichte, 1927, 1931. Cfr. specialmente E.
Cassirer, Indi- viduo e cosmo nella filosofia del R., e gli scritti di E. Garin
(in particolare: Medio Evo e R., 1954). RIPETIZIONE (ingl. Repetition; franc.
Ré- pétition; ted. Wiederholung). 1. Termine introdotto nella terminologia
esistenzialistica da Kierkegaard che, per chiarirne il significato lo
avvicinava alla espressione aristotelica quod quid erat esse (v. Es- SENZA;
Sosranza). Tale espressione che alla let- tera significa ciò che l’essere era
esprime infatti la necessità e immutabilità dell’essere, il suo ripetersi. Kierkegaard
si è servito del concetto soprattutto per descrivere la natura della vita
etica: a diffe- renza della vita estetica, la quale cerca di evitare la R. e
vuole ad ogni istante la novità (perciò è simbolizzata da Don Giovanni) la vita
etica si fonda sulla continuità, sulla scelta ripetuta che l’individuo fa di se
stesso e del proprio compito, perciò è simboleggiata dal matrimonio (Die
Wieder- holung, 1843; cfr. Diario, IV, A, 156). Heidegger a sua volta ha
utilizzato il concetto per caratterizzare l’esistenza autentica, quale si
realizza nell’angoscia. L’angoscia, in quanto libera l'uomo « dalle possi- bilità
nulle e lo fa libero per quelle autentiche » consiste nel riprendere, per
l'avvenire, le possibilità che sono già state nel passato: il che è appunto la
R. (Sein und Zeit, $ 68b). R. è da questo punto di vista la decisione
autentica. « La R. è l’esplicito tramandamento cioè il ritorno su possibilità
del- l’Esserci che è già stato. L’autentica R. di una possibilità di esistenza
già stata, il fatto che l’Es- serci si scelga i suoi eroi, si fonda
esistenzialmente nella decisione anticipatrice; perchè è in essa che viene
primariamente scelta la scelta la quale rende liberi per la lotta successiva e
per la fedeltà a ciò che è da ripetere » (/bid., $ 74). Ciò vuol dire che la
decisione autentica, in cui consiste la storicità dell’esistenza umana, è una
R. o almeno (come Heidegger dice nello stesso luogo) una replica di possibilità
passate. 2. Nella filosofia della scienza, il concetto di R. viene adoperato
per esprimere il fondamento di ogni proposizione induttiva: la quale sarebbe
(se- condo la dottrina di Hume) l’espressione di una R. di casi (cfr. Hume,
Ing. Conc. Underst., V, 1). Da questo punto di vista, la R. è stata assunta spesso
come la giustificazione delle proposizioni universali. K. Popper ha fatto la
critica di questa dottrina che egli chiama «dottrina del primato della R.» (The Logic of Scientific
Discovery, 1959, pag. 420 segg.) (v. INDUZIONE; TEORIA). RISCHIO
(gr. xivòuvoc; ingl. Risk; francese Risque;
ted. Wagniss, Gefahr). In generale,
l’aspetto negativo della possibilità, il poter non essere. La no- zione ricorre
frequentemente nelle filosofie in cui il riconoscimento del possibile come tale
trova posto: come in quella di Platone e degli esistenzialisti con- temporanei.
Aristotele considerava il R. come «l'avvicinarsi di ciò che è terribile »
(Rer., II, 5, 1382 a 33). Platone considerava il R. come inerente all'accettazione
di certe ipotesi o credenze e lo considerava « bello » (Fed., 114 d).
Nell’esistenzia- lismo il R. è considerato inerente alla scelta che l'io fa di
se stesso, e ad ogni decisione esistenziale (cfr. Jaspers, Phil., II, pagina
180, 403, ecc.) L’accettazione del R. implicito in questa scelta è uno dei
punti cardini dell’esistenzialismo con- temporaneo: «La pretesa implicita nella
decisione è fondata su di una indeterminazione effettiva cioè sulla possibilità
che le cose si svolgano diver- samente da ciò che io decido; ma è anche fondata
sull’assunzione, da parte di me che decido, di questo R. e sulla considerazione
di tutte le possibili garanzie che posso conseguire + (ABBAGNANO, /ntro- duzione
all’esistenzialismo, 4* ediz., 1957, I, 3). RISENTIMENTO (ingl. Resentment;
fran- cese Ressentiment; ted. Ressentiment). L’odio im- potente contro ciò che
non si può essere o non si può avere. La nozione è stata per la prima volta introdotta
da Nietzsche nella Genealogia della mo- rale (1887): « La rivolta degli schiavi
nella morale contemporanea, dice Nietzsche, comincia quando il R. stesso
diviene creatore e genera valori; il R. di quegli esseri ai quali la vera
reazione, quella del- l’azione, è negata e che perciò non trovano com- penso
che in una vendetta immaginaria » (Genealogie der Moral, I, $ 10). La morale
cristiana è, secondo Nietzsche, frutto del R. in questo senso: è una manifestazione
dell’odio contro i valori propri della casta superiore aristocratica,
inaccessibili agli in- dividui inferiori. Un’altra manifestazione del R. è, secondo
Nietzsche, la rabbia segreta dei filosofi contro la vita per cui la filosofia è
stata finora « la scuola della calunnia »: la calunnia s'intende del mondo
reale o sensibile al quale i filosofi hanno cercato di sostituire il mondo
ideale della meta- fisica e della morale (Wille zur Mackht, ediz. 1901, $ 259,
287). A sua volta Scheler ha insistito sulla azione del R. nel campo morale,
pur negando che esso possa applicarsi alla concezione cristiana cui Nietzsche
si riferiva. Non l’amore cristiano, ma l’umanitarismo e l'altruismo moderni
sono, se- condo Scheler, un prodotto del risentimento. Il concetto di
uguaglianza fra gli uomini, l’afferma- zione del soggettivismo dei valori e la
subordinazione di tutti i valori a quelli di utilità sono, secondo Scheler
altri tre prodotti del R. nella vita moderna (Uber Ressentiment, 1912; trad.
franc., 1958) (cfr. R. K. MERTON, Social Theory and Social Structure, 2% ediz.,
1957, pag. 155 sgg.). RISERVA (lat. Reservatio; ingl. Reservation; franc.
Restriction; ted. Reservation). Uno dei punti tipici della casistica cattolica
del xvi secolo e del probabilismo o lassismo: la tesi che una deliberata menzogna
non impegna chi la pronunzia e non è peccato. Nella IX delle sue Lettere
provinciali (1656) B. Pascal faceva una critica famosa di questa tesi. RISPETTO (gr. alc; lat.
Respectus; inglese Respect; franc. Respect; ted. Achtung). Il riconosci» mento della dignità propria o altrui e
il compor- tamento fondato su questo riconoscimento. Demo- crito per primo ha
fatto del R. il principio dell’etica: « Non devi aver R. per gli altri uomini
più che per te stesso nè agir male quando nessuno lo sappia più che quando
tutti lo sappiano; ma devi avere per te stesso il massimo R. e imporre alla tua
anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare » (Fr., 264, Diels). Nel
discorso con cui Pro- tagora espone, nel dialogo omonimo di Platone, l’origine
della società umana è detto che «Zeus, temendo che l’intera nostra stirpe si
estinguesse, mandò Ermes a portare fra gli uomini il R. reci- proco e la
giustizia affinchè fossero princìpi ordi- natori delle città e creassero fra i
cittadini vincoli di benevolenza » (Prot., 322 c). Il R. reciproco e la giustizia,
sono, così intesi, i due ingredienti fonda- mentali dell’« arte politica» cioè
della tecnica del vivere insieme. Aristotele aveva invece incluso il R. fra le
emo- zioni, escludendolo dalle virtù (Ef. Nic., II, 7, 1108 a 32), e lo aveva
contrapposto al timore (/bid., 10, 9, 1179b 11). E alla sfera delle emo- zioni
lo riduce anche Kant considerandolo tuttavia come un sentimento sui generis,
anzi come il solo sentimento morale e non patologico. Il sentimento del R. «è
prodotto soltanto dalla ragione. Esso non serve al giudizio delle azioni, nè a
fondare la legge morale oggettiva ma semplicemente come movente a fare in sè di
questa legge la massima ». Il R. si riferisce sempre alle persone mai alle
cose; ed è proprio di un essere razionale finito perchè suppone l’azione
negativa della ragione sulla sen- sibilità, quindi la sensibilità. Perciò «a un
essere supremo oppure a un essere libero da ogni sensi- bilità, al quale perciò
la sensibilità non può essere un ostacolo per la ragion pratica, non può essere
attribuito il R. alla legge» (Crir. R. Prat., I, I, cap. II). La nozione di R.
è stata, anche fuori della filosofia, fortemente influenzata da queste os- servazioni
di Kant. Per R. comunemente s’intende l'impegno a riconoscere negli altri
uomini, o in se stesso, una dignità che si è in obbligo di salva- guardare. RITMO
(ingl. R&ythm; franc. Rythme; tedesco Rhythmus). L’alternarsi di fenomeni
opposti nello stesso processo. Questo è il significato che il ter- mine ha
ricevuto nel positivismo il quale per la prima volta ne ha fatto un uso
specifico, estenden- done il significato originario di movimento regolar- mente
ricorrente. Spencer ha parlato così di una legge del R. secondo la quale il
massimo e il minimo, la caduta e l’elevazione, si alternano nello sviluppo di
tutti i fenomeni: legge che è uno dei princìpi fondamentali dell’evoluzione
(First Principles, II, cap. 10). Su questa stessa legge ha insistito Ardigò (Op.,
II, pag. 227; V, pag. 232, ecc.). E più re- centemente Whitehead: « Nel modo
del R., una serie di esperienze che formano una determinata successione di
contrasti raggiungibili nell’ambito di un metodo preciso, è regolato in modo
che la fine di un ciclo è lo stadio antecedente adatto per l’inizio di un altro
ciclo simile. Il ciclo è tale che il suo proprio completamento produce le
condizioni per la sua semplice ripetizione » (The Function of Reason, 1929,
cap. I; trad. ital.,
pag. 25; cfr. The Aims of Education, 1929, cap. II, III). RITO (ingl. Rite; franc. Rite; ted. Ritus). Una tecnica
magica o religiosa: cioè diretta o ad otte- nere un controllo delle forze
naturali che le tecniche razionali non possono offrire o ad ottenere che sia mantenuta
o conservata per l’uomo una certa ga- ranzia di salvezza nei confronti di
queste forze. Il concetto del R. come «pratica relativa alle cose sacre » è
stato chiarito da Durkheim (Formes élémentaires de la vie religieuse, 1912,
passim) (cfr. T. Parsons, 7he Structure of Social Action, 23 ediz., 1949, pag.
420 sgg.; 673 sgg., ecc.; cfr. RE- LIGIONE). RITORNO (gr. èriorpoph; lat.
Conversio; in- glese Return; franc. Retour; ted. Riickgang). 1. Nel neoplatonismo
antico, il movimento per cui l’anima ripercorre a ritroso il processo
dell’emanazione, ri- congiungendosi, mediante la contemplazione, alla sua
origine: Bene, Causa, Dio, Unità. Diceva Plotino: «La purificazione è
necessaria all’unione: l’anima si unisce al Bene ritornando verso di esso. Ma
dunque la conversione segue alla purificazione? Proprio così, il R. accade dopo
la purificazione. Il R. è dunque la virtù dell’anima? Sì, è la virtù che
risulta e deriva all’anima dal ritorno. E che cosa è il R.? È la contemplazione
e l'impronta che gli oggetti intelligibili producono nell’anima allo stesso
modo in cui la visione è prodotta dagli oggetti visibili » (Enn., I, 2, 4).
Proclo generalizzava il concetto del R. attribuendolo a tutte le mani- festazioni
dell’essere, delle quali ognuna effettue- rebbe il R. a suo modo. «Ogni essere
compie il suo R. o soltanto rispetto alla sostanza o anche rispetto alla vita o
alla conoscenza: giacchè o ha acquistato dalla Causa soltanto l’essere o ha
avuto anche la vita o ha avuto anche la facoltà conosci- tiva. In quanto solo
è, effettua un R. alla Sostanza; in quanto vive, ritorna alla Vita e in quanto
conosce, alla Conoscenza. Difatti allo stesso modo in cui è proceduto dalla
Causa prima, così vi ritorna; e le misure del R. sono determinate dalle misure della
processione (Ist. Teol., 39). 2. Il Rinascimento ricollegandosi a questa con- cezione
generalizzata di Proclo considerò il R. ai principi come l’unica via per
effettuare un rinnova- mento radicale della vita singola e associata del- l’uomo.
Pico della Mirandola univa il vecchio concetto neoplatonico del R. ai princìpi
con quello nuovo di via del rinnovamento (De Ente et uno, VII, Proem.).
Machiavelli considerava la « ridu- zione ai princìpi » come il solo modo in cui
le co- munità umane potessero rinnovarsi e sfuggire alla decadenza e alla
rovina: in quanto, egli diceva, tutti i princìpi hanno in sè qualche bontà
dalla
quale le cose possono riprendere la loro
vitalità e la loro forza primitiva (Discorsi, III, 1). E Cam- panella vedeva la
via del rinnovamento religioso nello stesso principio che egli riteneva
espresso dal salmo XXII: Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi
fines terrae, le cui prime due parole egli poneva come titolo dello scritto con
cui annunciava il rinnovamento religioso (Quod reminiscentur, 1615). D'altronde
la stessa Riforma protestante obbediva all'esigenza di ritornare ai princìpi,
rifacendosi direttamente alla fonte pri- mitiva della religiosità cristiana
cioè alla Bibbia; e dall’altro lato la Controriforma intese ricondurre la
Chiesa alla forza espansionistica che essa posse- deva nel periodo delle sue
origini. Un’altra forma in cui si presentò lo stesso principio è quella del R.
alla natura: la natura essendo considerata il più delle volte come principio o
l’origine degli esseri. In questa forma il R. ai princìpi è un’esi- genza
frequente nel pensiero dei secoli xv e xvi. RITSCHLIANISMO (ingl.
Ritschlianism; fran- cese Ritschlianisme; ted. Ritschlianismus). Una cor- rente
del cristianesimo protestante del xrx secolo che fa capo ad Alberto Ritschl
(1822-89), secondo la quale la religione si fonda esclusivamente sul sentimento
e la rivelazione interiore: rivelazione che si concreta specialmente nei
giudizi di valore, che sono indipendenti dai fatti e sollevano l’uomo a una sfera
superiore a quella della sua limitazione empi- rica. La comunità dei fedeli,
mentre rafforza la rivelazione del sentimento interno, ne attua le esi- genze;
il regno di Dio si realizza per l'appunto in essa (cfr. K. BARTH, Die
protestantische Theo- logie in 19. Jahrhundert, 1947). RIVELAZIONE (ingl. Revelation; franc. Révé- lation;
ted. Offenbarung). La manifestazione della verità
o della realtà suprema agli uomini. La R. è stata intesa in due modi: 1° come
R. storica; 2° come R. naturale. 1° La R. storica è quella che ogni religione positiva
assume a suo fondamento. Essa consiste nella illuminazione di cui sono stati
gratificati uno o più membri della comunità che hanno avuto come compito quello
di incamminare la comunità stessa sulla via della salvezza. La R. in questo senso
è un fatto storico, cui si attribuisce l’ori- gine della tradizione religiosa. 2°
La R. naturale è la manifestazione di Dio nella natura e nell’uomo. Talvolta
questa formaR. viene ammessa insieme alla prima, talaltra viene negata o
subordinata alla prima. Soltanto il concetto di R. naturale ha valore
filosofico, l’altro essendo specificatamente religioso. Tuttavia il concetto
della realtà naturale ed umana come manifestazione di un Principio
soprannaturale o divino è stato attinto dalla filosofia alla stessa religione
ed è proprio delle filosofie che hanno carattere o finalità religiosa. Nell’antichità,
quel concetto fu proprio dei neo- platonici per i quali il mondo, come prodotto
del- l'emanazione divina, rivela, almeno parzialmente © imperfettamente, la
stessa natura divina che lo produce. Da questo punto di vista Scoto Eriugena chiamava
reofania (v.) il processo che da Dio discende all’uomo e dall'uomo ritorna a
Dio; e chiamava teofania anche tutta l’opera della crea- zione in quanto
manifesta la sostanza divina che in essa e attraverso di essa diventa visibile
(De divis. nat., I, 10; V, 23). Questo concetto è ritornato frequentemente
nella storia della filosofia; ma la sua massima ricorrenza è stata la filosofia
del romanticismo (v.). Diceva Fichte, ad esempio: «Il sapere è l’esistenza, la
manifestazione, la per- fetta immagine della forza divina » (Grundziige der gegenwdrtigen
Zeitalters, 1806, IX). Questo pensiero domina anche le filosofie di Schelling e
Hegel. Bisogna tuttavia osservare che in esse la R. non è soltanto
manifestazione: è anche, come diceva Fichte, esistenza (cioè realizzazione) di
Dio. È questo il tratto specifico che il concetto di R. assume nel romanticismo
e che conserva in forma più o meno decisa in quelle filosofie della R. che costituiscono
il secondo romanticismo e che hanno come insegna la difesa della tradizione. Le
filosofie di Maine De Biran, di Rosmini, di Gioberti, di Mazzini muovono tutte
dal principio che la coscienza sia la R. di Dio. Maine De Biran non faceva che esprimere
a questo proposito una convinzione assai comune asserendo che la R. non è
soltanto quella esterna della tradizione orale o scritta ma anche quella
interna o della coscienza giacchè l'una e l’altra vengono direttamente da Dio
((Euvres, ed. Naville, III, pag. 96). Senza la tonalità religiosa che essa
aveva nel secolo scorso, il concetto di R. è stato assunto a fondamento della
filosofia di Heidegger. La R. dell’essere non è tuttavia mai perfetta ed esauriente,
secondo Heidegger, perchè l’essere si nasconde nello stesso tempo che si
rivela: « L’es- sere sottrae se stesso mentre si rivela nell’ente. Così
l’essere, illuminando l’ente, nel contempo lo svia e lo avvia verso l’errore »
(Holzwege, pag. 310). La R. dell’essere accade, secondo Heidegger, at- traverso
il linguaggio: il quale per Heidegger non è strumento umano ma l’essere stesso
nella sua R. (Brief tiber den Humanismus, pag. 81). D'altrondla concezione del
linguaggio come R. non è oggi soltanto di Heidegger (v. LinguaGGio): il che è un’altra
prova della persistenza in filosofia del con- cetto teologico di rivelazione. RIVOLUZIONE
(ingl. Revolution;
franc. Ré- volution; ted. Revolution).
La violenta e rapida distruzione di un regime politico; oppure il mu- tamento
radicale di una qualsiasi situazione cul- turale. In questo secondo senso si
parla di « R. filosofica » o « artistica » o « letteraria » o «del co- stume ?,
ecc. o anche di « R. copernicana». Ma è chiaro che in questo senso l’uso della
parola è diretto soltanto a sottolineare l’importanza del mu- tamento
intervenuto e non ha un significato pre- ciso. L'unico significato preciso del
termine è quello politico, che esso ha incominciato ad acquistare nel sec.
xvmi. Le vere e proprie R. sono state quella inglese, quella americana, quella
francese e quella russa; ma talvolta si chiamano R. anche le tra- sformazioni
politiche che hanno avuto minore im- portanza nella storia generale del mondo
ma se- gnano date fondamentali nella storia di un paese determinato. ROMANTICISMO
(ingl. Romanticism; fran- cese Romantisme; ted. Romanticismus). Si indica con questo
nome il movimento filosofico letterario e artistico che si iniziò negli ultimi
anni del sec. xvm, ebbe la sua massima fioritura nei primi decenni del sec. xIx
e costituì l’impronta propria di questo secolo. Il significato corrente del
termine « roman- tico » che significa « sentimentale » deriva da uno degli
aspetti più appariscenti del movimento roman- tico cioè dal riconoscimento del
valore da esso attribuito al sentimento: una categoria spirituale che
l’antichità classica aveva ignorato o disprez- zato, che il ’700 illuministico
aveva riconosciuto nella sua forza e che nel R. acquista un valore predominante.
Questo valore predominante è la principale eredità che il R. riceve dal
movimento dello Sturm und Drang (v.), il quale costituisce il tentativo di
superare i limiti che l’illuminismo aveva riconosciuti propri della ragione
umana con l’appello all’esperienza mistica e alla fede. Ciò che la ragione non
può dare, può darlo invece, secondo i filosofi dello Sturm und Drang, Haman, Herder,
Jacobi, la fede intesa pertanto come fatto di sentimento o di esperienza
immediata. Ma, proprio per questo, la ragione continuava ad essere per i
seguaci dello Sturm und Drang (tra i quali ci furono Goethe e Schiller nella
loro giovinezza) ciò che era per l’Illuminismo: una forza umana finita, capace
bensì di trasformare gradualmente il mondo, ma non assoluta nè onnipotente, e
perciò sempre più o meno in contrasto con il mondo stesso ed in lotta con la
realtà che essa è destinata a trasformare. Dallo Sturm und Drang si passa al R.
solo quando questo concetto della ragione viene abbandonato e per ragione
comincia ad intendersi una forza infinita (cioè onnipotente) che abita il mondo
e lo domina e perciò costituisce la sostanza stessa del mondo. Il principio
dell’auto- coscienza (v.) cioè dell’infinità della coscienza che è tutto e fa
tutto nel mondo, è il principio fonda- mentale del R. e da esso derivano i
tratti salienti del movimento. Fichte identificò per la prima volta la ragione
con l’Io infinito o Autocoscienza assoluta e ne fece la forza dalla quale
l’intero mondo è prodotto. L’infinità in questo senso era un'infinità di
coscienza o di potenza, non un'infinità di esten- sione o di durata; e trovava
il suo modello in concetti della filosofia neoplatonica e specialmente in Plo- tino.
Hegel contrapponeva a questo proposito al falso infinito o cattivo infinito,
che è diverso dal finito cioè dalla realtà o dal mondo e si contrappone a esso
e cerca di trasformarlo o di superarlo, il vero infinito, che si identifica con
il finito stesso cioè con il mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito
è un Principio spirituale creativo: quello che Fichte chiamò /o, Schelling
Assoluto, e Hegel Idea. Ma l’infinito o meglio l’infinità di coscienza può
essere intesa in due modi. In primo luogo, come attività razionale che si muove
da una determi- nazione all’altra con necessità rigorosa sì che ogni
determinazione può essere dedotta dall’altra asso- lutamente e a priori. È
questo il concetto che del- l’infinità di coscienza ebbero Fichte, Schelling ed
Hegel (il secondo tuttavia solo in una prima fase della sua filosofia). In
secondo luogo, l’infinità di coscienza può essere intesa come un'attività
libera,
amorfa cioè priva di determinazioni
rigorose e tale che si pone continuamente al di là di ogni sua determinazione:
e in questo senso l’infinità di coscienza è sentimento. ll sentimento è
l’infinito nella forma dell’indefinito e in questa forma rico- nobbero
l’infinità di coscienza Schleiermacher e la cosiddetta scuola romantica (F.
Schlegel, Novalis, Tieck, ecc.). Il R. letterario si iniziava infatti con
l’opera di Federico Schlegel (1772-1829) che pubblicava, dal 1798 al 1800, in
collaborazione con il fratello Au- gusto Guglielmo, il periodico Arhenaeum che
fu il primo organo della scuola romantica. Federico Schlegel esplicitamente
additava in Fichte l’inizia- tore del movimento romantico cioè lo scopritore
del concetto romantico dell’infinito. Ma interpre- tava l’infinito come al di
fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento. Lo stesso
concetto dell’infinito ricorre nel poeta e letterato Ludovico Tieck e in
Novalis: il quale sosteneva un idealismo magico, secondo cui il mondo non è che
una grande opera di poesia. A questa stessa corrente appartiene il teologo
Federico Schleier- ROMANTICISMO macher (1768-1834) che definì la religione come
«il sentimento dell’infinito ». Su questa interpretazione del principio
infinito, si fonda la supremazia che talvolta il R. attribuisce all’arte. Se
infatti l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell’arte che nella
filosofia: giacchè la filosofia è razionalità e l’arte invece appare
airomantici come « espressione del sentimento +. Schel- ling, che inclinava
verso questa interpretazione ritenne appunto che la migliore manifestazione dell’Assoluto
si avesse nell’arte; che il mondo fosse una specie di poema o di opera d’arte
il cui autore è l'Assoluto; e che l’esperienza artistica fosse per l’uomo il
solo mezzo efficace per avvicinarsi all’Assoluto cioè al modo in cui l'Assoluto
ha dato origine al mondo. Quando il movimento romantico si diffonde al di fuori
della Germania, è proprio quest’aspetto del R. che viene assunto come bandiera.
Il R. di Madame de Staél e di Chateaubriand consiste appunto prevalentemente
nell’esaltazione dei valori del sentimento; e in questa stessa forma il R.
trovò la sua espressione in Italia. Queste due interpretazioni
dell’autocoscienza fu- rono spesso in contrasto; ed Hegel specialmente condusse
la polemica contro il primato del senti- mento. Ma è proprio il loro contrasto
e la loro polemica che costituisce il tratto fondamentale del movimento
romantico nel suo complesso. Tuttavia appartiene soltanto alla scuola romantica
del senti- mento uno dei tratti più appariscenti del R., l’îronia: che è
l’impossibilità, per Ja coscienza infinita, di prender sul serio e considerare
come cosa salda i suoi prodotti (la natura, l’arte, l’io stesso) nei quali non
può vedere altro che le proprie manifesta- zioni provvisorie. Sono invece
caratteri comuni e fondamentali di tutte le manifestazioni del R. l’ottimismo,
il provvi- denzialismo, il tradizionalismo e il titanismo. L’of- timismo è la
convinzione che la realtà è tutto ciò che dev'essere ed è, ad ogni momento,
razionalità e perfezione. È per questo ottimismo che il R. tende a esaltare il
dolore, l’infelicità e il male. L'’infinità dello spirito infatti si manifesta
egual- mente in questi aspetti della realtà ma li supera e li concilia nella
sua perfezione. Hegel ci presenta il mondo romantico nella felicità della sua
perfetta pacificazione razionale. Schopenhauer ce lo presenta nell’infelicità
dei suoi contrasti irrazionali e pur tuttavia soddisfatto di riconoscersi in
questo con- trasto. La volontà irrazionale di Schopenhauer è un principio non
meno ottimistico della ragione assoluta di Hegel. Con l’ottimismo metafisico
del R. si connette il suo provvidenzialismo storico. La storia è un processo
necessario nel quale la ragione infinitamanifesta o realizza se stessa, sicchè
in essa non c’è nulla di irrazionale o d’inutile. Il R. si pone, su questo
punto, nel più radicale contrasto con l’il- luminismo. L’illuminismo
contrappone tradizione e storia: alla forza della tradizione che tende a con- servare
e a perpetuare pregiudizi, ignoranze, violenze e frodi, l’illuminismo oppone la
storia come rico- noscimento di queste cose per quelle che sono e sforzo
razionale di liberazione da esse. Per il R. invece tutto ciò che è tramandato è
manifestazione della Ragione infinita: è verità e perfezione. Pertanto lo
spirito illuministico è critico e rivoluzionario; lo spirito romantico è
esaltativo e conservatore. Il con- cetto della storia come piano provvidenziale
del mondo domina tutta la filosofia dell’800; e la stessa filosofia del ’900
non arriva a liberarsene se non attraverso amare esperienze storiche e cul- turali.
È in questa concezione della storia che si manifesta meglio l’affinità tra
l’idealismo e posi- tivismo nel senso comune del romanticismo. Comte ha lo
stesso concetto che della storia avevano Fichte e Schelling e che più tardi
ebbero Croce e gli epi- goni novecenteschi del romanticismo. La storia, come
manifestazione di un principio infinito (Io, Autocoscienza, Ragione, Spirito,
Umanità o co- munque si chiami) è razionalità intera e perfetta e non conosce
nè l’imperfezione nè il male. Il colmo di questo concetto della storia si ha in
Hegel (ripetuto da Croce): la storia non è progresso al- l’infinito, giacchè,
se fosse tale, ogni suo momento sarebbe meno perfetto dell’altro; essa è
infinita perfezione di ogni suo momento. La contrappo- sizione hegeliana del
«vero infinito » al «cattivo
infinito» non significa altro.
Ovviamente, in un simile concetto della storia, non c’è posto per l'individuo e
le sue libertà, per le quali l’illumi- nismo si era battuto. C'è posto solo per
gli « eroi » o «individui della storia cosmica» che sono gli strumenti di cui
la provvidenza storica si avvale per realizzare astutamente i suoi fini. Un
aspetto importante del provvidenzialismo romantico è il rradizionalismo:
l'esaltazione della tradizione e delle istituzioni in cui essa si incarna è
difatti uno degli aspetti tipici del movimento romantico. A questo
atteggiamento fu dovuta la rivalutazione del Medio Evo che è caratteristica del
romanticismo. Il Medio Evo era apparso all’illu- minismo (come già
all’umanesimo) un’epoca di decadenza e di barbarie: cioè come l’epoca in cui fossero
andati smarriti i valori umani e razionali che l’antichità classica aveva
creati. Per il R. non esistono epoche di decadenza o di barbarie giacchè tutta
la storia è razionalità e perfezione. Nel Me- dio Evo anzi, secondo il R., si
possono e si debbono scorgere le origini del mondo moderno meglio che nel mondo
classico: sicchè il ritorno al Medio Evocostituisce una delle parole d'ordine
dell’atteggia- mento romantico. In virtù dello stesso atteggia- mento il R.
tedesco cominciò ad esaltare le tradi- zioni originarie della nazione tedesca;
e nacque la prima forma del nazionalismo che doveva diffon- dersi e diventare
uno dei tratti salienti della cultura europea nel sec. xx. Il concetto di
nazione è difatti composto di elementi tradizionali: la razza, la lingua, il
costume, la religione: elementi che non possono essere negati o rinnegati senza
tradimento perchè costituiscono ciò che la nazione è stata già da sempre. Il
concetto settecentesco di popolo era invece definito dalla volontà e degli
interessi comuni degli individui. Tradizionalismo e nazionalismo affondano le
loro radici nel comune terreno del provvidenzialismo romantico. Infine, uno
degli aspetti fondamentali del R., e tra i più appariscenti, è il rifanismo.
Infatti il culto e l’esaltazione dell’infinito hanno, come loro con- troparte
negativa, l’insofferenza o l’insoddisfazione del finito. E in questa
insofferenza (o insoddisfazione) si radica l’atteggiamento di ribellione verso
tutto ciò che appare o è un limite o una regola e la sfida incessante a tutto
ciò che, per la sua finitudine, appare impari o inadeguato nei confronti
dell’in- finito. Prometeo è assunto come il simbolo di questo titanismo, con
una interpretazione che è molto distante dallo spirito dell’antico mito greco.
Per questo Prometeo era colui che aveva infranto, per rendere possibile la
sopravvivenza del genere umano, la legge del fato e che giustamente subiva le
conse- guenze di questa infrazione. Per il R., invece, è il simbolo della sfida
e della ribellione al finito: di una sfida e di una ribellione, cioè, che non
traggono la loro ragione da ciò cui s'oppongono ma solo dal fatto che ciò a cui
s’oppongono non è l'infinito. L'atteggiamento del titanismo non conduce alla critica
delle situazioni di fatto e allo sforzo di tra- sformarle, perchè non ritiene
che una situazione di fatto sia o possa essere superiore o preferibile
all’altra; ma si esaurisce in una protesta univer- sale e generica e non può
impegnarsi in alcuna decisione concreta. Il culto e l’esaltazione
dell’infinito, il non con- tentarsi di meno dell’infinità, costituiscono i
tratti salienti dello spirito romantico. Come già si è detto, lo stesso
positivismo rientra in questo spirito. Esso estende il concetto di progresso a
tutta la storia del mondo: questo significa, infatti, « evoluzione ». Esso fa
della storia umana un progresso neces- sario e infallibile. Infine esso fa
della scienza, che è la manifestazione umana da esso prediletta, l’in- finito
stesso della verità e la elegge ad unica guida degli uomini in tutti i campi.
Gli aspetti che il R. rivestì nella politica, nel- l’arte e nel costume sono
strettamente collegati con i caratteri ora chiariti. Nella politica, il R. è
di- fesa ed esaltazione delle istituzioni umane fonda- mentali, come son quelle
nelle quali s’incarna il Principio infinito: lo stato e la chiesa, con tutto ciò
che implicano. Nell'arte, esso cerca la realiz- zazione dell’infinito in forme
grandiose e dram- matiche in cui i contrasti sono portati all’estremo per poi
conciliarsi e pacificarsi in forma altret- tanto estrema e definitiva. Nel
costume, l’amore romantico va in cerca dell'unità assoluta fra gli amanti,
della loro identificazione nell’infinito; e a questa unità o identificazione
sacrifica il senso au- tentico del rapporto amoroso e la sua possibilità di
costituire la base di una vita comune (v. AMORE). ROSMINIANESIMO. S’intendono
con questo termine i tratti salienti della filosofia di Antonio Rosmini Serbati
(1797-1855) e specialmente: 1° il tradizionalismo cioè la preoccupazione di
difendere i valori tradizionali e di giustificare la tradizione come prodotto o
manifestazione di Dio; 2° l’on- tologismo cioè la tesi che lo spirito umano
fruisce di una immediata e certissima, per quanto par- ziale, conoscenza
dell’essere e che tale conoscenza è la base di tutto il sapere (v. OnToLOGIA);
3° lo scolasticismo cioè la concezione della filosofia come strumento diretto a
giustificare le verità della re- ligione. ROTTURA (ted. Zerrissenheit). Termine
intro- dotto dalle filosofie esistenzialistiche. Per Jaspers, la R. del mondo
si ha quando la ricerca diretta a trovare una totalità assoluta e
onnicomprensiva mette capo a una molteplicità di prospettive, ognuna delle
quali è relativa a un certo punto di vista e nessuna delle quali perciò può
valere come un mondo (Phi/., I, pag. 64 sgg.). Secondo Heidegger, la R. del
mondo si ha con la scienza e con la tec- nica che organizzano il distacco
dell'uomo dalla natura (Erlduterungen zu Hòlderlin, pag. 271 sgg.).SABELLIANISMO
(ingl. Sabellianism; fran- cese Sabellianisme; ted. Sabellianismus). La
dottrina trinitaria sostenuta da Sabellio nella prima metà del n secolo d. C.:
dottrina che insistendo sull’unità della Sostanza divina riduceva le Persone
divine a tre modi o manifestazioni dell’unica Sostanza. La dottrina fu chiamata
perciò anche modalismo (v.). SACERDOTALISMO (ingl. Sacerdotalism). Termine
adoperato soprattutto da scrittori anglo- sassoni per designare la tendenza ad
accordare, nella religione, la massima importanza all’aspetto ecclesia- stico e
sacramentale a scapito di quello interiore o spirituale. SACRIFICIO (ingl.
Sacrifice; franc. Sacrifice; ted. Opfer). La distruzione di un bene o la
rinuncia ad esso, in onore della divinità. Il S. è una delle più diffuse
tecniche religiose. Il suo scopo è o la purificazione cioè la liberazione da
qualche colpa o peccato: nel qual caso il S. appare come disinte- ressato e
cioè senza un immediato fine utilitario; 0 la consacrazione che ha sempre un
fine più o meno utilitario consistendo nel persuadere la divinità a concedere
la sua garanzia alla cosa o alla persona che si consacra. Sia la purificazione
che la consacra- zione banno il più delle volte carattere simbolico: nel senso
che il dono sacrificato non ha soltanto il valore economico che la comunità gli
attribuisce ma anche una certa relazione simbolica con lo scopo purificatorio o
consacrativo della cerimonia sacrificale. Questi tratti sono riconoscibili
nelle tec- niche sacrificali di tutte le religioni, quali che sia il loro grado
di sviluppo o di raffinamento intel- lettuale (cfr. S. REINACH, Cultes, mythes
et religions, 1905; E. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse,
1912; A. Loisy, Essai historique sur le sacrifice, 1920; P. RADIN, Primitive
Religion, 1937). SACRO (gr. tepéc; lat. Sacer; ingl. Sacred; fran- cese Sacré;
ted. Heilig). L’oggetto religioso in ge- nerale: cioè tutto ciò che è l’oggetto
di una garanzia soprannaturale o che concerne tale garanzia. Poichè questa
garanzia può essere talvolta negativa o proi- bitiva, il S. ha il duplice
carattere di ciò che è santo e di ciò che è sacrilego cioè di ciò che è S. perchè
prescritto o esaltato dalla garanzia divina o di ciò che è S. perchè proibito o
condannato dalla stessa garanzia (cfr. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la
vie religieuse, 1912). R. Otto ha chiamato questi due aspetti rispettivamente
quelli del fascinoso e del tremendo (Das Heilige, 1917). Heidegger,
interpretando una poesia di Hélderlin che identifica la natura con il S., ha
considerato il S. stesso come la radice del destino degli uomini e degli dèi.
«Il S., egli ha detto, decide inizial- mente intorno agli uomini e agli dèi, se
siano, chi siano, come siano e quando siano » (Er/auter- ungen zu Holderlin,
1943, pag. 73-74). Heidegger afferma pure che «il S. non è S. perchè divino, ma
il divino è divino perchè è S.» (/bid., pag. 58). SAGACIA (gr. edovveola; lat.
Sagacitas; inglese Sagacity; fran. Sagacité; ted. Sagazitàt). La perspi- cacia
nell’indagine. Aristotele identificò la S. con l’apprendere (Et. Nic., VI, 10,
1143 a 17). E Kant la definì come «il dono naturale che consiste nel giu- dicare
in precedenza (iudicium praevium) dove si può trovare la verità e di utilizzare
le più piccole circo- stanze per scoprirla » (Antr., I, $ 56). SAGGEZZA (gr.
ppémot; lat. Sapientia, Pru- dentia; ingl. Wisdom; franc. Sagesse; ted. Weisheit). In generale, la disciplina razionale delle
faccende umane: cioè il comportamento razionale in ogni campo o la virtù che
determina ciò che è bene o male per l’uomo. Il concetto di S. fa tradizional- mente
riferimento alla sfera propria delle attività umane ed esprime la condotta
razionale nell’am- bito di questa sfera, cioè la possibilità di dirigerla nel
modo migliore. La S. non è la conoscenza di cose alte e sublimi, remote dalla
comune umanità, come la sapienza (v.): è la conoscenza delle fac- cende umane e
del miglior modo di condurle. Il primato accordato alla S. o alla sapienza
denuncia l’interpretazione fondamentale che si dà della filo- sofia: il primato
accordato alla sapienza è proprio del concetto della filosofia come
contemplazione pura; il primato accordato alla S. esprime il con- cetto della
filosofia come guida dell’uomo nel mondo (v. FILOSOFIA, JI). La netta
distinzione tra S. e sapienza è stata fatta da Aristotele. Platone non
distingue nep- pure tra i due termini.|Egli chiama sapienza (vogla) la scienza
che presiede all’azione virtuosa (Rep. IV, 443 e; cfr. 428b) che è lo stesso di
saggezza! E della S. dice che «la più alta e di gran lunga la più bella è
quella che si occupa degli ordinamenti politici e domestici e a cui si dà il
nome di prudenza e di giustizia » (Conv., 209 a). Un sapere fine a se stesso è
estraneo all’impostazione della sua filo- sofia. Questo sapere viene invece
esaltato da Ari- stotele come la forma più alta e divina del sapere stesso (v.
SAPIENZA): di fronte ad esso la S. si ab- bassa a cosa meramente umana, che
perciò ha minor pregio. Da questo punto di vista, essa è definita come «l’abito
pratico razionale che con- cerne ciò che è bene o male per l’uomo » (Er. Nic.,
VI, 5, 1140 b 4). Ma «l’uomo non è l’essere mi- gliore del mondo » (Zbid., VI,
7, 1141 a 21). È un essere mutevole; e la S. che lo concerne è mutevole anch'essa,
mentre la sapienza è sempre la stessa (Ibid., 1141 a 20 sgg.). Aristotele
pertanto pone al di sopra di tutto la sapienza il cui oggetto è ciò che non può
mutare nè essere diverso da com'è: il necessario. Questa distinzione e
contrapposizione di Aristo- tele si sono mantenute nei secoli; e il modo di intendere
la sapienza o S. (che in alcune lingue sono indicate dalla stessa parola)
rivela l’orienta- mento generale di una determinata filosofia verso la
contemplazione o verso l’azione. La filosofia post-aristotelica fece prevalere
l’ideale della sag- gezza. Epicuro diceva che la S. «da cui nascon tutte le
virtù è anche più preziosa della filosofia » (Lett. a Menec., 132). Gli Stoici
identificavano con la S. la virtù intera, dalla quale tutte le altre di- pendono
(Diog. L., VII, 125-26). Il neoplatonismo dall’altro lato, tornava
all’esaltazione della sapienza (PLOTINO, Enn., V, 8, 4). Mentre S. Tommaso
ripro- duceva la distinzione aristotelica chiamando la S. prudentia e
considerandola «la consigliera intorno alle cose che concernono l’intera vita
dell’uomo e anche l’ultimo fine della vita umana» (S. 7à., II, 1, q. 57, a. 4).
Il mondo moderno si riattacca di pre- ferenza all’ideale pratico della S., che
ritorna in Cartesio (Princ. Phil., pref.) ed in Leibniz. Que- st’ultimo unisce
nella sua definizione l’aspetto teo- retico e l'aspetto pratico: «la S. è la
perfetta cono- scenza dei princìpi di tutte le scienze e dell’arte di applicarli»
(De /a sagesse, Op.,ed. Erdmann, pag. 673): ma l’inclusione dell’aspetto
pratico significa il rifiuto dell’ideale della sapienza. Allo stesso ambito
appar- tiene la definizione di Kant: «La S. consiste nel- l’accordo della
volontà di un essere col suo scopo finale » (Mer. der Sitten, II, $ 45). Hegel
accentuava il carattere umano e mondano della S., parlando di una S. mondana
(Weltweisheit) che il Rinascimento avrebbe contrapposto, come ragione umana,
alla ragione divina cioè alla reli- gione (Geschichte der Philosophie, ed.
Glockner, I, pag. 92 sgg.). E Schopenhauer accentua ancora di più il carattere
mondano della S. intendendo per essa «l’arte di trascorrere la vita nel modo più
piacevole e felice possibile » (Aphorismen zur Lebensweisheit, Pref.). Ai
filosofi contemporanei la parola S., come ‘sapienza’, sembra troppo solenne
perchè essi si soffermino a chiarirne il concetto. La S. rimane tuttavia
legata, per loro come per gli antichi, alla sfera delle faccende umane e si può
dire costituita dalle tecniche vecchie o nuove di cui l’uomo di- spone per la
migliore condotta della sua vita. SAGGIO (gr. copéc; lat. Sapiens; ingl. Sage;
franc. Sage; ted. Weise). La figura stereotipa del S. fu delineata nella
filosofia greca dell'età ales- sandrina da Epicurei, Stoici e Scettici, ma
soprat- tutto dagli Stoici, e rimase fissata nella tradizione con certe
caratteristiche fondamentali. Il carattere primo e fondamentale che tutt’e tre
le scuole attri- buiscono al S. è la serenità o l’indifferenza alle vicende o
ai movimenti umani: serenità che esse chiamano con i nomi ararassia, aponia, o
aparia (v.). Gli altri caratteri sono i seguenti: 1° L’isolamento, cioè la
netta separazione del S. dagli altri mortali, con i quali non ha nulla in
comune. Gli Stoici portavano questa separazione all'estremo limite ammettendo
due specie di uomini, quelli che praticano la virtù e quelli che non la pra-
ticano e ritennero che i primi sono S. tutti gli altri pazzi (StoBEO, Ecl., II,
7, 11; 65, 12). 2° L’improgredibilità, per la quale chi non è S. è stolto o
pazzo e non può esserci un S. che sia più S. di un altro. « Chi è immerso
nell'acqua, dice Cicerone esponendo questa dottrina, se non è lontano dalla
superficie tanto da poter quasi affio- rare, non può respirare più che se fosse
ancora sul fondo ...: allo stesso modo chi si è avanzato al- quanto verso
l’abito della virtù non è soggetto all’infelicità meno di chi non si sia
avanzato af- fatto » (De Fin., III, 14, 48). 3° L’autarchia. Questo carattere è
stato già esaltato da Aristotele: «Il giusto ha ancora bi- sogno di persone che
egli possa trattare giusta- mente e con le quali essere giusto, similmente
anche l’uomo moderato e il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi:
il S. invece può contemplare da sè solo, tanto più quanto più è S.; forse è
meglio se ha collaboratori, tuttavia egli è del tutto auto- sufficiente » (Er.
Nic., X, 7, 1177a 30). Aristotele tuttavia si riferiva all’attività
contemplativa, cui li- mitava l’attività propria del S.; le scuole post-ari- stoteliane
estendono il carattere di auto-sufficienza del S. a tutte le manifestazioni
della sua vita, non limitata necessariamente alla contemplazione. 4° La
rinuncia. Fu questo il carattere del S. sul quale insistettero soprattutto gli
Stoici latini, Epitteto, Seneca e Marco Aurelio. La distinzione stabilita da
Epitteto tra le cose su cui l’uomo ha potere e che sono i suoi stessi stati
d’animo e le cose su cui non ha potere, che sono le cose esterne, fa sì che il
S. deve prescindere dalle cose esterne e riporre il bene e il male solo in
quelle che sono in suo potere (Manuale, 31). Questo im- plica la rinuncia del
S. ad occuparsi delle cose stesse e la sua accettazione della massima « sop- porta
e astieniti» (A. GELLIO, Noct. Att., XVII, 19, 6). 5° La coscienza. Questo
tratto fu aggiunto alla figura del S. dal neoplatonismo che esaltò soprattutto
in lui la facoltà di guardare in sè stesso e di trarre tutto da sè. Dice
Plotino: «Il S. trae da se stesso ciò che egli manifesta agli altri: egli guarda
solo a se stesso: non solo tende a unifi- carsi e a isolarsi dalle cose esterne
ma è rivolto a se stesso e trova dentro di sè tutte le cose + (Enz., III, 8, 6;
cfr. I, 4, 4). Questo movimento per cui il S. guarda se stesso e trova tutto in
se stesso è la coscienza (v.); e da questo punto di vista solo nel S. la
coscienza si realizza e vive. SALTO (lat. Saltus; ingl. Leap; franc. Saut; ted. Sprung). Termine adoperato da Kierkegaard per indicare il «
passaggio qualitativo » cioè il pas- saggio brusco e senza mediazione da una
categoria al- l’altra o da una forma di vita all’altra (per es., dalla vita
etica alla vita religiosa) o in genere da uno stato all’altro (per es.,
dall’innocenza al peccato, dal peccato alla fede, ecc.). Kierkegaard contrap- pose
questa nozione di S. alla nozione hegeliana di mediazione (v.) e la illustrò
ravvicinandola: 1° Al- l’entimema (v.) cioè al sillogismo contratto nel quale si
omette una premessa e si passa direttamente dalla promessa maggiore alla
conclusione (« Tutti gli animali sono mortali, perciò l’uomo è mor- tale +)
(Diario, VIA, 33). La parola S. si trova a questo proposito adoperata da Kant:
« Un S. (saltus) nella deduzione o nella prova è la connes- sione di una
premessa con la conclusione, sicchè l’altra premessa viene tralasciata »
(Logik, 1800, $ 91). 2° All’analogia e all’induzione: la prima delle quali
stabilisce un rapporto tra cose qualitativa- mente diverse, la seconda delle
quali passa dal particolare all’universale (Diario, V A, 74). 3° Alla dottrina
hegeliana del passaggio dal mutamento quantitativo a un mutamento qualitativo.
Questa è la fonte autentica del concetto kierkegaardiano. Diceva Hegel: «
L'acqua, con il cambiare tempe- ratura, non diventa semplicemente più o meno calda,
ma passa attraverso gli stati solido, gas- soso o liquido. Questi diversi stati
non nascono a poco a poco, ma il semplice processo graduale del mutamento di
temperatura viene interrotto da essi e il subentrare di un altro stato è un
salto. Ogni nascita e ogni morte, invece di essere un continuo a poco a poco, è
anzi un troncarsi dell’a poco a poco e un S. dal mutamento quanti- tativo nel
mutamento qualitativo » (Wissenschaft der Logik, I, sez. III, cap. II, B; trad.
ital., pag. 418- 419). Kierkegaard rimprovera a Hegel di aver confinato questo
concetto nel dominio della logica (Der Begriff Angst, I, $ 2; trad. ital., pag.
35 e nota). Jacobi aveva adoperato l’espressione S. morrale (in italiano) per
caratterizzare il passaggio dalla fede alla conoscenza filosofica (Werke, IV,
pag. xL sgg.); mentre Kant adoperava la stessa espressione per indicare il
passaggio dalla ragione alla fede cieca (Religion, B 158). SALVEZZA (ingl.
Salvation; franc. Salut; te- desco Heil). La liberazione da un male mortale che
minacci il corpo o l’anima dell’uomo. La S. può essere intesa: 1° come
liberazione da questo 0 quel male particolare che incomba sull’uomo nel mondo.
In questo senso il termine è inteso anche fuori della religione; 2° come
liberazione dal mondo, inteso nella sua totalità come un male; pertanto come
interruzione definitiva della catena delle nascite (bud- dismo); o come
liberazione da ogni sofferenza o do- lore o punizione. Ed in questo senso il
termine ha significato specificatamente religioso (v. RELIGIONE). SAMSARA. V.
Buppismo. SANKHYA. Uno dei grandi sistemi di filosofia indiana secondo il quale
esistono due sostanze op- poste ma entrambe eterne e infinite: le anime (pu-
rusa) che sono molteplici semplici e inattive e la na- tura (prakrri) che è
unica, complessa e dinamica. Il sistema non ammette l’esistenza della divinità
re- golatrice del mondo. Ogni cosa nasce dalla natura e ritorna ad essa con un
movimento circolare che continuamente si ripete (cfr. G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, cap. V, e relativa biblio- grafia). 764 SANSIMONISMO
(ingl. Saint-Simonism; fran- cese Saint-Simonisme; ted. Saint-Simonismus). La
dot- trina del Conte Claudio Enrico di Saint-Simon (1760-1825) esposta in
numerosi scritti dei quali i principali sono /ntroduction aux travaux scien-
tifigues du XIX° siècle, 1807; L’industrie, 1816-18; Nouveaux christianisme,
1825, ecc. Saint-Simon è il vero fondatore del positivismosociale cioè di
quella dottrina che vuol porre la scienza, e la filosofia fon- data sulla
scienza, a fondamento di una riorganizza- zione radicale della società umana.
Nella nuova società il potere spirituale sarà affidato agli scien- ziati e il
potere temporale agli industriali. Nel Nuovo cristianesimo Saint-Simon definì
l’avvento della so- cietà tecnocratica come il ritorno al cristianesimo primitivo.
Il S. contribuì a formare la coscienza dell'importanza sociale e spirituale
delle conquiste della scienza e della tecnica e incoraggiò potente- mente lo
sviluppo industriale: ferrovie, banche, in- dustrie, anche l’idea dei canali di
Suez e di Panama furono dovuti a sansimonisti (v. POSITIVISMO). SANTITÀ (gr. dowbmg; lat.
Sanctitas; inglese Holiness; franc. Sainteté;
ted. Heiligkeit). Questo termine ha due significati fondamentali: 1° un significato
oggettivo per cui significa inviolabilità e designa in generale un valore che
va in ogni caso riconosciuto o salvaguardato; 2° un signi- ficato soggettivo
per cui designa il grado ec- cellente e superiore della virtù o della religione
come virtù. Nel primo senso si dice santo ciò che è sancito o garantito da una
legge umana o divina: per es., la santità delle leggi o del giuramento, ecc.
Nel secondo senso si dice santo l’essere che realizza in sè la vita morale o
religiosa nel suo grado più alto. Nel primo senso Platone dice « assegnare
rettamente a tutti ciò che è giusto ed è santo » (Pol., 301 d); nel secondo
senso egli nega che la S. consista nel «far cosa gradita agli dèi» (Eut., 6 e)
e identifica la S. col grado supremo della virtù cioè con la giu- stizia (Rep.,
X, 615b; Leggi, II, 663 b, ecc.). Sempre in questo secondo senso, S. Tommaso
identificava la S. con la religione cioè con la virtù più alta (S. 7A., II, 2,
q. 81, a. 8); e Kant definiva la S. come «la conformità completa della volontà
alla legge mo- rale ». In questo senso, secondo Kant, la S. è « una perfezione
di cui non è capace nessun essere ra- zionale del mondo sensibile in nessun
momento della sua esistenza ». Perciò si può ammettere sol- tanto come il
limite di un progresso all’infinito verso la perfezione morale (Crit. R. Prar.,
I, II, cap. II, $ 4). Dall'altro lato Kant ammette pure la S. nel senso
oggettivo, che definisce come inviolabilità. Così egli dice che «la legge
morale è santa (in- violabile) » (Zbid., $ 5), e che «l’umanità deve essere
santa per noi stessi nella nostra persona +» (/bid., $ 5): nei quali casi
ovviamente la nozione di S. è quella di un valore supremo, che non si può
disconoscere. Queste notazioni kantiane sono state largamente ripetute nella
filosofia moderna. SANZIONE (lat.
Sanctio; ingl. Sanction; fran- cese Sanction; ted. Sanktion). Del termine ci sono due concetti fondamentali che
corrispondono ai due fondamentali indirizzi dell’erica (v.): 1° Per il primo,
che corrisponde all’etica del fine, la S. è la conseguenza piacevole o dolorosa
(ricompensa o pena) che un’azione determinata pro- duce in un determinato
ordinamento (naturale, mo- rale o giuridico). In questo caso, la natura della S.
dipende dalla natura dell’ordinamento cui si fa riferimento ed esistono S.
naturali, morali, giuri- diche a seconda che è l’ordinamento della natura o
quello morale o quello statuale a determinare la sanzione. 2° Per il secondo
significato, la S. è in gene- rale, uno stimolo della condotta. Fu questo il
con- cetto della S. stabilito da Bentham: « Gli stimolanti della condotta, egli
disse, trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle
speranze e dei timori: delle speranze che ci offrono un ecce- dente di piaceri,
dei timori che prevedono per anti- cipazione un eccedente di dolore. Questi
stimolanti possono opportunamente ricevere il nome di S.» (Deontology, 1834, I,
7). Questo stesso concetto di S. fu accettato dagli utilitaristi inglesi (cfr.
STUART MILL, Urilitarianism, cap. III) (v. PENA). SAPERE (ingl. Knowing; franc. Savoir; tedesco Wissen). Questo verbo sostantivo
viene usato in due significati principali: 1° Come conoscenza in generale e in
questo caso designa ogni tecnica ritenuta adatta a dare informazioni intorno a
un oggetto; o un insieme di tali tecniche; o l’insieme più o meno organiz- zato
dei loro risultati. W. James accettò la distin- zione stabilita da J. Grote
(Exploratio philosophica, 1856, pag. 60) tra conoscere una cosa o una persona o
un oggetto qualsiasi, che significa avere una certa familiarità con questo
oggetto; e S. qualcosa in- torno all’oggetto, il che significa averne una cono-
scenza, magari limitata, ma esatta, di natura intel- lettuale o scientifica
(The Meaning of Truth., 1909, pag. 11-12). Ma questa distinzione si diffuse so-
prattutto nella forma che a essa dette Russell in un famoso articolo del 1905.
«La distinzione tra esperienza diretta (acquaintance) e conoscenza circa (Knowledge
about) è la distinzione fra le cose che ci sono immediatamente presenti e
quelle che noi raggiungiamo solo per mezzo di frasi denotanti +» (sOn
Denoting», 1905, in Logic and Knowledge, 1956, pag. 41). Tale distinzione
costituì uno dei capisaldi della dottrina del Circolo di Vienna; e per quanto
Carnap ne abbia riconosciute presto le difficoltà («Testability and Meaning»,
in Readines in the Philosophy of Science, 1953, pag. 48 sgg.) essa ha
continuato e continua ad essere il presupposto di molte dottrine, quella di
Carnap compresa (v. ESPERIENZA). 2° Come scienza, cioè come conoscenza in qualche
modo garantita nella sua verità (per questo significato v. SCIENZA). SAPERE
AUDE. Il motto di Orazio (£pist., XII, 40) fu assunto nel sec. xvi come
l’insegna dell’illuminismo (« Osa conoscere +) e in questo senso fu richiamato
da Kant, nel suo scritto sull’illumi- nismo (Was ist Aufkldrung?, 1784, in
Werke, edi- tore Cassirer, IV, pag. 169), che lo traduceva di- cendo: « Abbi il
coraggio di servirti del tuo proprio intelletto ». Già nel 1736 il motto era
stato assunto come emblema da una « Società degli Aletofili » di Berlino che si
ispirava a Wolf (cfr. sulle vicende del motto: FRANCO VENTURI in Rivista
Storica Ita- liana, 1959, pag. 119 sgg.). SAPIENZA (gr. copia; lat. Sapientia;
inglese Wisdom; franc. Sagesse; ted. Weisheit). La più alta conoscenza delle
cose più eccellenti. La S. è caratte- rizzata: 1° dall’essere il grado di
conoscenza più alto, cioè più certo e più completo; 2° dall’avere per oggetto
le cose più alte e sublimi cioè le cose divine. Questo fu almeno il concetto
che si ebbe della S. quando si cominciò a distinguerla dalla saggezza (v.), il
che accadde con Aristotele. Sino ad Ari- stotele e nello stesso Platone, S. e
saggezza signi- ficarono la stessa cosa e cioè la saggezza: la condotta razionale
della vita umana (cfr. PLATONE, Rep., 428 b; 443 e). Aristotele distinse e
contrappose le due cose. «La S., egli disse, è la più perfetta delle scienze.
Il sapiente deve sapere non solo ciò che deriva dai princìpi ma essere nel vero
anche in- torno ai princìpi. Sicchè la S. può dirsi insieme intelletto e
scienza, ed essendo a capo delle scienze sarà la scienza delle cose più
eccellenti » (Er. Nic., VI, 7, 1141 a 16). Intelletto e scienza stanno qui nel
senso specifico definito da Aristotele: l’intel- letto (vods) come conoscenza
diretta dei princìpi della dimostrazione (/bid., VI, 6, 1141 a 7); e la scienza
come « abito della dimostrazione » o facoltà dimostrativa (/bid., VI, 3 1139b
31). La S. è perciò la conoscenza più certa e perfetta perchè è insieme
conoscenza dei princìpi e delle dimostra- zioni che da essi seguono. Inoltre,
come tale, è anche la scienza delle cose più alte e sublimi. «Vi sono altre
cose molto più divine dell’uomo per natura, come gli astri luminosi di cui si
compone il mondo... Perciò si dice che Anassagora e Talete e siffatti uo- mini
sono sapienti e non saggi giacchè non cono- scono ciò che giova a se stessi ma
cose eccezionali, meravigliose, difficili e divine, ma inutili giacchè essi non
indagano intorno ai beni umani» (/bid., VI, 7, 1041b 1). L’oggetto specifico
della S. è pertanto il necessario, ciò che non può essere altri- menti (/bid.,
1041 b 11); mentre la saggezza ha per oggetto le faccende umane che sono
mutevoli e contingenti. Questa dottrina aristotelica costituisce uno dei punti
in cui il distacco polemico tra Ari- stotele e Platone è più accentuato:
Platone avendo di mira nella sua filosofia la saggezza umana e contrapponendo
Aristotele a tale saggezza la divina sapienza. L’affermazione del primato della
S. carat- terizza le filosofie di tipo contemplativo come l’af- fermazione del
primato della saggezza caratterizza la filosofia del tipo orientativo o pratico
(v. FiLo- sora, Il). Stante il riconosciuto carattere « divino » della S. non
fa meraviglia che nelle filosofie a sfondo re- ligioso dell’età alessandrina e
posteriori la S. sia stata sostanzializzata e intesa come una specie di intermediaria
fra Dio e il mondo: un’equivalente del /ogos (v.). Secondo Plotino c'è una S.
che è sostanza e della quale nessun’altra S. è migliore; ed essa «crea tutti
gli esseri, che tutti emanano da essa ed è essa stessa gli esseri che nascono
insieme con essa e si identificano con essa, sicchè un’unica cosa sono S. e
sostanza » (Enn., V, 8, 4). Questa concezione si trovava già nel libro biblico
della Sapientia, dove è detto di essa: « È un vapore della virtù divina e una
emanazione sincera della luce di Dio onnipotente. È splendore della luce
eterna, è lo specchio immacolato della maestà di Dio e l’immagine della Sua
bontà. Pur essendo una, può tutto; e permanendo in sè innova tutte le cose e si
trasporta di nazione in nazione nelle anime sante, costituendo gli amici di Dio
e i profeti» (Sap., VII, 25-27). Gli Gnostici avevano, dall'altro lato,
personificata la S. e fatto di essa l’ultima emanazione o eone che vuol uscire
dal suo stato di desiderio e raggiungere la conoscenza diretta del Padre
(IRENEO, Adv. Haer., II, 5). Gli Stoici stessi avevano chiamato Dio, come anima
del mondo, « la perfetta sapienza » (Cicer., Acad., I, 29). La filosofia
medievale ritorna, con S. Tommaso, al concetto aristotelico della sapienza. La
S. ha, secondo S. Tommaso, in comune con tutte le scienze la capacità di
dedurre le conclusioni dai princìpi; ma anche qualche cosa in più delle altre scienze
« in quanto giudica di tutte le cose, non solo quanto alle conclusioni ma anche
quanto ai primi princìpi: sicchè è una virtù più perfetta della scienza» (S.
7h., III, q. 57, a. 2, ad 1°). Nella filosofia mo- derna, il termine ha
conservato il suo significato di conoscenza perfetta sia per la sua completezza
che per la natura del suo oggetto. SAPIENZA POETICA. Così Vico chiamò nel secondo
libro della Scienza Nuova (1744) la cultura primitiva del genere umano, in
quanto fondata sulla sensibilità più che sull’intelligenza: «La S. poetica che
fu la prima S. della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non
ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sen- tita ed
immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome quelli che erano
di niuno razio- cinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie ». Vico
parla di una logica poetica, di una morale poetica, di un’economia poetica, di
una politica poe- tica, di una storia poetica, di una fisica poetica, di una
cosmografia poetica, di un’astronomia poetica, di una cronologia poetica, di
una geografia poetica, come parti della S. poetica. SARCASMO (gr. capxao 6g;
ingl. Sarcasm; fran- cese Sarcasme; ted. Sarkasmus). L'ironia congiunta all’amara
presa in giro di colui contro il quale è diretta. Il concetto è di origine
stoica (cfr. STOBEO, Ecl., II, 6, 222). SAVI, SETTE (gr. Zopiotal; ingl. Seven Sqges; franc.
Sept Sages; ted. Sieben Weisen). Così
furono chiamati alcuni personaggi dell’antichità greca che espressero la loro
saggezza in sentenze o motti bre- vissimi, onde ebbero anche il nome di
Gnomici. Essi furono variamente enumerati dagli scrittori antichi. Talete,
Biante, Pittaco e Solone sono com- presi in tutte le liste. Platone, che per
primo li enumerò, aggiunse ad essi Cleobulo, Misone e Chi- lone (Pror., 343 a).
A Talete si attribuisce il motto « Conosci te stesso » (Dioc. L., I, 40). A
Biante il motto «I più sono malvagi » (/bid., I, 88): e l’altro motto « La
carica rivela l’uomo + (ARIST., Et. Nic., V, 1, 1029 b 1). A Pittaco il motto «
Sappi cogliere l'opportunità » (Dioc. L., I, 79). A Solone i motti «Prendi a
cuore le cose importanti?, e « Nulla troppo + (/bid., I, 60, 63). A Cleobulo il
motto «Ottima è la misura » (/bid., I, 93). A Misone il motto «Indaga le parole
a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole» (/bid., I, 108). A Chilone
i motti « Bada a te stesso + e « Non desi- derare l’impossibile » (/bid., I,
70). SCACCO (franc. Échecj tedesco Scheitern). Secondo Jaspers, è l’esperienza
dell’impossibilità dell’esistenza, nei suoi aspetti particolari o nel suo
insieme; e specialmente l’esperienza dell’im- possibilità di superare le
sifuazioni-limite (v.). Il valore positivo dello S. consiste nel fatto che esso
manifesta o rivela (negativamente) la trascendenza dell'essere; ed è pertanto
una cifra (v.) di questa trascendenza (Philosophie, III, pag. 219 sgg.) (v.
EsI- STENZIALISMO). SCANDALO (ingl. Scandal; franc. Scandale; te- desco
Skandal). Kierkegaard ha fatto dello S. una categoria religiosa, definendola
come «il peccato di disperare della remissione dei peccati +. Che il peccato
possa essere perdonato è, per l’intelletto umano, la cosa più impossibile di
tutte: la reli- gione è da questo punto di vista la « possibilità dello
scandalo +» (Die Krankheit zum Tode, Il, B, B; trad. ital., Fabro, pag. 347;
cfr. Diario, X! A, 133). SCELTA (gr. alpeow, rmpoalpeo; lat. Electio; ingl. Choice; franc.
Choix; ted. Wahl). Il procedi- mento con cui una
possibilità determinata, a pre- ferenza di altre, viene assunta o fatta propria
o decisa o realizzata in modo qualsiasi. Il concetto di S. è strettamente
legato a quello di possibilità (v.), sicchè non solo non c’è S. dove non c’è
possibilità (giacchè la possibilità è per l'appunto ciò che si offre ad una S.)
ma neppure c’è possibilità dove non c’è S. giacchè l’anticipazione, la
progettazione o la semplice previsione delle possibilità sono scelte.
Dall’altro lato il concetto di S. è una delle determinazioni fondamentali del
concetto di /i- bertà (v.). Il concetto di S. è continuamente presente a Platone
che, nel mito di Er, fa dipendere il destino dell’uomo dalla S. che ciascuno fa
del proprio modello di vita: «Non c’era, egli dice, nulla di necessariamente
preordinato per l’anima perchè ciascuna doveva cambiare secondo la S. che essa faceva
» (Rep., X, 618 b). Ma solo Aristotele ci ha dato la prima esauriente analisi
della S. distinguen- dola: 1° dal desiderio che è comune anche agli esseri
irragionevoli, mentre la S. non lo è (Er. Nic., III, 2, 1111 b 3); 2° dalla
volontà, perchè si pos- sono volere anche le cose impossibili, per es., l’im- mortalità,
ma non si possono scegliere (/bid., 1111 b 19); 3° dall’opinione, che anch'essa
può ri- guardare le cose impossibili, per es., quelle eterne, che non dipendono
da noi (/bid., 1111 b 30). A queste determinazioni negative, Aristotele
aggiunse la determinazione positiva che la S. «è sempre accompagnata dalla
ragione e dal pensiero + (/bid., 1112 a 15); alla quale si può aggiungere
l’altra fondamentale, che si desume dalle determinazioni negative: la S.
concerne solo le cose possibili. Quest’ultima determinazione, che è quella fon-
damentale, veniva esplicitamente sottolineata da S. Tommaso, che ripeteva
sostanzialmente l’analisi aristotelica (S. Th., II, 1, q. 13, a. 5). La nozione
di S. è stata sempre ampiamente utilizzata dai filosofi, specialmente nella
discussione del problema della libertà (v.) ma non è stata fre- quentemente
sottoposta ad analisi. A partire da Kierkegaard, la filosofia dell’esistenza ha
sottoli- neato il valore della S., per ciò che concerne la personalità stessa
dell’uomo o la sua esistenza. E ha considerato la S. soprattutto sotto l’angolo
vi- suale della sua stessa possibilità: cioè come S. della scelta. Dice
Kierkegaard: «La S. è decisiva per il contenuto della personalità: con la S.
essa spro- fonda nella cosa scelta e se essa non sceglie, appas- sisce in
consunzione» (Werke, II, pag. 148). Da questo punto di vista la S. importante
non è quella tra il bene e il male ma quella tra scegliere e non sce- gliere. «
Con questa S., scelgo non tra il bene e il male ma scelgo il bene; ma in quanto
scelgo il bene, scelgo con ciò la S. tra il bene e il male. La S. originaria è
sempre presente in ogni S. ul- teriore » (/bid., II, pag. 196). Questo concetto
è stato frequentemente ripetuto nell’esistenzialismo contemporaneo. Secondo
Heidegger, la S. auten- tica è la S. di ciò che è stato già scelto cioè la S. di
quelle possibilità che sono già proprie dell’uomo. « Ripetizione della S.
significa sceglimento di questa stessa S., decidersi per una possibilità che ba
la radice nel proprio se stesso. Nello scegliere la S., l’Esserci si rende per
la prima volta possibile il suo autentico poter essere» (Sein und Zeit, $ 54). Ma
in questo senso la « S. della S. » è semplicemente l'accettazione o il
riconoscimento di ciò che si è, con la rinuncia ad ogni pretesa di mutamento o di
liberazione. E nello stesso senso Jaspers dice: «Io non posso rifarmi da capo e
scegliere tra l’esser me stesso e il non esser me stesso come se la libertà
fosse soltanto uno strumento. Ma in quanto scelgo io sono, se non sono non
scelgo » (Phil., Il, pag. 182). Ciò vuol dire che ciò che posso scegliere è
soltanto il mio me stesso: quel me stesso che è identico con la situazione, col
luogo della realtà in cui mi trovo (/bid., I, pag. 245). La S. della S. è in
realtà la S. di ciò che già si è e non si può non essere. Questo concetto di S.
della S. finisce per eliminare la S. stessa: la quale, come Aristotele aveva
riconosciuto, e sempre le- gata al possibile. Dall’altro lato, Sartre ha insi- stito
sulla perfetta arbitrarietà della S., ha identi- ficato S. e coscienza e ha
pertanto visto un atto di S. in ogni atto di coscienza (L’étre et le néant, pag.
539 sgg.). Ciò può essere vero, ma in qualche modo è opportuno rintracciare un
senso più spe- cifico di S., un senso per il quale non tutti gli atti siano
scelte. Questo senso può essere appunto quello di S. della S.; ma non come S.
di ciò che è già stato scelto, bensì come S. di ciò che può ancora essere
scelto. In tal senso la 4 S. possibile » è non soltanto la S. che si offre come
una possi- bilità, ma la S. che, una volta effettuata, si ripre- senta ancora
possibile. Inteso in questo senso, il concetto di S. diventa suscettibile di
trattamento oggettivo e diventa capace di orientare l’analisi delle tecniche di
scelta. Da questo punto di vista, è indispensabile determinare in primo luogo
il con- testo delle S. cioè il campo delle possibilità (v.) oggettive in cui la
S. deve operare. Per es., a un uomo che ha subito un torto le S. che gli si of-
frono per vendicarsi del suo avversario ricorrendo alla forza o alla violenza
sono diverse da quelle che gli sono offerte dal sistema giuridico in cui vive.
Inoltre, sempre in riferimento a uncontesto determinato, si può distinguere il
grado delle S. che è il numero delle possibilità offerte da un determinato
contesto, dall’estensione delle S., che è il numero di individui che hanno
accesso a una S. determinata in un dato contesto. Estensione e grado possono
stare fra loro in tutti i rapporti possibili, perchè l’aumento del grado può
influire su quello dell’estensione e reciprocamente. Il cri- terio della
ripetibilità delle S., sul fondamento delle considerazioni precedenti, e
specialmente sulla base delle regole tecniche del contesto, è universalmente (per
quanto implicitamente adoperato) da tutte le discipline: sicchè, per es., un
assioma matematico o logico continua ad essere ammesso (cioè la sua S. viene
ripetuta) finchè non conduce a una con- traddizione; una tecnica scientifica o
produttiva rimane in uso (cioè è continuamente S.) finchè non da luogo a
inconvenienti o non se ne trova una migliore; e via dicendo. Della nozione di
S. si fa oggi un uso larghissimo in tutte le scienze e specialmente nella
matematica, nella logica, nella psicologia e nella sociologia. Ma, come si è
detto, raramente essa viene sottoposta ad analisi da queste scienze, che ne
presuppongono il significato corrente. Dall'altro lato le analisi istituite dai
filosofi non sempre rendono conto dei caratteri fondamentali della S. stessa.
Bergson, ad es., ha considerato le alternative davanti alle quali ogni S. si
trova situata come false « spazia- lizzazioni » degli stati interiori di
esitazione; e per- tanto ha concepito la S. come distaccantesi «al modo di un
frutto maturo» dagli stati successivi dell’io (Les données immédiates de la
conscience, 1889, pag. 134). Ma è chiaro che se le alternative sono fittizie,
fittizia è la S. stessa la quale vive solo nel possibile, che è costituito da
alternative. Un tratto più autentico della S. umana è stato messo in luce da
Dewey: « La S. non è l'emergere di una preferenza dall’indifferenza: è
l'emergere di una preferenza unificata da un insieme di preferenze competitive
». Pertanto la S. ragionevole è soltanto quella che unifica e armonizza
differenti tendenze che sono in concorrenza fra loro (Human Nature and Conduct,
1929, pag. 193). Dewey ha così fatto cadere fuori della S. il criterio della
ragionevolezza della S., mettendosi su un piano sul quale si pos- sono
suggerire innumerevoli criteri. Egli ha tuttavia il merito di avere
sottolineato l’importanza della S. e la sua onnipresenza. « L'operazione della
S., ha detto, è inevitabile in qualsiasi intrapresa entri la riflessione. In se
stessa, non è falsificatrice. L'’illu- sione giace nel fatto che la sua
presenza è nascosta, camuffata, negata. Un metodo empirico ritrova e mette in
chiaro l'operazione della S., come fa per qualsiasi altro evento» (Experience
and Nature, 1926, pag. 35). SCELTE, ASSIOMA DELLE (ingl. Axiom of Choice; franc.
Axiome de choix; ted. Auswahl- prinzip).
Va con questo nome un principio enun- ciato da Zermelo nel 1904 secondo il
quale: data una classe XK i cui membri sono classi non vuote a, b, c, ...
esiste una funzione f che fa corrispondere ad ogni classe a, d, c, un elemento
e uno solo della classe stessa f (a), f (5), f (c), ... Questo postulato nella
forma di un assioma moltiplicativo, fu rie- sposto da Russell nella forma
seguente: data una classe X i cui membri sono classi non vuote, che non hanno
alcun membro in comune, esiste una classe A, i cui membri sono tutti membri dei
membri di X e che ha solo un membro in comune con ciascun membro di X. I due
assiomi sono stati dimostrati equivalenti dallo stesso Zermelo. Un’assunzione
del genere era frequentemente utilizzata dai matema- tici, ma la sua
enunciazione esplicita ad opera di Zermelo suscitò dubbi e discussioni: dubbi e
di- scussioni che vertono sostanzialmente sul concetto di «esistenza » dei
membri di un insieme. Il postu- lato di Zermelo, se applicato agli insiemi
infiniti, significa semplicemente che si può parlare della esistenza di un
membro dell’insieme anche se non è data una regola precisa che consente di
costruire o riconoscere il membro stesso (cfr. K. GODEL, The Consistency of the
Axiom of Choice and of the Generalized Continuum Hypothesis with the Axioms of
Set Theory, 1940; L. GevMonaT, Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale,
1948). SCETTICISMO (gr. oxertiyà dyoyh; inglese Scepticism; franc. Scepticisme; ted. Skepricizmus). Con questo termine, che significa ricerca, s'intende la
tesi che è impossibile decidere sulla verità o falsità di una proposizione
qualsiasi. Lo S. non ha nulla a che fare col relativismo o con le dottrine che
tutto è vero o che tutto è falso, giacchè tali dottrine intendono per l’appunto
fornire quel cri- terio di decisione che lo S. nega che ci sia. Sesto Empirico
ha definito con molto rigore la natura dello S. affermando che il principio
fondamentale dello S. è questo: « A ogni ragione si oppone una ragione di egual
valore ». Tale principio infatti im- pedisce di prender partito per
un’affermazione qual- siasi o la sua negazione e perciò consente di mante- nere
l’imperturbabilità (/p. Pirr., I, 12). Lo S. fu difeso nell’antichità da tre
scuole filosofiche diverse: 1° dalla scuola di Pirrone alla quale esplici-
tamente si riattaccava Sesto Empirico (1 secolo) (v. PIRRONISMO); 2° dalla
terza Accademia o nuova Accademia, il cui indirizzo scetticheggiante fu
iniziato da Car- neade di Cirene (i secolo a. C.), che, pur ammet- tendo
l’impossibilità di decidere sul vero o sul SCELTE, ASSIOMA DELLE falso,
riteneva legittimo l’uso di criteri di credibilità puramente soggettivi; 3° da
un gruppo di pensatori fioriti dall’ul- timo secolo a. C. al I secolo d. C. di
cui i principali furono Enesidemo (1 secolo a. C.), Agrippa e Sesto Empirico.
Questi pensatori ripresero lo S. rigoroso di Pirrone. Enesidemo enunciava dieci
modi per giungere alla sospensione del giudizio ed Agrippa ne aggiungeva altri
cinque (v. TROPI). Sesto Empi- rico, infine, le cui opere ci sono state
conservate, ha fatto valere le sue istanze scettiche sui principali temi della
filosofia antica e ha riaffermato il carat- tere investigativo, sospensivo e
dubitativo dello S. (Ip. Pirr., I, 7. Il vero precedente storico dello S.
antico è la scuola eleomegarica (v. MegaRICI) la quale si com- piacque di
enunciare quegli argomenti insolubili che rappresentano casi tipici
dell’impossibilità di de- cidere sulla falsità o verità di una tesi (v. ANTI- NOMIE).
Nella storia ulteriore della filosofia lo S. non è mai ritornato nella sua
forma classica. Il Medio Evo lo ignora completamente. Nel Rinasci- mento esso
riaffiora nella meditazione di Mon- taigne, come una delle esperienze
fondamentali alle quali Montaigne fa più frequente riferimento. « Noi non
abbiamo comunicazioni con l’essere perchè l’intera natura umana è sempre in
mezzo tra la nascita e la morte e non attinge di sè che una apparenza oscura ed
umbratile, un’incerta e de- bole opinione» (Essais, ed. Plattard, I, pag. 399).
Montaigne ha in vista soprattutto quel carattere dello S. che gli antichi
scettici chiamavano investi- gativo e che per lui è sperimentativo: « Se la mia
anima potesse prender piede io non mi sperimenterei ma mi risolverei; ma essa è
sempre in tirocinio ed in prova » (/bid., III, 2, pag. 29). E lo stesso signi- ficato
fondamentale ha lo S. di P. Charron che nel libro Sulla saggezza fa derivare da
esso una saggezza naturale e razionale che rende serena la vita e non è in
contrasto con la religione. Queste stesse cose erano dette da Francesco Sanchez
nel Quod nihil scitur (1581). Ma queste non sono, come si vede, forme di
autentico scetticismo. Nè un tale S. si ritrova in colui che, nel °700, si fece
esplicito di- fensore della « filosofia accademica o scettica » cioè in D.
Hume. «Il grande avversario del pirronismo o dei princìpi esagerati dello S. è
l’azione, l’atti- vità e le occupazioni della vita comune» diceva Hume (/ng. Conc. Underst., XII, 2). Hume contrap- poneva pertanto allo S. esagerato o
eccessivo lo S. mitigato che consiste nella «limitazione delle nostre ricerche
a quegli oggetti che meglio si adat- tano alla ristretta capacità della mente
umana » (Ibid., XII, 3). Ma tale S. non si distingue dalla tendenza critica
della filosofia e pertanto non può essere propriamente chiamato scetticismo.
Nella filosofia moderna la funzione dello S. è stata duplice. In primo luogo è
servito spesso, come bersaglio polemico o ipotesi da ridurre all’assurdo, ai
filosofi che si proponevano di fondare una qualsiasi dot- trina dogmatica. In
secondo luogo è servito come insegna di battaglia contro determinate filosofie.
Così A. E. Schulze contrappose lo S. di Hume al razionalismo di Kant in
un’opera che intitolò al nome dello scettico antico Enesidemo (1792). In modo
analogo G. Rensi si appellò allo S. contro l’idealismo hegeliano italiano nei
primi decenni del sec. xx (Lineamenti di filosofia scettica, 1917). Ma quello
di Rensi fu un curioso S., mescolato con il materialismo (// materialismo
critico, 1934) e perfino con il misticismo (Testamento filoso- fico, 1939). Sullo
S. antico, cfr. DAL PRA, Lo S. greco, 1950. Sullo S. rinascimentale, cfr. R.
Hoopes, in Hunt- ington Library; R. H. PoPKIN, in Review of Meta- physics,
1953, e relative bibliografie. SCHEBLIMINI. Termine che ricorre nel titolo di
uno scritto di J. G. Hamann (Golgotha und S., 1784) diretto contro Mendelssohn.
Il termine, probabilmente desunto da uno scritto di Lutero, significa
l’ispirazione divina e l’esaltazione che essa comunica, donde la sua
opposizione simmetrica a «Golgotha» che è il simbolo dell’umiliazione. (Cfr. i
chiarimenti di L. SCHREINER nel vol. II degli I. G. Hamanns Hauptschriften
erklart, 1956; e V. VERRA, Dopo Kant. Il criticismo nell’età pre- romantica,
1957, pag. 147 sgg.). SCHEMA (gr. oxfua; ingl. Scheme; fran- cese Schéma; ted.
Schema). Nel significato comune di forma o figura, la parola viene comunemente usata
dai filosofi. Un senso specifico fu dato al termine solamente da Kant che
intese per esso l’intermediario tra le categorie e il dato sensibile, intermediario
la cui funzione sarebbe quella di eli- minare l’eterogeneità dei due elementi
della sintesi, essendo generale come la categoria e temporale come il contenuto
dell’esperienza. In questo senso lo S. o più precisamente lo S. trascendentale
è «la rappresentazione di un procedimento generale per cui l’immaginazione
offre ad un concetto la sua immagine » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap.
I). Kant distingue vari tipi di S. secondo i quattro gruppi delle categorie; e
pone tra essi il numero (S. della quantità) e la cosalità (S. della qualità).
In generale gli S. sono determinazioni del tempo e costituiscono perciò
fenomeni o concetti sensibili di oggetti in accordo con una categoria determinata
(/bid., Anal. dei Princ., cap. I). In modo analogo lo S. fu inteso da
Schelling, che lo distingueva dall’immagine (rispetto alla quale è più
generale) e dal simbolo; Schelling intendeva per S. «l'intuizione della regola
secondo cui l’og- getto può essere prodotto » e pertanto ne chiariva la nozione
con l’esempio dell’artigiano che deve creare un oggetto di forma determinata in
con- formità di un concetto (System des transzenden- talen Idealismus, 1800,
III, cap. II, 3* epoca- trad. ital., pag. 183). Questo significato kantiano e schellinghiano
è l’unico significato tecnico della parola che talora ancora ricorre (cfr., ad
es., LEWIS, An Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 134). AI di fuori di
essa, il termine significa semplicemente modello o immagine generale o forma
(come av- viene, per es., in BERGSON, Matière et mémoire, pag. 130 sgg.;
Énergie spirituelle, pag. 161; La pensée et le mouvant, pag. 216) o progetto
ge- nerale. SCHEMATISMO (gr. cynuariopée; ingl. Sche- matism; franc.
Schématisme; ted. Schematismus). 1. Configurazione o struttura. Questo è il
signifi- cato comune del termine greco, al quale fece riferimento Bacone
parlando dello S. latente come di uno dei due aspetti fondamentali dei fenomeni
naturali (l’altro è il processo latente o processo alla forma). Per S. latente
Bacone intese la con- figurazione o struttura dei corpi considerati stati- camente
(De Augm. Scient., II, 1), sicchè lo studio dello S. fu da lui paragonato a ciò
che è l’anatomia per i corpi organici (Nov. Org., II, 7). 2. Kant intese per S.
«il modo di comportarsi dell’intelletto con gli schemi» (Crit. R. Pura, Anal.
dei Princ., cap. I). E in senso analogo usava la parola Schelling (System des
transzendentalen Idealismus, III, cap. II, 3* epoca). Sulla dottrina kantiana
dello S., cfr. E. Paci, « Critica dello sche- matismo trascendentale », in
Rivista di Filosofia, 1955, n. 4; 1956, n. 1. SCHIAVITÙ (gr. sovàela; lat.
Servitus; in- glese Slavery; franc. Esclavage; ted. Sklavereì). La
giustificazione della S., presso i filosofi, ha rivestito sempre la stessa
forma: la S. è cosa utile non solo al padrone ma allo schiavo stesso. Questo è
il motivo per cui Aristotele ritiene la S. come una delle divisioni naturali
della società pari a quella tra femmina e maschio. Infatti poichè c’è «chi è
naturalmente disposto al comando » e « chi è naturalmente disposto ad essere
comandato » la loro unione è «ciò per cui entrambi possono so- pravvivere ». La
stessa cosa (cioè la S.) è quindi « vantaggiosa sia per il padrone che per lo
schiavo + (Pol., I, 2, 1252 a). Lo stesso S. Tommaso ripe- teva, citando
Aristotele, questa considerazione: « Che quest'uomo sia servo, a preferenza di
un altro è cosa che da un punto di vista assoluto non ha una ragione naturale
ma solo la ragione di una qualche utilità, in quanto è utile allo schiavo che egli
sia governato da uno più saggio ed è utile a costui che egli si giovi dello
schiavo » (S. Tà., II, 2, q. 57, a. 3, ad 2°). L’illustrazione che della figura
servo-padrone ha dato Hegel nella Fenome- nologia dello spirito obbedisce allo
stesso spirito di giustificazione. Il signore è l’autocoscienza del servo e il
servo è lo strumento che elabora gli oggetti affinchè il signore ne goda e
affinchè, in questa maniera egli stesso partecipi, per mediazione, al godimento
dell’oggetto come il padrone partecipa per mediazione alla produzione di esso
(Phanom. des Geistes, I, IV, A; trad. ital., pag. 168 sgg.). D'altronde il
cristianesimo aveva reso insigni- ficante la S.; e, in un certo senso, anche la
sua condanna. Poichè sia il giudeo che il greco, sia il servo che il libero,
sia il maschio che la femmina « fanno una sola cosa in Gesù Cristo » (Ga/.,
III, 28) non è importante che si sia schiavi o liberi, ma basta essere «liberto
del Signore» (/ Cor., VII, 21-22). Nel mondo antico soltanto gli Stoici con- dannarono
senza riserve la S.: « Solo il sapiente è libero e i malvagi sono schiavi:
giacchè la libertà non è che l’autodeterminazione e la S. è l’assenza dell’autodeterminazione.
C’è poi un’altra S. che consiste nella soggezione o nella compera e nella soggezione,
cui si contrappone la padronanza, che è malvagia anch'essa » (Diog. L., VII,
121). Accanto alla negazione della S. come istituzione sociale, gli Stoici
fecero prevalere il concetto della S. come
stato o situazione morale. Diceva Seneca:
« ‘Sono schiavi *. Sì, ma anche uomini. ‘ Sono schiavi ”. Sì, ma anche compagni
di abitazione. ‘ Sono schiavi ’. Sì, ma anche umili amici. ‘ Sono schiavi ’.
Sì, ma anche compagni di schiavitù, se rifletterai che gli uni e gli altri sono
soggetti ai capricci della fortuna » (Ep., 47): concetti che sono variamente
ripetuti nella letteratura romana, per quanto non trovas- sero alcun riscontro
nel diritto romano codificato, che faceva dello schiavo la «cosa? del padrone. Nel
mondo moderno, è stata la filosofia illumini- stica a rendere assurda e
ripugnante la nozione stessa di S.: la difesa che essa fece della nozione di
eguaglianza significa appunto la condanna della S. in tutte le sue forme e
gradi (cfr., ad es., VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, 1764, arti- colo «
Egalité +). SCIENTISMO (ingl. Scientism; franc. Scien- tisme; 1.
L'atteggiamento proprio di chi si av- vale dei metodi e dei procedimenti della
scienza. Questo è il significato che il termine ha spe- cialmente in inglese
(cfr. però anche LE DANTEC, Contre la métaphysique, 1912, pag. 51). 2.
L’atteggiamento di chi dà importanza prepon- derante alla scienza nei confronti
delle altre attività umane o ritiene che non ci siano limiti alla validità e
all’estensione della conoscenza scientifica. In questo senso il termine
equivale a positivismo ma con una connotazione peggiorativa. Dice Bergson: SCIENTISMO
« Noi abbiamo soltanto domandato alla scienza di restare scientifica, di non
avvolgersi in una meta- fisica incosciente che si presenta allora agli igno- ranti,
o ai semidotti, sotto la maschera della scienza. Durante più di mezzo secolo
questo S. ha ingombrato la strada della metafisica» (La SCIENZA (gr. ètriomhun;
lat. Scientia; in- glese Science;
franc. Science; ted. Wissenschaft). Una
conoscenza che includa, in modo o misura qualsiasi, una garanzia della propria
validità. La limitazione espressa con le parole «in modo o mi- sura qualsiasi »
è qui inclusa per rendere la defini- zione applicabile alla S. moderna che non
ha pretese di assolutezza. Ma il concetto tradizionale della S. è quello per il
quale la S. include una garanzia assoluta di validità ed è perciò, come conoscenza,
il grado massimo della certezza. L’op- posto della S. è l'opinione (v.),
caratterizzata per l'appunto dalla mancanza di garanzia circa la sua validità.
Le differenti concezioni della S. si pos- sono distinguere a seconda della
garanzia di vali- dità che le si riconosce. Questa garanzia può consistere: 1°
nella dimostrazione; 2° nella descri- zione; 3° nella correggibilità. 1° La
dottrina che la S. provvede a garantire la propria validità dimostrando le sue
affermazioni, cioè connettendole in un sistema o in un orga-
nismo unitario nel quale ciascuna di esse
sia ne- cessaria e nessuna possa essere tolta, aggiunta o mutata, è l’ideale
classico della scienza. Platone paragonava l’opinione (v.) alle statue di
Dedalo che sono sempre in atto di fuggire: le opinioni difatti « disertano
dall'anima umana sicchè non hanno gran pregio finchè qualcuno non riesce a legarle
con un ragionamento causale +. Ma « quando siano legate diventano S. e
rimangono fisse. Ecco perchè la S. (conclude Platone) è più valida della retta
opinione e differisce da essa per la sua con- nessione » (Men., 98 a). La
dottrina della S. di Aristotele è molto più ricca e circostanziata, ma obbedisce
allo stesso concetto. La S. è « conoscenza dimostrativa ». Per conoscenza
dimostrativa s’in- tende quella per cui «si conosce la causa di un oggetto cioè
si conosce perchè l’oggetto non può esser diverso da com'è» (An. Pr., I, 2, 71b
9 sgg.). Di conseguenza, l’oggetto della S. è il necessario (v.); e perciò la
S. si distingue dall'opinione e non coincide con essa: se coincidesse, « si
sarebbe con- vinti che un medesimo oggetto possa comportarsi diversamente da
come si comporta e si sarebbe, al tempo stesso convinti che non possa compor- tarsi
diversamente» (An. Posr., I, 33, 89a 38). Perciò Aristotele esclude che ci
possa essere S. del non necessario: della sensazione (/bid., 31, 87 b 27) e
dell’accidentale (Mer., VI, 2, 1027 a 20); mentre identifica la conoscenza
scientifica con la conoscenza dell’essenza necessaria o sostanza (/bid., VII,
6, 1031 b 5). La più perfetta realizzazione di questo ideale della S. furono
gli Elementi di Euclide (sec. Im a. C.). Quest'opera, che ha voluto realiz- zare
la matematica come S. perfettamente deduttiva, senza nessun appello
all’esperienza o all’induzione, è rimasta per molti secoli (e sotto certi
aspetti rimane a tutt'oggi) il modello stesso della scienza. Attraverso gli
E/ementi di Euclide la concezione della S. di Platone e di Aristotele si
trasmise più efficacemente che attraverso la delineazione teorica di
Aristotele. Da tale delineazione gli antichi non si scostarono. Gli Stoici la
ripetettero affermando che «la S. è la comprensione sicura, certa e im- mutabile
fondata sulla ragione» (Sesto E., Adv. Math., VII, 151) o che essa «è una
compren- sione sicura o un abito immutabile ad accogliere rappresentazioni,
fondato sulla ragione» (Droc. L., VII, 47). S. Tommaso ripeteva le notazioni
aristo- teliche (S. 77., II, 1, q. 57, a. 2) e Duns Scoto accentuava il
carattere dimostrativo e necessario della S. escludendo da essa ogni conoscenza
priva di quei caratteri, quindi l’intero dominio della fede (Op. Ox., Prol., q.
1, n. 8). Anche l’ultima sco- lastica, con Ockham, manteneva in piedi l’ideale aristotelico
della S. (In Sent., III, q. 8). Il sorgere della S. moderna non ha messo in crisi
questo ideale. Da un lato il necessitarismo degli aristotelici viene condiviso
anche dai loro avversari; dall’altro persiste la suggestione della matematica
come S. perfetta per la sua organizza- zione dimostrativa; e Galilei stesso
poneva le « di- mostrazioni necessarie » accanto alla « sensata espe- rienza »
come fondamento della S. (Opere, V, pag. 316). L’ideale geometrico della S.
domina pure le filosofie di Cartesio e Spinoza. Cartesio voleva organizzare
tutto il sapere umano sul mo- dello dell’aritmetica e della geometria: le sole
S. che egli riconosceva «prive di falsità e di incer- tezza » perchè fondate
interamente sulla deduzione (Regulae ad directionem ingenii, IL E Spinoza chiamava
S. intuitiva la estensione del metodo geo- metrico all'intero universo,
estensione per il quale «dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi
di Dio si procede alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose + (Er., II,
40, scol. 2°). Kant contrassegnava questo vecchio ideale con un nuovo termine,
quello di sistema (v.). « L’unità sistematica, egli diceva, è ciò che prima di
tutto fa di una cono- scenza comune una S. cioè di un semplice aggregato un
sistema +; e aggiungeva che per sistema bisogna intendere « l’unità di
molteplici conoscenze rac- colte sotto un’unica idea » (Crif. R. Pura, Dottrina
del metodo, cap. III; cfr. Meraphysische Anfangs- griinde der
Naturwissenschaft, Vorrede). Questo concetto della S. come sistema, introdotto
da Kant, è diventato un luogo comune della filosofia dell’800 ed è ancora
quello cui fanno oggi ricorso le filosofie di carattere teologico o metafisico.
Ciò è accaduto soprattutto perchè il Romanticismo lo ha fatto suo e lo ha
ripetuto fino alla nausea. Diceva Fichte: « Una S. dev’essere una unità, un
tutto... Le singole proposizioni in generale non sono S., ma diventano S. solo
nel tutto, mercè il loro posto nel tutto, la loro relazione con il tutto »
(Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ I) Schelling ripeteva: « Si
ammette generalmente che alla filosofia convenga una forma sua particolare che si
dice sistematica. Presupporre una tal forma non dedotta tocca ad altre S. che
già presuppongono la S. della S., ma non già a questa che si propone per
oggetto la possibilità di una S. siffatta » (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, I, cap. I; trad. ital., pag. 27). E Hegel affermava
perentoria- mente: « La vera forma nella quale la verità esiste può essere
soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si
avvicini alla forma della S. — cioè alla meta, raggiunta la quale essa sia in
grado di abbandonare il nome di amore del sapere per essere vero sapere — ecco
ciò che io mi sono proposto» (Phanom. des Geistes, Prefa- zione, I, 1). Fichte,
Schelling e Hegel ritenevano che il solo sapere sistematico, quindi la sola S.,
fosse la filosofia. Ma il concetto di sistema è ri- masto a caratterizzare la
S. in generale, quindi anche la S. della natura, per molti filosofi dell’800. H.
Cohen vedeva nel sistema la categoria più alta della natura e della S. (Logik,
1902, pag. 339). Husserl poneva il carattere essenziale della S. nella « unità
sistematica » che in essa trovano le singole conoscenze e i loro fondamenti
(Logische Unter- suchungen, 1900, I, pag. 15); e additava nel sistema l’ideale
stesso della filosofia, se essa vuole organiz- zarsi come «S. rigorosa»
(Philosophie als strenge Wissenschaft, 1910-11; trad. ital., pag. 5). L'ideale
della S. come sistema ha continuato a vivere anche molto tempo dopo che le S.
naturali si sono allon- tanate da esso e hanno cominciato a polemizzare contro
«lo spirito di sistema ». Se si può oggi considerare tramontato l’ideale
classico della S. come sistema compiuto di verità necessarie o per evidenza o
per dimostrazione, non si possono tuttavia considerare tramontate tutte le
caratteristiche di esso. Che la S. sia, o tenda ad essere, un sistema,
un’unità, una totalità organiz- zata, è pretesa che viene talora condivisa
anche dalle altre concezioni della S. stessa. Ciò che questa pretesa conserva
in ogni caso di valido è l’esigenza che le proposizioni che costituiscono il
corpo linguistico di una S. siano tra loro compa- tibili cioè non
contraddittorie. Questa esigenza in- dubbiamente è assai più debole di quella
che vorrebbe che tali proposizioni costituissero una unità o un sistema; anzi,
parlando a rigore, è un’esigenza totalmente diversa giacchè la non con- traddittorietà
non implica in alcun modo l’unità sistematica. Tuttavia, nel corrente
linguaggio scien- tifico o filosofico, spesso l’esigenza sistematica vicne ridotta
a quella della compatibilità. 2° La concezione descrittiva della S. si è ve- nuta
formando a partire da Bacone e per opera di Newton e dei filosofi illuministi.
Il suo fonda- mento è la distinzione baconiana tra anticipazione e
interpretazione della natura: l’interpretazione con- sistendo nel «condurre gli
uomini davanti ai fatti particolari e ai loro ordini » (Nov. Org., I, 26, 36). Newton
stabiliva il concetto descrittivo della S. contrapponendo il metodo
dell’analisi al metodo della sintesi. Quest’ultimo consiste « nell’assumere che
le cause sono state scoperte, nel porle come princìpi e nello spiegare i
fenomeni procedendo da tali principi e considerando come prova questa spiegazione
». L'analisi consiste invece «nel fare esperimenti ed osservazioni, nel trarre
conclusioni generali da essi per mezzo dell’induzione e nel non ammettere
contro le conclusioni obiezioni che non siano derivate dagli esperimenti o da
altre verità certe» (Opricks, III, 1, q. 31). La filosofia del- l’illuminismo
esaltò e diffuse l’ideale scientifico di Newton. « Questo grande genio, diceva
D’Alembert, vide che era tempo di bandire dalla fisica le con- getture e le
ipotesi vaghe o almeno di darle solo per quel che valgono e di sottoporre
questa S. sol- tanto alle esperienze e alla geometria » (Discours préliminaire
de l’Encyclopédie, in (Euvres, ed. Con- dorcet, pag. 143). Nello stesso tempo
D’Alembert dichiarava ormai inutile, per la S. e per la filo- sofia, lo spirito
di sistema. « Tutte le S., egli diceva, rinchiuse, per quanto è possibile, nei
fatti e nelle conseguenze che si possono da essi dedurre, non accordano nulla
all’opinione, salvo quando vi sono costrette ». La S. si riduce così
all’osservazione dei fatti e alle inferenze o ai calcoli fondati sui fatti. Il
positivismo ottocentesco non faceva che appel- larsi allo stesso concetto della
scienza. Diceva Comte: « Il carattere fondamentale della filosofia positiva è
quello di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali
invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minimo nu- mero
possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi, mentre consideriamo come
assolutamente inaccessibile e priva di senso la ricerca di quelle che si
chiamano cause, sia primarie sia finali» (Cours de phil. positive, I, $ 4; vol.
I, pag. 26-27). Ma il positivismo insistette anche su quel carattere della S.
che già Bacone aveva messo in luce: il carattere attivo od operativo, per cui
essa permette all’uomo di agire sulla natura e dominarla mediante la previsione
dei fatti resa possibile dalle leggi (Ibid., II, $ 2; pag. 100). L’ideale
descrittivo della S. non implica pertanto che la S. consista nel rispec-
chiamento o nella riproduzione fotografica dei fatti. Da un lato, il carattere
anticipatorio della cono- scenza scientifica per il quale essa si concreta in previsioni
fondate sui rapporti accertati tra i fatti le toglie il carattere fotografico:
non si può infatti fotografare il futuro. Dall'altro lato, la stessa S. positivistica
ha messo in luce il carattere attivamente orientato della descrizione
scientifica. Le considera- zioni di Claude Bernard a questo proposito sono particolarmente
importanti: « La semplice constata- zione dei fatti, egli dice, non potrà mai
giungere a costituire una scienza. Si possono moltiplicare i fatti e le
osservazioni, ma questo non farà appren- dere nulla. Per istruirsi bisogna
necessariamente ragionare su ciò che si è osservato, paragonare i fatti e
giudicarli con altri fatti che servono di controllo » (Zntr. à l’étude de la
médecine expéri- mentale, 1865, I, 1, $ 4). Da questo punto di vista, una S. di
osservazione sarà una S. che ragiona sui fatti dell’osservazione naturale cioè
sui fatti puramente e semplicemente constatati; mentre una S. sperimentale o di
esperimento ragionerà sui fatti ottenuti nelle condizioni che lo sperimentatore
ha creato e determinato lui stesso (2bid., 1865, I, 1,84). La dottrina della S.
di Mach non potrebbe chia- marsi descrittiva se per descrizione si intendesse
la riproduzione fotografica degli oggetti, ma si può chiamare descrittiva nel
senso ora chiarito. Dice Mach: « Se escludiamo ciò che non ha senso ri- cercare,
vedremo apparire più nettamente ciò che possiamo realmente attingere mediante
le S. par- ticolari: tutte le relazioni e i differenti modi di relazione degli
elementi tra loro » (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad. franc., pag. 25).
L’innovazione di Mach consiste nel suo concetto degli elementi: tali elementi
essendo per lui comuni sia alle cose che alla coscienza e diversi nella
coscienza e nella cosa solo in quanto appartenenti ad insiemi diversi (1bid.,
cap. I; trad. franc., pag. 25; cfr. Die Analyse der Empfindungen, 9* ediz.,
1922, pag. 14). La fun- zione economica che Mach attribuì alla S. o, più precisamente
ai concetti scientifici, non toglie per- tanto il carattere descrittivo della
S., riconoscibile nella tesi che la S. ha per oggetto i rapporzi fra gli elementi.
Appunto perchè la S. considera i rapporti tra i fatti, essa è una descrizione
abbreviativa ed economica dei fatti stessi (Die Mechanik; trad. ingl., 1902,
pag. 481 sgg.). Allo stesso modo Bergson riconosce il carattere convenzionale
ed economico della S. dal fatto che essa, che ha come suo organo l’intelligenza,
si ferma non sulle cose ma sui rap- porti tra le cose o le situazioni (Év.
créarr., 83 ediz., 1911, pag. 161, 356). L’ideale descrittivo della S., ricorre
ancora in scrittori recenti. Dewey afferma: « Nella S., poichè i significati
sono deter- minati sulla base della loro relazione reciproca come significati,
le relazioni divengono gli oggetti dell’indagine e le qualità vengono assai
sminuite di importanza, rivestendo una funzione soltanto in quanto siano
d’aiuto nello stabilire relazioni » (Logic, VI, $ 6; trad. ital., pag. 171).
Ora le re- lazioni non sono che un altro nome per /eggi giacchè la legge non è
che l’espressione di una relazione: sicchè lo stesso concetto della S. si può
riscontrare in tutti gli scrittori che riconoscono nella formulazione della
legge il compito della scienza. Diceva H. Dingler: «Il compito principale della
S. consiste nel raggiungere leggi nel maggior numero possibile » (Die Methode
der Physik, 1937, I, $ 9). E più recentemente R. B. Braithwaite ha affermato:
«Il concetto fondamentale della S. è quello della legge scientifica e lo scopo
fondamen- tale di una S. è lo stabilimento di leggi. Per capire il modo in cui
una S. opera e il modo in cui essa fornisce spiegazioni dei fatti che
investiga, è ne- cessario capire la natura delle leggi scientifiche c il modo
di stabilirle » (Scientific Explanation, Cam- bridge, 1953, pag. 2). 3° Una
terza concezione è quella che riconosce come unica garanzia della validità della
S. la sua autocorreggibilità. Si tratta di una concezione che si è affacciata
nelle avanguardie più critiche o meno dogmatiche della metodologia
contemporanea e non ha ancora raggiunto gli sviluppi assunti dalle due
concezioni precedenti; ma che è tuttavia significa- tiva, sia perchè muove
dall’abbandono di ogni pre- tesa alla garanzia assoluta, sia perchè apre nuove prospettive
allo studio analitico degli strumenti di indagine di cui le S. dispongono. Il
presupposto di questa concezione è il fallibilismo (v.) che Peirce riconosceva
proprio di tutta la conoscenza umana (Coll. Pap., I. 13, 141-52). Ma la tesi in
questione è stata per la prima volta espressa da Morris R. Cohen: « Noi
possiamo definire la S. come un sistema autocorrettivo.. La S. invita al
dubbio. Essa può svilupparsi 0 progredire non solo perchè è frammentaria ma
anche perchè nessuna sua pro- posizione è in se stessa assolutamente certa e
così il processo di correzione può operare quando tro- viamo prove più
adeguate. Ma bisogna notare che il dubbio e la correzione sono sempre in
accordo con i canoni del metodo scientifico così che questa ultima è il suo
legame di continuità » (Srudies in Philosophy and Science, 1949, pag. 50). M.
Black ha più recentemente adottato un punto di vista analogo: «I princìpi
stessi del metodo scientifico devono a loro volta essere considerati come
provvi- sori e soggetti a ulteriori correzioni, in modo che una definizione di
‘ metodo scientifico * sarebbe verifica- bile in qualche esteso senso del
termine » (Problems of Analysis, 1954, pag. 23). In termini apparente- mente
paradossali ma equivalenti, K. Popper aveva affermato nella Logica della
ricerca (1935) che l’ar- mamentario della S. è diretto, non alla verifica, ma
alla falsifica delle proposizioni scientifiche. « 11 nostro metodo di ricerca,
egli diceva, non è diretto a difendere le nostre anticipazioni per provare che abbiamo
ragione, ma al contrario è diretto a di- struggerle. Usando tutte le armi del
nostro arma- mentario logico, matematico e tecnico, noi tentiamo di provare che
le nostre anticipazioni sono false, per avanzare, al loro posto, nuove
ingiustificate e ingiustificabili anticipazioni, nuovi ‘frettolosi e pre- maturi
pregiudizi’ come Bacone derisoriamente le chiamava » (The Logic of Scientific
Discovery, 23 edi- zione, 1958, $ 85, pag. 279). Con questo Popper ha voluto
segnare l’abbandono dell’ideale classico della S.: « Il vecchio ideale
scientifico dell’episteme, della conoscenza assolutamente certa e dimostra- bile,
si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’obbiet- tività scientifica rende
inevitabile che ogni asser- zione scientifica rimanga per sempre come un tentativo
». L'uomo, non può conoscere ma solo congetturare (/bid., pag. 278, 280).
Affermare che gli strumenti di cui la S. dispone siano diretti a dimostrar
false le asserzioni della S. è un altro modo per esprimere il concetto
dell’autocorreggibi- lità della S.: provar falsa un’asserzione significa infatti
sostituirla con un’altra asserzione, non an- cora provata falsa, quindi
correttiva della prima. La nozione dell’autocorreggibilità costituisce indub- biamente
la garanzia meno dogmatica, che la S. può esigere, della propria validità. Essa
consente un’analisi meno pregiudicata degli strumenti di ac- certamento e di
controllo di cui le singole S. di- spongono (cfr. Beyond the Edge of Certainty,
a cura di R. C. Colodny, 1965). SCIENZA, DOTTRINA DELLA (inglese Science of
Science; franc. Doctrine de la science; ted. Wissenschaftslehre). Espressione
con cui Fichte designò «la S. delle S. in generale » cioè la S. che espone in
modo sistematico il principio fondamen- tale su cui poggiano tutte le altre
scienze. « Ogni possibile S. ha un principio fondamentale che in
essa non può essere dimostrato ma
dev'essere già certo prima di essa. Ora dove dev'essere dimo- strato questo
principio fondamentale? Senza dubbio in quella S. la quale deve fondare tutte
le possi- bili S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad.
ital., pag. 11-12). Fichte identificava la dottrina della S. con la filosofia e
vedeva il suo principio fondamentale nell’Io. L’espressione viene tuttora usata
prevalentemente in riferimento a Fichte. Tuttavia B. Bolzano l’ado- però come
titolo di un’opera per indicare la dottrina che espone le regole per la
divisione del campo del sapere nelle singole S. e per l’apprendimento del
sapere stesso (Wissenschaftslehre, 1837, I, $ 6; cfr. IV, $ 392 sgg.). Ma per
la disciplina che con- sidera le forme o i procedimenti della conoscenza scientifica
sono state più frequentemente adoperate le parole gnoseologia (v.) e
metodologia (v.). SCIENZA NUOVA. Espressione con cui G. B. Vico designò la sua
opera maggiore, pub- blicata per la prima volta nel 1725 e in nuove edizioni
nel 1730 e nel 1744. Il titolo completo Principi di una scienza nuova intorno
alla comune natura delle nazioni dice l’intento dell’opera. Vico si proponeva
di instaurare una S. che avesse per suo compito la ricerca delle leggi che sono
proprie del mondo della storia umana, al modo in cui la S. naturale ricerca
leggi del mondo naturale. Vico vuol essere il Bacone del mondo della storia e
si propone di rintracciare l’ordine di tale mondo e di esprimerlo in leggi. Le
fondamentali caratte- rizzazioni che egli dà della S. nuova sono le seguenti (cfr.
specialmente S. N. del 1744, I, Del metodo): 1° la S. nuova è una « teologia
civile ragionata della provvidenza divina »: cioè la dimostrazione dell’ordine
provvidenziale che si va attuando nella società umana a misura che l’uomo si
solleva dalla sua caduta e dalla sua miseria primitiva. Vico contrappone questa
teologia civile alla teo- logia fisica della tradizione, la quale dimostra l’azione
provvidenziale di Dio nella natura; 2° la S. nuova è «una storia delle umane
idee sulla quale sembra dover procedere la metafisica della mente umana»: essa
è cioè la determinazione dello sviluppo intellettuale umano dalle rozze ori- gini
fino alla «ragione tutta spiegata +. In questo senso essa è anche una « critica
filosofica che mostra l’origine delle idee umane e la loro successione +; 3° in
terzo luogo la S. nuova tende a descri- vere «una storia ideale eterna, sopra
la quale cor- rano in tempo le storie di tutte le nazioni nei loro sorgimenti,
progressi, stati, decadenze e fini ». Come tale, la S. nuova è anche una S. dei
principi della storia universale e del diritto naturale universale; 4° la S.
nuova è inoltre « una filosofia dell’au- torità » cioè della tradizione,
giacchè dalla tradizione desume le prove di fatto (o filologiche) che accer- tano
l’ordine di successione delle età della storia. Sul concetto della storia di
Vico, v. STORIA. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE (ingl. Classification of
Sciences; franc. Classification des
sciences; ted. Klassifikation der Wissenschafte). Mentre un'enciclopedia (v.) è il tentativo di dare il
quadro completo di tutte le discipline scientifiche e di fissare in modo
definitivo i loro rapporti di coordinazione e subordinazione, una
classificazione delle S. ha solo l’intento più modesto di dividere le S. in due
o più gruppi secondo l’affinità dei loro oggetti o dei loro strumenti
d’indagine. È ovvio che anche le enciclopedie delle S. possono essere considerate
come semplici classificazioni; ma molto più efficaci sono state nei confronti
dello stesso la- voro scientifico alcune semplici classificazioni pre- sentate
dai filosofi dell’800. La più famosa di tutte è quella proposta da Ampère di S.
dello spirito o noologiche e S. della natura o cosmologiche (Essai sur la
philosophie des sciences, 1834). Questa classificazione è stata estesamente
accettata e ta- lora riespressa con altri termini, per es., come distinzione
tra S. culturali e S. naturali (Du Bols- ReyMonp, Kulturgeschichte und
Naturwissenschaften, 1878). Alla sua diffusione contribuì soprattutto Dil- they
che nella Introduzione alle scienze dello spirito (1883) insistette sulla
differenza tra le scienze che mirano a conoscere causalmente l’oggetto, che ri-
mane esterno, cioè le S. naturali e quelle che invece mirano a comprendere
l’oggetto (che è l’uomo), e a riviverlo intrinsecamente, cioè le S. dello
spirito. Windelband a sua volta distingueva tra S. nomo- tetiche che cercano di
scoprire la legge e concernono la natura; e S. idiografiche che hanno invece di
mira il singolo nella sua forma storicamente de- terminata e hanno per oggetto
la storia (Geschichte und Naturwissenschaften, 1894, poi nei Praludien). In
modo più riuscito Rickert esprimeva la stessa differenza affermando che le S.
della natura hanno carattere generalizzante mentre le S. dello spirito hanno
carattere individuante (Die Grenzen der na- turwissenschaftlichen
Begriffsbildung, 1896-1902, pa- gina 236 sgg.) (v. STORIOGRAFIA). Da un altro
punto di vista, Comte aveva di- stinto due specie di S. naturali: le S.
astratte o generali che hanno per oggetto la scoperta delle leggi che regolano
le diverse classi dei fenomeni e le S. concrete, particolari, descrittive, che
consi- stono nell’applicazione di queste leggi alla storia effettiva dei
differenti esseri esistenti (Cours de phil. positive, 1830, I, II, $ 4).
Spencer riprendeva questa distinzione e a sua volta divideva tutte le S. in
astratte (logica formale e matematica), astratto- concrete (meccanica, fisica,
chimica) e concrete (astronomia, mineralogia, geologia, biologia, psico- logia,
sociologia) (The Classification of the Sciences, 1864). E Wundt semplificava
questa classificazione riducendola a due gruppi soltanto: quello delle S.
formali (logica e matematica) e quello delle S. reali (le S. della natura e
dello spirito) (System der Philosophie, 1889). Poco diversa da questa è la classificazione
triadica di Ostwald in S. formali, S. fisiche e S. biologiche (Grundriss der
Naturphilo- sophie, 1908). La distinzione tra S. formali e S. reali è ancora
largamente accettata. R. Carnap l’ha riproposta sul fondamento che le S.
formali conter- rebbero solo asserzioni analitiche e le S. reali o fattuali
conterrebbero anche asserzioni sintetiche (in Erkenntniss, 1934, n. 5; ora in
Readiîngs in the Philosophy of Science, 1953, pag. 123 sgg.). Così interpretata
la classificazione lascia, come nota Carnap, intatta l’unità della S. giacchè
«le S. formali non hanno oggetto affatto: sono sistemi di asserzioni ausiliarie
senza oggetto e senza con- tenuto » (/bid., pag. 128). Queste ultime parole di
Carnap si spiegano tenendo presente che alla distinzione tra le varie S. non si
può dare oggi un carattere assoluto 0 rigoroso. Le seguenti parole di von Mises
esprimono bene il punto di vista più diffuso sull’argomento:
«Ogni ripartizione e suddivisione delle
S. ha solo un’importanza pratica e provvisoria, non è siste- maticamente
necessaria e definitiva, cioè dipende dalle situazioni esterne in cui si compie
il lavoro scientifico e dalla fase attuale di sviluppo delle singole
discipline. I progressi più decisivi hanno spesso origine dal chiarimento di
problemi che si trovano al confine di settori sino ad allora trattati
separatamente » (K/eines Lehrbuch des Positivismus, 1939, V, 7). SCOLASTICA
(ingl. Scholasticism; franc. Sco- lastique; ted. Scholastik). x. Propriamente,
la filo- sofia cristiana del Medio Evo. Si chiamò scholasticus nei primi secoli
del Medio Evo l'insegnante di arti liberali ed in seguito il docente di
filosofia o teologia che teneva le sue lezioni prima nella scuola del chiostro,
o della cattedrale, poi nell’Università. S. significa perciò, alla lettera, la
filosofia della scuola. Poichè le forme dell’insegnamento medie- vale erano
due, la /ecrio, che consisteva nel com- mento di un testo e la disputatio, che
consisteva nell’esame di un problema fatto con la discussione degli argomenti
che si possono addurre pro e contra, l’attività letteraria assunse nella S.
prevalentemente la forma di Commentari o di raccolte di questioni (v.
QUESTIONE).Il problema fondamentale della S. è quello di portare l’uomo alla
comprensione della verità rive- lata. La S. è l’esercizio dell’attività
razionale (0, in pratica, l’uso di una qualche determinata filosofia, che è
quella neoplatonica o quella aristotelica) allo scopo di accedere alla verità
religiosa, di dimostrarla o chiarirla nei limiti in cui questo è possibile e di
approntare per essa un armamentario difensivo contro l’incredulità e le eresie.
La S. pertanto non è una filosofia autonoma, come, ad es., la filosofia greca:
il suo dato o il suo limite è l’insegnamento religioso, il dogma. Nel suo
stesso compito essa non si fida delle sole forze della ragione ma fa appello,
per aiuto, alla stessa tradizione reli- giosa o filosofica con l’uso delle
cosiddette aucio- ritates. Auctoritas è la decisione di un concilio, un detto
biblico, la sentenzia di un padre della chiesa o anche di un grande filosofo
pagano, arabo o giudaico. Il ricorso all’autorità è la manifestazione tipica
del carattere comune e super-individuale della ricerca S., nella quale il
singolo vuole conti- muamente sentirsi appoggiato dalla responsabilità collettiva
della tradizione ecclesiastica. La S. medievale si suole distinguere in tre
grandi periodi: 1° l’alta S. che va dal rx secolo alla fine del x secolo, che è
caratterizzata dalla fiducia nell’armonia intrinseca e sostanziale di fede e
ra- gione e nella coincidenza dei loro risultati; 2° il fiorire della S. che va
dal 1200 ai primi anni del 1300, che è l’epoca dei grandi sistemi nel quale l’accordo
tra fede e ragione viene ritenuto solo parziale, senza che tuttavia si ritenga
possibile il loro contrasto; 3° la dissoluzione della S. che va dai primi
decenni del 1300 sino al Rinascimento durante la quale il tema fondamentale è
per l’ap- punto il contrasto tra fede e ragione. Questo concetto della S. è
stato avviato dall'opera fondamentale di M. GRABMAN, Die Geschichte der scholastischen Methode (1909, rist. 1956). Non sono mancati
i tentativi di considerare la S. come una sintesi dottrinale completa nella
quale con- fluissero e si fondessero i contributi individuali (per es., da
parte di De WuLF, Histoire de la philosophie médiévale, 1900 e successive ed.);
ma questi tentativi non hanno base storica e si riducono a mettere fuori dalla
S. un gran numero di autori S. e a stabilire, tra gli altri, concordanze e
unifor- mità fittizie (cfr. AsBagnANO, Storia della fil., 2% ed., 1958, I, $
171, e relativa bibliografia). 2. Per estensione si può chiamare S. ogni filosofia
che si assuma il compito di illustrare e difendere razionalmente una
determinata tradi- zione o rivelazione religiosa. In questo compito di regola
una S. si avvale di una filosofia già stabilita e famosa: sicchè in questo
senso la S. è l’utilizza- zione di una filosofia determinata per la difesa e
l’illustrazione di una determinata tradizione reli- giosa (v. FiLosoria). In
questo senso generalizzato le S. sono molte, sia nell’antichità che nel mondo moderno.
Nell’antichità furono S. il neoplatonismo, il neopitagorismo, ecc. Nel Medio
Evo furono S. la filosofia degli arabi e dei giudei. Nel mondo moderno è una
scolastica la filosofia di Malebranche, quella di Berkeley, della destra
hegeliana, di Ro- smini, di molti spiritualisti, ecc. SCOMMESSA (ingl. Wager;
franc. Pari; tede- sco Wette). Viene così chiamato il famoso argomento di
Pascal in favore della fede. Poichè l’esistenza di Dio non si può dimostrare,
Pascal dimostra che è conveniente scommettere sull’esistenza di Dio. « La
vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno che scegliendo l’altro
perchè bisogna scegliere necessariamente. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra
beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita dando a croce il senso che Dio esiste.
Valutiamo i due casi: Se guadagnate, guada- gnate tutto; se perdete, non
perdete niente. Scom- mettete dunque che egli esiste, senza esitare» (Pensées, 233).
Pascal aggiunge che, una volta decisi a scom- mettere, sarà facile credere, «
facendo tutto come se si credesse, prendendo l’acqua benedetta, facendo dir
messe, ecc. Ciò vi farà credere e vi abbrutirà (abétira) (Ibid.).» L'argomento
fu ripetuto da W. James nella sua Volontà di credere (1897). James interpreta
il passo pascaliano come se dicesse che è irrazionale correre il rischio di
perdere la verità, pur di non incorrere eventualmente in errore (The Will to
Believe, cap. I). L’argomento pascaliano non è suscettibile di molte
interpretazioni e tutte le discussioni intorno ad esso tendono piuttosto a
difenderlo o a confutarlo. È soprattutto riuscita sconcertante l’espressione
ado- perata da Pascal «vi abbrutirà» (vous abérira). E non è mancato chi ha
cercato espungerla dal testo pascaliano, leggendo invece a/lestira che
significhe- rebbe « vi renderà pronto » (GAILLARD, « Une nou- velle leson d’un
mot célèbre de Pascal», in Annales de l'Université de Grenoble, XXI, 13). Ma in
realtà l’espressione pascaliana non intende ridurre la fede all’abbrutimento,
ma si riferisce ad uno dei punti fondamentali della dottrina di Pascal, per cui
la fede deve investire non soltanto lo spirito dell’uomo ma anche la macchina,
l’auroma che è nell'uomo (Pensées, 250) cioè il complesso delle abitudini che
fissano la fede stessa e la sottraggono al dubbio. L’abétira si riferisce a
questo secondo aspetto, senza il quale la fede stessa è incompleta. SCOPRIMENTO
(ted. Entdecktheit). Secondo Heidegger, «la possibilità dell’essere di ogni
ente non conforme all’Esserci » [cioè di ogni cosa del mondo] di essere
rintracciata e determinata « attra- verso un particolare processo che la scopre
mo- vendo dall'ente che per primo s'incontra nel mondo ». È, secondo Heidegger,
uno dei caratteri fondamentali delle cose, in quanto utilizzabili, quindi della
mondità in generale (Sein und Zeit, $ 18). SCOTISMO (ingl. Scorism; franc.
Scotisme; ted. Scotismus). La dottrina di Giovanni Duns Scoto (1266-1308) e dei
suoi seguaci caratterizzata dai seguenti punti: 1° la dottrina del carattere
pratico della scienza teologica, che non conterrebbe verità tco- retiche ma
solo regole per la condotta umana in vista della salvezza ultramondana; 2°
l’affermazione della indimostrabilità di un numero rilevante di proposizioni
filosofiche e teo- logiche. Già Duns Scoto riteneva impossibile dimostrare, ad
es., tutti gli attributi di Dio o l’im- mortalità dell'anima. Nello scritto a
lui attribuito ma di dubbia autenticità intitolato Theoremara nu- merose altre
proposizioni teologiche sono dichiarate indimostrabili; 3° la dottrina
dell’univocità dell’essere, che lo S. sostiene in polemica con il tomismo, e
per la quale la metafisica è la scienza suprema, avendo per oggetto l’essere in
generale, cioè sia quello delle creature sia quello di Dio; 4° la dottrina
dell’individuazione, che fa con- sistere l’individuazione stessa nell’ultima
determi- nazione della forma, della materia e del loro com- posto cioè nella
Aaecceitas (v. INDIVIDUAZIONE). Questa dottrina fu interpretata dalla scuola di
Scoto, in polemica con la dottrina tomistica che l’individuazione dipende dalla
materia signata, nel senso che l’individuazione dipende dalle forme e precisamente
dal sovrapporsi di un numero inde- finito di forme nello stesso composto; 5° il
volontarismo, cioè la dottrina del primato della volontà, che Duns Scoto
condivide con Enrico di Gand (v. VOLONTARISMO). SCOZZESE, SCUOLA (ingl.
Scottish School; franc. École écossaise; ted. Schortische Schule). Un gruppo di
filosofi scozzesi che comprende Tom- maso Reid (1710-96), Dugald Stewart
(1753-1828), Tommaso Brown (1778-1820), Guglielmo Hamilton (1788-1856) ed
Enrico Mansel (1820-71), le cui dottrine fondamentali sono: 1° l’appello al
senso comune per garantire alcune verità teoretiche e morali che si ritengono
fondamentali per l’uomo (v. SENSO COMUNE); 2° il realismo naturale cioè la teoria
che l’oggetto immediato del conoscere non è l’idea (come da Cartesio a Hume si
era ritenuto) ma la stessa cosa esterna (v. REALISMO). SCRUPOLO (ingl. Scruple;
franc. Scrupule; ted. Skrupel). Esitazione ad agire per una incerta valutazione
della situazione cioè perchè non si sa se l’azione progettata sia corretta o
meno. Tale è il significato della parola in frasi come «Gli è venuto uno S.»
oppure « Agire senza S.». Scrupolosità significa dall’altro lato l’atteggia-
mento di chi suscita a se stesso S. al fine di eseguire meglio un lavoro o di
svolgere più accuratamente un'attività qualsiasi. SECONDARIA, PROPOSIZIONE
(ingl. Secondary Proposition; franc. Proposition secondaire; ted. Sekundàr
Satz). Boole indicò con questa espressione le proposizioni che hanno per
oggetto altre proposizioni, mentre chiamò pri- marie le proposizioni che hanno
per oggetto le relazioni tra cose (Laws of Thought, 1854, cap. XI). SECONDARIE
E PRIMARIE, QUALITÀ. V. QUALITÀ. SECUNDUM QUID ET SIMPLICITER (FALLACIA).
Identificata già da Aristotele (Soph. El., 5, 167 a), è la fallacia (v.) che
consiste nel pas- sare da una premessa in cui un certo termine è preso in senso
relativo ad una conclusione in cui il termine stesso è preso in senso assoluto
(« Se il non-essere è oggetto di opinione, il non-essere è 1). (Cfr. Pietro
Ispano, Sunm. Log., 7.46 sgg.). G.P. SEGNALE (ingl. Signal; franc. Signal; te- desco
Signal). 1. Lo stesso che segno (v.). Morris intende la parola nel senso di
segno naturale (Signs, Language and Behavior, I, 8). 2. Lo stesso che simbolo
(v.). In questo secondo senso la parola è usata quando si parla, per es., di un
«S. di pericolo +: S. qui è un segno conven- zionale cioè un simbolo. SEGNO
(gr. omuetov; lat. Signum; ingl. Sign; franc. Signe; ted. Zeichen). Qualsiasi
oggetto od
evento, usato come richiamo di altro
oggetto od evento. Questa definizione che è quella general- mente adoperata o
presupposta nella tradizione filosofica antica e recente, è generalissima e
consente di comprendere sotto la nozione di S. ogni possi- bilità di
riferimento: per es., quello dell’effetto alla causa o viceversa; della
condizione al condi- zionato o viceversa, dello stimolo di un ricordo al
ricordo stesso; della parola al suo significato; del gesto indicativo (per es.,
un braccio teso) alla cosa indicata; dell’indizio o del sintomo di una situazione
alla situazione stessa, ecc. Tutte queste relazioni possono essere comprese
nella nozione di segno. In senso proprio e ristretto, tuttavia, questa nozione
dev’essere assunta come la possibilità del riferimento di un oggetto o evento
presente ad un oggetto o evento non presente o la cui presenza o non presenza è
indifferente. In questo senso più ristretto la possibilità d’uso dei S. o
semiosi è la caratteristica fondamentale del comportamento umano perchè
consente l’utilizzazione del passato (di ciò che « non è più presente ») per la
previsione e la progettazione del futuro (di ciò che «non è ancora presente +).
In tal senso si può dire che l’uomo è per eccellenza un animale simbolico, in questo
suo carattere venendo a radicarsi la possi- bilità di scoperta e d’uso di
quelle recniche, in cui consiste propriamente la sua ragione (v.). La dottrina
del S. quale fu per la prima volta formulata dagli Stoici conserva ancor oggi
la sua validità. Gli Stoici chiamavano S. in generale « ciò che sembra rivelare
qualcosa »; ma in senso proprio chiamavano S. «ciò che è indicativo di una cosa
oscura » cioè non manifesta (Sesto Emp., Adv. Math., VIII, 143; /p. Pirr., I,
99 sgg.). Considera- vano pertanto i S. di due specie fondamentali: S.
rammemorativi che si riferiscono a cose solo occasionalmente oscure, per es.,
il fumo che è S. del fuoco; e S. indicativi che non vengono mai osservati
insieme con la cosa indicata che è oscura per natura; e in questo senso i
movimenti del corpo si dicono S. dell’anima (/bid., VIII, 148-155). Sappiamo
pure che gli Stoici vedevano nella capa- cità dell’uomo di usare i S. la sua
differenza dal- l’animale (/bid., VIII, 276); e consideravano il S. come un
prodotto intellettuale, identificandolo con « una proposizione costituita da
una connessione valida e rivelatrice del conseguente » (/bid., VIII, 245). Gli
Epicurei invece consideravano il S. di natura sensibile e tale da consentire e
fondare l’in- duzione (Ibid, VIII, 215 sgg.; cfr. INDUZIONE). In seguito, sul
modello della dottrina stoica, il S. veniva sempre definito come la relazione
di riferimento fra due termini connessi. S. Tommaso non escludeva che si
potesse chiamar S. la causa sensibile di un effetto occulto (.S. Th., I, 70, a.
2, ad 2°). La logica terministica distinse il riferimento del S. al suo
denotato, che è il rapporto di significa- zione istituito ad arbitrio, dalla
supposizione (v.) che è il rapporto per il quale il termine compreso in una
proposizione sta in luogo di qualcosa (confronta Pretro Ispano, Summ. Log.,
6.03). Ockham defi- niva il S. come « tutto ciò che, una volta appreso, fa
venire a conoscere qualche altra cosa » (Surmna Logicae, I, 1); e distingueva
il S. naturale ch: è il concetto (o intenzione dell'anima) in quanto è prodotto
dalla cosa stessa al modo in cui il fumo è prodotto dal fuoco, dal S.
convenzionale, cioè istituito ad arbitrio che è la parola (/bid., I, 14). La
filosofia inglese del 6-700 si servi ampiamente della nozione di S. ma non lo
definì in modo nuovo. Hobbes diceva: « Un S. è l'antecedente
evidentedelconseguente o, al contrario, il conseguente dell’an- tecedente
quando conseguenze simili sono state osservate prima; e più spesso sono state
osservate, meno incerto è il S. » (Leviarh., I, 3). Berkeley si servì della
nozione di S. per definire la funzione delle idee generali, che sarebbero idee
particolari «assunte a rappresentare o a stare per altre idee particolari della
stessa sorta + (Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12). E Wolff dava
nell’ultimo capitolo della sua Ontologia una lucida e stringata dottrina del S.
definendolo come « un ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza
passata o futura di un altro ente » (Onr., $ 952) e distinguendo con- seguentemente
il S. dimostrativo che indica un designato presente, il S. prognostico il cui
designato è futuro e il S. rammemorativo o memoriale il cui designato è passato
(/bid., $ 954). In base a questi concetti, ogni procedimento conoscitivo può
ov- viamente essere considerato un procedimento se- gnico. Kant invece, da un
lato considerò le parole e i S. visibili (algebrici, numerici, ecc.) come sem- plici
espressioni dei concetti cioè come « caratterisensibili » che designano
concetti e servono solo come mezzi soggettivi di riproduzione; dall'altro considerò
i simboli come rappresentazioni analo- giche, cioè infra-intellettuali, degli
oggetti intuiti (Crit. del Giud., $ 59; Antr., I, $ 38). Pertanto, secondo
Kant, «chi sa esprimersi sempre soltanto in modo simbolico ha pochi concetti
intellettuali e ciò che spesso si ammira nella vivace espressione che i
selvaggi (e talvolta anche i pretesi sapienti di un popolo rozzo) usano nei
loro discorsi, non è che povertà di idee, e quindi anche di parole per esprimerle»
(/bid., $ 38). I kantiani tuttavia non fu- rono così alieni come il loro
maestro dal ridurre tutta la conoscenza all’uso dei segni. H. Helmholtz considerava
le sensazioni come segni prodotti nei nostri organi di senso dall’azione delle
forze esterne; e riponeva la validità di questi S., non n lla loro somiglianza
con le cose, ma nel fatto che essi hanno tra loro un ordine che riproduce
quello che c’è tra le cose (Die Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879). Nella
stessa linea di pensiero E. Cassirer ha studiato le forme simboliche della vita
umana nonchè il loro significato concettuale (Die Philosophie der symbolischen
Formen, 3 voll., 1923-29) ed ha chiamato l’uomo animal symbolicum (Essay on
Man, 1944, cap. II; trad. ital., pag. 49). Quando la teoria dei S., per
influenza della logica matematica, viene ripresa nella filosofia contempo- ranea,
i suoi tratti fondamentali non mutano; ma ad essa viene aggiunta un altro
ordine di consi- derazioni, precisamente quelle che cadono sotto la cosiddetta
pragmatica (v.): cioè le considerazioni che concernono il rapporto del S. coi
suoi inter- preti. Si può dire che da questo punto di vista non già il S. ma la
semiosi (v.) cioè l’uso dei S. o il comportamento segnico, sia il proprio
oggetto della semiotica cioè della teoria dei segni. Questo indirizzo è stato
inaugurato da C. S. Peirce. Dopo aver dato la definizione tradizionale del S.
(come «qualcosa conoscendo la quale conosciamo qual- cos’altro »), Peirce
aggiunge che « un S. è un oggetto che è da un lato in relazione con il suo
oggetto e
dall’altro in relazione con un
interpretante in modo tale da portare l’interpretante in una relazione con l’oggetto
corrispondente alla sua propria relazione all’oggetto ». Il S. è pertanto una
relazione triadica tra il S. stesso, il suo oggetto e l’interpretante (Coll. Pap.,
2.243 sgg.; 8.332). Conseguentemente Peirce classificava i S. sotto tre punti
di vista diversi: di per se stessi cioè come S.; nella loro relazione al- l'oggetto;
nella loro relazione all’interpretante. Con- siderati in se stessi i S. possono
essere apparenze o qualisegni; od oggetti o eventi individuali, cioè sinsegni
(nella quale parola la sillaba sin è la prima sillaba di semel, simul, similar,
ecc.); o tipi generali o legisegni (Ibid., 8.334). Considerati in rapporto all’oggetto
rappresentato, un S. può essere: una icona, per es., una percezione visiva o
un’audizione musicale; un indice come sarebbe un nome proprio o il sintomo di
una malattia; o un simbolo che è un S. convenzionale (/bid., 8.335). Rispetto
all’oggetto immediato il S. può essere S. di una qualità, di un ente o di una
legge. Rispetto al suo interpretante, infine, il S. può essere un rema, un
dicente o un argomento, cioè un termine, una proposizione o un ragionamento
(/bid., 8.337). Questa classificazione di Peirce è stata da lui riespressa con
un’altra ter- minologia che ha avuto più fortuna. Egli ha chia- mato ripo una
forma definitamente significante, che non è una singola cosa o un singolo
evento e non esiste da sè ma determina le cose che esistono; gettone (token) un
evento singolo che accade una volta sola, come questa o quella parola che si trova
su una sola linea di una sola pagina di una sola copia di un libro; e fono
(tone) un carattere indefinitamente significante come un tono di voce (Coll.
Pap., 4.537). Queste tre specie corrispondono rispettivamente a legisegno,
sinsegno, qualisegno della classificazione precedente (v. PAROLA; TIPO). Molta
fortuna ha avuto (e non meritata) la clas- sificazione dei S. che Ogden e
Richards dettero in The Meaning of Meaning (1923). Essi distinsero un uso
simbolico e un uso emotivo dei S.: l’uso sim- bolico è l’asserzione cioè il
riferimento del S. a un oggetto; l’uso emotivo tende invece a esprimere e a
produrre sentimenti e atteggiamenti. « Sotto la funzione simbolica sono incluse
sia la simbolizza- zione del riferimento sia la comunicazione di esso all’ascoltatore,
cioè la produzione nell’ascoltatore di un riferimento simile. Sotto la funzione
emotiva sono incluse sia l’espressione di emozioni, atteg- giamenti, umori,
intenzioni, ecc., del parlante sia la loro comunicazione cioè la loro
evocazione nel- l’ascoltatore » (The Meaning of Meaning, 10* ediz., 1952, pag.
149). Questa classificazione è stata utiliz- zata (specialmente da C. L.
STEVENSON, Ethics and Language, 1944) per l’analisi del linguaggio della morale
e in generale del linguaggio normativo, ma ha deboli fondamenti, soprattutto
per l’impos- sibilità in cui si trova di fornire un criterio semplice e
sufficientemente sicuro per effettuare nei casi particolari la distinzione
proposta. Una più arti- colata e spregiudicata classificazione dei segni è quella
di C. Morris che distingue gli identificatori che significano la localizzazione
nello spazio e nel tempo; i designatori che significano le caratteristiche dell'ambiente;
gli apprezzatori che significano uno status preferenziale e i prescrittori che
significano la richiesta di risposte specifiche (Signs, Language and Behavior,
1946, II, 2; trad. ital., pag. 97). Da questi S. che complessivamente chiama
/essicali Morris distingue i S. formatori i quali significano che «la
situazione significata in altro modo è una situazione di alternative» (/bid.,
VI, 1). Questi ultimi sono distinti in dererminatori, come « tutti », « alcuni
», « nessuno »; connettori come le virgole, le parentesi, la copula, le
congiunzioni e € 0, ecc., e i manieratori, che sono i S. di interpunzione.
Morris ha fatto prevalere nella filosofia contem- poranea la teoria dei S.
stabilita da Peirce intro- ducendo un'utile terminologia: chiamando veicolo
segnico l’oggetto o evento che serve da S.; designato l’oggetto cui il S. si
riferisce, interpretante l’effetto del S. sull’interprete cioè il senso del S.;
ed infine interprete il soggetto del processo segnico (Foundations of the
Theory of Signs, 1938, II, 2). Morris ha pure insistito, sulle orme di Peirce,
sul carattere comportamentistico del processo segnico; ha cercato anzi di
definire il S. in termini puramente comportamentisti. La definizione cui è
giunto è la seguente: « Se qualcosa A guida il comportamento verso un fine in
un modo simile (ma non necessa- riamente identico) a quello in cui qualche altra
cosa, B, guiderebbe il comportamento verso quel fine nel caso che B fosse
osservata, allora A è un S.» (Ibid., I, 2; trad. ital., pag. 21). L’infiuenza
della teoria dei riflessi condizionati su questa definizione è evidente (v.
AZIONE RIFLESSA). Carnap, e con lui molti altri, hanno accettati i fondamenti
della teoria di Morris, come pure la divisione della semiotica generale nelle
tre parti da lui proposte (cfr. R. CaRNAP, Foundations of Logic and Mathe- matics,
1939, I, 2; trad. ital., pag. 6-7) (v. SEMIOTICA). SELEZIONE (ingl. Selection; franc. Sélection; ted.
Selektion). Scelta: sia intesa come procedi- mente
deliberato sia intesa come risultato di un procedimento non deliberato. In
questo secondo senso C. Darwin parlò di S. naturale come nel procedimento
attraverso il quale la lotta per la vita assicura la sopravvivenza del più
adatto (Origin of Species, IV, $ 1). SEMANTICA (ingl. Semantics; franc. Séman- tique; ted. Semantik). Propriamente, la dottrina che considera il
rapporto dei segni con gli oggetti cui si riferiscono, cioè il rapporto di
designazione. Il termine, che fu proposto per tale dottrina da Bréal (Essais de
sémantique. Science des significations, 1897), trova la sua giustificazione
etimologica nel verbo greco anualvew, introdotto da Aristotele per indicare
quella specifica funzione del segno lin- guistico per cui questo «significa»,
«designa» qualche cosa. La S. sarebbe quindi quella parte della linguistica (e
in particolare della Logica) che studia, analizza, la funzione significatrice
dei segni, i nessi tra i segni linguistici (parole, frasi, ecc.) e i loro
significati. Sebbene questa ne sia l’accezione più generalmente diffusa,
tuttavia nella filosofia e nella Logica contemporanea il termine viene im- piegato
anche in altre. Per es., A. Korzybski (Science and Sanity) adopera « S. » per
indicare una teoria relativa all'uso del linguaggio, soprattutto nei rapporti
delle nevrosi che secondo questo autore sono provocate da, o sono causa di,
certi abusi linguistici. I logici polacchi in genere (e in parti- colare
Chwistek), che pure hanno contribuito po- tentemente a far nascere questo
ultimo ramo della Logica formale, non essendo soliti distinguere tra proposizione
ed enunciato, tra significato logico e forma linguistica di una proposizione,
usano questo termine per indicare in genere la Logica formale. Ciononostante fu
proprio sotto la spinta degli studi dei logici polacchi che verso il 1956 si
cominciò a delimitare il campo di questa nuova disciplina. Fu per opera di Ch.
W. Morris e R. Carnap che si cominciarono a distinguere in seno alla semiotica (teoria
dei segni in generale, dei segni linguistici in particolare) alcuni aspetti
fondamentali: la pragmatica, che studia il comportamento segnico di esseri
umani che si scambiano segni per deter- minate cause, per certi scopi, ecc. (e
quindi è un ramo della psicologia e/o della sociologia); la S., la quale,
prescindendo dalle circostanze concrete (psicologiche e sociologiche) del
comportamento linguistico, restringe il suo campo all’analisi del rapporto tra
segno e referente (significatum, desi- gnatum, denotatum); e infine la
sintattica, la quale, facendo astrazione anche dai significati, studia i
rapporti intercorrenti tra i segni in se stessi entro un dato sistema
linguistico. S. e sintattica vengono di fatto a costituire due grandi capitoli in
cui si spezza la Logica formale pura. Però di quest’ultima fa parte non tanto
la S. descrittiva, ricerca empi- rica rivolta alla descrizione di un
determinato si- stema semantico (o gruppo di sistemi affini) e quindi
pertinente piuttosto alla Linguistica che alla Lo- gica, quanto invece la S.
pura, la quale costituisce a priori le regole di un sistema sintattico
generale. Questa pertanto, piuttosto che una dottrina dei significati, appare
come una teoria generale della verità e della deduzione nei sistemi sintattici
in- terpretati, e perciò la sua distinzione dalla sintattica diviene molto
sottile e problematica (cfr. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, 1938,
cap. IV; CARNAP,
Foundations of Logic and Mathematics, 1939, I, 2; Meaning and Necessity, 1957,
pag. 233; Introduction to Semantics, 1942; 2 ediz., 1958; Linskvy, editor,
Semantics and the Philosophy of Language, 1952). Quine ha recentemente insistito sulla diversità del
riferimento semantico vero e proprio, che sa- rebbe il significare, dal
riferimento del nominare. Tale diversità risulta, per es., dal fatto che si può
no- minare lo stesso oggetto, come quando si dice «Scott» e «l’autore di
Waverley », mentre i signi- ficati sono diversi. La S. conterrebbe così due
parti: una teoria del significato alla quale apparterrebbe l’analisi dei
concetti di sinonimia, significanza, ana- liticità, implicazione; e una teoria
del riferimento alla quale apparterrebbe l’analisi dei concetti di nomi- nazione,
verità, denotazione, estensione. Ma Quine stesso osserva che finora la parola
S. è stata ado- perata soprattutto per la teoria del riferimento,
sebbene il nome sarebbe più adatto alla
teoria del significato (From a Logical Point of View, 1953, VII, 1; II, 1). V.
SIGNIFICATO. SEMASIOLOGIA. Lo stesso che semantica (v.). SEMI (gr. oréppata;
lat. Semina). Così sono stati spesso chiamati gli elementi ultimi delle cose. Anassagora
usò per primo il termine per designare le particelle che Aristotele chiamò
omeomerie (Fr., 4, Diels). Il termine fu poi adoperato da Epicuro (Fr., 250,
Uesener) e da Lucrezio (De nat. rer., VI, 201 sgg.; VI, 444, ecc.). La stessa
metafora è nella nozione stoica di ragioni seminali (v.). SEMIOSI (ingl.
Semiosis). Il processo in cui qualcosa funziona come segno, che è l’oggetto proprio
della semiotica, nel senso di Morris (Foun- dations of the Theory of Signs,
1938, II, 2). L’espres- sione è equivalente a quella di comportamento segnico
dallo stesso Morris preferita nel volume Signs, Language and Behavior, 1946, I,
2 (v. SEGNO). SEMIOTICA (gr. tò muiwrxéy; lat. Semioric; franc. Sémiotique;
ted. Semiotik). Il termine ado- perato dapprima per indicare la scienza dei
sin- tomi nella medicina (cfr. GaLENO, Op., ed. Kiin, XIV, 689) fu proposto da
Locke per indicare la dottrina dei segni, corrispondente alla logica tra- dizionale
(Saggio, IV, 21, 4); e in seguito adope- rato da Lambert come titolo della
terza parte del suo Nuovo organo (1764). Nella filosofia contem- poranea, C.
Morris ha fatto prevalere, il concetto della S. come teoria della semiosi (v.)
più che del segno; e la divisione della S. stessa in tre parti, che
corrispondono alle tre dimensioni della semiosi: la semantica che considera il
rapporto dei segni con gli oggetti cui si riferiscono; la pragmatica che considera
la relazione dei segni con gli interpreti; e la sintattica che considera la
relazione formale dei segni tra loro (Foundations of the Theory of Signs, 1938,
II, 3). Accettata da Carnap (Founda- tions of Logic and Mathematics, 1939, I,
2), questa distinzione si è largamente diffusa nella filosofia e nella logica
contemporanea (v. PRAGMATICA; SE- MANTICA; SINTASSI). SEMPLICE (gr. arà60g;
lat. Simplex; inglese Simple;
franc. Simple; ted. Einfach). Ciò
che manca di varietà o di composizione: vale a dire ciò che esiste in un unico
modo o che è privo di parti. Nel primo senso, come mancanza di varietà, intese
il S. Aristotele: « Nel senso pri- mario e fondamentale è necessario ciò che è
S.: giacchè non è possibile che questo sia in modi diversi o che sia ora in un
modo ora in un altro » (Met., V, 5, 1015 b 12). Nel secondo senso ado- però la
parola Leibniz che definì la monade una sostanza S. perchè senza parti
(Monadologia, $ 1). TI concetto rimase fissato in questo senso per opera di
Wolff (Onrol., $ 673). Nella logica terministica medievale era adoperato nello
stesso senso il ter- mine incomplexum (= non composto), come con- trario a
complesso (v.): cioè o nel senso di un ter- mine che è costituito da una sola
parola o nel senso del termine di una proposizione, sia esso costituito da una
o più parole (cfr. OckHAM, Expositio aurea, foglio 40 b). Per semplicità come
caratteristica delle ipotesi 0 delle teorie scientifiche s'intende l’esigenza
dell’eco- nmomia (v.) cui esse devono obbedire (v. TEORIA). Corrispondentemente,
per semplificazione s'intende ogni procedura atta a rendere economica la con- cettualizzazione
o la teorizzazione, cioè ogni pro- cedura che riduca il numero o la complessità
dei concetti adoperati. SENSAZIONE (gr. atomo; lat. Sensus, Sensio; ingl.
Sensation; franc. Sensation; ted. Emp- findung).
Il termine ha due significati fondamentali: 1° un significato generalissimo per
cui designa la totalità della conoscenza sensibile cioè tutti e ognuno i suoi
costituenti; 2° un significato speci- fico per cui designa gli elementi della
conoscenza sensibile cioè le parti ultime indivisibili da cui essa si suppone
costituita. Questo secondo significato ricorre soltanto nella filosofia
moderna. 1° Aristotele intende sotto il termine S.: a) le qualità elementari
come il bianco, il nero, il dolce, ecc. (De An., III, 2, passim); b) la perce- zione
dell’oggetto reale, che chiama S. in arto e che fa coincidere con la realtà
stessa dell’oggetto: onde una S. uditiva in atto è identica col suono in atto
(/bid., III, 2, 425b 26); c) la facoltà di sentire in generale o senso comune
(v.), al quale attribuisce la funzione di percepire i sensibili co- muni e le
S. stesse (cioè il sentir di sentire) (De Somno, 2, 455a 17; De An., III, 2,
426b 11; 415 b 12); d) il senso particolare o proprio come l’udito, la vista,
ecc. (De Somno, 2, 455 a 14; De An., III, 2, passim); e) l’organo di senso, più
frequentemente detto sensorio (De Part. An., II, 10, 657a 3; IV, 10, 686a 8; De
Sensu, 3, 440 a 19). Questa terminologia si mantiene lunga- mente nella storia
del pensiero occidentale cioè sino a quando, con Cartesio, il concetto di S. comincia
ad essere nettamente distinto da quello di percezione. 2° Nel suo più specifico
significato il concetto di S. fu delimitato da Cartesio che intese per essa il
semplice avvertimento dei « movimenti che ven- gono dalle cose » e la distinse
dalla percezione che è invece il riferimento alla cosa esterna (Passions de
l’îme, I, 23). Da questa distinzione, che si consolidò sempre più dopo
Cartesio, specialmente per opera della Scuola scozzese, la S. veniva ri- dotta
ad essere l’unità elementare della conoscenza sensibile, quel che Locke chiamò
«idea semplice », e considerata come il materiale della conoscenza; mentre la
funzione conoscitiva vera e propria, cioè il riferimento all’oggetto, veniva
assunta dalla percezione (v.). È questo il concetto che fu accettato e diffuso
da Kant: « La S., egli disse, è l’elemento puramente soggettivo della nostra
rappresentazione delle cose che son fuori di noi; ma è propriamente l’elemento
materiale della rappresentazione stessa, il reale, ciò con cui è dato alcunchè
di esistente » (Crit. del Giud., Intr., $ VII; cfr. Crit. R. Pura, $ I;
Dialettica trascendentale, libro I, sez. I: « Una percezione che si riferisca
unicamente al soggetto come modificazione del suo stato, è S. »). Il carat-
tere primordiale o elementare della S. veniva egualmente accentuato da Hegel,
per quanto in forma arbitraria e fantastica: «La S. è la forma dell’agitarsi
ottuso dello spirito nella sua indivi- dualità priva di coscienza e di
intelletto ». In un certo senso è vera, secondo Hegel, l’asserzione che «tutto
è nella S.» nel senso che tutto ha la fonte e l’origine in essa; ma fonte e
origine significano solo la maniera prima e più immediata in cui qualcosa
appare e la S. non si giustifica da sè (Enc., $ 400). Il concetto di S. come
elemento semplice ed ultimo della conoscenza fu dapprima accettato e illustrato
da filosofi, poi posto a fondamento della nascente psicologia dai primi cultori
di questa scienza. Condillac fu il primo a realizzare la por- tata di questo
concetto. Se la S. è l’elemento ultimo della conoscenza, si deve poter
ricostruire, a partire da essa, l’intero mondo della conoscenza o dell’attività
spirituale umana. Questa è la dimo- strazione che egli si accinse a dare nel
7ratfato delle S. (1754), nel quale assumeva a fondamento il principio che «il
giudizio, le riflessioni, le pas- sioni e in una parola tutte le operazioni
dell’anima non sono che la S. stessa che si trasforma varia- mente » (7raité
des sensations, Compendio della prima parte). Pur nella sua polemica contro il
sensismo, Maine de Biran riconosce il carattere semplice ed elementare della S.
(CEuvres, ed. Na- ville, II, pag. 115); come le riconosce tale carattere Herbart
(Allgemeine Metaphysik, 1828, II, pag. 90). Il concetto del carattere
elementare della S. fu posto a base della psicologia da H. Spencer che
affermava che «le S. sono stati di coscienza pri- mariamente indecomponibili »
(Principles of Psy- chology, 1855, $ 211). Il principio veniva consacrato da G.
Fechner nei suoi E/emente der Psychophysik (1860) e da Wundt il quale
esplicitamente definiva le S. come « quegli stati di coscienza che non si trali
e quindi come i componenti semplici di ogni oggetto sia fisico sia psichico
(Analyse der Emp- findungen, 1903, 48 ediz., pag. 14, 17, ecc.). Le esperienze
elementari di cui R. Carnap parlava nella Costruzione logica del mondo sono
ancora le S. (Die logische Aufbau der Welt, 1928, $ 67). Quando la psicologia
della forma (v. PSICOLOGIA) ba eliminato l’atomismo e l’associazionismo della vecchia
psicologia, il concetto di S. è diventato pressochè inutile. Ancora la
psicologia parla di S. per indicare i suoni, colori, ecc. Ma poichè questo materiale
viene dato all’uomo soltanto nel suo ri- ferimento all’oggetto esterno, cioè
nella percezione, la percezione stessa diventa l’oggetto proprio della psicologia;
e il concetto della S. come unità psi- chica elementare diventa inutile. SENSIBILE
(gr. alo@nt6<; lat. Sensibilis; in- glese Sensible; franc. Sensible; ted.
Sensibel). 1. Ciò che può essere percepito dai sensi. In questa acce- zione «
il S. » è l’oggetto proprio della conoscenza S. come « l’intelligibile » è
l'oggetto proprio della co- noscenza intellettiva (ARIST., De An., II, 6, 418 a
7; KANT, Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III, Nota). Aristotele aveva
distinto i S. propri e i S. co- muni (v. SENSO COMUNE); e il S. accidentale dal
S. per sè, in quanto il primo si percepisce acci- dentalmente, come accade
quando si percepisce il bianco percependo una persona che è bianca (De An., II,
6, 418a 16). 2. Ciò che ha la capacità di sentire. In questa accezione si
chiamano «esseri S.» gli animali o si dice che «x è particolarmente S. a
qualcosa ». In corrispondenza del significato 4° di senso (v.), si chiama
talora S., specialmente in inglese, chi pos- siede buon senso o in generale è
capace di giudicare rettamente. 3. Chi ha la capacità di partecipare alle
emozioni altrui o di simpatizzare (v. SIMPATIA). SENSIBILITÀ (ingl.
Sensibility, Feeling; fran- cese Sensibilité; ted. Sinnlichkeit). 1. L’intera
sfera delle operazioni sensibili dell’uomo, comprensiva sia della conoscenza
sensibile sia degli appetiti, degli istinti e delle emozioni. 2. La capacità di
ricevere sensazioni e di reagire agli stimoli. Per es., «La S. delle piante».
3. La capacità di giudizio o di valutazione in un campo determinato. Per es.,
«S. morale», «S. artistica 1, ecc. 4. La capacità di partecipare alle emozioni
altrui o di simpatizzare. In questo senso si dice sensibile chi si commuove con
gli altri e insensibile chi resta indifferente alle emozioni altrui (v.
SIMPATIA). SENSISMO (ingl. Sensationalism; franc. Sen- sualisme, Sensationisme;
ted. Sensualismus). La dot- trina che riduce tutta la conoscenza alla
sensazione € tutta la realtà all'oggetto della sensazione. Kant chiamava
sensista Epicuro (Crit. R. Pura, Dottrina del Metodo, cap. IV). Il nome è
stato, nella filosofia moderna, riservato a quelle dottrine che ammet- II, 5,
416b 33) e così è rimasto costantemente definito nella tradizione filosofica
(S. ToMmMaso, S. Th., I, q. 78, a. 3; Duns Sooro, /n Sent., I, d. 3, q. 8;
WOLFF, Psychol. empirica, $ 67; KANT, Antropologia, I, $ 7; ecc.). Il S. in
questa accezione comprende sia la capacità di ricevere le sensazioni sia la
consapevolezza che si ha delle sensazioni stesse e in generale delle proprie
operazioni: capa- cità che nella filosofia moderna è detta più spesso S.
interno o riflessione (cfr. Locke, Saggio, II, 1, 4; KANT, Crit. R. Pura,
Estetica, $ 1); e talora S. intimo (MAINE DE Biran, Journal intime, I, pag.
13-14; (Euvres, ed. Tisserand, pag. 15, ecc.) o coscienza (v.). 2. La
sensazione o il complesso delle sensazioni, come quando si dice «Il S.
testimonia che... a. Oppure: gli appetiti sensibili e in particolare i de-
sideri sessuali. 3. L’organo di S., ciò che più propriamente si chiama il
sensorio o, nella terminologia moderna, il recettore. 4. La capacità di
giudicare in generale. In questo significato la parola viene adoperata nelle
seguenti espressioni: buon S., che Cartesio ritiene sinonimo di ragione e
definisce come «la facoltà di giudicar bene e di distinguere il vero dal falso
» (Disc., I). S. morale, che Shaftesbury (Characteristics of Men, 1711) e
Hutchinson (System of Moral Philosophy, 1755) assunsero come una capacità
istintiva di va- lutazione morale e quindi come guida infallibile dell’uomo. S.
razionale o S. logico, che Romagnosi assunse come l’attività che giudica e
ordina le sensazioni (Che cos'è la mente sana, 1827, $ 10). A questa stessa
accezione del termine si connette l’espressione S. comune sulla quale v. la
voce a parte; nonchè altre espressioni come S. pratico, S. degli affari, S.
artistico, ecc., che designano egualmente la capacità di giudicare o di
orientarsi nei campi particolari indicati dall’aggettivo o dal genitivo. 5. Lo
stesso che Significato (v.). SENSO COMPOSTO E DIVISO, FAL- LACIA DEL. V.
Composizione; DIVISIONE. SENSO COMUNE (gr. xowà aloBnos; latino Sensus communis; ingl. Common
Sense; franc. Sens commun; ted. Gemeinsinn). 1.
Aristotele intese con questa espressione la capacità generale di sentire, alla
quale attribuì una duplice funzione: 1° quella di costituire la coscienza della
sensazione cioè il «sentir di sentire» giacchè tale coscienza non può appartenere
ad un organo particolare di S., per es., alla vista o al tatto (De Somno, 2,
455a 13); 2° quella di percepire le determinazioni sensibili co- muni a più S.,
come il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il numero e l’unità (De
An., III, 1, 425 a 14). La nozione fu ammessa anche dagli Stoici che affidavano
al S. comune le stesse funzioni (StoBEO, Ecl., I, 50). Ripresa da Avicenna (De
An., III, 30), passò nella scolastica medievale (cfr.S. ToMm- Maso, S. Th., I,
q. 78, a. 4) ed anche in seguito fu comunemente accettata da tutti gli
aristotelici e dagli scrittori che comunque si ispirarono alla psi- cologia
aristotelica. 2. Nell’uso degli scrittori classici latini, il termine ha il
significato di consuetudine, gusto, modo di vivere o di parlare comune. In
questo senso, Cice- rone avverte che per l’oratore è difetto gravissimo «aborrire
dal genere volgare del discorso e dalla consuetudine del S. comune» (De Or., 1,
3, 12; cfr. 2, 16, 68); e Seneca afferma che la filosofia intende sviluppare il
S. comune (Ep., 5, 4; cfr. 105, 3). Vico non faceva che esprimere in una
formula la- pidaria la tradizione degli autori latini, quando af- fermava: « Il
S. comune è un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto
un or- dine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere
umano » (Sc. Nuova, 1744, De- gnità 12), e quando affidava al S. comune
l’ufficio di accertare e determinare «l’umano arbitrio, di sua natura
incertissimo,... d’intorno alle umane necessità o utilità » (/bid., Degnità
11). Allo stesso significato si riconnette l’uso del termine presso la Scuola
scozzese. Nella Ricerca sullo spirito umano secondo i principî del senso comune
(1764) T. Reid adopera l’espressione per designare le credenze tra- dizionali
del genere umano, ciò che tutti gli uomini credono o devono credere. Il S.
comune è, per tutta la Scuola scozzese, il criterio ultimo di giu- dizio e il
principio dirimente di tutti i dubbi filosofici. L’espressione ricorre ora
comunemente in un significato analogo, per quanto privo dell’accentua- zione
elogiativa di cui la privilegiavano i filosofi scozzesi. Dewey, ad es.,
sottolinea il carattere pratico del S. comune. «Poichè i problemi e le indagini
del S. comune riguardano le interazioni che si stabiliscono da parte degli
esseri viventi con l’ambiente al fine di realizzare oggetti d’uso e di fruizione,
i simboli impiegati sono quelli che si sono determinati nella cultura corrente
di un gruppo sociale. Essi formano un sistema, ma si tratta di un sistema di
carattere pratico piuttosto che intel- lettuale. Questo sistema è costituito
dalle tradizioni, occupazioni, tecniche, interessi ed istituzioni stabi- lite
del gruppo. Le significazioni che lo compon- gono sono un portato del comune
linguaggio quo- tidiano col quale i membri del gruppo comunicano tra loro»
(Logic, VI, 6; trad. ital., pag. 170). 3. Nella dottrina di Kant il S. comune è
il prin- cipio del gusto cioè della facoltà di giudicare degli oggetti del
sentimento in generale. « Un tal prin- cipio, dice Kant, non potrebbe esser
considerato che come un S. comune, che è essenzialmente diverso dall’intelligenza
comune la quale talvolta si chiama anche S. comune (sensus communis); perchè
questa giudica, non secondo il sentimento, ma secondo con- cetti sebbene si
tratti ordinariamente di concetti oscu- ramente rappresentati » (Crif. de/
Giud., $ 20). L’in- telligenza comune (Gemeine Verstand) di cui qui parla Kant
è il S. comune degli scrittori latini e della Scuola scozzese che Kant ritiene
inutile in filo- sofia (Prol., A 197); seguito in ciò da Hegel e da altri (cfr.
R. CANTONI, Tragico e senso comune, pag. 35 sg.). SENSORIALE (ingl. Sensory;
franc. Senso- riel; ted. Sensorisch). Che concerne il sensorio, cioè l’organo
di senso. SENSORIO (gr. alo@hpiov; lat. Sensorium). Nella terminologia
aristotelica, un organo di senso (De An., II, 9, 421b 32; De Part. An., II, 10,
657 a 3; ecc.): ciò che oggi si chiama un recettore. SENSUALISMO (franc.
Sensualisme). 1. L’at- teggiamento che consiste nell’attribuire importanza eccessiva
ai piaceri dei sensi. In tale significato adopera la parola Berkeley
(A/ciphron, II, 16). 2. Lo stesso che sensismo (v.). Quest’uso, che si presenta
solo raramente in taluni scrittori francesi e italiani del secolo scorso è
dovuto alla suggestione del termine tedesco corrispondente a sensismo, Sensualismus.
SENSUALITÀ (lat.
Sensualitas; ingl. Sensua- lity; franc. Sensualité; ted. Sinnlichkeit). La tendenza a indulgere ai piaceri sensibili. e, cioè
all'amore. « Vicende S.+, «crisi S.+, ecc., sono espressioni che si riferiscono
a situazioni in cui è in giuoco l’amore e precisamente l’amore sessuale. Spesso
l’aggettivo S. include anche un riferimento all'amore nel senso romantico (v.):
come accade nel titolo di due romanzi famosi: // viaggio S. di STERNE e
L'educazione S. di Flaubert. In senso specifico adoperò l’aggettivo F. Schiller
per indicare una specie di poesia in contrapposto alla poesia ingenua (v.
INGENUITÀ). SENTIMENTALITÀ o SENTIMENTA- LISMO (ingl. Sentimentalism; franc.
Sentimenta- lisme; ted. Sentimentalitàt). È l’abbandonarsi alle emozioni
proprie o altrui, l’esaltarsi in esse e per esse senza rapporto con la loro
forza effettiva, il loro limite e la loro funzione. Kant vide nel senti- mentalismo
la debolezza di lasciarsi dominare, anche contro la propria volontà, dalla
partecipa- zione allo stato emotivo degli altri. La contrappose perciò alla
padronanza di sè: la quale rende possi- bile quella finezza di sentimento per
cui si giudica dell’emozione degli altri, non secondo la propria forza, ma
secondo la loro debolezza. Di fronte alla padronanza di sè, è ridicolo e
puerile il lasciarsi do- minare dall’emozione altrui, abbandonandosi senza discrezione
a partecipare a tale emozione (Antr., I, $ 62). In realtà però si ha
sentimentalismo anche quando ci si abbandona alle proprie emozioni o alla loro
manifestazione esterna illudendosi sulla loro forza e consistenza o
amplificandone l’importanza. SENTIMENTO (ingl. Sentiment; franc. Sen- timent; ted. Geftihl). Il termine può significare: 1° lo stesso che emozione
nel significato più gene- rale o qualche tipo o forma superiore di emozione. Per
questo significato v. EMOZIONE; 2° opinione, nel senso in cui si dice « ho il
S. che qualcosa non va » per significare un’opinione che si ritiene esatta ma
di cui non si saprebbe al momento dare giusti- ficazione. Per questo
significato v. OPINIONE; 3° la fonte delle emozioni cioè il principio, la
facoltà o l’organo che presiede alle emozioni stesse e da cui esse dipendono;
ovvero la categoria nella quale esse rientrano. In questo senso la parola viene
ora adoperata nell’uso corrente, quando, per es., si contrappone il «S.» alla
«ragione» (considerata invece come l'organo o la facoltà delle conoscenze
obiettive) e in frasi come questa: «La politica non si fa col sentimento ».
Quest’uso trova la sua giustificazione in una tradizione filosofica
relativamente recente cioè in quella della filosofia moderna. Difatti la filosofia
antica e medievale non conosce il S. come fonte o principio di affezioni,
affetti o emozioni e pertanto non adopera questa nozione come ca- tegoria per
ordinare e classificare le affezioni del- l'anima. Nè la psicologia platonica,
che distingue un'anima razionale, un’anima concupiscibile e una anima
irascibile (Rep., IV, 12-15); nè la psicologia aristotelica che distingue un
principio vegetativo, un principio sensitivo e un principio intellettivo (De
An., II, 2) riconoscono una fonte e un prin- cipio autonomo delle emozioni, le
quali vengono ripartite tra le varie partizioni o princìpi ammessi, non esclusa
quella razionale o intellettiva. Lo stesso accade nella filosofia medievale che
segue le orme della psicologia aristotelica. In realtà, il riconosci- mento di
una fonte o principio autonomo delle emozioni è connesso col riconoscimento
della sog- gettività umana come alcunchè di irreducibile a un complesso di
elementi oggettivi od oggettivabili o a modificazioni passive prodotte da tali
elementi. Questo riconoscimento caratterizza gl’inizi della fi- losofia moderna
ed è, come si sa, un portato del cartesianesimo. I presupposti di questo
riconoscimento vanno ricercati in quella linea di pensiero che va da Pascal ai
moralisti francesi e inglesi (La Rochefoucauld, Vauvenargue, Shaftesbury e
Hume) sino a Rousseau SENTIMENTO e a Kant e culmina in quest’ultimo: quello
stesso in- dirizzo che ha portato all’elaborazione del concetto moderno di
passione, come emozione dominante, e a quella nozione di gusto (v.) che è
strettamente collegata con quella di sentimento. Il «S.», il «cuore ?, lo
«spirito di finezza » furono le espres- sioni adoperate da Pascal per indicare
il principio o l’organo delle emozioni, in quanto distinto dal principio o
dall’organo dei ragionamenti e irriducibile ad esso. «Quelli che sono avvezzi a
giudicare col S., dice Pascal, non capiscono niente nelle cose di ragionamento
perchè vogliono penetrar subito la questione con un colpo d’occhio e non sono
avvezzi a cercare i princìpi. E gli altri, al con- trario, che sono avvezzi a
ragionare per princìpi, non capiscono niente delle cose di S. perchè ricer- cano
i princìpi e non possono coglierli con un sol colpo d’occhio » (Pensées, 3). Al
S. o al cuore è dovuta la stessa certezza che i primi princìpi del ra- gionamento
hanno («I princìpi si sentono, le propo- sizioni si deducono e in ciascuna di
queste due forme vi è certezza, quantunque raggiunta per vie di- verse »); e al
S. e al cuore è affidata la vera reli- giosità cui il ragionamento può solo
avvicinare e di cui solo può dare l’attesa (/bid., 282). All’elabo- razione e
al riconoscimento della categoria del S. hanno poi contribuito i moralisti
inglesi e francesi sopra accennati con la loro accentuazione della parte
dominante delle emozioni nella vita dell’uomo. Infine bisogna ricordare che il
« ritorno alla natura » bandito da Rousseau come lo strumento adatto a liberare
l’uomo dai mali prodotti dagli artifici sociali e a riportarlo alla bontà
originaria, è inteso da lui come ritorno al primitivo S. naturale. Il S.
naturale è un istinto, una tendenza originaria, che porta l’uomo al bene; e che
quando non è alterata, sofisticata o bloccata, lo mantiene e lo fa progredire
nel bene stesso. In queste famose tesi di Rousseau sta forse la prima nascita
della cate- goria del S. come principio a sè della vita spirituale. Ma il primo
che ha teorizzato, filosoficamente, questa categoria e l’ha inclusa in una
nuova tri- partizione dei poteri o delle facoltà spirituali, è stato
probabilmente Kant. Mentre Wolff (e sulle sue orme i wolffiani) ammetteva
soltanto due atti- vità fondamentali dello spirito umano, il conoscere e il
volere, oggetti delle due branche fondamentali della filosofia, la teoretica e
la pratica, Kant ha riconosciuto un terzo potere o facoltà, quello del sentimento.
« Tutti i poteri o le facoltà dell’anima, dice Kant (Crir. d. giud., Intr., $
III) possono essere ricondotte a tre, che non si lasciano ulteriormente ridurre
a un principio comune: il potere conoscitivo, il S. del piacere o del dolore e
il potere di desi- derare +. Il S. del piacere o del dolore deve essere inserito
tra il potere conoscitivo e il potere di desi- derare e gli deve essere
riconosciuto un proprio principio autonomo, che Kant chiama facoltà del giudizio
(v.). Il S. è così il campo proprio della critica della facoltà del giudizio,
come la facoltà di desiderare è il campo proprio della critica della ragion
pratica. Kant contrassegna il S. come l’aspetto irriducibilmente soggettivo di
ogni rappresentazione. Egli dice (/bid., $ VIN): «Quello che vi è di soggettivo
in una rappresentazione e che non può affatto diventare un pezzo di conoscenza
è il piacere o il dolore che è legato con la rappresentazione; giacchè
attraverso di essi io non conosco nulla dell'oggetto della rappresentazione
sebbene essi possano essere l’effetto di una qualche conoscenza ». Conformemente
a questa rivendicazione dell’auto- nomia del S. come categoria spirituale, Kant
divide la prima parte della sua Antropologia pragmatica, parte destinata al «
modo di conoscere interno ed esterno dell’uomo» in tre libri rispettivamente dedicati
al potere conoscitivo, al S. del piacere e del dolore e al potere appetitivo. A
sua volta, il secondo libro è diviso in due parti principali, la prima dedicata
al «S. del piacevole e del piacere sensibile nella sensazione di un oggetto »;
la seconda dedicata al « S. del bello, cioè al S. in parte sensibile, in parte
intellettuale proprio dell’intuizione riflessa o del gusto». Questa seconda
parte ricapitola in forma popolare i risultati della Critica del giudizio, la
prima contiene una serie di osservazioni sul S. del piacere e del dolore in
connessione con i dati dei sensi (cfr. pure, Mer. der Sitten, Intr., 1, nota) (v.
EMOZIONE). Con ciò il S. aveva fatto il suo ingresso ufficiale come categoria
indipendente nella considerazione filosofica dell’uomo. Hegel stesso lo
accoglie come una determinazione dello spirito soggettivo e lo definisce come
«un’affezione determinata», ma determinata in modo semplice cioè tale che,
anche se il suo contenuto è solido e vero (e non sempre lo è) esso assume la
forma di « particolarità acci- dentale ». Hegel aggiunge: «Quando un uomo, discutendo
di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa o almeno alla
ragione, all’universalità dell’intelletto, ma al suo S., non c'è altro da fare
che lasciarlo stare; perchè egli in tal modo si rifiuta di accettare la
comunanza della ragione e si rinchiude nella sua soggettività isolata, nella
sua particolarità » (Enc., $ 447). Hegel era su questo punto in polemica con
l’indirizzo letterario del Romanticismo. Questo infatti fece della scoperta e
dell’esaltazione del S. la propria bandiera, scorgendo nel S. stesso la forma
più intima e nello stesso tempo più libera della vita spirituale. Per i
Romantici artista può essere solo colui che, come dice Federico Schlegel
(/deen, $ 13), «ha una sua religione, un’intuizione originale 30 — ABBAGNANO,
Dizionario di filosofia. dell’infinito ». Questa intuizione originale dell'in- finito
è ciò che i Romantici chiamano sentimento. Il S., in altri termini, è la
manifestazione dell’In- finito, cioè di Dio stesso, all’intimità della
coscienza. I tratti che definiscono il S. nella concezione ro- mantica sono
perciò due: 1° il suo carattere di intimità estrema, per cui esso costituisce
quanto di più soggettivo c’è nel soggetto; 2° la sua capacità di rivelare il
Principio infinito della realtà. Per questo secondo aspetto il S. viene inteso
dai Roman- tici, alternativamente o contemporaneamente, come l’organo proprio
dell’arte, della filosofia e della religione. Come organo della religione lo
considerò Schleiermacher in quanto ritenne che « il S. soltanto rivela
l’Infinito » (Reden, II; trad. ital., pag. 43): una tesi che è stata poi
ripresentata e difesa frequen- temente. In tempi recenti come organo dell’arte il
S. è stato considerato da Gentile (Filosofia del- l’arte, 1931) in quanto
l’arte è la « pura, intima, e farà quindi una parte importante alle donne, che
rappresentano per l’appunto l’elemento affettivo del genere umano (Politique
positive, I, pag. 204 sgg.). Questo accadrà perchè la morale di questa futura
società sarà l’altruismo, ma un altruismo sviluppato al punto di creare
inclinazioni o istinti benevoli, che agiscano, come fa appunto il S., senza più
bisogno della riflessione. Le preoccupazioni reli- giose e morali di Comte lo
condussero ad insistere sul valore del S. e ad esaltare il S. stesso in modo
romantico. Ma al di fuori e contro il Romanticismo, il S. fu accolto come
categoria fondamentale della vita spirituale e cioè come una delle « facoltà »
o « poteri + dello spirito. Ed è curioso che mentre Kant aveva, come si è
visto, ammessa la tripartizione di cono- scenza, S. e volontà, solo in base a
un modesto ma valido motivo metodologico, cioè per la ragione che i tre gruppi
di fenomeni non si lasciano ricon- durre ad un principio comune, subito dopo
Kantquesta tripartizione comincia ad essere dogma- tizzata: a Fries essa già
appare come un risultato immediato dell’osservazione di sè (Anthropologie, T,
1837, $ 4). Herbart, per quanto negasse la dottrina delle facoltà dell'anima e
ritenesse che esse sono piuttosto «concetti di classe +, secondo i quali si ordinano
i fenomeni osservati, incluse tuttavia tra tali concetti di classe quello di
sentimento. E Be- necke vedeva nel S. le basi della morale e della religione,
la quale ultima si originerebbe appunto dal S. di dipendenza dell’uomo da Dio,
S. giusti- ficato dalla frammentarietà della vita umana e dall’esigenza di un
completamento che può venirle solo da Dio (System der Metaphysik und Religions-
philosophie, 1840). Rosmini considerò il S. come la coscienza di sè che è il
punto di partenza e la base per ogni conoscenza dell’anima (Psicologia, $ 69). La
tripartizione delle facoltà dello spirito in conoscenza, sentimento e volontà
rimase come uno schema pressochè costante nella filosofia del se- colo xtx.
Alla sua diffusione molto contribuì l’opera di Cousin che a quella
tripartizione fece corrispon- dere tre valori assoluti: il Vero, il Bello e il
Bene (Du vrai, du beau et du bien fu il titolo della più nota opera di Cousin,
1853). E se si prescinde dalle critiche di carattere metodologico sull’oppor- tunità
di simili rigidi schemi di ripartizione per la considerazione dei fenomeni
spirituali, quella ripar- tizione è tuttora la più diffusa e si è incorporata con
il modo comune di pensare. Una eccezione è rappresentata da Croce, che ha
ridotto le forme dello spirito alle due ammesse già da Wolff: la teoretica e la
pratica con una critica del S. consi- derato come categoria spuria ed ambigua.
Nel S., Croce ha visto una parola « adoperata a deno- minare una classe di
fatti psichici costituita secondo il metodo naturalistico e psicologico »: una
no- zione che ha esercitato varie volte nell’estetica, nella storiografia,
nella logica e nell’etica una fun- zione negativa e critica, contrapponendo a
inter- pretazioni troppo limitate ed anguste ciò che di « indeterminato » e
«semi-determinato + rimaneva fuori di tali interpretazioni. La testimonianza a cui
egli fa appello per rigettare questa categoria, è quella dell’osservazione
interiore: « Cerchi chi vuole nel suo spirito; e si provi a indicare un atto solo
che sia a differenza dei sopra indicati [cioè degli atti teoretici e pratici]
qualcosa di nuovo e originale e meriti la speciale denominazione di S. » (Fil.
della pratica, I, I, c. 2). Ma questo genere di testimonianza è oltremodo
variabile e fuori di qualsiasi controllo; a Fries, per es., e a molti altri, la
distinzione del S. dalle altre attività spirituali parve così lampantemente
sostenuta dalla testi- monianza interiore come a Croce è parsa da essa smentita.
E in realtà l’uso di tali categorie, come S., attività teoretica, attività
pratica, può essere discusso e quindi limitato e regolato, solo in base all’analisi
precisa di un gruppo delimitabile di feno- meni: analisi che Croce non ha
neppure tentato. Nella filosofia contemporanea, tuttavia, tali analisi non
mancano e sono tra i contributi meno discu- tibili che essa ha portato ad una
positiva conoscenza dell’uomo nel suo mondo. Uno di questi contributi e fra i
più importanti è quello di Max Scheler; il quale si è rifatto alle parole di
Pascal, « Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce +, interpre- tandole
non nel senso, abbastanza frequente della filosofia moderna e contemporanea (v.
CUORE), che la ragione debba avere una certa condiscendenza per il S. e cercare
di rispondere alle sue esigenze, ma nel senso che il S. ha sue proprie leggi e
suoi propri oggetti e costituisce così un mondo rispetto
a quello della conoscenza razionale.
Scheler co- mincia col distinguere, dai semplici stati emotivi che non hanno
carattere intenzionale, non si rife- riscono cioè immediatamente ad un loro
proprio oggetto (v. EMOZIONE), il S. originario e intenzionale che è invece una
particolare reazione allo stato emotivo e consiste nel modo estremamente vario
e mutevole di atteggiarsi di fronte allo stato emotivo cioè di affrontarlo,
tollerarlo, goderlo, soffrirlo, ecc. Per es., uno stato emotivo è il piacere
sensibile corrispondente al carattere gradevole di un pranzo, di un profumo, di
un lieve contatto. Il S. puro consiste invece nelle reazioni dell’io a tale stato
emotivo: per es., nel goderlo più o meno o nel tollerarlo, ecc. Sicchè mentre
uno stato emotivo rientra nel contenuto fenomenico, un S. puro rientra nelle
funzioni destinate ad apprendere tale contenuto. Da questo punto di vista
l'attitudine a soffrire e a godere non ha nulla a che fare con la sensibilità
nei riguardi del piacere e del dolore. Il grado del piacere o del dolore può
essere lo stesso, eppure la sofferenza o il godimento che hanno di tale piacere
o dolore due individui o lo stesso in- dividuo in momenti diversi può essere
completa- mente diverso. Ora mentre gli stati emotivi si pos- sono riferire
solo indirettamente agli oggetti o fatti che li provocano o di cui sono
considerati i segni, i sentimenti puri si riferiscono immediatamente ad un loro
oggetto specifico, che è il valore. Il S. ha quindi col valore l'identica
relazione che si riscontra fra la rappresentazione e il suo oggetto: la
relazione intenzionale (v. INTENZIONALITÀ). Mentre occorre un atto di
riflessione per connet- tere uno stato emotivo con l’oggetto di cui è segno o
che riteniamo l’abbia provocato, il S. è connesso col suo oggetto specifico, il
valore, in modo immediato, come accade, per es., quando sentiamo la bellezza
dei monti nevosi al tramonto. La connessione intenzionale tra S. e valore non
ha quindi nulla a che fare con un legame causale tra S. ed oggetto ed è anche
indipendente con la causa- lità psichica individuale cioè dalle leggi che
regolano la vita psichica dell’individuo. E difatti quando le esigenze dei
valori non sono sodisfatte, noi sof- friamo, ad es., di non poterci rallegrare
di un avvenimento quanto il suo valore meriterebbe, oppure di non poterci
rattristare come, ad es., la morte di una persona amata lo richiederebbe (Formalismus,
pag. 260 sgg.). In tal modo, secondo Scheler, il S. apre l’accesso ad un mondo
di oggetti, che sono altrettanto reali come le cose o i fatti che sono gli
oggetti della rappresentazione, ma non hanno nulla in comune con essi perchè
non sono nè cose nè fatti, ma valori. Scheler è pertanto d’accordo con Kant nel
ritenere che il S. non sia «un pezzo di conoscenza »; ma non è d’accordo con
lui nel ritenere che esso non abbia alcun oggetto e sia quindi privo di
carattere intenzionale. Sono privi di oggetti e sono quindi puri stati emotivi
solo le emozioni sensibili, mentre i senti- menti vitali e quelli psichici
possono sempre rive- lare un carattere intenzionale (cioè riferirsi ad un
oggetto-valore) e quelli spirituali lo rivelano necessariamente (per la
distinzione dei gradi emo- zionali, v. EMOZIONE). L'analisi di Scheler è molto importante
perchè getta nuova luce sulla vita emozionale dell’uomo. Essa tuttavia è stata
fatta servire, da Scheler stesso, alla fondazione di una vera e propria
metafisica dei valori, nella quale i che sia suscettibile di controllo (v.
REALTÀ) e non c’è ragione d’identificare l’intenzionalità emotiva con
l’intenzionalità conoscitiva; anzi Scheler stesso dà buone ragioni in
contrario. Se le cose stanno così, se cioè l’intenzionalità del S. è differente
dall’inten- zionalità della conoscenza, e sono così diversi i rispettivi
oggetti, la critica mossa da Scheler all’in- dirizzo della psicologia
contemporanea di negare « la funzione conoscitiva » dei S., perde la sua base. La
psicologia contemporanea ammette infatti la funzione dei S. nel comportamento
vitale dell’or- ganismo e vede in essi l’annunzio di situazioni presenti o
future, annunzio che permette di af- frontare tali situazioni al modo in cui un
dispo- sitivo d’allarme mette in opera i mezzi per affron- tare un pericolo.
Come Scheler, Heidegger ha riconosciuto l’importanza fondamentale del S., che egli
ritiene radicato nella sostanza stessa dell’uomo, cioè nella struttura
ontologica della sua esistenza. Heidegger chiama situazione affettiva
(Befindlichkeit) la tonalità emotiva dell’affaccendarsi quotidiano dell’uomo e
vede in questa tonalità una manifesta- zione essenziale dell’essere dell'uomo
nel mondo. « L’emotività propria della situazione affettiva, egli dice (Sein
und Zeit, $ 29) costituisce essenzialmente l’essere aperto del mondo da parte
dell’Esserci, cioè dell’uomo esistente ». Il poter essere colpito dalla
minaccia delle cose o degli eventi del mondo e il reagire a questa minaccia con
la paura o con l’intrepidezza, è, secondo Heidegger, la situazione fondamentale
di un ente, che come l’uomo vive in un ambiente che gli fornisce le cose da
utilizzare e che perciò lo può minacciare con la non utiliz- zabilità, con la
resistenza delle cose stesse. Anche qui, se si prescinde dal linguaggio
specifico dell’on- tologia di Heidegger, l’analisi risulta fondamental- mente
concordante con quella della psicologia contemporanea; e la nozione del S. come
capacità di apprendere il valore che un fatto o una situa- zione presenta per
l’essere (animale o uomo) che la deve affrontare, ne esce riconfermata. Infine
bisogna ricordare che il riconoscimento del S. come « sede primaria della
datità dei valori » è stato effettuato anche da Nicolai Hartmann, che l’ha
posto a base della sua etica (Ethik, 1926). SENTIMENTO FONDAMENTALE. Con questo
termine Rosmini ha indicato la coscienza che l’uomo ha del proprio io e della
connessione, costitutiva di esso, di anima e corpo. « Nell'uomo, quale è
naturalmente al primo istante del viver suo, vi è: 1° un sentimento unico
costante-fonda- mentale, animale-spirituale; 2° una percezione razionale,
immanente, del sentimento animale » (Psicologia, 1850, $ 256). SEPARAZIONE (gr.
Bwxpiow; lat. Sepa- ratio; franc. Séparation; ted. Trennung). La riso- luzione
di un composto nelle sue parti o nei suoi elementi. Il termine fu usato da
Anassagora (Fr., 10, Diels) e da Empedocle (#7., 58, Diels) (cfr. PLAT., Sof.,
243b; ArRIsT., Met., I, 4, 985 a 25). SEQUENZA (lat. Sequentia; ingl. Sequence;
franc. Séquence; ted. Folge). Un insieme di termini tra i quali intercede una
relazione di prima e dopo (cfr. PelrcE, Coll. Pap., 3. 562 B). SERIE (ingl.
Series; franc. Série; ted. Reihe). 1. Un insieme di termini tra i quali
intercorre una qualsiasi relazione definibile. 2. Una relazione asimmetrica,
transitiva e coerente. In questo senso la S. non è l’insieme dei termini cioè
il campo della relazione, ma la relazione stessa; e, per es., le S.: 1, 2, 3;
1, 3, 2; 2, 3, 1, sono diverse per quanto abbiano lo stesso campo (cfr. B.
RussELL, Introduction to Mathematical Philosophy, IV; trad. ital., pag. 47) (v.
RELAZIONE). SERIETÀ (ingl. Earnestness; franc. Sérieux;
te- desco Ernst). Kierkegaard ha fatto della S. una specie di categoria morale
definendola come « l’ori- ginalità conquistata dal sentimento, conservata nella
responsabilità della libertà e affermata nel godi- mento della beatitudine». La
S. consiste nella ripeti- zione (v.) ed è la condizione affinchè la ripetizione
stessa non diminuisca il valore degli atti ripetuti (Der Begriff Angst, IV, $
2, 0). SESSO (ingl. Sex;
franc. Sexe; ted. Sex). 1. I fi-
losofi si sono solo raramente occupati del sesso come di un costituente
dell’uomo. Nel Convivio platonico Aristofane espone, sulle origini del sesso, il
mito degli androgini, dai quali per separazione vo- luta da Zeus a scopi
punitivi sarebbero derivati i due sessi complementari (Conv., 189 e). Ma le
spe- culazioni platoniche vertono propriamente, non sul S., ma sull’amore. E
così fanno quelle di altri filosofi, compreso Schopenhauer che nella sua
Metafisica del- l’amore sessuale considera l’amore sessuale come il semplice
espediente di cui «il genio della specie », cioè la Volontà di vita, si
servirebbe per favorire
l’opera oscura e problematica della
propagazione della specie. Nel mondo moderno, l’azione della psi- canalisi (v.)
ha richiamato l’attenzione dei filosofi sul S.; e specialmente i fenomenologici
e gli esisten- zialisti si sono occupati dei fenomeni relativi. Una valorizzazione
dell'atto sessuale come forma di espressione della personalità umana è stata
tentata da Max Scheler nel libro sulla Wesen und Formen der Sympathie (1923;
trad. franc., pag. 168 sgg.). E mentre Heidegger ha considerato come privo di
sessualità il Dasein, Sartre ha considerato la sessualità stessa come una
struttura fondamentale dell’esi- stenza. Dice Sartre: « Benchè il corpo abbia
un com- pito importante, bisogna riportarsi all’essere nel mondo e all’essere
per altri: io desidero un essere umano, non un insetto o un mollusco e lo
desidero in quanto esso è, ed io sono, in situazione nel mondo, e in quanto è
un altro per me e io sono un altro per esso » (L’étre et le néant, 1943, pag.
452-53). Il sesso sarebbe la struttura fondamentale dell’esi- stenza umana in
quanto esistenza nel mondo (cfr. pure ABBAGNANO, Struttura dell’esistenza, 1939,
$ 55) (v. AMORE; PSICANALISI). 2. I filosofi hanno invece spesso insistito
sulla differenza sessuale. Aristotele ritenne che la donna costituisce una
mostruosità naturale, resa tuttavia inevitabile dalla conservazione della
specie (De
Gen. An., 7, 775 a 15-17). La donna
differisce dal- l’uomo per il grado minore in cui partecipa dei poteri della
ragione (Po/., 1260 a 11-14): pertanto il suo posto è subordinato a quello
dell’uomo e a le funzioni biologiche entra poco o nulla. SETTA (lat. Secta; ingl.
Sect; franc. Secte; ted. Sekte). 1.
Scuola o indirizzo filosofico. In questo senso la parola è usata dagli
scrittori latini (CIcER., Brut., 31, 120; Quint., /st. Or., V, 7, 35, ecc.). 2.
Gruppo di persone che difendono con fana- tismo o intolleranza una credenza
qualsiasi. In questo senso si adopera oggi l'aggettivo sertario. SFERA (gr.
cpaipo, opatpoc; lat. Globus; in- glese Globe; franc. Globe; ted. Sphdre).
Secondo gli antichi la figura perfetta, che comprende in sè tutte le altre
figure ed è l’immagine dell’omogeneità e della perfezione (cfr. PLAT., Tim., 33
b). Parmenide paragonava ad una «S. perfettamente rotonda » l’essere in quanto
è definito da ogni parte, uguale a se stesso e tale che in nessuna sua parte
sia maggiore O minore di se stesso (Fr., 8, 41, Diels). Ed Empedocle chiamava
sfero la fase perfetta dell’essere, quella nella quale domina l’amicizia: « Ma
da ogni parte era uguale e per tutto infinito, lo sfero rotondo che gode della
sua avvolgente solitudine» (F7., 28, Diels). Nel Rinascimento, Nicolò Cusano
ripren- deva queste speculazioni, insistendo sulla perfe- zione della figura
circolare (De docta ignorantia, I, 21) e attribuendo la forma sferica all’anima
stessa (De ludo globi, I). SFORZO (ingl. Effort; franc. Effort; ted. Stre- ben). L'attività diretta a vincere un ostacolo
o una resistenza qualsiasi. La nozione fu introdotta in filosofia da Fichte che
se ne avvalse per mostrare la derivazione della realtà dall’Io: « L’attività
pura dell’io, rientrante in se stessa, è, in relazione ad un oggetto possibile,
uno S.; anzi, uno S. infinito. Questo S. infinito è all’infinito la possibilità
di ogni oggetto: senza S., non c’è oggetto» (Wissenschafts- lehre, 1794, $ 5,
II; trad. ital., pag. 213-14). Maine de Biran si avvalse della nozione e
identificò con l’esperienza immediata dello S. sia il principio metafisico di
causalità sia la libertà dell’io. Preso nella sua sorgente, lo S. è libertà
cioè è l’io come libertà; nei confronti della resistenza che gli si oppone, è
necessità (Fondements de la psychologie, in CEuvres, ed. Naville, II, pag.
284). Si può consi- derare questo concetto come una continuazione del più
antico concetto di corato (v.). SI (ted. Man). V. ANONIMIA. SIGNIFICANZA (ingl.
Significance; ted. Be- deutsamkeit). 1. Lo stesso che significato (v.). 2.
Importanza o valore. Da questo punto di vista si chiamano, per es.,
significanti gli eventi di importanza storica. SIGNIFICATO (gr. rexrév; lat. Significatio; ingl. Meaning;
franc. Signification; ted. Bedeutung).
Si intende con questo termine la dimensione se- mantica del procedimento
segnico cioè la possibilità di riferimento del segno al suo oggetto. Gli
aspetti (o condizioni) fondamentali del S. sono due: 1° un nome o un concetto o
una essenza (per es., « Ales- sandro Manzoni», «uomo», «l’autore dei Pro- messi
Sposi »), usato allo scopo di delimitare e orientare il riferimento; 2°
l’oggetto (per es., rispettivamente, Alessandro Manzoni, gli uomini, Alessandro
Manzoni) al quale il nome o il concetto o l’essenza è riferito. I due aspetti
del S. sono inscindibili; il secondo è una funzione del primo perchè è il nome
o concetto che determina a quale oggetto il riferimento possa o non possa
indiriz- zarsi. Ma i due aspetti non si identificano tra loro giacchè l’oggetto
può essere lo stesso, mentre il nome o concetto adoperato per il riferimento è diverso:
come nel caso di « Alessandro Manzoni + e «l’autore dei Promessi Sposi» che si
riferiscono allo stesso oggetto ma sono nomi diversi. Nè le determinazioni che
hanno lo stesso oggetto possono essere ritenute equivalenti perchè non sono
sosti- tuibili l’una all’altra; e, per es., chiedere « se Ales- sandro Manzoni
è l’autore dei Promessi Sposi + non è lo stesso che chiedere « se Alessandro
Manzoni è Alessandro Manzoni». La differenza tra i due aspetti del S. (o la
relazione tra di essi) costituisce la base dei problemi cui il termine ha dato
luogo e delle diverse definizioni che ha ricevuto. Gli Stoici, che hanno
fondato la dottrina del S., riconobbero entrambi gli aspetti di esso. « Tre sono
gli elementi che si collegano, il S., ciò che significa e ciò che è. Ciò che
significa è la voce, per es., ‘ Dione ’. Il S. è la cosa indicata dalla voce, che
noi cogliamo pensando alla cosa corrispondente. Ciò che è, è il soggetto
esterno, per es., lo stesso Dione» (Sesto EMP., Adv. Math., VIII, 12). Più
particolarmente, il S. è per essi « una rappresenta- zione razionale cioè una
rappresentazione grazie alla quale e possibile esporre con un discorso ciò che
è rappresentato » (/bid., VIII, 70; Dio. L., VII, 63). In queste notazioni i
due aspetti del S. sono chiamati rispettivamente « voce » o « rappre-
sentazione razionale » e « ciò che è » o «soggetto ». «Ciò che è» o «il
soggetto » è il S. come oggetto; la «voce» o la «rappresentazione razionale » è
il S. come nome, concetto o essenza. Gli Stoici riser- vano particolarmente a
quest’ultimo il nome di S.; e in ciò (come vedremo) sono seguiti da alcuni
autori moderni. Nella logica medievale, la distin- zione tra i due aspetti del
S. fu espressa come distinzione tra significazione e supposizione. Dice Pietro
Ispano: « La supposizione e la significazione differiscono perchè la
significazione è fatta mediante l'imposizione di una voce per significare un
og- getto, ma la supposizione è l’accezione di un termine già significante per
qualcosa d'altro, e, per es., quando si dice ‘l’uomo corre’, questo termine
‘l’uomo ’ sta per Socrate e per Platone. La significazione perciò è precedente
alla suppo- sizione e le due cose non sono identiche giacchè il significare è
proprio della voce e la supposizione è propria del termine che è già composto
di voce e S.» (Summ. Log., 6.03). Qui per significatio viene inteso ciò che gli
Stoici intendevano per lecton: il concetto o la rappresentazione che è adoperata
per il riferimento obbiettivo, mentre il riferimento obbiettivo stesso è
designato come suppositio. Ma in più degli Stoici questa dottrina include la
separazione dei due aspetti del S., attri- buendo il primo ai termini
isolatamente presi, il secondo ai complessi cioè alle proposizioni. Una dottrina
identica veniva esposta nel Medio Evo da Ockham (Summa Logicae, I, 63), da
Buridano (Sophismata, 2) e da Alberto di Sassonia (Logica, II, 1); mentre S.
Tommaso accennava a una dottrina diversa solo terminologicamente, per la quale
il S. e la supposizione coincidono nei termini singolari ma non in quelli
generali, per i quali il S. è l’essenza (S. Th., I, q. 39, a.4, in principio). Sulla
distinzione fra i due aspetti del S. si fonda la distinzione che la logica
moderna di stampo tradizionale ha stabilito tra i due elementi del con- cetto:
chiamati talora comprensione ed estensione {v. COMPRENSIONE); talaltra
intensione ed estensione (v. INTENSIONE): talaltra ancora connotazione e denotazione
(v. ConnoTazIoNE). La prima coppia di termini fu introdotta dalla logica di
Portoreale (I, 6); la seconda da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9); la terza da
Stuart Mill (Logic, I, 1,8 59). Quest'ultimo proponeva di restringere il
significato di S. alla connotazione, chiamando denotazione il riferimento
obbiettivo. Egli diceva: « Ogni volta che i nomi dati agli oggetti apportano
qualche informazione cioè ogni volta che essi, propriamente, hanno un S., il S.
risiede non in ciò che essi denotano ma in ciò che essi connotano. I soli nomi
di oggetti che non connotano niente sono i nomi propri; e questi, strettamente
parlando, non hanno signi- ficato » (/bid., I, 2, $ 5). Ciò che egli intendeva con
connotazione appare chiaro dal seguente passo: «La parola uomo, per es., denota
Pietro, Gianna, Giovanni e un numero indefinito di altri individui, dei quali,
presi come una classe, esso è il nome. Ma quella parola viene applicata ad essi
in quanto essi posseggono, e per significare che posseggono, certi attributi »
(/bid.). Gli attributi che costituiscono l’uomo e cioè ad es., la corporeità,
l’animalità, la razionalità, ecc. formano pertanto la connotazione del nome «
uomo »: ciò che nella tradizione filoso- fica si chiamava «essenza» o, più
tardi, «concetto». G. Frege non faceva pertanto che dare espressione ad una
vecchia e nuova tradizione distinguendo senso e significato. « Pensando a un
segno, diceva, (sia esso un nome o un nesso di più parole o una semplice
lettera) dovremo collegare ad esso due cose distinte: cioè non soltanto
l’oggetto designato che si chiamerà S. (Bedeutung) di quel segno, ma anche il
senso (Sinn) del segno, che denota il modo in cui quell’oggetto ci viene dato
». Frege avvertiva che per senso o nome intendeva « una qualunque indicazione
che compiesse ufficio di un nome pro- prio cioè fosse un oggetto determinato
(prendendo la parola oggetto nel modo più ampio)» (Uber Sinn und Bedeutung,
1892, $ 1; trad. ital., in Arit- metica e logica, pag. 218-19). La stessa
distinzione veniva effettuata da Peirce con una terminologia diversa: Peirce
parlava dell’oggerto del segno e dell’interpretante del segno stesso, che è il
senso di Frege. Diceva Peirce: « Il segno crea qualche cosa nello spirito
dell’interprete e questo qualche cosa, in quanto è stato creato dal segno è
stato anche creato, in modo mediato e relativo, dall’oggetto del segno, per
quanto l’oggetto sia essenzialmente altro dal segno. Questa creatura del segno
è detta l’inter- pretante » (Coll. Pap., 8.179; lo scritto è del 1903). Questa
terminologia è stata sostanzialmente accet- tata da Morris, che ha chiamato
designato (desi- gnatum) l’oggetto e interpretante il concetto (Foun- dations
of the Theory of Signs, 1938, $ 2). Vero è che Morris ritiene inutile il
termine stesso di S., sembrandogli esso ricco di confusioni e pretende farne a
meno nella sua trattazione (/bid., $ 12). Ma in realtà ne può fare a meno
soltanto perchè ha introdotto nella sua analisi del segno, sotto altri nomi, i
due componenti del S. che la tradizione ha costantemente distinto. I logici
contemporanei mani- festano la tendenza, già presente in Stuart Mill, a
restringere la parola S. alla sfera della connota- zione. Lewis, riservando il
termine S. per entrambi gli aspetti, distingue la significazione
(signification) del termine (cioè la connotazione) dal suo riferi- mento
obbiettivo che egli distingue in denotazione e comprensione: la prima essendo
la classe di tutte le cose reali alle quali il termine si applica, la seconda
essendo la classe di tutte le cose possibili alle quali si applica (Analysis of
Knowledge and Valuation, 1946, cap. III, pag. 39 sgg.). Dalla stessa significa-
zione, Lewis poi distingue il «S.-senso» (sense meaning) che si distinguerebbe
da essa per essere il modo in cui lo spirito si riferisce alla significazione
stessa (/bid., pag. 133 e nota 3). Ma queste distin- zioni non modificano
sostanzialmente la dicotomia tradizionale del significato di significato. La
stessa dicotomia viene espressa da Quine come quella tra S. (o connotazione o
intensione) e nominazione (naming) che sarebbe l’estensione o denotazione (From
a Logical Point of View, 1953, II, 1); e da Carnap che fonda su di essa la
dicotomia di due operazioni fondamentali possibili rispetto a una data
espressione linguistica: quella di « analizzare l’espressione stessa con lo
scopo di capirla, di affer- rarne il S. e quella che invece consiste in
ricerche concernenti la situazione di fatto alla quale l’espres- sione si
riferisce » (Meaning and Necessity, 1947, $ 45). Ed ha inoltre insistito sul
fatto che il concetto di si- gnificato intensionale, come condizione generale
che un oggetto deve adempiere affinchè un parlante XY predichi quel significato
dell’oggetto stesso, è privo di qualsiasi riferimento psicologico e può essere
ap- plicato anche a un robot (/bid., pag. 246 e n. 5). A sua volta Church ha
adottato la terminologia di Frege chiamando senso la connotazione e signi- ficato
la denotazione; e in più introducendo la parola concetto: « Diremo che un nome
denota o nomina la sua denotazione ed esprime il suo senso. Meno esplicitamente
possiamo parlare di un nome che ha una certa denotazione ed fa un certo senso. Del
senso diciamo che derermina la denotazione o è un corcetto della denotazione »
(/ntroduction to Mathematical Logic, 1956, $ 01). Di fronte a questa salda e,
salvo la varietà della terminologia, uniforme tradizione stanno i tentativi di
modificarla o ridu- cendo l’una all'altra le due dimensioni del S. (A) o aggiungendo
nuove specie di significati (2). A) Il tentativo di ridurre una delle
dimensioni del S. all’altra è stato effettuato in entrambe le dire- zioni: cioè
riportando sia il senso al S. sia il S. al senso. Il primo tentativo è quello
proprio di Rus- sell e Wittgenstein. L’intera teoria esposta nell’arti- colo di
Russell del 1905 («On Denoting» ora in Logic and Knowledge, 1956, pag. 41 sgg.)
nonchè nel I capi- tolo dei Principia Mathematica di Russell e White- head
(1910) e nell’altro libro di Russell, An /nquiry into Meaning and Truth (1940),
è, nelle stesse parole di Russell, che « non c’è alcun significato, ma solo talvolta
una denotazione » (Logic and Knowledge, pag. 46, nota). E difatti per Russell
il S. di un sim- bolo si riduce unicamente ai componenti del fatto cui il
simbolo stesso si riferisce. «I componenti del fatto che fa una proposizione
vera o falsa, a seconda dei casi, sono i S. dei simboli che noi dobbiamo capire
per capire la proposizione» (Logic and Know- ledge, pag. 196). È proprio da
questo punto di vista che il linguaggio ideale è quello che ha la sola sin- tassi
e nessun vocabolario: giacchè il vocabolario è perchè costituisce una ridu-
zione all’assurdo della eliminazione del senso (Sinn) dal S.: il riferimento
all'oggetto, non essendo guidato o limitato dal concetto, è sempre legittimo e,
dove non appare tale, è solo perchè non è stato effet- tuato.La riduzione
inversa del S. al senso cioè il ten- tativo di ridurre l’intero S. alla
connotazione o concetto è stato effettuato da Husserl. Questi ha negato che
l’oggetto costituisse il S. o coincidesse con esso (Logische Untersuchungen,
II, pag. 46). La sua tesi è che «il S. logico è un'espressione » nel senso che
esso solleva «al regno del /ogos, del concettuale, quindi dell’universale » il
senso (Sinn) percettivo della cosa. In altri termini Husserl sosti- tuisce alla
dicotomia oggetto-concetto la dicotomia senso (percepito)-concetto: nella quale
il concetto è l’essenza della cosa, la sua concettualizzazione o espressione
compiuta (/deen, I, $ 124). Un tentativo di riduzione analogo a questo è stato
quello di Royce il quale, dopo aver distinto il S. esterno di un’idea, che è la
corrispondenza dell'idea con l'oggetto, dal S. interno di essa che è «lo scopo
consapevole incor- porato nell’idea», riduce a quest’ultimo lo stesso S. esterno,
sul fondamento che è « l’idea stessa che sceglie l’oggetto con il quale vuole
essere confron- tata » (The World and the Individual, 1901, II, cap. 1). B) 1
principali tentativi di presentare nuove specie di S. in aggiunta o in
concorrenza con le due consacrate dalla tradizione sono i seguenti: 1° La
definizione del S. come uso. Questa è la tesi delle Philosophical
Investigations (1953) di Wittgenstein. « Per un’estesa classe di casi — seb- bene
non per tutti — nei quali adoperiamo la pa- rola ‘ S. * essa può essere
definita così: il S. di una parola è il suo uso nel linguaggio. E il S. di un
nome è qualche volta spiegato indicando il suo portatore» (Op. cit., $ 43). Ma
per quanto pre- sentata, dallo stesso Wittgenstein e da altri, in con- correnza
con la definizione semantica di S., la nozione di uso appartiene ad un'altra
sfera di problemi e ad un altro livello di indagine. Il pro- blema cui essa
risponde è difatti quello della for- mazione dei significati nelle lingue
naturali. L’uso non è il S., ma lo determina: nel senso che ad esso è dovuta la
connessione tra un oggetto e una voce (o in generale un veicolo segnico). Le
definizioni di un dizionario sono senza dubbio stabilite dal- l’uso; esse
tuttavia esprimono la connotazione e la denotazione dei termini. Pertanto la
teoria dell'uso non è una teoria del S., ma piuttosto una teoria circa
l’origine e la formazione delle lingue naturali. 2° La proposta di un S.
emotivo accanto al S. « simbolico » o « descrittivo». Questa proposta, fatta da
Ogden e Richards (Meaning of Meaning, 1923, ediz. 1952, pag. 149 e passim) è stata espressa da C. L.
Stevenson nel modo seguente: « Il S. emo- tivo è un S. nel quale la risposta
(dal punto di vista dell’ascoltatore) o lo stimolo (dal punto di vista del
parlatore) è un complesso di emozioni» (Ethics and Language, 1944, pag. 59). Il
S. emo- tivo così inteso sarebbe distinto dal significato sim- bolico che
consisterebbe nel suo riferimento all’og- getto; e il significato stesso
potrebbe in generale definirsi come la qualità disposizionale di un segno a
produrre l’una o l’altra di queste reazioni, cioè o un insieme di emozioni o il
riferimento all’og- getto (/bid., pag. 53 sgg.). Prescindendo dal fatto che
l’uso del termine emotivo per indicare norme di leggi, prescrizioni tecniche o
comandi (tutte cose che rientrerebbero nella categoria dei signifi- cati
emotivi) può a buon diritto ritenersi barbarico (v. EMOZIONE), la dottrina in
questione sembra suggerita dal fatto che il significato denotativo viene
ristretto al riferimento a cose reali, sicchè molti segni semplici o composti
sembrano non avere denotazione perchè non si riferiscono a cose. In realtà il
riferimento denotativo si rivolge a og- getti in generale (v. OGGETTI) ed
oggetti sono ugualmente le cose reali come quelle fantastiche, i piani, i
progetti, i desideri e le aspirazioni come le qualità sensibili o le entità
percepite. Pertanto un enunciato che esprime un ordine o un desiderio o un
progetto può avere, nella situazione a cui tali cose si riferiscono, la sua
denotazione cioè il suo oggetto o il suo referente. Nè da un punto di vista
logico, che è quello appunto della teoria del signi- ficato, tali oggetti sono
distinguibili dagli altri. 3° La definizione del significato come del-
l'intenzione di chi parla. Il S. in questo senso sa- rebbe ciò che il parlante
intende dire, a prescindere dal riferimento oggettivo della parola o dell’enun-
ciato adoperato. In questo senso si usa dire « In- tendo dire... » (in inglese:
/ mean... dal verbo to mean che ha la stessa radice di meaning = S.) per
chiarire o rettificare una propria dichiarazione. È abbastanza ovvio che ogni
descrizione o chiari- mento dell’intenzione del parlante non può aversi che
mediante la determinazione dell’oggetto cui egli si riferisce o della sua
connotazione: cioè mediante l’uso delle dimensioni proprie del significato.
Tali dimensioni vengono pertanto semplicemente pre- supposte dalla definizione
in esame. Talvolta questa viene proposta come un S. aggiunto a quello tra- dizionale
(cfr. M. BLACK, Problems of Analysis, 1954, pag. 55-56); ma è anche chiaro che
l’inten- zione del parlante non è un’altra specie di S. ma piuttosto il modo in
cui il parlante adopera le di- mensioni logiche del significato. A questa
stessa confusione tra intenzione e S. si connette l’uso di questo termine in
frasi come queste: « Un universo meccanico non avrebbe S. », «Se tutto si
svolgesse a caso, la storia non avrebbe S.+: nelle quali la parola S. sta
ovvia- mente per intenzione o scopo, quindi per valore. 4° La proposta di un S.
« pittorico » o « im- maginifico » accanto agli altri in quanto «il lin- guaggio
può essere usato con l’intenzione primaria di esprimere o evocare pitture (o
immagini) in un modo che differisce dall’uso dei segni e formula possibilità
empiricamente significanti» (v. C. At- DRICH, « Pictorial Meaning and Picture
Thinking », in Readings in Philosophical Analysis, 1949, pa- gina 175 sgg.). Ma
è chiaro che anche questa pro- posta è suggerita dal presupposto (estraneo a
qual- siasi teoria logica del S.) che l’oggetto del riferi- mento sia una cosa
reale o una situazione di fatto e non possa essere d’altra natura. In realtà i
S. « pittorici » hanno connotazione e denotazione come tutti gli altri. 5° La
definizione del S. come un vertore di campo nel senso che esso sarebbe una
disposizione messa in atto dall’oggetto stagliatosi sullo sfondo di un campo o
contesto appropriato. Più precisa- mente esso sarebbe l’attivazione o messa in
atto di una risposta descrittiva, provocata dall’oggetto (A. P. UsHENKO, 7he
Field Theory of Meaning, 1958, pag. 109). Ma questa è bensì una teoria circa la
formazione dei S. (che può essere discussa in sede di teoria del linguaggio) ma
non innova nulla no S. espressivo le locuzioni che non hanno S. teoretico e
tuttavia manifestano uno stato d'animo del soggetto che li adopera o servono a
produrre stati d’animo analoghi nel sog- getto che le ascolta. Le interiezioni,
le esclamazioni, le espressioni metaforiche hanno un S. di questo genere.
Talvolta, e specialmente da parte dei seguaci dell’empirismo logico (v.), si
assimilano le espres- sioni della metafisica tradizionale a enunciati di questo
genere, al fine di negare ad essi ogni valore cognitivo. Questo però è un uso
polemico, che può essere registrato solamente come tale (v. ARTE; METAFISICA;
POESIA). SILENZIO (lat. Silentium; ingl. Silence; fran- cese Silence; ted.
Schweigen). L'atteggiamento mi- stico di fronte all’ineffabilità dell’essere
supremo (cfr., ad es., BONAVENTURA, /finerarium mentis in Deum, VII, 5).
Secondo Jaspers, l’atteggiamento di fronte all’essere della Trascendenza
(Philosophie, III, pag. 233). Secondo Wittgenstein, l’atteggia- mento di fronte
ai problemi della vita: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere »
(Tractatus logico-philosophicus, T). SILLOGISMO (gr. ovMmoywapsc; lat. Syllogi- smus; ingl.
Syllogism; franc. Syllogisme; ted. Syl- logismus). La
parola che in origine significa calcolo e da Platone veniva usata per
ragionamento in ge- nerale (cfr. Teer., 186 d) fu adottata da Aristotele per
indicare il tipo perfetto del ragionamento de- duttivo, definito come «un
discorso in cui, poste talune cose, alcune altre ne seguono di necessità + (An.
Pr., I, 1, 24b 18; I, 32, 47a 34). Le carat- teristiche fondamentali del S.
aristotelico sono: 1° il suo carattere mediato; 2° la sua necessità. Il
carattere mediato del S. dipende dal fatto che il S. è la controparte
logico-linguistica del concetto metafisico di sostanza. In virtù di questo, il
rap- porto tra due determinazioni di una cosa non si può stabilire se non sulla
base di ciò che la cosa è necessariamente cioè della sua sostanza; e, per es., se
si vuol decidere se l’uomo ha la determinazione di « mortale » non si può che
guardare alla sostanza dell’uomo (a ciò che l’uomo non può non essere) e
ragionare nel modo seguente: « Tutti gli animali sono mortali, Tutti gli uomini
sono animali, Dunque tutti gli uomini sono mortali». Ciò si- gnifica che l’uomo
è mortale perchè animale: l’animalità è la causa o la ragion d'essere della sua
mortalità. In questo senso si dice che la nozione «animale» fa da rermine medio
del S.: il termine medio è ovviamente indispensabile perchè è quello che
rappresenta nel S. la so- stanza, o il riferimento alla sostanza, che sola rende
possibile la conclusione (An. Posr., Il, 11, 94a 20). Il S. ha dunque tre
termini cioè il soggetto e il predicato della conclusione e il termine medio. Ma
è la funzione del termine medio che determina le diverse figure del sillogismo
(v. SILLOGISTICA). Ari- stotele distinse oltre le figure, varie specie del
sillo- gismo. Il S. è per definizione deduzione necessaria: perciò la sua forma
primaria e privilegiata è il S. ne- cessario che Aristotele chiama pure
dimostrativo o scientifico o S. dell’universale (An. Pr., I, 24, 25b 29). Da
esso si distingue il S. dialettico, che è fondato su premesse probabili ed è
quindi solo probabile (Ibid., II, 23, 68b 10; An. Posr., II, 8, 93a 15); esso è
detto anche retorico; e di esso è una specie il S. eristico, fondato su
premesse che sembrano probabili ma non lo sono (7op., I, 1, 100b 23). Dei S.
necessari, la prima e migliore specie è quella dei S. ostensivi (v.), che
Aristotele contrappone a quelli che partono da un’ipotesi (An. Pr., I, 23, 40b
23). Questi ultimi non sono quelli che si chiameranno in seguito S. ipotetici
ma quelli la cui premessa maggiore non è la conclusione di un altro S. nè è
evidente per sè, ma è assunta per via d’ipotesi (/bid., I, 44, 5S0a 16). Di
tali S. è una specie quello che conclude mediante la riduzione all’assurdo
(Ibid, 50a 29). Tra i S. ostensivi i più perfetti sono i S. universali della
prima figura ai quali è possibile ricondurre tutte le altre forme del S.
(/bid., I, 7, 29b 1). Infine dal S. deduttivo si distingue il S. indurrivo o
induzione (Ibid., I, 23, 68b 15). Dall’altro lato, non sono specie dei S.
quelle che Aristotele chiama S. geometrico, medico, politico (Top., I, 9, 170 a
32) e il S. pratico (Er. Nic., VI, 12, 1044a 31) che si distinguono tra loro
solo per il contenuto dei princìpi cui fanno appello, non per la forma logica.
Nè, propriamente parlando, sono specie del S. i S. composti come l’epicherema e
il sorite; o contratti come l’enrimema: sui quali tutti vedi le singole voci.
Non è poi af- fatto un S. la divisione, cioè uno dei metodi della dialettica
platonica, che Aristotele chiama «S. de- bole » (An. Pr., I, 31, 46a 33). Gli
Stoici, che misero a base della loro logica, non la teoria della sostanza, ma
quella della perce- zione, considerarono come tipo fondamentale del ragionamento
non il S. ma il ragionamento anapo- dittico, che ha soltanto due termini e ha
per pre- messa maggiore una proposizione condizionale (« Se è giorno c’è luce.
Ma è giorno. Dunque c’è luce»; v. ANAPODITTICO). Gli aristotelici, a partire da
Teofrasto, tradussero negli schemi aristotelici i ragionamenti anapodittici
degli Stoici aggiungendo al S. categorico aristotelico, come due altre specie di
S., quello ipotetico e quello disgiuntivo (con- fronta PRANTL, Geschichte der
Logik, I, pag. 375 se- guenti; i testi fondamentali sono dati da Alessandro, Ad
An. Pr., f. 134 a-b). La dottrina veniva trasmessa alla filosofia occidentale
attraverso l’opera di Boezio che tuttavia si ispirava ad autori posteriori e
soprat- tutto a Galeno (De syllogismo hypothetico, in P. L., 64). La dottrina
del S. così completata veniva trasmessa dalla tradizione senza sostanziali
muta- menti, l’attività dei logici sbizzarrendosi soltanto a trovar nomi per
ogni insignificante modificazione delle strutture tradizionali. Si è già detto
che il fondamento del S. aristotelico i gli animali; ma intendo nello stesso
tempo che l’idea dell’animale è compresa nell’idea dell’uomo. L’animale
comprende più individui dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più forme;
l’uno ha più esempi, l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più estensione,
l’altro più intensione. Perciò si può forse dire con verità che tutta la
dottrina sillogistica potrebbe essere dimostrata mediante quella del contenente
e del contenuto, del compren- dente e del compreso, che è differente da quella
del tutto e della parte; giacchè il tutto eccede sempre la parte, mentre il
comprendente e il compreso sono talvolta eguali, come accade nelle proposizioni
reciproche » (Nouv. Ess., IV, 17, 8). Ma fu soprat- tutto Hamilton che fece
prevalere il punto di vista estensivo come fondamento del S. assumendone a
base quella che egli chiamò «la legge di
identità o non identità proporzionale » per la quale il S. si fonda sulle tre
sole possibili relazioni tra i ter- mini: 1° la relazione di coinclusione
toto-totale cioè di identità o di assoluta convertibilità o reci- procazione;
2° la relazione di co-esclusione toto- totale cioè di non identità o di
assoluta non conver- tibilità o non reciprocazione; 3° la relazione di coinclusione
incompleta, che implica una relazione di coesclusione incompleta, che significa
l'identità par- ziale o la parziale non identità o una convertibilità o
reciprocazione relativa (Lectures on Logic, ll, 1866, pag. 290 sgg.). Hamilton
stesso si preoccupò di sottolineare i precedenti della sua dottrina, tra i
quali però non incluse il principale, che è Leibniz (/bid., 346-48). La logica
posteriore di ispi- SILLOGISTICA razione aristotelica non seguì, su questo
punto, la dottrina di Hamilton ritornando ad una inter- pretazione intensiva
del fondamento del sillogismo. E in realtà l’eredità della proposta di Hamilton
doveva essere raccolta piuttosto dalla logica mate- matica; la quale però, a
partire dalla sua prima manifestazione cioè dalle Leggi del Pensiero (1854) di
G. Boole fu d’accordo con l’empirismo (v. oltre) nel togliere al S. il suo
primato di forma fondamen- tale e tipica del ragionamento. Diceva Boole: « Il
S., la conversione, ecc. non sono gli ultimi pro- cessi della logica. Essi sono
fondati su, e sono risol- vibili in, ulteriori e più semplici processi che
costi- tuiscono gli elementi reali del metodo in logica. Nè è vero in linea di
fatto che ogni inferenza è riducibile alle forme particolari del S. e della
con- versione + (Laws of Thought, cap. I; Dover Pub- blications, pag. 10). I
processi elementari della logica sono secondo Boole, identici con «i processi
fondamentali dell’aritmetica » (/bid., pag. 11): un'affermazione la quale servì
di base a tutti gli ulteriori sviluppi della logica matematica. Ma con ciò il
S. era definitivamente spodestato dal suo trono di tipo fondamentale del
ragionamento deduttivo: cosa che non era riuscita del tutto alla critica
empiristica. D’allora in poi, il S. ha cessato di essere un capitolo autonomo
delia logica; e la preoccupazione dei logici a suo riguardo consiste unicamente
nel mostrare come esso possa essere risolto e espresso nelle formule del
calcolo che essi preferiscono: una preoccupazione che i logici affrontano non
senza perplessità (cfr., ad. es., W. v. O. QuInE, Methods of Logic, 1952, $ 14;
A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, 1956, $ 46.22). Come già si è
detto, indipendentemente dalla discussione sui suoi fondamenti, la validità del
S. è stata spesso messa in dubbio dal punto di vista dell’empirismo. Sesto
Empirico vedeva nel S. o
la ripetizione inutile di ciò che già si
conosce o un circolo vizioso: nel senso che la premessa maggiore (« Tutti gli
uomini sono mortali +) implicherebbe già la verità della conclusione (« Socrate
è mortale +) (/p. Pirr., I, 163-64; II, 196). Stuart Mill osservava a questo
proposito che il circolo vizioso non c’è, perchè quando si è giunti alla
proposizione gene- rale, l’inferenza è finita e non rimane che « deci- frare i
nostri appunti » (Logic, II, 3, 2). Ma questo significa ridurre il S. a una
semplice decifrazione di note già possedute. Già Bacone aveva osservato che «
il S. forza l'assenso, ma non la realtà» (Nov. Org., I, 13). E fu questa l’idea
che Locke fece pre- valere sulla natura del S.: il quale non scopre nè le idee
nè la connessione tra le idee, che solo la mente può percepire, ma « dimostra
soltanto che se l’idea intermedia concorda con quelle cui è 795 riferita
immediatamente da entrambi i lati, allora quelle due idee lontane (o estreme)
certamente concordano ». Sicchè «la connessione immediata di ciascuna idea con
quelle cui viene applicata da entrambi i lati, connessione dalla quale dipende
la forza del ragionamento, è vista altrettanto bene prima quanto dopo il S. o
altrimenti chi fa il S. non potrebbe mai vederla affatto» (Saggio, IV, 17, 4).
Questa critica famosa di Locke ha iniziato quella decadenza del S. dalla sua
supremazia che doveva concludersi col prevalere della logica mate- matica nella
seconda metà dell’800. SILLOGISTICA (ingl. Syllogistic; franc. Syl- logistique;
ted. Syllogistik). È la dottrina del sillo- gismo (v.). Sviluppata per la prima
volta da Aristo- tele negli Analytica Priora, doveva divenire in breve volgere
di decenni la parte centrale della Logica, e tale rimanere fino all’avvento
della Logica mate- matica contemporanea. La parte più antica è la teoria del
sillogismo deduttivo categorico esposta, appunto, da Aristotele. Questi fissa i
quattro modi validi della prima figura. (Le figure sono caratteriz- zate dalla
posizione del termine medio, che nella prima fa da soggetto nella premessa
maggiore e predicato nella minore; nella seconda è predicato in entrambe le
premesse, nella terza è in entrambe soggetto: onde la necessità, in queste, di
convertire una delle premesse. I modi si dispongono così: prima quelli che
concludono con una proposizione universale affermativa, poi quelli che
concludono con una universale negativa, poi particolare affer- mativa, infine
particolare negativa). Indi passa all’analisi dei modi possibili della seconda
e terza figura, dimostrandone la riducibilità, principalmente mediante la
tecnica della conversione (v.), a corri- spondenti modi della prima. In seguito
Teofrasto formulerà i modi della quarta figura, ma il ricono- scimento e
l'esposizione di questa come figura indipendente pare siano dovuti a Galeno.
Tuttavia in seguito parecchi logici, come Averroè, Zabarella, e, nell’età
moderna, Wolff e Kant, si pronuncia- rono contro di essa come sostanzialmente
inutile; e infatti i modi di questa figura non sono che modi indiretti della
prima, con interscambio delle due premesse; per di più alcuni di essi, e cioè
il primo e il quarto, non «concludono necessariamente » (condizione essenziale,
nella dottrina aristotelica, perchè ci fosse sillogismo). A queste quattro
figure i logici moderni aggiunsero i cinque modi «deboli», ottenuti dalla
prima, seconda (e quarta) per subal- ternazione (cloè sostituzione della
conclusione universale con una particolare). Questa dottrina, già largamente
esplorata dai commentatori della tarda antichità, peripatetici e neoplatonici,
compendiata poi da Boezio, ricevette ad opera dei logici medievali una
rielaborazione 796 sistematica che la rese estremamente formalizzata. Furono
infatti i grandi terministi medievali che ridussero a formule tutti i modi,
seguendo questa complicata tecnica: indicarono con le quattro vocali a, e, i, o
i quattro tipi di proposizione (risp.: univer- sale affermativa {a], universale
negativa fe], parti- colare affermativa fi], particolare negativa [o]; con B,
C, D, Fi quattro modi della prima figura, desi- gnandoli con le parole-formule
Barbara, Celarent, Darii, Ferio, dove le uniche lettere significative sono
appunto le iniziali e le tre vocali (indicanti il tipo di proposizione
rispettivamente della premessa maggiore, della minore e della conclusione). Per
i modi delle tre altre figure, le prime tre vocali hanno il consueto
significato; le iniziali indicano a quale modo della prima figura si riducano;
e in più sono significative alcune lettere minuscole posposte alla vocale e
indicative di operazioni da compiersi sulle proposizioni indicate da quella
vocale: s conversione «simpliciter », p conversione «per accidens +, m metatesi
delle premesse, c « reductio ad impossibile +. Ora, teoricamente, i modi
matematicamente pos- sibili in ogni figura sono 16, che si ottengono com- binando
a due a due in tutti i modi possibili (con ripetizione) le quattro lettere a,
e, i, 0 (infatti nel sillogismo quelle che decidono sono le premesse, e le
premesse sono due): 44, ea, ia, 0a; ae, ee, ie, 0e; ai, ei, ii, oi; ao, eo, io,
00. Ne verrebbero quindi 64 modi; ma di essi sono validi solo i seguenti 19: logismo
ipotetico e disgiuntivo. Il sillogismo ipotetico con- siste in una premessa
(detta maggiore) la quale stabilisce un’implicazione da un enunciato ad un
altro («se A, B +); di una premessa (detta minore) che afferma (modus ponens) o
nega (modus tollens) rispettivamente l’antecedente o il conseguente del-
l’implicazione contenuta nella maggiore; la conclu- SIMBOLIISMO sione afferma
o, rispettivamente, nega il conseguente o l’antecedente: modus ponens: se A, B
modus tollens: se A, B Anon-8 dunque 8 dunque non-4 Analogamente, il sillogismo
disgiuntivo consiste di una premessa (maggiore) in cui sono affermate (modus
tollendo ponens) oppure reciprocamente negate (modus ponendo tollens) due
proposizioni; di una premessa (minore) in cui è negata, 0, rispet- tivamente,
affermata, una delle disgiunte della pre- messa maggiore; la conclusione
consiste nell’affer- mare, o, rispettivamente, negare, l’altra disgiunta: modus
tollendo ponens: A o B AoB non-B non-A dunque 4 dunque 8 modus ponendo tollens:
o A o B po AoB A dunque non-8 dunque non-4 Questi tipi di « sillogismo »,
malgrado certe for- zate analogie, rappresentano una struttura affatto diversa
da quella del sillogismo categorico, sì che, se non si tenesse conto
dell’etimologia, a mala pena si potrebbe applicare loro il nome stesso di
sillo- gismo. Infatti essi, per esprimerci nel linguaggio della Logica
contemporanea, appartengono al cal- colo proposizionale semplice e si fondano
su impli- cazioni materiali, mentre i modi del sillogismo categorico
appartengono al calcolo delle funzioni proposizionali e si fondano su
implicazioni formali. Ciononostante nella Logica moderna, soprattutto nell’Ottocento,
è stato fatto il tentativo (peraltro più su basi gnoseologiche ed
epistemologiche che non su basi propriamente logiche) di ridurre il sillogismo
categorico a sillogismo ipotetico, inter- pretando il primo come inferenza
ipotetico-deduttiva: «se tutti gli uomini sono mortali, e se Socrate è uomo,
Socrate è mortale». Ma l’esposizione logica completa di quest’ultima forma di
inferenza mostra come essa in realtà non si riduca a nessuna delle due forme
classiche, andando perdute di queste la rigorosa brevità e la struttura
ternaria. Resterebbe da considerare il sillogismo induttivo. Ma la trattazione
di esso non appartiene alla S. vera e propria (v. INDUZIONE). G. P. SIMBOLISMO
(ingl. Symbolism; franc. Sym- bolisme; ted. Symbolismus). 1. L’uso dei segni cioè
il comportamento segnico o sermiosi (v.). 2. L'uso di un particolare sistema di
segni (per es., «il S. della matematica»). 3. L’uso dei simboli nel senso 2 del
termine cioè di segni convenzionali e secondari (segni di segni, come accade
nell’arte, nella religione, ecc.). In questo senso adopera la parola Cassirer
quando parla della « espressione simbolica come della più matura forma dello
sviluppo linguistico, contras- SIMPATIA segnata dalla distanza tra il segno e
il suo oggetto » (The Philosophy of Symbolic Forms, II, pag. 237); questa
distanza è difatti propria del comportamento segnico. SIMBOLO (ingl. Symbol;
franc. Symbole; te- desco Symbol). 1. Lo stesso che segno. In questo significato
generico il termine viene più spesso ado- perato nel linguaggio comune. 2. Una
particolare specie di segno. Secondo Peirce: « Un segno che può essere
interpretato in conseguenza di un abito o di una disposizione naturale » (Coll.
Pap., 4.531). Secondo Dewey, un segno arbitrario o convenzionale (Logic, Intr.,
IV; trad. ital., pag. 93). Secondo Morris un segno che ne sostituisce un altro
nella guida di un compor- tamento (Signs, Language and Behavior, I, 8). Secondo
altri, un segno tipico, in contrapposto al segno individuale cioè la parola
come significato (v. PAROLA) (M. BLACK, Language and Philosophy, VI, 2; trad.
ital., pag. 181). SIMILE (gr. 8poiog; lat. Similis; franc. Sem- blable; ingl. Alike, Similar; ted. Ahnlich). Ciò che ha una
qualsiasi determinazione in comune con una © più cose. Aristotele distinse i
seguenti significati del termine: 1° sono S. le cose che hanno la stessa forma
per quanto siano sostanzialmente differenti; e in questo senso sono S. un
quadrato più grande e uno più piccolo e due linee rette ine- guali; 2° sono S.
le cose che hanno la stessa forma ma sono soggette a variazioni quantitative,
quando le loro quantità sono uguali; 3° sono S. le cose che hanno in comune la
stessa affezione, per es., il bianco; 4° infine sono S. le cose le cui
affezioni uguali sono in maggior numero delle affezioni differenti (Mer., X, 3,
1054 b 3). Il primo significato è quello in cui in geometria si dicono S. le
figure (cfr. EUCLIDE, El., VI, def. 1, 3; def. 11, ecc.). Nella tradizione
posteriore, la simiglianza è stata intesa specialmente rispetto alla qualità
comune (PIETRO Ispano, Summ. Log., 3.29) ma talvolta anche alla forma (S.
Tommaso, Contra Gent., I, 29; cfr. S. Th., I, q. 4, a. 3). Più genericamente
Wolff diceva che «sono S. le cose che sono identiche in ciò in cui dovrebbero
distinguersi l’una dall’altra» (Ont., $ 195). Determinazioni siffatte stringono
assai poco e dicono solo che i criteri di simiglianza possono essere
indefinitamente variati; l’importante è che siano, ogni volta, esplicitamente
dichiarati. Solo nella matematica moderna la nozione di simiglianza è stata
diversamente definita mediante la teoria degli insiemi: che si dicono S. quando
esiste tra essi una relazione di termine a termine. Dice, ad es., Russell: «Si
dice che una classe è S. a un’altra quando esiste una relazione di termine a
termine in cui una classe è dominante mentre l’altra è il dominante inverso»
(/ntroduction to 797 Mathematical Philosophy, cap. II; trad. ital., pag. 27). Questa
nozione ha grande importanza per la defi- nizione matematica dell’infinito
(v.). SIMMETRIA (ingl. Symmetry; franc. Symétrie; ted. Symunetrie).
Misurabilità, proporzione 0 armo- nia. Simmetrica si dice una relazione che
intercede tra i due termini nei due sensi: per es. è simmetrica la relazione
«fratello » (v. RELAZIONE). SIMPATIA (gr. ovyré0eu; ingl. Sympathy; franc.
Sympathie; ted. Sympathie). L'azione reci- proca delle cose tra loro o la loro
capacità di influenzarsi a vicenda. Il concetto è antico e sin dall’antichità
trovò applicazione sia nel mondo umano che nel mondo fisico; ma è soprattutto a
proposito del mondo fisico che i filosofi antichi se ne servirono. Gli Stoici
videro nella S. il legame che unisce tra loro le cose e le tiene o le fa
conver- gere nell’ordine del mondo (ARrnIM, Sroicorum fragmenta, II, pag. 264).
Plotino poneva la S. a fondamento della magia: « Da dove derivano, egli diceva,
gli incantesimi? Dalla S. per la quale vi è un accordo naturale tra le cose
simili ed una naturale contrarietà tra le dissimili e per la quale anche c’è un
gran numero di potenze varie che collaborano all'unità di quei grande animale
che è l’universo » (Enn., IV,4, 40). « La S., egli diceva, è come un’unica corda
tesa che quando viene toccata ad un capo trasmette anche all’altro capo il
movimento... E se la vibrazione passa da uno strumento all’altro per S., anche
nell’universo c’è un’armonia unica,
che talora è fatta di contrari ma
talaltra è fatta anche di parti simili e congeneri » (/bid., IV, 4, 41). La
magia si inserisce nella S. universale, e con op- portuni accorgimenti se ne
avvale per i propri scopi realizzando così effetti che sembrano straor- dinari
e miracolosi. Questo concetto della S., che presuppone l’animazione di tutte le
cose, è il fonda- mento della magia e viene ammesso ugualmente da tutti i maghi
del Rinascimento (cfr. CAMPANELLA, De sensu rerum, IV, 1; III, 14; AGRIPPA, De
oc- culta philosofia, I, 1; I, 37; CARDANO, De varietate rerum, I, 1-2; G. B.
ELMONT, Opuscula philosophica, I, 6; ecc.) Col declino della magia nel mondo
moderno, il significato di S. fu ristretto a indicare la parteci- pazione
emotiva fra gli individui umani. Hume per primo insistette sull'importanza
della S. per ciò che riguarda la formazione di tutte le emozioni umane: «
Nessuna qualità della natura umana è più importante, sia in se stessa, sia
nelle sue conse- guenze, della propensione che abbiamo a simpa- tizzare con gli
altri, a ricevere per comunicazione le loro inclinazioni e i loro sentimenti
per quanto diversi siano dai nostri o anche contrari... A questo principio
dobbiamo attribuire la grande uniformità che possiamo osservare negli umori e
nei modi di 798 pensare dei membri di una stessa nazione: è molto più probabile
che questa rassomiglianza sorga dalla S. piuttosto che dall’influenza del suolo
e del clima che, per quanto rimangano gli stessi, non riescono a conservare
immutato per un intero secolo il ca- rattere di una nazione » (7reatise of
Human Nature, 1738, II, I, 11). È da notare che Hume riconobbe alla S. il
carattere sul quale giustamente ha poi insistito Scheler, in polemica con
autori più mo- derni e cioè sul fatto che essa non implica alcuna identità di
emozione o fusione emotiva fra le per- sone tra le quali intercorre. Adamo
Smith non fece che seguire l’idea direttiva di Hume ponendo la S. a fondamento
della vita morale e intendendo per essa «la facoltà di partecipare le emozioni
degli altri, quali che siano » (Theory of Moral Sentiments, 1759, I, 1, 3).
Alla S., talora chiamata emparia (v.) si è fatto talora ricorso nel dominio
estetico e bio- logico. Bergson ha riportato alla S. l’istinto e ha visto in
essa la possibilità di cogliere direttamente la natura della vita: « L’istinto
è simpatia. Se questa S. potesse estendere il suo oggetto e riflettere su se stessa,
ci darebbe la chiave delle operazioni vitali, al modo in cui l’intelligenza
sviluppata e raddriz- zata, ci introduce nella materia» (Év. Créarr., 8® ediz.,
1911, pag. 191). Dall’altro lato, Scheler in un'opera famosa sulla S., l’ha
distinta da feno- mine è stato anche applicato alla storia del pensiero reli-
gioso che mostra spesso fenomeni di sovrappo- sizione e fusione di credenze di
provenienza diversa. Anche in questo uso il termine è adoperato polemi- camente
cioè per designare sintesi mal riuscite, perciò non ha significato preciso. Più
arbitrario ancora è il significato in cui viene adoperato da qualche scrittore
francese per indicare una veduta generale e confusa di una situazione (cfr.
RENAN, L’avenir de la science, pag. 301). SINCRONICO. V. Diacronico. SINDOSSICO
(ingl. Syndoxicj franc. Syn- doxique). Termine adoperato da J. M. Baldwin SINONIMIA
per indicare quel complesso di conoscenze comuni che si formano negli individui
in quanto hanno le stesse esperienze ma che non perciò sono neces- sariamente
valide (Thought and Things, 1906, I, pag. 146) (v. SinNoMICO). SINECHISMO
(ingl. Synechism; franc. Syné- chisme). Termine adoperato da Peirce per
indicare il principio di continuità, che egli ritiene operante in tutte le
forme della realtà (cfr. Chance Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6.169-173). SINECOLOGIA
(ted. Sinechologie). La dottrina della continuità nel tempo e nello spazio che
secondo Herbart è una parte della metafisica, insieme alla metodologia,
all’ontologia e alla idolologia (Kurze Enciclopàdie der Philosophie, 1841, pag.
297 sgg.). SINERGIA (ingl.
Synergy; franc. Synergie; ted.
Synergie). Coordinazione di differenti facoltà o forze oppure azione combinata
di differenti fattori. Il termine è corrente nel linguaggio comune e
scientifico ed è adoperato, ad es., sia ad indicare la cooperazione degli
organi in un corpo vivente sia il rafforzarsi a vicenda dell’azione dei medica-
menti. Qualche volta, ma raramente, è stato ado- perato come sinonimo di
simpatia o di coopera- zione intelligente (cfr. Risor, Psychologie des sen- timents,
1896, pag. 229; FoOUILLÉE, Morale des idées-forces, 1908, pag. 352). SINERGISMO
(ingl. Synergism; francese Sy- nergisme; ted. Synergismus). La dottrina
teologica secondo la quale la salvezza dell’uomo dipende non dalla sola azione
di Dio, ma anche dalla volontà umana che collabora con essa a produrla. Tale
dottrina fu sostenuta da Melantone contro il mo- nergismo di Lutero che
attribuiva la salvezza alla sola azione di Dio (v. GRAZIA). SINGOLARE (ingl.
Singular; franc. Singulier; ted. Einzig, Singulàr). Un termine o una proposi-
zione che denota un unico oggetto; o in altre pa- role « Una forma (o espressione)
che contiene un'unica variabile libera » (CHURCH, Introduction to Mathematical
Logic, 1956, $ 02; cfr. QUINE, Methods of Logic, $ 34). SINGOLO (ingl.
Singular; franc. Singulier; te- desco Einzeln). 1. Lo stesso che individuo
(v.). 2. L’individuo considerato come valore meta- fisico, religioso, morale e
politico supremo. In questo senso il S. è il tema preferito di alcune filosofie
moderne e contemporanee. Kierkegaard affermava polemicamente contro Hegel il
valore esistenziale del S.: « L'esistenza corrisponde alla realtà singolare, al
S. (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori dal concetto e in ogni
modo non coincide con esso» (Diario, X?, A, 328). Il S. sta più in alto
dell’universale, a differenza di ciò che Hegel credeva. « In un genere animale
vale sempre il principio: il S. è inferiore al genere. Il genere 799 umano ha
la caratteristica, appunto perchè ogni S. è creato a immagine di Dio, che il S.
è più alto del genere » (Ibid, X?, A, 426). Questa esaltazione del S. si
accompagna in Kierkegaard con la svaluta- zione della categoria del «pubblico »
in cui il S. svanisce; ma il pubblico non è la comunità nella quale invece il
simbolo viene riconosciuto come tale (Ibid., X?, A, 390). L'unico (v.) di
Stirner e il superuomo (v.) di Nietzsche sono concezioni ana- loghe a quella
che Kierkegaard indicò come singolo. Nello stesso senso, Jaspers insiste sul
carattere eccezionale del S. (Phil., II, pag. 360). SINISTRA HEGELIANA (ingl.
Hegelian Left; franc. Sinistre hégélienne; ted. Hegelsche Linke). Mentre la
destra hegeliana (v.) è la scolastica del- l'hegelismo, la S. hegeliana tende a
contrapporre alla dottrina di Hegel quei tratti o caratteri del- l’uomo che in
essa non avevano trovato un ricono- scimento adeguato. Sul piano religioso
questa ten- denza dà luogo ad una critica radicale dei testi biblici e al
tentativo di ridurre a mito l’intera dot- trina della religione (Davide
Federico Strauss, 1808-74). La religione stessa veniva considerata da Ludovico
Feuerbach (1804-72) come «l’auto- coscienza dell’uomo cioè come la proiezione
nella divinità di ciò che l’uomo vuol essere ». Sul piano storico politico, la
S. hegeliana contrappose alla concezione hegeliana della storia come
razionalità assoluta l’interpretazione materialistica della storia stessa che
la considera in funzione dei bisogni umani (K. Marx, 1818-83; F. EnGELS,
1820-95) (v. MATERIALISMO STORICO). SINNOMICO (ingl. Synzomic; franc. Syn- nomique).
Termine adoperato da G. M. Baldwin per indicare quel complesso di conoscenze
comuni che si formano negli individui, quando sono giu- dicate «adatte o
appropriate per tutti i processi logici come tali» (Thought and Things, 1906,
II, pag. 270). Sindossico invece è ciò che è comune ma senza carattere di
normatività (v. SINDOSSICO). SINOLO (gr. tò abvodov; lat. Compositum). Con questo
termine che significa «tutt'uno » Aristotele indicò il composto di materia e
forma, la sostanza concreta. « La sostanza è la forma immanente dalla quale, e
insieme dalla materia, deriva ciò che si chiama S. o sostanza: per es., la
concavità è la forma dalla quale insieme con il naso (materia) deriva il naso camuso
» (Mer., VII, 11, 1037 a 30). La traduzione del termine è «composto » o «
concreto ». SINONIMIA (ingl. Synonimy; franc. Syno- nymie; ted. Synonimie). La
relazione di S. è impor- tante per i logici in quanto essi se ne avvalgono per
definire la nozione di analiticità (v.). Il concetto della S. come « identità
di significato tra due forme linguistiche » non è sufficiente; ed i logici
aggiun- gono abitualmente qualche altra condizione, per 800 definire la
sinonimia. Lewis dice: « Due espressioni sono sinonime se e solo se: 1° hanno
la stessa intensione e questa intensione non è nè zero nè universale oppure 2°
se la loro intensione è zero o universale ma esse sono analiticamente confron- tabili
» (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 86). Per espressioni che
hanno intensione zero o universale, Lewis intende espressioni come «essere»,
«entità», «cosa», «ogni cosa» (/bid., pag. 87). Carnap, a sua volta, ha
osservato: « Se chiediamo un’esatta traduzione di un’asserzione data, per es.,
di un’ipotesi scientifica o di una testi- monianza in corte, da una lingua
all’altra, noi abitualmente richiediamo più che la concordanza nelle intensioni
degli enunciati... Anche se restrin- giamo la nostra attenzione a significati
designativi (conoscitivi), l'equivalenza logica degli enunciati non sarà
sufficiente; sarà richiesto almeno che alcuni dei designatori componenti siano
logicamente equivalenti o in altre parole che le strutture intensio- nali siano
simili » La S. sarebbe perciò espressa da un «isomorfismo intensionale », di
cui Carnap dà le regole (Meaning and Necessity, 1957, $ 14, 15). Le esigenze
avanzate da Lewis e Carnap per la definizione della S. rimangono tuttavia sul
piano della intensionalità delle forme linguistiche. Così fa pure la
definizione di Church (Introduction to Mathematical Logic, $ 01). Quine ha
dimostrato, su questo stesso piano, come sia difficile servirsi della S. per
definire l’analiticità, giacchè « dire che scapolo e uomo non sposato sono
cognitivamente sinonimi significa dire nè più nè meno che l’asser- zione tutti
e solo gli scapoli sono uomini non spo- sati è analitica». La S. si può
pertanto definire, secondo Quine, come la sostituibilità di due termini salva
analyticitate, cioè la possibilità di sostituire l’uno all’altro due termini in
una espressione senza che l’espressione perda il suo carattere analitico (From
a Logical Point of View, 1953, II, 3). SINONIMO (ingl. Synonym; franc.
Synonyme; ted. Synonym). Secondo la definizione aristotelica (Cat., 1a 6; 3b 7)
si dicono S. cose che hanno in comune il nome e la definizione dell’essenza,
come l’uomo e il bue che si dicono (e sono) entrambi animali. Nell’uso moderno
però si sono chiamati S. vocaboli (o enunciati) diversi nella forma del-
l’espressione ma di uguale contenuto semantico. Nella Logica contemporanea si
dicono « S. + enun- ciati aventi forma diversa ma il medesimo senso (designanti
la medesima proposizione): tuttavia non riesce sempre facile distinguere tra
sinonimia (semantica) ed equivalenza (sintattica). G. P. SINOSSI (gr. obvoyic; ingl.
Synopsis; franc. Sy- nopsis; ted. Synopsis).
Sguardo d’insieme. Platone adopera il termine per indicare il primo momento del
procedimento dialettico, quello che consiste nel raccogliere un molteplice in
un'unica idea (Rep., 537 c; Fedro, 265 d). Il termine fu anche adoperato da
Kant nella prima edizione della Critica della Ragion Pura nell’espressione «la
si- nopsi a priori del molteplice mediante il senso» (Crit. R. Pura, $ 14, in
fine) che sarebbe l’appren- sione del molteplice sensibile nelle forme dell’in-
tuizione (spazio e tempo), in quanto distinta dalla sintesi dell’immaginazione
e da quella concettuale. SINTASSI (gr. cvviéeic; lat. Syntaxis; inglese Syntax; franc. Syntaxe; ted.
Syntax). 1. Qualsiasi ordinamento, combinazione o
sistemazione di parti. Lo stoico Crisippo definiva « S. del tutto » il destino che
presiede all’ordine del mondo (Stoicorum fragmenta, II, pag. 293). 2. Una delle
dimensioni del procedimento se- gnico (v. SEMIOsI) cioè la combinabilità dei
segni fra loro in base a regole determinabili. In questo senso si può parlare,
ad es., di « S. dei suoni» 0 «dei colori +?, ecc. 3. La scienza che studia le
forme grammaticali o logiche del linguaggio: intendendosi per forme le loro
possibilità di combinazione. Più in parti- colare la S. logica di un linguaggio
è stata definita da Carnap come «la teoria formale delle forme linguistiche di
quel linguaggio, la dichiarazione sistematica delle regole formali che lo
governano insieme con lo sviluppo delle conseguenze che se- guono da queste
regole». Carnap aggiunge che «una teoria, una regola, una definizione o simili dev’essere
chiamata formale quando non fa alcun riferimento al significato dei simboli
(per es., delle parole) o al senso delle espressioni (per es., degli enunciati)
ma unicamente alle specie e all’ordine dei simboli con i quali le espressioni
sono costruite + (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 1). Carnap ha identificato
con la S. l’intera logica o metodologia delle scienze (/bid., $ 81), in base
alla considerazione che « per determinare se un enunciato è o non è la conseguenza
di un altro non è necessario alcun riferi- mento al significato degli
enunciati; e che pertanto «una logica speciale del significato è superflua; una
‘logica non formale’ è una contraddizione nei termini. La logica è S.» (2bid.,
$ 71). Più tardi lo stesso Carnap ha ammesso la divisione dell’ana- lisi del
linguaggio o semiotica in pragmatica, seman- tica e S. e ha considerato il
punto di vista sintattico come il procedimento che astrae dal fattore seman- tico
(Foundations of Logic and Mathematics,1939, 88). SINTELICO (ingl. Syntelic;
franc. Syntélique). Termine adoperato da G. M. Baldwin per designare gli
elementi pratici comuni a più individui ma non perciò necessariamente validi:
elementi che corri- spondono a ciò che si chiama sindossico nel dominio della
conoscenza (Thought and Things, 1906, III, pag. 79-80). SINTESI a, così la S.
toglie i princìpi che sono a fondamento dell’attività pratica. Il concetto
rimase immutato negli scrittori scolastici posteriori (cfr., ad es., Duns
Scoro, Op. Ox., II, d. 39, q.2, a. 4). La nozione ricorre, ma raramente, in
scrittori poste- riori: se ne avvalse Nicolò da Cusa, assumendola nel
significato mistico (De visfone Dei, ed. Bohnen- stadt, pag. 150 sg.); e nello
stesso significato se ne servì frequentemente B. Gracian: « È il trono della
ragione, egli disse, la base della prudenza perchè in virtù di essa costa poco
riuscire. È dono del cielo e il più desiderato... Consiste in una con- naturale
propensione verso tutto ciò che è più con- forme a ragione accoppiato sempre
con quanto v'è di più certo» (Ordculo manual, 1647, $ 96). SINTESI (gr. oiw0eotc; lat.
Synthesis; ingl. Syn- thesis; franc. Synthèse; ted. Synthese). Questo ter- mine, oltre il significato comune di
unificazione, co- ordinazione o composizione, ha i seguenti significati specifici:
1° quello di merodo conoscitivo, opposto all’analisi; 2° quello di attività
intellettuale; 3° quelio 51 — ABBAGNANO, Dirionario di filosofia. 801 di unità
dialettica degli opposti; 4° quello di unifi- cazione dei risultati delle
scienze nella filosofia. 1° Nel primo significato cioè come uno dei metodi
fondamentali della conoscenza, in contrap- posto all’analisi, la sintesi può
essere conside- rata come il metodo che va dal semplice al com- posto cioè
dagli elementi alle loro combinazioni negli oggetti di cui si tratta di
spiegare la natura. La contrapposizione dei due metodi fu espressa per la prima
volta da Cartesio (Rép. aux II Objec- tions; v. ANALISI); e Leibniz così la
esprimeva: « Si arriva spesso a belle verità mediante la S., andando dal
semplice al composto; ma quando si tratta di trovare il mezzo di fare ciò che
si propone, la S. ordinariamente non basta... E spetta all’analisi darci il
filo nel labirinto, quando ciò è possibile, perchè ci sono casi in cui la
natura stessa della questione esige che si vada a tentoni e non sempre la
scorciatoia è possibile» (Nouv. Ess., IV, 2, 7). Secondo Kant similmente il
metodo sintetico è quello « progressivo » mentre il metodo analitico è
«regressivo» cioè va da un oggetto alle condizioni che lo rendono possibile
(Pro/., $ 5, nota). Il proce- dimento dalla filosofia è secondo Kant analitico
mentre quello della matematica è sintetico; ma i due termini non hanno qui
alcun riferimento alla classificazione dei giudizi in analitici e sintetici. In
generale, come il procedimento analitico è carat- terizzato dalla presenza di
dati (inerenti all’oggetto o alla situazione da risolvere), che guidano e
control- lano il procedimento stesso, il procedimento sinte- tico si può
caratterizzare con l’assenza di tali dati e con la pretesa, che gli è inerente,
di produrre da sè gli elementi delle sue costruzioni (v. Fio- SOFIA). 2° Nel
secondo significato il termine designa l’unione del soggetto e del predicato
nella pro- posizione; quindi l’atto o l’attività intellettuale che opera tale
unione. In questo senso il termine fu usato da Aristotele, il quale disse che «là
dove c'è il vero ed il falso c’è anche una certa S. di pensieri simile alla S.
che c’è nelle cose» (De An., III, 6, 430 a 27); e che «ciò che opera questa unità
è l’intelletto » (/bid., 430b 5). Ma è stato soprattutto Kant a fare un uso
larghissimo del concetto di S., riducendo ad essa ogni specie di attività
intellettuale. Egli definì la S. in generale come «l’atto di unire diverse
rappresentazioni e comprendere la loro unità in un’unica conoscenza » (Crit. R.
Pura, $ 10). E distinse numerose specie di S. a seconda degli elementi che
entrano in essa. In primo luogo distinse la S. pura nella quale il molteplice è
stato dato non empiricamente ma a priori (come quello dello spazio e del tempo)
dalla S. empirica il cui molteplice è dato empiri- camente. La S. pura è
«l’atto originario della 802 conoscenza, il primo fatto al quale dobbiamo rivolgere
la nostra attenzione se vogliamo renderci conto dell'origine prima della nostra
conoscenza » (Ibid.). La S. pura precede pertanto ogni analisi giacchè si può
analizzare solo ciò che è già dato unito in un atto conoscitivo. La S. pura,
che è possibile a priori, a sua volta può essere distinta in S. figurata
(Synthesis speciosa) e sintesi intel- lettuale (Synthesis intellectualis):
ambedue sono trascendentali perchè costituiscono la possibilità di ogni
conoscenza, ma mentre questa seconda unifica un molteplice puramente pensato,
la S. figurata è una S. del molteplice dell’intuizione sensibile, o meglio è
una S. dell’immaginazione intesa come «facoltà di determinare a priori la
sensibilità » (Ibid, $ 24). Su questa S. trascendentale del- l'immaginazione è
fondato l’io penso o apperce- zione originaria (v.). Ma poichè ogni conoscenza è
sintesi e la conoscenza effettiva, è, secondo Kant l’esperienza, Kant chiama
l’esperienza stessa «la sintesi, secondo concetti, dell’oggetto dei fenomeni in
generale » (Cri. R. Pura, An. dei Princ., cap. II, sez. II. Nella prima
edizione della critica Kant aveva parlato di tre specie di S.: 1° la S.
dell’ap- prensione nell’intuizione; 2° la S. della riproduzione
nell’immaginazione; 3° la S. della ricognizione nel concetto (Crit. R. Pura, 1%
ediz., An. Trasc., Libro I, cap. 2, sez. 2). Ma sia nella prima che nella
seconda edizione Kant riduce alla S. ogni specie o grado di attività
conoscitiva. Questo fu uno degli aspetti più vistosi, e più discussi, della sua
opera. Mentre la nozione di S. cambiava di natura passando nell’idealismo (v.
oltre), essa veniva da altri filosofi ripresa e variamente adattata. Galluppi
invertiva il punto di vista kantiano mettendo l’analisi avanti la sintesi. « La
S. è la facoltà di riunire le percezioni che l’analisi aveva separate.
L'analisi è dunque una condizione essenziale per la S.» (Saggio fil. sulla
critica della conoscenza, 1831, II, $ 146). Egli distingueva inoltre: la S.
ideale oggettiva che con- siste nel riconoscere i rapporti oggettivi che sussi-
stono tra le cose; la S. immaginativa civile che consiste nel riunire in una
rappresentazione com- plessa, che non corrisponde ad alcun oggetto, diverse
rappresentazioni di cui ciascuna ha un 0g- getto; e la S. immaginativa poetica
che è una specie della precedente (/bid., III, $ 147-149). A sua volta Rosmini
chiamava S. primitiva la sua « percezione intellettiva» (Nuovo saggio, $ 46; $
528, ecc.) In generale, il concetto di S. è rimasto in filosofia ad esprimere
l’attività ordinatrice, organizzatrice o sistematrice dell'intelletto. I
neokantiani fecero largo uso di questa nozione. A. Riehl specialmente fece
dell’attività sintetica la funzione fondamentale della coscienza e l’a priori
di tutta la conoscenza (Der philosophische Kriticismus, II, 2, 1887, pag. 68). SINTESI
Altri neokantiani invece, come Cohen, preferirono al concetto di S. quello di
origine (Logik der reinen Erkenntnis, 1902, pag. 36). Wundt introdusse il concetto
nella psicologia e parlò del « principio della S. creativa», secondo il quale
«non solo le parti che entrano a comporre una S. ap- percettiva, acquistano,
accanto al significato che avevano nel loro isolamento, un significato nuovo
dovuto alla loro connessione nella rappre- sentazione totale; ma anche questa
rappresenta- zione è un nuovo contenuto psichico, che è bensì reso possibile
dalle parti componenti ma non con- siste in esse» (Grundriss der Psychologie,
1896, pag. 394). Dall’altro lato, la filosofia fenomenolo- gica metteva in luce
la funzione della S. nella 4 costituzione delle oggettività di coscienza ».
Husserl ritiene che ogni oggetto di coscienza in generale sia una « unità
sintetica » cioè una S. di coscienza (Ideen, 1, $ 86). Egli distingue le S.
continuative, del tipo di quella che costituisce, ad es., la spazialità, e le
S. articolate che sono i modi particolari in cui atti separati l’uno dall’altro
si connettono in un unico atto sintetico di grado superiore. S. articolate sono,
per es., gli atti di preferenza o le emozioni simpatetiche; e inoltre le S.
colleganti, disgiungenti (cioè miranti a questo o a quello) ed esplicanti, che
determinano le forme della logica e dell’onto- logia formale (Ideen, I, $ 118).
3° La nozione di S. come unità degli op- posti è nata insieme col relativo
concetto della dialettica (v.) ed è stata per la prima volta esposta da Fichte.
Egli dice: « L'atto con il quale nelle cose paragonate si ricerca la nota per
cui esse sono opposte tra loro, si chiama procedimento an- titetico (detto
ordinariamente analitico). ...Il pro- cedimento sintetico invece consiste nel
ricercare negli opposti quella nota per cui essi sono iden- tici »
(Wissenschaftslehre, 1794, $ 3, D, 3). La legge di questa identità è che «
nessuna antitesi è possi- bile senza una S.; poichè l’antitesi consiste preci- samente
nel ricercare negli uguali la nota opposta ma gli uguali non sarebbero uguali
se non fossero prima posti come uguali mediante un atto sin- tetico » (/bid., $
3, D, 3). Schelling parlava a sua
volta di un « processo dalla tesi
all’antitesi e quindi alla S. +, che è il processo per cui l’io pone l’oggetto,
si contrappone ad esso ed infine lo ricomprende in se stesso (System des
transzendentalen Idealismus, 1800, III, cap. I; trad. ital, pag. 58 sgg.).
Hegel invece preferì al termine S. i termini « identità » o « unità », pur
lamentando che la parola unità in- dicasse, ancor più che «identità », una «
riflessione soggettiva ». L’unità o l'identità che chiude una triade dialettica
è una connessione oggettiva; la quale secondo Hegel, meglio si chiamerebbe «
in- separabilità » se, da questo nome, non restasse SISTEMA fuori la natura
positiva della S. (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, c, nota
2; trad. ital., pag. 85). Nel linguaggio filosofico francese e italiano, della
S. a priori come della stessa attività creativa dello spirito: « La S. a priori
è delle forme tutte dello Spirito perchè lo Spirito, considerato in genere, è
nient'altro che S. a priori; e questa si esplica nell'attività estetica e nella
pra- tica, non meno che in quella logica» (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 141).
Ed ha visto nella S. a priori l'identità di filosofia e storia, asserendo che essa
« portava nel suo grembo la storicità che il suo scopritore [Kant] ignorava o
disconosceva » (Ibid., pag. 369). 4° Infine per S. è stata intesa
l’unificazione dei risultati ultimi delle scienze particolari nel seno
della filosofia prima secondo il concetto
positivi- stico della filosofia (v.). Tale S. fu detta soggettiva da Comte che
riteneva si dovesse fare, tenendo pre- sente i bisogni naturali dell’uomo (S.
soggettiva o Sistema universale delle concezioni proprie dello stato normale
dell’umanità, 1856, I). Spencer chiamò per lo stesso motivo « Sistema di
filosofia sintetica + la sua opera complessiva, il cui primo volume è costituito
dai Primi principi (1862). SINTETICITÀ (ingl. Syntheticity). La vali- dità
delle proposizioni che dipende dai fatti. Questo almeno è il significato che si
attribuisce ora comu- nemente all’aggettivo sintetico quando viene rife- rito a
proposizioni o enunciati. Kant, al quale si deve l’introduzione dei due termini
analitico e sintetico, li usò per distinguere i giudizi esplicativi e i giudizi
estensivi. «I primi nulla aggiungono, per mezzo del predicato, al concetto del
soggetto, ma solo dividono con l’analisi il concetto nei suoi con- cetti
parziali, che erano in esso già pensati sebbene confusamente; i secondi
aggiungono invece al con- cetto del soggetto un predicato che non era con- tenuto
in esso e non era da esso deducibile con 803 l’analisi » (Crif. R. Pura, Intr.,
$ IV). Ma i giudizi sintetici, secondo Kant, sono non soltanto quelli che
riguardano cose di fatto, ma anche quelli della matematica e della fisica pura
in quanto sono fon-
dati sulla intuizione a priori dello
spazio e del tempo e sulle categorie e perciò detti « giudizi sintetici a
priori». Nella filosofia contemporanea, tuttavia, la S., come carattere delle
espressioni è stata intesa nel senso delle « proposizioni di fatto » di Hume o
delle « verità di fatto » di Leibniz (vedi EsPERIENZA; FATTO): cioè come
proposizioni che si riferiscono a situazioni o stati di cose e che possono
essere vere o false nei confronti di essi. Dice Carnap: « Un enunciato
sintetico è qualche volta vero — cioè quando certi fatti esistono — e qualche
volta falso; quindi esso dice qualche cosa circa quali fatti esistono. Gli
enunciati sinte- tici sono gli autentici enunciati circa la realtà» (Logische
Syntax der Sprache, $ 14). I logici tut- tavia spesso preferiscono definire
negativamente gli enunciati sintetici, come quegli enunciati che non sono nè
analitici nè contraddittori: così fanno, ad es., Lewis (Analysis of Knowledge
and Valuation, 1946, pag. 35) e Reichenbach (Theory of Proba- bility, 1949,
pag. 20). Come le proposizioni anali- tiche (v. ANALITICITÀ) sono dette «verità
neces- sarie » perchè la loro negazione è impossibile, così le proposizioni
sintetiche sono spesso dette con- tingenti nel senso che non sono nè necessarie
nè impossibili (cfr. CarnaP, Meaning and Neces- sity, $ 39). SINTETISMO (ted.
Synrhetismus). Così chiamò
n questo senso nel periodo classico, fu
adoperata da Sesto Empirico per indicare l’insieme delle premesse e della con-
clusione o l'insieme delle premesse (/p. Pirr., II, 173). E la parola è rimasta
nell’uso filosofico a indicare prevalentemente un discorso organizzato
deduttiva- mente cioè costituente un tutto le cui parti si la- 804 sciano
derivare l’una dall’altra. Leibniz chiamava S. un repertorio di conoscenze che
non si limiti ad elencarle ma ne contenga le ragioni o le prove e descriveva
l’ideale sistematico nel modo seguente: «L’ordine scientifico perfetto è quello
in cui le proposizioni sono situate secondo le loro dimo- strazioni più
semplici e in modo che nascano l’una dall’altra » (Méthode de la certitude,
Op., ed. Erd- mann, pag. 174-75). Wolff a sua volta diceva: « Si dice S. un
insieme di verità connesse tra loro e con i loro princìpi» (Log., $ 889). La
nozione di S. si modellava così su quella del procedimento matematico. Kant la
subordinò a una condizione ulteriore: l’unità del principio che è a fondamento del
sistema. Egli intese infatti per S. «l’unità di molteplici conoscenze raccolte
sotto un’unica idea »; affermò che il S. è un tutto organizzato finalistica- mente
e pertanto è articolato (arficulatio), non am- mucchiato (coacervatio); può
crescere dall’interno (per intussusceptionem) ma non dall’esterno (per appositionem)
ed è perciò simile ad un corpo ani- male cui la crescita non aggiunge alcun
membro ma, senza alterare la proporzione dell’insieme, rende ogni membro più
forte e più adatto al suo scopo (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. III). Su
questa base, Kant parla della « unità sistematica della conoscenza, alla quale
le idee della ragion pura cercano di avvicinarsi» (/bid., Dialettica, cap. III,
sez. I). L'unità del S. cioè la sua deriva- bilità da un principio unico è la
caratteristica che fa la fortuna della nozione nella letteratura filo- sofica
del Romanticismo. Essa costituisce l’ideale della dottrina della scienza di
Fichte: « Se non ci debbono essere solo uno o parecchi frammenti di un S. o
addirittura parecchi S., ma un S. unico e perfetto dello spirito umano, allora
dev’esserci un principio fondamentale assolutamente primo e su- premo. E se da
esso il nostro sapere si espande di per sè in tante serie dalle quali ancora
procedono altre serie e così via, tutte queste serie tuttavia debbono
stringersi in un solo anello, il quale non è attaccato a nulla, ma per la sua
propria forza mantiene se stesso e l’intero S.» (Uber den Begriff der
Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital., pa- gina 19). Che il S. sia la
forma propria della scienza e che esso supponga un principio unico ed assoluto diventa
un luogo comune nella filosofia romantica. L’origine di questo luogo comune è
l’ideale mate- matico a cui Leibniz, Wolff e lo stesso Kant si erano ispirati;
ma questo ideale viene rivolto contro la matematica stessa e rivendicato
esclusivamente alla filosofia. «Si ammette generalmente, diceva Schelling, che
alla filosofia convenga una forma sua particolare che si dice sistematica.
Presupporre una tal forma non dedotta, tocca ad altre scienze, che già
presuppongono la scienza della scienza, SISTEMA mantenuta e fatta valere nelle
filosofie idealistiche. Diceva Croce: « Pensare un determinato concetto puro
significa pensarlo nella sua relazione di unità e distinzione con gli altri
tutti; sicchè quel che si pensa non è mai in realtà un concetto singolo, ma il
S. dei concetti, il Concetto » (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 172). L’ideale del
S., come di un organismo deduttivo fondato su un unico principio, è rimasto il
patri- monio della filosofia, che l’ha coltivato anche quando, sull’esempio di
Kant, ha dichiarato ir- raggiungibile, per la conoscenza umana, un simile ideale.
Tuttavia il termine è stato ed è adoperato anche senza connessione con questo
significato, per indicare un qualsiasi organismo deduttivo, anche se non abbia
un unico principio a suo fondamento. Questo è il caso dei S. di cui si parla
oggi nelle matematiche e nella logica. Un S. ipotetico-dedut- tivo, un S.
astratto, un S. assiomatico, ecc., non sono S. perchè abbiano un unico
principio: i loro princìpi anzi, cioè gli assiomi, devono essere re-
ciprocamente indipendenti cioè non deducibili l’uno dall’altro (v. ASSIOMA;
ASSIOMATIZZAZIONE). Sono detti S. unicamente per il loro carattere deduttivo; e
nello stesso senso si parla di S. numerico e tal- volta di «S. di assiomi» per
indicare un semplice insieme non contraddittorio di proposizioni pri- mitive
(cfr. M. R. CoHEN-E. NAGEL, « The
Nature of a Logical or Mathematical System », in Readines in the Philosophy of
Science, 1953, pag. 129 sgg.). L'uso
della parola ha in altri termini perduto il suo significato forte o elogiativo
di discorso deduttivo. 2. Una qualsiasi totalità o tutto organizzato. In questo
senso si dice « S. solare », « S. nervoso », ecc., e si parla anche di
«classificazione sistematica» o più semplicemente di S. in luogo di
classificazione, come fece Linneo, volendo insistere sul carattere ordinato e
completo della sua classificazione (Sy- stema naturae, 1735). SITUAZIONE Da
questo punto di vista, si distingue talora il S. come un insieme continuo di
parti che hanno tra loro relazioni varie dalla strurzura (v.) od orga-
nizzazione che i componenti di esso possono assu- mere a un determinato tempo
(W. BUCKLEY, So- ciology and Modern System Theory,1967,pag.5). 3. Una qualsiasi
teoria, scientifica o filosofica, specie quando se ne voglia sottolineare il
carattere scarsamente empirico. Nel °700 si parlava del «S. del mondo» per
indicare le teorie cosmolo- giche (cfr., ad es., D’ALEMBERT, (Euvres, ed. Con- dorcet,
pag. 165 sgg.). Leibniz chiamava S. le sue teorie sul rapporto tra l’anima e il
corpo o tra le varie sostanze (Sysrème nouveau de la nature et de la
communication des substances, 1695). Baum- garten chiamava S. psicologici le «
opinioni che sembrano adatte a spiegare il rapporto tra l’anima e il corpo»
(Mer., $ 761). E gli Illuministi parla- vano nello stesso senso, ma in modo
peggiorativo, del S. e dello spirito sistematico. Diceva Diderot: « Per spirito
sistematico io designo quello che im- bastisce piani e forma sistemi
dell’universo ai quali pretende in seguito adattare i fenomeni, a diritto o a forza
» (CEuvres, XVI, pag. 291). D’Alembert par- inferenza cioè di trasformazione
delle espressioni composte l’una nell’altra; 4° alcune proposizioni primitive o
assiomi. Dal S. logistico si distingue un linguaggio for- malizzato perchè per
quest’ultimo è data anche una certa interpretazione. Per passare dal S.
logistico al linguaggio formalizzato sono pertanto necessarie alcune regole
semantiche che assegnino un signi- ficato alle formule del sistema. La
differenza fra S. logistico e linguaggio formalizzato si può anche esprimere
dicendo che il primo ha soltanto regole sintattiche, il secondo ha anche regole
semantiche (cfr., su questo, A. CHURCH, « The Need for Abstract 805 Entities in
Semantic Analysis», in Proceedings of the American Academy of Arts and
Sciences, 1951, pag. 100 sgg.; Zntroduction to Mathematical Logic, 1956) (v.
CALCOLO; FORMALIZZAZIONE). SISTEMATICA (ingl. Systematics; franc. Sy- stématique; ted. Systematik). La tecnica, cioè la via o il mezzo, per
realizzare il sistema. La nozione deriva dal principio kantiano che il sistema
è l’ideale regolativo della ricerca filosofica, non la sua realtà. «Tuttavia,
dice Kant, il metodo può sempre essere sistematico. Infatti la nostra ragione
(soggettiva- mente) è per se stessa un sistema; ma nel suo uso puro, per
semplici concetti, è soltanto un sistema di ricerca secondo princìpi,
dell’unità cui l’espe- rienza può fornire soltanto la materia » (Crit. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. I, sez. 1). La no- zione è rimasta soprattutto nel
criticismo tedesco. Natorp parlava di «S. filosofica » nel senso di ri- cerca
diretta a dare al sapere filosofico quella unità in cui consiste il sistema
(Philosophische Systematik, $ 1). SISTEMATICO (ingl. Systematic; franc. Sy- stématique;
ted. Systematisch). 1. Che costituisce un sistema o appartiene a un sistema, in
uno dei sensi qualsiasi della parola sistema. In questo senso si dice «sapere
S.» o «errore sistematico ». 2. Che procede verso il sistema ma non è un sistema:
con riferimento a sistematica. In questo senso N. Hartmann distingueva nella
storia della filosofia il pensiero-sistema rivolto alla costruzione del sistema
e il pensiero-problema che si mantiene in un’indagine aperta (Systemarische
Philosophie, 1931, $ 1). Egli inoltre riteneva che « il tempo delle visioni S.
è ormai del tutto passato e la filosofia S. si è ritrovata sul terreno privo di
pretese ma solida dell’indagine problematica » (Der philosophische Ge- danke
und seine Geschichte, III, 4; cfr. Zur Grundle- gung der Ontologie, 1935, pag.
31). SITUAZIONE (ingl. Situation; franc.
Situation; ted. Situation). Il
rapporto dell’uomo col mondo in quanto limita, condiziona e, insieme, fonda e determina
le possibilità umane come tali. Il termine fu introdotto da Jaspers che così lo
illustrava: «La S. esterna, pur così mutevole e così diversa a seconda degli
uomini a cui si rivolge, ha questo tuttavia di tipico: essa è per tutti a due
tagli, incita e ostacola, e inevitabilmente limita, distrugge, è infida,
insicura » (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, cap. III, $ 2; trad. ital.,
pag. 268). Jaspers parlava pure di sifuazioni-limite che posseggono in grado
eminente i caratteri propri di ogni S. del- l’uomo nel mondo. Tali sono le S.
immutabili, defi- nitive, incomprensibili, nelle quali l’uomo si trova come di
fronte a un muro contro cui urti senza spe- ranza. Tali sono: l’esistere sempre
in una S. deter- minata; il non poter vivere senza lotta e dolore; 806 il dover
prendere su di sè la colpa; l’essere destinato alla morte (Phil., II, pag.
209). In queste situazioni Jaspers vedeva la cifra (v.), cioè la rivelazione negativa,
della trascendenza. Heidegger ha notato che il termine ha anche un significato
spaziale ma soprattutto designa la determinazione per la quale l’esistenza,
come essere nel mondo, decide sul pro- prio luogo (Sein und Zeit,$60).
L’esistenza anonima si trova davanti a « S. generali » e si perde nelle op- portunità
più prossime. Il richiamo della coscienza porta l’uomo davanti alla sua
situazione propria e alla esigenza di una decisione autentica (/bid., $ 60). In
senso analogo è stato detto: «La necessità del rapporto fra la finitudine
dell’ente e la determina- zione costitutiva del mondo e dell’altro ente è la S.
esistenziale dell’ente... Il costituirsi dell’ente nella S. che lo individua
nella sua finitudine è l’accadere dell’ente, la sua storicità fondamentale»
(ABBA- GNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 70). E Sartre ha detto: « Se il
per sè [cioè la coscienza o l’uomo] non è altro che la sua S., ne segue che
l’essere in S. definisce la realtà umana rendendo conto insieme del suo esserci
e del suo essere al di là. La realtà umana è, in effetti, l’essere che è sempre
al di là del suo esserci. E la S. è la totalità organizzata del- l’esserci,
interpretato e vissuto da e per l’essere al di là di questo stesso essere»
(L’érre er le néant, 1943, pag. 634). In un senso psicologico e precisamente
nel senso della psicologia della forma (v. PsicoLOGIA) si è servito del termine
Dewey, identificando la S. con il campo (Logic, 1939, I, cap. IV; trad. ital., pag.
111 sgg.). Dewey stesso però ha insistito sul carattere oggettivo della S.
(/bid., cap. IV, $ 1; trad.
ital., 159 sgg.). SIT VERUM. Una
delle obbligazioni (v.) della logica terministica medievale. Essa consiste nel rispondere
ad una proposizione come se si sapesse che essa è falsa; oppure come se si
sapesse che essa è vera; oppure come se si dubitasse di essa (con- fronta
OcKHam, Summa Log., III, m, 44). SLANCIO VITALE (franc. Élan vital). Se- condo
Bergson, è la coscienza in quanto penetra nella materia e l’organizza
realizzando in essa il mondo organico. Lo S. vitale passa « da una gene- razione
di germi alla generazione successiva di germi per l’intermediario degli
organismi sviluppati che formano il tratto di unione tra i germi stessi. Esso si
conserva sulle linee evolutive tra le quali si divide ed è la causa profonda
delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono regolarmente, si ad- dizionano
e creano nuove specie » (Év. créatr., 85 ediz., 1911, pag. 95). La formazione
della società, prima chiusa poi aperta, la religione fabulatrice e la religione
dinamica sono, secondo Bergson, gli ulteriori prodotti dello stesso S. vitale
cioè della SIT VERUM coscienza (Deux sources, IV, trad. ital., pag. 295) (v.
DURATA). SOCIALE (ingl. Social; franc. Social; ted. So- zial). 1. Che
appartiene alla società o ha in vista le sue strutture o condizioni. In questo
senso si dice «azione S. », « movimento S. », « questione S. », ecc. 2. Che
concerne la considerazione o lo studio della società. In questo senso si dice «
fisica S. +, *s economia S. », « psicologia S. », ecc. In particolare l’espressione
scienze S. designa il complesso delle discipline sociologiche giuridiche ed
economiche e talvolta anche l’etica e la pedagogia. SOCIALISMO (ingl.
Socialism; franc. So- cialisme; ted. Sozialismus). Il termine che si diffuse in
Inghilterra (in opposizione a individualismo) nei primi decenni dell’800, ha
due significati prin- cipali: 1° Uno più vasto per il quale designa in generale
ogni dottrina che difenda o prospetti una riorganiz- zazione della società su
basi collettivistiche. In tal senso si chiama S. quello di Platone come quello di
Marx, quello di Owen e Proudhon come quello di Lenin e Stalin. A questo
significato fa riferimento la distinzione stabilita da Marx o Engels tra S. utopistico
che presenta la società socialistica come un ideale, senza preoccuparsi delle
vie o dei modi della sua realizzazione e il S. scientifico che, senza
preoccuparsi di presentare un ideale qualsiasi prevede l'avvento inevitabile
della società socia- listica in base alle stesse leggi che governano lo sviluppo
della società capitalistica (cfr., su questa distinzione, specialmente: EnGELS,
Antidihring, 1878, l’introduzione e il cap. I della III parte). In questo
significato il termine è molto vago e indica qualsiasi aspirazione, ideale,
tendenza o dottrina che comunque prospetti un mutamento in senso
collettivistico della società attuale. 2° Nel significato più ristretto
s'intendono per S. gli indirizzi collettivistici che si distinguono dal comunismo
(v.) e si oppongono ad esso in quanto: a) escludono la necessità di una
dittatura del pro- letariato; 5) escludono che tale dittatura possa essere
esercitata, in nome del proletariato, da un partito politico qualsiasi; c)
escludono la diversità radicale, che si riscontra nei paesi a regime comu- nista
tra il tenore di vita della élite dirigente e quello della maggioranza dei
cittadini; d) escludono la subordinazione della vita culturale alle esigenze
del partito cioè alle volontà dei suoi dirigenti; e) esi- gono il rispetto
delle regole del metodo democratico. La distinzione delle forme storiche che il
S. ha assunto interessa la politica più che la filosofia e pertanto non può
trovar posto in questa sede. SOCIALITÀ (ingl. Sociality; franc. Socialité; ted.
Geselligkeit). Lo stesso che società nel senso 1°. G. H. Mead ha inteso la S.
in un senso più vasto, SOCIETÀ attribuendola all’intero universo. « Il
carattere so- ciale dell’universo consiste nella situazione nella quale il
nuovo evento è insieme nel vecchio ordine e nell’ordine nuovo di cui il suo
avvento è l’araldo. La S. è la capacità di essere diverse cose ad un tempo»
(The Philosophy of the Present, 1932, pag. 49). SOCIETÀ (lat. Societas; ingl. Society; franc. So- ciété;
ted. Gesellschaft). Nel senso generale e
fonda- mentale: 1° il campo dei rapporti intersoggettivi cioè dei rapporti
umani di comunicazione, e pertanto anche: 2° la totalità degli individui tra i
quali questi rapporti intercedono; 3° un gruppo di individui tra i quali tali
rapporti intercedono in forma co- munque condizionata o determinata. 1° Il
primo significato è, come si è detto, quello fondamentale ed è stato introdotto
nella cultura occidentale dagli scrittori latini, e special- mente da Cicerone,
che l’hanno desunto dallo stoicismo. Negli scrittori classici della Grecia l'aspetto
statuale e l’aspetto sociale sono fusi e indistinti nel concetto della polis;
il cosmopoli- tismo degli Stoici consente di dissociarli e di consi- derare
pertanto la S. come indipendente dallo stato cioè dall’organizzazione politica.
Appunto espo- «Ciascuno, per quanto dipende da lui, deve promuovere e mante-
nere con i suoi simili uno stato di socievolezza pacifica, conforme in generale
all’indole e alle finalità del genere umano » e spiegava che per so- cievolezza
si dovesse intendere « quella disposizione dell’uomo verso l’uomo per la quale
l’uno si intende vincolato all’altro dalla benevolenza, dalla pace e dalla
carità » (De jure naturae, 1672, II, 3). Una definizione indiretta della S. si
può anche scorgere nei testi che insistono sulla tendenza naturale dell’uomo
alla socialità, per es. in quelli che ricor- rono frequentemente nelle opere di
Kant. « L'uomo ha una inclinazione ad associarsi perchè nello 807 stato di S.
si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue
disposizioni natu- rali. Ma egli ha anche una forte tendenza a disso- ciarsi
(isolarsi) perchè ha in sè anche la qualità anti-sociale di voler tutto
rivolgere solo al proprio interesse per cui si aspetta resistenza da ogni parte
e sa che deve da parte sua tendere a resistere contro gli altri» (Idee zu einer
allgemeinen Geschichte in weltbirgerlicher
Absicht, 1784, IV; trad. ital., pag. 127; Mer. der Sitten, II, $ 47;
Crit. del Giud., $ 41). Fichte non faceva che esprimere lo stesso concetto
dicendo: « Chiamo S. la relazione reci- proca degli esseri ragionevoli » (Die
Bestimmung des Gelehrten, 1794, II). Da questo punto di vista la considerazione
della S. può consistere: a) Nella considerazione dei fini che il genere umano
nella sua totalità deve perseguire e dei mezzi che la ragione addita per il
raggiungimento di tali fini. Le dottrine politiche degli autori greci, per es.,
di Platone e di Aristotele e le dottrine giusnatura- listiche sono teorie della
S. in questo senso. b) Nella considerazione delle condizioni che, in linea di
fatto, rendono possibili i rapporti umani. Queste condizioni sono state
variamente definite e la loro definizione può dirsi il primo compito della
sociologia (v.). Max Weber le ha riconosciute nell’azione sociale che accade
secondo ordinamenti deliberati e relativamente costanti (Uber einige Kategorien
der verstehenden Soziologie, 1913, V; trad. ital., in // metodo delle scienze
storico-sociali, pag. 262 sgg.). Durkheim ha assunto come caratte- ristiche
della S. umana le maniere d’agire che sono imposte dall’esterno e si
consolidano nelle isti- tuzioni (Régles de la méthode sociologique, 1895, cap.
I). E l’azione stessa o il comportamento viene talora assunto come l’elemento
oggettivo che defi- nisce il campo dei rapporti umani (cfr. TALCOTT Parsons,
The Structure of Social Action, 1949; 2* ediz., 1957). Questo secondo modo
d’intendere la S., riconosce ad essa esplicitamente o implicita- mente il
carattere di un « campo » e la riduce perciò a un costrutto concettuale
togliendole sia il carat- tere di totalità reale sia quello di ideale
normativo. 2° Il concetto della S. come della totalità degli individui tra i
quali intercedono rapporti inter- soggettivi cioè come «mondo sociale» è
abitual- mente connesso con il concetto della S. come orga- nismo o «
super-organismo ». Già gli antichi avevano assimilato a un organismo la
comunità politica cioè lo Stato. Gli Stoici assimilarono all’organismo la S.
intera cioè la comunità degli esseri razionali (cfr. Marco AURELIO, Ricordi,
VII, 13); e tale assi- milazione continua nell’età moderna. Comte chiama la
società un «organismo collettivo» (Cours de phil. positive, IV, pag. 442 sgg.).
Spencer a sua volta chiama super-organica l’evoluzione che conduce 808 alla S.
e considera la S. stessa come un organismo i cui elementi sono prima le
famiglie poi gli individui singoli. L'organismo sociale si distingue, secondo Spencer,
dall’organismo animale, per il fatto che la coscienza appartiene solo agli
elementi che lo compongono in quanto la S. non ha organi di senso come
l’animale ma vive e sente solo negli individui che la compongono (The Study of
Sociology, 1873). Nello stesso senso si esprimeva Wundt (System der
Philosophie, 28 ediz., 1897, pag. 616 sgg.) L’ipotesi organicistica rimane
sullo sfondo di molte dottrine politiche e sociologiche moderne. Una variante
di questa stessa concezione può essere considerata la dottrina di Hegel che
vede nella «S. civile» una fase imperfetta o preparatoria dello Stato cioè
dell’Idea divina che si realizza in terra: « La sostanza che, in quanto
spirito, si parti- colarizza astrattamente in molte persone (la famiglia è una
sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sè in libertà
indipendente e come esseri particolari, perde il suo carattere etico; giacchè queste
persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo l’unità
assoluta ma la loro propria particolarità e il loro essere per sè: donde nasce
il sistema dell’atomistica ». Questo sistema è appunto la S. civile come «
connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti e dei loro
interessi particolari » 0 come « stato esterno + (Enc., $ 523; Fil. del Dir., $
184). In questo senso la S. civile comprende, secondo Hegel, in primo luogo, il
sistema dei bisogni; in secondo luogo, l’amministrazione della giustizia e in
terzo luogo la polizia e la corporazione cioè gli organi che hanno la cura
degli interessi particolari (Fil. del Dir., $ 188). Marx stesso mantenne
immutato questo concetto della S. civile, di cui capovolse il rapporto con lo
stato e che pertanto assunse come principio di spiegazione dello Stato stesso e
in generale di tutto il mondo ideologico: « Sono stato dai miei studi condotto
alla conclusione che sia i rapporti giuridici sia le forme dello stato non
potevano essere compresi nè di per se stessi nè per il cosiddetto sviluppo
generale dello spirito umano, ma che sono radicati nei rapporti materiali
dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato da Hegel con il nome di S.
civile: l’anatomia di questa S. civile dev'essere cercata nell’economia
politica » (Zur Kritik der poli- tischen Okonomie, 1859, Pref.; trad. ital.,
Cantimori, pag. 10). Un concetto analogo di S. è apparso a Bergson come
l’ideale stesso della S. « aperta » cioè della S. mistica. « Una S. mistica che
conglobi l’uma- nità intera e che marci, animata da una volontà co- mune, verso
la creazione incessantemente rinnovel- lata di un’umanità più completa, di
certo non si realizzerà nell’avvenire più di quanto nel passato siano esistite
S. umane funzionanti in maniera or- SOCINIANESIMO ganica a simiglianza delle S.
animali. L’aspirazione pura è un limite ideale come l’obbligazione nuda » (Deux
sources, I; trad. ital., pag. 87). 3° Nel terzo significato di un insieme di
indi- vidui caratterizzato da un atteggiamento comune o istituzionalizzato la
parola è usata correntemente nel linguaggio comune e nelle discipline
sociologiche. In questo significato la parola designa indifferente- mente sia
un gruppo di individui sia l'istituzione che caratterizza il gruppo, come
accade nelle frasi «S. commerciale », « S. capitalistica », «S. dell’an- golo
della strada», ecc. Quest’uso è così ovvio che di regola non viene neppure
definito. Talvolta viene definito in relazione a cultura, come fanno Kluckhohn
e Kelly: « Una ‘S.’ si riferisce ad un gruppo di gente che ha imparato a
operare insieme; una ‘cultura * si riferisce ai modi di vita che distin- guono
questo gruppo di gente » (R. LINTON, The Science of Man in the World Crisis, 72
ediz., 1952, pag. 79). SOCINIANESIMO (ingl. Socinianism; fran- cese
Socinianisme; ted. Socinianismus). La dottrina religiosa di Lelio (1525-62) e
Fausto (1539-1604) Socini di Siena che esercitarono la loro influenza soprattutto
in Polonia e che comprende principal- mente i punti seguenti: 1° la negazione
del dogma trinitario; 2° la negazione del peccato originale e della
predestinazione; 3° la negazione del valore delle opere e della necessità della
mediazione ecclesiastica; 4° l’appello diretto alla Bibbia come unico mezzo di
salvezza; 5° il ricorso alla ragione come unico strumento per l’interpretazione
auten- tica della Bibbia. Oltre che in Polonia il S. si dif- fuse in Olanda e
in Inghilterra; ma la sua influenza è stata grandissima su tutta la cultura
liberale moderna (cfr. D. CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, 1939). SOCIOCRAZIA,
SOCIOLATRIA (ingl. So- ciocracy, Sociolatry; francese Sociocratie, Socio- latrie;
ted. Soziokratie, Soziolatrie). Termini creati da A. Comte per designare
rispettivamente il re- gime politico fondato sulla sociologia, che Comte concepisce
come analogo o corrispondente alla teocrazia medievale fondata sulla teologia
(Poli- tique positive, 1851, I, pag. 403); e il culto della società che Comte
riteneva dovesse prendere il posto delle religioni positive (Caréchisme positi-
viste, VI). SOCIOLOGIA (ingl. Sociology; franc. Socio- logie; ted. Soziologie).
È la scienza della società, intendendosi per società il campo dei rapporti intersoggettivi.
Il termine fu creato da A. Comte nel 1838 per indicare «la scienza di
osservazione dei fenomeni sociali » (Cours de phil. positive, IV, 1838) ed è
ora usato per designare ogni tipo o specie di analisi empirica o di teoria che
concerna i SOCIOLOGIA fatti sociali cioè gli effettivi rapporti
intersoggettivi, in contrasto con le «filosofie» o « metafisiche » delia
società, che pretendono di illustrare, indipen- dentemente dai fatti e una
volta per sempre, la natura della società come un tutto. Indubbiamente, osservazioni
utili e decisive, nel campo sociale, sono state sempre fatte nella storia del
pensiero occidentale e hanno trovato posto specialmente nell’etica e nella
politica. Tali osservazioni non costituivano tuttavia una disciplina autonoma,
do- tata di una propria metodologia: hanno comin- ciato a costituirla solo con
Comte. Si possono distinguere due concetti fondamentali della S., che si sono
succeduti nel tempo, cioè: 1° la S. sintetica (o sistematica) avente come
oggetto la totalità dei fenomeni sociali da indagarsi nel suo complesso cioè
nelle sue leggi; 2° la S. analitica avente per oggetto gruppi o aspetti
particolari dei fenomeni sociali e da essi procedente a generaliz- zazioni
opportune. In questa seconda fase la S. si rompe in una molteplicità di
indirizzi di ricerca e fa una certa fatica a ritrovare la sua unità
concettuale. 1° Ad opera di Comte, la S. è nata come sistema cioè come
determinazione della natura della società nel suo complesso, mediante la
determina- zione delle leggi di essa. La S. pretende di organiz- zarsi, in
questa fase, a somiglianza della fisica newtoniana: come scienza che delinea,
mediante leggi rigorose, un ordine necessario, nonchè lo svi- luppo, non meno
necessario, di quest'ordine. Comte pertanto chiamava la S. fisica sociale e
vedeva la prima parte di essa nello studio dell’ordine sociale cioè nella
statica e la sua seconda parte nello studio del progresso sociale, cioè nella
dinamica (Cours de phil. positive, IV, pag. 292). Comte inoltre attribuiva alla
S. la stessa funzione riconosciuta da Bacone in o infatti, mentre vuol
realizzare la S. come una scienza positiva che indaga «la realtà speri- mentale
mediante l’applicazione dei metodi che hanno fatto le loro prove in fisica,
chimica, astro- nomia, biologia e nelle altre scienze +, ripudia, dal- l’altro
lato, ogni costruzione sistematica troppo complessa e non esita a definire come
metafisiche e dogmatiche le dottrine sociologiche di Comte e Spencer (Zraztato,
$ 5, 112). Il carattere essenziale della scienza è, secondo Pareto, il
carattere «lo- gico-sperimentale » che implica due elementi: il ra- gionamento
logico e l’osservazione del fatto. Lo scopo della scienza rimane tuttavia
quello di for- mulare leggi necessarie che delineano nel loro in- sieme quello
che Pareto chiama l’equilibrio sociale e che è da lui paragonato talora a un
sistema mec- canico di punti, talaltra a un organismo vivente (Cours d’économie
politique, 1896, $ 619). Ma dal- l’altro lato egli insiste anche sul semplice
carattere di « uniformità sperimentale » della legge e sul fatto che ogni
fenomeno concreto è dovuto all’interse- cazione di un certo numero di leggi
differenti (Trattato, $ 99); il che vuol dire che ogni spiega- zione
scientifica è solo approssimativa e parziale (Ibid., $ 106). E ancora più
lontano dall’ideale si- stematico della S. è il corpo delle analisi che Pareto
dà nel 7rattato; analisi che hanno per oggetto di preferenza quelle che egli
chiama le «azioni non logiche », di cui vede gli elementi nei residui e nelle
derivazioni (v.). 2° Il passaggio dalla S. sintetica a quella ana- litica può
ritenersi segnato dall'opera di E. Durk- heim che abbandona il presupposto
fondamentale della S. sistematica: il presupposto cioè che la società
costituisca un tutto o un sistema organico. Dice Durkheim: «Ciò che esiste, ciò
che solo è dato all’osservazione, sono le società particolari che nascono, si
sviluppano, muoiono indipenden- temente l’una dall’altra» (Régles de la méthode
sociologique, 1895; 11® ediz., 1950, pag. 20). Pa- rallelamente Durkheim ha
insistito sul carattere esterno dell’oggetto proprio della scienza sociale.«I
fatti sociali, egli ha detto, consistono in modi di agire, pensare e sentire,
esterni all’individuo e dotati di un potere di coercizione per il quale gli si
impongono * (/bid., pag. 5). Considerare i fatti sociali in questo modo
significa considerarli come cose cioè indipendentemente dai pregiudizi sogget- tivi
e dalle volontà individuali (/bid., pag. 11 sgg.). Gli stessi motivi trovarono
sistemazione nell’opera metodologica di Max Weber. Questi ha in primo luogo il
merito di aver distinto la S. dalle altre discipline antropologiche e in
particolare da quelle storiografiche. Egli riconobbe l’oggetto della S. nelle uniformità
dell’atteggiamento umano, in quanto dotate di senso cioè in quanto accessibili
alla com- prensione. Più precisamente, l’atteggiamento è quel- l'azione umana
che: 1° è riferita, secondo l’inten- zione di colui che agisce,
all’atteggiamento degli altri; 2° è determinata nel suo corso anche da questo riferimento;
3° può essere spiegata da questo rife- rimento (Uber einige Kategorien der
verstehenden Soziologie, 1913; trad. ital, in // metodo delle scienze
storico-sociali, pag. 243). La seconda acqui- sizione importante della S. di
Max Weber è la netta separazione, che egli volle stabilire, tra la ricerca
empirica o logica da un lato e le valuta- zioni pratiche o etiche, politiche o
metafisiche dal- l’altro lato (Der Sinn der Werifreiheit der sozio- logischen
und òkonomischen Wissenschaften, 1917; nella citata raccolta, pag. 311 sgg.).
Per quanto, ovviamente, questa separazione sia più facile ad essere affacciata
come esigenza che realizzata nella ricerca, essa vale tuttora come una regola
che im- pegna l’onestà del ricercatore. In terzo luogo, dal- l’opera di Weber
scaturisce l’esigenza della ricerca empirica particolare, la quale soltanto può
deter- minare le uniformità di atteggiamento che costi- tuiscono l’oggetto
proprio della sociologia. Questi tre punti sono rimasti saldi nell’ulteriore
sviluppo della S. contemporanea. Questa ha accolto con entusiasmo l’invito di
Weber alla ricerca empirica particolare e alla formulazione di tecniche di os-
servazione adeguate. La S. dispone oggi di un complesso imponente di tecniche,
che si possono ordinare in quattro gruppi fondamentali: 1° le tecniche
d’osservazione (osservazione diretta, libera o controllata, osservazione
clinica, osservazione par- tecipante, ecc.); 2° le tecniche dell’intervista,
che vanno dall’intervista libera ai questionari; 3° le tecniche di
sperimentazione e le tecniche sociome- triche: le quali ultime tendono a
descrivere le rela- zioni sociali spontanee (considerate come compo- nenti
elementari di tutti i raggruppamenti) mediante la partecipazione attiva degli
stessi soggetti stu- diati (cfr. Moreno, Who Shall Survive?, 1934); 4° le
recniche statistiche, che la S. condivide con molte discipline sociali (cfr.,
per un quadro di SOCIOLOGIA queste tecniche, il Traité de sociologie, diretto
da G. Gurvitch, 1958, pag. 135 sgg.), Un numero ingente di « ricerche sul campo
+ è stato effettuato con l’uso di queste tecniche nelle direzioni più di- sparate
ed è stato in questo modo accumulato, soprattutto negli ultimi trent'anni, un
materiale di osservazione ingente e complesso. Non in tutti i paesi tuttavia la
ricerca sociologica si è sviluppata nelle stesse direzioni. In Inghilterra essa
si è dedicata soprattutto a illustrare il mondo dei primitivi, le sue
istituzioni e i suoi comporta- menti fondamentali (cfr. specialmente l’opera di
G. FRazER, The Golden Bough, 1911-14, 12 voll., e gli scritti di B. Malinowski
e A. R. Radcliff- Browns). In Francia, oltre a illustrare la mentalità dei
primitivi (cfr. specialmente gli scritti di Lévy- Bruhl a partire dal Les
fonctions mentales dans les sociétés inférieures, 1910), essa ha conservato il carattere
teoretico dedicandosi allo studio di pro- blemi fondamentali, specialmente ad
opera di Gur- vitch (La vocation actuelle de la sociologie, 1950; Déterminismes
sociaux et liberté humaine, 1955). In Italia, dopo aver dato con l’opera di
Pareto e di altri minori, un contributo importante alla S. si- stematica, ha
taciuto nel periodo tra le due guerre per l’influenza negativa della cultura
idealistica e solo oggi va riacquistando forza e capacità, aggior- nandosi
rapidamente nei metodi e negli interessi e procedendo a studiare la società
italiana. Ma so- prattutto negli Stati Uniti la ricerca sociologica ha prodotto
una mole imponente di lavoro nelle più disparate direzioni. Si possono qui
soltanto indi- care le direzioni principali in cui la ricerca socio- logica si
è incanalata: a) La S. urbana che si è sviluppata in Ame- rica soprattutto per
l’opera di incoraggiamento di R. E. Park e che ha dato luogo a opere clas- siche
come quelle di R. S. e H. Lynp, Middletown (1929) e Middletown in Transition
(1937) (cfr. pure il classico studio di PARK, The City, 1925, ora in Human
Communities, 1952). b) Lo studio della stratificazione e della mo- bilità
sociale: che si è iniziato in America all’epoca della crisi (1929) e ha
conseguito d'allora in poi risultati importanti (cfr., per un bilancio, G.
GaDpDA Conti, Mobilità e stratificazione sociale, 1959). c) Lo studio dei
gruppi etnici che conta un insieme imponente di opere tra le quali quella classica
di Thomas e Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America (1918-21). d)
Lo studio della famiglia che si è soprat- tutto fermato sull’analisi della
disorganizzazione fa- miliare e del disordine matrimoniale (cfr., ad es. G. V.
Hamilton, La Ricerca sul matrimonio, 1929). e) L’analisi dell’opinione pubblica
e degli strumenti di propaganda che ha ormai una ricchis- sima letteratura
(cfr., ad es., R. K. MERTON, Mass Persuasion, 1947). f) Lo studio del piccolo
gruppo che ha dato in America i risultati migliori (cfr. E. SHi1s, Lo stato
attuale della S. americana, in «Quaderni di S.», 1953, n. 7). 2) La S.
industriale, col qual termine s’in- tende lo studio dei rapporti che si
sviluppano nei luoghi di lavoro e l’infiuenza reciproca tra tali rap- porti e
l’organizzazione industriale (cfr., per un bilancio, FRANCO FERRAROTTI, La S.
industriale in America e in Europa, 1959). h) La S. della religione, che è
stata fondata
da Max Weber (Die protestantische Ethik
und der Geist des Kapitalismus, 1904; Die protestantische Sekten und der Geist
des Kapitalismus, 1906; ecc.) e consiste nell’analisi delle relazioni
reciproche tra i rapporti sociali e i fatti religiosi; ma che non ha trovato
negli ultimi anni sviluppi im- portanti. 1) La S. della conoscenza che
abitualmente si ritiene fondata da Marx il quale per primo ha insistito sulle
relazioni reciproche tra il sapere e le forme sociali e che è stata coltivata
specialmente da Max Scheler (Die Wissensformen und die Gesell- schaft, 1926) e
da Karl Mannheim (Das Problem einer Soziologie des Wissens, 1926). Come già è
stato detto la mole di lavoro effet- tuato in molte di queste branche della
ricerca so- ciologica è ingente; ma a tale mole non corrisponde l’adeguata
utilizzazione concettuale di essa. « Il di- fetto maggiore della S. americana,
ha detto Shils è l'inverso della sua principale particolare virtù: lsua
indifferenza, finora predominante, verso la for- mazione di una teoria generale
è strettamente connessa con la sua avidità di precisione nell’os- servazione
immediata» (Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di S.», 1953, n.
8). Questa condizione non è propria soltanto della S. americana ma si
ripresenta in tutti i paesi nei quali la ricerca sociologica raggiunge un certo
grado di sviluppo. Essa fa nascere talora una no- stalgia per la vecchia forma
sistematica della S. anche in coloro che più hanno insistito sull’impor- tanza
delle tecniche oggettive (cfr. PITIRIM SOROKIN, Fads and Foibles in Modern
Sociology and Related Sciences, 1956). Non mancano tuttavia nella let- teratura
sociologica moderna tentativi importanti e ben riusciti di stabilire la teoria
sistematica del- l'oggetto proprio della S. cioè dell’azione sociale (cfr., ad
es., T. PaRSONS, The Structure of Social Action, 1937; 23 ediz., 1949) o di
consolidare il rapporto tra la teoria sociale e la ricerca sociale (cfr., ad
es., R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure, 1949; 2* ediz., 1957) o
anche quelli di realizzare la S. come una « tipologia quan-titativa e
discontinuista », altamente teoretica, qual è quella di G. Gurvitch (Traité de
sociologie, 1959, pag. 155 sgg.). Pertanto, ciò che si può prevedere, dato lo
stato attuale di questa disciplina, è il mol- tiplicarsi e il rafforzarsi dei
tentativi di concettua- lizzazione teoretica del materiale reso disponibile
dalle ricerche particolari, pur senza un ritorno alla forma sistematica che la
S. aveva assunto nella sua prima fase dogmatica. SOCIOLOGISMO (ingl.
Sociologism; francese Sociologisme; ted. Soziologismus). Termine pole- mico per
designare la tendenza a ridurre i fenomeni morali o religiosi a fatti sociali
(cfr. BOUTROUX,
Science et religion, pag. 342). SOCIOMETRIA.
V. SocioLogia; TECNICHE DI RICERCA. SOCRATISMO (ingl. Socratism; franc. So- cratisme;
ted. Sokratismus). La dottrina di Socrate, quale è rimasta fissata nella
tradizione antica e che si può riassumere nei seguenti capisaldi: 1° il valore
della ricerca filosofica per cui una vita senza ricerca non è degna d’esser
vissuta; 2° la limitazione della ricerca all’uomo e il disinteresse per ogni indagine
della natura; 3° l’identificazione di scienza e virtù nel senso che la virtù si
può insegnare ed apprendere e che non si può fare il bene senza conoscerlo; 4°
l’importanza attribuita all’insegna- mento, con la pretesa di non insegnare
nulla e di limitarsi a favorire il parto intellettuale degli ascoltatori; 5° il
metodo dell’interrogazione e l’ironia (v.). SOFISMA (ingl. Sophism; franc. Sophisme; ted.
Sophisma). 1. Lo stesso che fallacia (v.). 2. Un
ragionamento cavilloso o che porta a conclusioni paradossali o sgradite. In
questo senso il termine ha un uso assai vasto e possono essere chiamati S.
anche i paradossi (v.) e gli argomenti duplici. SOFISTICA (ingl. Sophistics;
franc. Sophi- stique; ted. Sophistik). 1. Aristotele chiamò S. «la sapienza
apparente ma non reale» (E/. Sof., 1, 165a 21); ed il nome è rimasto per
indicare in generale l’abilità di addurre argomenti cavillosi o speciosi. 2. In
senso storico, la S. è l’indirizzo filosofico proprio dei cosiddetti Sofisti
cioè di quei maestri di retorica o di cultura generale che nella Grecia tra il
v ed il rv secolo ebbero una notevole influenza nel clima intellettuale del
tempo. La S. non è una scuola filosofica ma un indirizzo generico che i Sofisti
condivisero per le esigenze della loro stessa professione. Si possono
riassumere nel modo se- guente i capisaldi di questo indirizzo: 1° la
concentrazione dell’interesse filosofico sul- l’uomo e sui suoi problemi, che i
Sofisti condivi- sero con Socrate2° la riduzione della conoscenza all’opinione e
del bene all’utilità col conseguente riconoscimento della relatività del vero e
dei valori morali, che muterebbero a seconda dei luoghi e dei tempi; 3°
l’eristica cioè l’abilità di confutare o di sostenere contemporaneamente tesi
contraddittorie; 4° la contrapposizione tra la natura e la legge e il
riconoscimento che la natura non conosce che il diritto del più forte. a in un
modo d’essere rappresentativo (in esse objec- tivo) che corrisponde a ciò che
la cosa esterna è nella sua esistenza sostanziale » (/rr Senr., I, d.2, q. 8,
E; cfr. Duns Scoro, De An., 17, 14). Questo significato si mantiene per tutto
il Medio Evo. 2. Il significato di S. come appartenente all’io o al soggetto
dell’uomo si trova per la prima volta in alcuni scrittori tedeschi del sec.
xvni (sui quali cfr. CassireR, Erkenntnisproblem, 1908, libro VII). Già
Baumgarten parlava della «fede considerata soggettivamente » di fronte alla
«fede considerata oggettivamente » che è l’insieme delle credenze (Mer., 1739,
$ 993). E qualche decennio più tardi si discuteva se la bellezza o la verità
fossero S. od oggettive intendendosi per oggettiva « una proprietà degli
oggetti » e per S. «una rappresentazione del rapporto delle cose con noi, cioè
una relazione con colui che le pensa» (J. C. Lossius, Physische Ursachen des
Wahren, 1775, pag. 65). La stessa distinzione si trova nel Tetens
(Philosophische Versuche, 1776, I, pag. 344, 560, ecc.). Da quest’uso dell’aggettivo,
Kant desumeva il nuovo significato attribuito al sostantivo soggetto. SOGGETTO
(gr. sroxeluevov; lat. Subjectum, Suppositum;
ingl. Subject; franc. Sujet; tedesco Subjekt).
Il termine ha avuto due significati fonda- mentali: 1° ciò di cui si parla o a
cui si attribuiscono qualità o determinazioni o a cui qualità o determi-
nazioni sono inerenti; 2° l’io o lo spirito o la co- scienza come principio
determinante del mondo della conoscenza o dell’azione o almeno come capacità
d’iniziativa in tale mondo. Entrambi questi significati rimangono nell’uso
corrente del termine. Il primo nella terminologia grammaticale e nel concetto
di S. come tema o argomento di discorso. Il secondo nel concetto di S. come
capacità auto- noma di rapporti o di iniziative, capacità che viene
contrapposta all’esser semplice «oggetto » o parte passiva di tali rapporti. 1°
Il primo significato è quello della tradizione filosofica antica. Esso ricorre
in Platone (Prot., 349 b) ed è illustrato da Aristotele come uno dei modi della
sostanza. « Il S., dice Aristotele è ciò di cui si può dire ogni cosa ma che a
sua volta non può essere detto di nulla » (Mer., VII, 3, 1028 b 36). In questo
senso il S. può essere inteso: 4) come la materia di cui una cosa è composta,
per es., il bronzo; 5) come la forma della cosa stessa, per es., il disegno di
una statua; c) come l’unione di materia e forma, per es., la statua (/bid.,
1029 a 1). Questedeterminazioni sono strettamente proprie della metafisica
aristotelica. Ma il senso generale del termine è quello che conta: S. è
l’oggetto reale a cui ineriscono o a cui si riferiscono le determina- zioni
predicabili (la qualità, la quantità, ecc.). Questo è pure il concetto che del
S. ebbero gli Stoici: essi lo considerarono come l'oggetto esterno a cui il
significato viene riferito cioè come la denota- zione del significato (Sesto
EMP., Adv. Math., VIII, 12; cfr. SigNIFICATO). Nello stesso senso usarono il
termine gli Epicurei (EPICUR., Epistola, I, pag. 12, 24, Uesener). A questa
tradizione si riconnette l’uso grammaticale del termine che cominciò nel n
secolo d. C.; Apuleio già chiamava subjectiva o subdita la parte del discorso
che gli antichi chia- mavano nome e declarativa la parte che gli antichi chiamavano
verbo (De Dogmate Platonis, III, pag. 30, 30; cfr. Marziano CAPELLA, De
Nuptiis, IV, 393). Questo significato di « S. » rimane immutato attra- verso
una lunga tradizione. Gli scrittori medievali seguono le determinazioni
aristoteliche: chiamano subjectum o suppositum la sostanza in quanto ad essa
ineriscono le qualità o le altre determinazioni (cfr. S. TomMaso, S. Th., I, q.
29, a. 2; Duns Scoro, Op. Ox., II, d.3, q.6, n.8; OcKHAM, In Sent., I, d. 2, q.
8, E). Il significato del termine non cambia quando per S. viene intesa l’anima
come sostanza alla quale ineriscono determinati caratteri o dalla quale emanano
attività determinate. Dice Hobbes: « Il S. della sensazione è lo stesso
senziente, cioè l’animale » (De Corp., 25, 3). Locke chiama il S. in questo
senso substratum o sostegno (Saggio, II, 23, 1-2). E in questo senso si avvale
del termine Hume: «Qui appare Spinoza e mi dice che vi sono solo le
modificazioni e che il S. al quale esse ineriscono è semplice, incomposto e
indivisibile » (Treatise, I, IV, 5, ed. Selby-Bigge, pag. 242). Dall'altro lato
lo stesso significato si mantiene anche nel raziona- lismo tedesco. Leibniz
intende conservare il signi- ficato tradizionale di S. (Nouv. Ess., Il, 23, 2);
e quando parla di disposizioni «che vengono 4a subjecto o dall’anima stessa »
intende disposizioni che vengono dalla sostanza stessa dell'anima (Re- marques
sur le livre de L'origine du Mal, in Op., ed. Erdmann, pag. 645). Wolff a sua
volta definisce il S. come « l’ente in quanto considerato dotato di essenza e
capace di altre cose oltre di essa » (Onr., $ 711). Baumgarten nello stesso
senso dice che S. è l’ente, determinato nella materia da cui è costituito
(Mer., $ 344). Lo stesso Kant fa d’altronde ricorso a questa nozione
tradizionale del soggetto. « Già da tempo, egli dice, è stato osservato che in tutte
le sostanze, il vero e proprio S., ciò che rimane tolti gli accidenti (come
predicati) quindi il vero elemento sostanziale, ci è ignoto» (Prol., $ 46).2°
Il secondo significato del termine come io o coscienza o capacità d’iniziativa
in generale, si è iniziato solo con Kant che certamente ha tenuto presente il
significato che l’opposizione tra sogget- tivo e oggettivo aveva assunto in
taluni scrittori tedeschi a lui contemporanei (v. SOGGETTIVO). Il S. è per Kant
l’io penso, la coscienza o autoco- scienza che determina e condiziona ogni
attività conoscitiva: «In tutti i giudizi io sono sempre il S. determinante di
quella relazione che costituisce il giudizio ». « Per l’io o egli o quello (la
cosa) che pensa, non ci rappresentiamo altro che un S. tra- scendentale dei
pensieri, = x che non è conosciuto se non mediante i pensieri che sono suoi
predicati e di cui, a parte da questi, non possiamo avere il minimo concetto »
(Crif. R. Pura, Dial. trascenden- tale, II, cap. I). In queste parole di Kant
si può cogliere il passaggio dal vecchio al nuovo signifi- cato di soggetto.
L’io è S. in quanto ad esso ineri- scono i pensieri come suoi predicati: questo
è ancora il significato tradizionale del termine. Ma l’io è S. in quanto
determina l’unione del S. e del predicato nei giudizi cioè in quanto è attività
sin- tetica o giudicante, spontaneità conoscitiva, perciò coscienza 0
auto-coscienza o appercezione; e questo è il nuovo significato di soggetto. A
questo secondo significato esclusivamente si appiglia la tradizione
post-kantiana. Secondo Fichte, il S. è l'Io, che è «S. assoluto », non
rappresentato nè rappresentabile », che « non ha nulla in comune con gli esseri
della natura» (Wissenschafislehre, 1794, $ 3, d). La differenza tra la Sostanza
di Spi- noza e l’Io assoluto, consiste secondo Fichte appunto nel fatto che
Spinoza non ha concepito la sostanza come S. (/bid.; trad. ital., pag. 78
sgg.). Schelling parla nello stesso senso della identità o unità del S. e
dell’oggetto nell’Autocoscienza assoluta (System des transzendentalen
Idealismus, 1800, I, cap. II; trad. ital., pag. 34). Hegel a sua volta diceva:
« Tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il Vero non solo come Sostanza
ma altrettanto decisamente come Soggetto... La sostanza viva è l’essere il
quale è in verità S. o, ciò che è lo stesso, è l’essere che in verità è
effettuale, ma solo in quanto la sostanza è il movimento dell’autoporsi o in
quanto è la mediazione del divenire altro da sè con se stessa » (Phanom. des
Geistes, Pref. II, 1). Nello stesso senso Hegel afferma che l’Idea assoluta è
unità di S. e oggetto (ZEnc., $ 214). Ed aggiunge: «L'unità del- l’idea è
soggettività, pensiero, infinità, e perciò da distinguere essenzialmente
dall’idea come sostanza; allo stesso modo che questa soggettività soverchiante,
questo pensiero, questa infinità è da distinguere dalla soggettività
unilaterale dal pensiero unila- terale, dall’infinità unilaterale, alla quale
essa, col giudicare e col definire, si abbassa » (Enc., $ 215). 814 La
soggettività come «soggettività infinita» cioè non intellettuale prevale dunque
sull’oggettività in quella « unità di S. e oggetto » che è l’Idea o l’Asso-
luto. Ma Hegel vede anche nel S. come tale la capacità d’iniziativa o il
principio dell'attività in generale. «Il S. è l’attività della soddisfazione
degli impulsi, della razionalità formale; vale a dire, è l’attività che traduce
la soggettività del contenuto, che sotto tal riguardo è scopo, nell’oggettività
in cui il S. si congiunge con se stesso + (Enc., $ 475). Schopenhauer
insisteva, come Fichte, sulla irrap- empre correlativi l’uno all’altro e per
questo inseparabili» riduce la funzione del S. a quella di «farsi immagine, rappresentazione
o conoscenza dell’oggetto + esclu- dendo che esso entri comunque a modificare
la natura di questo (Systematische Philosophie, 1931, $ 10). Infine, anche
quando non si esclude la funzione del S., tale funzione non viene riconosciuta
come incondizionata o creativa ma sottoposta a limiti e condizioni, e in ogni
caso si nega che il S. stesso possa valere come una sostanza o una forza auto- noma.
Dice Husserl: «L’ego si costituisce per se stesso nell’unità di una storia. Se
si può dire che nella costituzione dell’ego sono contenute tutte le costi- tuzioni
di tutti gli oggetti che esistono per lui, immanenti e trascendenti, reali e
ideali, bisogna aggiungere che il sistema delle costituzioni, in virtù delle
quali tali oggetti esistono per l’ego non sono possibili che nel quadro di
leggi genetiche » (Cart. Med., 1931, $ 37). Da questo punto di vista il S. è
una funzione, non una sostanza o una forza creatrice. Heidegger ha detto: «Se
per l’ente che noi stessi siamo e che definiamo esserci si sceglie il termine
di S., possiamo dire: la trascendenza implica l’essenza del S., essa è la
struttura fonda- mentale della soggettività. Non è che il S. esista dapprima
come S. e poi, qualora si rivelino come presenti alcuni oggetti, esso li possa
anche trascen- dere. Esser S. significa invece essere esistente nella
trascendenza e in quanto trascendenza +» (Vom Wesen dell’im- maginazione nel
sonno. Questa è la definizione del S. che fu data già da Platone (Tim., 45 e) e
da SOLILOQUIO Aristotele (De Somniis, 1, 459a 15) ed è anche quella della
psicologia moderna: nella quale, na- turalmente, dà luogo ad una serie di
problemi che esulano completamente dal campo della filosofia (cfr., su di essi,
E. SERvADIO, 7/ S., 1955). Freud e gli psicanalisti hanno dato una
interpretazione funzionalistica del S.: hanno cercato di determinare la
funzione che il S. esercita nella vita dell’uomo. Secondo Freud il S. «è un
mezzo per sopprimere le eccitazioni (psichiche) che vengono a turbare il sonno,
soppressione che si effettua con l’aiuto di soddisfazioni allucinatorie »
(/ntr. d la psychanalyse, 1932, pag. 151). I desideri che nel S. trovano una realizzazione
simbolica sono, il più delle volte, de- sideri proibiti, inibiti dalla censura
e che perciò subiscono attraverso il S. una elaborazione radicale che è compito
dello psicologo interpretare (/bid., pag. 189, 234). Questa teoria di Freud è
stata a lungo discussa e non pare che si adatti a spiegare tutte le specie di
S. o tutti gli aspetti del S.; essa è la sola tuttavia che si è proposta il
problema della funzionalità del S., cioè del compito cui esso adempie nell'economia
della vita psichica. I filosofi si sono talvolta soffermati sul S. per mostrare
l’incertezza della discriminazione tra il S. e la veglia, avvalendosene come un
elemento di dubbio teoretico. Diceva Platone: « Nulla vieta di credere che i
discorsi che ora facciamo siano tenuti in sogno; e quando in S. crediamo di
raccontare un S., la somiglianza delle sensazioni nel S. e nella veglia è
addirittura meravigliosa » (Teert., 158 c). D'altronde «Il tempo in cui
dormiamo è uguale a quello in cui siamo desti e nell’uno e nell’altro la nostra
anima afferma che solo le opinioni che ha in quel momento presente sono vere;
sicchè per un eguale spazio di tempo noi diciamo che sono vere ora le une ora
le altre e le une e le altre so- steniamo con lo stesso vigore » (/bid., 158
d). Nel sec. XVII e XVIII questo tema fu ripetuto frequen- temente da poeti e
filosofi. Shakespeare diceva: « Noi siamo della stessa sostanza di cui son
fatti i S. e la nostra breve vita è racchiusa in un sonno » (Tempest, atto IV,
scena I). Calderòn de la Barca aveva utilizzato lo stesso tema ne La vita è un
S. (1635): « Sono dunque le glorie così simili ai S. che quelle vere son tenute
per false e quelle finte per certe? C'è così poco dalle une alle altre che si
fa questione di sapere se quel che si vede o si gode sia un S. o verità?» (atto
III, scena X). Cartesio utilizzava lo stesso tema come elemento di dubbio: 4
Ciò che accade neì sogno non sembra così chiaro e così distinto come ciò che
accade nella veglia. Ma pensandoci sopra mi ricordo d'essere stato spesso
ingannato, quando dormivo, da semplici il- lusioni. E fermandomi su questo
pensiero, vedo chiaramente che non ci sono indici concludenti nè contrassegni
abbastanza certi per poter distinguere nettamente la veglia dal sogno al punto
che ne sono stupito e il mio stupore è tale che è quasi capace di persuadermi
che sto dormendo » (Méd., I; cfr. Princ. Phil., I, 4). La dottrina di Leibniz
se- condo la quale la vita della monade, cioè della sostanza spirituale, è «un
S. ben regolato» è un’altra manifestazione dello stesso tema. Dice Leibniz: «
Non è impossibile, metafisicamente par- lando, che ci sia un S. continuo e
duraturo come la vita di un uomo... Ma posto che i fenomeni siano legati non
importa che li si chiamino S. o no poichè l’esperienza mostra che non ci si
inganna nella misura in cui si apprendono i fenomeni, quando essi sono appresi
secondo le verità di ragione » (Nouv. Ess., IV, 2, 14). Diceva Voltaire: « Se
gli organi da soli producono i S. della notte perchè non potrebbero produrre da
soli le idee del giorno? Se l’anima sola, tranquilla nel riposo dei sensi e operante
da sè è l’unica causa, il soggetto unico di tutte le idee che abbiamo dormendo,
perchè tutte queste idee sono quasi sempre irregolari, ir- razionali,
incoerenti? » (Dictionnaire philosophique, 1764, art. Songes). Schopenhauer è
forse l’ultimo a presentare questo tema nella sua forma classica: «La vita e i
S. sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale.
Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il
tempo del riposo allora spesso seguitiamo ancora, fiaccamente senza ordine e
con- nessione, a sfogliare qua e là qualche pagina: spesso è una pagina già
letta, spesso un’altra an- cora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro » (Die
Welt, I, $ 5). SOLECISMO (ingl. Solecism; franc. Solécisme; ted. Solecismus).
In Aristotele (Soph. El., passim) e poi nella Logica di origine aristotelica
designa uno degli scopi della dialettica sofistica, ossia il tentativo di
indurre l’interlocutore ad accettare un enunciato contenente un'impossibilità
grammati- cale, come homines currit. Il termine è rimasto ad indicare in genere
uno sproposito di morfologia o sintassi grammaticale. G. P. SOLIDARIETÀ (ingl.
Solidarity; franc. Soli- darité; ted. Solidaritàt). Termine di origine giuri- dica
che nel linguaggio corrente comune e filosofico significa: 1° connessione
reciproca o interdipen- denza: per esempio, «S. dei fenomeni»; 2° assi- stenza
reciproca fra i membri di uno stesso gruppo: (per es., S. familiare, S. umana,
ecc.). In questo senso si parla di solidarismo per indicare la dot- trina
morale e giuridica che assume come sua idea fondamentale la S. (cfr. L.
BourGEOIS, La soli darité, 1897). SOLILOQUIO (lat. Soliloguium). Il colloquio dell’anima
con se stessa. Soliloquia S. Agostino intitolò uno dei suoi primi scritti nel
quale di- chiarava di voler conoscere soltanto Dio e l’anima e null’altro
(So/., I, 2). S. Anselmo chiamò Mono- logion il suo colloquio interiore intorno
all’essenza di Dio. SOLIPSISMO (ingl. Solipsism; franc. Solip- sisme; ted.
Solipsismus). La tesi che esisto solo io e che tutti gli altri enti (uomini e
cose) sono sol- tanto mie idee. Il termine più antico per indicare questa tesi
è egoismo (cfr. WoLFF, Psychol. ratio- nalis, $ 38; BAUMGARTEN, Met., $ 392;
GALLUPPI, Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, IV, 3, 24; ecc.) o
egoismo metafisico (KANT, Antr., I, $ 2) o egoismo teorico (SCHOPENHAUER, Die
Welt, I, $ 19). Kant adoperò il termine S. per indicare la totalità delle
inclinazioni, che, quando sono soddisfatte, producono la felicità (Cri. R.
Prat., I, libro I, cap. III; trad. ital., pag. 85): e questo termine fu
adoperato a indicare l’egoismo metafisico da alcuni scrittori tedeschi della
seconda metà del- 1°800 (cfr. SCHUBERT-SOLDERN, Grundlagen zu einer Erkenntnistheorie,
1884, pag. 83 sgg.; W. SCHUPPE, Der Solipsismus, 1898; H. DrIescH,
Ordnungslehre, 1912, pag. 23 sgg.; ecc.). Come già notava Wolff, il S. è una
specie di idealismo che riduce ad idee non solo le cose ma anche gli spiriti
(Psychol. rat., fra gli elementi del linguaggio stesso e gli elementi della
realtà, e la riduzione di questi ultimi a fatti di esperienza immediata che
perciò sono soltanto miei. Dove tali fatti mancano, manca il significato (cioè
l’og- getto) della parola ed io non la capisco: perciò Wittgenstein dice che i
limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo. Lo stesso presupposto
conduce Carnap a parlare di S. metodico. Molto giustamente Carnap parla di S. a
proposito della scelta degli elementi fondamentali (Grundelemente): poichè per
tali elementi, che sono quelli in base ai quali si può ricostruire logicamente
il mondo, Carnap sceglie (come Wittgenstein) i fatti immediati di esperienza o
come egli dice «la base psichica propria », il suo procedimento è solipsistico
(Der logische Aufbau der Welt, 1928, $ 64). J. R. Weinberg già osservava come
nel positivismo logico il S. lin- guistico è inevitabile; e che, poichè occorre
supe- rarlo per raggiungere l’oggettività scientifica, «o si devono alterare
alcuni postulati del sistema per eliminare dal positivismo le idee metafisiche
o, se questo metodo fallisce, si dovrà abbandonare l’in- tero sistema del
positivismo logico » (An Exami- nation of Logical Positivism, cap. VII; trad.
ital., pag. 235 sgg.). In realtà il presupposto del positi- vismo da cui nasce
il S. è il riflesso nella teoria del linguaggio della tesi idealistica: gli
elementi del linguaggio sono segni di esperienze immediate, perchè le
esperienze immediate sono la sola realtà (v. ESPERIENZA; LINGUAGGIO). SOLITUDINE
(ingl. Solitude; franc. Solitude; ted. Einsamkeit). L’isolamento dagli altri o
la ricerca di una migliore comunicazione. Nel primo senso la S. è la situazione
del sapiente che, nella sua figura tradizionale, è perfettamente autarchico e
perciò isolato nella sua perfezione (v. SaGGIO). Fuori da questo ideale,
l’isolamento è un fatto patolo- gico: è l'impossibilità della comunicazione
connessa a tutte le forme della pazzia. In senso proprio, tut- tavia, la S. non
è isolamento ma piuttosto la ricerca di forme diverse e superiori di
comunicazione: «Essa non prescinde dai legami offerti dall’am- biente e dalla
vita quotidiana se non in vista di altri legami con uomini del passato e
dell’avvenire, con i quali sia possibile una forma nuova o più feconda di
comunicazione. Il suo prescindere da quei legami è perciò il tentativo di
rendersi liberi da essi per rendersi disponibili per altri rapporti sociali» (ABBAGNANO,
Problemi di sociologia, 1959, XI, $ 8). SOMATICO (ingl. Somatic; franc.
Somatique; ted. Somatisch). Corporeo (v. CORPO)SOMATOLOGIA (ingl. Somatology;
francese Somatologie; ted. Somatologie). La {parte dell’an- tropologia che
considera gli aspetti fisici dell’uomo (v. ANTROPOLOGIA). SOMMA LOGICA (ingl.
Logical Sum; fran- cese Somme logique; ted. Logische Summe). È la figura (a +
5) risultante da un’addizione /o- gica (v.). G.P. SOMMO BENE. V. BENE sommo. SONNO
E VEGLIA. V. Sogno. SOPRACOSTRUZIONE. V. Sopra- STRUTTURA. - suna conoscenza è
possibile (noumenorum non datur scientia)» (Fortschrifte der Metaphysik, 1804,
[A 55)). Il S. è pertanto il dominio delle idee della Ragion pura, con tutto
ciò che esse implicano per la vita morale dell’uomo. Hegel a sua volta adoperò
il termine in senso analogo, ma positivo per indicare 52 — ARBAGNANO,
Dizionario di flosofia. 817 ciò che l’apparenza sensibile è nella sua natura
razionale: « Il S. è il sensibile e il percepito posti come in verità essi
sono» perciò come 4 l’univer- sale semplice, l’universale in cui la
molteplicità non sussiste, in cui non c’è niente da conoscere »: in breve
l’universale come lo ha inteso Schelling (Phinom. des Geistes, I, IV, B; trad.
ital., pag. 127 e nota). SOPRASTRUTTURA (ingl. Superstructure; franc.
Superstructure; ted. Uberbau). Termine ado- perato dai Marxisti per designare
l’ordinamento politico e giuridico nonchè le ideologie politiche religiose,
filosofiche, ecc., in quanto dipendono dalla struttura economica di una data
fase della società. Dice Marx: «L'insieme dei rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società ossia la base reale sulla
quale si eleva una S. giuridica e politica e alla quale corrispondono forme
determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale
condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita»
(Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.) (v. MATERIALISMO STORICO).
Il termine è stato anche adoperato da N. Hart- mann per indicare uno strato o
piano dell’essere nel quale si conservino solo alcune delle categorie del piano
inferiore; e si distinguerebbe dalla sopra- formazione (Uberformung) perchè in
questa si conserverebbero fufte le categorie del piano infe- riore. Ad es., il
piano psichico sarebbe, nei con- fronti del piano organico, una S. perchè in
esso è abbandonata la categoria dello spazio che domina ancora l’essere
organico. La differenza tra S. e sopraformazione taglierebbe così la strada
alla concezione meccanica della vita psichica (Aufbau der realen Welt, 1940).
Talora, per la traduzione del termine di Hartmann si è usato in italiano
sopracostruzione (cfr. BARONE, Nicolai Hartmann, pag. 342). SOPRAVVIVENZA. V.
IMMORTALITÀ. SORITE (lat. Acervus; ingl. Sorites; franc. Sorite; ted. Sorites).
1. L'argomento di Eubulide contro la molteplicità (v. ACERVO, ARGOMENTO DELL’).
a. Un sillogismo composto o polisillogismo (v.) nel quale la conclusione del
sillogismo precedente si assume come la premessa del sillogismo susse- guente,
finchè si giunga nell’ultima a connettere l’antecedente del primo sillogismo e
la conseguenza dell’ultimo (cfr. ARNAULD, Log., III, I; JunGIUS, Logica
Hamburgensis, III, 28; WOLFF, Log., $ 474; HAMILTON, Lectures on Logic, pag.
366; ecc.). L'espressione soriticus syllogismus fu usata forse per la prima
volta da Mario Vittorino (Iv secolo) (cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, I,
pag. 663). Ma fu diffusa da Lorenzo Valla (Dialecticae dispu- tationes, III,
12)SOSPIRO (ted. Sehnsucht). Aspirazione che si @) ciò che è necessariamente
quello che è; 5) ciò che esiste ne- cessariamente. Entrambe queste
determinazioni si trovano illustrate nella metafisica aristotelica, della quale
il concetto di S. costituisce il cardine. La prima determinazione è quella che
Aristotele de- signa con l’espressione tè tl 7v elvar (quod quid erat esse) e
che si può tradurre come essenza necessaria; l’espressione significa infatti
alla lettera ciò che l’essere era dove l’imperfetto «era » indica la continuità
o stabilità dell’essere stesso, il suo essere già da sempre e per sempre.
L'essenza ne- cessaria è quella che è espressa dalla definizione (v.) ed è
l’oggetto proprio della conoscenza scientifica (v. ScIENZA). A questa prima
determinazione, si connette la seconda, per la quale è S. ciò che neces- sariamente
esiste. Dice Aristotele: « Abbiamo scienza delle cose particolari solo quando
conosciamo l’es- senza necessaria di esse ed accade per tutte le cose ciò che
accade per il bene: se ciò che è per essenza bene non è bene, allora neppure
ciò che per essenza esiste non esiste e ciò che per essenza è uno non è uno; e
così per tutte le altre cose» (Mer., VII, 6, 1031 b 6). Aristotele adduce
questo argomento contro la separazione platonica dell’idea dalle cose; ma
l’argomento ovviamente significa che ogni cosa è quella che è in virtù
dell’essenza necessaria (che è la sua causa intrinseca o estrinseca) e che
pertanto tutto ciò che nelle cose c'è di reale e di conoscibile fa parte
dell’essenza necessaria e necessariamente esiste. La S. costituisce così per
Aristotele la strut- tura necessaria dell’essere nella sua concatena- zione
causale perchè tutte le specie di cause sono determinazioni della S. (v.
CausaLITÀ). In questo senso appunto Aristotele afferma che la forma delle cose
è eterna e non può essere nè prodotta nè
distrutta (Mer., VII, 8; VIII, 3); la
forma è infatti l’essenza necessaria delle cose composte. Dall'altro lato
Aristotele non è troppo preoccupato di enume- rare tutti i modi d’essere della
sostanza. Egli co- mincia con il dire che comunemente si parla di S. in quattro
sensi, se non di più, e cioè come essenza necessaria, come universale, come
specie e come soggetto (Mer., VII, 3, 1028 a 32). Ma la S. come universale o
come specie è esclusa dalla critica al platonismo; oppure, il che vale lo
stesso, è chia- mata da Aristotele sostanza seconda nei confronti della S.
prima che è quella autentica (Car., 5, 2a 13). Rimangono perciò solo la S. come
essenza necessaria e la S. come soggetto (v.). In quest’ultimo significato la
S. può essere o la forma o la materia o il loro composto (/bid., 1029 a 2). Nei
suoi due significati legittimi la S. esprime il significato fon- damentale del
concetto dell’essere e pertanto costi- tuisce l'oggetto proprio della
metafisica. « Ciò che da tempo e anche ora e sempre abbiamo cercato, ciò che
sempre sarà un problema per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che
cosa è la S.?» (Met., VII, 1, 1028 b 2). Dall’altro lato la struttura sostanziale
dell’essere è il fondamento del sapere scientifico. L'essenza necessaria delle
cose che non hanno una causa fuori di sè è intuita direttamente dall’intelletto
e costituisce i primi principi che sono a fondamento della dimostrazione;
mentre l’essenza necessaria delle cose che hanno una causa fuori di sè può
essere rivelata, se non dimostrata, dalla stessa dimostrazione. In ogni caso la
necessità della dimostrazione è la stessa necessità della S. (An. Post., II, 9,
43 b 21; cfr. tutta la discussione precedente). La storia ulteriore del
concetto di S. ripete il carattere che era già servito ad Aristotele per defi- nirlo,
quello della necessità. Tale carattere viene esplicitamente assunto da Plotino
per la definizione del termine (Enn., VI, 3, 4). Ma su di esso insiste specialmente
la scolastica araba e in particolare Avicenna: « Diciamo che tutto ciò che è ha
una S. (essentia) per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità di
esso e il suo essere (Logica, I). E S. Tommaso che, con le equivalenze
linguistiche stabilite nel De ente et essentia aveva chiuso un lungo periodo di
confusioni terminologiche (v. Es- SENZA), riduce la S. (rettamente
interpretando i testi di Aristotele) alla quiddità (l'essenza necessaria) e al
soggetto (S. Th., I, q. 29, a. 2). Cartesio non faceva che esprimere lo stesso
carattere di necessità affermando che «quando concepiamo la S. conce- piamo
solo una cosa che esiste in tal maniera che non ha bisogno per esistere d’altro
che di se stessa » (Princ. Phil., I, 51). Giustamente Spinoza osser- vava che
questa è la stessa definizione della S. infinita (R. Cartesi Principia
Philosophiae, 1663)favore di quella di una semplice coesistenza di fatto delle
determinazioni percepite. Il concetto della S. subisce così, in Locke, una tra-
sformazione analoga a quella che il concetto di causa subirà nelle mani di
Hume: si trasforma da necessità razionale in uniformità fattuale. Da necessità
razionale per la quale le determinaziondi un ente sarebbero tutte razionalmente
connesse l'una con l’altra e derivabili da quella fondamentale costitutiva
dell’essernza dell’ente stesso, la sostanza diventa un insieme di
determinazioni che si trovano insieme in linea di fatto ma di cui non si può
di- mostrare la necessità. Hume esprimeva bene questa nuova idea di S. dicendo
che « le particolari qualità che formano una S. sono comunemente riferite ad un
qualcosa di sconosciuto al quale si suppone che ineriscano o, mettendo da parte
questa finzione, sono considerate strettamente e inseparabilmente connesse da
relazioni di contiguità e causazione ? {Treatise, I, 1, 6; ed. Selby-Bigge,
pag. 16). La con- nessione per contiguità e causazione ha preso il posto della
necessità razionale. Una formulazione ancora più rigorosa dello stesso concetto
è stata data da Mach: «La S. non è che la persistenza del collegamento: una
persistenza che non è mai assoluta o rigorosa (Analyse der Empfindungen, XIV, $
14; trad. ital., pag. 382). Nello stesso senso Dewey ha scritto: «La
condizione, la sola condizione perchè vi possa essere sostanzialità, è che
certe qualificazioni dipendano l’una dall’altra come segni sicuri che,
verificandosi certe interazioni, ne segui- ranno certi risultati » (Logic, cap.
VII; trad. ital., pag. 187). L’idea di S., nel suo significato tradizionale di necessità,
e quella connessa di causa, costituiscono i cardini di qualsiasi metafisica
(v.). Esse sono pertanto accettate di peso da tutte le metafisiche di stampo
tradizionale; mentre gli indirizzi empiri- stici inclinano a vedere nel
concetto di S. il collega- mento che già Hume vi aveva scorto o tendono addirittura
farne a meno opponendo ad essa l’idea di funzione, cioè di relazione. Già da
Mach quest’ul- timo passaggio è stato effettuato in quanto la « persistenza del
collegamento» non è altro che l’uniformità di certe relazioni. SOSTANZIALE
(ingl. Substantial;
franc. Sub- stantiel; ted. Substantiell).
1. Ciò che costituisce una sostanza o appartiene a una sostanza: cioè che è
essenziale o è tale da esistere necessariamente. 2. Ciò che è, in un senso
qualsiasi, importante o decisivo: per es., «un contributo sostanziale +. SOSTANZIALISMO
(ingl. Substantialism) franc. Substantialisme; ted. Substantialismus). Ter- mine
con il quale si è talora designato la dottrina metafisica della sostanza da
parte di coloro che la combattono (Renouvier, Hamelin, ecc.). SOSTANZIALITÀ
(inglese Substantiality; franc. Substantialité; ted. Substantialitàt). Il modo d’essere
della sostanza (nel senso 1). Nella prima edizione della Critica della Ragion
Pura, Kant chiamò « paralogismo della S.» quello per il quale si attribuisce
all’io penso il modo d'essere della sostanza (Crit. R. Pura, A, 349). Il
termine fu poi la ottenuta da A sostituendo una formula 8 per una particolare
variabile in A (cfr. A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, $ 10; ed
inoltre CARNAP, The Logical Syntax of Language, $ 6; Meaning and Necessity, $
11; Quine, Methods of Logic, $ 6; ecc.). SOSTRATO (lat. Substratum; ingl.
Substratum; franc. Substrat). Il termine fu introdotto dalla scolastica del
sec. xrv per indicare l’individuo reale (substratum singulare: Pietro AuREOLO,
/n Sent., I, d. 35, q.4, a. 1); e poi ripreso da Locke per indicare ciò che
nella tradizione veniva piuttosto chiamato subjectum o suppositum cioè il
soggetto o la sostanza come soggetto (Saggio, II, 23, 1). Accettato da Berkeley
(Principles of Human Know- ledge, I, $ 7) e da Leibniz (Nouv. Ess., II, 23, 1)
il termine è entrato nell’uso e ha finito per prevalere sugli altri, non senza
pericolo di confusioni (v. Sog- GETTO). SOTERIOLOGIA (ingl. Soteriology; franc.
So- teriologie; ted. Soteriologie). La dottrina religiosa della salvezza.
Sull’affacciarsi dell’indirizzo religioso soteriologico nel mondo occidentale
cfr. l’opera di F. CUMONT, Les religions orientales dans le pa- ganisme romain,
1906, 2* ediz. 1909. SOTTRAZIONE (ingl. Subrraction; francese Soustraction;
ted. Subtraction)i. La nozione di S. logica fu introdotta da Boole nel modo
seguente: «Se x rappresenta una classe di oggetti, allora 1 — x rappresenta la
classe contraria o supplemen- tare di oggetti cioè la classe includente tutti
gli oggetti che non sono compresi nella classe x» (Laws of Thought, 1854, cap. III, Prop. III, Dover publ., pag. 48; cfr. pure PEIRCE, Coll.
Pap., 3. 5,9, 18, ecc.). Nella logica posteriore questa nozione è scomparsa. SOVRANITÀ
(ingl. Sovereignty; franc. Sou- veraineté; ted. Souverdnitàt). Il potere
preponde- rante o supremo dello Stato, che fu riconosciuto per la prima volta
come carattere fondamentale dello Stato stesso da Jean Bodin nei Six livres de la
république (1576). La S. consiste, secondo Bodin, negativamente nell’essere
sciolto o dispensato dalle leggi e dagli usi dello Stato e positivamente nel potere
di abolire o creare leggi. Il solo limite della S. è la legge naturale e divina
(Six livres de la répu- blique, 9* ediz., 1576, I, pag. 131-32). Il termine e il
concetto furono accettati da Hegel: « Queste due determinazioni che gli affari
e i poteri particolari dello Stato non sono autonomi e stabili nè per sè, nè
nella volontà particolare degli individui ma hanno la loro ultima radice
nell’unità dello Stato, di qualche parte di se stesso o la sua sottomissione a
un altro sovrano. Violare l’atto per il quale esso esiste significherebbe
annullarsi; e ciò che è niente, non produce niente » (/bid., I, 7). Il
principio della S. è pertanto quello di essere il potere più alto in un dato
territorio: il che non vuol dire che essa debba essere un potere assoluto o
arbitrario. Nella dottrina moderna del diritto, la S. è riconosciuta propria
dell'ordinamento giu- ridico (v. STATO) ed è intesa come quel carattere per il
quale « l'ordinamento giuridico statale è un ordinamento al di sopra del quale
non c’è un ordinamento superiore » (H. KELSEN, General Theory of Law and State,
1945; trad. ital., pag. 390). Se- condo Kelsen, se si ammette l’ipotesi della
priorità del diritto internazionale, lo Stato può essere detto sovrano solo in
senso relativo; se si ammette l’ipo- tesi della priorità del diritto statale
può esser detto sovrano nel senso assoluto e originario del termine. La scelta
tra le due ipotesi è arbitraria (/bid., pag. 391). SPAESATO (ted. Unheimlich).
Il « sentirsi S.» è, secondo Heidegger, uno degli aspetti dell’an- goscia (v.).
Sentirsi S. vuol dire «non sentirsi a casa propria» nel mondo e questo è, in
sede on- tologico-esistenziale, il «fenomeno più originario » (Sein und Zeit, $
40). SPAZIO (gr. yx&bpa, 16rog; lat. Spatium; inglese Space; franc. Espace;
ted. Raum). La nozione di S. ha dato origine a tre problemi diversi o meglio a
tre ordini di problemi: 1° quello circa la natura dello S.; 2° quello circa la
realtà dello S.; 3° quello circa la struttura metrica dello spazio. Una
risposta a quest’ultimo problema non è che una geometria e le diverse risposte
ad esso costi- tuiscono le differenti geometrie. Per tali risposte, cfr.
GEOMETRIA. 1° Il primo problema concerne il vero e proprio concetto di S. ed è
il problema circa la natura dell’esteriorità in generale cioè di ciò che rende possibile
il rapporto estrinseco tra gli oggetti. Finstein nella prefazione ad un libro
storico sul concetto di S. (Max JAMMER, Concepts of Space, 1954) ha distinto
due fondamentali teorie dello S., cioè: a) lo S. come la qualità posizionale
degli oggetti materiali nel mondo; 5) lo S. come il con- tenente di tutti gli
oggetti materiali. A questi due concetti si può aggiungere l’altro, che lo
stesso Einstein ha fondato; c) quello dello S. come campo. a) La prima
concezione è quella dello S. come luogo (v.) cioè come posizione di un corpo
tra gli altri corpi. Lo S. è definito in questo senso da Aristotele come «il
limite immobile che abbraccia un corpo » (Fis., IV, 4, 212a 20): una
definizione
che Aristotele riconosce identica con il
concetto platonico che identificava lo S. con la materia (Tim., 52b, Sla). In
virtù di questo concetto, non c’è S. là dove non c’è un oggetto materiale; perciò
il teorema principale di questa teoria dello S. è l’inesistenza del vuoto (cfr.
ARISTOTELE, Fis., IV, 8, 214 b 11). È questa la teoria che prevale
nell'antichità e viene accettata per tutto il Medio Evo anche dagli avversari
di Aristotele (cfr. OckHAM, Summulae physicorum, IV, 20; Quodi., I, 4). Essa
veniva difesa nel Rinascimento da Campanella (De sensu rerum, I, 12) e
accettata e riesposta da Cartesio nei termini della sua geometria. Tra il luogo
e lo S., Cartesio poneva una differenza solo nominale in quanto «il luogo segna
più espressamente la situazione che la grandezza o la figura e in quanto al
con- trario pensiamo più a queste quando parliamo dello S.». Ma le due cose
sono identiche: « Se diciamo che una cosa è in un tal luogo intendiamo solamente
che è situata in tal modo rispetto ad altre cose; ma se aggiungiamo che occupa
un tale S. o un tal luogo, intendiamo inoltre che essa è di una tale grandezza
e di una tale figura che può riem- pirlo esattamente» (Princ. Phil., II, 14).
Cartesio conseguentemente negava l’esistenza del vuoto (/bid., II, 16); come la
negava Spinoza che condivideva la stessa concezione dello S. (Ez., I, 15,
scol.). Leibniz a sua volta difendeva questa concezione contro Newton e i
newtoniani. «Se lo S. è una proprietà o un attributo, egli diceva, dev’essere
la proprietà di qualche sostanza. Lo S. vuoto limitato, che i suoi sostenitori
suppongono tra due corpi, di quale sostanza sarebbe la proprietà o l’affe- zione?
» (IV° Lettre à Clarke, 8; Op., ed. Erdmann, pag. 756). Ma la vecchia
concezione trovava in Leibniz una nuova e felice espressione: l’espres- sione
in termini della nozione di ordine, che doveva rimanere classica. « Io ritengo
lo S., diceva Leibniz (polemizzando contro Newton e i newtoniani) come qualcosa
di puramente relativo, allo stesso modo del tempo cioè come un ordinè delle
coesistenze, al modo in cui il tempo è un ordine delle successioni. Giacchè lo
S. contrassegna in termini di possibilità un ordine di cose che esistono nello
stesso tempo, in quanto esistono insieme, senza entrare nei loro modi di
esistere» (///° Lettre à Clarke, 4; Op., ed. Erdmann, pag. 752). La definizione
di Leibniz veniva ripresa da Wolff (Ontol., $ 589), e da Baum- garten (Mer., $
239). Kant stesso nei primi scritti la difende e dichiara di abbandonarla
soltanto nel 1768 nello scritto Su/ primo fondamento della distinzione delle
regioni nello spazio. In questo scritto egli dichiara insufficiente la
concezione dello S. come ordine delle coesistenze: « Le posi- zioni delle parti
dello S. in relazione tra loro, egli dice, presuppongono la regione secondo la
quale esse sono ordinate in tale relazione; e intesa nel modo più astratto la
regione non consiste nella relazione che una cosa ha con un’altra nello S. (il che
propriamente costituisce il concetto di posi- zione) ma nel rapporto del
sistema di queste posi- zioni con lo S. cosmico assoluto ». Tuttavia, la concezione
posizionale dello S. non viene mai completamente abbandonata dal pensiero
filosofico posteriore. Essa sembra presupposta, per quanto può rilevarsi dal
carattere generico e confuso dei concetti adoperati, dalle teorie idealistiche
dello S. (v. oltre). Ed ha trovato una difesa energica e e che questo S. è
infinito (F7., 38-40, Diels). Epicuro ereditò questa concezione (Lettera a
Erodoto; cfr. Dioc. L., X, 67), che veniva difesa da Lu- crezio Caro (De nat.
rer., I, 950 sgg.). La stessa concezione dello S. era condivisa dagli Stoici,
in particolare da Zenone (Diog. L., VII, 140). Obliterata per lungo tempo dalla
concezione ari- stotelica, questa dottrina torna a riaffacciarsi nel Rinascimento.
Telesio afferma che lo S. deve poter essere il ricettacolo di qualsiasi cosa,
in modo tale che sia che le cose gli siano dentro, sia che se ne allontanino,
esso rimanga identico e accolga pron- tamente tutte le cose che si succedono in
esso e sia nello stesso tempo tanto grande quanto lo sono le cose che vi
trovano posto. Lo S. è quindi infinito e incorporeo: l’esistenza del vuoto è un
fatto di esperienza (De rer. nat., I, 25). L'infinità dello S. veniva nello
stesso senso difesa da Giordano Bruno (De l’infinito, universo e mondi, I).
Questa concezione dello S. prevalse nella scienza per opera di Newton. Diceva
Newton: « L’asso- luto S., per sua natura propria, senza relazione a qualcosa
di esterno, rimane sempre simile ed im- mobile. Lo S. relativo è la dimensione
mobile o la misura dello S. assoluto; e i nostri sensi lo deter- minano
mediante la sua posizione rispetto ai corpi ed è spesso scambiato per lo S.
immobile; tale è la dimensione di un sotterraneo, uno S. aereo ce- leste,
determinato dalla sua posizione rispetto alla terra. Lo S. assoluto e relativo
sono identici in figura e grandezza ma non rimangono sempre nu- mericamente gli
stessi. Perchè se la terra, ad es., si muove, uno S. della nostra aria il
quale, relati- vamente, rispetto alla terra, rimane sempre lo stesso, sarà, ad
un dato tempo, parte dello S. assoluto che l’aria attraversa e ad un altro
tempo sarà un’altra parte dello stesso S. » (Philosophiae naturalis principia
mathematica, 1687, I, def. 8, scol.). La polemica di Leibniz contro questa
dottrina non valse a impedirne il successo. Circa un secolo dopo Eulero diceva:
« Supponiamo che tutti i corpi, che si trovano ora nella mia camera, compresa
l’aria, siano annientati dall’onnipotenza divina. Otter- remo allora uno S.
che, pur avendo la stessa lun- ghezza, larghezza e profondità di prima, non
con- tiene più alcun corpo. Ecco dunque, quanto meno, la possibilità di
un’estensione che non è un corpo. Un simile S. senza corpo è chiamato vuoto: un
vuoto è dunque un’estensione senza corpo + (Lettres d une Princesse
d°Allemagne, 69, del 21-x-1760; trad. ital., pag. 228). Si è già visto come la
nozione newtoniana dello S. abbia finito per prevalere (forse per influenza
dello stesso Eulero) nella dot- trina di Kant. Essa prevalse allo stesso modo
in tutta la fisica dell’800 per quanto incontrasse fre- quenti critiche quella
parte di essa che si riferisce allo S. assoluto. Clerk Maxwell affermava che «
tutta la nostra conoscenza, sia del tempo che dello S., è essenzialmente
relativa » (Matter and Motion, Dover publ., pag. 12). Mach parlava della
«mostruo- sità concettuale dello S. assoluto » (Die Mechanik in ihrer
Entwicklung, 1883; 78 ediz., 1921, pag. X). Questa teoria dello S. fu tuttavia
assunta o pre- supposta dalla fisica sino ad Einstein. c) La terza concezione
fondamentale dello S. è quella che Einstein ha fatto prevalere nella fisica contemporanea.
A prima vista, e specialmente con- siderando soltanto la relatività speciale,
la dottrina einsteiniana dello S. costituisce un ritorno alla teoria classica
dello S. come posizione o luogo. Dice Einstein a questo proposito: « Il nostro
S. fi- sico, così come lo concepiamo per il tramite degli oggetti e del loro
moto, possiede tre dimensioni e le posizioni vengono caratterizzate da tre
numeri. L’istante in cui si verifica l'evento è il quarto nu- mero. Ad ogni
evento corrispondono quattro nu- meri determinati ed un gruppo di quattro
numeri corrisponde ad un evento determinato. Pertanto il mondo degli eventi
costituisce un continuo quadri- mensionale » (ErsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics,
III; trad. ital., pag. 217). In questo con- cetto di S., la novità sembra
costituita esclusiva- mente dall’aggiunta della coordinata temporale alle
coordinate con cui Cartesio definiva lo S. stesso. sia la materia (ponderabile
o imponderabile) sia lo S.» (M. K. MUNITZ, Space, Time and Creation, 1957, VII, 1; trad. ital., pa-
gina 112-13). Paradossalmente, perciò, la più ag-
giornata concezione dello S. non è che la rinuncia implicita al concetto di S.
e l’avviamento all’uso di altri concetti, meno legati ad astrazioni tradi-
823zionali e più adatti a descrivere i risultati della osservazione. 2° Il
problema della realtà dello S. ha dato luogo a tre differenti soluzioni: a) la
tesi della realtà fisica o teologica dello S.; 5) la tesi della soggettività
dello S.; c) la tesi che lo S. è indifferente al problema della realtà o
irrealtà. a) La tesi della realtà fisica o teologica dello S. è propria della
filosofia antica. Sia che concepis- sero lo S. come luogo o posizione, sia che
lo conce- pissero come recipiente, gli antichi credevano alla realtà dello S. e
lo ritenevano un elemento o una condizione del mondo oppure un attributo di
Dio. Mentre per Platone, per Aristotele e per gli Epicurei lo S. è un costituente
del mondo, per i Neoplato- nici diventa Dio stesso. Questa concezione è attri-
buita da Sesto Empirico ai Peripatetici: « Sembra che per i Peripatetici, il
primo Dio è il luogo di tutte le cose. Infatti, secondo Aristotele, il primo
Dio è il limite dei cieli.. E dal momento che il limite dei cieli è il luogo di
tutte le cose dentro i cieli, Dio sarà il luogo di tutte le cose» (Adv.
Mathem., II, 33). La filosofia giudaica alessandrina fa sua questa concezione,
che ricorre ancora nei libri della Kabala. Nel sec. xvi fu accettata da
Campanella (De sensu rerum, I, 12); da Henry More (Enchiridion Metaphysicum, 1,
8) e da Spinoza che concepì l’estensione come un attributo di Dio ed affermò
pertanto che « tutto ciò che è, è in Dio » (Et., I, 15). Newton stesso parlò
dello S. come del sensorium cioè dell'organo mediante il quale Dio muove le
cose (Opticks, III, q. 31; Dover publ., pag. 403): un concetto che fu a lungo
criticato da Leibniz nelle sue lettere a Clarke e fu accettato nel sec. xvIn da
parecchi scrittori compreso lo stesso Clarke. Come ultima manifestazione di
questo punto di vista si può considerare la dottrina di S. Alexander, secondo
la quale lo S. e il tempo sono la sostanza stessa dell’universo e di Dio e
stanno tra loro nello stesso rapporto in cui il corpo è con lo spirito. Da
questo punto di vista, lo S. infatti sarebbe il « corpo » dell’intera realtà,
quindi di Dio stesso che è al culmine della realtà (Space Time and Deity,
1920). b) La tesi della soggettività dello S. fu avan- zata per la prima volta
da Hobbes che definì lo S. come « l’immagine della cosa esistente in quanto
esistente cioè in quanto non si considera di essa altro accidente se non il suo
apparire al di fuori del soggetto immaginante » (De Corp., VII, $ 2). L’analisi
che Locke fece dello S. come di un’idea complessa di modo ha anch’essa per
presupposto la riduzione dello S. a un’idea (Saggio, II, 13, 2): riduzione che
è ancora più radicale in Berkeley, per la polemica che egli conduce contro il
concetto newtoniano dello S.: « La considerazione filosoficaè una percezione ma
una «intuizione a priori» o «intuizione pura» cioè la condizione di ogni
possibile intuizione esterna. Così inteso esso corrisponde esattamente allo «S.
assoluto » di Newton: questo era inteso dallo stesso Newton come il sensorio di
Dio; da Kant è inteso come il sensorio del soggetto conoscente, cioè la
condizione assoluta della possibilità degli oggetti esterni. Nella filosofia
moderna e contemporanea la tesi della soggettività dello S. assume la forma del
carattere . apparente o illusorio dello S. stesso. Idealismo e spiritualismo
insistono su questa tesi. Già Hegel affermava che « Lo S. è una mera forma,
cioè un’astrazione, e cioè quella della esteriorità immediata » (Enc., $ 254):
il che tuttavia non gli impediva di cercare una dimostrazione razionale della
necessità delle tre dimensioni dello S. (/b., $ 255). L’idealismo di
ispirazione hegeliana consi- dera lo S. una semplice apparenza (cfr. BRADLEY,
Appearance and Reality, 1893; GENTILE, Teoria generale dello spirito, 1916,
cap. IX). E lo spiritua- SPAZIO VITALE lismo si mette sulla stessa via vedendo,
con Bergson, per una soluzione po- sitiva di questo problema, optando i più di
essi per la geometria euclidea, il carattere provvisorio e parziale di queste
risposte mostra, meglio di ogni altra cosa, l'impossibilità di risolvere la
questione e avvia perciò all'adozione del punto di vista che prescinda da essa.
Si può allora affermare che sol- tanto motivi di opportunità scientifica
suggeriscono l’uso di un particolare schema geometrico per la descrizione di un
determinato campo di fenomeni. Dice M. K. Munitz a questo proposito: « Potrà
es- sere più conveniente e fecondo usare uno schema metrico piuttosto che un
altro, ma non possiamo dire che sono i fatti a spingerci a farlo. Il problema è
questo: l’adozione di un valore particolare per la curvatura, preso in
congiunzione con il resto della teoria, ci permette di fare inferenze corrette
da dati fatti ad altri fatti? Nella misura in cui l’esattezza nell’ambito dei
fatti osservabili inferiti, è maggiore quando sono stabiliti mediante una
teoria con la sua metrica associata piuttosto che con altre teorie, in quella
misura possiamo dire che ‘la metrica dell’universo è così e così ”.
Quest’ultima espressione tuttavia non è che una maniera sbrigativa di accen-
nare alla superiorità relativa di una data teoria o modello dell’universo »
(Space Time and Creation, VII, $ 4; trad. ital., pag. 133). SPAZIO VITALE. V.
Campo. SPECIE (gr. el3oc; lat. Species; ingl. Kind, Species; franc. Espèce;
ted. Art, Species). 1. Un concetto in quanto è parte o elemento di un altro
concetto. In questo senso la parola fu comunemente adoperata da Platone (cfr.
Sof., 235d, Teer., 178 a, ecc.) e da Aristotele (Mer., X, 7, 1057b 7; Car. 2b
7, ecc.). Ed in questo senso la nozione di S. fu illustrata nell’Isggoge di
Porfirio, che ne dà la definizione seguente: « La S. è ciò che è situato sotto
il genere e a cui il genere è attribuito essenzial- SPECULAZIONE mente ».
Porfirio aggiunge: «La S. è l’attributo che si applica essenzialmente a una
pluralità di termini che differiscono specificamente tra loro + osservando però
che quest’ultima definizione si applica solo alla «S. specialissima » che
precede immediatamente l’individuo, per es., al concetto di uomo (/sag., 4, 10
sgg.). Il concetto di S. è rimasto in questo senso immutato in tutta la logica
tradi- zionale, sino a quando, con l’affermarsi della logica matematica, è
stato sostituito dal concetto di classe (v.). Nel dominio della biologia, il
termine ha avuto, per un certo tempo, un significato corrispondente a quello
ora descritto, intendendosi per S. un tipo biologico ben definito da
caratteristiche ereditarie, in quanto subordinato a un altro tipo più esteso
(genere). Ma nella biologia contemporanea i concetti di genere e S. hanno perso
ogni riferimento ai signi- ficati tradizionali e per S. s’intende semplicemente
una classe d’individui i cui accoppiamenti dànno luogo a individui fertili; il
che non accade per ibridi nati da accoppiamenti tra individui apparte- nenti a
S. diverse (C. PINCHER, Evolution, 1950, pag. 21; KaLMus, Variation and
Heredity, 1957, pag. 29). 2. Lo stesso che idea nel senso platonico (v. IDEA).
3. Lo stesso che forma nel senso aristotelico (v. FORMA). 4. In relazione con
il significato 3 e nel linguag- gio della scolastica medievale la S. è
l’intermediaria della conoscenza: cioè l’oggetto proprio della sen- ce della
similitudine, che farebbe da intermediaria tra l’oggetto e la potenza
conoscitiva umana, domina il periodo classico della scolastica: è accettata da
Bonaventura (/n Sent., II, d. 39, a. 1, q.2) e da Duns Scoto (Op. Ox., I, d.3,
q.7, n. 2, 3, 20). Ma essa venne abbandonata dalla scolastica del sec. xIv.
Durando di Pourcain (In Sent., II, d.3, q. 6, n. 10) e Pietro Aureolo (In
Sent., I, d.9, a. 1) negano senz’altro l’esistenza della S. e affermano che
l’oggetto della conoscenza è la cosa stessa. Questa dottrina è ribadita da
Ockham con molta energia e con l’argomento che se la S. fosse l’oggetto
immediato del conoscere la conoscenza non sarebbe conoscenza dell’oggetto ma
della sua immagine, al modo in cui la statuadi Ercole non condurrebbe alla
conoscenza di Ercole nè permetterebbe di giudicare della sua somiglianza con
lui, se non si conoscesse Ercole stesso (/n .Senz., II, q.14, T). Il punto di
vista che ha permesso a questi scolastici di abbandonare la nozione della S. è
quello della in- tenzionalità (v.) del conoscere, per la quale l’atto del
conoscere è un rapporto con l'oggetto in persona. Tuttavia, la dottrina
cartesiana dell'idea come og- getto immediato della conoscenza si può conside-
rare, sotto un certo rispetto, come la ripresa della nozione scolastica della
S. (v. IDEA). SPECIFICAZIONE (ingl. Specification; fran- cese Spécification;
ted. Spezifikation). Kant ha chia- mato «legge trascendentale di S.» la regola
che «impone all’intelletto di cercare sotto ogni specie che ci viene innanzi un
certo numero di sottospecie e per ogni differenza un certo numero di differenze
minori + (Crit. R. Pura, Appendice alla Dialettica trascendentale). Questa
legge ha il suo corrispon- dente simmetrico in quella della omogeneità (v.) secondo
la quale il molteplice va continuamente riportato sotto generi superiori; ed
entrambe queste leggi poi confluiscono in quella della affinità (v.) di tutti i
concetti che permette il passaggio continuo da un concetto all’altro (/bid.).
Il principio della S. fu chiamato da Hamilton « Legge di eterogeneità + {v.
OMOGENEITÀ). Kant parlò pure di una «legge della S. della natura » secondo la
quale la natura « specifica le sue leggi generali secondo il principio di una
finalità relativa alla nostra facoltà di conoscere. Ma questa legge appartiene
alla sfera del giudizio riflettente cioè non è costitutiva della natura ma
semplicemente prescrive una regola per la sua interpretazione» (Crit. del
Giud., Intr., in se stessa, sicchè la felicità è una specie di S.+ (Er. Nic.,
X, 8, 1178 b 28). Questa esaltazione della S. che costituisce uno dei modi
fondamentali d’intendere la funzione della filosofia (v.) fu ereditata
soprattutto dal misticismo neoplatonico. Plotino ridusse alla S. ogni altra
attività e affermò che la stessa generazione delle cose naturali è S.:
s’intende, S. di Dio (Enn., III, 8, 5). Dal misticismo medievale la S. viene
identi- ficata con la contemplazione, che è il grado più alto dell’ascesa
mistica prima dell’estasi (cfr. Ric- CARDO DI SAN VITTORE, De Contemplatione,
I, 3); ma S. Tommaso la identifica con la meditazione che è il grado precedente
(S. 7A., II, 2, q. 180, a. 3, ad 2°). In tutti questi usi tuttavia il
significato di contemplazioe il terzo momento della dialettica, cioè il momento
della sintesi nel quale si ha «l’unità delle determinazioni nella loro
opposizione +. Questa unità significa che « la filosofia non ha da fare con
mere astrazioni o con pensieri formali, ma solamente con pensieri concreti »
cioè con pensieri che sono nello stesso tempo realtà vere e proprie (/bid., $
82). Inoltre è proprio della filosofia speculativa la dimo- strazione della
necessità dei suoi oggetti (Enc., $ 9). SPERANZA Sicchè l’aggettivo speculativo
rimane a indicare per Hegel il punto di vista che considera la realtà come
razionalità, la razionalità come reale, ed entrambe come necessità. L’aggettivo
che Kant adoperava a designare ciò che è al di là dell’espe- rienza possibile,
quindi della conoscenza effettiva, viene adoperato da Hegel per designare la cono-
scenza effettiva che, in quanto tale, è al di là dell’esperienza e delle
separazioni che in essa appaiono. I significati di S. e di speculativo sono
rimasti fissati da questa alternativa. S’intende per S. una conoscenza che non
trova fondamento o giusti- ficazione nell’esperienza o nell’osservazione; e
questo è da un lato motivo per dichiarare illusoria o chimerica una tale
conoscenza, dall’altro (ma sempre più raramente) motivo per ritenerla su-
riore. SPERANZA (ingl. Hope; franc. Espérance; ted. Hoffnung). 1. Una delle
emozioni fondamentali (v. EMOZIONE). 2. Una delle virtù teologali (v. VIRTÙ).
SPERIMENTALE (ingl. Experimental; fran- cese Expérimental; ted. Experimentell).
L'aggettivo ha significati analoghi a quelli del corrispondente sostantivo e cioè
designa: 1° ciò che fa uso dell’espe- rimento cioè dell’osservazione
controllata. In tal senso si dice: « scienze S.+, « medicina S.+ (cfr. il
titolo dell’opera famosa di C. BERNARD, /ntroduction à l’étude de la médecine
expérimentale, 1865), ecc.; 2° ciò che fa uso dell’esperienza e in tal caso
l’ag- gettivo è equivalente ad empirico. SPERIMENTALISMO (inglese Experi-
mentalism; franc. Expérimentalisme; ted. Experi- mentalismus). Altro nome del
pragmatismo o dello strumentalismo. In Italia il termine è stato adottato da A.
Aliotta per designare la dottrina seguente: «Il solo fatto concreto,
verificabile di cui possiamo parlare è l’esperienza più o meno cosciente che un
individuo ha del mondo. Non ha senso discutere di elementi di dati, prima o
fuori di questa sintesi + («Il mio S.», 1929, in // nuovo positivismo e lo S.,
1954). SPIEGAZIONE (ingl. Explanation, Explica- tion; franc. Explication; ted.
Erklarung). In gene- rale, ogni procedimento diretto a determinare il perchè di
un oggetto, a rendere un discorso o una situazione chiara e accessibile
all’intendimento o a eliminare da una situazione difficoltà e conflitti. Il
termine già usato da Cicerone in questo senso (De Fin., III, 4, 14; De nat.
deorum, III, 24, 62; ecc.) fu ripreso da Cusano nel senso di mani- festazione:
« Dio è la complicazione di tutte le cose perchè tutte le cose sono in lui; ed
è l’esplicazione di tutte le cose in quanto egli è in tutte le cose» (De docta
ignor., II, 3). Sotto la metafora dello SPIEGAZIONE « spianare +, « distendere
» o « rendere esplicito », il termine nasconde tuttavia una molteplicità di si-
gnificati che si possono distinguere tra loro a se- conda delle situazioni cui
fanno riferimento. Si ha allora che: 1° nei confronti di un termine, spiegare
signi- fica determinare il significato del termine, cioè interpretarlo (v.
INTERPRETAZIONE); 2° nei confronti di un enunciato analitico, spiegare
significa sostituire all’enunciato in que- stione un enunciato meno vago o più
esatto o, dove è possibile, proprio di un linguaggio formaliz- zato (CARNAP,
Meaning and Necessity, $ 2); 3° nei confronti di una situazione umana di
conflitto, spiegare significa eliminare le cause o i motivi del conflitto
stesso; 4° ilosofica e scientifica (v. CAUSALITÀ); e cioè: a) il concetto della
causalità come deducibilità; b) il concetto della causalità come uniformità.
Poichè entrambi questi due concetti della causalità pretendono di rendere
possibile una previsione infallibile, per schema di S. causale si può intendere
in generale ogni tecnica che consente la previsione infallibile di un oggetto.
Ma poichè la previsione infallibile è possibile solo quando si tratta di
oggetti necessari, cioè tali che non possono non essere o non possono essere
di- versamente da come sono, la S. causale è in ogni caso la dimostrazione
della necessità del suo og- getto. Da questo punto di vista affermare «x è
stato spiegato » significa affermare «x è stato di- mostrato nella sua
necessità » e perciò «x era in- fallibilmente prevedibile ». Su questa base
comune, si possono distinguere: «@) la tecnica esplicativa causale che fa
appello alla deducibilità; 5) la tec- nica esplicativa causale che fa appello
all’uniformità. a) La tecnica esplicativa che fa appello alla deducibilità è
quella della metafisica classica e in primo luogo di Aristotele. Per quanto
Aristotele abbia distinto quattro specie di cause, egli rico- 827 nosce agli
effetti della S., il primato della causa finale come ragion d’essere o sostanza
o forma del- l’oggetto (De Part. An., I, 1, 639 b, 14; 642 a, 17; cfr.
CausALITÀ). La S. finalistica è, da questo punto di vista, la prima e
fondamentale; e coincide con quella che con termini moderni si chiama S. gene-
tica giacchè questa fa appello alla causa efficiete, che in ultima analisi
coincide con la causa finale. In questo senso, la S. causale si identifica con
la dimostrazione (v.) in quanto è dimostrazione della necessità. E Hegel non
faceva che ripetere su questo punto l’insegnamento di Aristotele quando affer-
mava essere compito della filosofia speculativa «la dimostrazione della
necessità» e vedeva in questa sola l’appagamento del bisogno proprio della ra-
gione. Ma questo concetto della S. non è soltanto proprio della metafisica: è
stato frequentemente riferito alla scienza stessa. E. Meyerson mentre affermava,
contro l’analisi positivistica della scienza, che la scienza non cerca solo la
previsione ma la S. dei fenomeni, riduceva la S. stessa all’identi- ficazione,
perchè solo l’identificazione permette la deduzione del fenomeno. «Noi
dobbiamo, egli dice, in virtù della causa o ragione e con l’aiuto di una pura
operazione di ragionamento, poter concludere al fenomeno. È ciò che si chiama
una deduzione. La causa, allora, può definirsi come il punto di partenza di una
deduzione di cui il fenomeno è il punto di arrivo » (De l’explication dans les
sciences, 1927, pag. 66; cfr. Identité et realité, 1908). D'altronde lo stesso
positivismo aveva assegnato la S. al dominio della deduzione. Dice Stuart Mill:
« Si dice che un fatto individuale è spiegato quando si indica la sua causa
cioè la legge o le leggi di causazione di cui la sua produ- zione è un
esempio... E similmente una legge o uniformità di natura si dice spiegata
quando si inon, 1965, pag. 247 sgg.). Questa dottrina della S. è pole-
micamente orientata contro la riduzione della S. a princìpi o elementi
familiari, alla quale invece fanno ricorso i seguaci del secondo tipo di S.
causale (/bid., pag. 257). Questa stessa dottrina è stata estesa da Hempel al
campo della storia (« The Function of General Laws in History +, 1942; ora nel
vol. cit. pag. 231-243): ed Hempel stesso ha insistito sull’esigenza che la S.
causale sia accom- pagnata dalla predizione infallibile del fenomeno spiegato
(/bid., pag. 38). Ma è stato giustamente osservato che la sua intera teoria
della S. può essereadatta alla fisica newtoniana ma è completamente incapace di
dar conto di ciò che si deve intendere per S. nella fisica quantica (N. R.
Hanson, « On the Symmetry between Explanation and Prediction », in The
Philosophical Review, 1959, pag. 349-58). A maggior ragione questo tipo di S.
non può essere ritenuto adeguato nel dominio della storia e in gene- rale delle
scienze che concernono l’uomo (v. oltre). b) Il secondo tipo di S. causale è
quello che ricorre al concetto di causa come uniformità di connessione dei
fenomeni tra loro. È questo il concetto che fu introdotto da Hume e che Comte
pose a base della S. « positiva » dei fenomeni stessi. Comte contrappose al
tentativo metafisico di sco- prire «i modi essenziali di produzione» dei feno-
meni il compito puramente descrittivo della scienza positiva che si limita a
scoprire le /eggi dei feno- meni cioè i loro rapporti costanti (Cours de phil.
po- sitive, 48 ediz., 1887, II, pag. 169, 268, 312, ecc.). Nello stadio
positivo, diceva Comte, «la S. dei fatti, ridotta ai suoi termini reali non è
più che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti
generali di cui il progresso della scienza tende sempre più a diminuire il
numero» (/bid., I, pag. 5). Questo punto di vista ereditava la con-
trapposizione stabilita dagli illuministi, e special- mente da D’Alembert, tra
lo spirito di sistema e la descrizione scientifica della natura. Esso è assai
meno ambizioso dell’altro perchè fa appello non alla deducibilità di un fenomeno
(o della sua descrizione) dalla sua causa (o da un complesso di leggi generali)
ma piuttosto alla uniformità o SPIEGAZIONE costanza del rapporto tra fenomeni e
perciò alla riduzione del fenomeno da spiegare a tali rapporti costanti. È
questo il valore dato, ad es., alla tec- nica esplicativa causale da P. W.
Bridgman: « L’es- senza di una S. causale consiste nel ridurre una situazione
ad elementi a noi talmente familiari che possiamo accettarli come cosa ovvia e
spegnere la nostra curiosità. Ridurre una situazione in ele- menti significa,
dal punto di vista operativo, scoprire correlazioni familiari tra i fenomeni di
cui la situa- zione è composta » (The Logic of Modern Physics, 1927, cap. II;
trad. ital., pag. 50). In senso analogo R. B. Braithwaite ha detto: « Quando si
chiede la causa di un evento particolare, ciò che si richiede è la
specificazione dell’evento precedente o simul- taneo, il quale, in congiunzione
con alcuni fattori causali che hanno natura di condizioni permanenti, è
sufficiente a determinare l’accadimento dell’evento da spiegare in accordo con
una legge causale, in uno dei significati consuetudinari di legge causale +
(Scientific Explanation, 1953, pag. 320). Poichè per leggi causali Braithwaite
intende le generalizza- zioni empiriche le quali asseriscono concomitanze di
successione o di simultaneità (/bid., cap. IX), una S. che sia «conforme a una
legge causale » è una S. che fa riferimento ad un’uniformità empi- ricamente
constatata. Questo punto di vista si trova variamente ripetuto nella filosofia
contemporanea anche se non sempre viene nettamente distinto da quello
precedente. B) Le tecniche esplicative causali, sia quella fondata sulla dati.
Un'ipotesi trascendentale in cui, per la S. delle cose naturali, si adoperasse
una semplice idea della ragione, non sarebbe affatto una S., perchè ciò che non
s’intende abbastanza con princìpi empirici sarebbe spiegato con qualcosa di cui
non s'intende addirittura nulla » (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. I,
sez. 3). Ma è soprattutto nel campo della metodologia sto- rica che questo tipo
di S. è stato elaborato, e il primo a introdurlo in modo esplicito è stato Max
Weber. «La considerazione del significato causale di un fatto storico, egli
scriveva, comincerà innanzitutto con la questione seguente: se escludendolo dal
complesso di fattori assunti come condizionanti oppure mutandolo in un
determinato senso, il corso degli avvenimenti avrebbe potuto, in base alle re-
gole generali dell’esperienza, assumere una dire- zione in qualche modo
diversamente configurata, nei punti decisivi per il nostro interesse». Se si
può rispondere di sì a questa domanda, il fatto in questione sarà da
considerare uno dei fattori condizionanti del processo storico; se si risponde
di no, sarà da escludere da tali fattori (Kritische Studien auf dem Gebiet der
kulturwissenschaftlichen Logik, 1906, II; trad. ital., in // metodo delle
scienze storico-sociali, pag. 223). La moderna metodologia della storia è
unanime nell’abbandono degli schemi di S. causale e nell’accettazione di uno
schema condizionale, per quanto esso sia variamente confi- gurato dai singoli
metodologi. Quando K. Popper osserva alla dottrina di Stuart Mill sulla natura
della S. che « Mill e i suoi compagni storicisti non consi- derano che le
tendenze generali dipendono dalle condizioni iniziali e trattano tali tendenze
come se fossero leggi assolute », mentre la spiegazione deve tener conto, per
quanto è possibile delle « condizioni nelle quali esse persistono » (The
Poverty of Histo- ricism, 1944, $ 28) egli cerca di trasformare lo schema
causale in uno schema condizionale. Ma la migliore formulazione dello schema
condizionale, in riferimento all’uso che se ne può fare nelle di- scipline
storiche, può essere forse considerata quella di W. Dray. «L'esigenza della S.,
dice Dray è, in alcuni contesti, sufficientemente soddisfatta se si mostra che
ciò che è accaduto era stato possibile e non c'è bisogno di mostrare inoltre
che esso era necessario. Per quanto, spiegare una cosa, come il professor
Toulmin dice, significa spesso ‘ mostrare che essa poteva essere attesa” [The
Place of Reason in Ethics, 1950, pag. 96], il criterio appropriato per
un’importante dominio di casi è più largo di questo; per spiegare una cosa
basta, talvolta, mo- strare che essa non doveva causare sorpresa » (Laws and
Explanation in History, 1957, pag. 157). Dray contrappone questo schema
esplicativo che egli chiama del come-possibilmente (how-possibly) a quello
causale del perchè-necessariamente (why- necessarily) in quanto i due schemi
sono logica- mente diversi e rispondono a due specie diverse di domande sicchè
«nel caso della spiegazione come-possibilmente esigere un insieme di condizioni
sufficienti, sarebbe mutare la questione» (/bid., pag. 169). Questo punto di
vista che è stato ela- borato nei confronti delle discipline storiche è
tuttavia egualmente adatto ad intendere la natura della S. che ricorre ora
nell’ambito delle scienze 829 naturali e specialmente della più avanzata di
esse che è la fisica quantica. Mancando anche in questa, con la condizione
della prevedibilità infallibile, la connessione causale necessitante, l’unico
schema possibile di S. è quella condizionale che si limita a determinare Ja
possibilità dell’explanandum. In tal senso, si può dire che la S. è la
determinazione della possibilità determinata e controllabile dell’og- getto;
dove determinata significa individuata e ri- conoscibile con un metodo o
procedimento ap- propriato e, talvolta, misurabile secondo uno schema di
probabilità; e controllabile significa ripetibile in condizioni adatte
(ABBAGNANO, Possibilità e li- bertà, 1957, VI, $ 4-5; Problemi di sociologia,
1959, VIII, $ 1-5). È da osservare infine che Jo stesso procedimento della S.
logica, quale è stato descritto da Carnap e Reichenbach cade sotto la categoria
della S. condi- zionale. Secondo Carnap, la S. consiste nel sostituire a un
termine originario chiamato explicandum, che è un concetto vago o familiare, un
nuovo concetto esatto, che Carnap chiama explicatum e Reichenbach explicans.
Posto ciò, una S. consiste, secondo Rei- chenbach, nel determinare il
significato del termine e il significato si riduce a una possibilità o logica o
fisica o tecnica, ma in ogni caso ad una possi- bilità (REICHENBACR, «
Verifiability Theory of Mea- ning », in Proceedings of the American Academy of
Arts and Sciences, 1951, pag. 46 sgg.; CARNAP, Meaning and Necessity, $ 2) (v.
PossiBILE; SIGNIFI- CATO; VERIFICAZIONE). SPINOZISMO (ingl. Spinozism; franc.
Spino zisme; ted. Spinozismus). La dottrina di Benedetto Spinoza (1632-77) nei
punti salienti che la tradi- zione storica le ha riconosciuti e che possono
essere riassunti così: 1° l’unicità della sostanza del mondo e la sua
identificazione con Dio, per la quale Spi- noza indica la sostanza stessa con
l'espressione « Deus sive natura »; 2° l’ateismo o come altri dice (con Hegel)
l’acosmismo (v.) secondo il quale Dio è il principio e l’ordine del mondo; 3°
il necessi- tarismo, secondo il quale tutte le cose derivano con assoluta
necessità dalla sostanza divina; 4° il geometrismo cioè l’affermazione del
carattere geo- metrico della necessità cosmica, sulla quale si mo- della il
metodo geometrico della filosofia; 5° la riduzione della libertà umana al
riconoscimento e all’accettazione della necessità dell'ordine cosmico; 6° la
difesa della libertà filosofica e religiosa del- l’uomo fondata sulla riduzione
della fede religiosa all’obbedienza (v. FEDE). SPIRITI ANIMALI O VITALI. V.
PNEUMA. SPIRITISMO (ingl. Spiritism; franc. Spiritisme; ted. Spiritismus). La
credenza in fenomeni mentali o naturali che non si lasciano spiegare nel modo
ordinario o scientifico e siano da attribuirsi all’azione di spiriti, siano
essi anime di defunti o potenze angeliche o demoniache (v. METAPSICHICA).
SPIRITO (ingl. Mind, Spirit; franc. Esprit; ted. Geist). Si possono distinguere
i seguenti si- gpificati: 1° L’anima razionale o l'intelletto (v.)in generale;
questo è il significato prevalente nella filosofia mo- derna e contemporanea e
nel linguaggio comune. 2° Lo pneuma (v.) o soffio animatore, ammesso dalla
fisica stoica e da essa passato a varie dottrine antiche e moderne. Questo è il
significato originario del termine dal quale tutti gli altri sono derivati.
Ancora questo significato rimane nelle espressioni in cui S. sta per «ciò che
vivifica». Kant usò il termine in questo senso nella sua teoria estetica. «S.,
egli disse, nel significato estetico è il principio vivificante del sentimento.
Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è
ciò che conferisce slancio finalistico alla facoltà del sentimento e la pone in
un giuoco che si ali- menta di sè e fortifica le facoltà stesse da cui ri-
sulta » (Crir. del Giud., $ 49; Antr., $ 71 b). In questo senso la parola S. è
rimasta nell’uso corrente in cui viene talora contrapposto alla «lettera», per
indicare ciò che dà vita o, fuor di metafora, il si- gnificato autentico di
qualcosa. In questo senso venne anche adoperata da Montesquieu nel titolo della
sua opera Lo S. delle leggi. 3° Le sostanze incorporee cioè gli angeli, i
demoni e le anime dei defunti. In questo senso Locke adoperava la parola spirit
(riservando mind a S. nel significato 1°) e diceva: « Eccettuando alcune
pochissime idee che otteniamo mediante la riflessione e tutto ciò che possiamo
mettere insieme da esse circa il Padre di tutti gli S., l’eterno e in-
dipendente autore di essi e nostro e di tutte le cose, persino dell’esistenza
di altri S. non abbiamo in- formazione certa se non per via di rivelazione »
(Saggio, IV, 3, 27). E Kant nei Sogni di un visionario chiariti con sogni della
metafisica (1766) intendeva Geist nello stesso senso: « Uno S., si dice, è un
essere che ha la ragione. Non è dunque un dono miracoloso vedere S. giacchè
chiunque vede uomini vede esseri che hanno la ragione. Ma, si prosegue,
quest’essere che nell’uomo ha la ragione è soltanto una parte dell’uomo; e
questa parte, che lo vivi- fica, è uno S.» (7rdume eines Geistersehers, I, 1).
Come Locke, Kant è scettico sull’esistenza dello S. in questo senso e in ogni
caso ritiene impossibile dimostrarla. Anche in questo senso la parola S. è
rimasta nell’uso corrente (v. ANGELI; DEMONE; SPIRITISMO). 4° La materia
sottile o impalpabile che è la forza animatrice delle cose. Questo significato,
de- rivato da quello stoico, si trova frequentemente nei maghi del Rinascimento
e soprattutto in Agrippa SPIRITO (De occulta philosophia, I, 14) e in Paracelso
(Meteor., pag. 79 sgg.). 5° Infine, e in rapporto più stretto con il si-
gnificato 1° il termine significa talvolta disposi. zione (v.) o atteggiamento
(v.): come nelle celebri espressioni di Pascal «S. di geometria» e «S. di
finezza » e in espressioni correnti come «S. reli- gioso », « S. sportivo»,
ecc. Di questi cinque significati il solo che sia stret- tamente collegato alla
problematica della filosofia moderna è il primo. Fu Cartesio a introdurre e a
far valere questo significato. «Io non sono dunque, precisamente parlando, che
una cosa che pensa, cioè uno S., un intelletto o una ragione, che sono termini
il cui significato mi era prima sconosciuto » (Med., II). E nella risposta alle
seconde obiezioni egli precisa, in forma di definizione, il significato del
termine: «La sostanza nella quale risiede im- mediatamente il pensiero è qui
chiamata spirito. Sebbene questo nome sia equivoco perchè lo si attribuisce anche
talvolta al vento e ai liquori sottilissimi, io non ne conosco affatto di più
propri » (II Rép., def. VI). Sebbene la nozione di sostanza faccia in
quest’espressione cartesiana da interme- diaria tra il nuovo e il vecchio
(sostanza incorporea) significato del termine, l’uso che Cartesio fa di essa
stabilisce piuttosto la sua equivalenza col termine coscienza. Sostanza
pensante o coscienza o intelletto o ragione sono quindi i sinonimi di spirito.
Locke, come si è detto, usava nello stesso senso il termine mind (cfr., ad es.,
Saggio, II, 1, 5). Leibniz diceva a sua volta: «La conoscenza delle verità
necessarie ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci fa avere
la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. È questo
che si chiama in noi anima ra- gionevole o S.» (Mon., $ 29). Berkeley a sua
volta adottò il termine e ne stabilì le equivalenze: « Questo essere attivo e
percipiente è quello che io chiamo mind, spirit, soul (anima) o my self (io)»
(Princi- ples of Human Knowledge, I, $ 2). Come anima, intelletto o io
intendeva il termine Hume (7reatise, I, 4, 2, ed. Selby-Bigge, pag. 207).
Queste equiva- lenze vengono mantenute costantemente nell’uso posteriore del
termine: sicchè i problemi al quale esso dà origine sono quelli connessi con le
nozioni di anima, coscienza, intelletto, ragione e io. Sotto queste voci si
troverà l’indicazione dei problemi ai quali la nozione S. ha dato origine nelle
sue diverse specificazioni. Basti qui solo ricordare che alcuni usi paradossali
talora fatti dalla filosofia contemporanea del termine in questione si ripor-
tano in realtà al sigSCIENZE, ‘CLASSIFI- CAZIONE DELLE). Ad una diversa
specificazione della nozione di S. ha dato luogo solo Hegel con le sue nozioni
di S. oggettivo e di S. assoluto. Mentre per S. sogget- tivo, Hegel intende lo
S. finito cioè l’anima o l’in- telletto o la ragione (lo S. nel significato
cartesiano del termine) (Enc., $ 386), per S. oggettivo egli intende le
istituzioni fondamentali del mondo umano cioè il diritto, la moralità e
l’eticità e per S. assoluto intende il mondo dell’arte, della religione e della
filosofia. In queste due concezioni, lo S. ha cessato di essere attività
soggettiva per diventare realtà storica, mondo di valori. Mentre lo S. oggettivo,
è il mondo delle istituzioni giuridiche, sociali e storiche e culmina
nell’eticità che comprende le tre tezza, che è la Ragione assoluta, come fece
Croce (Logica, 1920, pag. 26 sgg.). Anche fuori dell’idealismo tuttavia la
nozione dello S. oggettivo, cioè dello S. come mondo di istituzioni
storico-sociali o di valori istituzionaliz- zati o di forme di vita, ha trovato
accoglimento ed illustrazione. La nozione fu infatti accettata da Dilthey che
intese per essa «la connessione strut- turale delle unità viventi, che si
continua nelle comunità » e criticò l’assolutezza e il dogmatismo che la
nozione stessa aveva assunto in Hegel (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 150;
cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, pag. 104- 105). In
questo stesso senso limitato la nozione fu 831 accettata da E. Spranger, che
intese come scienza dello S. la disciplina che si occupa delle formazioni
ultrapersonali o collettive della vita storica (Lebens- formen, 1914, pag. 7).
Fu accettata altresì da N. Hartmann che considerò lo S. oggettivo come una
soprastruttura che si solleva al di sopra della coscienza come questa si
solleva al di sopra del mondo organico. Allo S. oggettivo apparterrebbero tutte
le produzioni spirituali cioè le lettere, le arti, la tecnica, le religioni, i
miti, le scienze, le filo- sofie, ecc. Esso è il vero protagonista della
storia, secondo Hartmann (Das Problem des geistigen Seins, 1931, pag. 262). AI
di sopra dello S. og- gettivo Hartmann situa poi lo S. vivente che sarebbe
l’unità dello S. oggettivo e della coscienza personale (Ibid., pag. 259). N.
Hartmann è certo ancora molto vicino all’ispiultante di una molteplicità di
fattori. Dice Montesquieu: « Molte cose guidano gli uomini: il clima, la
religione, le leggi, le massime del governo, le tradizioni, i costumi, le
usanze; donde si forma uno S. generale che ne è il risultato » (Esprit des
lois, 1748, XIX, 4). Altrove Montesquieu chiama lo S. nazionale « anima
universale » (Mélanges iné- dits, pag. 160); ma egli era in ogni caso ben lungi
da fare di questo concetto una realtà a sè. Questo passo fu fatto da Hegel che
concepì lo S. nazionale come il vero soggetto della storia: «Lo S. della storia
è un individuo che è di natura universale ma che è determinato cioè, in
generale, una nazione; e lo S. con cui abbiamo a che fare è lo S. della
nazione. Gli S. delle nazioni si distinguono secondo l’idea che essi si fanno
di se stessi, secondo la su- perficialità o la profondità con cui hanno
compreso e approfondito ciò che è lo S.» (Philosophie der Geschichte, ed.
Lasson, pag. 36; trad. ital., I, pag. 43). Di volta in volta un determinato S.
nazionale as- sume la figura di « S. del mondo » (Welfgeist) cioè di guida e di
soggetto unico della storia. « Il Welt geist è lo S. del mondo, come si esplica
nella co- scienza umana; gli uomini stanno ad esso come 832 le realtà singole
stanno alla totalità che le sostanzia. E questo S. del mondo è conforme allo S.
divino, che è lo S. assoluto. In quanto Dio è onnipresente, è presso ogni uomo,
appare nella coscienza di ognuno; e ciò è lo S. del mondo» (/bid., pag. 37;
trad. ital., pag. 44). La nozione di S. del mondo è stata varie volte ripetuta
e in generale essa si incontra in ogni concezione provvidenzialistica della
storia (v.). SPIRITUALISMO (ingl. Spiritualism, Persona- lism; franc.
Spiritualisme; ted. Spiritualismus). 1. Si intende con questo termine ogni
dottrina che pra- tichi la filosofia come analisi della coscienza (v.) o che in
generale pretenda desumere dalla coscienza i dati della ricerca filosofica o scientifica.
La pa- rola è stata messa in voga nel secolo scorso da V. Cousin che nella
prefazione all’edizione del 1853 della sua opera Du vrai, du beau et du bien,
così scriveva: « La nostra vera dottrina, la nostra vera bandiera è lo S.,
questa filosofia solida quanto generosa, che comincia con Socrate e Platone,
che l’Evangelo ha diffuso nel mondo, che Des- cartes ha messo nelle forme
severe del genio mo- derno, che è stata nel xvm secolo una delle glorie e delle
forze della patria, che è perita con la gran- dezza nazionale nel sec. xvi, e
che al principio di questo secolo Royer Collard è venuto a riabili- tare
nell’insegnamento pubblico mentre Chàateau- briand e Madame de Staél la
trasportavano nella letteratura e nell’arte... Questa filosofia insegna la spiritualità
dell'anima, la libertà e la responsabilità delle azioni umane, le obbligazioni
morali, la virtù disinteressata, la dignità della giustizia, la bellezza della
carità; e al di là dei limiti di questo mondo, essa mostra un Dio, autore e
tipo dell’umanità, che, dopo averla creata evidentemente per uno scopo
eccellente, non l’abbandonerà nello sviluppo misterioso del suo destino. Questa
filosofia è l’al- leata naturale di tutte le buone cause. Essa sostiene il
sentimento religioso, seconda l’arte vera, la poesia degna di questo nome, la
grande letteratura; è l’appoggio del diritto; respinge ugualmente la de-
magogia e la tirannide; ecc. ». Questo programma dello S., magistralmente
delineato da Cousin, è rimasto proprio di tutte le forme, numerosissime, che
questo indirizzo filosofico ha assunto nella filosofia moderna e contemporanea.
L’appoggio alle «buone cause » cioè ai valori morali, politici, sociali e
religiosi della tradizione è rimasta la co- stante preoccupazione dello S. che,
sotto questo rispetto, ha l'andamento e la natura di una sco/a- stica (v.). Ed
il mezzo con cui lo S. ha cercato di realizzare il suo programma è stato ancora
quello additato da Cousin: il ricorso alla coscienza, cioè alla riflessione
interiore o introspezione per il re- perimento dei dati indispensabili alla
speculazione. SPIRITUALISMO Il ricorso alla coscienza collega, come lo stesso
Cousin vedeva, lo S. all’idealismo romantico; mentre lo S. non condivide con
tale idealismo l’identificazione, propria di esso, della coscienza finita
(umana) con la Coscienza infinita (divina). Come difensore della teologia
cristiana tradizionale (la principale delle sue « buone cause +), lo S. non
accoglie questa identificazione, che puzza di pan- teismo o ateismo (v.). La
figura principale dello S. del secolo scorso è Maine de Biran (1766-1824); la
figura principale delio S. del nostro secolo è Enrico Bergson (1859- 1941). Lo
S. è particolarmente congeniale con la filosofia francese la quale ha desunto
da Montaigne e Pascal la pratica del filosofare come interroga- zione della
coscienza. Ma esso trova in tutti i paesi manifestazioni numerose per quanto
non troppo diverse l’una dall’altra. Le grandi figure della filo- sofia
risorgimentale italiana: Galluppi, Rosmini, Gioberti e Mazzini, si sono
ispirate alla tradizione spiritualistica. In Germania l’opera di Hermann Lotze
ha ispirato e guidato la ripresa dello S. e il Microcosmo di questo autore
costituisce, si può dire, la summa dello S. ottocentesco, difeso in modo
intelligente contro lo scientismo positivistico. Nel mondo contemporaneo,
l’opera di Bergson ha rin- novato lo S. venendo incontro, per quanto è pos-
sibile, alle esigenze della scienza e riproponendo le sue tesi fondamentali nei
confronti di problemi specifici, come quello della libertà, dell'anima, della
vita, della moralità, della religione, ecc. In tutte le sue forme tuttavia lo
S. ha in comune alcune tesi fondamentali, che discendono dal suo concetto della
filosofia come analisi della coscienza e che possono essere ricapitolate così:
1° la negazione della realtà del mondo esterno cioè l’idealismo gnoseologico.
Questa negazione può essere più o meno condizionata o indiretta ma in ultima
analisi è inevitabile perchè una realtà esterna alla coscienza sarebbe, per
definizione, inaccessi- bile a questa e contraddirebbe all’impegno meto-
dologico dello spiritualismo. Pertanto, direttamente o indirettamente, questa
dottrina riduce ogni realtà a oggetto immediato di coscienza; 2° la conseguente
riduzione della scienza a conoscenza falsa o imperfetta o preparatoria. Gli
spiritualisti più avveduti, come Lotze e Bergson, hanno appunto ridotto la
scienza a conoscenza preparatoria; 3° il ritrovamento nella coscienza di dati
adatti a costruire il mondo della natura e il mondo della storia nel loro
carattere finalistico o prov- videnziale; 4° il ritrovamento nella coscienza, e
quindi nel mondo della natura e della storia, di dati adatti a risalite a Dio o
a un principio divino in qualche STATO sua specificazione che si accordi con la
tradizione teologica del cristianesimo; 5° la difesa della tradizione e delle
istituzicetto classico della libertà come causa sui: il che risulta anche
chiaro dalla definizione di Wolff, secondo la quale essa è «il principio
intrinseco per deter- minarsi ad agire » (Psychol. empirica, $ 933). Nello
stesso significato, Kant parlò dell’intelletto come della «S. della conoscenza»
in quanto esso è «la facoltà di produrre da sè rappresentazioni » (Critica
della R. Pura, Logica trascendentale, Introd., I). In questo senso S. si oppone
a ricettività (v.) o pas- sività (v.), mentre è sinonimo di artività; che è il
termine oggi più frequentemente adoperato per indi- care un processo o un
mutamento che è causa sui, cioè che non ha la sua causa fuori di sè. Come
libertà ha inteso la S. anche Heidegger che pertanto l’ha identificata con la
trascendenza in cui consiste la libertà finita dell’uomo: « L'essenza del
se-stesso (l’ipseità), cioè l’essenza di quel se stesso che giace già nel fondo
di ogni S., consiste nella trascendenza... Solo perchè la libertà costituisce
la trascendenza essa si può rivelare, nell’esserci che esiste, come modo
particolare della causalità cioè come auto- causalità » (Vom Wesen des Grundes,
1929, III; trad. ital, pag. 65). 53 — ARBAGNANO, Dizionario di filosofia.
STADIO (gr. otàsuoy; lat. Stadium; ingl. Sta- dium; franc. Stade; ted.
Stadium). L'ultimo dei quattro argomenti di Zenone d’Elea contro il mo-
vimento. Esso può essere espresso nel modo se- guente: Due masse uguali, dotate
di velocità uguali dovrebbero percorrere spazi uguali in tempi uguali. Ma se
due masse si muovono incontro dalle estre- mità opposte dello S., ognuna di
esse impiega a percorrere la lunghezza dell’altra la metà del tempo che
impiegherebbero se una di esse fosse ferma: da ciò Zenone traeva la conclusione
che la metà del tempo è uguale al doppio (ARIST., Fis., VI, 9, 239 b 33).
L'argomento torna a dire che, se si ammette la realtà del movimento, si ammette
l’equi- valenza di un tempo metà al tempo doppio. Vedi ACHILLE; DICOTOMIA; FRECCIA.
STATALISMO (franc. Érarisme). In senso proprio la dottrina che considera lo
Stato come unica fonte del diritto. In senso generico, ogni indirizzo politico
che attribuisce allo Stato fun- zioni o poteri preponderanti in un qualsiasi
campo dell’attività umana. STATICA. V. MECCANICISMO, 1, a). STATISTICA (ingl.
Statistics; franc. Statis- tique; ted. Statistik). La raccolta e
l’interpretazione dei dati numerici in un determinato campo; op- pure in
generale la scienza che ha per oggetto i metodi per la raccolta e
l’interpretazione dei dati numerici. Nata sul terreno dell’osservazione dei
fatti sociali, la S. si è ora estesa a numerosi campi d'indagine e in primo
luogo al dominio della fisica, dapprima per la formulazione di teorie speciali
(la teoria cinetica dei gas) poi per la formulazione delle leggi della
meccanica quantica. Il concetto di legge S. cioè della relativa uniformità
della fre- quenza di un certo evento, quando l’evento stesso è considerato su
una scala numerica abbastanza estesa, è stato per la prima volta formulato dal-
l’astronomo e matento comincia col determinare quali sono le parti e le
funzioni dello S. per procedere poi a determinare le parti e le funzioni
dell’individuo (/bid., IV, 434 e). Questo è un modo di esprimere la priorità dello
S.: la struttura dello S. è la stessa di quella dell’uomo, ma è più evidente.
Aristotele, a sua volta, affer- mava: « Lo S. esiste per natura ed è anteriore
al- l’individuo, perchè, se l’individuo di per sè non è autosufficiente, sarà
rispetto al tutto nella stessa relazione in cui sono le altre parti. Perciò chi
non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla in
quanto basta a se stesso, non è membro di uno S., ma è una belva o un Dio»
(Pol., I, 2, 1253 a 18). Queste considerazioni aristote- liche sono state
ripetute molte volte nella storia della filosofia (cfr., ad es., S. TOMMASO, De
Regi- mine Principum, I; DANTE, De Monarchia, I, 3); ma nel mondo moderno hanno
assunto nuova forza solo per opera del Romanticismo che insi- stette sul
carattere superiore e divino dello stato. Già Fichte diceva: « Nella nostra
età, più che in ogni altro tempo precedente, ogni cittadino con tutte le sue
forze, è sottomesso alla finalità dello S., è completamente penetrato da esso
ed è divenuto suo strumento » (Grundziige des gegenwdrtigen Zeit- alters, 1806,
X). Ma nel modo più semplice ed estremo questa concezione fu formulata da
Hegel, che identificò lo S. con Dio: « L’ingresso di Dio nel mondo è lo S.: il
suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà. Nel-
rfetta, l’autosufficienza e la supremazia asso- luta possono essere nel modo
migliore ricapitolati proprio nella tesi di Hegel: lo S. è Dio. Non sempre
tuttavia la tesi organicistica è stata formulata in modo così rigoroso ed
estremo: il primato ricono- sciuto allo S. rispetto agli individui e
l’autosuffi- cienza dello S. non sempre hanno persuaso a con- siderare lo S.
come Dio stesso; ma sempre hanno portato a considerarlo come qualcosa di
divino, che giustificasse la soggezione degli individui ri- spetto ad esso. Il
fine che ogni concezione organi- cistica si è sempre proposto è stato bene
espresso da O. Gierke: « Solamente dal valore superiore del tutto in confronto
con quello delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e,
se necessario, di morire per il tutto. Se il popolo fosse solo la somma dei
suoi membri e lo S. solo un’istituzione per il benessere dei cittadini, nati e
nascituri, allora l’individuo potrebbe, è vero, esser costretto a dare la sua
energia e la sua vita per lo S., ma non avrebbe alcun obbligo morale di farlo»
(Das Wesen der menschlichen Verbànden, 1902, pag. 34 sgg.). 2° Per la
concezione atomistica o contrattua- listica lo S. è opera umana: non ha dignità
o ca- ratteri che non gli siano stati conferiti dagli individui che l’hanno
prodotto. Fu questa la concezione dello S. propria degli Stoici che lo
consideravano res populi. Dice Cicerone: «Lo S. (res publica) è cosa del popolo
e il popolo non è qualsiasi agglo- merato di uomini riunito in un modo
qualsiasi, ma i suoi membri o le sue parti, ma è l’unità di un patto o di una
convenzione e vale solo nei limiti di validità del patto o della convenzione.
Talvolta tuttavia sul tronco stesso del contrattua- lismo si innestano le
esigenze proprie dell’organi- cismo: così accade, per es., in Rousseau quando
afferma che «la volontà generale non può errare ». Rousseau infatti distingue
tra la volontà di tutti e la volontà generale: « Quella guarda soltanto al-
l’interesse comune, questa guarda all’interesse pri- vato ed è la somma delle
volontà particolari; ma togliete da queste volontà il più e il meno che si
distruggono tra loro e resta per somma delle dif- ferenze la volontà generale »
(Contrat social, II, 3). Per quanto giustificata come semplice somma al-
gebrica delle volontà particolari, la «volontà gene- rale» di Rousseau, con la
sua infallibilità, assomiglia molto alla razionalità perfetta dello S.
organico. 3° Le precedenti due concezioni dello S. hanno in comune il
riconoscimento di quello che i giu- risti oggi chiamano l’aspetto sociologico
dello S., cioè il riconoscimento della realtà sociale di esso, considerato, in
primo luogo, come una comunità cioè un gruppo sociale residente su un
determinato territorio. Questo riconoscimento è stato assunto a fondamento di
quella descrizione dello S. che giuristi e filosofi del sec. xx hanno formulato
(quale che fosse il loro concetto filosofico di S.) e che si esprime dicendo
che lo S. ha tre elementi o proprietà caratteristiche: la sovranità o il potere
preponderante o supremo; il suo popolo e il suo territorio. Questi tre aspetti
o elementi venivano illustrati e descritti singolarmente e indipendente- mente
l’uno dall’altro nonchè indipendentemente dal concetto filosofico di S. cui si
faceva implici- tamente o esplicitamente riferimento. La migliore espressione a
questo punto di vista fu data da Jellinek (Allgemeine Staatslehre, 1900), ma
esso è stato ripetuto e illustrato innumerevoli volte (cfr., ad es., W. W.
WiLoucHBY, The Fundamental Concepts of Public Law, 1924). L'aspetto socio-
logico dello S. è invece negato da H. Kelsen; e questa negazione è la
caratteristica fondamentale del suo formalismo. Lo S. è per Kelsen semplice-
mente l’ordinamento giuridico nel suo carattere normativo o coercitivo. « Vi è
un solo concetto giuridico dello S., dice Kelsen: lo S. come ordina- mento
giuridico (accentrato). Il concetto sociologico di un modello effettivo di
comportamento orientato verso l’ordinamento giuridico, non è un concetto dello
S. ma presuppone il concetto dello S., che è il concetto giuridico » (Genera!
Theory of Law and State, 1945; trad. ital., pag. 192). In altri termini lo S.
«è una società politicamente organizzata perchè è una comunità costituita da un
ordina- mento coercitivo, e questo ordinamento coercitivo è il diritto» (/bid.,
pag. 194). Kelsen non nega naturalmente che esistano fatti, azioni o compor-
tamenti più o meno connessi con l’ordinamento giuridico statale ma afferma che
tali fatti, azioni o comportamenti sono manifestazioni dello S. solo in quanto
sono interpretati «secondo un ordina- mento normativo, la cui validità deve
venire pre- supposta » (/bid., pag. 193). Questa dottrina si presta a definire
in modo semplice ed elegante gli elementi tradizionalmente riconosciuti propri
dello Stato. Il territorio non è altro che «la sfera terri- toriale di validità
dell’ordinamento giuridico chia- mato S.» (/bid., pag. 212). Il l diritto (v.)
lascia aperta la strada alla considerazione dell’efficacia (e perciò dei
limiti) della tecnica coercitiva in ognuna delle sue fasi o manifestazioni,
cioè degli ordinamenti in cui si concreta. Quando Humboldt parlava dei «limiti
dell’azione dello S.» (Die Grenzen der Wirksamkeit des Staates, 1851) fon- dava
tali limiti proprio sulla impossibilità, in cui lo S. si trova, di raggiungere
certi fini col solo mezzo di cui dispone, cioè con la tecnica coercitiva. Per
tale motivo Humboldt poneva al di là dei limiti dell’azione dello S. la
religione, il miglioramento dei costumi e l’educazione morale: cose che dipen-
dono da una disposizione non controllabile con gli strumenti di cui lo S.
dispone. Dall'altro lato lo S., come ordinamento giuridie state of affairs.
L'espressione tedesca fu introdotta da Husserl nelle Logische Un- tersuchungen,
(1901, II, 1, pag. 472 sgg.) e da lui definita come il correlato oggettivo del
giudizio (cfr. Ideen, I, $ 6). La nozione fu accettata da Witt- genstein, che
intendeva per essa «una combinazione di oggetti (entità, cose)» (Tractatus, 2).
È questa espressione che viene a volte tradotta con « fatto atomico ». Ma per
quanto lo S. di cose di cui parla Wittgenstein sia un elemento indivisibile del
mondo, l’espressione « fatto atomico » non tra- duce alla lettera quella
originale. La critica di Bergson alla concezione che la psicologia dell’800
dava della vita psichica nel suo insieme, s’impernia sul concetto di S., consi-
derato da Bergson come una forma o un’istantanea immobile presa sul divenire
(cfr. specialmente Évol. créatr., cap. IV, e l’analisi del « meccanismo cine- matografico
del pensiero »). In realtà la nozione di S. non include per nulla quella di
riposo o di im- mobilità ma piuttosto quella del rapporto di og- getti tra loro
nell’insieme di una situazione. Per Stato di natura v. NATURA, STATO DI. STATUA
(ingl. Statue; franc. Statue; tedesco Statue). L'ipotesi immaginata da
Condillac per dimostrare la derivazione di tutte le attività psi- chiche dalla
sensazione. « Immaginammo, dice Con- dillac, una statua organizzata
internamente come noi e animata da uno spirito privo di ogni specie di idee.
Supponemmo pure che l’esterno tutto di marmo non le permettesse l’uso dei suoi
sensi e ci riservammo la libertà di aprirli, a nostra scelta, alle diverse
impressioni di cui sono ca- paci» (7raité des sensations, 1754, Pref.). STATUS.
Condizione o modo d'essere: spe- cialmente in senso sociologico, come
appartenenza a un determinato strato sociale. STATUTO (ingl. Statute; franc.
Statut; tede- sco Statut). Un insieme di norme che definiscono lo stato, cioè
la condizione o il modo d'essere, di un gruppo sociale. STILE (ingl. Style;
franc. Style; ted. Stil). L'insieme dei caratteri che distinguono dalle altre
una determinata forma espressiva. Alla sua origine, nel *700, la nozione di
stile trovò la sua espressione nel motto francese, /e style c'est l'homme méme
e venne considerata come l’apparizione nella forma espressiva dei caratteri
propri del soggetto, nella sua relazione col materiale adoperato. Hegel ri-
tenne troppo ristretta questa concezione e incluse nello S. anche le determinazioni
che derivano alla forma espressiva dalle condizioni proprie dell’arte di cui si
tratta: nel qual senso si può distinguere, ad es., nella musica lo S.
ecclesiastico e lo S. operistico, e nella pittura lo S. storico e lo S.
generico, ecc. (Vorlesungen iiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 394-95).
In questo senso lo S. sarebbe, non l’uomo, ma la cosa stessa. In ogni caso,
tuttavia, lo S. sarebbe una certa uni- formità di caratteri, riscontrabile in
un determi- nato dominio del mondo espressivo. «Lo S. ci si rivela come
un’unità di forme, di accenti e di at- teggiamenti dominanti in una complessa
varietà formale e di cCosì Hamilton chiamò la parte della logica che studia le
parti elementari o costituenti dei processi del pen- siero. Egli divise la S.
in noetica, ennoematica, apofantica e dottrina del ragionamento (Lectures on
Logic, I, pag. 72). STOICISMO (ingl. Stoicism; franc. Stofcisme; ted.
Stoizismus). Una delle grandi scuole filoso- fiche dell’età ellenistica,
cosiddetta dal portico dipinto (Stod poikile) nel quale fu fondata, intorno al
300 a. C., da Zenone di Cizio. I principali maestri della scuola furono, oltre
Zenone, Cleante di Asso e Crisippo di Soli. Lo S. condivise con le scuole
contemporanee, epicureismo e scetticismo, l'affer- mazione del primato del
problema morale sui pro- blemi teoretici e il concetto della filosofia come
delle cure e delle emozioni della vita comune. Il suo ideale è pertanto quello
della ararassia (v.) o apatia (v.). I capisaldi dell’insegnamento stoico
possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la divisione della filosofia
in tre parti: la logica, la fisica e l’etica (v. FILOSOFIA); 2° la concezione
della logica come dialettica cioè come scienza di ragionamenti ipotetici, la
cui premessa esprime uno stato di fatto immediata- mente percepito (v.
ANAPODITTICO; DIALETTICA); 3° la teoria dei segni che doveva costituire il
modello della logica terministica medievale e l’ante- cedente della semiotica
moderna (v. SEMIOTICA; SIGNIFICATO); 4° il concetto di una Ragione divina che
il mondo e tutte le cose nel mondo secondo un ordine necessario e perfetto (v.
DestINo; Li- BERTÀ; NECESSITARISMO); 5° la dottrina che, come l’animale è
guidato infallibilmente dall’istinto, così l’uomo è guidato infallibilmente
dalla ragione; e che la ragione gli fornisce norme infallibili d’azione che
costitui- scono il diritto naturale (v. DIRITTO; ISTINTO); 6° la condanna
totale di tutte le emozioni e l’esaltazione dell’apatia come ideale del saggio
(v. APATIA; EMOZIONI); 7° il cosmopolitismo (v.) cioè la dottrina che l’uomo è
cittadino non di un paese ma del mondo; 8° l’esaltazione della figura del
sapiente e il suo isolamento dagli altri, con la distinzione tra pazzi e savi
(v. SAPIENTE; SAPIENZA); La dottrina stoica è stata, accanto a quella ari-
stotelica, la filosofia che ha avuto maggiore in- fluenza nella storia del
pensiero occidentale. Molti dei capisaldi enunciati costituiscono ancora parti
integranti di dottrine moderne e contemporanee. STORIA (gr. iotopla; lat.
Historia; ingl. History; franc. Histoire; ted. Geschichte). Il termine, che in
generale significa indagine, informazione o reso- conto e che già in greco
veniva usato a indicare il resoconto o la narrazione dei fatti umani, pre-
senta oggi un’ambiguità fondamentale: significa, da un lato, la conoscenza di
tali fatti o la scienza che disciplina e dirige questa conoscenza (historia
rerum gestarum); dall’altro i fatti stessi o un in- sieme o la totalità di essi
(res gestae). Questa ambiguità ricorre in tutte le lingue colte moderne (cfr.
H. I. MarROU, De la connaissance historique, 1954, pag. 38-39). Ma poichè in
italiano è prevalso l’uso di indicare con il termine storiografia la cono-
scenza storica in generale o la scienza della S. (non già l’arte di scrivere
S.) si può porre sotto questa voce la trattazione dei significati storica-
mente attribuiti alla S. come conoscenza e com- prendere sotto il termine S.
solo i significati che sono stati dati alla realtà storica come tale. Tali
significati sono i seguenti: 1° la S. come passato; 2° la S. come tradizione;
3° la S. come mondo storico; 4° la S. come oggetto della storiografia. 1° Che
la S. sia interpretata come passato può essere a buon diritto ritenuta una
tautologia; ma il senso in cui Heidegger ha inteso questa inter- pretazione
(Sein und Zeit, $ 73), non appare pu- ramente tautologico. Quando si dice «
Questa cosa appartiene alla S. » s'intende infatti che appartiene al passato e
ad un passato che ha scarsa efficacia sul presente. Dall’altro lato, quando si
dice « Non ci si può sottrarre alla S.»: s'intende ancora la S. come passato ma
come passato che agisce inevi- tabilmente sul presente. Così pure dire che «
Qual- cosa ha S.» significa affermare che ha un passato ed è frutto di questo
passato. In queste e simili espressioni, il significato del termine rimane
estre- mamente generico: rimanda ad una dimensione del tempo e alle relazioni
che possono stabilirsi tra essa e le altre dimensioni. 2° In secondo luogo, la
S. può essere intesa come tradizione cioè come tramandarsi e conser- varsi,
attraverso il tempo, di credenze e di tec- niche: sia che tale tramandarsi
possa ente reale solo nell’esistenza, il suo esser un fatto si costi- tuisce
soltanto e proprio nel deciso autoproget- tarsi su un pofer essere che è già
stato scelto. Ma allora ciò che è stato autenticamente un fatto, è la
possibilità esistentiva in cui si determinano effet- tivamente destino, destino
comune e mondana- mente storico » (/bid., $ 76). Talvolta però la tra- dizione
viene intesa come conservazione infallibile e progressiva di ogni risultato o
conquista umana; e in tal caso il concetto di essa si identifica con quello
della S. come piano provvidenziale (vedi TRADIZIONE). 3° Il terzo significato
di S. è quello filosofi- camente più rilevante; per esso la S. è il mondo
storico: la totalità dei modi d’essere e delle crea- zioni umane nel mondo
oppure la totalità della « vita spirituale» o delle culture. La S. viene in
questo senso a contrapporsi a «natura», che è la totalità di ciò che è
indipendente dall'uomo o non può essere considerato come sua produzione o
creazione; ma rimane imparentata con la natura stessa per il suo carattere di
totalità, di mondo. È nell’ambito di questo concetto che si possono 838
distinguere le interpretazioni « filosofiche » della S. cioè quelle che
costituiscono la cosiddetta « filosofia della S. ». Tra tali interpretazioni,
le principali pos- sono essere considerate le seguenti: a) la S. come
decadenza; 5) la S. come ciclo; c) la S. come regno del caso; d) la S. come
progresso; e) la S. come ordine provvidenziale. a) L’interpretazione della S.
come decadenza è propria dell’antichità che la espresse con la dot- trina delle
erà (v.) del genere umano. La succes- sione delle cinque età descritta da
Esiodo va dal- l’età dell’oro, nella quale gli uomini « vivevano come dei»
all’erd degli uomini, in cui essi sono soggetti a ogni sorta di mali,
attraverso l’età del- l’argento, del bronzo e degli eroi, che segnano la
graduale decadenza dello stato del genere umano (Op., 109-79). Platone ridusse
a tre le età, enumerando soltanto l’età degli dei, degli eroi e degli uomini,
ma conservando il carattere di successiva decadenza che queste età presentano
nelle condizioni materiali e morali degli uomini stessi (Critia, 109 b, sgg.).
Quando questa dottrina delle età viene ripresa nel mondo moderno (per es., da
Vico, da Fichte, ecc.) ha perso il suo significato pessimistico ed è diven-
tato ottimistica: le età sono in un ordine di pro- gresso anzichè di decadenza.
Ma non c’è dubbio che, presso i Greci, questa dottrina costituisca una
interpretazione della S. come decadenza (v. ETÀ). b) La nozione della S. come
ciclo (v.) è le- gata a quella del ciclo del mondo assai diffusa nel-
l’antichità greca. Che la ripetizione del ciclo co- smico includesse la ripetizione
della S. umana nel suo complesso, ci viene testimoniato a proposito degli
Stoici. Secondo costoro, infatti, in ogni nuovo ciclo del mondo, «vi sarà di
nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi
amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi e
ogni città o villaggio e campagna ritornerà ugualmente » (NE- MESsIO, De Nat.
Hom., 38). Una ripresa moderna di questo concetto della S. si può vedere
nell’opera di Spengler. I cicli storici, le culture, non si ripe- tono, secondo
Spengler, identicamente, come rite- nevano gli Stoici; ma si ripete
identicamente la loro forma: il loro nascere crescere e morire. «Ogni cultura,
ogni suo sorgere, ogni progredire e ogni declinare, ognuno dei suoi gradi e dei
suoi periodi interamente necessari ha una durata deter- minata, sempre uguale,
sempre ricorrente con la forma di un simbolo » (Der Untergang des Abend-
landes, 1932, I, pag. 147) (v. CicLo). c) Il concetto della S. come regno del
caso non è frequente nell’interpretazione filosofica della storia. Sembra
tuttavia che Aristotele non sia stato molto lontano da esso quando contrappose
lo sto- rico al poeta e ritenne proprio di quest’ultimo rappresentare
l’universale, cioè «le cose quali po- trebbero accadere secondo verisimiglianza
e neces- sità » mentre ritenne proprio dello storico rappre- sentare le cose
«realmente accadute», cioè «il particolare » e, per es., «che cosa Achille fece
e che cosa gli capitò» (Poetica, 1X, 1451b 2-10). Non bisogna infatti dimenticare
che solo l’universale è, secondo Aristotele, oggetto di conoscenza scien-
tifica e che il particolare come tale cade fuori della scienza (Met., III, 6,
1003 a 15). Più esplicitamente Schopenhauer diceva: « La S. del genere umano,
la folla degli eventi, il mutare dei tempi, i molteplici aspetti della vita
umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se non la forma casuale
presa dal manifestarsi dell’Idea e non appartiene a questa, nella quale
soltanto è l’adeguata oggettività della volontà, ma solo al fenomeno che cade
nella co- noscenza dell’individuo; ed è tanto estranea, ines- senziale e
indifferente all’Idea quanto sono estranee alle nubi le figure che
rappresentano, al fiume la forma dei suoi gorghi e delle sue spume e al ghiac-
cio le sue figure di alberi e fiori» (Die Welt, I, $ 35). Non si può
considerare invece sotto questa rubrica il concetto della S. che Machiavelli
espresse dicendo che «la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma
che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi»; e paragonando
la fortuna stessa a un fiume che quando si adira travolge tutto ma il cui
impeto non riesce dannoso o riesce meno rovinoso quando l’uomo provvede per
tempo a farvi ripari e argini (Princ., 25). La «fortuna» è, di fatti, per
Machiavelli, l’insieme delle condizioni che limitano, ostacolano o frustrano
l’azione dell’uomo nella S. ma non è la totalità della storia. Agostino Cournot
si servì invece del caso per definire il dominio proprio della S., che egli
contrappose a quello della natura, che è invece il dominio del- l’ordine e
della legge (Essai sur les fondements de la connaissance, 1851). d) Il concetto
della S. come progresso ha come sua caratteristica l’affermazione del carattere
problematico o non inevitabile del progresso stesso; giacchè se il progresso è
necessario la S. è piuttosto un ordine provvidenziale di cui tutti i momenti
sono egualmente perfetti in quanto tutti indispensabili alla perfezione o al
perfezionamento dell’insieme. La S. come progresso problematico è un’idea illu-
ministica; e suppone una misura del progresso stesso cioè una norma o un ideale
cui la S. cerca di avvicinarsi o che essa cerca di realizzare ma che non trova
mai in essa un’adeguazione per- fetta. G. B. Vico ha espresso questo ideale nel
con- cetto di una S. ideale eterna «sopra la quale, egli disse, corrono in
tempo le S. di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati,
decadenze e fini » (Sc. Nuova, De’ princìpi). La S. ideale eterna è l’ordine
universale ed eterno che la S. temporale, o anzi le varie S. temporali dei vari
tempi e nazioni, tendono ad adeguare, senza mai riuscirvi perfetta- mente e
anzi talvolta precipitando nella confusione e nella rovina (/bid., Conchiusione
dell’opera). Vico intendeva la storia ideale eterna come la succes- sione
progressiva di tre età (degli dei, degli eroi e degli uomini) e la permanenza
indefinita nell’ul- tima, che è la conclusione del ciclo. Voltaire con- siderò
invece come norma e misura del progresso storico l’illuminismo: la liberazione
della ragione umana dai pregiudizi e il suo porsi come guida della vita singola
e associata dell’uomo (cfr. spe- cialmente il Essai sur les maurs, 1740;
Philosophie de l’histoire, 1765). Kant seguì lo stesso criterio, sug- gerendolo
tuttavia soltanto come un « filo condut- tore » per orientarsi filosoficamente
nella S. dei po- poli. Egli scrisse: « A misura che le limitazioni all’attività
personale saranno tolte, che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si
produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e fantasie, l’illumi- nismo
come un gran bene che la specie umana può derivare perfino dalle mire ambiziose
di potenza dei suoi dominatori» (/dee zu einer allgemeinen Ge- schichte, 1784,
tesi VIII). Secondo Jaspers, l’unico fine progettabile della S. è l’unità
dell'umanità rag- giungibile non già attraverso la scienza o l’unifor- mità
linguistica o culturale ma soltanto attraverso «l’illimitata comunicazione di
ciò che è diverso storicamente, quale può realizzarsi in un dialogo incessantemente
condotto al livello di una lotta amorevole » (Vom Ursprung und Ziel der
Geschichte, 1949). Altri criteri o norme possono certo essere proposti o stati
proposti come misura del progresso nella S.; ma le caratteristiche di questa
nozione non mutano finchè non si ammetta l’inevitabilità del progresso. e) Con
l’affermazione dell’inevitabilità del progresso, il progresso stesso diventa
inconcepibile (come Hegel vide): giacchè se la S. è necessaria, ogni momento di
essa è tutto ciò che dev'essere e non può essere migliore o peggiore degli
altri. La concezione della necessità della S. è la conce- zione della S. come
piano provvidenziale. La nozione di piano provvidenziale è implicita in ogni
mifle- narismo o chiliasmo (v.): ogni dottrina siffatta in- clude l’idea di uno
sviluppo necessario degli eventi umani, sino al raggiungimento di uno stato
defi- nitivo di perfezione. Questo fu, per es., il concetto che della S. ebbe
Origene: che considerò i mondi succedentisi nel tempo come altrettante scuole
nelle quali si rieducano gli esseri decaduti (De Princ., IH, 6, 3); e vide nel
ciclo complessivo della S. il ritorno a Dio del mondo, che culmina nell’apoca-
tastasi, cioè nella restituzione di tutti gli esseri alla loro perfezione
originaria (In Johann, XX, 7). Ma il primo a formulare chiaramente il concetto
del piano provvidenziale è stato S. Agostino. Questi vide nella S. la lotta tra
la città celeste e la città terrena: lotta destinata a finire con il trionfo
della città celeste. A questo trionfo, secondo S. Agostino, Dio fa contribuire
anche il male e la volontà catdell’intelligenza piena della verità di- vina
(Concordia novi et veteris testamenti, V, 84, 112). Tuttavia il piano
provvidenziale della S., per quanto infallibile e necessario, è, dal punto di
vista religioso, imperscrutabile nei suoi particolari. L’uomo religioso crede
in esso e nella sua perfe- zione; ma sa di non poter comprendere le vie
attraverso le quali si va realizzando. Posto di fronte al male, egli ha fiducia
che il male da ultimo non trionferà, ma come ciò avvenga o possa av- venire, sa
di non poter dire. Quando la dottrina del piano provvidenziale della S. si
trasforma, nel Romanticismo, in dottrina filosofica, il non sapere religioso si
trasforma in certezza razionale. Hegel ha più volte affermato che la differenza
tra religione e filosofia è che la seconda dimostra nella sua de- terminazione
quella relazione tra Dio e il mondo, quel piano provvidenziale, che la prima si
limita solo a riconoscere (Enc., $ 573; Philosophie der Geschichte, ed. Lasson,
I, pag. 55). L'ingresso di questa nozione in filosofia è però in primo luogo
opera di Fichte. Nei Caratteri dell’età contempo- ranea (1806) Fichte affermava
energicamente la necessità della S. e la riduzione di essa a un piano
provvidenziale. « Qualsiasi cosa realmente esiste, egli diceva, esiste per
assoluta necessità: ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste
» (Ibid., IX). E distingueva, nel progressivo incivili- mento della specie
umana, due elementi: un ele- mento a priori che è il piano del mondo o l’ordine
provvidenziale e un elemento a posteriori o tempo- rale od empirico, costituito
dai fatti. La risultante di questa concezione è che: « Nulla è come è perchè
Dio vuole arbitrariamente così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti.
Riconoscere questo, sottomettersi umilmente ed essere beati, nella co- scienza
della nostra identità con la forza divina, è compito di ogni uomo» (/bid., IX;
trad. ital., Cantoni, pag. 67). Con questa distinzione Fichte sembra
riconoscere ai «fatti» della S. una certa autonomia (per quanto fittizia) di
fronte al piano provvidenziale di cui devono entrare a far parte. Ma anche
questa fittizia autonomia dei fatti spa- risce nella dottrina di Hegel. « Dio
prevale, dice Hegel, e la S. del mondo non rappresenta altro che il piano della
prov- mente e gradualmente» e distingueva tre periodi: quello in cui la
provvidenza appare come destino o forza cieca; quello in cui appare come natura
e infine quello in cui appare come provvidenza (System des transzendentalen
Idealismus, sez. IV, Aggiunte, III C; trad. ital., pag. 283 sgg.). Il con-
cetto di rivelazione è stato adoperato frequentemente nel tardo Romanticismo
del sec. xrx e nello spiri- tualismo e idealismo del sec. xx. In queste sue
manifestazioni, ha conservato la connessione con l’idea di progresso che
Schelling gli aveva ricono- sciuta. Tale connessione non gli è tuttavia indi-
spensabile. La rivelazione di Dio nella S. può essere non graduale, ma totale e
completa in ogni punto della S. stessa. Ogni epoca, ogni momento di essa è in
questo caso una rivelazione compiuta di Dio, secondo il detto di Goethe: «
L’attimo è l’eternità » e secondo la frase dello storico Ranke « Ogni epoca è
in immediata relazione con Dio +». In questa forma il concetto romantico della
S. come ordine prov- videnziale è stato accettato anche da alcuni storicisti
tedeschi come E. Troeltsch (Der Historismus und seine Probleme, 1922) e F.
Meinecke (Die Entste- hung des Historismus, 1936; Vom geschichtlichen Sinn und
vom Sinn der Geschichte, 1939), preoc- cupati di salvare l’assolutezza dei
valori e il carat- tere divino del cristianesimo dalla mobilità e rela- tività
della S. (cfr. Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, parte
VI). Dall'altro lato non è indispensabile che il con- cetto della S. come
ordine provvidenziale si fondi sulla credenza in una provvidenza, immanente o
trascendente, di natura divina. « Ordine provviden- ziale » significa «ordine
necessario e perfetto »: e un ordine siffatto è riconosciuto proprio della S.
anche da dottrine che negano il concetto religioso della provvidenza, come il
positivismo sociale e il marxismo. Augusto Comte considerava la S. come lo
sviluppo progressivo dell'Umanità o Grande Essere che è «l’insieme degli esseri
passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezio- nare l’ordine
universale » (Politique positive, 1854, IV, pag. 30). E riconosceva a De
Maistre il me- rito di aver concorso a preparare la vera teoria del progresso
con la sua rivalutazione del Medio Evo: giacchè solo dopo questa nozione con-
sente infatti di parlare della S. come di un oggetto unico e semplice,
valutabile nel suo complesso una volta per tutte. La nozione di mondo storico,
come tutte le nozioni totalitarie e la nozione stessa di mondo (v.), è al di là
delle capacità effettive di indagine e di intelligenza di cui l’uomo dispone.
La S., come oggetto della storiografia non è mai un mondo in questo senso, cioè
la totalità assoluta degli eventi umani. Un periodo storico o un in- sieme di istituzioni
è detto talvolta un mondo (per es., il «mondo antico» o il «mondo orien- tale
», ecc.) soltanto nel senso di una totalità rela- tivamente omogenea di culture
e non in senso asso- luto. La stessa espressione « mondo storico» se riceve il
significato di «oggetto generale delle di- scipline storiografiche » designa,
non una totalità assoluta, ma il campo relativamente omogeneo in cui vengono ad
operare e a incontrarsi le tecniche delle discipline storiografiche. Quando
perciò come «realtà storica » s’intenda semplicemente l’oggetto della
conoscenza storica, si rinunzia ipso facto al concetto di mondo storico come
totalità assoluta e ad ogni giudizio su questa totalità. Si rinuncia, anche, a
considerare rurti i fatti come fatti storici: giacchè l’affermazione che tutti
i fatti sono storici (che ricorre, per es., in CROCE, La S. come pensiero e
come azione, 1938, pag. 19) non è che un altro modo di esprimere la nozione
della S. come totalità assoluta. Dall’altro lato, se la S. non è il mondo
storico, non esiste /a storia. Odi irrepetibile. Il riconoscimento esplicito di
questo carattere è dovuto allo storicismo tedesco. Già affermato da Dilthey
(Gesammelte Schriften, V, pag. 236) esso fu sottolineato da Windelband (Prà-
ludien, II°, pag. 145) e da Rickert (Die Grenzen der naturwissenschaftlichen
Begriffsbildung, 1896-1902, pag. 251, 420, ecc.) come una conseguenza della di-
stinzione tra il procedimento generalizzante delle scienze della natura e il
procedimento individuante delle scienze dello spirito. Questo carattere della
S. ha suscitato talora la diffidenza dei metodologi perchè è apparso come un
carattere « metafisico » (cfr., ad es., C. G. HEMPEL, in Readings in Philo-
sophical Analysis, ed. Feigl e Sellars, 1949, pag. 461; GARDINER, The Nature of
Historical Explanatiohe non è nè individuato nè connesso sufficientemente con
altri fatti, nè si- nificante. STORIA IDEALE ETERNA. V. STORIA. STORIA
UNIVERSALE. V. STORIOGRAFIA. STORICHE, FONTI (ingl. Historical Sources; franc.
Sources historiques; ted. Historische Quellen). Con questa espressione si
indica comunemente il materiale della ricerca storiografica. Le fonti S.
sogliono dividersi in avanzi e tradizioni. Gli avanzi sono: 1° i resti delle
opere prodotte dall'uomo (case, ponti, teatri, utensili, ecc.); 2° i modi di
vita delle comunità (usi, costumi, ordinamenti giuridici, politici, ecc.); 3°
le opere letterarie e filosofiche; 4° i documenti in generale. Gli avanzi che
furono prodotti con l’intenzione di tramandare il ricordo di un evento si
chiamano monumenti. Tali sono i documenti che ebbero lo scopo di testimoniare
per l’avvenire la conclusione di una faccenda e tali sono le iscrizioni, le me-
daglie, le monete, ecc. Infine le fonti di tradizione sono quelle me- diante le
quali è stata tramandata la memoria degli eventi passati e possono essere orali
o scritte. (cfr. G. G.
Droysen, Grundzilge der Historik, 1882, $ 20-24). STORICISMO (ingl.
Historicism; franc. Histo- ricisme;
ted. Historismus). Con questo termine che fu adoperato per la prima volta da
Novalis (Werke, III, pag. 173) si possono intendere tre indirizzi di- versi e
cioè: 1° La dottrina che la realtà è storia (cioè svolgimento razionalità e
necessità) e che ogni conoscenza è conoscenza storica, quale fu espressa da
Hegel (cfr. specialmente Geschichte der Philo- sophie, I, intr.) e da Croce (La
storia come pensiero e come azione, 1938, pag. 51). Questa dottrina non è che
la tesi fondamentale dell’idealismo ro- mantico (v.): essa suppone la
coincidenza di finito e infinito, del mondo e di Dio, e considera pertanto la
storia come la stessa realizzazione di Dio. Essa si può chiamare S. assoluto.
STORIA IDEALE ETERNA 2° Una variante della precedente dottrina, che vede nella
storia la rivelazione di Dio nel senso di considerare ogni momento della storia
stessa in diretto rapporto con Dio e permeato dei valori trascendenti da Lui
inclusi nella storia. È stato questo il punto di vista sostenuto da E.
Troeltsch e F. Meinecke [cfr. la voce STORIA, 3, e)]. Si può chiamare questa
dottrina S. fideistico perchè la rivelazione di Dio nella storia avviene per
essa sostanzialmente attraverso la fede. 3° La dottrina che vede nelle unità di
cui la storia costituisce la successione (Epoche o Civiltà) organismi globali i
cui elementi, necessariamente connessi, possono vivere solo nell’insieme; ed
af- ferma pertanto la relatività dei valori (che sono appunto alcuni di tali
elementi) all’unità storica cui appartengono e la morte inevitabile di essi con
la morte di questa. È questo il punto di vista di Spengler e di altri e si può
chiamare S. rela- tivistico. Esiste anche, almeno come termine po- lemico, una
nozione volgare di questo S.: secondo la quale la storia sarebbe un movimento
incessante che travolge tutto, anche la verità e i valori, su- bito dopo
l’attimo del loro fiorire. La dottrina che più si avvicina a questa è quella
difesa da G. Sim- mel ; secondo il quale la vita è un fluire incessante che
risolve e concilia ogni cosa entro di sè: «Il bene e il male che facciamo e che
riceviamo, il bello che ci allieta e il brutto da cui fuggiamo, le serie
compiute come quelle rimaste interrotte nella nostra vita, tutte queste cose,
per quanto possano di fatto reciprocamente contrastare rientrano, come elementi
della vita, come scene di un de- stino, nella connessione dell'esperienza
vissuta che si continua senza posa e senza interruzione: in una vita, cioè, il
cui senso, appunto come vita, sovrasta a tutte le opposizioni che i suoi conte-
nuti possono presentare secondo altri criteri» (Hauptprobleme der Philosophie,
1910, IV; tradu- zione ital., pag. 201). Lo stesso Simmel però am- metteva
qualcosa che è più che vita (v.) cioè la forma della vita stessa che emerge da
essa e in essa ritorna (Lebensanschauung, 1918, pag. 22-23). 4° L'indirizzo
della filosofia tedesca che, negli ultimi decenni dell’800 e nei primi del
nostro secolo, ha dibattuto il problema critico della storia. L’assurgere delle
discipline storiche, nel corso del sec. xIx, al rango di scienze faceva nascere
nei loro confronti un problema analogo a quello che Kant si era proposto nei
confronti delle scienze naturali: il problema della possibilità della scienza
storica, cioè della sua validità. Questo problema viene dibattuto in Germania a
partire dagli scritti di Dilthey e specialmente dalla Einleitung in die Geisteswquesti
indirizzi non solo da Dilthey, Win- delband e Rickhert ma anche da Simmel,
Troeltsch e Meinecke; ma ebbero il loro contributo più sostanziale da Max Weber
che affrontò soprattutto il problema della spiegazione storica e della cau-
salità della storia. L'eredità di questo indirizzo di studi, che ha iniziato
l’elaborazione della metodo- logia storica, è stata raccolta dai moderni meto-
dologi della storia (sui quali v. STORIOGRAFIA) (cfr., R. Aron, La philosophie
critique de l’histoire, Essais sur une théorie allemande de l’histoire, 2
ediz., 1950; P. Rossi, Lo S. tedesco contemporaneo, 1956). STORICITÀ (ingl.
Historicity; franc. Histo- ricitè; ted. Geschichtlichkeit). 1. Il modo d’essere
del mondo storico o d’una qualsiasi realtà storica. 2. L'esisteme mondo.
L’interpretazione di essa come storia pluralistica corrisponde
all’interpretazione della realtà storica come oggetto definibile o accertabile
solo attraverso gli strumenti di indagine di cui si disponA) La storia
universale o come meglio si di- rebbe cosmica (ted. Weltgeschichte) è la cono-
scenza del piano provvidenziale del mondo storico (cfr. HeGeL, Phil. der
Geschichte, ed. Lasson, pa- gina 52). Essa ha due caratteristiche fondamentali:
1° È opera del filosofo e non dello storico e ad essa l’opera dello storico può
servire solo come aiuto non indispensabile. Fichte, che la chiama «storia @
priori», afferma: « Comprendere con chiara intelligenza l’universale,
l’assoluto, l’eterno e l’immutabile in quanto guida la specie umana, è compito
del filosofo. Fissare di fatto la sfera sempre cangiante e mutevole dei
fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia della specie umana, è
compito dello storico, le cui sco- perte sono solo casualmente ricordate dal
filo- sofo + (Grundziige des gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, IX; trad. ital.,
Cantoni, pag. 67). Ed Hegel, in po- lemica contro i grandi storici del suo
tempo, de- gradati a «filologi» (v. FiLoLogia), affermava: «Per conoscere il
sostanziale, bisogna accedervi da sè con la ragione... La filosofia, nella
certezza che ciò che impera è la ragione, sarà convinta che l’accaduto troverà
il suo luogo nel concetto e non altererà la verità, come oggi è moda parti-
colarmente presso i filologi che, con quel che si dice acume, introducono nella
sl’occhio del concetto, della ragione» e perciò affidarsi a un modo di
procedere rigorosamente aprioristico (Phil. der Geschichte, 1, pag. 8). Croce
parlava di una «anamnesi » dello Spirito universale che tesse la storia e per
il quale le fonti della storia stessa servono solo come occasioni di ricordo
(Teoria e storia della S., pag. 16). Lo stesso Heidegger condi- vide questa
concezione della storia cosmica. Egli av- verte che « storia cosmica »
significa in primo luogo «lo storicizzarsi del mondo nella sua essenziale unità
esistenziale con l’Esserci»; e in secondo luogo «lo storicizzarsi intramondano
degli stru- menti e delle cose» e che in entrambi i sensi la storia cosmica è
indipendente dalla conoscenza sto- riografica (Sein und Zeit, $ 75) sicchè è la
scelta implicita nella storicità dell’Esserci a determinare la scelta
storiografica (/bid., $ 76). B) La S. pluralistica è caratterizzata in primo
luogo dall’abbandono di concetti come « mondo storico + o « storia universale
», e dal riconoscimento della pluralità delle forme della conoscenza storica e
della sua dipendenza dal materiale documen- tario disponibile e dai princìpi
che guidano la scelta storiografica. Da questo punto di vista, la cono- scenza
storica autentica verte sempre su oggetti delimitati o delimitabili, mai sulla
totalità della storia; e non è mai giudizio su tale totalità sicchè esclude
come privi di senso i concetti di progresso, di decadenza, ecc., intesi in
senso assoluto. Per quanto l’antichità greca ci abbia lasciato esempi eccelto
che 1’Umanesimo ha dato alla metodologia storica. Giacchè mentre il Medio Evo
ignorava la prospet- tiva storica, facendo dei fatti e degli eventi più
eterogenei e lontani fatti ed eventi contemporanei, l’Umanesimo ha cercato di
intendere il passato come passato, l’antichità come antichità, l’altro come
altro (cfr. E. Garin, Medioevo e Rina- scimento, 1954, Il, 5). L'esigenza di
«rivivere» il passato, di farlo «ritornare» sarebbe falsifi- catrice della
storia, se fosse presa alla lettera (cfr. H. I. Marrou, De la connaissance
histo- rique, 1954, pag. 43 sgg): come sarebbe falsifica- trice, se fosse presa
alla lettera l'esigenza affacciata da Croce (Teoria e storia della S. pag. 3
sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938, pag. 5), che ogni storia sia
intesa come « storia contempo- ranea +. Un corollario dell’esigenza della
prospet- STORIOGRAFIA tiva storica è il distacco dal passato, che Nietzsche
riteneva proprio della storia crifica (posta accanto alla storia archeologica
che «conserva e venera » e alla storia monumentale che esalta e incoraggia,
Unzeitgemàsse Betrachtungen, 1873, II) distacco che Nietzsche intendeva come
l’abbandono del passato e l’incamminarsi del presente per nuove vie, e che è
certamente uno degli insegnamenti della storio- grafia. Ma c’è poi un distacco
dal presente che è inerente all’atteggiamento storiografico su cui in- sistette
soprattutto l’Illuminismo e che fu espresso da P. Bayle con famose parole: « Lo
storico, egli diceva, deve dimenticare che è di un certo paese, che è stato allevato
in una certa comunità, che deve la sua fortuna a questo o a quello e che questi
e quegli altri sono i suoi parenti o i suoi amici. Uno storico in quanto tale
è, come Mel- chisedec, senza padre, senza madre, senza genea- logia »
(Dictionnaire, art. Usson, rem. F.). L'ideale proposto da Bayle è difficile,
per non dire impos- sibile, da realizzare perchè, come gli storici oggi
riconoscono (cfr. ad es., MARROU, Op. cif., cap. Il) l’intervento attivo degli
interessi e degli orienta- menti dello storico, condiziona sempre, in qualche
misura, i risultati della sua indagine e persino la scoperta dei fatti.
Tuttavia tutta la tecnica dell’in- dagine storiografica tende, non già a
disincarnare o a disumanare lo storico, come voleva Bayle, ma a limitare e
disciplinare l’intervento dei suoi interessi nella ricerca. 2° La conoscenza
storica è individuante perchè individuanti sono gli strumenti di cui si avvale.
L’individualità o l’unicità (irripetibilità) che è frequentemente riconosciuta
ai fatti storici è in realtà il riflesso in tali fatti degli strumenti che li
accertano (v. STORIA). In primo luogo ogni evento storico è individuato dai due
parametri fondamentali, cronologico e geografico. In secondo luogo, il
materiale documentario della S. ha carat- tere individuante. Un documento, una
moneta, un’iscrizione si riferiscono sempre, ognuno, ad un unico fatto; e così
una testimonianza. In terzo luogo, hanno carattere individuante i criteri di
scelta storiografica, perchè tendono a porre in evi- dennel passato di ogni cosa
cambia a misura che la cosa stessa cambia e si sviluppa + (Op. cir., pag. 36).
La scelta storiografica investe così in primo luogo i fatti; ma essa investe
anche e contempo- raneamente le ipotesi che sono incorporate nello stesso
accertamento dei fatti. La scelta di un’ipotesi non è necessariamente suggerita
allo storico dalle sue proprie simpatie o dai suoi orientamenti; qualche volta,
come accade nel caso di Tucidide, l’ipotesi che egli prospetta e che trova
verificata dai fatti è contraria a tutti i suoi desideri. Il pluralismo delle
scelte, cioè la possibilità di effettuare scelte storio- grafiche differenti e
di mutare e correggere quelle effettuate, è una delle condizioni della
conoscenza storica. I filosofi hanno tentato talvolta di limitare, in linea di
principio, la pluralità delle scelte; cioè di stabilire un principio che
orienti in ogni caso, unilateralmente, la selezione storiografica. Così ha
fatto Hegel affermando che la storia è « storia dello spirito » e obbligando
così la scelta dello storiografo a fermarsi sulle idee e a dichiarare
storicamente inesistente tutto il resto. Così ha fatto anche il materialismo
storico (v.) affermando che la storia è in primo luogo storia dei « rapporti di
produzione di lavoro » e che tutto il resto è « soprastruttura » cioè non
determina ma segue. Non c’è dubbio che questi tentativi di limitazione della
scelta storiogra- fica, e specialmente quello marxista, hanno polemi- camente
richiamato l’attenzione su fatti che potevano essertà di applicazione nel dominio
storiografico (come anche d’altronde nel dominio della fisica) tende a
prevalere tra i metodologi della storia. Lo scritto citato di W. Dray, è in
questo senso, par- ticolarmente significativo (v. su questo punto la voce
SPIEGAZIONE). La preferenza accordata alla spiegazione condizionale toglie
tutta la sua impor- tanza al contrasto tra spiegazione e comprensione che per
un certo tempo parve esprimere il con- trasto tra le scienze della natura e le
scienze dello spirito. Difatti, sia la spiegazione che la compren- sione
consistono nella determinazione della possi- bilità dell’oggetto (v.
COMPRENSIONE). 5° La conoscenza storica è diretta alla deter- minazione di
possibilità retrospettive. Questa è una conseguenza della rinuncia della S.
allo schema causale (che suppone la necessità dell’oggetto sto- rico) e del suo
ricorso allo schema condizionale. Questo schema consiste nella determinazione
di possibilità, o, se si vuole, di probabilità retrospet- tive. Questa
caratteristica fu già riconosciuta propria alla conoscenza storica da Max
Weber: «La con- siderazione del significato causale di un fatto sto- rico, egli
diceva, comincerà anzitutto con la que- stione seguente: se escludendolo dal
complesso dei fattori assunti come condizionanti, oppure mutan- dolo in un
determinato senso, il corso degli av- venimenti avrebbe potuto, in base a
regole generali dell’esperienza, assumere una direzione in qualche modo
diversamente configurata nei punti decisivi per il nostro interesse »
(Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906;
tra- duzione ital, in Z/ metodo delle scienze storico- sociali, pag. 223).
Certamente ogni storico rico- noscerebbe privo di senso il tentativo fatto da
Renouvier nell’Ucronia d’immaginare «lo sviluppo della civiltà europea quale
avrebbe potuto essere e non è stata +. Ma, come dice R. Aron: «Ogni storico,
per spiegare ciò che è stato, si domanda ciò che sarebbe potuto essere. La
teoria si limita a mettere in forma logica questa pratica spontanea dell’uomo
comune + (op. cit., pag. 164; cfr. MARROU, op. cit., pag. 181). Per quanto
spesso gli storici e i metodologi della storia continuino a parlare di « causa
», il senso che danno a questa parola non ha niente a che fare con il
significato tradizionale di essa: pertanto un mutamento terminologico sarebbe
opportuno seguisse al già intervenuto mu- tamento concettuale (Cfr. una
bibliografia selezio- nata sulla metodologia storiografica in Theory und
Practice in Historical Study: a Report of the Com- mittee on Historiography,
1942, e cfr. sugli autori trattati in questa voce: P. Rossi, Storia e
storicismo nella filosofia contemporanea, 1960). STRETTO (ingl. Strict; franc.
Strict; te- desco Streng). L’aggettivo si applica talora al diritto o al dovere
per indicare il suo carattere più rigorosamente obbligatorio. Dice Kant.: « Vi
sono azioni così conformate che la loro massima non può nemmeno essere
concepita senza contrad- dizioni come una legge universale della natura... Ve
ne sono altre in cui non si incontra questa impossibilità interna, ma che sono
tali che è im- possibile volere che la loro massima sia elevata
all’universalità di una legge della natura, perchè una tale volontà si
contraddirebbe in se stessa. Si scorge facilmente che la massima delle prime è
contraria al dovere S. o rigido (rigoroso), mentre la massima delle seconde non
è contraria che al dovere in senso /argo (meritorio) » (Grundlegung zur
Metaphysik der Sitten, I. Altrove Kant chiama diritto S. quello che « può anche
essere rappresen- tato come la possibilità di una costrizione generale
reciproca in accordo con la libertà di ognuno secondo leggi universali » (Mer.
der Sitten, Introdu- zione alla dottrina del diritto, $ FE). Queste nota- zioni
kantiane sono tra le più precise in questa materia e tuttavia son ben lontane
dall’essere convincenti. STRUMENTALISMO. V. PRAGMATISMO. STRUMENTO (ingl.
Instrument; franc. In- strument; ted. Werkzeug). La parola è stata estesa da
Dewey a significare ogni mezzo adatto a con- seguire un risultato in qualsiasi
campo dell'attività umana, pratico o teorico. Dice Dewey: « Come termine
generale strumentale significa la relazione mezzi-risultati come categoria
fondamentale per la interpretazione delle forme logiche, mentre opera- tivo
esprime le condizioni grazie alle quali la ma- teria è: 1° resa adatta a
servire come mezzo e STRETTO 2° effettivamente funziona come mezzo nel com-
piere la trasformazione obiettiva che è il fine del- l'indagine » (Logic, I, $
2, nota; trad. ital., pag. 47-48). STRUTTURA (ingl. Structure; franc. Structure;
ted. Strukture). 1. Nel senso logico, la pianta o il piano d’una relazione:
sicchè si dice che due rela- zioni hanno la stessa S. quando lo stesso piano
vale per entrambe, cioè quando sono analoghe l’una all’altra come una carta
geografica è analoga al paese che rappresenta. La S. è in questo senso il «
numero-relazione » ed è concetto generalissimo, equivalente a piano,
costruzione, costituzione, ecc. (RussELL, Introduction to Mathematical Philosophy, VI; trad. ital., pag.
74-75; Human Knowledge, IV, 3; trad. ital., pag. 362 sgg.). La descrizione formale di Russell si attaglia all’uso
corrente del termine: per es., all’uso che se ne fa nella terminologia di Marx
e dei marxisti. In questa terminologia, S. è la costituzione economica della
società in cui en- trano i rapporti di produzione e i rapporti di lavoro mentre
soprastruttura (v.) è la costituzione giuridica, statale, ideologica della
società stessa (Marx, Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.;
Deutsche Ideologie, I). In questo senso la parola S. è da un lato sino- nimo di
forma nel senso in cui questo termine ricorre nel gestaltismo che infatti viene
anche chia- mato strutturalismo o psicologia strutturale (v. Pst- coLogia);
dall’altro è sinonimo di sistema (nel significato 2) come insieme o totalità di
relazioni. In quest’ultimo senso la parola è passata nella linguistica,
nell’estetica e negli altri campi in cui viene oggi comunemente adoperata. Lo
stesso Saus- sure aveva parlato di sistema: «La lingua è un sistema di cui
tutte le parti debbono essere consi- derate nella loro solidarietà sincronica »
(Cours de linguistique générale, III, $ 3). Quando si parla della struttura
come di «un insieme di elementi qualsiasi, dunque astratti, tra i quali o tra
certi loro sotto-insiemi, si saranno definite relazioni ugualmente astratte »
(Granger) o come «un com- plesso di elementi sottoposto a relazioni determi-
nate » (Mouloud) («La notion de structure» in Revue Inter. de Phil. 1965, pag.
254, 315) o in modi analoghi (Sens er usage du terme Structure dans les
sciences humaines et sociales, a cura di Bastide, 1962, passim; The Structure
of Language, a cura di Fodor e Katz, 1964, pag. 33 e passim), il termine ha
significato generico di sistema e po- trebbe essere opportunamente sostituito
da esso. Lo stesso può dirsi dell’uso fatto del termine nel campo
antropologico, soprattutto da Lévi-Strauss; il quale esplicitamente definisce
la S. come un sistema di elementi tali che una modificazione qual- siasi
dell'uno implica una modificazione di tutti gli altri; e la considera come un
modello concet- STRUTTURALISMO tuale che deve dar conto dei fatti osservati e
per- mettere di prevedere in qual modo l’insieme reagirà nel caso della
modificazione di uno degli elementi (Anthropologie structurale, 1958, XV, 1, pag.
306 sgg). 2. In un senso ristretto e specifico, la S. non è un qualsiasi piano
o sistema di relazioni, ma un piano gerarchicamente ordinato cioè con un ordine
finalistico intrinseco, destinato a conservare, per quanto possibile, il piano
stesso. In questo senso specifico la parola fu usata da Dilthey che con essa
designò il fondamentale strumento esplicativo del mondo umano e storico. Egli
parlò di una « S. psi- chica » intesa come « l’ordine secondo cui, nella vita
psichica sviluppata, i fatti psichici di qualità diffe- rente sono
reciprocamente legati da un’interna rela- zione che può essere immediatamente
vissuta » (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 3 sgg.; cfr. Critica della ragione
storica, trad. ital., pag. 63). E soprattutto si servì del termine per indicare
le unità elementari del mondo storico cioè gli individui, le epoche, le
comunità, le istituzioni e i sistemi di cultura, in- tendendo per esso in
questo senso una connessione dinamica accentrata in se stessa «cioè che ha in
se stessa il suo fine e i suoi criteri di valutazione » (Der Aufbau der
geschichtlichen Welt in den Geistes- wissenschaften, 1910, VI, 2; trad. ital.,
in Critica della ragione storica, VI, 1, 2, pag. 243 sgg.). La connessione
dinamica o vitale in cui Dilthey vide il carattere proprio della S. fu tradotta
da Spengler col concetto di organismo, del quale si servì per descrivere le
epoche storiche che nascono, de- cadono e muoiono (v. Epoca). In questo senso
il termine viene adoperato comunemente in bio- logia. Secondo l'illustrazione
che ne ha dato re- centemente un biologo, la S. sarebbe «la forma rela- tiva
alla funzione +, come la funzione sarebbe la «S. che cambia nel tempo» (A. C.
MOULYin due modi: I) come costi- tuente l’ordine o la sostanza della realtà in
esame, quindi determinante necessariamente tutte le sue determinazioni in modo
da renderle infallibilmente prevedibili (Levi-Strauss, Sapir V. art. seguente).
Il) Come un modello (v.) o un costrutto (v.) ipo- tetico, suscettibile di
interpretazioni diverse, che eserciti condizionamenti non necessitanti e renda
possibili solo previsioni probabili (strutturalisti russi, cibernetici). STRUTTURALISMO
(inglese Structuralism; fr. Structuralisme; ted. Strukturalismus). Con questo
termine si intende ogni metodo o procedimento d’indagine che, in qualsiasi
campo, faccia uso del concetto di Struttura in uno dei sensi chiariti. Il
termine è nato nella psicologia della forma e nella linguistica: nel qual campo,
lo S. è stato difeso dai russi R. Jakobson, N. Trubetzkoy e da nume- rosi altri.
Nel campo dell’antropologia il punto di vista strutturalistico è stato
introdotto da Radcliffe- Brown a partire dalla sua introduzione all’opera
African Systems of Kinship and Marriage (1950) e diffuso nell’antropologia
moderna da Levi-Strauss (Anthropologie structurale, 1958 e spec. cap. XV). Ci
sono anche tentativi di estenderlo a tutto il dominio delle scienze umane.
Nella sua esigenza più generale, lo S. tende non soltanto a interpretare in
termini di sistema un campo specifico di indagine ma a mostrare come i diversi
sistemi specifici, verificati in diversi campi (per es. nell’antropologia,
nell'economia e nella linguistica), si corrispondano o abbiano tra loro
caratteri analoghi. Levi-Strauss ad es. ritiene possibile che una stessa
struttura possa essere riscontrata a tre livelli della società: nel senso che
le regole della parentela e del matri- monio servono ad assicurare la
comunicazione delle donne tra i gruppi come le regole economiche servono ad
assicurare la comunicazione dei beni e dei servizi e le regole linguistiche la
comunicazione dei messaggi (Anthropologie structurale, cap. III, pag. 95). Lo
S. è schierato polemicamente contro tre fronti: lo storicismo, l’idealismo e
l’umanesimo. Contro lo storicismo, che è sostanzialmente una considerazione
/ongitudinale della realtà cioè una interpretazione di essa in termini di
divenire, svi- luppo o progresso, afferma il primato di una con- cezione
rrasversale (cross-tion) cioè di una con- cezione che considera la realtà
stessa come un sistema relativamente costante o uniforme di rela- zioni. Il
sistema non è certo ritenuto dallo S. statico o immobile perché si ammette una
considerazione diacronica oltre che sincronica del sistema stesso; ma si
subordina la considerazione diacronica a quella sincronica, considerando i
mutamenti tempo- rali come trasformazioni nelle relazioni costituenti un
sistema o oscillazioni di queste trasformazioni intorno al limite costituito
dal sistema stesso. Contro l’idealismo, lo S. afferma l’oggettività di ogni
sistema di relazioni che, anche quando è con- cepito come un modello
concettuale cioè una costru- zione scientifica, non è ridotto a un atto o una
funzione soggettiva ma ha come funzione fonda- mentale quella di spiegare il
maggior numero di fatti accertati. Infine, contro l’umanesimo lo S. afferma la
priorità del sistema sull'uomo: delle strutture sociali sulle scelte
individuali, della lingua sul parlante singolo e in generale
dell’organizzazione economica o politica sugli atteggiamenti individuali. Sapir
ha scritto: « Le lingue sono per noi qualcosa di più che sistemi di
comunicazione intellettuale. Esse sono abiti invisibili che si drappeggiano
intorno al nostro spirito e predeterminano la forma di tutte le sue espressioni
simboliche » (Language, 1922, cap. XI, trad. ital, pag. 218). Secondo
Althusser, la strut- tura globale della società determina tutte le sue
manifestazioni al modo in cui la Sostanza di Spi- noza determina tutti i suoi
modi (Lire Le Capital, 1965, IX, trad. ital., pag. 196 sgg.). Questo deter- minismo
è una conseguenza dell’interpretazione realistica del concetto di struttura
mentre è esclusa dall’interpretazione di esso come modello (v.) 0 costrutto
ipotetico, suscettibile di interpretazioni diverse. Tuttavia poichè storicismo,
idealismo e uma- nesimo indeterministico sono stati i tratti caratte- ristici
del clima idealistico dalla prima metà del ’900, lo S., nelle sue varie forme,
denuncia il dissolversi di questo clima nella cultura contemporanea. STURM UND
DRANG. Con questa espres- sione, che è il titolo di un dramma di Massimiliano
Klinger del 1776 e significa « tempesta e impeto », s'intende un movimento
filosofico e letterario che ebbe luogo in Germania nella seconda metà del sec.
XVII e che costituisce l’antecedente immediato del Romanticismo. Gli
atteggiamenti propri di questo movimento sono quelli che, per l'appunto,
possono essere simboleggiati dalle due parole in questione. Si tratta di
atteggiamenti irrazionalistici che tro- vano la loro espressione filosofica
nelle dottrine di Haman, Herder e Jacobi: le quali prendono atto STURM UND
DRANG dei limiti che Kant aveva imposti alla ragione solo per procedere al di
là della ragione stessa e far appello all’esperienza mistica o alla fede (v.
FEDE, FiLosoFia DELLA). Dallo «S. und Drang» si passa al Romanticismo quando
dal concetto kantiano della ragione finita — alla quale si contrappone la fede
o il sentimento, cui si attribuisce il potere cono- scitivo più alto — si passa
al concetto della ragione infinita o capace di raggiungere l’Infinito, che co-
mincia con Fichte: al quale infatti si deve la prima ispirazione del
Romanticismo (v.). SUAREZISMO (ingl. Suarezianism; franc. Sua- rezisme). La
dottrina dello spagnolo Francisco Suarez (1548-1617) che costituisce la
principale ma- nifestazione filosofica della Controriforma cattolica. Essa è
costituita sostanzialmente da un deciso e rigoroso ritorno al tomismo: le
Disputationes me- taphysicae di Suarez sono un manuale sistematico di
metafisica tomistica. Suarez tuttavia fece una concessione importante
all’indirizzo della scola- stica del sec. xrv, ammettendo l’individualità del
reale cioè riconoscendo che una cosa singola è tale di per se stessa e non per
la materia o per la forma o per un qualsiasi altro principio. Si scostò pure
dal tomismo nella dottrina politica esposta nel De Le- gibus (1612), asserendo
che il potere temporale dei prìncipi deriva soltanto dal popolo; e ciò per
privi- legiare di fronte ad esso il potere ecclesiastico, derivante
immediatamente da Dio. SUBALTERNAZIONE (lat. Subalternatio ; in- glese
Subalternation; franc. Subalternation; ted. Su- balternation). Con questo
termine o con quello di opposizione subalterna si indica il rapporto tra la
proposizione universale e la proposizione partico- lare corrispondente della
stessa qualità; per es., tra « ogni uomo è giusto » e « qualche uomo è giusto
è; o tra « nessun uomo è giusto » e « qualche uomo non è giusto ». La
proposizione universale si chiama subalternante e quella particolare
subalternata (PIETRO Ispano, Summ. Log., 1.14); JunGIuUs, Log. Ham- burgensis,
II, 9, 15; B. HERDMANN, Logik, $ 70). Hamilton ha chiamato restrizione la S.
(Lectures on Logic, II°, pag. 269) (v. QUADRATO DEGLI oP- POSTI).
SUB-CONTRARIA, PROPOSIZIONE (la- tino Propositio sub-contraria; ingl.
Sub-contrary Proposition; ted. Subcontràrsatz). Nella logica tra- dizionale si
chiamano così, nel loro rapporto reci- proco, la proposizione particolare
affermativa e quella particolare negativa: per es., « qualche uomo corre» e
«qualche uomo non corre» (cfr., ad es., Pietro Ispano, Summ. Logicales, 1.13)
(v. Qua- DRATO DEGLI OPPOSTI). SUBCONTRARIETAÀ (lat. Subcontrarietas; in- glese
Subcontrary; franc. Subcontraire; ted. Sub- contràr). Il rapporto di
opposizione tra proposizioni SUBLIME 849 particolari. Ad es., « Socrate corre
», « Socrate non corre + (Pietro Ispano, Sum. Log., 1.27). Talvolta, il
rapporto tra possibile e non necessario (JunGiUS, Logica Hamburgensis, II, 12,
29). SUBCOSCIENTE (ingl. Subconscious; fran- cese Subconscient; ted.
Unterbewusst). Lo stesso che inconscio. Alcuni psicologi francesi del secolo
scorso hanno cercato di distinguerlo da inconscio conside- randolo come
coscienza debole o diminuita (Ribot, Janet, ecc.). Ma la distinzione è apparsa
fallace e il termine stesso è caduto in disuso (v. INCONSCIO). SUBLIMAZIONE
(ingl. Sublimation; franc. Su- blimation; ted. Sublimierung). Un meccanismo
psi- cologico di difesa che consiste nella trasformazione degli impulsi
sessuali in attività psichiche superiori e specialmente nella produzione
artistica. Il mec- canismo fu così descritto da Freud: « Le eccitazioni
eccessive che derivano da sorgenti differenti della sessualità trovano una
derivazione e una utilizza- zione in altri domini, in modo che le disposizioni
che all’inizio erano pericolose produrranno un aumento apprezzabile nelle
attitudini e nelle atti- vità psichiche » (Trois essais sur la théorie de la
sexualité, trad. franc., pag. 177). SUBLIME (gr. tyoc; lat. Sublime; ingl.
Sublime; franc. Sublime; ted. Erhaben). 1. Una forma lin- guistica, letteraria
o artistica che esprima sentimenti o atteggiamenti particolarmente elevati o
nobili. In loro, distinzione che non deve mai dimenticare chi si proponga di
suscitare pas- sioni » (Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and
Beautiful, 1756, MII, 27). Il terrore, il dolore in generale, le situazioni di
pericolo sono la causa del S. (Zbid., IV, 5). Come questa causa possa produrre
un godimento (poichè il S. è un godimento) è problema che Burke risolve al modo
stesso in cui l’aveva risolto Hume, che a sua volta si era ispirato a
Fontenelle (Réflexions sur la poé- tique, $ 36): Il godimento deriva
dall’esercizio cioè dal movimento, che il dolore e il terrore provocano
nell'animo, quando sono liberati dal pericolo reale della distruzione. In
questo caso si produce, dice Burke, non un piacere ma « una specie di dilettoso
orrore, di tranquroporzionata alle facoltà sensibili dell’uomo (S. matematico)
o di una potenza terrificante per queste stesse facoltà (S. dinamico); 2° il
sentimento di poter operare il riconoscimento di quella spropor- zione o di
quella minaccia, e perciò di essere su- periore all’una o all’altra. «La
qualità del senti- mento del sublime, dice Kant, è che esso è, nei confronti di
un oggetto, un sentimento di pena, che è rappresentato insieme come finale; il
che è possibile perchè la nostra propria impotenza rivela la coscienza di una
potenza illimitata dello stesso soggetto e il sentimento può giudicare
esteticamente quest’ultima solo attraverso la prima» (Crit. del Giud., $ 27).
Kant pertanto definisce il S. come «ciò che piace immediatamente per la sua
oppo- sizione all’interesse dei sensi » (/bid., $ 29, Oss. ge- nerale):
intendendo con questo che, avvertendo la sproporzione o il pericolo che il S.
rappresenta per la sua natura sensibile, l’uomo si rende conto che, per via di
questo stesso avvertimento, egli non è schiavo di tale natura ma libero di
fronte ad essa. Federico Schiller non fece che esporre e chiarire le idee
kantiane dicendo che «si chiama S. un oggetto alla cui rappresentazione la
nostra natura fisica sente i propri limiti, nello stesso tempo in cui la nostra
natura ragionevole sente la propria superiorità, la sua indipendenza da ogni
limite: un oggetto rispetto al quale siamo fisica- mente deboli mentre
moralmente ci eleviamo sopra di esso con le idee» (Vom Erhabenen, 1793). Egli
distinse il S. superamento delle espressioni, è la sublimità; la quale perciò
non consiste, come Kant ritenne, nella pura soggettività del sentimento e nel
suo potere di elevarsi alle idee della ragione, ma piuttosto ha il suo
fondamento nel significato rappresentativo, per cui si riferisce ad una
Sostanza assoluta » (/bid., pag. 484). Hegel pertanto vide nel S. una forma
speciale dell’arte e precisamente l’arte simbolica. Al dolore o alla situazione
in pericolo, che per l’estetica del *700 costituisce la causa del S., egli
sostituì l’inesprimibilità e la maestà della Sostanza infinita. Schopenhauer si
limitò invece a riproporre la dottrina tradizionale e ritenne che il S. si ha
quando «quegli oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contem-
plazione pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere,
quale si palesa nella sua oggettività — nel corpo umano — e si oppon- gono ad
essa o la minacciano con la loro forza SUBLIMINALE superiore » (Die Welr, I, $
39). L'ultimo a riesporre il concetto del S. in questi termini è stato
Santayana: « La suggestione del terrore ci fa ritirare in noi stessi e qui
interviene di rimbalzo la coscienza della sicu- rezza o dell’indifferenza e noi
abbiamo quell’emo- zione di distacco e di liberazione nella quale consiste
realmente il S. » (The Sense of Beauty, 1896, $ 60). SUBLIMINALE (ingl.
Subliminal; franc. Su- bliminal; ted. Subliminal). Lo stesso che inconscio. Il termine fu reso popolare
da F. Myers (Human Personality and its Survival of Bodily Death, 1i finale o
terminale... Il mondo non si ferma quando la persona
che ha avuto S. ha raggiunto il fatto suo nè si ferma egli stesso e la specie
di S. che egli ottiene, nonchè il suo atteggiamento rispetto ad esso, è un
fattore di ciò che verrà dopo +» (Human Nature and Conduct, pag. 254).
SUDDIVISIONE. V. Divisione. SUFFICIENTE, RAGION. V. FONDAMENTO. SUFISMO (ingl.
Sufism; franc. Sufisme; ted. Su- fismus). Il misticismo arabo-persiano (cosiddetto
dal pelo di cammello di cui era fatto il mantello dei SUICIDIO 851 suoi
seguaci) che si sviluppò a partire dal sec. vmi per influsso del cristianesimo
e che culminò nel neoplatonismo di Algazali (sec. x1) (cfr. J. A. AR- BERRY,
Sufism, 1950). SUGGESTIONE (ingl. Suggestion; franc. Sug- gestion; ted.
Suggestiodal corpo. Questo è l’argomento addotto contro il S. da Plotino, il
quale dice che «quando si fa violenza al corpo per distaccarlo dall’anima non è
il corpo che lascia partire l’anima, ma la passione a decidere, cioè la noia,
il dolore o la collera » (Enn., I, 9). Questa è sostanzialmente anche la
ragione addotta da Schopenhauer secondo il quale «il S. lungi dall’essere
negazione della volontà è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa
» perchè « il suicida vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che
gli sono toccate» (Die Welt, I, $ 69). 3° Perchè è la trasgressione di un
dovere verso se stesso, in quanto, come dice Kant, «l’uomo è obbligato alla
conservazione della propria vita uni- camente per il fatto che è persona »
(Mer. der Sitten, II, parte I, $ 6). 4° Perchè è un atto di viltà. Fichte a
questo proposito osservava che esso può essere considerato ugualmente come un
atto di coraggio. Se difatti al suicida manca il coraggio di « sopportare una
vita divenuta insopportabile », il S. compiuto con fredda meditazione è
l’espressione del dominio della ra- gione sulla natura cioè sull’impulso
all’autocon- servazione. «In confronto con l’uomo virtuoso, concludeva Fichte,
il suicida è un vile; in confronto con il miserabile che si sottomette alla
vergogna e alla schiavitù per prolungare per qualche anno il sentimento
meschino della sua esistenza, è un eroe » (Sittenlehre, 1798, in Werke, IV,
pag. 268). 5° Perchè è ingiusto verso la comunità cui il suicida appartiene.
Questa è la ragione addotta da Aristotele (Et. Nic., V, 11, 1138a 9). A questo
argomento Hume obiettava che le obbligazioni del- l’uomo e della società sono
reciproche: sicchè la morte volontaria non scioglie solo quelle dell’uomo verso
la società ma anche quelle della società verso l’uomo (0f Suicide, in Essays,
cit., pag. 413). Dall'altro lato i filosofi hanno ritenuto lecito o doveroso il
S. in base ai seguenti motivi: 1° Perchè può essere un dovere rinunciarealla vita
quando il continuare nella vita renderebbe impossibile adempiere il proprio
dovere. Così pen- savano gli Stoici, dei quali Cicerone così espone la
dottrina: « Chi ha in maggior numero le cose con- formi a natura ha il dovere
di rimanere in vita; chi invece ha o si crede destinato ad avere in maggior
numuna meta e un erede, vuole la morte al- l’ora giusta e per la sua meta e per
il suo erede» (Also sprach Zarathustra, I, Della libera morte). 3° Perchè può
essere la via d'uscita da una situazione insostenibile e il solo modo per
salvare la propria dignità e libertà. Da questo punto di vista Hume affermava
che « Il S. è in accordo con il nostro interesse e con il dovere verso noi
stessi: ciò non può essere messo in dubbio da alcuno il quale riconosca che
l’età, la malattia e la disgrazia possono rendere la vita un peso insostenibile
e renderla peggiore dell’annichilamento » (Of Suicide, in Essays, cit., pag.
414). Nella filosofia contempo- ranea Jaspers ha addotto lo stesso argomento in
favore del S. (Phil., II, pag. 303 sgg.). E Sartre ha scritto: «Se sono
mobilitato in una guerra, questa guerra è la mia guerra: essa è a mia immagine
ed io la merito. La merito in primo luogo perchè potevo sottrarmici con il S. o
con la diserzione: queste possibilità ultime devono sempre esserci presenti
quando si tratta di affrontare una situa- zione » (L’érre et le néant, pag.
639). SUI GENERIS. Espressione usata in frasi sco- lastiche come questa: « Ogni
cosa è misurata da qualcosa che è del suo genere»: per es., la lun- ghezza
dalla lunghezza, il numero dal numero, ecc. La frase può essere assunta come
premessa per affermare che, dal momento che Dio è la misura di tutte le
sostanze, egli è nel genere delle sostanze. Ma la dottrina scolastica su questo
punto è, al contrario, che Dio non è in alcun genere per quanto sia principio
del genere delle sostanze e di tutti gli altri generi (cfr. S. TomMAso, S. Th.,
I, q. 3, a. 5; Contra Gent., I, 25). SUMMA. Con questo termine si cominciò ad
indicare nel sec. xIl una breve trattazione sistema- tica di un certo complesso
di conoscenze. Abelardo scriveva nella prefazione alla sua Introduzione alla
teologia: «Ho scritto una summa della sacra eru- dizione, come introduzione
alla divina scrittura » (P. L., 68°, col. 979). Le S. prendevano abitual- mente
il titolo dalla materia trattata (S. de vitiis et virtutibus; S. de articulis
fidei; S. sermonum; S.gram- maticalis; S. logicalis; ecc.). A partire dal 1200
circa, il termine cominciò a essere preferito a quello di Sententiae nel titolo
delle esposizioni sistematiche della teologia. L’opera di Pietro da Capua (com-
posta verso il 1200) porta già nei manoscritti il titolo di Summa. Nelle grandi
opere sistematiche del xm secolo il termine S. è usato quasi esclusiva- mente
(cfr. M. GRABMANN, Geschichte der scho- lastischen Methode, II, pag. 23 sgg.).
SUNNITI (ingl. Sunnites; franc. Sunnite; te- desco Sunniten). La corrente
ortodossa dell’Islam la quale ammette la validità di credenze pratiche non
prescritte dal Corano ma di cui si fa risalire l'origine allo stesso Maometto.
Gli Sciiti sono in- vece i negatori del valore della tradizione. SUPERADDITA,
FORMA. Questa espres- sione venne desunta da Telesio dagli scolastici di
ispirazione scotistica per designare l’anima sopran- naturale, direttamente
infusa nell'uomo da Dio, che Telesio ammise accanto all’anima naturale e mate-
riale, come soggetto della vita religiosa e della aspira- zione dell’uomo verso
ciò che è al di là della natura. A differenza dell’anima naturale, la forma S.
non sa- rebbe soggetta alla corruzione (De rer. nat., V, 3). SUPERANIMA (ingl.
Oversoul). Così R. W. Emerson chiamò Dio, concepito come il principio immanente
nel mondo e nell’uomo (Narure, 1836). SUI GENERIS SUPERARE (ingl. 7o Sublate;
franc. Dépasser; ted. Aufheben). Termine adoperato da Hegel per indicare il
procedimento della dialettica che nello stesso tempo conserva e abolisce
ciascuno dei suoi momenti. «La parola S., diceva Hegel, ha nella lingua un
duplice senso per cui significa da un lato conservare, ritenere e dall’altro
far cessare, metter fine. Il conservare racchiude già in sè il negativo, che
qualcosa sia tolto alla sua imme- diatezza e quindi da un'esistenza aperta agli
in- flussi estranei, al fine di ritenerlo. Così il superato è insieme un
conservato il quale ha perduto sol- tanto la sua immediatezza ma non perciò è
annul- lato » (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, nota; trad.
ital., pag. 105-06). Per quanto Hegel, nello stesso passo avvicini il
significato del termine tedesco al latino fo/lere, l’uso italiano ha sancito
l’equivalenza del termine con superare. Superamento significa di conseguenza un
progresso che ha conservato ciò che c’era di vero nei momenti precedenti e lo
ha portato alla completezza. Come esempio del concetto, si può addurre quello
che Hegel dice del superamento nel dominio della filo- sofia. «Ogni filosofia è
stata necessaria e tale è ancora; nessuna quindi è scomparsa anzi tutte sono
conservate affermativamente nella filosofia come momenti di un tutto: i
princìpi si conser- vano e la filosofia più recente è il risultato di tutti i
princìpi precedenti: in tal senso nessuna filosofia è stata confutata. Ciò che
è stato confutato, non è il principio di una data filosofia ma solo la pretesa
che essa rappresenti la conclusione ultima, asso- luta » (Geschichte der
Philosophie, I, Intr., A, 3, Db). È un termine di cui ha fatto uso ed abuso la
ter- minologia dell’idealismo italiano tra le due guerre. SUPERBIA (gr.
xxuvérng; lat. Superbia; inglese Pride; franc. Orgueil; ted. Hochmuth). Il
vizio corrispondente alla virtù della magnanimità (v.) e che ha come estremo
opposto la pusillanimità, nell’etica di Aristotele. Dice Aristotele: «I superbi
sono stolti perchè s’ingannano su se stessi: intra- prendono imprese onorevoli
credendo d’esserne degni ma fanno così solo risultare la loro insuffi- cienza »
(Er. Nic., IV, 3, 1125 a 27). Questa defi- nizione è rimasta ferma nella
tradizione e molte volte ripetuta. Diceva Spinoza: « La S. è una gioia
originata dal fatto che l’uomo sente di sè più del giusto » (Zbid., III, 26,
Scol.). SUPERCOSCIENZA (franc. Supraconscience). Termine adoperato da Bergson
per indicare una « pura attività creatrice» o una « pura coscienza », quale
egli esclude che sia la vita (Évol. Créarr., 8 ediz., 1911, pag. 267, 283,
ecc.). SUPsenziale » (De divinis nominibus, II, in P. L., 122°, col. 1122); e
Scoto Eriugena il termine su- peressentia (De divis. nat., I, 14). E il termine
ri- corre ancora nella tradizione mistica e teosofica. Maestro Eckhart parla di
Dio come di «una es- senza superessenziale e un nulla S.» (Deutsche Mystiker
des XIV Jahrhunderts, ed. Pfeiffer, II, pag. 318-19). E la stessa qualifica
ricorre in Schelling (Werke, I, X, pag. 260) (v. TEOLOGIA; TRASCEN- DENZA).
SUPERIORE (lat. Superius; ingl. Superior; franc. Supérieur; ted. Hòher). 1. In
senso logico: più esteso, che ha maggiore estensione o denota- zione. In questo
senso si dice « genere S. » o « con- cetto S.» o in generale «termine S.+.
Quest’uso rimonta alla logica terministica del sec. xrv (PIETRO Ispano, Summ.
log., 2.08; 3.02; 12.13; cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 49). 2.
Ciò che appartiene a una fase più progre- dita dell’evoluzione biologica: in
tal senso si dice «le specie S.» o «gli animali superiori ». 3. Ciò che
appartiene alla sfera delle funzioni spirituali o simboliche dell’uomo. In tal
senso si dice « funzioni S.» o «interessi superiori ». 4. Ciò che in un senso
qualsiasi si ritiene abbia un grado più alto di dignità o di valore, ad esempio
«uomo S.» o « forme d’arte superiori ». SUPERORGANICO (ingl. Superorganic;
fran- cese Superorganique; ted. Ùberorganisch). Termine introdotto dal
positivismo per indicare ciò che è al di là della vita organica cioè la vita
psichica o la vita sociale e specialmente quest’ultima. Il ter- mine è usato
frequentemente da Spencer. SUPERSTIZIONE (gr. Sera:daruovia; latino
Superstitio; ingl. Superstition; franc. Superstition; ted. Aberglaube).
L’eccesso o le aberrazioni della religione; oppure la forma di religione che
non si condivide. Nel primo senso, la S. fu definita da Cicerone: « Non solo i
filosofi ma anche i nostri antenati distinsero la S. dalla religione: quelli
che per intere giornate pregavano e immolavano vit- time per ottenere che i
loro figli fossero ‘super- stiti” furono chiamati superstiziosi e tale nome 853
ebbe poi più vasta estensione» (De nat. deor. II, 28, 71-72). Questa
definizione fu sostanzialmente ripetuta da S. Tommaso: « La S. è il vizio
opposto per eccesso alla religione e per il quale si presta un culto divino a
chi non si deve 0 nel modo in- debito » (S. 7A., II, 2, q. 93, a. 1). Nel
secondo senso definiva la S. Hobbes affermando: «Il ti- more di potenze
invisibili, se immaginate dallo spirito o suggerite da racconti pubblicamente
am- , è religione; se suggerite da racconti non pubblicamente ammessi, è S.»
(Leviath., I, 6). Ovviamente S. è termine polemico: per lo studio obiettivo
(antropologico o sociologico) delle cre- denze non ci sono superstizioni. E
quando si parla di S., lo si fa in riferimento a un determato si- stema di
credenze religiose che si ritiene come l’unico vero. Perciò ogni religione
appare come S. ai seguaci di una religione diversa; e l’unica de- scrizione
esatta del termine è quella data da Hobbes. SUPERUOMO (gr. srepdvipwros; ingl.
Su perman; franc. Surhomme; ted. Ùbermensch). Il termine che ricorre in Luciano
(Cataplus, 16) e fu usato talora per indicare l’uomo-Dio cioè il Cristo (cfr.
T. Tasso, Lettere, V, 6) era adoperato già dall’Ariosto (Or/. Fur., 38, 62) per
indicare un’umanità fuori del comune. Fu introdotto in Germania da Heinrich
Miiller (Geistliche Erbauungs- stunden, 1664-66) e adoperato da molti scrittori
del Romanticismo tedesco, compreso Goethe (Faust, I, Notte). Ma soltanto da
Nietzsche il termine ebbe un significato filosofico e fu reso popolare. Il S. è
l’incarnazione della volontà di potenza: «L’uomo dev'essere superato. Il S. è
il senso della terra... L'uomo è una corda tesa tra la bestia e il S., una
corda sull’abisso » (A/so sprach Zara» thustra, I, 3). Il S. è l’incarnazione dei
vil si- gnificato denotativo dei termini che ricorrono nella proposizione,
mentre il significato in senso stretto è il significato connotativo (v.
SigNIFICATO). La S. è in questo senso definita come una positio pro alio, uno
stare per o in luogo di qualche altra cosa: nel senso che quando si dice, ad
es., «l’uomo corre» il termine «uomo» sta per Socrate, per Platone o per
qualche altro (PIETRO IspanO, Summ. Log., 6.03; OckHam, Summa Log. I, 63; Buri-
pANO, Sophismata, 3; ALBERTO DI SASSONIA, Lo- gica, II, 1). Salvo che in alcuni
particolari, la dottrina della suppositio si presenta pressochè uniforme in
tutti i logici del sec. xrv. Essi distin- guevano tre specie fondamentali di
essa: la S. personale, la S. semplice e la S. materiale. La Spersonale si ha quando
il termine sta per l’oggetto significato qualunque esso sia: o cosa esterna o
parola o concetto o segno scritto o altro. Così nelle frasi «l’uomo è un
animale», «il nome è parte della proposizione », «la specie è un univer- sale »
i termini uomo, nome e specie hanno una S. personale perchè stanno per i
rispettivi oggetti. La S. semplice si ha quando il termine sta in luogo, non
dell’oggetto significato ma del concetto di esso. Così quando si dice « l’uomo
è una specie » il ter- mine uomo non sta per gli uomini ma per il con- cetto «
uomo ». Infine la S. materiale si ha quando un termine sta per la voce o per il
segno scritto come nelle frasi «uomo è un nome» o « sta scritto uomo » in cui
l’uomo sta per la parola o per il segno scritto. Ognuno di questi tipi di S.
viene poi dai logici del x1v secolo diversamente suddiviso e trattato nelle
difficoltà e nei problemi che offre. Per dare un’idea di tali problemi, ecco il
modo in cui Ockham affronta la difficoltà presentata dalla S. del termine
«uomo» nella proposizione «l’uomo è la più alta delle creature». Qui il ter-
mine uomo non può avere una S. semplice perchè non è il concetto uomo ad essere
la più alta delle creature; ma neppure una S. personale perchè so- stituendo a
« uomo » un singolo uomo il giudizio risulta falso. La soluzione è che la
proposizione ha una S. personale ma che dev'essere limitata dicendo che l’uomo
è la più alta di tutte le crea- ture che sono diverse da lui: in questo caso la
pro- posizione diviene vera dei singoli individui umani (Summa Log., I, 66). La
dottrina della S. fu abbandonata quando la logica terministica fu abbandonata
in favore della logica mentalistica sotto l’influenza del cartesia- nesimo. I
problemi da essa trattati vennero eredi- tati dalla teoria del concetto (cfr. E.
ARrNnOLD, Zur Geschichte der Suppositionstheorie, in Sym- posion, II, 1954; E.
A. Moopy, Truth and Conse- quence in Mediaeval Logic, 1953). SURRETTIZIO (lat.
Surreptitius; ingl. Sur- reptitious, franc. Subreptice; ted. Erschlichen). Propriamente, nel significato latino del termine, ciò
che si possiede, si acquista o si fa, clandesti- namente o senza averne
diritto. In filosofia, il ter- SURRETTIZIO mine viene specialmente usato per
indicare un presupposto o un'ipotesi di cui si fa uso in un ragionamento senza
esplicitamente assumerlo o dichiararlo. In questo senso, Kant chiamò surre-
zioni delle sensazioni (« Subreptione der Empfin- dungen », Crit. R. Pura, $ 6)
le qualità sensibili che, sulla base delle sensazioni, si attribuiscono agli
oggetti empirici. SUSSISTERE (lat.
Subsistere; ingl. To Subsist; franc. Subsister; ted. Subsistiren). Esistere come sostanza; o esistere indipendentemente
dallo spi- rito o dal soggetto pensante. Nel primo senso il termine (che
nell’ordinario uso latino significa per- sistere o durare) fu introdotto da
Boezio (Phil. Cons., III, 11) e conformemente usato nella tra- dizione
scolastica (Gn_.BERTO DE LA PORRÉ, /n Boethi De Trinitate, P. L. 64°, 1281; S.
ToMMaso, S. Th., I, q. 29, a. 2). Ricorre nello stesso al modo d’essere degli
universali e dai Neorealisti americani a tutte le entità neutre, costituenti il
mondo, che con la loro aggregazione possono formare sia la coscienza sia le
cose (The New Rea- lism, 1912). Questo secondo significato è tuttora abbastanza
diffuso nella filosofia contemporanea. SUSSUNZIONE (lat. Subsumptio; ingl. Sub- sumption;
franc. Subsumption; ted. Subsumption). Propriamente,
l’assunzione della premessa minore del sillogismo; la quale fu detta da
Hamilton hypolemma per riservare il termine /emma (v.) alla premessa maggiore
(Lectures on Logic, I?, pag. 283; cfr. WOLFF, Log., $ 362). Kant parlò della
«S. di un oggetto sotto un concetto » (Cris. R. Pura, Anal. dei Princ., cap.
I); e nello stesso senso Husserl osservava che « la S. di un individuo, in
genere di un questo qui, sotto un'essenza, non è da confondere con la
subordinazione di un’es- senza ad una specie o ad un genere superiori» (Ideen,
I, $ 13). SVILUPPO (ingl. Development; franc. Dévelop- pement; ted.
Entwicklung). Il movimento verso il SYNKATATHESIS meglio. Per quanto questa
nozione abbia il suo precedente nel concetto aristotelico del movi- mento (v.)
come passaggio dalla potenza all’atto o esplicazione di ciò che è implicito
(CICERONE, Top., 9) il suo significato ottimistico è proprio della filosofia
dell’800 ed è strettamente collegato con il concetto di progresso (v.). Il suo
stretto sinonimo è evoluzione (v.); ma quest’ultimo ter- mine è più
frequentemente usato per indicare lo S. biologico o uno S. cosmico che trae le
sue ra- gioni o le sue analogie dallo S. biologico. Senza riferimento a questo
particolare aspetto, il termine fu usato da Hegel che ne fece una delle
categorie fondamentali della sua filosofia e lo illustrò soprat- tutto rispetto
al mondo della storia. Accanto al carattere progressivo dello S., Hegel
sottolineò un altro carattere fondamentale: lo S. pre- suppone ciò di cui è S.,
cioè il fine verso cui muove e il principio o la causa di sè stesso. «Lo
spirito, disse Hegel, che ha come teatro, do- minio e campo della sua realizzazione,
la storia del mondo, non si aggira nel gioco estrinseco del caso, ma è
piuttosto in sè il determinante asso- luto... Ciò che esso vuole è raggiungere
il suo proprio concetto; ma esso stesso se lo oscura, si inorgoglilla funzione
del T. è do- vuta a A. R. Radcliffe-Brown che ha scorto in esso uno strumento
per sottolineare la importanza sociale di eventi, operazioni, divieti, norme,
ecc. Il T. è in questo senso collegato a qualsiasi prescrizione rituale
(Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VII). Freud ha avvi-
cinato il T. alla nevrosi ossessiva e ha visto tra le due cose quattro punti di
somiglianza e cioè: 1° la mancanza di motivazione dei divieti; 2° la loro
convalidazione mediante una necessità inte- riore; 3° la spostabilità e la contagiosità
degli oggetti proibiti; 4° la creazione di pratiche cerimo- niali e
comandamenti derivanti dai divieti (Totem e T., 1913, cap. II; trad. ital.,
pag. 37). TABULA RASA (gr. rivat dypaghe). Espres- sione con cu(PLUTARCO,
Plac., IV, 11; cfr. GaLeNO, Hist. Philos., 92; SESTO EMPIRICO, Adv. Math., VII,
228). Lo stesso confronto si trova poi ripetuto frequentemente (FILONE, Leg. Alleg.,
I, 32; Boezio, Cons. Phil., V, 4; ecc.). Ma l’espres- sione « tavoletta non
scritta » si trova per la prima volta adoperata dal commentatore di Aristotele
Alessandro di Afrodisia (circa il 200 a. C.); e nel Medio Evo fu usata da S.
Tommaso (De An., a. 8, resp.; S. Th., I, q. 89, a. 1, ad 3°). L’immagine fu
fatta propria da Locke per espri- mere la tesi dell’origine empirica di tutta
la cono- scenza (Saggio, II, 1, 2) ed usata da Leibniz nella sua critica a
questa tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 1, 2). Da allora in poi l’espressione è
rimasta a indicare la tesi empiristica sull’origi25, 14-30) è quello di « una
superio- rità del potere conoscitivo, che non dipende dal- l'insegnamento ma
dalla disposizione naturale del soggetto ». Questa è la definizione che dà del
T. TAUTOLOGIA Kant (Antr., I, $ 54): il quale distingue anche i T. in ingegno
produttivo, sagacia e originalità: quest’ultimo è il genio. Questa dottrina
kantiana è stata spesso ripetuta con poche varianti e si conserva nella stessa
psicologia moderna, la quale tuttavia accentua l’importanza dei cosiddetti T.
specifici. ‘TALMUD. Il termine che significa in ebraico «insegnamento » designa
la raccolta enciclopedica in aramaico della tradizione giudaica, compilata
durante ottocento anni (dal 300 a. C. al 500 d. C.) in Palestina e in
Babilonia. L’opera non è un semplice commentario del Vecchio Testamento ma il
sommario della filosofia, della teologia, della storia, dell'etica e del
folklore giudaico, accumu- lato durante otto secoli. Il 7. è composto di due
parti principali: il Mishnah compilato in Palestina e il Gemara che è un
commentario del primo. Il Gemara compilato in Palestina è chiamato in- sieme
con il Mishnah, T. di Gerusalemme; mentre il Gemara compilato in Babilonia è
chiamato, in- sieme con lo stesso Mishneh, T. di Babilonia (cfr. H. L.
STRACK-P. BILLERBECK,
Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, Mo- naco, 1922-28). TANATISMO (ingl. Thanatism; ted. Thana- tismus).
Termine creato da E. Haeckel per designare la sua dottrina della mortalità
dell'anima, in op- izione ad atanatismo (v.). TAOISMO (ingl. Taoism; franc.
Taoisme; te- desco Taoismus). La dottrina di Lao-Tse (vissuto in Cina
probabilmente nel vi secolo a. C.) e al quale si attribuisce il Tao Té Ching
cioè il Libro della via e della virtà. Di fronte al carattere razio- nalistico,
mondano e pratico dell’insegnamento di Confucio, sta il carattere mistico,
religioso e con- templativo dell’insegnamento di Lao-Tse; nel quale sono
rintracciabili tracce del panteismo metafisico delle Upanishad. I due punti
principali del T. sono: il monismo panteistico per cui il tao che è la via per
la salvezza è anche il principio unico dell’uni- verso, di cui ogni altra cosa
è manifestazione; l’etica del mon fare cioè l’abbandono all’azione immanente
del principio cosmico e la rinuncia a interferire con esso o a ostacolarlo. La
traduzione italiana del Tao Té Ching è stata fatta da A. Castellani con il
titolo La regola celeste di Lao-Tse (Firenze, 1927) (cfr. A. WALEY, The Way and
Its Power, 1934). TASSONOMIA (ingl. Taxonomy; franc. Taxi- nomie; ted.
Taxinomie). La teoria della classificazione nelle scienze naturali. Termine
coniato e adoperato nel sec. xix. Sono chiamate tassonomiche la bo- tanica e la
storia naturale. TATTO (ingl. Tact; franc. Tact; ted. Tact). I. Uno dei cinque
sensi: che Condillac chiamava «sentimento fondamentale» in quanto esso è « il
sentimento che la statua (v.) ha dell’azione reciproca delle parti del corpo e
specialmente dei movimenti della respirazione » (Traité des sensations, II, 1).
Il T. è anche, secondo Condillac, il senso da cui deriva la nozione del mondo
esterno (/bid., II, 8, 30 sgg.). 2. Sapienza di mondo o esprit de finesse, come
nelle frasi «aver T.» o «procedere con T.»1 o « parlare con T.+, ecc. TAT TWAM
ASI. Una delle norme fondamen- tali della filosofia della Upanishad che
significa alla lettera « questo sei tu» e prescrive a ogni uomo di riconoscersi
identico nel suo principio (o diman) con qualsiasi essere o cosa che gli stia
davanti: essendo il principio universale o Brakman identico in tutti. La
locuzione indiana ricorre specialmente nella Chandogya-Upanishad (VI, 8, 7 sgg.).
TAUTOLOGIA (ingl. Tautology; franc. Tauto- logie; ted. Tautologie). Nella
terminologia filosofica tradizionale, T. significava genericamente un di-
scorso (in particolare, una definizione) vizioso in quanto inutile, perchè
ripetente nella conseguenza, o nel predicato o nel definiens, il concetto già
contenuto nel primo membro: «M. de la Palisse un quarto d’ora prima di morire
era ancora in vita ». Solo nell’Algebra della Logica il termine « T. » acquista
un significato tecnico, in quanto si intro- ducono con il nome di /egge di T. i
teoremi (1) ava=a, (2) ana=a[(1) l’affermazione di- sgiuntiva di una medesima
proposizione p con se stessa equivale alla semplice affermazione di p; la somma
di una classe « con se stessa è uguale alla semplice classe «; (2)
l’affermazione congiun- tiva di una medesima proposizione p con se stessa
equivale alla semplice affermazione di p; l’interfe- renza di una classe « con
se stessa è uguale all’in- tera e semplice classe «]. Accanto a questa legge i
Principia Mathematica di Whitehead e Russell introducono un principio di T.:
pvp.> p. ll’af- fermazione disgiuntiva di una medesima proposi- zione p con
se stessa implica materialmente la stessa p: «se p O p, p*). In Wittgenstein
(Tractatus logico-philosophicus, 1922, 4.46) il concetto di T. acquista una
notevole importanza, venendo a de- signare una proposizione molecolare
(funzionale) il cui valore-verità è « vero » qualunque siano i valori- verità
delle proposizioni atomiche (variabili propo- sizionali) che la compongono; per
es., «pv — p* [« piove o non piove»). Wittgenstein, seguito a malincuore da
Russell, giungerà a stabilire che le matematiche pure (ivi compresa la Logica)
constte di norme morali o giuridiche (la legge delle XII tavole, le T. di
Mosè). Bacone chiamò T. le coordinazioni delle istanze cioè dei particolari
aspetti di un fe- nomeno (Nov. Org., II, 10) e distinse le T. di presenza, le
T. di assenza, le T. dei gradi o com- parative e infine le T. esclusive (/bid.,
II, 11-13). Da Kant in poi si parla della « T. delle categorie » (v.
CATEGORIA). TAVOLE DI VERITÀ (ingl. Truth tables; franc. Tables de verité; ted.
Wahrheitsmòglichkeiten). Le T. costruite con il metodo delle matrici (v.) che
consente l’enumerazione completa delle possibilità di verità per un certo numero
di proposizioni sem- plici e così di riconoscere se una proposizione è vera nel
dominio del calcolo delle proposizioni. Tali T. sono costruite con i simb«e» è
valida solo nel caso che entrambe le proposizioni sono vere come quando si dice
« Piove e c'è umido».TAVOLA La disgiunzione si ha quando tra due proposi- zioni
si inserisce la parola «0?, rappresentata dal simbolo V, e può avere nella
lingua corrente due significati: un significato inclusivo (per il quale «0» è
in latino ve/) come quando si dice «Si può an- dare a Roma o per questa o per
quella strada », per il quale almeno una delle due proposizioni è vera; e un
significato esclusivo (per il quale «0» è in latino ant) come quando si dice
proponendo un’alternativa « Si va a Roma o a Parigi » nel qual caso almeno una
delle proposizioni è vera e al- meno una è falsa. La T. di verità della
disgiunzione in generale è la seguente: p_l 4a | pVqa V V V V F V F V V F F F
la quale fornisce il criterio più generale per la validità di una disgiunzione
qualsiasi. Per la T. di verità del rapporto condizionale, espresso mediante il
connettivo se... allora e dal simbolo >, vedi i termini IMPLICAZIONE e
CONDI- ZIONALE. Sulla base di queste T. se ne possono costituire altre più
complesse, come la seguente che dà i valori di verità delle combinazioni
condizionali pos- sibili tra le proposizioni condizionali e le disgiuntive
(cfr. TARSKy, /ntr. to Logic, $ 3): cioè per la fun- zione (p V g)= (p.r), dove
p, qg, r stanno per proposizioni qualsiasi: |p>q|p.9|(.d=>p>N mg? è
una proposizione falsa; unendo insieme «(p=> g)=> (p= r)» si ottiene
un’implicazione in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso e che, in
base alla T. delle implicazioni, è falsa. L’uso delle T. può essere ed esteso e
complicato quanto si vuole per tutti i teoremi del calcolo delle proposizioni.
Come già dalla T. dell’implicazione materiale, derivano dalle altre T.
conseguenze che TECNICA appaiono paradossali dal punto di vista del lin-
guaggio corrente: tra esse le seguenti: se g è vero, allora g segue da
qualsiasi p; 0, in altri termini, una proposizione vera segue da qualsiasi
altra proposizione; se p è falso, allora p implica un qualsiasi g; o, in altri
termini, una proposizione falsa implica nua qualsiasi altra proposizione; quali
che siano peg, o p implica g o q im- plica p; in altri termini: almeno una di
due pro- posizioni qualsiasi implica l’altra. Queste conclusioni derivano dalle
T. di verità, e soprattutto da quella dell’implicazione, che costi- tuiscono la
semplificazione e generalizzazione degli usi correnti nel linguaggio comune e
nelle discipline scientifiche (al di fuori della matematica) dove le relazioni
puramente logiche tra le proposizioni sono sottoposte ad altre condizioni più
restrittive. Esse tuttavia continuano a dar luogo tra gli stessi logici a
discussioni che alcuni di essi (come Tarsky) ri- tengono oziose. Come si è
detto nell’articolo IMPLICAZIONE, la scuola stoico-megarica, soprattutto per
opera di Filone, ha dato per la prima volta la T. dell’im- plicazione materiale.
Nella logica moderna l’idea della T. è stata ripresa da Boole (Marhematical Analysis
of Logic, 1847), da Frege (Begriffsschrift, 1879) e da Peirce (1885: cfr. Coll.
Pap., 3.370 sgg.) ed è stata diffusa da Wittgenstein (Tractatus Logico- Philosophicus,
1921, 4.31). TEANDRICO (ingl. Theandric; franc. Théan- drique). Termine della
teologia cristiana: che si riferisce all'unione della natura umana e della
natura divina nella persona del Cristo. TEANTROPISMO (ingl. Theantrophism;
fran- cese Théantropisme; ted. Theantropismus). 1. La dot- trina dell’unione
della natura divina e dell’umana nella persona di Cristo. 2. Lo stesso che
antropomorfismo (v.). TECNICA (ingl. Techric; franc. Technique; ted. Technik). Il
senso generale del termine coincide con quello generale di arre (v.): comprende
ogni insieme di regole adatte a dirigere efficacemente un’attività qualsiasi.
La T. in questo senso non si distingue nè dall’arte nè dalla scienza nè da
qualsiasi procedimento o operazione adatto a raggiungere un effetto qualsiasi;
e il suo campo si estende quanto quello di tutte le attività umane. Bisogna
tuttavia avvertire che a questo senso del termine, che è assai antico e
generale, fa eccezione il signi- ficato ad esso attribuito da Kant: che parlò
di una T. della natura per indicare la causalità di essa (Crit. del Giud., $
72); ma negò che la filo- sofia e specialmente la filosofia pratica potesse
avere una T. perchè essa non può contare su una causalità necessaria (Mer. der
Sitten, Intr., $ ID. Il 859 presupposto di questo significato è tuttavia la
ridu- zione della T. a procedimento causale, laddove per T. è stato inteso (ed
è meglio intendere) un proce- dimento qualsiasi, regolato da norme e provvisto
di una certa efficacia. In questa sfera di significato generalissimo rien-
trano pertanto i procedimenti più disparati che pos- sono tuttavia dividersi,
grosso modo, in due campi diversi: 4) quello delle T. razionali che sono re-
lativamente indipendenti da particolari sistemi di credenze, perciò possono
condurre a modificare tali sistemi e sono esse stesse autocorreggibili; B)
quello delle T. magiche e religiose che possono essere messe in opera solo
sulla base di particolari sistemi di credenze e perciò non possono riuscire a
modificarli e si presentano esse stesse non cor- reggibili o immodificabili.
Queste T. costituiscono uno dei due elementi fondamentali di ogni religione e
possono essere designate con il nome generico di riti (v.). Le T. razionali
possono essere a loro volta di- stinte in: 1° T. simboliche (conoscitive o
estetiche) che sono quelle della scienza e delle arti belle; 2° T. di
comportamento cioè morali, politiche, economiche, ecc.; 3° T. di produzione. 1°
Le T. conoscitive e artistiche possono essere chiamate T. simboliche perchè
consistono essenzial- mente nell’uso dei segni. Esse si distinguono dai metodi
(v.) che sono, strettamente parlando, indi- cazioni generali sul carattere
delle T. da seguire. Le T. simboliche possono essere T. di spiegazione, T. di
previsione, o T. di comunicazione: ma queste distinzioni non sono mutuamente
esclusive. 2° Le T. di comportamento dell’uomo rispetto all’altro uomo coprono
un campo estesissimo che comprende zone disparate: vanno dalle T. erotiche a
quelle della propaganda, dalle T. economiche a quelle morali, dalle T.
giuridiche a quelle educa- tive, ecc. In questo gruppo possono anche essere
comprese le T. organizzative dirette a cercare le condizioni per realizzare il
rendimento massimo con il minimo sforzo in tutti i domini dell'attività umana.
Di queste T. si occupa la recronica (v.) o prassio- logia (v.). 3° Il terzo
gruppo di T. è quello che concerne il comportamento dell’uomo nei confronti
della na- tura e che è diretto alla produzione dei beni. La T. in questo senso
ha sempre accompagnato la vita dell’uomo su questa terra essendo l’uomo, come
già notava Platone (Pror., 321 c) l’animale che la matura ha lasciato più
sprovveduto ed inerme in tutta la creazione. Un certo grado di sviluppo T. è
pertanto indispensabile alla soprav- vivenza di qualsiasi gruppo umano; e la
sopravvi- venza e il benessere di sempre più larghi gruppi umani sono
condizionate dallo sviluppo dei mezzi 860 tecnici. Tra i filosofi, Francesco
Bacone fu il primo a riconoscere, agli inizi del sec. xvn, questa verità.
Bacone concepì l’intera scienza come operante in vista del benessere dell’uomo
e diretta a produrre, in ultima analisi, ritrovati che rendessero più facile la
vita dell’uomo sulla terra. Quando nella Nuova Atlantide volle dare l’immagine
di una città ideale, non si fermò a vagheggiare forme perfette di vita sociale
o politica ma immaginò un paradiso della T. dove fossero portati a compimento
le invenzioni e i ritrovati di tutto il mondo. Il sansimonismo (v.) e il
positivismo (v.) dell’800 hanno condiviso l’esal- tazione baconiana della
tecnica. Solo a partire dalla fine del secolo scorso e nei primi decenni del
nostro secolo, ha cominciato a delinearsi quello che oggi si chiama il problema
della T.: cioè il problema fatto nascere dalle conseguenze che lo sviluppo
della T. del mondo moderno produce nella vita singola e associata dell’uomo. Il
con- trasto tra l’uomo e la T. è stato prima della se- conda guerra mondiale,
il tema preferito della let- teratura profetizzante. I profeti della decadenza
e della morte della civiltà dell’Occidente (per es., O. SPENGLER, Der Mensch
und die Technik, 1931), i difensori della spiritualità pura (per es., D. RoPs,
Le monde sans dime, 1932) avevano già additato nella macchina la causa diretta
o indiretta della decadenza spirituale dell’uomo. Il mondo in cui domina la
macchina è, secondo queste diagnosi, un mondo senz'anima, livellatore,
mortificante: un mondo nel quale la quantità ha preso il posto della qualità e
in cui il culto dei valori dello spi- rito è stato sostituito dal culto dei
valori stru- mentali e utilitari. Dopo la fine della seconda guerra mondiale
queste accuse sono state ribadite ed am- pliate. Esse sono presenti in tutta
l’opera di Albert Camus (cfr., ad es., Ni bourreaux ni victimes, 1946). Altri
hanno visto il male del macchinismo nello « sradicamento » che esso produce
nell’uomo (S. WEIL, L’Enracinement, 1948). Altri ancora coin- volgono, nella
condanna della T., la « ragione » che ne sarebbe il principio o accarezzano
l’utopia di un ritorno alla produzione artigianale (M. DE CORTE, Essai sur la
fin d’une civilisation, 1949; L. Du- PLESSY, La machine ou l’homme, 1949). Dall’altra
parte, a partire dall'opera di HussERL, La crisi delle scienze europee (1954)
la T. e la scienza su di cui essa si fonda sono state spesso considerate come
una degradazione o un tradimento della Ra- gione autentica perchè asserviscono
la ragione a scopi utilitari mentre il suo vero compito è la conoscenza
disinteressata dell’essere, cioè la contem- plazione. Questo concetto rimane la
base di tutte le critiche che sono rivolte alla società contemporanea in quanto
fondata sulla T. e ritenuta dominata dalla tecnocrazia: per esse quindi vedi
quest’ultima voce. TECNICA Ma esiste oggi una vasta letteratura che, pur senza
muovere da una pregiudiziale metafisica, ideologica o teologica contro la T.,
ne mette in luce gli aspetti negativi, che possono riassumersi nei punti
seguenti: 1° Lo sfruttamento intensivo delle risorse na- turali al di là del
limite del loro spontaneo ripristino e quindi il rapido e progressivo
impoverimento di tali risorse. 2° L'inquinamento dell’acqua e dell’aria, do-
vuto agli scarichi industriali, al moltiplicarsi dei mezzi meccanici di
trasporto e all’addensarsi della popolazione. 3° La distruzione del paesaggio
naturale e dei monumenti storici e artistici, dovuta al moltiplicarsi degli
impianti industriali e all’estensione indiscri- minata dei centri abitati. 4°
L’assoggettamento del lavoro umano alle esigenze dell'automazione, che tende a
fare del- l’uomo un accessorio della macchina. 5° L’incapacità della T. di
venire incontro ai bisogni estetici, affettivi e morali dell'uomo; quindi la
sua tendenza a favorire o determinare l’isola- mento degli individui e la loro
incomunicabilità reciproca. Nei confronti dei primi tre fattori negativi si può
ricorrere a una controtecnica che è essa stessa una T. (o un insieme di T.)
diretta a controbilanciare o a correggere gli effetti devastatori della T.:
con- trotecnica che è già fornita di mezzi potenti e che può diminuire, se non
controbilanciare, gli effetti di quella devastazione. Gli aspetti 4° e 5°
concer- nono invece il piano umano, morale e politico e vengono solitamente
ritenuti come costituenti il fenomeno dell’alienazione (v.). La T., sia nelle
sue forme primitive sia in quelle raffinate e complesse che ha assunto nella
società contemporanea, è uno strumento indispensabile per la sopravvivenza
dell’uomo. Il suo processo di sviluppo appare irreversibile perchè solo ad esso
rimane affidata la possibilità della sopravvivenza del numero sempre crescente
degli esseri umani e il loro accesso a un più alto tenore di vita. Anche la
differenza tra la T. e la scienza, sulla quale talvolta si continua ad
insistere, sembra ridursi o sfumare dal punto di vista dei compiti che si at-
tribuiscono oggi alla scienza (v.). L’unico rimedio ai reali pericoli della T.
sembra oggi, non la ri- nuncia alla T. stessa, ma il suo rafforzamento e il suo
sviluppo in tutti i campi: cioè da un lato la ricerca di nuovi strumenti che,
oltre al con- trollo della natura, ne assicurino la salvaguardia; e dall’altro
la ricerca di nuove T. di comporta- mento interumano che possano controllare e
cor- reggere gli effetti maligni delle T. produttive sul- l’uomo. E la sola
speranza ragionevole che questo TEISMO possa accadere è fondata sul fatto che
la stessa T. produttiva esige, in sempre maggior misura, da parte, dell’uomo,
quelle capacità di iniziativa, di immaginazione creativa e di solidarietà
interumana che il sistema tecnologico sembra minacciare. TECNICISMO (ingl.
Technicism; ted. Techni- zismus). 1. Lo stesso che tecnica. Kant adopera il
termine per indicare la tecnica della natura cioè il meccanismo (Crit. del
Giud., $ 78). 2. L'uso di parole o frasi appartenenti a un linguaggio tecnico o
una parola o frase apparte- nente a tale linguaggio. TECNOCRAZIA (ingl. Technocracy;
francese Technocratie; ted. Technokratie). L'uso della tecnica come strumento
di potere da parte di dirigenti economici, capi militari, uomini politici, per
la di- fesa dei loro interessi, ritenuti concordanti o uni- ficati e il
controllo della società intera. Questo è almeno il concetto di T. che si trova
esposto negli scrittori più qualificati (per es., C. W. MILLS, The Power Elite,
1956); e che consente di definire la T. come «la filosofia autocratica delle
tecniche » (G. Simonpon, Du mode d’existence des objets techniques, 1958).
Contro la T. si appuntano perciò le critiche più radicali rivolte alla società
contem- poranea. Ad essa viene addossata non solo la re- sponsabilità di tutti
i mali della tecnica (per i quali vedi TECNICA) e di non volere o poter far
nulla per eliminarli, ma anche quella di eliminare o bloccare la libertà di
scelta dell’uomo in tutti i campi della sua attività (dal lavoro al
divertimento) con una determinazione dall’interno che gli impedisce di
esercitare la sua ragione critica e reprime il suo istinto vitale e la libera
ricerca della sua felicità: «L’apparato produttivo, ha scritto Marcuse, tende a
diventare totalitario nella misura in cui deter- mina non solo le occupazioni,
le abilità e gli at- teggiamenti socialmente necessari, ma anche i bi- sogni e
le aspirazioni individuali... La tecnologia serve a istituire nuove, più
effettive e più piace- voli forme di controllo e di coesione sociale » (One
Dimensiona! Man, 1964, pag. xv). Da questo punto di vista la T. (detta anche «
The Establishment » o «Il sistema » per antonomasia) eserciterebbe un de-
terminismo necessitante su tutte le attività umane e impedirebbe e bloccherebbe
ogni forma di critica sociale, ogni possibilità di trasformazione. Dall'altro
lato però si ammette (come fa lo stesso Marcuse, Ibid., pag. 238) che «una
razionalità post-tecnolo- gica » possa trasformare la tecnica stessa in stru-
mento di pacificazione e organo dell’arte della vita e in tal caso la funzione
della ragione, il cui uso strumentale ha dato origine alla T., convergerebbe
con la funzione dell’arte. Dall’altro lato, si mette in dubbio il carattere
monolitico e necessitante della tecnocrazia. Gal- 861 braith parla di una
tecnostruttura per indicare la formazione pluralistica e composita dei gruppi
che dirigono la società industriale e ammette la possi- bilità di minimizzare
la subordinazione delle cre- denze ai bisogni del sistema industriale e di
scorgere in quest’ultimo solo « una parte e relativamente una parte in
diminuzione, della vita +, che può essere subordinata ai fini estetici che
costituiscono la di- mensione della vita stessa e rendono possibile la libertà
dell’individuo (7fe New Industrial State, 1967, pag. 399). Una connotazione «
non peggio- rativa » della T. è anche talora presentata correla- tivamente al
concetto più composito che si ha oggi di classe sociale (cfr., ad es., A.
TOURAINE, La société pos-industrielle, 1969, cap. I). TECNOLOGIA (ingl.
Technology; franc. Tech- nologie; ted. Technologie). 1. Lo studio dei proce-
dimenti tecnici di un determinato ramo della pro- duzione industriale o di più
rami. 2. Lo stesso che tecnica. 3. Lo stesso che tecnocrazia. TECTOLOGIA.
Termine creato dal filosofo russo A. Bogdanov per indicare una «scienza
organizzatrice universale» cioè una scienza che insegni a costruire il mondo a
partire dagli ele- menti neutri dati nell’esperienza (Tekrologija, 1922).
Questa disciplina che si occupa anche, in partico- lare, dell’organizzazione di
tutte le attività utili dell’uomo allo scopo di determinare le condizioni del
loro massimo rendimento è stata poi chiamata, in quest’aspetto, prassiologia
(v.) da Kotarbinsky. Essa si integra con la teoria dell’organizzazione e
dell’amministrazione, con l’economia politica e con la cibernetica (cfr. CauDE,
MoLES e altri, Métho- dologie vers une science de l'action, Paris, 1964).
TEISMO (ingl. Theism; franc. Théisme; tedesco Theismus). Il termine adoperato
fin dal sec. xvn per indicare genericamente la credenza in Dio, in opposizione
ad ateismo (così lo adopera ancora VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, a.
Théiste) fu definito da Kant nel suo significato specifico, in opposizione a
deismo (v.). Dice Kant: « Chi am- mette soltanto una teologia trascendentale è
detto deista; chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette
che noi possiamo cono- scere con la semplice ragione un Essere originario di
cui abbiamo un concetto solo trascendentale, come di un Essere che ha ogni
realtà ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma che la ragione
è in grado di poter determinare di più l'oggetto secondo l’analogia con la
natura cioè di poterlo determinare come un Essere che per in- telletto e
libertà contenga in sè il principio origi- nario di tutte le altre cose. Quello
rappresenta questo Essere solo come una causa del mondo (rimanendo indeciso se
si tratti di una causa che 862 agisca per la necessità della sua natura o per
la libertà); questo lo rappresenta come un creatore del mondo » (Crit. R. Pura,
Dial. Trasc. III, sez. 7). In altri termini, il deista può essere anche
panteista e credere nella necessità del rapporto tra Dio e il mondo, per quanto
possa anche non esserlo; il teista si contrappone al panteista. Inoltre proce- dendo
al di là di ciò che la pura ragione lo con- sente di credere, il teista afferma
di Dio qualità o caratteri che sono testimoniati non dalla ragione ma dalla
rivelazione; e in questo senso, come Kant dice più oltre, nello stesso passo,
egli crede in un « Dio vivente» (cfr. anche Crit. del Giud., $ 72). Queste
notazioni kantiane hanno fissato il signi- ficato del termine nell’uso
contemporaneo, per il quale T. si contrappone non solo ad ateismo ma anche a
deismo e a panteismo ed ammette che Dio sia persona per quanto in un senso più
alto di quello che solitamente è attribuito all’uomo. Il T. è in questo senso
un aspetto essenziale dello spiritualismo (o personalismo) contemporaneo,
specialmente nella sua reazione all’idealismo ro- mantico, che è sempre
tendenzialmente panteistico. Il T. è stato pertanto esplicitamente difeso sia
dallo spiritualismo che costituì la reazione allo hege- lismo classico (Fichte
junior, Lotze, ecc.) o al positivismo (Renouvier, Boutroux, ecc.) sia dallo
spiritualismo che ha costituito la reazione al neo- idealismo romantico che è
fiorito nei primi decenni del secolo in Inghilterra, America e Italia e dal
quale lo stesso spiritualismo deriva molti dei suoi temi. Cfr. per il T. anglosassone
W. E. HocKina, Meaning of God in Human Experience, 1912; A. SerH
PRINGLE-PATTISON, The Idea of God in the Light of Recent Philosophy, 1917;
CLEMENT C. J. WEBB, God and Personality, 1920; ecc. Per il T. italiano: le
opere di Carlini, Guzzo, Sciacca, ecc. TELEGNOSI (ingl. Telegnosis). Lo stesso che chiaroveggenza: la facoltà
di conoscere avveni- menti lontani senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza
normali (v. TELEPATIA). TELEGRAMMA, ARGOMENTO DEL (ingl. Telegram Argument;
ted. Telegrammbeispiel). Argomento o esempio addotto da F. A. Lange per
illustrare la tesi materialistica della dipendenza delle reazioni psichiche
dagli stimoli fisici e della possibilità di ridurre a meccanismo fisiologico
ciò che comunemente si chiama anima o coscienza. Il T. che annuncia a un
commerciante il fallimento di un suo corrispondente determina tutta una serie
di reazioni che sono descrivibili fisiologica- mente al modo in cui è
descrivibile fisicamente cioè in termini di ondulazioni luminose lo stimolo che
le ha provocate (Geschichte des Materialismus, II, III, 2 e nota 39; trad.
ital., II, pag. 385 sgg. e 661 sgg.). Talvolta l’argomento è stato invertito
TELEGNOSI e utilizzato per mostrare la relativa indipendenza delle reazioni nei
confronti degli stimoli. Il T. «Vostro figlio è morto » differisce solo per una
lettera dal T. « Nostro figlio è morto » ma produce una reazione enormemente
diversa, e non corri- spondente alla differenza fisica tra gli stimoli, in
coloro che lo ricevono (cfr. C. D. Broad, The Mind and its Place in Nature,
1925, pag. 118 sgg.). TELEOCLISI (ted. Teleoklise). Tendenza al- l’attività
finalistica, ritenuta propria degli organi- smi viventi. Termine raro.
TELEOFOBIA (ted. Teleophobie). Avversione per il finalismo. TELEOLOGIA (ingl.
Teleology; franc. Téléo- logie; ted. Teleologie). Il termine è stato creato da
Cristiano Wolff per indicare «quella parte della filosofia naturale che spiega
i fini delle cose » (Phi- losophia rationalis sive logica, 1728, Disc. Prael.,
$ 85). Lo stesso che Finalismo (v.). TELEONOMIA (ingl. Teleonomy; franc. Téléo-
nomie). Termine usato dai biologi moderni per in- dicare l’adattamento
funzionale degli esseri viventi e dei loro artefatti alla conservazione e alla
molti- plicazione della specie. È stata chiamata informa- zione teleonomica la
quantità d’informazione che dev'essere trasmessa affinchè le strutture vitali
siano realizzate e conservate (cfr., ad es., J. MonoD, Le hasard et la
nécessité, 1970, pag. 26 sgg.). TELEOSI (ted. Teleosis). Perfezione. È la
trascrizione fonetica della parola greca. TELEPATIA (ingl. Telepathy; franc.
Télé- pathie; ted. Telepathie). Una forma di telegnosi e precisamente quella
che consiste nel conoscere gli stati di spirito di persone lontane o ciò che ad
esse accade, senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza normali. Il termine fu
proposto dalla Society for Psychical Researches di Londra nel 1882 ed è stato
comunemente accettato. Talvolta, come suo sino- nimo, si adopera Telestesia
(cfr. D. J. WEST, Psy- chical Research Today, 1954, cap. VI). TEMA (lat. Thema;
ingl. Theme; franc. Thème; ted. Thema). Argomento o oggetto di indagine di
discorso o di studio. Nella terminologia filosofica contemporanea si adoperano
anche i termini tema- tizzare, tematizzazione per indicare la scelta o la
formazione dei T., che è una fase importante, e spesso decisiva, della ricerca.
In particolare Hei- degger ha inteso per tematizzazione il manifestarsi degli
enti intramondani, per il quale essi diventano oggetti (Sein und Zeit, 69 b).
TEMPERAMENTO (gr. xpàois; lat. Tempera- mentum; ingl. Temper; franc.
Tempérament; tedesco Temperament). La disposizione dell'uomo ad agire in un
modo o nell’altro a seconda della partico- lare mescolanza degli umori che ne
compongono il corpo. Il fondatore della dottrina del T. è il padre TEMPO della
medicina, Ippocrate (v secolo a. C.) e la dot- trina stessa si è tramandata ed
è rimasta come dot- trina medica. Ippocrate ammetteva quattro umori
fondamentali: il sangue, il flemma (la linfa, i sieri, il muco nasale e
intestinale, la saliva), la bile gialla e l’atrabile o bile nera (considerata
come la secre- zione del pancreas), corrispondenti ai quattro ele- menti del
macrocosmo. A seconda della preva- lenza di uno di questi umori sugli altri si
hanno i quattro T. fondamentali: il sanguigno, il flemma- tico, il bilioso e il
malinconico o atrabiliare. (De nat. hom., 4). Accenni a questa dottrina o a
dot- trine analoghe si trovano in Platone (Conv., 188 a; Tim., 86 B), in
Aristotele (Problem., 30, 1), in Se- neca (De ira, II, 18, sgg.), in Lucrezio
(De nat. rer., III, 288 sgg.), in Plutarco (Quaesr. nat., 26) ed in altri,
senza connessione con i presupposti filosofici da cui questi autori partono,
come di- mostra la loro concorde accettazione della dottrina stessa. Anche nel
Medio Evo la dottrina dei T. fu tramandata attraverso la medicina, specialmente
la medicina araba (Avicenna e Averroè) sino ai medici e ai maghi del
Rinascimento. Paracelso sostituì agli umori ippocratei i suoi tre elementi
(solfo, sale e mercurio) per la classificazione dei temperamenti. Tuttavia la
nozione di T. non ha subìto alcuna modificazione sino a Kant che, riassumendola,
distingueva l’aspetto fisiologico e l’aspetto psicologico del T. stesso. «
Fisiologica- mente considerato, egli diceva, il T. è costituito dalla
costituzione fisica (la struttura forte o debole) e dalla complessione (dal
fluido che nel corpo è messo regolarmente in moto dalla forza vitale: nel che
si comprende il calore o il freddo che si produce nell’elaborazione di tali
umori). Psicologi- camente considerato, cioè come T. dell'anima (del potere
affettivo e appetitivo) questa espressione, derivata dalla proprietà del
sangue, si riferisce all’analogia del gioco dei sentimenti e dei desideri con
le cause fisiche e motrici (di cui la principale è il sangue)» (Antr., II, 2).
Kant riprendeva poi la vecchia classificazione ippocratea dei T.; la quale ha
trovato spesso fortuna anche nella psi- cologia moderna (per es., cfr. WuNDT,
Physiologische Psychologie, II4, pag. 519 sgg.). Ma nella psicologia stessa la
parola, fin dalla fine del secolo scorso, è caduta in disuso ed è stata
sostituita da caraf- tere (v.): il quale in una delle sue accezioni si- gnifica
appunto la struttura organica originaria che condiziona le disposizioni
naturali dell’indi- viduo. L'uso della parola carattere segna pure il trapasso
della nozione dal dominio della medicina a quello della psicologia e della
filosofia. TEMPERANZA (gr. cwppootvn; lat. Tempe- rantia; ingl. Temperance;
franc. Tempérance; te- desco Besonnenheit). Una delle virtù etiche di Ari- 863
stotele e precisamente quella che consiste nel giusto uso dei piaceri corporei.
Aristotele notava che la T. non concerne tutti i piaceri corporei (non con-
cerne, ad es., quelli che derivano dalla vista o dall’udito) ma solo quelli che
derivano dal man- giare, dal bere e dal sesso (Er. Nic., III, 9-12). Platone
aveva definito in modo diverso la T., intendendo per essa «l’amicizia e
l’accordo delle parti dell'anima che si ha quando la parte che comanda e quelle
che ubbidiscono convengano nell'opinione che spetti al principio razionale di
governare e così non gli si ribellano +: questa è secondo Platone la T. sia per
l’individuo che per lo Stato (Rep., IV, 442 b). Gli Stoici a loro volta
definirono la T. come «la scienza delle cose da desiderare e di quelle da
fuggire» (STOBEO, Ecl., II, 6, 102). Sulla T. aveva insistito anche l’etica di
Democrito: «La fortuna ci procura la tavola sontuosa, la T. quella a cui nulla
manca» (Fr., 210, Diels). TEMPO (gr.
ypévos; lat. Tempus; ingl. Time; franc. Temps; ted. Zeit). Si possono distinguere tre concezioni
fondamentali: 1° il T. come ordine misurabile del movimento; 2° il T. come
movi- mento intuito; 3° il T. come struttura delle pos- sibilità. Alla prima
concezione si connettono, nel- l’antichità, il concetto ciclico del mondo e
della vita dell'uomo (metempsicosi) e, nell’epoca mo- derna, il concetto
scientifico del tempo. Alla se- conda concezione si connette il concetto di co-
scienza, con la quale il T. viene identificato. La terza concezione, nata dalla
filosofia esistenziali- stica, presenta alcune innovazioni concettuali nel-
l’analisi del concetto di tempo. 1° La più antica e diffusa concezione del T. è
quella che lo considera come l’ordine misura- bile del movimento. Già i
Pitagorici definendo il T. come «la sfera che abbraccia tutto + cioè la sfera
celeste, lo collegarono col cielo che con il suo movimento ordinato ne consente
la misura perfetta (ARISroTELE, Fis., IV, 10, 218a 33). Platone definendo il T.
come «l’immagine mo- bile dell’eternità» (7im., 37d) intende dire che esso
riproduce nel movimento, sotto la forma del periodo dei pianeti, del ciclo
costante delle sta- gioni o delle generazioni viventi e di ogni specie di
mutamento, quella immutabilità che è propria dell’essere eterno (/bid., 38 b-39
d). La definizione di Aristotele «il T. è il numero del movimento secondo il
prima ed il dopo » (Fis., IV, 11; 219 b 1) è l’espressione più perfetta di
questa concezione che identifica il T. con l’ordine misurabile del movimento.
Non diverso è il significato della definizione degli Stoici, secondo la quale
il T. è « l'intervallo del movimento cosmico» (Diog. L., VII, 141).
L'intervallo non è infatti che il ritmo, 864 cioè l’ordine, del movimento
cosmico. E neppure molto diverso è, forse, il significato della defini- zione
di Epicuro: «Il T. è una proprietà cioè un accompagnamento del movimento »
(STOBEO, Ecl., I, 8, 252). Nel Medio Evo, questa concezione del T. fu condivisa
sia da realisti (ALBERTO Magno, S. Th., I, q. 21, a. 1; S. Tommaso, S. 7A., I,
q. 10, a. 1) che da nominalisti (OckHam, /n Sent., II, q. 12) che ripetettero
concordemente la definizione aristotelica. Telesio, che indugiava a criticare
questa definizione, riduceva a sua volta il T. alla durata e all’intervallo del
movimento (De rer. nat., I, 29). Hobbes definiva il T. «l’immagine (phan-
tasma) del movimento in quanto immaginiamo nel movimento il prima e il dopo
cioè la succes- sione» e riteneva questa definizione in accordo con quella
aristotelica (De Corp., 7, 3). Cartesio ripeteva semplicemente quest’ultima,
definendo il T. come « numero del movimento » (Princ. Phil., I, 57). E Locke
criticava la connessione del T. con il movimento, stabilita dalla definizione
ari- stotelica, solo per affermare che il T. è connesso a qualsiasi specie di
ordine costante e ripetibile: «Qualsiasi apparizione periodica e costante o
mutamento di idee, che accadesse entro spazi di durata apparentemente
equidistanti, e fosse co- stante ed universalmente osservabile, avrebbe po-
tuto servire a distinguere tra loro intervalli del T. egualmente bene che
quelle di cui si è fatto uso in realtà » (Saggio, II, 14, 19). Berkeley
sostituiva, per definire il T., l’ordine delle idee all’ordine del movimento; o
per meglio dire l’ordine del movi- mento interno all’uomo all’ordine del
movimento esterno. «Se io tento, egli diceva, di costruire una semplice idea
del T., astraendo dalla succes- sione delle idee nel mio spirito, che fluisce
uni- formemente ed è partecipata da tutti gli esseri, sono perduto e impigliato
in difficoltà inesplica- bili » (Principles of Human Knowledge, I, 98). Questa
concezione del T. fu da Newton posta a fondamento della meccanica: egli
distingueva il T. assoluto e il T. relativo ma ad entrambi ricono- sceva ordine
e uniformità. « Il T. assoluto vero e matematico, egli diceva, in realtà e per
natura sua, senza relazione a qualcosa di esterno, fluisce uni- formemente
(aequabiliter) e si chiama anche du- rata. Il T. relativo apparente e comune è
una mi- sura sensibile ed esterna della durata mediante il movimento »
(Naruralis philosophiae principia, I, def. VIII). L’uniforme fluire della
durata assoluta fa riscontro, in queste definizioni di Newton, alla uniformità
del movimento che viene assunto come misura del tempo. Leibniz illustrava lo stesso
con- cetto nel modo seguente: « Conoscendo le regole dei movimenti non
uniformi, si può sempre rap- portarli ai movimenti uniformi intelligibili e
pre- TEMPO vedere con questo mezzo ciò che accadrà a diffe- renti movimenti
congiunti insieme. In questo senso il T. è la misura del movimento, cioè il
movimento uniforme è la misura del movimento non uni- forme » (Nouv. Ess., II,
14, 16). E pertanto definiva il T. come « un ordine delle successioni »
(Troisième lettre à Clarke, $ 4): una definizione che veniva accettata da Wolff
(Ontol., $ 572) e da Baumgarten (Met., $ 239). Era questa la concezione cui
Kant faceva implicitamente riferimento quando nell’Este- tica trascendentale
affermava l’idealità trascenden- tale, insieme con la realtà empirica, del T.
(v. oltre). Ma il contributo principale di Kant all’interpreta- zione del
concetto di T. non è contenuto nell’Este- tica trascendentale ma nell’Analitica
dei princìpi e precisamente nella trattazione della seconda ana- logia o
«principio della serie temporale secondo la legge della causalità ». Qui Kant
opera la ridu- zione dell’ordine di successione all’ordine causale. Egli dice
che una cosa «può acquistare il suo determinato posto nel T. solo a condizione
che nello stato precedente si presupponga un’altra cosa a cui essa debba
seguire sempre, cioè secondo una regola ». La serie temporale non si può
invertire perchè « quando lo stato precedente è posto, l’av- venimento deve
immancabilmente e necessariamente seguire »; sicchè «è legge necessaria della
nostra sensibilità e quindi condizione formale di tutte le percezioni che il T.
precedente determini necessa- riamente il seguente ». Questo appunto distingue
la percezione reale del T. dalla immaginazione, che potrebbe e può invertire
l’ordine degli eventi; e che fa della successione temporale « il criterio em-
pirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa » (Crir. R.
Pura, An. dei Princ., cap. II, sez. III, 3). Questa riduzione del T. all’ordine
causale che Kant difendeva relativamente alla con- cezione del T. dominante
nella sua epoca, cioè derivata dalla fisica newtoniana, è stata ripresentata ai
nostri giorni nei confronti della fisica einstei- niana. Affermando la
relatività della misura tem- porale, Einstein non ha in realtà innovato in
alcun modo il concetto tradizionale del T. come ordine di successione: ha solo
negato che l’ordine di succes- sione fosse unico ed assoluto (cfr. Uber die
spezielle und die allgemeine Relarivitàtstheorie, 1921, $ 8-9). Ora nei
confronti della fisica di Einstein, H. Rei- chenbach ha riproposto la tesi
kantiana dell’iden- tità del T. con la causalità. «Il T. è l’ordine delle
catene causali: questo è il principale risultato delle scoperte di Einstein »,
egli ha detto (A/berr Einstein: Philosopher-Scientist, ed. by P. A. Schilpp,
1949, pag. 289 sgg.). « L'ordine del T., l'ordine del prima e del dopo, è
riducibile all’ordine causale... L'in- versione dell’ordine temporale per certi
eventi, che è un risultato che deriva dalla relatività della si- TEMPO
multaneità, è solo una conseguenza di questo fatto fondamentale. Dal momento
che la velocità della trasmissione è limitata, esistono eventi tali che nessuno
di essi può essere la causa o l’effetto del- l’altro. Per eventi siffatti,
l’ordine del T. non è definito e ognuno di essi può essere detto posteriore o
anteriore all’altro » (/bid., 1949, pag. 289 sgg.). Gli stessi concetti
Reichenbach ha illustrato nel suo libro postumo 7he Direction of Time (1956):
nel quale identifica l'ordine del T. con la causalità e la direzione del T. con
l’entropia crescente (cfr. spe- cialmente $ 6, 16). La riduzione del T. alla
causalità può essere considerata come la più importante (ma non perciò la più
salda) proposizione filosofica avanzata nel- l'ambito della concezione del T.
come ordine. Assai minore importanza ha invece la discussione, cui i filosofi
hanno spesso inclinato, sulla soggetti- vità od oggettività del T. in questo
senso. Fu Ari- stotele a iniziare queste discussioni giungendo alla conclusione
che se da un lato il T. come misura non può esistere senza l’anima perchè solo
l’anima può misurare, dall’altro il movimento cui la misura si rivolge non
dipende dall’anima (Fis., IV, 14, 223 a 20-29). Nel sec. xrv Ockham,
riprendendo queste considerazioni, affermava che non vi sa- rebbe T. se l’anima
non potesse nè misurare nè numerare (/n Sent., II, q. 12). Perfino Hobbes
chiamava il T. un’immagine (v. definizione prima citata). Meno significativa è
la riduzione del T., operata da Locke e Berkeley all’ordine delle idee: perchè
le idee, per questi filosofi, sono i soli oggetti di cui si possa parlare.
Quanto al « soggettivismo » della concezione kantiana per cui il tempo è «in-
tuizione pura » cioè condizione di qualsiasi perce- zione sensibile, esso è
frutto soltanto di un ma- linteso: giacchè il T. può dirsi soggettivo solo
rispetto alle cose in sè che sono al di là della con- siderazione dell'uomo ma
è oggettivo e reale ri- spetto alle cose naturali, per cui il T. ha «realtà
empirica » indubitabile (Crit. R. Pura, $ 6, 7). L’oggettivismo della
concezione kantiana è poi di- mostrato dalla riduzione del T. all’ordine
causale: una tesi a cui i neo-empiristi hanno acceduto senza conoscere la sua
derivazione kantiana. 2° La seconda concezione fondamentale del T. è quella che
lo considera come intuizione del mo- vimento o «divenire intuito ».
Quest’ultima defini- zione è di Hegel: il quale aggiunge che «il T. è il
principio medesimo dell'Io = Io, della pura auto- coscienza; ma è quel
principio o il semplice con- cetto ancora nella sua completa esteriorità ed
astrazione » (Enc., $ 258). Hegel pertanto non iden- tifica il T. con la
coscienza ma con qualche aspetto parziale o astratto della coscienza stessa.
Senza questa limitazione, Schelling aveva detto « il T. non 35 — ABBAGNANO,
Dizionario di filosofia. è se non il senso interno che diviene oggetto per sè»
(System des transzendentalen Idealismus, sez. III, Seconda epoca, D; trad.
ital., pag. 141). E di regola la concezione del T. come intuizione del divenire
porta con sè la riduzione del T. stesso alla coscienza. Così accade già nella
dottrina di Plotino. Secondo Plotino, il T. non esiste fuori dell'anima: esso
«è la vita dell’anima e consiste nel movimento per il quale l’anima passa da
uno stato a un altro della sua vita » (Enn., III, 7, 11): sicchè anche
l’universo si può dire che è nel T. solo in quanto è nell'anima, cioè
nell’anima del mondo (/bid., III, 7, 3). A S. Agostino si deve la migliore
espressione e la diffusione di questa dottrina nella filosofia occi- dentale.
Il T. è identificato da Agostino con la vita stessa dell'anima che si estende
verso il passato o l’avvenire (exfensio o distensio animi). Dice S. Agostino:
«In che modo si diminuisce e con- suma il futuro che ancora non c’è? E in che
modo cresce il passato che più non è, se non perchè nell’anima ci sono tutte e
tre le cose, presente passato e futuro? L’anima infatti attende e fa attenzione
e ricorda, sicchè ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa
in ciò che ricorda. Nessuno nega che il futuro non ancora c’è; ma c’è già
nell'anima l’attesa del futuro. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è
ancora nell’anima la memoria del passato. E nessuno nega che il presente manca
di durata perchè subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione
attraverso la quale ciò che sarà s si allontana verso il passato » (Conf., XI,
28, 1). Il teorema fondamentale di questa concezione del T. è stato enunciato
dallo stesso S. Agostino: « Non ci sono, propriamente parlando tre T., il
passato, il presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del
passato, il presente del presente e il presente del futuro» (Ibid., XI, 20, 1).
Nella filosofia moderna, Bergson ha ripresentato questa concezione
contrapponendola al concetto scientifico del tempo. Secondo Bergson, il T.
della scienza è un T. spazializzato e che perciò non ha alcuno dei caratteri
che la coscienza riconosce propri del tempo. Esso viene infatti rappresen- tato
come una linea ma «la linea è immobile, mentre il T. è mobilità. La linea è già
fatta, mentre il T. è ciò che si fa, anzi è ciò per cui ogni cosa si fa» (La
pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 9). Fin dalla sua prima opera,
l’Essai sur /es données immédiates de la conscience, Bergson aveva insistito
sull’esigenza di considerare il T. vissuto, cioè la durata della coscienza,
come una corrente fluida nella quale è impossibile perfino distinguere stati
perchè ogni momento di essa trapassa nel- l’altro con una continuità
ininterrotta come accade per i colori dell'iride. Questo è poi sempre rimasto
il concetto cardine della sua filosofia. Il T. come durata ha, secondo Bergson
due caratteri fonda- mentali: 1° quello della novità assoluta ad ogni istante,
per cui è un continuo processo di creazione; 2° quello della conservazione
infallibile e integrale di tutto il passato per cui fa boule de neige e si
ingrossa continuamente a misura che avanza verso il futuro. Non molto diversa
da questa è la con- cezione che Husserl ha del « T. fenomenologico ». Egli
dice: « Ogni effettiva esperienza vissuta è ne- cessariamente qualcosa che
dura; e con questa durata si inserisce in un infinito continuo di durate, in un
continuo pieno. Essa ha necessariamente un orizzonte temporale attualmente
infinito da ogni parte. Il che significa che appartiene a un'infinita corrente
di esperienze vissute. Ogni singola espe- rienza vissuta, come può cominciare
così può finire e chiudere la sua durata, come fa, per es., l’espe- rienza di
una gioia. Ma la corrente delle esperienze non può nè cominciare nè finire »
(/deen, I, $ 81). Il che significa che, come la durata bergsoniana, la corrente
dell’esperienza conserva tutto ed è una specie di eterno presente. 3° La terza
concezione del T. è quella che riduce il tempo alla struttura della
possibilità. Questa è la concezione illustrata da Heidegger nell’opera Essere e
7. (1927), che già nel titolo annuncia l’identità dei due termini. La prima ca-
ratteristica di questa concezione è il primato rico- nosciuto all’avvenire
nell’interpretazione del tempo. Le due precedenti concezioni si fondano sul
pri- mato del presente. Il T. come ordine del movimento è una totalità tutta
presente perchè ogni ordine suppone la simultaneità delle sue parti, dal cui
reciproco adattamento l'ordine nasce. La conce- zione del T. come divenire
intuito non fa che interpretare l'intero T. in funzione del presente, perchè
l’intuizione del divenire è sempre un ora, un istante presente. Heidegger ha
interpretato in- vece il T. in termini di possibilità o di progettazione: il T.
è originariamente l’ad-venire (Zu-kunft): più precisamente, quando il T. è
autentico (cioè origi- nario e proprio dell’esistenza) esso è «l’avvenire
dell’ente a se stesso nel mantenimento della possi- bilità caratteristica come
tale». « Avvenire, dice Heidegger, non significa un ora che non è ancora
divenuto attuale e che lo diverrà, ma l’infutura- mento per cui l’Esserci
perviene a se stesso, in base al suo più proprio poter-essere. L’anticipazione
rende l’Esserci autenticamente avveniente sicchè l’anticipazione stessa è
possibile soltanto perchè l’Esserci è, in generale, già sempre pervenuto a se
stesso » (Sein und Zeit, $ 65). Il passato come un essere-stato è condizionato
dall’avvenire perchè, come sono autentiche possibilità quelle che sono già
state, così sono già state le possibilità cui l’uomo TEMPO può autenticamente
ritornare e che può ancora far sue (/bid., $ 65). Sia il T. autentico che è
quello per cui l’Esserci progetta la propria possibilità pri- vilegiata (quello
che è già stato, sicchè le sue scelte sono scelte del già scelto cioè dell’impossibilità
di scegliere) sia il T. inautentico che è quello della esistenza banale, in cui
il T. diventa una successione infinita di istanti, sono entrambi il
sopravvenire all’Esserci (cioè all'uomo) di ciò che la possibilità progettata
gli prospetta; e perciò è un presentarsi, dal futuro, di ciò che è già stato
nel passato (/bid., $ 80, 81). L’analisi del T. di Heidegger contiene
indubbiamente un impegno metafisico assai gra- voso che è quello per il quale
il T. è concepito come una specie di circolo per cui ciò che si pro- spetta
nell’avvenire è ciò che è già stato; e a sua volta ciò che è già stato è ciò
che si prospetta nel- l’avvenire. Heidegger parla in questo senso di T. finito
cioè di T. autentico; giacchè il T. inau- tentico (che Heidegger chiama anche
databilità o T. pubblico) è il misconoscimento parziale della natura del T. e
la concezione di esso come linea aperta e successione infinita di istanti (Sein
und Zeit., $ 79-81). Tuttavia l’analisi di Heidegger con- tiene alcuni elementi
di interesse filosofico notevole perchè costituiscono una innovazione
importante nell’analisi del concetto di tempo. Tali elementi sono i seguenti:
1° il mutamento dell’orizzonte modale, per l’interpretazione del T., dalla
necessità alla possi- bilità: il T. viene ricondotto non già ad una strut- tura
necessaria, come l’ordine causale, ma alla struttura stessa della possibilità.
Questo punto può essere utilizzato per esprimere adeguatamente la
trasformazione che la nozione di T. ha subito per opera della relatività di
Einstein. Se difatti due eventi, contemporanei per un certo sistema di rife-
rimento, possono non esserlo per un altro, il T. non è un ordine necessario ma
la possibilità di più ordini; 2° il primato del futuro nell’interpretazione del
T. non costituisce soltanto un'alternativa di- versa ed opposta al primato del
presente, su cui si fondano le altre due interpretazioni principali, ma offre
anche la possibilità di non appiattire sul presente le altre determinazioni del
T. e di in- tenderle nella loro natura specifica: il futuro come futuro (e non
già come «presente del futuro ?) e il passato come passato; 3° il rapporto tra
passato e futuro, che Hei- degger ha irrigidito in un circolo può essere age-
volmente sciolto con l’introduzione della stessa nozione di possibile. Il
passato può essere infatti inteso come punto di partenza o fondamento delle
possibilità a venire e l’avvenire come possibilità di conservazione o di
mutamento del passato, in TEODICEA limiti di volta in volta (e con
approssimazione) determinabili; 4° l’introduzione di nuovi concetti interpreta-
tivi espressi da termini come progetto o progetta- zione, anticipazione,
attesa, ecc., che si sono dimostrati particolarmente utili nell’analisi filoso-
fiche e sono difatti entrati nell’uso filosofico corrente. TEMPORALE (ingl.
Temporal; franc. Tem- porel; ted. Zeitlich). 1. Ciò che appartiene al tempo o
concerne il tempo o accade nel tempo. Ad es., l’ordine T., uno schema T., ecc.
2. Ciò che è mondano, cioè appartiene all’ordine del tempo, in contrapposto a
ciò che è spirituale ed appartiene all’ordine dell’eternità. La contrappo-
sizione di T. e spirituale è uno dei temi dominanti del cristianesimo paolino
(cfr., ad es., Ad Cor. II IV, 18; Ad Hebr., XI, 25; ecc.) TEMPORANEO (ingl. 7.
emporary; franc. Tem- poraire; ted. Einstweilig). Di scarsa durata, prov-
visorio. TENDENZA (ingl. Tendency; franc. Tendance; ted. Trieb). Si intende per
T. ogni spinta all’azione, abituale e costante; nel che la T. si distingue dal-
l'impulso (v.) che è una spinta all’azione improv- visa e temporanea. Kant
limitava il significato del termine all’appetito abituale di natura sensibile
(Antr., $ 73). Schiller ammetteva nell’uomo tre T. fondamentali di cui la
prima, di natura sen- sibile, lo spinge al mutamento; la seconda o 7. alla
forma lo spinge all’immutabilità e infine la terza 0 7. al gioco lo spinge a
conciliare le due prime (Briefe liber die aesthetische Erziehung, 12-13). A
questa distinzione Fichte ne contrap- pose un’altra: cioè quella tra la 7. alla
cono- scenza, che fa dell’uomo un «essere rappresen- tante »; la T. pratica che
mira alla modificazione e formazione delle cose; e la T. estetica che mira a
una rappresentazione determinata solo in vista della rappresentazione stessa e
non della cosa o della conoscenza di essa (Werke, VIII, pag. 278-79). Più
recentemente Jaspers ha distinto tre ordini di T.: 1° quelle sensibili con
correlato somatico (la fame, la sete, il sesso, ecc.); 2° quelle vitali ma
senza localizzazione somatica (la T. all’esaltazione di sè o alla
sottomissione, all’emigrazione, alla so- cievolezza, ecc.); 3° le T. spirituali
cioè quelle dirette alla realizzazione di valori (Allgemeine Psy-
chopathologie, 1913). TENSIONE (gr. révoc; ingl. Tension; fran- cese Tension;
ted. Spannung). 1. La connessione tra due opposti che sono legati soltanto
dalla loro opposizione. Questo concetto costituiva, secondo gli antichi (cfr.
FiLone, Rer. Div. Her., 43), la grande scoperta di Eraclito. « Gli uomini non
sanno, aveva detto Eraclito, come ciò che è discorde è in accordo con sè:
armonie di T. opposte, come 867 quelle dell’arco e della lira » (Fr., 51,
Diels). Anche gli Stoici parlarono in questo senso della T. che tiene insieme
l’universo (ARNIM, Stoic. Fragm., II, 134). Mentre la dialettica (v.) è l’unità
degli op- posti come loro sintesi 0 conciliazione, la T. è il legame tra gli
opposti come tali, senza concilia- zione o sintesi. Le situazioni di T. sono
perciò quelle che non lasciano prevedere la conciliazione; in tal senso la
parola è usata anche nel linguaggio comune, come quando si parla della « T.
interna- zionale ». Nello stesso senso si parla di « T. psichica + per indicare
uno stato latente di conflitto. 2. Gli Stoici (e precisamente Cleante; cfr.
ARNIM, Stoic. Fragm., I, 128) introdussero la nozione di T. come forza tendente
a un risultato: nel qual senso la nozione è un sinonimo di tendenza o di
sforzo, e specialmente di sforzo prolungato o noso. TEOCRASIA (gr. 0eoxpacta;
ingl. Theocrasy; franc. Théocrasie; ted. Theocrasie). L'unione o mescolanza dell’anima
con Dio, nel misticismo (cfr. GiamBLICO, De vita pythagorica, 33, 240).
TEOCRAZIA (ingl. Theocracy; franc. Théo- cratie; ted. Theokratie). 1. Il regime
politico in cui il governo è esercitato dalla casta sacerdotale. In questo
senso furono T. lo Stato ebraico, lo Stato maomettano e il calvinismo in
Ginevra. 2. La dottrina della supremazia del potere eccle- siastico, dal quale
il potere civile trarrebbe il suo diritto e la sua investitura. T. in questo
senso fu il curialismo medievale. 3. Più in generale, qualsiasi dottrina la
quale ri- tenga che ogni autorità derivi da Dio (v. AUTORITÀ). TEODICEA (ingl.
Theodicy; franc. Théodicée; ted. Theodizee). Termine creato da Leibniz come
titolo di una sua opera (Saggio di T. sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo
e l'origine del male, 1710) per indicare la dimostrazione della giustizia
divina mediante la soluzione dei due problemi fon- damentali; quello del male e
quello della libertà umana. Sul primo problema, la T. di Leibniz risponde più
specialmente alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697):
considerazioni che in realtà poi non facevano che amplificare quanto avevano
già detto gli Epicurei in polemica con gli Stoici: «Dio o non vuol togliere i
mali e non può, 0 può e non vuole, o non vuole nè può o vuole e può. Se vuole e
non può, è impo- tente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è
invidioso, il che del pari è contrario a Dio. Se non vuole nè può è invidioso e
impotente perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo con- viene a Dio, da
che cosa deriva l’esistenza dei mali e perchè non li toglie?» (Fr., 374,
Usener). La soluzione di Leibniz è quella tradizionale: il male non è una
realtà e pertanto la sua respon- 868 sabilità non risale a Dio (v. MALE). Circa
il pro- blema della libertà Leibniz discute soprattutto le varie forme che il
determinismo teologico aveva assunto nella letteratura protestante
contemporanea, per rivendicare all'uomo la libertà nel senso tradi- zionale di
autodeterminazione (v. LIBERTÀ). Dio inclina senza necessitare e la libertà
dell’uomo non consiste nell’indeterminazione assoluta, cioè nell’ar- bitrio di
indifferenza, ma nell’assenza di necessità e di costrizione (v. LmertÀ). Da
Leibniz in poi la T. è considerata come una parte fondamentale della teologia
razionale (v. TEOLOGIA). TEOFANIA (lat. Theophania; ingl. Theophany; franc.
Théophanie; ted. Theophanie). Il termine che significa « visione di Dio» venne
usato da Scoto Eriugena (sec. 1x) per indicare il mondo come ma- nifestazione
di Dio. T. è, secondo Eriugena, il processo che da Dio discende all'uomo con la
creazione per ritornare attraverso l’uomo a Dio con l’amore. T. è anche ogni
opera della creazione in quanto manifesta l'essenza divina, che perciò diventa
visibile in essa e attraverso di essa (De divis. nat., I, 10; V, 23). TEOGNOSI
(ted. Theognosis). La conoscenza scientifica di Dio (cfr. C. F. Krause,
Vorlesungen liber das System der Philosophie, 1828, pag. 27). Termine molto
raro. TEOGONIA (gr. Broyovla; ingl. Theogony; fran- cese Théogonie; ted.
Theogonie). La generazione degli dèi e del mondo: la cosmologia mitica (cfr.
PLATONE, Leggi, X, 886 c) (v. COSMOLOGIA). TEOLOGIA (gr. Geodoyla; lat.
Theologia; in- glese Theology; franc. Théologie; ted. Theologie). In generale,
ogni trattazione o discorso o predica che abbia per oggetto Dio o le cose
divine. In questo senso generalissimo la parola fu intesa dal grande erudito
romano Marco Terenzio Varrone (sec. 1 a. C.), del quale S. Agostino ci ha
conser- vato la distinzione di tre T.: la T. mitica o favo- losa; la T.
naturale o fisica; la T. civile. La T. mitica o favolosa è quella di cui si
servono i poeti e che ammette molte finzioni contrarie alla dignità e alla
natura della divinità. La T. naturale è quella dei filosofi, che ha per oggetto
«ciò che gli dèi sono, il luogo in cui risiedono, il loro genere, la loro essenza,
il tempo in cui sono nati o la loro perennità; e se essi prendono il loro
principio dal fuoco, come crede Eraclito, o dai numeri come dice Pitagora o
dagli atomi come dice Epicuro +. Infine la T. civile «è quella che nelle città
i cit- tadini, e soprattutto i sacerdoti, devono conoscere e praticare e che
insegna quali divinità si debbano onorare pubblicamente e quali cerimonie e
quali sacrifici sia opportuno fare» (AGOSTINO, De Civ. Dei, VI, 5). In questo
senso varroniano, Vico considerava la sua «scienza nuova» come «una TEOFANIA T.
civile ragionata della provvedenza » in quanto essa trae origine dalla
«sapienza volgare dei le- gislatori che fondarono le nazioni con contem- plare
Dio per l’attributo di provvedente + (Sc. N., II, Corollari d’intorno agli
aspetti principali di questa scienza). In senso più specificamente sto-
rico-filosofico si possono distinguere: 1° la T. metafisica; 2° la T. naturale;
3° la T. rivelata; 4° la T. negativa. 1° Aristotele chiamò T. la sua « scienza
prima » cioè la metafisica: che egli intendeva, nello stesso tempo, come
scienza dell’essere in quanto essere cioè della sostanza e come scienza della
sostanza eterna, immobile e separata, cioè di Dio (Mer., VI, 1, 1026a 10).
Questo concetto della T. come metafisica è rimasto per lunghi secoli. Lo stoico
Cleante includeva la T. tra le parti della filosofia (Diogc. L., VII, 41). Per
Plotino, la T. era la sola scienza degna del nome (Enn., V, 9, 7). E da questo
punto di vista spesso i neoplatonici chia- marono teologi tutti i filosofi,
anche i fisici o i materialisti, in quanto si occupavano, come dice Proclo, dei
« princìpi primissimi delle cose in quanto per sè sussistenti » (P/ar. 7heol.,
I, 3.) Questo è anche il significato che Varrone attribuiva all’espres- sione «
T. naturale ». Quest'uso continuò nella filo- sofia cristiana: nè nella
patristica nè nella prima età della scolastica si potrebbe rintracciare una
delimitazione precisa tra T. e filosofia. Lo stesso S. Tommaso, in una prima
fase del suo insegna- mento, accettò l’identità di T. e di metafisica come
appare dal prologo del suo commento alla Mera- fisica di Aristotele. Qui egli
dice che poichè la metafisica considera in primo luogo le sostanze se- parate o
divine, in secondo luogo l’ente in quanto tale e in terzo luogo le cause o i
princìpi primi, essa «si dice scienza divina o T. in quanto consi- dera le
sostanze separate; metafisica in quanto con- sidera l’ente;... e prima
filosofia in quanto considera le cause prime delle cose» (/n Mer., Proemium).
Nel sec. xvi si cominciò a distinguere la « filo- sofia prima », che si chiamò
anche ontologia (v.), dalla T.; e si cominciò a distinguere anche la T. come
scienza naturale dalla T. fondata sulla rivela- zione. Queste distinzioni si
trovano chiaramente sta- bilite nel De Augumentis Scientiarum (1623) di F. Ba-
cone: che chiamò 7. naturale la conoscenza che si può ottenere di Dio «mediante
il lume della natura e la contemplazione delle cose create » (De Augm. Scient.,
III, 2) e chiamò 7. ispirata o sacra quella che si fonda su princìpi
direttamente ispirati da Dio (/bid., II, 1). 2° Il secondo concetto della T. è
pertanto quello di 7. naturale che si distingue dal prece- dente soltanto per
il fatto di comprendere una parte e non il tutto della metafisica; e
precisamente TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA quella parte che ha per oggetto le cose
divine. L'espressione baconiana « T. naturale» fu ripresa e diffusa da Wolff:
questi la definiva come «la scienza di ciò che è possibile per opera di Dio +
perciò come una parte della filosofia, la quale è in generale la scienza delle
cose possibili (Log., Disc. Prael., 57). Baumgarten insisteva sul carattere
razionale della T. così intesa: «La T. naturale è la scienza di Dio in quanto
si può conoscere senza la fede » (Mer., $ 800); e la riteneva come fonda- mento
della filosofia pratica, della T. e della T. rivelata (Zbid., $ 601). Fu questo
il concetto di T. che, insieme con il suo contenuto, subì la cri- tica di Kant
nella Critica della Ragion Pura. Kant tuttavia si preoccupò pure di distinguere
le varie specie della T.; e partendo dalla distinzione base tra T. razionale e
T. rivelata, distinse, nella T. ra- zionale, la T. trascendentale la quale «
concepisce il suo oggetto semplicemente con la ragion pura, mediante meri
concetti trascendentali (ens origi- narium, realissimum, ens entium)+ e la T.
naturale che si avvale di «concetti che ricava dalla natura ». A sua volta la
T. trascendentale può essere cosmo- teologia se deduce l’esistenza di Dio
dall’esperienza in generale; od ontofeologia se deduce la sua esi- stenza con
semplici concetti senza ricorrere al- l’esperienza. Infine la T. naturale può
essere o T. fisica, se risale agli attributi di Dio movendo dall'ordine e dalla
costituzione del mondo; o T. morale, se considera Dio come il principio del-
l’ordine e della perfezione morale (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. III, sez.
VII). Alcune di queste distinzioni sono rimaste e ancora vengono adope- rate
nel campo della T. ecclesiastica. 3° La 7. rivelata o sacra è quella che desume
i suoi princìpi dalla rivelazione. La prima esplicita formulazione di questo
concetto è, probabilmente, quella tomistica: S. Tommaso afferma che «la sacra
dottrina è scienza giacchè procede da prin- cìpi noti attraverso il lume di una
scienza supe- riore, che è la scienza di Dio e dei beati» (S. 7H., I, q. 1, a.
2). La «scienza di Dio e dei beati» coincide poi con «gli articoli di fede » o
«Ia rive- lazione divina +» (/bid., a. 7-8). Era questa la T. che Duns Scoto
considerava come scienza puramente pratica, di fronte alla metafisica, che egli
conside- rava come la scienza teoretica per eccellenza: la T. infatti non
avrebbe altro scopo se non quello di persuadere l’uomo ad agire per la propria
salvezza (Op. Ox., Prol., q. 4, n. 42); e le stesse verità apparentemente
teoretiche avrebbero solo va- lore pratico come, per es., la proposizione « Dio
è trino » che includerebbe semplicemente la cono- scenza del retto amore che
l’uomo deve a Dio (Ibid., Prol., q. 4, n. 31). La negazione del valore
conoscitivo della T. persiste, sul finire della scola- 869 stica, anche quando
non si riconosce alla totalità di essa il carattere pratico. Ockham,
considerava la T., non come una scienza, ma come un sem- plice insieme di
conoscenze diverse, teoretiche e pratiche, poggianti esclusivamente sull’autorità
e aventi lo scopo di avviare l’uomo alla salvezza (In Sent., Prol., q. 12,
E-I). Questo concetto non è molto diverso da quello che Spinoza doveva esporre
più tardi nel Trattato teologico-politico (cfr. specialmente cap. 15). 4° Il
concetto della 7. negariva è sorto e si è tramandato nell’ambito del
misticismo. La di- stinzione tra T. positiva o affermativa, la quale procede da
Dio verso il finito mediante la deter- minazione degli attributi o nomi di Dio;
e la T. negativa che procede dal finito a Dio e lo consi- dera al di sopra di
tutti i predicati o nomi coi quali si può designarlo, si trova nei trattati
dello Pseudo Dionigi l’Areopagita (De mysf. theol., 1; De div. nom., I, 4; 4,
2; 13, 1; De eccl. hyerar., 2, 3); ma la sua fonte è negli scritti neoplatonici
che pon- gono Dio al di sopra di tutte le determinazioni finite e dello stesso
essere (v. TRASCENDENZA). Essa viene ripetuta da Scoto Eriugena (De divis.
nat., JI, 30), ripresa dal misticismo speculativo tedesco del sec. x1v (cfr.
ECKEHART, in PFEIFFER, Deutsche Mystiker des 14 Jahrhunderts, II, pag. 318-19);
e nel Rinascimento da Nicolò da Cusa (De docta ignor., I, 24; 26) e da Bovillo
(De nihilo, 11, 1, 4). Si può considerare come una manifestazione di questa T.,
rivissuta attraverso l’esperienza di Kier- kegaard, la cosiddetta « T. della
crisi » di K. Barth: soltanto che una tale T. non consiste nel negare di Dio
gli attributi finiti ma nel considerare il rapporto tra l’uomo e Dio come la
negazione di tutte le possibilita umane (crisi) e la loro ridu- zione a mere
impossibilità, sicchè solo da questa negazione nasca una possibilità di
salvezza, di origine, non più umana, ma divina (Ròomerbrief, 1919). TEOLOGICHE, VIRTÙ (lat.
Virtutes theo- logicae; ingl. Theological Virtues; franc. Vertus théologiques;
ted. Theologische Tugenden). Così furono
chiamate nel Medio Evo la fede, la speranza e la carità in quanto virtù
dipendenti da doni divini e dirette al raggiungimento di una beatitudine cui
l’uomo non può giungere con le sole forze della sua natura. Per questo
carattere soprannaturale le virtù T. si distinguono da quelle etiche (v.) e
diano- etiche (v.) (cfr. S. Tommaso, S. 7h., II, 1, q. 62, a. 1). Per le
singole virtù, confronta le relative voci. TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA. Così Croce
ha chiamato la filosofia che si occupa di problemi mal posti e come tali
irresolubili, sia poi che li dibatta come «massimi» o «eterni», pro- 870 blemi,
sia che li risolva con sistemi « immaginari » sia infine che assuma di fronte
ad essi un atteg- amento agnostico (Sulla filosofia T. e le sue sopravvivenze,
in Saggi Filosofici, 1920, V, pag. 297). ‘TEOMANZIA (ingl. Theomancy; ted.
Theo- mantie). La divinazione ispirata dalla divinità (vedi NTUSIASMO).
‘TEOMONISMO (ted. Theomonismus). La dot- trina secondo la quale Dio è l’unica
realtà: lo stesso che acosmismo (v.) o panteismo (v.). TEONOMIA (ingl.
Theonomy; franc. Théo- nomie; ted. Theonomie). Governo o legislazione di Dio.
Il termine viene talora opposto ad auto- nomia. TEOPANTISMO (ingl. Theopantism;
fran- cese Théopantisme; ted. Theopantismus). La dot- trina che Dio è la sola
realtà: lo stesso che pan- teismo (v.). ‘TEOPNEUSTIA (ingl. Theopneusty;
francese Théopneustie; ted. Theopneustie). L'ispirazione di- vina attraverso la
quale viene comunicata la ve- rità rivelata. ‘TEOREMA (gr. 8éwpnua; lat. Theorem;
fran- cese Théorème; ted. Theorem). Una qualsiasi pro- posizione dimostrabile.
Il termine entrò fin dall'an- tichità nel linguaggio matematico (cfr.
ARISTOTELE, Mer., XIV, 2, 1090a 14); ma ha conservato e conserva, anche fuori
del linguaggio matematico il suo significato di proposizione non primitiva ma
derivata o derivabile da altre proposizioni. TEORETICO (gr. 0ewpnrix6c; lat.
Specula- tivus; ingl. Theoretical; franc. Théorétique; tedesco Theoretisch).
L'aggettivo corrisponde a specula- zione (v.) ed ha perciò come questo
sostantivo due significati fondamentali: 1° ciò che è puramente conoscitivo e
si oppone a pratico; 2° ciò che non è riducibile all’esperienza e si oppone a
empirico. Nel primo esempio si parla di «scienze T.»; nel secondo, di «
concetti T.3. TEORIA (gr. 0ewpia; lat. Theoria; ingl. Theory; franc. Théorie;
ted. Theorie). Il termine ha i se- guenti significati principali: 1°
Speculazione o vita contemplativa. Questo è il significato che il termine ebbe
in Grecia. Ari- stotele identificava in questo senso la T. con la beatitudine
(Er. Nic., X, 8, 1178 b 25). In questo senso, T. si oppone a pratica e in
generale ad ogni attività non disinteressata cioè che non abbia come fine la
contemplazione; 2° Una condizione ipotetica ideale nella quale abbiano pieno
adempimento norme o regole che, nella realtà, vengono solo imperfettamente o
par- zialmente seguite. Questo significato si dà alla pa- rola T. quando si
dice: «In T. dovrebbe essere così, ma in pratica è tutt’altra cosa », Kant
esami- nava il problema del rapporto tra T. e pratica in TEOMANZIA questo senso
in uno scritto del 1793 (Uber den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig
sein, taugt aber nicht fiir die Praxis): nel quale si dànno le seguenti
definizioni della T. e della pratica: «Si chiama T. un complesso di regole
anche pra- tiche quando siano pensate come principi generali e si faccia
astrazione da una quantità di condizioni che hanno tuttavia influenza
necessaria sulla loro applicazione. Inversamente, si chiama pratica, non
qualsiasi atto, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in rapporto a
princìpi di condotta rappresentati universalmente» (Op. cit., in principio). 3°
La cosiddetta «scienza pura » cioè la parte della scienza che non considera le
applicazioni della scienza stessa alla tecnica produttiva. Oppure quelle
scienze o parti di scienze che consistono nel- l’elaborazione concettuale o
matematica dei risul- tati, per es., la «fisica teorica ». 4° Un'ipotesi o un
concetto scientifico. Que- st’ultimo significato va specialmente considerato
sotto questa voce perchè il problema della T. scientifica costituisce uno dei
capitoli più impor- tanti della metodologia delle scienze. I risultati
principali delle ricerche in questo campo possono essere ricapitolati nel modo
seguente: a) La T. scientifica è un’ipotesi o almeno con- tiene una o più
ipotesi come sue parti integranti. La scienza moderna ha abbandonato la
ripugnanza della scienza del sec. xv e xxx contro le ipotesi, ripugnanza che fu
così bene espressa da Newton e da altri (v. IPOTESI). Questo è accaduto perchè
l’ipo- tesi ha cessato di essere una congettura circa le cause ultime o
nascoste dei fenomeni. Kant aveva già condannato le «ipotesi trascendentali»
che fanno appello ad una semplice idea della ragione e si era pronunciato in
favore delle ipotesi empi- riche il cui carattere è «Ja sufficienza per
determi- nare a priori le conseguenze che sono già date » (Crir. R. Pura,
Dottrina del metodo, cap. I, sez. 3). Claude Bernard nel 1865 affermava,
insieme, l’in- dispensabilità delle teorie e il loro carattere ipo- tetico nel
senso stretto del termine. « Lo sperimen- tatore, egli diceva, pone la sua idea
[o ipotesi sperimentale] come una questione, come un’inter- pretazione
anticipata della natura, più o meno probabile, da cui deduce logicamente
conseguenze che confronta ad ogni istante con la realtà per mezzo
dell’esperienza » (Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, I, 2).
E vedeva la fecon- dità delle ipotesi per la scoperta di fatti nuovi: «Le
ipotesi hanno per oggetto non solo di farci fare esperienze nuove, ma ci fanno
anche scoprire fatti nuovi che non avremmo percepito senza di esse » (Zbid.,
III, 1, 2). Ai principi del nostro secolo il carattere dell’ipotesi scientifica
(che è quello stesso dell’ipotesi in generale) di non poter essere TEORIA 871
direttamente provata dai fatti veniva chiaramente riconosciuto da E. Mach: «
Chiamiamo ipotesi una spiegazione provvisoria che ha lo scopo di far
comprendere più facilmente i fatti ma che sfugge ancora alla prova dei fatti»
(£rkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XIV; trad. franc., pag. 240). E Duhem così
elencava le condizioni cui un’ipo- tesi dovrebbe rispondere per essere scelta a
fondamento di una T. fisica: 1° l’ipotesi non dev’essere una proposizione
contraddittoria; 2° non dev'essere contraddittoria con le altre ipotesi della
stessa scienza; 3° le ipotesi devono essere tali che dal loro insieme la
deduzione matematica possa tirare conseguenze che rappresentino, con approssi-
mazione sufficiente, l'insieme delle leggi sperimentali (La théorie physique,
II, 7, 1, pag. 363). Poincaré insisteva a sua volta sulla necessità delle
ipotesi per qualsiasi procedura sperimentale e sulla ne- cessità di non
moltiplicare le ipotesi stesse. Que- st’ultima avvertenza non è che il vecchio
principio dell'economia (v.) o rasoio di Ockham, sempre valido nel campo delle
formulazioni concettuali (La science et l'hypothèse, 1902, cap. IX). b) Una T.
scientifica non è un’aggiunta interpretativa al corpo della scienza ma è lo
sche- letro di questo corpo. In altri termini la T. con- diziona sia
l’osservazione dei fenomeni sia l’uso stesso degli strumenti di osservazione.
Su questo punto è rimasto classico il libro di Duhem La teoria fisica (1906;
cfr. specialmente il cap. IV della seconda parte). È questo un punto che è stato
talora sfruttato allo scopo di mostrare il carattere relativo o imperfetto
della conoscenza scientifica. Così ha fatto, per es., E. Le Roy (Science et
philosophie, 1899-1900). Ma in realtà esso in- valida, non già la scienza, ma
la tesi della separa- zione netta tra osservazione e T. e quella della verità
assoluta della scienza. c) Una T. scientifica contiene, oltre la sua parte
ipotetica, un apparato che consente la sua verificazione o conferma. Duhem
distingueva in una T. fisica quattro operazioni fondamentali e cioè: 1° la
definizione e la misura delle grandezze fisiche; 2° la scelta delle ipotesi; 3°
lo sviluppo matematico della T.; 4° il confronto della T. con l'esperienza (La
théorie physique, I, 2, $ 1). Ov- viamente le prime tre di queste operazioni costi-
tuiscono la costruzione e lo sviluppo dell’ipotesi, mentre la quarta è diversa
e costituisce la fase della conferma. Analogamente, Norman R. Camp- bell ha
distinto in ogni T. fisica due gruppi di pro- posizioni: « uno consistente di
asserzioni circa qual- che collezione di idee che sono caratteristiche della
T.; l’altro consistente nelle relazioni tra queste idee e altre idee di natura
diversa ». Il primo gruppo di idee è l’ipotesi, il secondo è il dizionario. Lo
scopo del dizionario è di rendere possibile la veri- fica indiretta
dell’ipotesi. Dice Campbell: « De- v'essere possibile determinare,
indipendentemente dalla conoscenza della T., se certe proposizioni che
contengono le idee del dizionario sono vere o false. Il dizionario riferisce
alcune di queste proposizioni, la cui verità o falsità è conosciuta, a certe
proposizioni che comprendono le idee ipotetiche affermando che, se il primo
insieme di proposizioni è vero, allora anche il secondo è vero e viceversa;
questa relazione può essere espressa dall’asserzione che il primo insieme
implica il secondo + (Physics: the Elements, 1920, pag. 122). Analogamente
ancora G. Bergmann ha detto che una T. scientifica consiste di: 1° assiomi; 2°
teo- remi; 3° prove di questi teoremi e 4° definizioni (Philosophy of Science,
1957, pag. 35); nella quale elencazione le « prove dei teoremi» costituiscono
l’apparato di verificazione della teoria. Due osser- vazioni sono molto
importanti a questo proposito. La prima è che le modalità e il grado della
prova o conferma, che una T. deve possedere per essere dichiarata o creduta «T.
scientifica », non sono definibili con un criterio unitario. Ovviamente, la
verità di una T. psicologica o di una T. economica richiede apparati di prova
completamente diversi da quello di una T. fisica, perchè le tecniche di
verifica sono completamente diverse. Anche i gradi di conferma richiesti sono
diversi e spesso, fuori del campo della fisica, si chiamano « T.» semplici
congetture che non includono il minimo apparato di prova. La seconda osservazione
è che ogni ap- parato di prova esige la limitazione delle ipotesi contenute
nella T.: giacchè, dove queste ipotesi si possono moltiplicare ad arbitrio, la
T. può es- sere mantenuta anche contro qualsiasi smentita empirica e la sua
conferma diventa indifferente (come fu, ad es., nel caso della T. degli
epicicli nella cosmologia tolemaica). Ma anche con questa limitazione è spesso
difficile decidere sino a che punto l’acquisizione di qualche dato sperimentale
si concili con la T. o metta in crisi l’insieme della T. stessa. d) Una T. non
è necessariamente una spie- gazione del dominio di fatti cui si riferisce, ma
uno strumento di classificazione e di previsione. Già Duhem osservava: « Una T.
vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una spiegazione conforme
alla realtà; è piuttosto una T. che rap- presenta in modo soddisfacente un
insieme di leggi sperimentali » (La rhéorie physique, I, 2, 1). La verità di
una T. consiste nella sua validità; e la sua validità dipende dalla sua
capacità di adem- piere alle funzioni cui è chiamata. Le funzioni di una T.
scientifica possono essere specificate come segue: 1° una T. deve costituire
uno schema 872 di unificazione sistematica per contenuti diversi. Il grado di
comprensività di una T. è uno dei fonda- mentali elementi di giudizio della sua
validità; 2° una T. d ve offrire un complesso di mezzi di rappresentazione
concettuale e simbolica dei dati di osservazione. Sotto questo aspetto, il
criterio cui deve soddisfare è quello dell’economia dei mezzi concettuali cioè
della sua semplicità logica; 3° una T. deve costituire un insieme di regole di
inferenza che consentano la previsione dei dati di fatto. Questo è ritenuto
oggi uno dei compiti fondamentali di una T. scientifica; e la capacità di
previsione di una T. è il criterio fondamentale per valutarlo (cfr. S. TOULMIN,
The Philosophy of Science, 1953, pag. 42; M. K. MUNITZ, Space Time and
Creation, 1957, IV, 1). TEOSI. V. DEIFICAZIONE. ‘TEOSOFIA (gr. Brocogla; ingl.
Theosophy; fran- cese Théosophie; ted. Theosophie). Il termine veniva già usato
dai Neoplatonici per indicare la cono- scenza delle cose divine dovuta a una
diretta ispi- razione da Dio (PORFIRIO, De Absr., IV, 17; GIAM- BLICO, De
Myst., VII, 1; ProcLOo, Theol. Plat., V, 35). Fu ripreso nello stesso senso da
Jacob Bòhme (Sex Puncta Theosophica, 1620; Quae- stiones Theosophicae, 1623) e
da altri mistici della Riforma. Kant osservava che la limitazione della ragione
«impedisce che la teologia si elevi alla T., a concetti trascendentali in cui
la ragione si smar- risce » (Crit. del Giud., $ 89). E Schelling parlava del
teosofismo di Jacobi, intendendo per teosofi i filosofi che si ritengono
direttamente ispirati da Dio (Miinchener Vorlesungen in Werke, X, pag. 165). In
seguito il termine è stato ripreso nel 1875 dai fondatori della Società
teosofica tra i quali vi era Elena Petrowna Blavatsky, autrice di due opere
/side svelata (1877) e Dottrina segreta (1888) che esponevano la nuova T.: un
mi- scuglio di occultismo e di credenze orientali, che si assumeva avesse a suo
fondamento una diretta ispirazione di Dio. Le vicende e le dottrine di questa
società cadono fuori della filosofia. Basti qui accennare allo scisma provocato
da Rudolf Steiner e che portò quest’ultimo alla formulazione dell’antroposofia
(v.). ‘TERMINE (gr. 6poc; lat. Terminus; inglese Term; franc. Terme; ted.
Terminus). I significati principali sono i seguenti: 1° un segno linguistico o
un insieme di segni. Questo è il significato che più da vicino interessa la
filosofia (v. oltre); 2° qualsiasi oggetto o cosa cui un discorso si riferisca.
In tal senso è sinonimo appunto di oggetto (v.) o di cosa (v.); 3° i confini di
un'estensione, per es., il T. di una linea o di una superficie; TEOSI 4° il
punto d’arrivo di un’attività o il risul- tato di un’operazione. In questo
senso, ad es., il T. della volontà è l’azione o dell’intelletto la conoscenza;
5° il punto di partenza o il punto d’arrivo di un movimento. E in tal senso si
parla di terminus a quo e di terminus ad quem (v.). Nel primo significato, che
interessa la logica, si possono distinguere i seguenti significati subordinati:
a) gli elementi che entrano a comporre le premesse del sillogismo categorico
cioè il soggetto e il predicato; b) tutti i componenti semplici che entrano
nelle proposizioni. In questo senso sono T. non solo il soggetto e il predicato
ma anche i verbi, le pre- posizioni, le congiunzioni cioè i componenti sin-
categorematici (v.). Non sono T. invece le propo- sizioni perchè non sono semplici;
c) tutti i componenti delle proposizioni sia semplici che complessi. In questo
senso generalis- simo sono T. non solo il soggetto, il predicato, il verbo e i
componenti sincategorematici, ma anche le proposizioni in quanto possono
entrare a far parte di altre proposizioni, come quando si dice « Socrate è
uomo, è una proposizione ». Il significato a) è quello definito da Aristotele
(An. Pr., I, 1, 24b 16) e che è rimasto a lungo anche nella logica medievale
(cfr. PIETRO IsPANO, Summ. Log., 4.01). Gli altri significati sono stati
ammessi dalla logica terministica del sec. x1v e si possono leggere in Ockham
(Summa Logicae, I, 2). Data questa diversità del significato della parola, le
divisioni del concetto sono state numerose e diverse. Quella che i logici terministi
considerano come fondamentale è la divisione tra T. scritto, T. parlato, e T.
pensato, corrispondenti alle tre specie di proposizioni distinte da Boezio.
Essi di- stinsero inoltre i T. categorematici e sincategore- matici (v.);
concreti e astratti (v.); connotativi e assoluti (v. CONNOTAZIONE); univoci ed
equivoci (v.) (cfr., su queste divisioni, OCKHAM, Summa Logicae, I, 3 sgg.).
Nella logica moderna la parola è assunta nel significato più esteso, cioè nel
senso c) (cfr. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 4). Nella
matematica, è assunta in un analogo significato, intendendosi per T. qualsiasi
componente, semplice o complesso, di una espressione. TERMINISMO (ingl.
Terminism; franc. Ter- minisme; ted. Terminismus). Sin dai princìpi del sec.
xv, si indicarono con il nome di terministi (terministae) o nominalisti
(nominales) i sostenitori della tesi nominalistica nella disputa sugli univer-
sali (v. NOMINALISMO; UNIVERSALE) che erano, nel contempo, cultori della nuova
/ogica, considerata come lo studio delle proprietà dei termini. Gio- TERZO
ESCLUSO, PRINCIPIO DEL vanni Gerson (morto il 1429) già parla della di- sputa
tra formalisti e terministi (De Concepribus, in Opera, 1706, IV, pag. 806). E
in un manoscritto dello stesso secolo della Biblioteca Colbert (stampato in
parte da S. BaLuzi, Miscellanea, IV, pag. 531 f) è detto: «Sono detti
nominalisti i dottori che non mol- tiplicano le cose significate dai termini a
seconda della moltiplicazione dei termini; realisti invece quelli che affermano
che le cose si moltiplicano secondo la molteplicità dei termini... Inoltre sono
detti nominalisti coloro che usano studio e dili- genza per conoscere tutte le
proprietà dei termini dalle quali dipende la verità o la falsità delle pro-
posizioni; le quali proprietà sono la supposizione, la nominazione,
l’estensione, la restrizione, la di- stribuzione e gli esponibili: e che
conoscono inoltre le antinomie (obligationes) e i veri fondamenti degli
argomenti dialettici » (riportato in PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag.
187). Lo studio, di cui qui si parla, delle proprietà dei termini, muo- veva
dall’indirizzo generale di questi filosofi e logici per il quale la conoscenza
e la scienza non hanno per oggetto altro che termini. Diceva a questo proposito
Ockham: « Qualsiasi scienza, sia razio- nale sia reale, è scienza solo di
proposizioni e di proposizioni in quanto sono conosciute, in quanto solo le
proposizioni sono conosciute. Tutti i ter- mini di queste proposizioni sono
soltanto concetti e non già sostanze esterne» (/n Senr., I, d. 2, + 4, M, N)
(v. Logica; NOMINALISMO; UNIVERSALE). TERMINOLOGIA (ingl. Terminology; fran-
cese Terminologie; ted. Terminologie). Un qualsiasi linguaggio artificiale: ad
es., «la T. matematica », «la T. hegeliana », ecc. TERMINUS A QUO, AD QUEM.
Espres- sioni usate a proposito del movimento: 7. a quo si chiama il luogo dal
quale un mobile si sforza di allontanarsi. 7. ad quem si chiama il luogo al
quale il mobile si sforza di avvicinarsi (HOBBES, De Corp., 8, $ 10; WOLFF, Cosmol.,
$ 161). TERRORISMO (ingl. Terrorism; franc. Ter- rorisme; ted. Terrorismus). Il
termine appartiene al dominio della filosofia solo nel significato, at-
tribuitogli da Kant, di T. morale: che sarebbe l’interpretazione della storia
come decadenza o regresso (Der Streit der Fakultàten, 1798, 1I, 3). TERZO
ESCLUSO, PRINCIPIO DEL (in- glese Principle of Excluded Middle; franc. Principe du milieu ou tiers
exclu; ted. Grundsatz vom aus- geschlossenen Dritten). Fu Baumgarten il primo a dare il nome a questo principio
e a considerarlo come autonomo nei rispetti del principio di con- traddizione
(Mer., 1739, $ 10) per quanto Wolff parlasse della « esclusione del medio tra i
contrad- dittori» come di un corollario del principio di contraddizione (Onf.,
$ 53). 873 Le vicende di questo principio sono strettamente collegate con
quelle del principio di contraddizione dal quale, sino a Baumgarten, non fu
distinto. Tuttavia Aristotele lo formulò con tutta chiarezza dicendo: « Tra gli
opposti contraddittori non c’è un mezzo. Questa infatti è la contraddizione:
l’op- posizione, all’una o all’altra parte della quale è presente l’altra
parte, sicchè non ha un mezzo» (Met., X, 7, 1057a 33). Nè questa formulazione è
isolata perchè (come risulta anche dal passo citato) l’esclusione del T. è da
Aristotele ritenuta inelimi- nabile dalla contraddizione (cfr. C. A. ViANO, La
logica di Aristotele, 1955, pag. 35 sgg.). La logica medievale ignorò
totalmente il principio, che co- minciò ad essere distinto dal principio di
contrad- dizione solamente da Leibniz. Questi osservò che il principio di
contraddizione contiene due enun- ciati veri: « L’uno che il vero e il falso
non sono compatibili nella stessa proposizione o che una proposizione non può
essere vera e falsa ad un tempo; l’altro, che l’opposto o la negazione del vero
e del falso non sono compatibili o che non c’è un mezzo tra il vero e il falso
o che non è pos- sibile che una proposizione non sia nè vera nè falsa » (Nouv.
Ess., IV, 2, 1). A partire dalla metà del sec. xv, ad opera di Wolff e
Baumgarten, il principio del T. escluso faceva il suo ingresso, insieme con
quelli di identità e di contraddizione, tra le «leggi fondamentali del pensiero
». Ma il principio del T. escluso non ha avuto la fortuna degli altri princìpi:
è stato talora revocato in dubbio. Secondo una testimonianza di Cicerone lo
revocava in dubbio Epicuro per togliere valore alla dialettica (Acad., IV, 30,
97). E mentre Hegel ripeteva contro di esso le solite critiche che indiriz-
zava a tutti i principi logici tradizionali (Enc., $ 119), Kant cercava di
stabilire una eccezione ad esso, nella discussione delle antinomie
cosmologiche. Egli distinse l’opposizione analitica, che è quella della
contraddizione e che esclude il medio, dall'oppo- sizione dialettica la quale
invece ammette il medio. Se le due proposizioni: «Il mondo rispetto alla
grandezza è infinito», «Il mondo rispetto alla grandezza è finito» vengono
considerate in oppo- sizione analitica, il mondo non può essere che o finito o
infinito. Ma esse possono essere considerate in opposizione analitica solo se
si ammette che il mondo sia una « cosa in sè » cioè solo se si ammette come
valida l’idea del mondo. Kant dichiara di negare questa validità: pertanto le
due proposizioni si trovano ad essere in opposizione dialettica e si può
affermare che il mondo «non esiste nè come un tutto in sè infinito nè come un
tutto in sè fi- nito » (Crit. R. Pura, Dial. trasc., cap. II, sez. VII. Questo
equivale a dichiarare che il principio del T. escluso non è valido nel caso dell’opposizione
874 TERZO dialettica e a introdurre un nuovo valore logico, accanto al vero e
al falso, cioè l’indeterminato. La logica contemporanea non si è lasciata sfug-
gire la possibilità di costruire una logica che esclu- desse il principio del
T. escluso. Dapprima Lu- kasiewicz nel 1920 poi Lukasiewicz e Tarski nel 1930
hanno costruito una logica a tre valori, corrispon- denti al vero, al falso e
al possibile, simbolizzati dalle cifre 1, 0, 1/2. In questa logica il principio
del T. escluso non trova posto, nel senso che non è esprimibile con i simboli
della logica stessa e non costituisce un suo teorema (Untersuchungen liber den
Aussagenkalkiil, in Comptes rendus des Séances de la Société des Sciences et
des Lettres de Varsovie, 1930, pag. 30-50, 51-77). Gli stessi autori hanno dato
le regole per costruire un sistema a un numero finito n di valori di verità
(Philoso- phische Bemerkungen zu mehrwertigen Systemen des Aussagenkalkiils,
negli stessi Comptes Rendus, 1930, classe III, pag. 51-77). Questo e i
precedenti scritti citati sono ora raccolti in Polish Logic 1920-39, Oxford,
1967, pag. 15-65). Un tipo di logica poli- valente era stato anche costruito da
E. L. Post (Introduction to a General Theory of Elementary Pro- positions, in
American Journal of Mathematics, 1921, 43, 163). A. Heyting ha costruito a sua
volta una logica intuizionistica formalizzata a tre valori, vero, falso e
indeterminato, che si applica alla teoria intuizionistica della matematica di
Brower e che implica la rinuncia alla dimostrazione per assurdo (Die formalen
Regeln der intuitionistischen Logik, in Sitzungesber. Preuss. Akad. Wiss.
[Phys.-Math. Klasse], 1930, pag. 42-56). La logica a tre valori costituisce
perciò una al- ternativa ai sistemi tradizionali di logica. Scriveva C. I.
Lewis: «Il principio del T. escluso non è scritto nei cieli: riflette piuttosto
la nostra ostina- zione ad aderire al più semplice di tutti i modi della
divisione e il nostro interesse predominante per gli oggetti concreti, in
opposizione ai concetti astratti. Le ragioni per le quali scegliamo un sistema
di logica non sono tratte dalla logica stessa come non sono tratte dai princìpi
matematici le ragioni per scegliere le coordinate cartesiane piuttosto che
quelle polari o le coordinate di Gauss + (A/terna- tive Systems of Logic, in
The Monist, 1932, pag. 505). H. Reichenbach ha a sua volta mostrato l’utilità
della logica a tre valori per la meccanica quanti- stica, data la sua natura
probabilistica (Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, $ 30) (cfr.,
sulla questione, anche L. RouGIER, Traité de la con- naissance, 1955, II, cap.
VII. TERZO UOMO (gr. «piroc &vipwroc). Aristo- tele accenna più volte a un
argomento così chiamato contro la dottrina platonica delle idee, argomento che
dà per noto e che non espone (Mer., I, 9, UOMO 990 b 17; VII, 13, 1039a 2; El.
Sof., 178b 36). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Met., I, 9) l’argomento
consisterebbe nel dire che, poichè un uomo particolare è simile all’uomo
ideale, ci deve essere un terzo uomo di cui entrambi partecipano. Ma questo è
l’argomento addotto contro la dottrina delle idee dallo stesso Platone, che
tuttavia non menziona l’esempio dell’uomo (Parm., 132 a). Ales- sandro tuttavia
menziona anche altre forme del- l’argomento del T. uomo: 1° una è quella usata
dai Sofisti: quando diciamo «l’uomo passeggia» non intendiamo nè l’idea
dell’uomo (che è immobile) nè un uomo particolare: dobbiamo allora intendere un
uomo di una terza specie; 2° Fania, uno scolaro di Aristotele, nel suo libro
contro Diodoro Crono attribuiva al sofista Polisseno il seguente argomento. Se
l’uomo esiste per partecipazione all’idea del- l’uomo, ci deve essere qualche
uomo che avrà il suo essere in rapporto all’idea: ma questo non sarà nè l'idea
stessa nè l’uomo particolare. Infine lo stesso Alessandro nota come l’argomento
del T. uomo esposto nella prima forma può essere ripetuto all’infinito perchè
il rapporto tra il T. uomo da un lato e l’idea e l’uomo particolare dall’altro
possono dar luogo al quarto e quinto uomo e via di seguito. Poichè Platone fa
esporre l’argomento da Par- menide contro quella interpretazione della dottrina
delle idee che scpara nettamente le idee stesse dalle cose, è probabile che
l’argomento fosse corrente nella stessa scuola platonica; la sua origine sembra
però megarica o sofistica (cfr. la nota di W. D. Ross a Met., I, 9, nella
edizione della Metafisica aristo- telica da lui curata; nonchè del Drès al
Parmenide, nella Coll. des Univ. de France, VIII, pag. 21). TESI (gr. 6éow; ingl. Thesis;
franc. Thèse; te- desco These). Il
termine deriva dai testi logici aristotelici, nei quali ricorre con due
significati prin- cipali e cioè: 1° per designare ciò che all’inizio di una di-
scussione l’interlocutore pone come propria assun- zione (Top., II, 1, 109a 9);
2° per designare una proposizione assunta come principio proprio (An. Post., 1,
2, 72a 14). Questi due significati si sono conservati nella tradizione
filosofica. Il primo ricorre già in Pla- tone (Rep., I, 335a); e, secondo una
tradizione riferita da Diogene Laerzio, si attribuiva a Protagora l’aver per
primo mostrato come si appoggi una T. con argomenti (Drog. L., IX, 53). Nella
termino- logia dei logici medievali e dei matematici è pre- valso questo
significato: la T. designa una propo- sizione che ci si accinge a dimostrare.
Con Kant il termine ha acquistato un nuovo valore filosofico: nelle antinomie
della Ragion pura T. è l'enunciato affermativo dell’entinomia (v.). TETICO
Nella dialettica post-kantiana, il momento della T. è l’elemento positivo o di
posizione, quindi iniziale, di un processo o sviluppo dialettico (v. DIALET-
TICA, 4°). G. P. TESTABILITÀ o ATTESTABILITÀ (in- glese Testability; franc.
Testabilité; ted. Testabi- litàt). La possibilità di un enunciato di essere
messo a prova e quindi d’essere confermato o verificato oppure sconfermato o
falsificato. Il ter- mine è frequentemente usato da logici e metodo- logi
contemporanei. L’attestabilità comprende ogni possibilità di conferma, di
verifica, di accertamento e di controllo, in quanto ognuna di tale possibilità
può mettere capo sia alla prova (v.) sia alla di- sprova dell’enunciato in
questione. Carnap ha tuttavia ristretto il significato del termine a quello di
verifica empirica incompleta, giacchè ha inteso per esso « una procedura la
quale conduce alla conferma, almeno in un certo grado, dell’enunciato o della
sua negazione ». Si ha la T., se si possiede effettivamente una procedura del
genere. Si ha invece la semplice confermabilità se pur non possedendosi quella
procedura, si cono- scono le condizioni nelle quali l’enunciato sarebbe
confermato. Un enunciato può essere così confer- mabile senza essere
attestabile: come accade quando si sa che una certa osservazione lo
confermerebbe, ma non si è in grado di effettuare l’osservazione stessa
(Testability and Meaning, 1936, in Readines in the Philosophy of Science, 1953,
pag. 47). Camap ha pure distinto ciò che è direttamente e ciò che è
indirettamente attestabile. Qualcosa è direttamente attestabile se «sono concepibili
circostanze nelle quali noi consideriamo fiduciosamente l’enunciato così
fortemente confermato o disconfermato sulla base di una o poche osservazioni,
che lo accet- tiamo o lo rigettiamo senz'altro; come, per es., ‘c’è una chiave
sul mio tavolo ’ ». L’attestazione indiretta di un enunciato consiste invece «
nell’at- testare direttamente altri enunciati i quali stanno in una relazione
logica specifica con l’enunciato in questione ». Questi altri enunciati possono
essere chiamati enunciati-prova (rest sentences) (Truth and Confirmation, 1936,
in Readings in Philosophical Analysis, 1949, pag. 124). TESTIMONIANZA (ingl.
Witnessing, Testi- mony; franc. Témoignage; ted. Zeugniss). Il ricorso
all’esperienza altrui o alle altrui asserzioni come metodo di prova per le
proposizioni che esprimono fatti. Già Aristotele aveva notato che la T. può
riferirsi «0 a questioni di fatto o a questioni di caratteri personali » che
sono anche questioni di fatto (Ret., I, 15, 1376 a 23). Il valore della testi-
monianza in questo senso si trova riconosciuto nella Logica di Portoreale
(1662). « Per giudicare della verità di un avvenimento e determinarmi a 875
crederlo o non crederlo, non bisogna considerarlo in se stesso, come si farebbe
con una proposizione di geometria, ma bisogna considerare tutte le cir-
costanze che lo accompagnano, sia interne che esterne. Chiamo interne le
circostanze che ap- partengono al fatto stesso, ed esterne quelle che
concernono le persone per la cui T. siamo portati a crederlo » (ARNAULD, Log.,
IV, 13). Locke a sua volta introduceva la T. come uno dei due fonda- menti del
giudizio di probabilità (l’altro essendo «la conformità di una cosa con la
nostra conoscenza, osservazione od esperienza »). Nella T. degli altri sono,
secondo Locke, da considerare: « 1° il numero dei testimoni; 2° la loro
integrità; 3° la loro capa- cità; 4° l'intento dell’autore, se la T. è tratta
da un libro; 5° la coerenza tra le parti e le circostanze della relazione; 6°
le T. contrarie » (Saggio, IV, 15, 4). Leibniz ammetteva il valore della T.
solo subor- dinatamente al carattere di verisimiglianza del- l’evento
testimoniato, come argomento « non arti- ficiale» che si differenzia da quelli
«artificiali» che sono dedotti dalle cose con il ragionamento. Tuttavia
osservava che la stessa T. può fornire un fatto che tende a formare un
argomento arti- ficiale (Nouv. Ess., IV, 15, 4). Hamilton così rias- sumeva la
dottrina della T.: « L'oggetto della T. è detto il farro (factum); e la sua
validità costituisce ciò che si chiama la credibilità storica (credibilitas
historica). Per valutare questa credibilità si richiede di considerare: 1°
l'attendibilità soggettiva della T. (fides testium); 2° la probabilità
oggettiva del fatto. La prima è fondata in parte sulla sincerità e in parte
sulla competenza del testimone. La seconda dipende dalla possibilità assoluta e
relativa del fatto stesso. La T. è o immediata o mediata. È immediata quando il
fatto riportato è l’oggetto di un’esperienza personale; è mediata quando il
fatto è l'oggetto di un’esperienza altrui» (Lectures on Logic, 2* ediz., II,
pag. 175-76). TEST-SENTENCE. V. TESTABILITÀ. TETICA (ted. Therik). Secondo
Kant, « ogni insieme di dottrine dogmatiche », in opposizione ad Antitetica
(v.) (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. 2, sez. 2). TETICO (ingl.
Thetic; franc. Thétique; tedesco Thetisch). Che afferma o pone. Fichte chiamò
giudizio T. «un giudizio nel quale qualcosa sa- rebbe posta non già come uguale
o contraria di un’altra, ma solo come uguale a se stessa ». Questo giudizio si
distinguerebbe dal giudizio antitetico e dal giudizio sintetico e precisamente si
oppor- rebbe al giudizio antitetico. Il supremo giudizio T. sarebbe «Io sono»
nel quale, dice Fichte « dell’io non si afferma nulla ma il posto del predicato
è lasciato vuoto per la possibile determinazione dell’io all’infinito ». Questo
giudizio sarebbe « l’as- 876 soluta posizione dell'io » (Wissenschaftslehre,
1794, 1,$3,D7. L'aggettivo è stato poi spesso adoperato in senso analogo a
quello stabilito da Fichte. Husserl ha chiamato T. «gli atti che pongono
l’essere » cioè che hanno il carattere della credenza (/deen, I, $ 103),
TETRAKTYS (gr. terpaxtic). Secondo i Pitago- rici, la somma dei primi quattro
numeri, cioè il numero 10, in quanto rappresentabile con un trian- golo che ha
il quattro per lato. (Carm. Aur., 48). La figura costituisce una disposizione
geometrica che esprime un numero o un numero espresso da una disposizione
geometrica. Essa aveva un carat- tere sacro e i Pitagorici usavano giurare per
essa. TEURGIA (gr. deovpyla; lat. Theurgia; inglese Theurgy; franc. Théurgie;
ted. Theurgie). Il potere magico o purificatorio delle tecniche religiose cioè
dei riti. Già ammessa da Porfirio (cfr. AGOSTINO, De Civ. Dei, X, 9), essa fu
posta da Giamblico al di sopra dell’unione spirituale con Dio cioè dell’estasi.
Il proprio della T, è, secondo Giamblico, il valore autonomo che i riti
posseggono, indipen- dentemente da coloro che li adoperano: cioè la loro
capacità di muovere o persuadere le potenze divine (De Myst. Aegyp., II, 11). S.
Agostino si fermò a criticare lungamente la T. che pareva a lui si rivolgesse
indifferentemente sia ai demoni cattivi sia agli angeli (De Civ. Dei, X, 10
sgg.). Kant considerò la T. come « quella illusione fan- tastica che consiste
nel credere di avere il senso di altri esseri soprasensibili e di poter
influire su di essi» e ritenne che essa, come la teosofia, è resa impossibile
dal riconoscimento della limita- zione della ragione (Crit. del Giud., $ 89).
TICHISMO. V. CasuaLisMo. TIMOCRAZIA (gr. tiuoxparta; ingl. Timocracy; franc.
Timocratie; ted. Timokratie). 1. La forma di governo fondata sul desiderio
degli onori che, secondo Platone, è una corruzione dell’aristocrazia (Rep.,
VII, 545 b). 2. La forma di governo fondata sul censo, se- condo Aristotele (E.
Nic., VIII, 10, 1160a 36). TIMOLOGIA. AxioLogia. TIPICA (ingl. Typics; franc.
Typique; tedesco Typik). Kant ha chiamato «T. del giudizio pra- tico» ciò che
nella Critica della Ragion Pratica corrisponde allo schematismo (v.)
trascendentale della Critica della Ragion Pura. Il tipo della legge morale è la
stessa legge morale in quanto « può essere manifestata in concreto nell’oggetto
dei sensi » cioè in quanto è liberamente realizzata nel mondo sensibile (Crir.
R. Prat., I, libro I, cap. II). TIPICO (ingl. Typical; franc. Typique; ted. Ty-
pisch). In generale, ciò che corrisponde ad un tipo cioè ad un modello o a una
rappresentazione gene- rale o schematica o ciò che esprime o realizza i TETRAKTYS
caratteri del tipo. Così, ad es., la « bellezza T.» che Ruskin esaltava è una
bellezza idealizzata secondo un certo modello. La « rappresentazione T.+» è una
rappresentazione generalizzata e co- mune a una classe di cose. I « caratteri
T. + sono quelli che contrassegnano il tipo; mentre una «esperienza T.» è
un’esperienza che può far da modello a molte altre esperienze o ne riassume i
caratteri comuni. Il termine, come si vede, non ha un significato rigoroso ma
implica costantemente il riferimento a ciò che è comune e generale e che,
appunto come tale, è ritenuto fondamentale. TIPO (gr. ròrog; ingl. Type; franc.
Type; te- desco Typus). Nel senso di modello, forma o schema o insieme
collegato di caratteristiche che può essere ripetuto da un numero indefinito di
esemplari, la parola è usata già da Platone (Rep., 379 a, 380, 396 e, ecc.) e
da Aristotele (Er. Nic., II, 2, 1104 a 1; Ibid., II, 7, 1107b 14; ecc.). Galeno
la usò per indicare le forme della malattia (Op., ed. Kihn, VII, 463). E la
parola è rimasta con lo stesso signi- ficato in molti usi correnti del
linguaggio comune, scientifico e filosofico. In particolare la biologia e la
psicologia fanno un uso amplissimo del termine e lo considerano fondamentale.
Dice, ad es., Kret- schmer: « Ciò che noi chiamiamo, matematicamente, punti
focali di correlazioni statistiche, chiamiamo anche, in prosa più descrittiva, T.
costituzionali... Un T. vero può essere riconosciuto dal fatto che esso conduce
a sempre maggiori connessioni di importanza biologica. Dove vi sono molte e
sem- pre nuove correlazioni con i fattori biologici fon- damentali... abbiamo a
che fare con punti focali della più grande importanza » (Korperbau und Cha-
rakter, 1948). Nella psicologia analogamente il T. è definito come «un gruppo
di tratti correlativi + allo stesso modo in cui un tratto è definito come un
gruppo di atti comportamentistici o di tendenze di azioni correlative (H. J.
EySENCK, The Structure of Human Personality, 1953, pag. 13 sgg.). Il
significato della parola non cambia nella cosid- detta « teoria dei T. logici »
di Russell e Whitehead, nella quale designa appunto le forme o i modelli dei
concetti (v. ANTINOMIA). Peirce ha inteso per T. una parola o un segno che non
è una cosa singola o un singolo evento ma una « forma defi- nitamente
significante » che per essere usata deve prender corpo in un gettone (Token)
che dev'essere il segno di un T. e perciò dell'oggetto che il T. significa. Un
T. è, per es., l’articolo «il» nella lingua italiana che non può essere visto o
ascol- tato perchè non è un singolo evento, ma deter- mina i singoli eventi
cioè i gettoni o gli esempi di esso nel discorso scritto o parlato (Coll. Pap.,
4.537) (v. GETTONE; PAROLA; SEGNO). TOLLERANZA TIPOLOGIA (ingl. Typology;
franc. Typologie; ted. Typologie). Lo studio dei tipi, in una qualsiasi
disciplina o scienza; ad es., T. biologica, T. raz- ziale, T. psicologica, ecc.TIRANNIDE(gr.
tupawilc; lat. Tyrannis; ingl. Tyranny; franc. Tyrannie; ted. Tyrannie). La
forma di governo nella quale l’arbitrio di una o più persone tiene il posto del
diritto. Il concetto di T. fu elaborato dai Greci, insieme con quello di libera
costituzione. La definizione del tiranno è già contenuta nei versi di Euripide:
« Non c’è peggior nemico che un tiranno in una città, sotto il quale scompaiono
tutte le leggi comuni e uno solo comanda, tenendo in sua mano la legge»
(Suppi., II, 429-32). Secondo Platone la T. è lo sbocco dell'eccessiva libertà
in cui cadono talora le democrazie. « Il popolo fuggendo il fumo, come si suol
dire, della servitù sotto un governo di uo- mini liberi si trova, con la T.,
caduto nel fuoco della servitù sotto il dispotismo di servi e in cambio di
quell’eccessiva e inopportuna libertà, è costretto a vestire la tunica dello
schiavo e a soggiacere alla più triste ed amara delle servitù, quella d’essere
servo dei servi » (Rep., VIII, 569 b-c). A sua volta Aristotele dice che la T.
raccoglie in- sieme i mali della democrazia e della oligarchia. Dalla
oligarchia prende il suo fine che è la ricchezza (che è l’unica condizione a
cui si può mantenere la guardia e la vita di lusso) nonchè la sfiducia nel
popolo cui toglie le armi e il danneg- giamento della popolazione allontanata
dalla città e dispersa nelle campagne. Dalla democrazia prende la lotta contro
i maggiorenti, la loro rovina provo- cata occultamente o manifestamente e il
loro esilio (Pol., V. 1, 1311 a 8 sgg.). Nel Medio Evo, mentre S. Tommaso
ritiene che « dalla monarchia se si tra- sforma in T. segue minor male che da
un governo di più ottimati quando si corrompe» (De regimine prin- cipum, I, 5);
e condanna il tirannicidio, affidando alla pazienza dei sudditi la
sopportazione della T. o a un potere superiore il potere di eliminarla (/bid.,
I, 6), Giovanni di Salisbury fa una esplicita difesa del tiran- nicidio perchè
considera il tiranno come un ribelle contro la legge dalla quale i re, come
tutti i citta- dini, sono vincolati (Policraticus, IV, 7). Queste idee furono
poi spesso ripetute dai monarcomachi e giusnaturalisti del sec. xvi e xvil.
Diceva Bodin: «La più notevole differenza tra il re e il tiranno è che il re si
conforma alle leggi di natura, il ti- ranno le calpesta; l’uno coltiva la
pietà, la giustizia e la fede, l’altro non ha Dio nè fede nè legge» (De la
République, 1576, II, 4, 246). A sua volta Locke affermava: « Dove la legge
finisce, comincia la T., quando la legge sia trasgredita a danno di altri, e
chiunque nell’autorità ecceda il potere con- feritogli dalla legge e fa uso
della forza per com- 877 piere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non
permette, cessa, in ciò, di essere magistrato e, in quanto delibera senza
autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che
con la forza viola il diritto altrui » (Two 7reatises of Governementr, II, $
202). Hobbes aveva affermato al contrario che «coloro che sono contrari ad una
monarchia la chiamano tirannia + (Leviarà., II, 19, 2). Il concetto della T. ha
accompagnato la forma- zione del liberalismo politico perchè è servita come
pietra di paragone o come simbolo di tutto ciò che il liberalismo condannava.
Come tale, essa ha pure costituito uno dei temi della retorica rivolu- zionaria
e liberale dal sec. xvi in poi. Oggi si fa un uso assai meno frequente del
termine, non già perchè i regimi tirannici siano spariti o sia sparito il
pericolo che essi si instaurino anche là dove vige un certo grado di libertà,
ma solo perchè il ter- mine sembra appartenere ad un tipo di retorica caduto in
disuso. Assolutismo o totalitarismo sono i termini che hanno sostituito
tirannide. Ma il concetto non è mutato; e queste stesse parole significano
ancora: un regime in cui l’arbitrio indi- viduale tiene il posto della legge;
una servitù im- posta da servi: un governo che non si può mutare nè correggere
se non con la violenza. TITANISMO. V. RoManTICISMO. TOLLERANZA (ingl. Toleration;
franc. To- lérance; ted. Toleranz). 1. La norma o il principio della libertà
religiosa. Si è ritenuta talora poco adatto a designare questo principio un
termine che significa « sopportazione »; ma in realtà la parola è stata
l'emblema di quella libertà sin dalle prime lotte che essa è costata e
attraverso le quali si è venuta affermando in forme che sono ancor oggi deboli
o incomplete. Nessun altro termine potrebbe perciò sostituirla. Fin da queste
lotte, la T. fu in- tesa come la coesistenza pacifica tra varie confes- sioni
religiose ed oggi s’intende, in senso ancora più generale, come la coesistenza
pacifica di tutti gli atteggiamenti possibili in materia religiosa. Il criterio
per riscontrare se tale esigenza si trova realizzata nelle situazioni storiche
o politiche par- ticolari è uno solo: la sua realizzazione significa infatti
che nessuna violenza o inquisizione giu- ridica o poliziesca o diminuzione o
perdita di diritti o discriminazione qualsiasi, colpisca il cit- tadino a causa
delle sue convinzioni, positive o negative, in materia religiosa. Il principio
della T. o almeno un suo corollario immediato, la possibilità di salvarsi anche
senza la fede cristiana, compare in qualche filosofo del sec. xIv specialmente
in Ockham. Dice Ockham: « Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive
secondo i dettami della retta ragione e non 878 creda se non a ciò che la sua
ragione naturale conclude che sia da credersi, sia degno di vita eterna. E se
Dio così dispone, potrebbe anche salvarsi chi altra guida non ebbe nella vita
che la retta ragione + (/n Senr., III, q. 8, ©). D'altronde la T. religiosa è
già implicita nel concetto che Ockham aveva della Chiesa infallibile come della
comunità dei fedeli vissuti dai tempi dei profeti fino ad oggi (Dialogus inter
magistrum et discipulum, I, IV, in GoLpasT, Monarchia, II, pag. 402); e del
papato come di un principato ministrativus che non può togliere a nessuno i
diritti e le libertà che Dio ha dato a tutti gli uomini e che il cristianesimo
è venuto a rivendicare (De Imperatorum et Pontifi- cum Potestate, IV, ed.
Scholz, II, pag. 458). La famosa novella di Boccaccio dei tre anelli (Deca-
merone, 28) illustra ugualmente la possibilità di salvezza data egualmente a
Maomettani, Ebrei e Cristiani. Tuttavia, il principio della T. cominciò ad affacciarsi
come elemento indispensabile della vita civile dell’occidente soltanto dopo la
Riforma, nelle lotte che contrapposero l’una all’altra le varie parti della
cristianità. Probabilmente fu espli- citamente affermato per la prima volta da
quel gruppo di riformati italiani che respinsero il dogma della Trinità cioè
dai Sociniani, che furono co- stretti da Calvino a fuggire in Transilvania e in
Polonia dove propagarono la loro dottrina. Nel 1565 Giacomo Aconcio nel suo
Straragemata Sa- tanae vedeva nell’intolleranza religiosa un tranello di Satana
e affermava che è essenziale alla fede solo ciò che incoraggia la speranza e la
carità. Nel 1580 Michele di Montaigne difendeva in un suo saggio, per motivi di
natura politica, la libertà di coscienza (Ess., II, 19). Verso il 1593 Jean
Bodin nel Colloquium heptaplomeres, sosteneva la necessità della pace religiosa
ottenibile con un ritorno alla religione naturale che eliminerebbe le
controversie dogmatiche. A sua volta Grozio riteneva fonda- mentali le credenze
della religione naturale e non obbliganti quelle della religione positiva che
sono spesso ambigue. Secondo Grozio, credere nel cri- stianesimo è possibile
solo con l’aiuto misterioso di Dio; e per conseguenza volerlo imporre con le
armi è contrario alla ragione (De jure belli ac pacis, 1625, II, 20, 48-49). Il
poeta Milton scriveva nel 1644 il suo discorso per la libertà di stampa
intitolato Areopagitica. Tutte queste difese del prin- cipio della T. adducono
in favore di esso argo- menti politici e religiosi, più che filosofici o
concet- tuali; più spesso anzi gli argomenti addotti sono specificamente
religiosi e hanno quindi valore sol- tanto per chi condivida le credenze
religiose cui esse fanno appello. Il primo a impiantare la difesa della T. su
argo- menti obiettivi è stato Spinoza che ha addotto in TOLLERANZA favore di
esso l’argomento principe e, cioè che la violenza e l'imposizione non possono
promuovere la fede e che pertanto le leggi che si propongono questo scopo sono
inutili (Tractatus rheologico-politicus, 1670, cap. 20). Ma da questo punto di
vista è e rimane classica l’Epistola sulla T. (1689). In questo scritto Locke
fa vedere come, esaminando indipen- dentemente l’uno dall’altro il concetto
dello Stato e quello della Chiesa, il principio della T. risulti come il punto
d’incontro dei loro compiti e dei loro interessi rispettivi. Lo Stato è infatti
« una società di uomini stabilita unicamente per conser- vare e promuovere i
beni civili »: intendendosi per beni civili la vita, la libertà, l’integrità e
il benessere corporeo, il possesso dei beni esterni, ecc. Tra i suoi compiti
pertanto non rientra la cura delle anime e della loro salvezza eterna perchè di
fronte a questo compito il magistrato civile, da un lato è incompetente come
qualsiasi altro cittadino, dal- l’altro non ha alcun strumento efficace:
giacchè l’unico suo strumento è la costrizione e nessuno può essere costretto a
salvarsi. Dall’altro lato, la Chiesa è « una libera società di uomini, congiun-
tisi spontaneamente per servire Dio in pubblico a quel modo che giudicano a Lui
più accetto, per conseguire la salute delle loro anime +. Come so- cietà libera
e volontaria essa non può vincolare nessuno con la forza; e le sanzioni che
sono di sua competenza sono le esortazioni, gli ammoni- menti e i consigli che,
soli, possono promuovere la persuasione e la fede. Il principio della T. ga-
rantisce ugualmente l’interesse religioso della Chiesa e l’interesse politico
dello Stato, i diritti dei citta- dini e le esigenze dello sviluppo culturale e
scien- tifico. Tuttavia, neppure nell’Epistola di Locke il prin- cipio della T.
ha un’espressione completa perchè Locke riteneva che « coloro che negano
l’esistenza di Dio, non devono essere tollerati in alcun modo +. Soltanto il
trionfo dell’Illuminismo nel sec. xvui e del pensiero politico liberale nel
sec. xix, hanno portato a riconoscere il principio di T. nella sua forma
completa, che è quella esposta sopra. Poco o nulla però la posteriore
letteratura ha aggiunto alle giustificazioni date a questo principio dallo
stesso Locke; e neppure, a questo proposito, si distingue il Trattato sulla T.
(1763) di Voltaire che è giustamente famoso per l’influenza storica che esercitò.
Il principio della T. è entrato a far parte della coscienza civile dei popoli
di tutto il mondo. Tut- tavia, la sua realizzazione nelle istituzioni che reg-
gono la vita di molti popoli è incompleta e soggetta a sempre nuovi pericoli.
Le discussioni che talora suscita sono prevalentemente ispirate dal desiderio
di mantenere o di riconquistare, a qualche parti- TOTALITÀ colare confessione
religiosa, un privilegio di fatto che si cerca alla meglio di conciliare con
l’ossequio formale reso al principio (cfr. specialmente: F. Rur- FINI, La
libertà religiosa, 1901; LuIcI LUZZATTI, La libertà di coscienza e di scienza,
1909; J. B. Bury, A History of Freedom of Thought, 1913; nuova ediz., 1952; W.
K. JorDaN, The Development of Religious Toleration in England, 1932 sgg. 2. Nel
linguaggio comune, e talora in quello filosofico, la T. è intesa anche in un
senso più vasto, come comprensiva di ogni forma di libertà, morale, politica e
sociale. Così intesa è identificata con il pluralismo dei valori, dei gruppi e
degli inte- ressi nella società contemporanea; e talvolta si scorge in questo
pluralismo un mezzo per mantenere il controllo dei gruppi sociali esistenti
sull’intera so- cietà e quindi un ostacolo alla realizzazione di una forma
nuova di società. Per « T. pura» si intende talora quella estesa alle
politiche, alle condizioni e ai modi di comportamento che non dovrebbero essere
tollerati, perchè impediscono, se non di- struggono, le probabilità di creare
un’esistenza senza paura e sofferenza; e Marcuse ha affermato che, se la T.
indiscriminata è giustificata nei dibattiti innocui e nelle discussioni
accademiche ed è indi- spensabile nella religione e nella scienza, non può
essere ammessa quando sono in giuoco la pace, la libertà e la felicità
dell’esistenza, perchè in questo caso equivarrebbe alla repressione di ogni
fattore innovatore nella realtà sociale (A Critigue of Pure Tolerance, di
WoLFF, MOORE jr. e MARCUSE, 1965). Tuttavia, in questo significato più
generico, la pa- rola T. non si distingue da libertà e i suoi pro- blemi sono
senz'altro quelli dei limiti e delle con- dizioni della libertà politica.
TOLLERANZA, PRINCIPIO DI. V. Con- TRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; CCONVENZIONALISMO.
TOMISMO (ingl. Thomism; franc.
Thomisme; ted. Thomismus). I
capisaldi della filosofia di S. Tommaso, che sono stati ritenuti e difesi dagli
indirizzi medievali e moderni che si ispirano a lui. Tali capisaldi possono
essere ricapitolati così: 1° La dottrina dei rapporti tra ragione e fede
consistente nell’affidare alla ragione il compito di dimostrare i preamboli
della fede (v. PREAMBULA), di chiarire e difendere i dogmi indimostrabili e di
procedere in modo relativamente autonomo (cioè salvo il rispetto delle verità
di fede che non possono essere contraddette) nel dominio della metafisica e
della fisica; 2° La dottrina della analogicità dell’essere (vedi ANALOGIA) che
consiste nel ritenere che il termine essere riferito alla creatura ha un
significato non identico ma solo simile o corrispondente all'essere di Dio.
Questo principio, che S. Tommaso derivava da Avicenna, serve a stabilire la
distinzione tra 879 teologia e metafisica e la dipendenza della metafi- sica
dalla teologia; 3° La dottrina del carattere astrattivo della conoscenza, la
quale consiste in ogni caso nel- l’astrarre dall’oggetto o la specie sensibile
o la specie intellegibile (che corrisponde all’essenza della cosa); 4° La
dottrina che l’individuazione dipende dalla materia segnata (v. INDIVIDUAZIONE);
5° L’illustrazione rimasta classica dei due dogmi cristiani della Trinità e
dell’Incarnazione (v. INCAR- NAZIONE; RELAZIONE; TRINITÀ). Questi capisaldi
distinguono nettamente il T. dallo scotismo (v.) con cui esso si divise il
campo nei secoli x1v e seguenti; e costituiscono anche i punti di maggior
interesse della ripresa del T. nella neo- scolastica contemporanea. Alla
formazione storica del T. aveva contribuito oltre l’opera di Alberto Magno,
maestro di S. Tommaso, l'opera di Avi- cenna e quella di Mosè Maimonide. TOPICA (gr. roruà téxm; lat.
Topica; ingl. To- pics; franc. Topique;
ted. Topik). La teoria dei luoghi logici e l’arte di inventarli (v. LuoGHI).
Kant ha chiamato 7. trascendentale la dottrina dei luoghi trascendentali cioè
dei posti che si as- segnano ai concetti nella sensibilità o nell’intelletto
puro. Questa T. dovrebbe evitare l’anfibolia dei concetti di riflessione cioè
l’uso malsicuro di questi concetti (Crir. R. Pura, Analitica trasc., Nota al-
l’anfibolia). Droysen ha parlato anche di una 7. storiografica che sarebbe la
raccolta delle esposizioni di ciò che è stato storicamente indagato (Grundzijge
der Historik, 1882, $ 18). TOPOLOGIA (ingl. Topology; franc. Topo- logie; ted.
Topologie). Con questo nome o con quello di analysis situs s'intende, da un
secolo a questa parte, lo studio delle proprietà delle figure geome- triche che
rimangono invarianti anche quando le figure stesse sono sottoposte a
trasformazioni così radicali da perdere le loro proprietà metriche e
proiettive. La T. ha il suo precursore in Eulero (1707-83); ma la sua prima
formulazione si trova nell’opera di A. F. Moebius (1790-1868) (cfr. spe- cialmente
O. VEBLEN, Analysis situs, 2> ediz., 1931, e le voci GRUPPO;
TRASFORMAZIONE). Alcuni concetti della T. trovano applicazioni in altre
discipline. In particolare nella psicologia della forma è stato utilizzato il
concetto topologico di regione (con le sue varie determinazioni) che si presta
a esprimere lo spazio vitale di un orga- nismo (Kurt LEWIN, Principles of
Topological Psy- chology, 1936, specialmente cap. XI sgg.) (vedi CAMPO;
PSICOLOGIA). TOTALITÀ (gr. rè 820y; lat. Universitas; in- glese Torality;
franc. Totalité; ted. Allheit, Tota- 880 litàt). Un tutto completo nelle sue
parti e perfetto nel suo ordine. Questo fu il concetto che Aristo- tele dette
della T. in quanto distinta dal tutto le cui parti possono mutare la loro
disposizione senza modificare l’insieme (Mer., V, 26, 1024a 1). In questo senso
il mondo (cosmo) è una T., ma non così l’universo (v. MonDO). La nozione di T.
ha conservato anche nelle lingue moderne la caratteristica della completezza e
della perfetta disposizione delle parti. Secondo Kant, la «T. delle condizioni»
corrisponde, nella sintesi dell’intuizione, all’universalità del predicato
nella premessa maggiore del sillogismo. La nozione di una T. delle condizioni è
l’idea della Ragion pura. L'idea è perciò, secondo Kant, la nozione di una
perfezione, sebbene non di una perfezione reale (Crit. R. Pura, Dialettica,
libro I, sez. I-II) (v. TUTTO). TOTALITARISMO (ingl. Totalitarianism; franc.
Totalitarisme; ted. Etatismus). La dottrina o la prassi dello Stato totalitario
cioè dello Stato che pretende identificarsi con l’intera vita dei suoi
cittadini. Il termine è stato coniato per indicare la dottrina del fascismo
italiano e del nazismo te- desco. È talora anche usato a indicare ogni dot-
trina assolutistica, in qualsiasi campo si riferisca. La parola viene usata in
questo senso da G. H. SABINE, A History of Political Theory, 1951, cap. 35;
trad. ital., pag. 708 sgg.). Spesso per estensione s’intende per T. Sl forma di
assolutismo dottrinale o politico. TOTEMISMO (ingl. Totemism; franc. Toté-
misme; ted. Totemismus). La credenza nel rotem o l’organizzazione sociale
fondata su questa credenza. Il termine totem è stato desunto dal linguaggio
degli Indiani d'America e poi esteso a indicare il fenomeno (che si ripresenta
in tutti i popoli pri- mitivi) per il quale una cosa (naturale o artificiale)
diventa l'emblema del gruppo sociale e la garanzia della sua solidarietà. Su
questo carattere del torem ha insistito soprattutto Durkheim, che ha visto in
esso l’espressione dell’unità del gruppo sociale nella sua interezza e perciò
nelle relazioni che i c/ans, in cui esso si divide, hanno l’uno con l’altro
(Les formes élementaires de la vie religieuse, 1912). Ac- canto a questo
carattere del T., A. R. Radcliffe- Brown ha messo in luce il suo carattere
ancora più universale, consistente nel fatto che il T. co- stituirebbe « una
rappresentazione dell’universo come un ordine morale e sociale » e pertanto la
regola- zione del rapporto tra l’uomo e la natura, oltre che quella del
rapporto tra l’uomo e l’uomo come tale, sarebbe un elemento universale della
cultura umana (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VI). A
un fenomeno linguistico formale sembra invece ridurre il T. Levi-Strauss: «Il
co- siddetto T. è solo un’espressione particolare, per mezzo di una speciale
nomenclatura formata di nomi TOTALITARISMO di animali e di piante (o come noi
diremmo, in un certo codice) la quale è il suo solo carattere distintivo, delle
correlazioni e opposizioni che pos- sono essere formalizzate in altri modi: per
es., come accade in certe tribù del Nord e Sud America, da opposizioni del tipo
cielo-terra, guerra-pace, in su-in giù, rosso-bianco, ecc.» (Le rotémisme
ajourd’hui, 1962, pag. 127). Dall'altro lato Freud aveva presentato una
interpretazione psicanalitica del T.: « Se l’animale rotem è il padre, allora i
due principali precetti del T., quello di non uccidere il totem e quello di non
usufruire sessualmente di alcuna donna dello stesso fofem, coincidono in so-
stanza con i due crimini di Edipo che uccise suo padre e prese in moglie sua
madre, e con i desi- deri primitivi del bambino, desideri la cui rimo- zione
insufficiente o il cui risveglio costituiscono forse il nocciolo di tutte le
psiconevrosi » (Totem e tabù, 1913, IV, 3; trad. ital., pag. 146). Per una con-
cezione analoga a questa di Freud cfr. J. G. FRAZER, Totemism and Exogamy,
1910. TOTO-PARZIALE, TOTO-TOTALE (in- glese Toto-partial, Toto-total).
Espressioni adoperate da W. Hamilton per indicare rispettivamente la pro-
posizione in cui il soggetto è preso universalmente e il predicato
particolarmente (es.: gli uomini sono animali) e la proposizione in cui sia il
soggetto che il predicato sono presi universalmente (es.: gli ani- mali sono
mortali) (Lecrures on Logic, II, pag. 287). TRADIZIONALISMO (ingl.
Traditionalism; franc. Traditionalisme; ted. Traditionalismus). 1. La difesa
esplicita della tradizione, che, nell’ambito dello spirito romantico, trovò in
Francia i suoi protagonisti in: Madame de Staél (1766-1817), che nella sua
opera De l’Allemagne (1813) vide nella storia umana una progressiva rivelazione
religiosa; Renato di Chateaubriand (1769-1848) che nel Génie du Christianisme
(1802) vide nel cattolicesimo il depositario dell’intera tradizione delle
umanità; e in Luigi de Bonald (1754-1840), Giuseppe de Maistre (1753-1821) e
Roberto Lamennais (1782-1854) che si fecero paladini nei loro scritti delle due
istitu- zioni fondamentali, in cui la tradizione si incarna e contro cui
l’Illuminismo aveva polemizzato e la Rivoluzione combattuto: la Chiesa e lo
Stato. Per- tanto questi scrittori furono anche detti feocratici o
ultramontanisti (v. TEOCRAZIA). 2. In senso più generale e filosofico, per T.
si può intendere il ritorno alla tradizione che fu un aspetto importante del
Romanticismo nella prima metà del sec. xIx e che ha tra i suoi protagonisti,
oltre che i grandi romantici come Fichte Schelling ed Hegel, Maine de Biran
(1766-1824), Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), Vincenzo Gioberti (1801-52) e
lo stesso Giuseppe Mazzini (1805-72), oltre altri scrittori minori sia dell’800
italiano sia TRADIZIONE 881 di altre nazioni: per es., l’inglese Giacomo Mar-
tineau (1805-1900). L’idea comune di tutti questi pensatori è che sia il
pensiero individuale sia la tra- dizione dell’umanità si fondano su una diretta
rive- lazione di Dio, che è compito dell’uomo sviluppare con la riflessione
individuale e con l’azione col- lettiva. L’idea dell’essere di Rosmini è la
migliore espressione concettuale di questa nozione di rive- lazione
progressiva. Applicato alla storia, tale con- cetto non è altro che quello del
provvidenzialismo (v.). TRADIZIONE (gr. rapàdoor; ingl. Tradition; franc.
Tradition; ted. Ùberlieferung). L'eredità cul- turale cioè la trasmissione da
una generazione al- l’altra di credenze o di tecniche. Nel dominio della
filosofia l’appello alla T. implica il ricono- scimento della verità della T.
stessa. La T. diventa, da questo punto di vista una garanzia di verità e
talvolta l’unica garanzia possibile. In tal senso essa era intesa dallo stesso
Aristotele che più volte, nel corso della sua indagine, fa appello alla T. e la
assume come garanzia di verità: «I nostri antenati delle più remote età hanno
trasmesso alla loro posterità tradizioni in forma mitica che i corpi celesti
sono divinità e che il divino abbraccia l’intera natura. Altre T. sono state
aggiunte in forma mitica per la persuasione dei più e allo scopo di rafforzare
le leggi e di promuovere l’uti- lità pubblica; esse dicono che gli dèi hanno
forma di uomini o di altri animali e danno su di essi altri dettagli simili. Ma
se consideriamo solo il punto essenziale, separatamente dal resto, che le prime
sostanze sono tradizionalmente credute di- vinità, possiamo riconoscere che
questo è stato divinamente detto e che, per quanto le arti e le filosofie
possono avere spesso esplorato e perfezio- nato e di nuovo perduto, questi miti
e altri sono stati conservati sino ad oggi come antiche reliquie. È solo in
questo modo che noi possiamo rendere chiare le opinioni dei nostri antenati e
predeces- sori » (Mer., XII, 8, 1074 b). La sua stessa filosofia appare così ad
Aristotele come la liberazione della T. dai suoi elementi mitici, perciò come
una sco- perta della T. autentica e nello stesso tempo come fondata sulla
garanzia che questa stessa T. le offre. È questo il punto di vista che divenne
pre- valente nell’ultimo periodo della filosofia greca e specialmente
nell’indirizzo neoplatonico. Plotino di- ceva: « Bisogna credere senza dubbio
che la verità è stata scoperta da antichi e beati filosofi; a noi conviene di
esaminare quali sono coloro che l’hanno incontrata e come possiamo noi stessi
arrivare a comprenderla » (Enn., III, 7, 1). Fu questa l’idea dominante nel cui
ambito fu possibile fabbricare, in appoggio di una T. presunta, documenti
fittizi quando quelli autentici mancavano; e le opere di falsa attribuzione, le
più famose delle quali furono 56 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. quelle
di Ermete Trismegisto, obbediscono appunto all’esigenza di rinviare nel passato
la dottrina in cui si crede e di procurarle, sia pure in modo truffaldino, il
prestigio e la garanzia della tradizione. Da allora in poi, il concetto della
T. non è mu- tato, e ha conservato l’apparenza o la promessa di questa
garanzia. Il grande ritorno dell’idea di T. è il Romanticismo. J. G. Herder
nella sua Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1783- 1791)
aveva esaltato la T. come « la sacra catena che lega gli uomini al passato e
che conserva e tra- smette tutto ciò che è stato fatto da coloro che l’hanno
preceduto ». Hegel ha esplicitamente esal- tata la T. e ha insistito sul suo
carattere provvi- denziale. «La T., egli ha detto, non è una statua immobile ma
vive e rampolla come un fiume im- petuoso che tanto più s’ingrossa quanto più
si allontana dalla sua origine... Ciò che ogni genera- zione ha fatto nel campo
della scienza, della pro- duzione spirituale è un’eredità cui ha contribuito
con i suoi risparmi tutto il mondo anteriore, è un santuario alle cui pareti
gli uomini d’ogni stirpe, grati e felici, hanno appeso ciò che li ha aiutati
nella vita, ciò che essi hanno attinto alle profondità della natura e dello
spirito. E questo ereditare è ad un tempo un ricevere e un far fruttare
l’eredità » (Geschichte der Philosophie, edi- tore Glockner, I, pag. 29). In
questo senso, ovvia- mente, la T. non è che un altro nome per designare il
piano provvidenziale della storia (v. STORIA). Fu questo il punto di vista
prevalente in tutto il Romanticismo; e di esso il cosiddetto rradiziona- lismo
(v.) non è che una manifestazione particolare. L’antitesi di questa valutazione
della T. è una concezione la quale: 1° neghi che tutti i risultati o i prodotti
migliori dell’attività umana siano in- fallibilmente conservati e incrementati
nel corso dello sviluppo storico; 2° neghi che ciò che da tale sviluppo è
conservato sia, per ciò stesso, ga- rantito nella sua verità o nel suo valore.
Una con- cezione di questo genere è quella che fu propria dell’Illuminismo (che
perciò è spesso definito anti- storicistico da chi condivide il punto di vista
della storia come ordine provvidenziale o T.). L’Illumi- nismo si iscrisse in
falso contro la T., assumendo che quel che essa tramanda è, il più delle volte,
errore, pregiudizio o superstizione e appellandosi contro la stessa T. al
giudizio della ragione cri- tica (v. ILLUMINISMO). Le discussioni filosofiche
sul significato e l’im- portanza della T. sono in realtà, come si vede,
discussioni sulla storia (v.). Nel campo della socio- logia invece l’analisi
della T. è l’analisi di un de- terminato atteggiamento o meglio di un tipo e specie
di atteggiamenti e precisamente di quello che consiste nell’acquisizione
inconsapevole (cioè 882 non deliberata) di credenze e di tecniche. L’atteg-
giamento tradizionalistico è quello per cui l’indi- viduo considera i modi
d'essere e di comportarsi che ha ricevuto o va ricevendo dall’ambiente sociale
come suoi propri modi d’essere, senza rendersi conto che sono quelli del gruppo
sociale. Manca nella T. la distinzione tra presente e il passato, tra sè e gli
altri: il che fa di essa una forma di comunicazione primitiva ed impropria
(ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, XI, 3). All’atteggia- mento
tradizionalistico si oppone da questo punto di vista l'atteggiamento critico
per il quale l’indi- viduo ha una certa libertà di giudizio (che tuttavia non è
mai assoluta o infallibile) nei confronti di quelle stesse credenze e tecniche
che ha assorbito dalla tradizione. L'atteggiamento critico ha con- dizioni
antitetiche a quelle della T.: l’alterità tra il presente e il passato e tra sè
e gli altri. TRADUCIANISMO (ingl. Traducianism; te- desco Traducianismus). La
dottrina che l’anima dei figli derivi dall'anima dei padri come un ramo
(tradux) deriva dall’albero. Questa dottrina si tro- vava già presso gli Stoici
(TEMISTIO, De An., II, 5; GacenO, Op., IV, 699), fu accettata da Tertulliano
(De An., 22) e da altri scrittori della patristica e difesa più tardi dai
teologi protestanti che vedevano in essa la possibilità di spiegare la
trasmissione del to originale. Leibniz stesso inclinava verso di essa (7héod.,
I, $ 86). La stessa dottrina è stata talora indicata con il nome di
generazionismo. La dottrina opposta, che ogni anima sia creata ex novo, si
chiama crea- zionismo (v.). TRAGICO (ingl. Tragic; franc. Tragique; te- desco
7ragisch). Il concetto del T. viene talora discusso dai filosofi non solo in
rapporto con quella particolare forma d’arte che è la tragedia, ma anche in
rapporto alla vita umana in generale o alla scena del mondo. Il punto di
partenza impli- cito o esplicito di tali discussioni è quasi sempre la
definizione aristotelica della tragedia secondo la quale essa è «imitazione di
vicende che suscitano pietà e terrore e che mettono capo alla purificazione di
tali emozioni » (Poer., 6, 1449 b 23). Le situa- zioni che suscitano « pietà e
terrore » sono quelle in cui la vita o la felicità di persone incolpevoli è
posta in pericolo o in cui i conflitti non sono ri- solti o sono risolti in
modo da determinare « pietà e terrore » negli spettatori. Nella tragedia greca,
ha detto W. Jaeger, «la felicità, come ogni possesso, non può restare a lungo
presso chi lo detiene e la perpetua sua instabilità è insita nella sua natura
stessa. Il convincimento di Solone che esista un ordinamento divino del mondo
aveva trovato ap- punto in questa nozione, pur tanto dolorosa per l’uomo, il
suo appoggio più saldo. Anche Eschilo TRADUCIANISMO è inconcepibile senza tale
convincimento, che può dirsi piuttosto una nozione che non una credenza »
(Paideia, II, cap. 1; trad. ital., I, pag. 449). Ora le interpretazioni che nel
pensiero moderno sono state date della natura del T. sono tre: 1° T. è il
conflitto continuamente risolto e superato nell’or- dine perfetto del tutto; 2°
T. è il conflitto irrisolto e irrisolvibile; 3° T. è il conflitto che può
essere risolto ma la cui soluzione non è definitiva nè per- fettamente giusta o
soddisfacente. 1° La prima concezione del T. è quella di Hegel. Hegel afferma
che il conflitto, in cui il T. consiste, pur costituendo la sostanza e la vera
realtà, non si conserva come tale ma trova la sua giusti- ficazione solo in
quanto viene superato come con- traddizione. « Intanto lo scopo e il carattere
T. è legittimo, dice Hegel, in quanto è necessaria la soluzione del conflitto
in cui esso consiste. Attra- verso tale soluzione, l’eterna giustizia si
afferma sugli scopi e sugli individui particolari, in modo che la sostanza
morale e la sua unità si ristabili- scono col tramonto delle individualità che
distur- bano il suo riposo» (Vorlesungen iiber die Aes- thetik, ed. Glockner,
III, pag. 530). La soluzione T. pertanto ristabilisce l’armonia e ciò che essa
di- strugge è soltanto la « particolarità unilaterale » che non ha potuto
giungere ad accordarsi con l’ar- monia stessa (/bid., ed. Glockner, II, pag.
530). Ovviamente, da questo punto di vista, che è quello proprio di ogni
ottimismo o provvidenzialismo di stampo romantico, la tragedia è la semplice
appa- renza di una sostanziale commedia: tutto finisce bene, e ciò che viene
perduto è la « particolarità unilaterale » che non ha il minimo valore. 2° La
seconda interpretazione del T. è quella di Schopenhauer, secondo il quale il T.
è conflitto irresolubile. La tragedia, dice Schopenhauer «è la rappresentazione
della vita nel suo aspetto terri- ficante. Il dolore senza nome, l’affanno
dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il
fatale precipizio dei giusti e degli inno- centi ci vengono presentati da essa;
sicchè essa costituisce un segno significante della natura propria del mondo e
dell’essere» (Die Welr, I, $ 51). Ma l’inevitabilità e quindi la certezza d’un
fato maligno o di una ingiustizia immanente tolgono, come l’ine- vitabilità e
la certezza della giustizia e dell'armonia, il carattere tragico. Di fronte ad
essi infatti l’unico atteggiamento possibile è quello della rassegnazione o della
disperazione: atteggiamenti, che come quelli a loro opposti, escludono il
conflitto costitutivo del tragico. 3° La terza concezione è quella che fu
presen- tata da Schiller nello scritto Uber naive und sentimen- talische
Dichtung (1795-96). In questo scritto il T. viene presentato come una
manifestazione della TRANSFINITO poesia sentimentale (v. INGENUITÀ) e
precisamente di quella poesia che rappresenta il conflitto tra il reale e
l’ideale. La poesia sentimentale si divide in satira ed elegia: la satira è
quella in cui il poeta prende a suo oggetto il reale, considerandolo
insufficiente rispetto all’ideale. Quando l’insufficienza del reale è
rappresentata mediante il conflitto tra il reale stesso e le nostre esigenze
morali si ha, secondo Schiller, la satira seria, cioè il T. (Werke, ed. Kar-
peles, XII, pag. 150). A concetti analoghi si ispi- rava il cosiddetto «
pantragismo +» del poeta Hebbel (cfr. Werke, X, pag. 43). Assai più
paradossalmente Nietzsche vedeva nel T. da un lato il carattere terrifi- cante
dell’esistenza, dall’altro la possibilità di accet- tare e trasfigurare tale
carattere o attraverso l’arte o attraverso la volontà di potenza. La prima
soluzione è quella che Nietzsche attribuisce ai Greci nella Nascita della
tragedia (1872). L'uomo greco, che era in grado di scorgere chiaramente
l’orribile e l’assurdo dell’esistenza, riuscì a trasfigurarla me- diante lo
spirito dionisiaco, domando e assogget- tando l’orribile che così diventa il
sublime cioè l'oggetto della tragedia e liberando dal disgusto dell'assurdo,
che così diventa il comico, cioè l’og- getto della commedia (Die Geburt der
Tragòdie, $ 7). Più tardi Nietzsche scorse la via d’uscita da ciò che c’è di
terrificante nella vita nell’accettazione della vita stessa dovuta alla volontà
di potenza e considerò pertanto il T. come l’accettazione dio- nisiaca di ciò
che è terrificante e incerto. «La profondità dell’artista T., egli scrisse
allora, con- siste in questo che il suo istinto estetico considera le
conseguenze lontane e non si arresta con vista corta alle cose prossime; che
egli afferma l'economia in grande, l’economia che giustifica ciò che è ter-
ribile, maligno e problematico e che non si contenta solamente di giustificarlo
» (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 374). Questa concezione del T., per quanto di
solito imperfettamente espressa o mescolata, nella sua espressione, con le
altre due, si può riconoscere dal fatto che essa fa posto nella sua
caratterizza- zione alla problematicità della situazione T., cioè al carattere
per cui essa si può decidere in un modo o nell’altro senza che la sua decisione
sia definitiva o perfetta. In questo senso il carattere del T. è stato colto da
Michele de Unamuno nel Sentimento T. della vita (1913) che lo esprime col quien
sabe? di Don Chisciotte. Nello stesso senso si sono espressi Scheler (Vom
Umsturz der Werte, 1953), Jaspers ( Uber das Tragische, 1952) e Cantoni
(Tragico e senso co- mune, 1964). P. Romanell ha detto che a differenza
dell’epica, in cui il conflitto è tra il bene e il male, nel T. il conflitto è
tra beni diversi cioè tra valori eterogenei tra i quali la scelta è dolorosa ed
im- plica sempre sacrificio (Making of the Mexican Mind, 1952, pag. 22). Questo
carattere del T. è bene realiz- 883 zato nella tragedia greca. La tragedia di
Sofocle si fonda sul convincimento che esiste un ordinamento divino del mondo
il quale fa sì che talvolta l'in- nocente debba pagare il fio di una colpa
commessa da altri. Il fatto che la decisione del conflitto non possa essere
netta, che anche nella sua soluzione qualcosa vada perduto e che questo
qualcosa non è, come diceva Hegel, una « particolarità unilate- rale »,
costituisce il fascino e la verità della tragedia. TRANQUILLITÀ. V. ATARASSIA.
TRANSAZIONE (ingl. Transaction; francese Transaction; ted. Transaction). Termine
introdotto in filosofia da Dewey e Bentley per indicare una relazione che non
presuppone, come entità a sè, i termini relativi. Dice Dewey: «Il termine
indica negativamente che nè il senso comune nè la scienza devono essere
considerati come entità, come al- cunchè di collocato a parte, completo e
circo- scritto... Positivamente indica che debbono essere contrassegnati dalle
caratteristiche e dalle proprietà che si riscontrano in qualsiasi cosa
riconosciuta come T.: per es., un affare o T. commerciale. Questa T. fa di un
partecipante un compratore e dell’altro un venditore: non esistono compratori e
venditori che in T. e a causa di T. in cui siano impegnati » (Knowing and the
Known, 1949, pa- gina 270). Il termine T. era stato adoperato in Italia da
Romagnosi: secondo il quale, dal « com- mercio fra l’interno e l’esterno »
dell’uomo nasce «una T. sullo stesso fondo dell’io pensante, la quale pone in
armonia le leggi del mondo interiore con quello esteriore per formare un solo
mondo e una sola vita » (Che cos'è la mente sana? [1827], ed. 1936, pag. 100,
138. TRANSCREAZIONE (ingl. Transcreation; franc. Transcréation). Termine
adoperato da Leibniz per indicare l’operazione particolare con cui Dio dà la
ragione all’anima sensibile o animale. Leibniz preferisce questa ipotesi a
quella che ritiene che l’anima animale si sollevi alla ragione con mezzi
puramente naturali (7héod., I, $ 91). TRANSEUNTE (ingl. Transeunt; franc. Tran-
seunt; ted. Transeunt). 1. Lo stesso che transi- tivo (v.). 2. Mutevole,
passeggero. TRANSFERT. V. PSICANALISI. TRANSFINITO (ingl. 7ransfinite; francese
Transfini; ted. Transfinit). Espressione usata da G. Cantor per indicare i
numeri che sono al di là dei numeri finiti. Per es., se è T. il numero ordinale
della classe che comprende tutti i numeri ordinali finiti, nel loro ordine
naturale (0, 1, 2,...), questo nu- mero è denotato da un omega minuscolo (G.
CANTOR, Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers,
trad. ingl., 1915) (v. INFI- NITO). Conseguentemente per «induzione transfi-
884 nita » s’intende l’estensione dell’induzione mate- matica (v.) a una classe
di numeri ordinali arbitrari in modo simile a quello nel quale la stessa
induzione è applicata a una classe ben ordinata di numeri omega. TRANSITIVITÀ
(ingl. Transitivity; francese Transitivité; ted. Transitivitàt). Il carattere
di una relazione che, se intercede tra x e y e tra ye z, intercede pure tra x e
z. Tale carattere è proprio delle relazioni di identità o di eguaglianza come
pure delle relazioni minore, precede, a sinistra di, ecc. (cfr. B. RussELL,
Introduction to Mathe- matical Philosophy, cap. IV; trad. ital., pag. 44). Nel calcolo proposizionale, le leggi di 7. della
implicazione materiale e dell’equivalenza materiale sono le seguenti: « Se p
implica g e q implica r, allora p implica r (cioè: [p> gl[g>7r]>[p>
7)) Se p è equivalente a g e g è equivalente a 7, allora p è equivalente a r
(cioè: [p=gllg=-A=p=?#) (cfr. A. CHURCH,
/ntroduction to Mathematical Logic, I, $ 48, ecc.). TRANSNATURALE (franc. Transnaturel). Termine proposto da M. Blondel per
indicare la situazione dell’uomo che è posto tra la natura e la sopranatura; ed
è destinato, durante la vita mortale, a prepararsi per la vita eterna (Mistoire
et dogme, 1904, pag. 68). RANSOBBIETTIVO (ted. Transobjektiv). Termine
adoperato da N. Hartmann per indicare ciò che della realtà rimane al di là dei
limiti del conosciuto quindi al di là dell’oggetto di cono- scenza (Methapysik
der Erkenntnis, 2* ediz., 1925, pag. 50). TRANSOGGETTIVO (ingl.
Transsubjective; ted. Transsubjektiv). Lo stesso che Trascendente (v.).
TRANSPATIA (ingl. Transpathy). Termine adoperato da scrittori inglesi per
indicare il con- tagio emotivo o la fusione emotiva in quanto è diversa dalla
simpatia (v.). TRANSRAZIONALISMO (ingl. Transratio- nalism; franc.
Transrationalisme; ted. Transrationa- lismus). Termine adoperato da A. Cournot
per indicare la disposizione naturale dell’uomo a cre- dere nel soprannaturale
o nel misterioso o in ge- nerale a ciò che al di là della ragione
(Matérialisme, vitalisme, rationalisme, 1875, pag. 385). TRANSUSTANZIAZIONE
(lat. Transustan- tiatio; ingl. Transubstantiation; franc. Transsubstan-
tiation). L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nel
ritenere che la sostanza del pane o del vino si trasforma nella sostanza del
corpo o del sangue di Cristo e che pertanto gli accidenti di essa rimangano
senza soggetto. È l’interpretazione di quel sacramento che fu data da S.
Tommaso (S. Th., III, q. 77, a. 1) e fu accettata dal Concilio di Trento.
L’interpretazione alternativa, accettata TRANSITIVITÀ dalla chiese riformate, è
quella della consustanzia- zione (V.). TRASCENDENTALE (lat. Transcendentalis;
ingl. Transcendental; franc. Transcendental; te- desco Transzendental). Con
questo termine o con quello di trascendente, si cominciarono a chiamare, a
partire dalla fine del sec. x1m, le proprietà che tutte le cose hanno in
comune, e che perciò ecce- dono o trascendono la diversità dei generi in cui le
cose si distribuiscono. Il nome si trova già ado- perato da Francesco Mayrone
(morto nel 1325, Formalitates, ediz. 1479, f. 22, r. A); e alla dif- fusione di
esso contribuì certamente Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes, I, 1). Ma i
trascendentali o trascendenti erano stati già definiti da S. Tom- maso come
quelle proprietà « che si aggiungono al- l'ente in quanto esprimono un modo di
esso che non viene espresso dal nome dell’ente »; e lo stesso S. Tommaso ne
enumerava sei: ens, res, unum, aliquid, bonum, verum (De Ver., q. 1, a. 1); una
lista che riuscì la più diffusa e accreditata fra tutte. Questo concetto del
T., con qualche mutamento occasionale nella lista dei termini, fu ripetuto
spesse volte in seguito (CAMPANELLA, Dialectica, I, 4; Bruno, De /a causa, IV;
F. BACONE, De Augm. Scient., III, I; Jungius, Logica Hamburgensis, I, 1, 45;
Spinoza, £Et., II, 40, scol. I; BERKELEY, Principles of Human Knowledge, $ 118; WoLFF, Ont., $ 495,
503; BAUMGARTEN, Met., $ 72, 89; HAMILTON, Lectures on Logic, I, pag. 198). A questa tradizione si connette l’uso kantiano del
termine. Dice Kant: «Questi presunti predicati T. delle cose non sono che
esigenze logiche e criteri di ogni conoscenza delle cose in generale, e
riposano sulle categorie della quantità cioè dell’unità, della pluralità e
della totalità; solo che queste categorie, che si sarebbero dovute assumere nel
significato materiale come ap- partenenti alla possibilità delle cose stesse,
gli an- tichi le adoperavano in realtà solo in un valore formale, come
costituenti l’esigenza logica nei con- fronti di ogni conoscenza; e tuttavia di
questi criteri del pensiero facevano inavvertitamente pro- prietà delle cose in
se stesse» (Cri. R. Pura, Analitica, $ 12). In altri termini, Kant ritiene che
il vecchio concetto del T. pecchi per due lati: 1° perchè fa del T. un semplice
concetto logico- formale; 2° perchè considera questo concetto for- male come
proprietà delle cose in se stesse. Al- l'opposto il concetto kantiano del T.
consiste: 1° nel considerare il T. stesso come condizione della possibilità
della cosa cioè come concetto @ priori o categoria; 2° nel considerare la cosa,
di cui il T. è la condizione, non come «cosa in sè» ma come fenomeno. Con tutto
ciò il T. non si iden- tifica, per Kant, con le condizioni a priori della
conoscenza umana e dei suoi oggetti (che sono i TRASCENDENTE fenomeni); ma è
piuttosto da lui inteso come la conoscenza (o la scienza, se c’è una scienza) di
tali condizioni @ priori. Dice Kant infatti: «Chiamo T. ogni conoscenza che si
occupa, non degli oggetti ma del nostro modo di cono- scere gli oggetti, in
quanto è possibile a priori» (Ibid., Intr., VII). E precisa: « Bisogna chiamare
T. non ogni conoscenza a priori ma solo quella per cui sappiamo che e come
certe rappresenta- zioni (intuizioni o concetti) sono applicate o sono
possibili esclusivamente a priori. È cioè T. la co- noscenza della possibilità
della conoscenza o del- l’uso di essa a priori» (Ibid, Logica, Intr., II; cfr.
Prol., $ 13, osserv. III). Da questo punto di vista, T. non è «ciò che è al di
là di ogni espe- rienza» ma piuttosto «ciò che antecede l’espe- rienza (a
priori) pur non essendo destinato ad altro che a rendere possibile la semplice
conoscenza empirica + (Prol., Appendice, nota [A 204]). Tuttavia bisogna
osservare che Kant non si attenne rigoro- samente a questo significato del
termine e che spesso chiamò T. ciò che è indipendente dall’espe- rienza o da
princìpi empirici (cfr., ad es., Critica R. Pura, L’ideale della ragion pura,
sez. 5, Sco- perta e illustrazione dell’apparenza dialettica). Co- munque, in
base al significato che Kant esplicita- mente accetta, si possono chiamare T.
soltanto le conoscenze che hanno per oggetto elementi a priori, non questi
stessi elementi. Sicchè sono T. l’estetica, la logica e le loro parti ma non
già le intui- zioni pure o le categorie o le idee. Ma anche quest’uso non è
rigoroso perchè Kant chiama T. le idee e chiama unità T. l’io penso (Ibid., $
16). Il termine fu ripreso da Fichte per designare la dottrina della scienza in
quanto fa vedere che tutti gli elementi del conoscere rientrano nell’Io cioè
nella coscienza: «Questa scienza non è rrascen- dente, ma resta 7. nelle sue
più intime profondità. Essa spiega certo ogni coscienza con qualcosa che esiste
indipendentemente da ogni coscienza; ma anche in questa spiegazione non
dimentica di con- formarsi alle sue proprie leggi; ed appena vi ri- flette
sopra, quel termine indipendente diventa di nuovo un prodotto della propria
facoltà di pen- sare, quindi qualcosa di dipendente dall’Io in quanto deve
esistere per l’Io, nel concetto dell’Io » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 5, II;
trad. ital., pa- gina 231). Nello stesso senso il termine veniva in- teso da
Schelling per il quale, nel sapere T., « l’atto del sapere giunge ad assorbire
l’oggetto come tale » sicchè esso è «un sapere del sapere in quanto è puramente
soggettivo » (System des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 2). Lo
stesso senso idea- listico il termine assume per Schopenhauer: secondo il quale
è T. « una conoscenza che determina e sta- bilisce prima di ogni esperienza
tutto ciò che è pos- 885 sibile nell’esperienza » (Uber die vierfache Wurzel des
Satzes vom zureichenden Grunde, $ 20). Come risultato di queste determinazioni,
il con- cetto del T. si è venuto fissando nella filosofia con- temporanea come
ciò che appartiene al soggetto o alla coscienza in quanto è condizione
dell’oggetto e cioè della realtà stessa. Si è qualificato pertanto come T. ogni
attività o elemento della coscienza da cui dipenda l’affermazione o la
posizione della realtà oggettiva. Pertanto espressioni come « punto di vista
T.» o «conoscenza T.» equivalgono alla espressione di Schelling « idealismo T.
» cioè di dot- trina la quale mostra come nella coscienza sogget- tiva ci siano
le condizioni di ogni realtà. Questo concetto di T. è rimasto sia nelle scuole
di più stretta ispirazione kantiana sia nelle scuole ideali- stiche. Gentile
chiamava «Io T.» l’io assoluto o uni- versale, che crea pensando ogni realtà
(Teoria gene- rale dello spirito, 1920, I, $ 5). Un senso idealistico il
termine conserva anche nell’uso che ne fa Husserl, che chiama T. l’esperienza
fenomenologica o la riflessione che vi mette capo. « Nella riflessione
fenomenologica T., noi lasciamo il terreno empi- rico, praticando l’epoché
universale quanto alla esistenza o alla non esistenza del mondo. Si può dire
che l’esperienza così modificata, l’esperienza T. con- siste in questo: noi
esaminiamo il cogito trascenden- talmente ridotto e lo descriviamo senza
effettuare in più la posizione di esistenza naturale implicita nella percezione
spontanea » (Carr. Med., $ 15). Al- l’opposto, per Heidegger T. ha senso
oggettivo perchè designa « ogni manifestazione dell’essere nel suo essere
trascendente» (Sein und Zeit, $ 7C). TRASCENDENTALISMO (ingl. Transcen-
dentalism; franc. Transcendentalisme; ted. Transzen- dentalismus). La teoria
dell’idealismo trascendentale cioè dell’idealismo romantico. Il nome è stato in-
trodotto nei paesi anglosassoni e specialmente in America, da Emerson (cfr. O.
B. FROTHINGHAM, Transcendentalism in New England, 1876; nuova edizione 1959).
TRASCENDENTE (lat. 7ranscendens; inglese Transcendent; franc. Transcendant;
ted. Transzen- dent). Il termine ha due significati fondamentali,
corrispondentemente ai due significati di rascen- denza (v.) e cioè: 1° ciò che
è al di là di un certo limite, assunto come misura o come punto di ri-
ferimento; 2° l’operazione dell’oltrepassamento. 1° Nel primo significato, la
parola assume va- lori diversissimi, a seconda di ciò che si assume come limite
o misura. Le proprietà trascendentali (v.) erano dette tali perchè T. rispetto
ai generi, dai quali esse erano considerate indipendenti. Si parla di «
perfezione T.» cioè di una perfezione che su- pera ogni grado praticamente
ottenibile. Più fre- quentemente, il termine viene adoperato in filosofia 886
per indicare ciò che oltrepassa i limiti di una qualche facoltà umana o di
tutte le facoltà e dell’uomo stesso. Così Boezio diceva che « La ragione
trascende l’im- maginazione perchè afferra la specie universale che inerisce
nelle cose singolari » (Phil. Cons., V, 4). S. Tommaso diceva che la teologia «
trascende tutte le altre scienze sia speculative che pratiche »; giacchè è più
certa di esse ed inoltre si occupa di cose «che per la loro altezza trascendono
la ragione » (S. 7Th., I, q. 1, a. 5). Cusano, a proposito della identità del
minimo assoluto e del massimo asso- luto in Dio, dice che «ciò trascende ogni
nostro intelletto, che non può combinare razionalmente le cose che sono
contraddittorie nel loro principio » (De Docta Ignor., I, 4). Più precisamente
a partire da Kant, si intende per T. una nozione che eccede i limiti dell’espe-
rienza possibile. Sono pertanto T., secondo Kant, le idee della Ragion pura.
Dice Kant: « Diremo immanenti i princìpi la cui applicazione si tiene in tutto
e per tutto nei limiti dell’esperienza possi- bile; T. invece quelli che devono
sorpassare tali limiti» (Crift. R. Pura, Dialettica, Intr., I; con- fronta
Prol., $ 40). Diverso dai princìpi T. è l’uso trascendentale dei princìpi
immanenti: uso che si avvale di princìpi conoscitivi legittimi ma senza tener
troppo conto dei limiti dell’esperienza (/bid., Dialettica, Intr., I; cfr.
Prol., $ 40). 2° Nei precedenti significati, la parola T. è assunta a
significare ciò che è al di là di un certo limite. Nella filosofia
contemporanea essa viene spesso adoperata a significare un’attività o un’ope-
razione in corrispondenza col significato 2° di trascendenza. T. in questo
senso è, secondo Husserl, la percezione delle cose, in opposizione alla perce-
zione che la coscienza ha di se stessa (che è perce- zione immanente) (/deen,
I, $ 46). Hartmann chiama nello stesso senso atto T. la conoscenza (Systema-
tische Philosophie, $ 11). E Heidegger definisce come T. «ciò che attua
l’oltrepassamento, ciò che si mantiene nell’oltrepassare » (Vom Wesen des
Grundes, II; trad. ital., pag. 29) (v. TRASCEN- DENZA). ‘TRASCENDENTISMO.
Termine che non trova riscontro in altre lingue e che è usato talora a
designare ogni dottrina che ammetta la trascen- denza dell’essere divino.
TRASCENDENZA (ingl. 7ranscendence; franc. Transcendance; ted. Transzendenz). Il
ter- mine è stato usato in due significati diversi, cioè per indicare: 1° lo
stato o la condizione del prin- cipio divino o dell’essere che è al di là di
ogni cosa, di ogni esperienza umana (in quanto espe- rienza di cose) o
dell'essere stesso; 2° l'atto di stabilire un rapporto che escluda
l’unificazione o l ’identificazione dei termini. TRASCENDENTISMO 1° Nel primo
senso, il termine si connette alla concezione neoplatonica della divinità.
Platone aveva già detto che il Bene, come principio supremo di tutto ciò che è,
paragonabile come tale al sole che fa vivere e rende visibili tutte le cose, è
d/ di là della sostanza (èntveva tic obdolac, Rep., VI, 509 b). Sulle orme di
Platone, Plotino ripete che l’Uno è « al di là della sostanza » (Enn., VI, 8,
19); ma aggiunge pure che esso è «al di là dell'essere » (eréxewa Évroc, /bid.,
V, 5, 6); e che è «al di là della mente» (tréxewva voù, /bid., III, 8, 9); in
modo che è trascendente (òrepfeByxdc) rispetto a tutte le cose pur producendole
e tenendole in es- sere lui stesso (/bid., V, 5, 12). Proclo dice: «AI di là di
tutti i corpi, c'è la sostanza dell’anima, al di là di tutte le anime, la
natura intelligibile, al di là di tutte le sostanze intelligibili, c'è l’Uno »
(Ist. Teol., 20). Scoto Eriugena ed altri usarono il termine superessente (v.)
per indicare la T. asso- luta per cui Dio è al di sopra di tutte le determina-
zioni concepibili, perfino dell’essere o della so- stanza. Non sempre tuttavia
la T. è spinta fino a questo punto cioè sino a situare Dio al di là del-
l’essere e a farne in qualche modo un «nulla». La scolastica classica,
riconoscendo la analogi- cità dell’essere, non pone Dio al di là dell’essere
stesso: questa forma di T. è invece propria della teologia negativa o mistica
(v. TEOLOGIA, 4). Fuori della teologia, questa specie di T. è stata rico-
nosciuta da Jaspers, che ha contrapposto la T. all’esistenza: la T. è ciò che è
al di là di ogni pos- sibilità dell’esistenza, è l'essere che non si risolve
mai nel possibile e con cui pertanto l’uomo non può avere altro rapporto se non
appunto quello che consiste nell’impossibilità di raggiungerlo. In tal senso,
la T. si rivela sotto forma di cifra (v.) nelle situazioni-limite (v.) e non
può essere con- trassegnata neppure come « divinità » senza cadere nella
superstizione. L'unica certezza che si può acquisire nei riguardi della T. è
che « l’essere è e che è così» (Phil., III, pag. 134). Nel contempo la T.
veniva riconosciuta, dagli indirizzi realistici della filosofia contemporanea
alle cose o agli oggetti di conoscenza in generale o all’essere di tali
oggetti. Husserl negava in questo senso che una cosa potesse essere data come
im- manente in qualsiasi percezione o coscienza e de- finiva l’essere della
cosa come essere trascendente, che è più o meno adombrato dalle apparizioni
della cosa stessa alla coscienza (/deen, I, $ 41). N. Hart- mann insisteva a
sua volta sulla T. dell’essere rispetto alla conoscenza, in quanto l’essere
stesso rimane sempre al di là dell’oggetto conoscitivo immanente (Metaphysik der
Erkenntniss, 23 ediz., 1925, pag. 50). Nello stesso senso la T. veniva
combattuta dalle varie forme dell’immanentismo (v.). TRASMUTAZIONE DEI VALORI
2° Nel secondo significato, la T. è l’atto con cui si stabilisce un rapporto
senza che questo rap- porto significhi unità o identità dei suoi termini bensì
garantendo, con il rapporto stesso, l’alterità di essi. Anche questo concetto
ha un'origine reli- giosa e neoplatonica. Plotino diceva che la con-
templazione è « per colui che è andato al di là di tutto + (tà brrepfdvii
rdvra, Enz., VI, 9, 11). In un passo famoso S. Agostino diceva: «Se troverai
mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso +; e aggiungeva: « Ricordati
che nel trascendere te stesso, trascendi un'anima razionale e che pertanto devi
mirare al punto da cui dipende ogni luce di ragione » (De vera relig., 39).
Questo senso attivo di T. è stato pressochè obliterato nella filosofia
tradizionale ed è stato ripreso solo dalla filosofia contemporanea. Con
riferimento alla T. dell’essere o della cosa rispetto alla coscienza che
l’apprende o all’atto di cono- scenza che ne fa oggetto, trascendente è stato
chiamata, in senso attivo la coscienza stessa o l'atto di conoscenza. Così
Husserl parla della percezione trascendente, che è quella che ha per oggetto la
cosa e rispetto alla quale la cosa stessa è trascendente, come diversa dalla
percezione imma- nente che ha per oggetto le stesse esperienze co- scienti le
quali sono immanenti alla percezione stessa (/deen, I, $ 42, 46). N. Hartmann
ha messo il concetto della T. a fondamento del suo realismo. «La conoscenza,
egli ha detto, non è un semplice atto di coscienza, come il rappresentare o il
pen- sare ma un atto trascendente. Un atto simile s°at- tacca al soggetto
soltanto con una sua parte, con l’altra ne sporge fuori; con quest’ultima s’at-
tacca all’esistente che, mediante esso, diviene og- getto. La conoscenza è
relazione tra un soggetto e un oggetto esistente. In questa relazione, l’atto
trascende la coscienza» (Systematische Philoso- phie, $ 11). Nello stesso senso
egli chiama tra- scendente la relazione conoscitiva (/bid. $ 10). Ma la più
importante utilizzazione del concetto in questo senso è stata fatta da
Heidegger che ha definito come trascendente il rapporto tra l’uomo (Dasein,
Esserci) e il mondo. « L’Esserci che trascende (ecco un’espressione già di per
sè tautologica) non oltrepassa nè un ostacolo ante- posto al soggetto in modo
tale da costringerlo a restare dapprima in sè stesso (immanenza) nè un fosso
che lo separerebbe dall’oggetto. Da parte loro gli oggetti (gli enti che gli
sono presenti) non sono ciò verso cui l’oltrepassamento si attua. Ciò che viene
oltrepassato è proprio e unicamentel’ente stesso, cioè qualsiasi ente che possa
essere svelato o svelarsi all’Esserci e quindi anche pro- prio quell’ente che
l’Esserci è, in quanto, esistendo, è se stesso» (Vom Wesen des Grundes, 1929,
II). L’atto di T. è in altri termini quello per cui l’uomo, come ente nel
mondo, si distingue dagli altri enti od oggetti e si riconosce come 4se stesso ».
Hei- degger perciò considera la T. come il significato dell’essere nel mondo.
«Colui che oltrepassa e quindi va oltre, deve come tale sentirsi situato
nell’ente. L’Esserci, in quanto si sente tale, è in- cluso nell’ente in modo
che, ricompreso in esso, viene da esso accordato a se stesso. La T. è un
progetto del mondo tale che colui che progetta è dominato dall’ente che
trascende ed è già in ac- cordo con esso. Con questo essere incluso del-
l’Esserci, connesso con la T., l’Esserci ha preso base nell’ente, ha ottenuto
il suo fondamento » (Ibid., III). È caratteristica di Heidegger questo far
ricadere e appiattire la T. sugli oggetti tra- scesi, il progetto sulle sue
condizioni di partenza, il possibile sull’effettuale, il futuro sul passato.
Heidegger chiama deiezione o effettività (v.) questa ricaduta o appiattimento.
E così fa Sartre, che esprime lo stesso concetto di T. affermando che la
coscienza (il per-sé), trascendendo verso l'essere (l’in-sè), non fa che
annullarsi per rivelare e af- fermare, attraverso di sè, l’essere stesso
(L’étre et le néant, II, cap. III; spec. pag. 268-69). Per una interpretazione
della T. che sfugga all’appiatti- mento o alla nullificazione (cfr. ABBAGNANO,
Strut- tura dell’esistenza, 1939, $ 18; Ip., Introduzione al- l’esistenzialismo,
I, 6; ecc.). TRASFORMAZIONE (ingl. Transformation; franc. Transformation; ted. Umformung,
Transforma- tion). Dewey ha visto nella T. la categoria fonda- mentale del
ragionamento matematico. « La T. dei contenuti concettuali, egli ha detto,
secondo regole metodiche che soddisfino determinate condizioni lo- giche, è
implicita tanto nella condotta del ragiona- mento che nella formazione dei
concetti che ne fanno parte ». Il principio logico della T. può essere espresso
dicendo che: 1° il contenuto del ragiona- mento consiste di possibilità; 2° che
in quanto possibilità, esso richiede la formulazione in sim- boli (Logic, XX,
1; trad. ital., pag. 516). Regole di T. si chiamano abitualmente le regole di
infe- renza dei sistemi logistici o dei linguaggi forma- lizzati (v. SISTEMA
LOGISTICO). ‘TRASFORMISMO (ingl. Transformism; fran- cese Transformisme; ted.
Transformismus). Con questo termine si indica l’evoluzionismo biologico cioè la
dottrina che ammette la trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra
(v. EVOLUZIONE). TRASMIGRAZIONE. V. METEMPSICOSI. TRASMUTAZIONE DEI VALORI
(fran- cese Transmutation des valeurs; ted. Umwertung aller Werte). La frase
famosa con cui Nietzsche ha riassunto il compito della sua filosofia. « In-
versione di tutti i valori, egli ha scritto, ecco la mia formula per un atto di
supremo riconoscimento di sè di tutta l’umanità, atto che in me è diventato
carne e genio. Il mio destino esige che io sia il primo uomo onesto, che io mi
senta in opposi- zione con le menzogne di vari millenni » (Ecce Homo, $ 4).
L’inversione dei valori consiste nel porre al posto della tavola tradizionale
dei valori, fondati sulla rinuncia alla vita, i nuovi valori che derivano
dall’accettazione entusiastica (dionisiaca) della vita, anche nei suoi aspetti
più crudeli (Ge- nealogie der Moral, I, $ 10; Die froeliche Wissen- schaft, $
344; ecc.) (v. VALORE). RASPARENZA (ted. Durchsichtigkeit). Così Heidegger ha
chiamato l’intuizione che l’Esserci ha di se stesso: « Esistendo, l’Esserci
vede se stesso solo in quanto è divenuto originariamente traspa- rente nel suo
essere nel mondo e nel suo essere con gli altri, quali momenti costitutivi
della sua esistenza » (Sein und Zeit, $ 31). TRASPOSIZIONE (ingl. Transposition;
fran- cese Transposition; tedesco Transposition). Così è detto un teorema del
calcolo proposizionale per il quale da «se p, allora g* si può inferire « non
q, dunque non p». TRIADICO (ingl. Triadic; franc. Triadique; ted. Triadisch).
La divisione T. ha goduto spesso di un certo privilegio in filosofia. A
prescindere dalla perfezione che gli antichi Pitagorici riconob- bero al numero
tre, Plotino aveva riconosciuto tre fasi dell'emanazione e quindi tre ipostasi
della di- vinità, l’Uno, il Logos e l’Anima (Enn., II, 9, 1). Ma fu soprattutto
Proclo a privilegiare il proce- dimento T., scorgendo in ogni qualsiasi
processo (o emanazione) tre fasi: quella in cui ciò che pro- cede rimane simile
a se stesso; quella in cui si differenzia da se stesso e infine quella in cui
ritorna a se stesso (/st. theol., 31). Su queste tre fasi del- l'emanazione
Hegel modellò le tre fasi della sua dialettica che consistono rispettivamente:
1° nel- l’identità di un concetto con se stesso; 2° nel con- traddirsi o
nell’alienarsi del concetto rispetto a se stesso; 3° nella conciliazione e
nell’unità delle due prime fasi (cfr. Enc., $ 79-82). Hegel interpretò secondo
questa divisione T. sia il mondo della logica, sia il mondo della natura sia
quello dello spirito (Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, II, pag. 340 sgg.).
Per quanto Hegel facesse risalire a Kant il merito di questa triadicità di ogni
processo razionale quindi anche dell’intera realtà (/bid., pag. 344), la
giustificazione che Kant dà del fatto che le sue « divisioni nella filosofia
pura riescono quasi sempre T.» è completamente diversa ed è desunta dalla
logica. Dice Kant infatti: «Se una divisione dev'essere fatta a priori, o sarà
analitica secondo il principio di contraddizione e allora sarà sempre in due
parti (guodlibet ens est qut A aut non A); o sarà sintetica e in tal caso dovrà
essere derivata da concetti a priori... e conterrà: 1° la condizione; 2° un
condizionato; 3° il concetto che nasce dall’unione della condizione con il con-
dizionato, riuscendo così necessariamente una tri- cotomia » (Crit. del Giud.,
Intr., Nota finale). TRIADISMO o TRIALISMO (ingl. Tria- dism; franc. Triadisme;
ted. Trialismus). La dot- trina, di origine stoica, che considera l’uomo for-
mato da tre princìpi, l’anima, il corpo e lo pneuma o spirito: dottrina che si
trova ripetuta nelle let- tere di S. Paolo (v. PNEUMA). TRIBUNALE (ingl.
Tribunal; franc. Tribunal; ted. Gerichtshof). Il termine è stato usato da Kant
per definire il compito della filosofia critica: « La critica della Ragion
pura, egli disse, si può consi- derare come il vero T. per tutte le
controversie di questa, perchè essa non si immischia nelle con- troversie che si
riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e per
giu- dicare i diritti della ragione in generale secondo i princìpi della sua
prima istituzione» (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. 2).
'TRICOTOMIA (ingl. Trichotomy; franc. Tri- chotomie; ted. Trichotomie).
Divisione in tre parti, elementi o classi. Il termine viene quasi esclusi-
vamente adoperato per la dottrina della triplice composizione dell’anima, che
si chiama anche tria- dismo o trialismo. La dottrina logica della T. fu
elaborata nel sec. XVII, con l’avvertenza che occorre ridurre la T. alla
dicotomia ogni volta che due membri della dicotomia abbiano una nozione in
comune. Si può dire che il triangolo è o rettangolo o obliquangolo e, si può
poi dividere di nuovo il triangolo obli- quangolo in ottusangolo e acutangolo
(cfr. JunaIUS, Logica Hamburgensis, 1638, IV, 7, 13). ‘TRILEMMA (ingl.
Trilemma; franc. Trilemme; ted. Trilemma). È stato indicato con questo nome dai
logici dell’800 uno schema d’inferenza che ha come premessa maggiore una
tricotomia, invece della dicotomia del dilemma (v.): «Ogni cosa è o PoQ0M; S
nonè nè M nè Q; dunque S è P». Nello stesso senso si parla di tetralemma o di
po- lilemma, ma si tratta di schemi di inferenza che trovano scarsissima
applicazione. TRINITÀ (ingl. Trinity; franc. Trinité; te- desco
Dreifaltigkeit). Uno dei dogmi fondamentali del cristianesimo, che afferma
l’unità della so- stanza divina nella T. delle persone. La formula del dogma fu
fissata dal Concilio di Nicea nel 325; e nella sua formulazione ebbe gran parte
l’opera del vescovo Atanasio e la polemica contro la dottrina di Ario che
tendeva ad accentuare la subordinazione del Figlio rispetto al Padre e pra-
ticamente ignorava la terza persona della Trinità. TUTTO L'illustrazione
classica di questo dogma [come di quello dell’incarnazione (v.)] fu data da S.
Tommaso mediante il concetto della relazione. La relazione da un lato
costituisce le persone divine nella loro distinzione; dall’altro si identifica
con la stessa unica essenza divina. Le persone divine, infatti, sono costituite
dalle loro relazioni di origine: il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione
con il Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto con
il Padre; lo Spirito dal- l’amore cioè dal rapporto reciproco di Padre e
Figlio. Ora queste relazioni in Dio non sono ac- cidentali (nulla c’è di
accidentale in Dio) ma reali; sussistono rea/mente nella sostanza divina. Pro-
prio la sostanza divina dunque, nella sua unità, implicando le relazioni,
implica la diversità delle persone (S. 7h., I, q. 27-32 e spec. q. 29, a. 4).
Questa interpretazione basta, secondo S. Tommaso a mostrare che « ciò che la
fede rivela non è impos- sibile ». Dal punto di vista logico essa implica una
dottrina sulla natura delle relazioni che è stori- camente importante (v.
RELAZIONE). Tuttavia nell’ultima età della scolastica il dogma della T. o fu
dichiarato una « verità pratica », come fece Duns Scoto (Op. Ox., Prol. q. 4,
n. 31), o veniva dichiarata al di là di ogni possibilità di in- tendimento,
come fece Ockham (/n Sent., I, d. 30, q. 1B). Il dogma della T. è stato
accettato anche dalle chiese protestanti. Fa eccezione la tendenza rap-
presentata dal socinianesimo (v.) che riprese le dottrine di tipo ariano che
circolavano nei primi secoli del cristianesimo. Tali dottrine sono state
riprese dai cosiddetti unitari che costituirono un movimento religioso diffuso
soprattutto in Inghil- terra e in America a partire dalla seconda metà del sec.
xVII (v. UNITARISMO). TRINITARISMO (ingl. 7rinitarianism; fran- cese 7rinité).
La dottrina ufficiale della Chiesa cristiana sulla natura di Dio come un'unica
so- stanza in tre persone uguali e distinte (v. TRI- NITÀ). TRITEISMO (ingl.
Tritheism; franc. Trithéi- sme; ted. Tritheismus). Con questo termine si suole
indicare l'eresia trinitaria che consiste nel- l'ammettere tre sostanze divine
relativamente indi- pendenti l’una dall'altra. Quest’eresia fu sostenuta nel
sec. v da Giovanni Filopono; e nel sec. x1 da Roscellino il quale, secondo una
testimonianza di S. Anselmo, affermava che « Le tre persone della trinità sono
tre realtà come tre angeli e tre anime, sebbene siano identiche assolutamente
per volontà e potenza» (De fide trinitatis, 3). Al T. inclinava anche Gilberto
de la Porrée che chiamava deità l’unica essenza divina, dalla quale
parteciperebbero le tre persone diverse; e probabilmente sulle sue 889 orme
inclinava al T. Gioacchino Da Fiore (sec. x11). La dottrina è stata
costantemente condannata dalla Chiesa. TRIVIO. V. CULTURA, 1]. TROPI (gr.
tpéro; lat. Tropes; franc. Tropes; ted. Tropen). Così si chiamarono e tuttora
si chia- mano i modi o le vie indicate dagli scettici per arrivare alla
sospensione dell’assenso. Tali T. con- sistono nell’enunciazione delle
situazioni dalle quali risultano contrasti di opinioni o addirittura
contraddizioni. Enesidemo di Cnosso ne enumerava dieci, che sono i seguenti: 1°
la differenza fra gli animali, che stabilisce una differenza fra le loro
rappresentazioni; 2° la differenza fra gli vomini, per lo stesso motivo; 3° la
differenza fra le sen- sazioni; 4° la differenza fra le circostanze, che
influiscono anch'esse sulla diversità delle opinioni; 5° la differenza delle
posizioni e degli intervalli; 6° la differenza delle mescolanze; 7° la
differenza fra gli oggetti semplici e gli oggetti composti; 8° la differenza
fra le relazioni, giacchè le opinioni cam-biano a seconda delle relazioni in
cui le cose en- trano col soggetto giudicante; 9° la differenza fra la
frequenza o la rarità degli incontri tra il soggetto giudicante e le cose; 10°
la differenza dell’educazione, dei costumi, delle leggi, ecc. (/p. Pirr., I,
36-163). A sua volta Agrippa aggiungeva altri cinque tropi, come obiezioni
contro la raggiungibilità della verità: 1° la discordanza delle opinioni; 2° il
processo all'infinito nel quale si cade quando si vuole addurre una prova,
giacchè questa prova ha bisogno di un’altra prova e questa di un’altra e così
via; 3° la relazione tra il soggetto e l'oggetto che fa variare l’apparenza
dell’oggetto stesso; 4° l’ipotesi cioè il ricorso ad una assunzione priva di
dimostrazione quindi insostenibile; 5° il diallele o circolo vizioso quando si
assume come principio di prova proprio ciò che si deve provare (SESTO EMPIRICO,
/p. Pirr., I, 164-69). Infine Sesto Empirico enuncia altri due tropi, che sono
argomenti i quali tendono a dimostrare che non si può comprendere una cosa nè
in base a se stessa nè in base a un'altra cosa (/p. Pirr., I, 178-79). TRUISMO
(ingl. Truism; franc. Truisme). Una verità evidente ma ovvia quindi poco
importante o poco utile. Il termine e la nozione sono propri della lingua
inglese. TUTTI. V. Ogni. TUTTO (gr. rò nav; lat. Torum; ingl. Whole; franc.
Tout; ted. AIN). Un qualsiasi insieme di parti: cioè un insieme di parti in
quanto è indipen- dente dall’ordine o dalla disposizione delle parti stesse. In
questo, il T. si può distinguere dalla totalità che implica un ordine delle
parti che non può essere modificato senza modificare la totalità stessa (v.
MonDO; TOTALITÀ; UNIVERSO). 890 Sulla base delle determinazioni aristoteliche
(Mer., V, |[26, 1023 b 25), la logica medievale distingueva: 1° il T.
universale o essenziale, che è quello ie cui parti costituiscono la sostanza di
esso: ad es., «corpo vivente +; 2° il T. integrale che è quello le cui parti
sono quantità: quantità simili come in «acqua»? o quantità dissimili come in
«albero +; 3° il T. nella quantità, che è l’universale preso universalmente
come «ogni uomo» o «nessun uomo»; 4° il T. nel modo che è l’universale preso
senza determina- zione, come «l’uomo +; 5° il T. nel luogo che è una
determinazione comprendente avverbialmente il luogo come « dovunque » o «in
nessun luogo +; 6° il T. nel tempo che è un’espressione che com- prende
avverbialmente la totalità del tempo come «sempre» e « mai» (Pietro Ispano,
Summ. Logi- cales, 5, 14-23). Nizolio riduceva a due queste specie, con l’argomento
che due soltanto si tro- vano in natura e cioè il T. continuo che è una sin-
TUZIORISMO gola cosa e il T. discreto che è un complesso di cose singole (De
veris principiis, I, 10); al che Leibniz aggiungeva il T. disgiuntivo, per es.,
« l’ani- male è o uomo o bruto » (Nota al passo citato di Nizolio). Altre
distinzioni si trovano registrate da Hamilton: il T. per sè in cui le parti
sono connesse necessariamente come il corpo e l’anima sono connesse nell’uomo e
il T. per accidens in cui le parti sono connesse contingentemente. Il T. per sè
può essere a sua volta: un T. /ogico come un uni- versale, un T. metafisico o
reale; un T. fisico o sostanziale; un T. matematico, quantitativo o in- tegrale
e un T. collettivo o di aggregazione (Lectures on Logic, 2> ediz., I, pag.
202 sgg.). Nella logica moderna T. è un operatore e pre- cisamente il
quantificatore universale simboleggiato con la notazione «(x)» (v. OPERATORE).
Per la differenza tra 7. e ogni, v. quest’ultimo termine. TUZIORISMO. V.
ProBABILISMO. ÙU U. Nella logica tradizionale, simbolo della propo- sizione
modale che consiste nella negazione del modo e nella negazione della
proposizione: ad es., «non è possibile che non p» (cfr. ARNAULD, Log., II, 8)
(v. PURPUREA). UBI. Con questo avverbio latino (dove) Duns Scoto indicò la
determinazione qualitativa che il corpo in movimento acquista a ogni istante
del suo movimento. L’U. non è il luogo (v.) perchè il luogo di un corpo non è
un attributo di esso ma risiede nei corpi che lo attorniano; è piuttosto simile
al calore che è acquisito dal corpo che si riscalda (Quod!., q.11, a. 1). La
nozione fu criti- cata da Pietro Aureolo (/n Senr., I, d. 17, a. 4) da Ockham
(/n Sent., II, q. 9 c) e da Gregorio da Rimini (Zn Sent., II, d. 6, qg. 1, a.
2) che invece ridussero il movimento al corpo che si muove. Essa è ricordata
ancora, con disprezzo, da Locke (Saggio, II, 23, 21). UBICAZIONE. V. Luoco.
UBIQUITÀ (lat. Ubiquitas; ingl. Ubiquity; franc. Ubiquité; ted. Allgegenwart).
Quel modo d'essere nello spazio che gli Scolastici del sec. x1v chiamavano
definitivo (definitivus) e che consiste nell’esser tutto in tutto lo spazio e
tutto in qual- siasi parte dello spazio. Questo modo d’essere veniva distinto
da quello detto circoscrittivo (cir- cumscriptivus) che consiste nell’essere
tutto in tutto lo spazio (occupato) e parte in ciascuna parte di esso (v., per
questa distinzione, OCKHAM, /n Sent., IV, q.4; Quodl., VII, q. 19; De Corp. Christi,
6). Il concetto dell’esistenza spaziale definitiva ser- viva ad intendere la
presenza del corpo di Cristo nel pane e l’onnipresenza di Dio nel mondo. Per
quest’ultima, Leibniz (che ricorda i due primi modi che chiama wubietés) parla
di una ubieré reple- tiva (Nouv. Ess., II, 23, 21). UCRONIA (franc. Uchkronie).
È il titolo di un romanzo di Carlo Renouvier (Uchronie, l’utopie dans
l’histoire, 1876) nel quale l’autore si propone di ricostruire «la storia
apocrifa dello sviluppo della civiltà europea, quale avrebbe potuto essere e
non è stata ». Lo scopo del romanzo è di mostrare l’assenza della necessità
nella storia (v. STORIA). UGUAGLIANZA. V. EGUAGLIANZA. ULTIMO (gr. cò toyaroy;
ingl. Ultimate; franc. Ultime; ted. Letzt). Uno dei due estremi di una serie,
precisamente quello cui la serie mette capo. Poichè la stessa serie può essere
considerata come facente capo per certi scopi (o da un certo punto di vista) ad
un certo estremo e per altri scopi (o per altro punto di vista) all’altro
estremo, la parola U. è spesso ambivalente e le stesse cose sono dichiarate U.
e prime. Così accade frequente- mente nella terminologia aristotelica: in cui è
detto U. il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti (is.,
VIII, 2, 244 b 4); ma è detto anche U. la specie che è più vicina all’individuo
(Mer., III, 3, 998b 15). Aristotele chiama inoltre U. un soggetto come l’acqua
o come l’aria (/bid., V, 6, 1016a 23); ma chiama anche U. sostrato la sostanza
(/bid., V, 8, 1017 b 24); e considera il principio di contraddizione come «
un’opinione U. » (/bid., IV, 3, 1005 b 33). Chiama pure U. il fine (/bid., V,
16, 1021 b 25). Tutti questi usi, o usi assai simili a questi, sono rimasti
nella tradizione filosofica. Nel Medio Evo si chiamò «fine U.» la beatitudine,
in quanto è il fine al di là del quale non si può procedere (con- fronta S.
Tommaso, S. 7h., II, 1, q.1, a. 4). Oggi si parla di « problemi U. » o di
«ragioni U.» nello stesso senso in cui si potrebbe parlare di problemi primi o
massimi e di ragioni prime: il che dimostra ancora una volta che il termine
appartiene piuttosto 892 alla retorica del discorso filosofico e ha scarso
valore concettuale (v. ESTREMO). ULTRAMONDANISMO. V. TRADIZIONA- LISMO, 1.
UMANESIMO (ingl. Humanism; franc. Huma- nisme; ted. Humanismus). Il termine è
usato per indicare due cose diverse e cioè: I) il movimento letterario e
filosofico che ebbe le sue origini in Italia nella seconda metà del sec. x1v e
dall’Italia si dif- fuse negli altri paesi d'Europa, costituendo l'origine della
cultura moderna; II) un qualsiasi movimento filosofico che assuma a suo
fondamento la natura umana o i limiti e gli interessi dell’uomo. I Nel suo
primo significato, che è quello storico, l’U. è un aspetto fondamentale del
Rina- scimento (v.): precisamente l’aspetto per il quale il Rinascimento è il
riconoscimento del valore dell’uomo nella sua interezza e il tentativo di in-
tenderlo nel suo mondo, che è quello della natura e della storia. In questo
senso l’U. si fa iniziare con l’opera di Francesco Petrarca (1304-74). I
principali umanisti italiani sono: Coluccio Sa- lutati (1331-1406), Leonardo
Bruni (1374-1444), Lorenzo Valla (1407-57), Giannozzo Manetti (1396- 1459),
Leonbattista Alberti (1404-72), Mario Ni- zolio (1498-1576). Fra gli umanisti
francesi: Carlo Bovillo (1470 o 75-1553), Pietro Ramus (1515-72), Michele di
Montaigne (1533-92), Pietro Charron (1541-1603), Francesco Sanchez (1562-1632),
Giusto Lipsio (1547-1606). Tra gli umanisti spagnoli va ricordato Ludovico
Vives (1492-1540) e tra quelli tedeschi Rodolfo Agricola (1442-85). I capisaldi
fondamentali dell’U. possono essere esposti così: 1° Il riconoscimento della
roralità dell’uomo come essere formato di anima e di corpo e destinato a vivere
nel mondo e a dominarlo. Il curriculum medievale degli studi era fatto per un
angelo o un’anima disincarnata. L'U. rivendica per l’uomo il valore del piacere
(Raimondi, Filelfo, Valla); afferma l’importanza dello studio delle leggi,
della medicina e dell’etica contro la metafisica (Salutati, Bruni, Valla); nega
la superiorità della vita con- templativa su quella attiva (Valla). Si ferma
lungamente a esaltare la dignità e la libertà del- l’uomo, a riconoscere il suo
posto centrale della natura e il suo destino di dominatore della na- tura
stessa (Manetti, Pico della Mirandola, Ficino). 2° Il riconoscimento della
storicità dell’uomo cioè dei legami dell’uomo con il suo passato, legami che da
un lato servono a connetterlo con tale passato dall’altro a distinguerlo e a
contrapporlo ad esso. Da questo punto di vista, è parte fondamentale dell’U.
l'esigenza filologica: che non è solo il bi- sogno di scoprire i testi antichi
e di ripristinarli nella forma autentica, studiando e collazionando i codici,
ma è anche il bisogno di rintracciare in ULTRAMONDANISMO essi l’autentico
significato di poesia o di verità filosofica o religiosa che contengono.
L’ammira- zione e lo studio dell’antichità non erano mai venuti meno nel Medio
Evo; ciò che costituisce il proprio dell’U. è l’esigenza di scoprire il volto
autentico dell’antichità, liberandola dalle incro- stazioni che la tradizione
medievale vi aveva accu- mulato. 3° Il riconoscimento del valore umano delle
lettere classiche. Questo è l’aspetto da cui l’U. prende il suo nome. Già al
tempo di Cicerone e Varrone la parola humanitas significava l’educazione
dell’uomo come tale che i Greci chiamavano paideia; e si riconoscevano nelle
«buone arti» le discipline che formano l’uomo perchè sono proprie solo di lui e
lo differenziano dagli altri animali (AuLo GetLio, Nocf. atf., XIII, 17). Le
buone arti, quelle che ancora oggi si chiamano le discipline umanistiche, non
avevano tuttavia per PU. valore di fine ma di mezzo per la + forma- zione di
una coscienza davvero umana, aperta in ogni direzione, attraverso la
consapevolezza storico-critica della tradizione culturale » (GARIN,
L’educazione umanistica in Italia, pag. 7) (vedi CULTURA). 4° Il riconoscimento
della naturalità del- l’uomo cioè del fatto che l’uomo è un essere natu- rale
per il quale la conoscenza della natura non è una distrazione imperdonabile o
un peccato ma un elemento indispensabile di vita e di successo. Il rifiorire
dell’aristotelismo, della magia e delle spe- culazioni naturalistiche (ad opera
di Telesio, Bruno e Campanella) costituisce il preludio della scienza moderna.
II) Il secondo significato della parola non sempre ha strette connessioni con
il primo. Si può dire che per esso l’U. è ogni filosofia che faccia dell’uomo,
secondo il vecchio detto di Pro- tagora, «la misura delle cose». Proprio in
questo senso, e in riferimento al detto di Protagora, F. C. S. Schiller chiamò
U. il suo pragmatismo (Studies in Humanism, 1902). Nello stesso senso, ma per
respingerlo ha inteso l’U. Heidegger che ha visto in esso quell’indirizzo della
filosofia che fa dell’uomo la misura dell’essere e subordina l’essere all'uomo
invece di subordinare, come dovrebbe, l’uomo all’essere e di vedere nell’uomo
soltanto « il pastore dell’essere » (Ho/zwege, 1950, pag. 101-02). Riferendosi
ad un senso analogo, Sartre ha accet- tato la qualifica di U. per il suo
esistenzialismo (L’existentialisme est un humanisme, 1949). Più in generale si
può intendere per U. qual- siasi indirizzo filosofico che tenga conto delle
pos- sibilità e quindi dei limiti dell’uomo e che proceda su questa base a un ridimensionamento
dei pro- blemi filosofici. UMILTÀ UMANITÀ (lat. Humanitas; ingl. Humanity;
franc. Humanité; ted. Humanitàt, Menschheit). Il termine ha i seguenti
significati principali: 1° La forma compiuta o l’ideale o lo spirito dell’uomo.
In tal senso gli antichi adoperavano la parola humanitas, corrispondente al
greco pai- deia, dalla quale è venuto il nome e il concetto stesso di umanesimo
(v.). In un senso analogo Humboldt considerava come fine della storia «la
realizzazione dell’idea dell’U.» (Schriften, IV, pa- gina 55). 2° La sostanza o
l'essenza dell’uomo, nel significato aristotelico rimasto proprio della meta-
fisica classica. In tal senso S. Tommaso diceva: « U. significa i princìpi
essenziali della specie, tanto formali quanto materiali, a prescindere dai
prin- cìpi individuali. L’U. è infatti ciò per cui un uomo è tale; e un uomo è
tale non perchè ha i princìpi individuali ma perchè ha i princìpi essenziali
della specie » (Contra Gent., IV, 81). 3° Il genere umano cioè la specie umana
come entità biologica. In tal senso si parla, ad es., della storia o delle
vicende dell’U. su questa terra o del- l’evoluzione biologica dell’umanità. 4°
La sintesi ipostatizzata della storia o della tradizione dell’uomo, secondo il
concetto di Comte che intende per essa « l’insieme degli esseri passati, futuri
e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale »
(Politique positive, IV, pag. 30). In tal senso I’U. costituisce, secondo
Comte, un Grande Essere, cioè una specie di divinità che non è altro che lo
stesso mondo storico ipo- statizzato. Comte volle istituire il culto di questo
grande essere (v. ESSERE, GRANDE). 5° La natura ragionevole dell’uomo, in
quanto dotata di dignità e quindi in quanto deve valere come fine a se stessa.
Questo è il significato che la parola assume nella seconda formula dell’impera-
tivo categorico di Kant: « Agisci in modo da trattare l’U. (Menschheit), tanto
nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre anche come fine, mai
solo come mezzo » (Grundlegung der Me- taphysik der Sitten, ID. L’U. nella
persona degli uomini è l’oggetto proprio del rispetto (v.) che, secondo Kant, è
l’unico sentimento morale (Met. der Sitten, II, $ 11). 6° La disposizione alla
comprensione degli altri o alla simpatia verso di essi. In questo senso, il
termine è stato ottimamente definito da Kant: « U. (Humanitàt) significa da un
lato il sentimento universale della simpatia, dall'altro la facoltà di poter
comunicare intimamente e universalmente: due proprietà che insieme
costituiscono la socia- bilità propria dell’U. (Menschheit) per cui essa si
differenzia dall’isolamento animale » (Crif. del Giud., $ 60; cfr. Antr., $
88). 893 UMANITARISMO (ingl. Humanitarianism; franc. Humanitarisme; ted.
Humanitàt). V. FiLAN- TROPIA. UMILTÀ (gr. tarewoppootvn; lat. Humilitas; ingl.
Humility; franc. Humilité; ted. Demut). L'at- teggiamento di volontaria
abbiezione, tipico della religiosità medievale alla quale viene suggerito dalla
credenza nella natura miserabile e peccaminosa dell’uomo. In questo senso l’U.
viene illustrata ed esaltata da Bernardo di Chiaravalle: « L'U. è la virtù per
la quale l’uomo, con verissimo ricono- scimento di sè, tiene a vile se stesso »
(De gradibus humilitatis et superbiae, in P. L., 182°, col. 942). In questo
senso l’U. era sconosciuta al mondo antico. Lo stesso S. Paolo, che adoperò per
primo la parola, intese per essa l’assenza dello spirito di competizione e di
vanagloria (Philipp., ID e ne vide il modello in Cristo che si è abbassato, con
l'incarnazione, sino all'uomo (Ibid, II, 3-11). Allo stesso modo Sant'Agostino
parla dell’U. pre- valentemente a proposito della via humilitatis che è
l’incarnazione del Verbo per la redenzione degli uomini: e in tal senso
contrappone l’U. cristiana alla superbia dei Platonici che sapevano tante cose,
ma ignoravano l'incarnazione (Conf., VII, 9). S. Tommaso considerava l’U. come
quella parte della virtù «che tempera e frena l’animo affinchè non tenda senza
misura verso le cose più alte» e vedeva in esse il completamento della
magnanimità che «conferma l'animo contro la disperazione e lo spinge a
perseguire le cose grandi secondo la retta ragione» (S. 7h., II, 2, q. 161, a.
1). Ma è ovvio che in questo senso l’U. non è che la ma- gnanimità stessa nel
significato aristotelico (v. Ma- GNANIMITÀ) e non ha nulla a che fare con l’U.
nel senso di S. Bernardo. I filosofi hanno spesso polemizzato contro l’U. nel
significato medievale o hanno cercato di ricon- durla a un significato
compatibile con l’etica clas- sica. Spinoza negava che l’U. fosse una virtù e
la riteneva una emozione passiva in quanto essa nasce dal fatto che «l’uomo
contempla la propria impotenza ». Mentre, se pensa a tale impotenza nei
confronti di un essere più perfetto questo pen- siero favorisce la sua potenza
d’azione ed è perciò non U. ma virtù (Er., IV, 53). Kant distingue l’U. morale
che è «il sentimento della piccolezza del nostro valore in confronto con la
legge » dall’U. spuria che è «la pretesa di acquistare, mediante ia rinuncia a
un qualsiasi valore morale di sè, un valore morale nascosto ». La pretesa di
superare gli altri abbassando se stessi è un’ambizione opposta al dovere verso
gli altri; e servirsi di questo mezzo per ottenere il favore di altri (Dio o
uomo che sia) è ipocrisia e adulazione (Mer. der Sitten, II, $ 11). Hegel a sua
volta affermava che 1°U. » è la coscienza 894 di Dio e della sua essenza come
amore » (Philoso- phische Propàdeutik, $ 207; cfr. Philosophie der Reli- gion,
ed. Glockner, II, pag. 553). Mentre, dall’altro lato, la protesta di Nietzsche
che vede nell’U. sem- plicemente un aspetto della « morale degli schiavi » è
ovviamente diretta contro il tipico concetto me- dievale dell’U. (cfr. Werke,
VII, pag. 348 sgg.). UMORE (ingl. Mood; franc. Humeur; tedesco Stimmung). Uno
stato emotivo che non ha oggetto, o il cui oggetto è indeterminabile, e che si
distingue perciò dall'emozione vera e propria. Questa distin- zione è stata
proposta da W. Cerf (« U. ed emozioni nell’arte», in Rivista di Filosofia,
1954, pag. 363 sgg.) ed appare opportuna per individuare nella vasta gamma
degli stati emotivi quelli che vanno sotto il nome di umore. L’U. non ha
oggetto intenzionale nel senso che non esiste un U. di..., come esiste una
paura di..., o una gioia di..., ecc. Esso ha una causa o una ragione ma non si
riferisce a un parti- colare oggetto e non costituisce l’avvertimento del valore
biologico di una situazione. In tal senso, Cerf ha affermato che nell’arte non
ci sono emozioni ma soltanto umori. Sul significato esistenziale degli U. aveva
richia- mato l’attenzione Heidegger: « Che gli U. possano mutare o dileguare
significa solo che l’Esserci è già sempre in uno stato emotivo ». L’U.
fondamen- tale è la noia, «il peso dell’essere». Ma in ogni caso l’U. è ciò che
rende manifesto « come uno è e diviene » (Sein und Zeit, $ 29). UNICO (lat.
Unicus; ingl. Unique; francese Unique; ted. Einzig). 1. Ciò che non è la specie
di un genere, intendendosi per genere una deter- minazione che possa essere
partecipata da più specie. In questo senso Dio solo è U. (cfr. S. Tom- Maso, S.
Th., I, q. 3, a. $). 2. Ciò che è solo nella sua specie, cioè il solo in-
dividuo appartenente a una specie determinata. In questo senso, nella
metafisica tradizionale possono dirsi U. gli angeli dei quali è impossibile che
ve ne siano due della stessa specie in quanto sono privi della materia che
distingue gli appartenenti di una stessa specie (cfr. S. Th., I, q. 50, a. 4).
In questo senso Stirner intendeva l’unicità: «Io, l’U., sono l’uomo. La
questione ‘che cosa è l’uomo?’ si trasforma nella questione ‘chi è l’uomo?’.
Nel che cosa si cercava il concetto; nel chi la questione risolta perchè la
risposta è data da quello stesso che interroga » (Der Einzige und sein
Eigentum, 1845; trad. ital., pag. 270). Il che cosa è il chi, la specie è
l’individuo (vedi ANARCHISMO). 3. Ciò che non è sostituibile nel suo valore o
nella sua funzione. In tal senso si dice U. una persona o un’opera d’arte; e si
dice U., in mate- matica, il valore di una funzione. UMORE 4. Ciò che non si
ripete o non si ripete identica- mente. In tal senso si dice U. l’evento
storico come tale (v. STORIA). 5. Ciò che può essere effettuato in un solo
modo; e in tal senso diciamo U. un’operazione, per es., la scomposizione di un
numero in fattori primi. UNIFICAZIONE DELLE SCIENZE. Vedi ENCICLOPEDIA. UNIFORME
(gr. spoedic; lat. Uniformis; in- glese Uniform; franc. Uniforme; ted.
Einformig). I. Ciò che appartiene alla stessa specie o alla stessa essenza o
sostanza. In questo senso il termine ve- niva adoperato da Aristotele (Mer., V,
2, 1013b 31; I, 9, 991 b 23; VII, 7, 1032a 24; ecc.) e inteso da S. Tommaso (/n
Sent., II, d. 48, q. 1, a. 1). In tal senso si chiamano U. gli oggetti che
hanno lo stesso genere o la stessa specie o in ge- nerale la stessa natura. 2.
Ciò che rimane costante o immutabile o al- meno relativamente costante e
immutabile. In tal senso si parla della uniformità delle leggi di natura (v.
INDUZIONE). 3. Ciò che presenta analogie o somiglianze par- ziali, messe in
luce dall’astrazione prescissiva, ed è suscettibile di previsione. In questo
senso si parla dell’uniformità della natura o dell’uniformità della storia o
del mondo umano e sociale. Peirce ha così illustrato l’uniformità in questo
senso: « Se scegliamo molti oggetti col principio che essi deb- bano
appartenere ad una certa classe e troviamo che hanno tutti un carattere comune,
si troverà assai spesso che l’intera classe avrà lo stesso ca- rattere. O se
scegliamo molti caratteri di una cosa a caso e poi troviamo una cosa che ha
tutti questi caratteri, generalmente troviamo che la seconda cosa è assai
simile alla prima » (Coll. Pap., 7.131). Come osserva lo stesso Peirce,
uniformità in questo senso si potrebbe trovare anche in un mondo in cui tutto
si verificasse a caso (/bid., 7.136). E sono queste le uniformità di cui si
avvalgono le disci- pline scientifiche sia quelle naturali sia quelle so-
ciali; come si avvale di esse il senso comune. Il dizionario di un linguaggio
qualsiasi non è che la espressione di uniformità di questa sorta. La ri-
petibilità è il carattere fondamentale dell’uniformità in questo senso. 4. Ciò che
è conforme a un ordine, cioè a una regola o una legge qualsiasi. In tal senso
si dicono U. i fenomeni naturali che obbediscono a leggi. Ma in realtà questa
specie di uniformità non è che la precedente perchè una legge scientifica non è
che un’uniformità nel senso 3. Questo fu un punto messo in luce da J. Stuart
Mill (System of Logic, III, IV, 1) (v. REGOLARITÀ). UNIONE (ingl. Union; franc.
Union; ted. Ver- bindung). Qualsiasi forma di relazione che consenta UNITÀ di
considerare (a qualsiasi titolo) l'insieme dei ter- mini come un tutto. Questa
è la definizione che della parola dette Leibniz (De arte combinatoria, 1666,
Op., ed. Erdmann, pag. 8). Un tutto non è necessariamente un’unità o una
totalità (vedi TUTTO) e può avere gradi diversissimi di coesione tra le sue
parti. Sicchè anche i gradi dell’U. pos- sono essere diversissimi. Kant divise
ogni U. in composizione (compositio) e in connessione (nexus). La prima è una
sintesi mon necessaria cioè tale che non connette necessariamente i suoi
termini. Kant ritiene che sia propria delle matematiche e la divide in
aggregazione, che riguarda le quantità estensive e coalizione che riguarda le
quantità in- tensive. La connessione invece è una sintesi ne- cessaria, per
es., quella dell’accidente con la so- stanza e dell’effetto con la causa. Essa
può sussistere anche fra termini eterogenei e può essere o fisica, che è la
connessione dei fenomeni tra di loro, o metafisica che è l’U. dei fenomeni
nella facoltà conoscitiva a priori (Crit. R. Pura, Analitica, libro II, cap. 2,
sez. 3, nota [B 202)). Questa diversità di significato si riscontra nel- l’uso
corrente del termine come in quello filosofico e teologico. La teologia parla
di una «U. ipo- statica » cioè sostanziale o necessaria tra la natura umana e
la natura divina nella persona del Cristo (v. INCARNAZIONE); ma parla anche
dell’U. mistica dell'anima con Dio, che non è nè sostanziale nè necessaria. La
filosofia parla dell’U. tra materia e forma e di sostanza e accidente, che sono
necessarie; e parla pure dell’U. dell’anima e del corpo che non è necessaria
(cfr. LEIBNIZ, Op., ed. Erdmann, pag. 127). Nel linguaggio comune sono passati
al- cuni di questi usi; e in più si parla, ad es., di «U. carnale »; o di U.
nel senso di concordia o di solidarietà; o di associazione per la difesa di
interessi comuni (U. operaia, ecc.). UNITÀ (gr. uovéc; lat. Unitas; ingl. Unity; franc.
Unité; ted. Einheit). 1. In senso
proprio, ciò che è mecessariamente uno, cioè indivisibile o nel senso che è
privo di parti o nel senso che le sue parti sono inseparabili dalla totalità e
insepa- rabili l’una dall’altra. Questo fu il concetto elabo- rato da
Aristotele, che distinse ciò che è uno dî per sè o essenzialmente da ciò che è
uno per acci- dente (Met., V, 6, 1015 b 16); definì l’U. (uovéc) come qualcosa
di indivisibile o assolutamente o quantitativamente (/bid., 1016 b 24) e
distinse quattro specie fondamentali di U.: 4) l’U. di una totalità continua
qual'è, per es., un organismo; b) l’U. di una forma o sostanza; c) l’U.
numerica; d) l’U. definitoria cioè l’U. di cose che hanno la stessa definizione
(/bid., X, 1, 1052a 15-1052b 15; cfr. V, 6, 1016a 1-1016a 35). Queste deter-
minazioni aristoteliche non sono perfettamente coe- 895 renti perchè, mentre
definiscono l’U. come indi- visibilità, includono tra le forme dell’U. la
continuità, che Aristotele stesso definisce come la divisibilità in parti a
loro volta divisibili (v. ConTINUO). Il loro significato è tuttavia abbastanza
chiaro. L’U., cioè l’uno per sè, è da un lato l’identità della forma o sostanza
con se stessa, dall’altro l’identità degli og- getti che hanno la stessa
definizione (identità degli indiscernibili), dall'altro ancora è l’elemento o
il principio del numero. Per ciò che riguarda il numero, questo concetto
dell’U. è durato a lungo (v. NuMERO). Ma delle altre due forme di U. distinte
da Aristotele, è so- prattutto l’U. formale o sostanziale quella che è stata di
regola assunta come concetto o ideale dell’U. nella tradizione filosofica. I
neoplatonici illustrarono ed esaltarono l’U. come condizione necessaria di ogni
essere, trascurando la distinzione aristotelica tra l’U. che è necessaria e
l’uno che non lo è. L’U. è sempre necessaria secondo Plotino: «Separati
dall'uno, gli esseri non ci sono più. L'esercito, il coro, il gregge non esisterebbero
se non fossero un esercito, un coro, un gregge. La casa e la nave non sono se
non hanno unità; giacchè la casa è una casa e la nave è una nave e se per-
dessero l’unità non sarebbero nè casa nè nave. Le grandezze continue
neanch’esse ci sarebbero se non avessero l’unità. Si divida una grandezza:
perdendo l’U., il suo essere si trasforma. Lo stesso accade per i corpi delle
piante e degli animali che, se per- dono l’U. e si dividono in molte parti,
perdono l'essere che possedevano e non sono più quel che erano; si mutano in
altri esseri che, in quanto sono, sono ciascuno un essere» (Enn., VI, 9, 1).
Queste considerazioni sono rimaste decisive per la storia ulteriore del
concetto di unità. Ripetute da Proclo (/nst. Theol., 21, ecc.) e da Dionigi
l’Areo- pagita (De div. nom., XIII, C-D) passarono nella filosofia medievale
(cfr. S. Tommaso, S. Th., 1, q. 11, a. 1); e furono riprese da Nicolò da Cusa
(De doct. ignor., I, 5) che identificò l’assoluta U. col massimo assoluto ed
entrambe le cose con Dio ed ispirò le corrispondenti speculazioni di Bruno
sull’argomento. Nell’U. consiste la sostanza delle cose (De /a causa, principio
et uno, V, in Op., ed. Guzzo e Amerio, pag. 409). Locke presenta la prima
istanza polemica contro il concetto dell’U. sostanziale. Egli sostiene che
«l’U. di sostanza» non serve a fare intendere le varie specie di identità, per
es., l’identità della so- stanza dell’uomo, della persona, ecc., e che tali
identità devono essere chiarite o spiegate indipen- dentemente l’una dall’altra
(Saggio, II, 27, 8). Ma Leibniz già ritornava alla difesa dell’identità so-
stanziale «l’unica vera e reale U.» (Nouv. Ess., II, 27, 4). E Wolff ridefiniva
nel senso tradizionale 896 l’U., intendendo per essa « l’inseparabilità di
quelle cose mediante le quali un ente è determinato» (Ont., $ 328); la
determinazione dell’ente essendo nient'altro, secondo Wolff, che la ragione o
la forma dell’ente (/bid., $ 116). Il ruolo determinante che Kant affida alla
sintesi (v.) in tutti i gradi e le forme della conoscenza e in generale
dell'attività umana ubbidisce allo stesso favore accordato alla nozione di
unità. Questa è in generale per Kant sinonimo di sintesi o di connessione
necessaria. Il suo carattere proprio è, in altri termini, l’insepa- rabilità di
ciò che viene unificato o sintetizzato. A fondamento di tutti i gradi o le
forme di U., che costituiscono le forme e i gradi del conoscere, Kant pone
«l'U. oggettiva della percezione» la quale si manifesta con l’uso della copula
é in senso oggettivo. Questa copula designa secondo Kant «I’U. necessaria » del
soggetto con il predicato e la relazione di questa U. necessaria con l’apper-
cezione originaria. Questo non vuol dire che le rappresentazioni legate insieme
della copula sono « necessariamente subordinate l’una all’altra +; ma vuol dire
che esse sono « subordinate l’una all’altra mediante l’U. necessaria
dell’appercezione» (Cri- tica R. Pura, $ 19). Come si vede, l’uso kantiano del
concetto di U. è, rigorosamente, quello tradi- zionale: Kant trasferisce all'io
penso o « U. neces- saria dell’appercezione » il fondamento dell’U. ne-
cessaria degli oggetti; ma la nozione stessa « U. necessaria » è quella
aristotelica. Nè da questa no- zione si distacca il concetto che ebbe Hegel
dell’U.: di cui lamentava che essa potesse intendersi come « riflessione
soggettiva » e riteneva invece che do- vesse intendersi nel senso di «
inseparazione e in- separabilità ». Ma questo è appunto il concetto
aristotelico dell’U. (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, n.
2). L’uso del termine che Hegel fece lungo tutta la sua opera per indicare il
terzo momento della dialettica, quello dell’U. o identità degli opposti, è
perfettamente conforme a questo concetto. Nell’uso filosofico corrente, il
termine non sempre conserva il suo significato proprio di indivisibilità o
inseparabilità cioè di connessione necessaria. Tut- tavia questo significato è
presente quando si parla dell'U. di Dio o del mondo o della natura o della
storia; e perfino quando si parla di U. ideali o normative, come « l’U.
dell’umanità » o «l’U. della famiglia », ecc. 2. In correlazione con il
significato precedente, i filosofi hanno talora chiamato U. gli elementi
costitutivi o i princìpi generali dell’essere. Sap- piamo che i Pitagorici
ritenevano in questo senso che «I°U. è il principio di tutte le cose » (Dioc.
L., VIII, 25; StoBEO, Ec/., I, 2, 58). Nello stesso senso il neoplatonismo
parlava di Monadi o di Enadi UNITARISMO (ProcLo, /nst. Theol., 64) e Leibniz
chiamò Mo- nadi (v.) le sostanze spirituali che egli considerò come elementi
del mondo. Il termine, in questi usi, conserva il significato di sostanza
indivisibile. 3. In senso generico ed improprio lo stesso che uno (v.).
UNITARISMO (ingl. Unitarianism; franc. Uni- tarisme; ted. Unitarismus, Unitismus).
1. L'indirizzo religioso che insiste sull’unità di Dio, in opposizione alla
formula trinitaria del cristianesimo. Per quanto si riconnetta a vecchie eresie
religiose, 1’U. moderno ha trovato la sua prima forma nel socinianesimo (v.) e
in seguito ha costituito l’indirizzo religioso più tollerante e liberale del
mondo moderno. Questo indirizzo si è quasi esclusivamente sviluppato in
Inghilterra e in America. In Inghilterra fu costi- tuita nel 1825
l'Associazione Unitarista dalla quale deriva il nome che l’indirizzo ha
assunto, anche fuori dell’associazione stessa o in numerose altre associazioni
in Inghilterra e in America. Confronta W. E. CHANNING, Works, 1886; Unitarian Christ- ianity and
Other Essays, ed. I. H. Bartlett, 1957; A. A. BowMAan, The Absurdity of
Christianity and Other Essays, ed. C. W.
Hendel, 1958. 2. Specialmente in tedesco il termine equivale a panteîsmo (v.).
Dice Fichte: « Se si dovesse doman- dare il carattere della dottrina della
scienza ri- spetto all’unitismo (?v xal màv) e al dualismo, la risposta è: essa
è unitismo nel suo aspetto ideale giacchè sa che a fondamento di tutto il
sapere sta l’eterno Uno che è al di là di ogni sapere; ed è dualismo
nell’aspetto reale, in quanto pone il sa- pere come reale» (Wissenschaftslehre,
1801, $ 32, in Werke, II, pag. 89). UNIVERSALE (gr. xa06Xo0u; lat. Universalis;
ingl. Universal; franc. Universel; ted. Allgemein). Il termine ha avuto due
significati principali: 1° uno oggettivo, per il quale esso indica una deter-
minazione qualsiasi che può appartenere o può essere attribuita a più cose; 2°
l’altro soggettivo, per il quale indica la possibilità di un giudizio (sia che
concerna il vero e il falso, sia che con- cerna il bello o il brutto, il bene e
il male, ecc.) di valore per tutti gli esseri ragionevoli. 1° Il primo
significato è quello classico, per il quale Aristotele dice che Socrate è stato
lo sco- pritore dell’universale (Mer., XIII, 4, 1078 b 28). In questo senso,
l’U. può essere considerato nel duplice aspetto ontologico e logico. Ontologica-
mente l’U. è la forma o l’idea o l’essenza che può essere partecipata da più
cose e che dà alle cose stesse la loro natura o i loro caratteri comuni. L’U.
ontologico è la forma o specie di Platone (cfr., ad es., Parm., 132 a) o la
forma o la sostanza di Aristotele: il quale pertanto affermava che la scienza
c’è solo dell’U. (De an., II, 5, 417 b 23). UNIVERSALE Logicamente l’U. è
secondo Aristotele « ciò che può essere per sua natura predicato di più cose?
(De Int., 7, 17a 39): una definizione la quale è stata pressochè universalmente
accettata nella storia della filosofia. Fu all’U. in questo senso che i logici
me- dievali riconobbero il carattere di segno (v.) e la funzione della
supposizione (v.). Era questo l’U. che M. Nizolio interpretava come un tutto
collettivo o multitudo rerum singularium, sicchè la proposizione «l’uomo è
animale» avrebbe significato «tutti gli uomini sono animali » (De veris
principiis, I, 6); al che Leibniz opponeva che esso è invece un tutto
distributivo, sicchè quella proposizione significa che questo o quell’uomo,
quale che sia, è animale (Op., ed. Erdmann, pag. 70). Leibniz riproduceva così
sostanzialmente su questo punto la dottrina nominalistica della EDO dell'U.
(OcKHAM, Summa Log., I, 70). È chiaro che I’U. in questo senso non è che un
altro nome per indicare il con- cetto, il segno o il significato: sicchè i
problemi ad esso connessi devono essere considerati sotto queste voci.
Dall'altro lato, lo status ontologico dell’U. dava luogo alla cosiddetta
disputa sugli U. che ha occu- pato buona parte della filosofia medievale e in
qualche modo ha continuato e continua nella filo- sofia moderna (v. UNIVERSALI,
DISPUTA DEGLI). Come si è detto, l’U. nel significato ontologico è la forma o
la sostanza delle cose: un concetto che non è soltanto aristotelico e
medievale. Anche Locke osservava che il fondamento della universa- lità delle
proposizioni può essere soltanto la so- stanza, con la connessione necessaria,
che essa im- plica, tra le sue determinazioni, e che dove manca la conoscenza
della sostanza l’universalità non è rigorosa (Saggio, IV, 6, 7). Analogamente
Kant osservava che l’universalità empirica non è mai rigorosa o vera e che
l’universalità autentica bi- sogna che sia fondata sulle forme 4 priori della
conoscenza: cioè su quelle forme che entrano a costituire le cose stesse come
fenomeni (Crir. R. Pura, Intr., II). Hegel a sua volta insisteva sul- l’unità
dell’U. e del particolare, che è l’U. con- creto o Idea o Concetto reale. AW’U.
astratto, che è contrapposto al particolare e all’individuo, egli pertanto
contrapponeva l’U. concreto che è l’es- senza o la natura positiva del
particolare (Wissen- schaft der Logik, II, libro III, sez. I, cap. I, A; trad.
ital., III, pag. 42 sgg.). E scorgeva il compito della filosofia per l’appunto
nella conoscenza dell’U. concreto: « Compito della filosofia è di dimostrare,
contro l’intelletto, che il vero, l’Idea non consiste in vuote generalità ma in
un U. che in se stesso è il particolare, il determinato » (Geschichte der
Philo- sophie, ed. Glockner, I, pag. 58). Nello stesso senso, Croce scriveva: «
Se il concetto è U. trascendente 87 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 897
rispetto alla singola rappresentazione, presa nella sua astratta singolarità, è
d’altra parte immanente in tutte le rappresentazioni e perciò anche nella
singola » e pertanto identificava il concetto stesso con la ragione o Idea
(Logica, 1920, pag. 28). La «concretezza dell’U.» di cui parlano gli scrittori
idealisti non è che lo sfarus ontologico che all’U. era stato riconosciuto
dalla metafisica tradizionale. AIl’U. ontologico si ricollegano pure alcuni
altri usi del termine universale. Così, la «storia U.» è la storia che ha per
oggetto la forma o l'ordine complessivo del mondo umano (v. StoRIA). La
«gravitazione U. + è una forza o un principio che regge la totalità del mondo e
così via. In usi simili del termine il suo significato oggettivo è unito con la
sua portata ontologica. 2° Nel secondo significato, U. è ciò che è o dev'essere
valido per tutti. Il concetto dell’U. in questo senso è nato dal dominio
dell’analisi dei sentimenti e specialmente dei sentimenti estetici (v. Gusto).
Già Hume si era proposto di cercare una regola del gusto, cioè una regola «
mediante la quale possano venire accordati i vari sentimenti degli uomini»
(Essays, I, pag. 268 sgg.). Ma è stato Kant colui che, oltre ad adoperare
questo tipo di universalità nel dominio dell'estetica, l’ha esteso al dominio
morale e lo ha chiarito nei suoi caratteri specifici, definendolo come validità
co- mune o universalità soggettiva. Per ciò che ri- guarda la sfera estetica,
Kant vedeva nel giudizio di gusto semplicemente «la necessità oggettiva
dell'accordo del sentimento di ognuno con il nostro stesso sentimento + e in
tal senso definiva il bello come « un piacere necessario » cioè un pia- cere
che tutti devono provare allo stesso modo (Crit. del Giud., $ 22). Nel dominio
dell'etica, Kant affermava che una legge pratica è tale solo se «è valida per
la volontà di ogni essere razio- nale » (Crit. R. Prat., $ 1); e faceva
dell’univer- salità soggettiva, cioè della possibilità di una massima di valere
come legge per tutti gli esseri razionali, il criterio per giudicare se una
massima è o non è una legge morale (Grundlegung der Mera- physik der Sitten,
II). Ma egli si soffermava anche ad illustrare la differenza fra questa
universalità sog- gettiva e l’universalità oggettiva. Diceva: «Ogni giudizio
oggettivamente U. è anche sempre sog- gettivo, vale a dire che, quando il
giudizio vale per tutto ciò che è compreso in un dato concetto, vale anche per
ognuno che si rappresenti un og- getto secondo quel concetto». Tuttavia, non è
sempre vero l’inverso, cioè non ogni giudizio che ha universalità soggettiva o
validità comune è anche oggettivamente U.; e questo è il caso del-
l’universalità estetica che possiede l’universalità soggettiva ma non quella
oggettiva (Crir. de/ Giud., 898 $ 8). Da Kant in poi l’universalità soggettiva
è di- ventata un luogo comune della filosofia; come è di- ventato un luogo
comune la nozione di validità (v.). Forse più esattamente questa specie di U.
viene oggi indicato con il termine di intersoggettivo (v.). Il riferimento
all’intersoggettività costituisce il si- gnificato del termine in molte
espressioni correnti come « lingua U.» o «educazione U.» o « consenso U.»,
«amore U.», ecc. In altre espressioni, il termine può avere sia il significato
soggettivo sia il signifi- cato oggettivo logico: per es., «genio U.» che si
può intendere come il genio che tutti debbono riconoscere o riconoscono come
tale; o come il genio che è tale nei confronti di qualsiasi ramo dello scibile.
UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI (inglese Controversy about Universals; franc.
Querelle des universaux; ted. Universalienstreit). S’intende con questo termine
la disputa sullo status ontologico degli U. (generi e specie) che s’iniziò
nella Scola- stica del sec. xI, rimanendo caratteristica di tutta la filosofia
medievale, e continuando poi, con forme appena mutate, nella filosofia moderna.
La disputa fu impostata secondo un passo della /sa- goge (Introduzione) di
Porfirio alle Categorie di Aristotele e i relativi commenti di Boezio. Il passo
di Porfirio è il seguente: « Intorno ai generi e alle specie non dirò qui se
essi sussistano oppure siano posti soltanto nell’intelletto, nè, nel caso che
sus- sistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili
o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni » (Zsag., 1).
Delle alternative indicate da Porfirio in questo passo, una sola non trova
riscontro nella storia della di- sputa: quella secondo la quale gli U.
sarebbero realtà corporee. In compenso, un'alternativa che Porfirio non aveva
previsto si è verificata storica- mente, almeno a quanto dicono: cioè che l’U.
non esiste neppure nell’intelletto e sia soltanto un nome, un flatus vocis. È
questa la soluzione at- tribuita a Roscellino da S. Anselmo (De fide Trini-
tatis, 2) e da Giovanni di Salisbury (Metal., II, 13; Policrat., VII, 12). Le
soluzioni che nella Scolastica e dopo la Scolastica sono state date di questi
problemi sono molte numerose; e spesso si di- stinguono l’una dall’altra solo
per un capello. Realismo (v.) e nominalismo (v.) sono le soluzioni
fondamentali; ma già Ockham enumerava nella con- futazione sistematica che
volle dare del realismo, sei forme fondamentali di esso (/n Sent., I, d. 2, q.
4-8; Quodl., V, q. 10-14; Summa Log., I, 15-17; cfr. ABBAGNANO, G. di Ockham,
II, $ 8-11). Ma la cosa fondamentale per intendere sia l’origine storica della
disputa sia la portata per- manente che essa può avere, è che le sue due
soluzioni fondamentali, realismo e nominalismo, UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI
corrispondono ai due indirizzi fondamentali della logica antica e medievale,
quello platonico-ari- stotelico e quello stoico. Questi due indirizzi cor- rispondono
a quelle che nello stesso Medio Evo furono chiamate la logica antica e la
logica moderna e più tardi formalismo e terminismo (v. TERMINI- smo). Il primo
di questi indirizzi insisteva sulle dottrine logiche tradizionali, il secondo
sulla dot- trina della supposizione (v.) e sui ragionamenti antinomici. La
trattazioni logiche medievali giu- stappongono i due tronchi dottrinari; ma
l’incon- ciliabilità e l’antagonismo di questi si manifesta appunto sulla
disputa degli U. che pertanto de- nunzia la presenza attiva, nella Scolastica,
di una tradizione logica anti-aristotelica, che è appunto quella stoica,
attinta attraverso le opere di Boezio e di Cicerone. Realismo e nominalismo
costituiscono pertanto le due soluzioni tipiche e storicamente originarie del
problema. Per il realismo cioè per la tradizione logica platonico-aristotelica,
l’U. è, oltre che con- ceptus mentis, l’essenza necessaria o la sostanza delle
cose. Per il nominalismo, cioè per la tradi- zione stoicizzante, l’U. è un
segno delle cose stesse. Il realismo e il nominalismo medievale costi- tuiscono
pertanto le due alternative che la dot- trina del concetto ha sempre incontrato
nella sua storia (v. CONCETTO). Più specificamente, per quel che riguarda il
realismo, si possono distinguere tre forme fonda- mentali di esso che potremo
chiamare rispetti- vamente quella platonizzante, quella aristotelica e quella
semi-aristotelica. La forma platonizzante del realismo è attribuita da Abelardo
al suo maestro Guglielmo di Champeaux (sec. x1): l’U. sarebbe la sostanza e gli
individui costituirebbero acci- denti di questa sostanza (ABELARDO, (Euvres,
ed. Cousin, pag. 513). La soluzione aristotelica è quella che si trova più
comunemente difesa nella Scolastica ed è espressa da S. Tommaso dicendo che 1’U.
è in re come forma o sostanza delle cose, post rem come concetto
nell’intelletto e anse rem nella mente divina come Idea o modello delle cose
create (/m Senr., II, d. 3, q. 2, a. 2). Questi tre U. non fanno che uno cioè
si identificano con l’essenza, sostanza o forma della cosa, che esiste ab
aeterno nell’intelletto divino e che l'intelletto umano astrae dalla cosa
stessa (S. 7h., I, q. 85, a. 1). Infine, soluzione semi-aristotelica può chia-
marsi quella di Duns Scoto, secondo il quale il vero e proprio U. esiste solo
nell’intelletto, ma esiste nelle cose una natura comune distinta non
numericamente ma solo formalmente dall’indivi- dualità delle cose (Op. Ox., II,
d. 3, q. 6, n. 15). Il carattere proprio di questa soluzione sta nel principio
della distinzione formale (v. DISTINZIONE) UNIVOCO ED EQUIVOCO che è una delle
caratteristiche della filosofia di Duns Scoto. Dall’altro lato il nominalismo
presenta una mag- giore uniformità. Se si prescinde dall’accennata tesi di
Roscellino (della quale per altro non esistono documenti convincenti) il
nominalismo, da Abe- lardo a Ockham, ha sostenuto sempre le stesse tesi
fondamentali, la riduzione dell’U. alla fun- zione logica della predicabilità,
dividendosi solo sulla realtà psichica attribuita o meno all'U. stesso. Ockham
si dimostra indifferente nei confronti di quest’ultimo problema: nega,
ovviamente, che l'U. sia una species (v.), ma ritiene indifferente che lo si
identifichi con l'atto dell'intelletto o che addi- rittura si neghi che abbia
una realtà qualsiasi nel- l'anima (/n Sent., I, d. 2, q. 8, E). Il suo
carattere fondamentale è la sua funzione di segno, cioè la supposizione (v.).
Questi rimasero i capisaldi della logica terministica dopo di Ockham; e una
nozione analoga dell’U. è quella che compare nella dottrina del concetto che
veniva difesa nell'empirismo in- glese a partire dal sec. xvIr e cioè da Locke,
Ber- keley e Hume (v. CONCETTO, 2). UNIVERSALISMO (ingl. Universalism; fran-
cese Universalisme; ted. Universalismus). x. In senso teologico la dottrina che
Dio vuol salvare tutti gli uomini e che pertanto non esiste una qualsiasi pre-
destinazione alla dannazione. È la dottrina soste- nuta fra gli altri da
Leibniz che parla in questo senso del contrasto tra « universalisti » e «
partico- laristi » (7héod., I, $ 80). 2. In senso etico, ogni dottrina
anti-individuali- stica cioè ogni dottrina che afferma la subordina- zione
dell’individuo a una comunità qualsiasi (stato, popolo, nazione, umanità,
ecc.). UNIVERSALIZZAZIONE. V. GENERALIZ- ZAZIONE. UNIVERSO (gr. tè rav; lat.
Universum; in- glese Universe; franc. Univers; ted. Universum). 1. Un qualsiasi
tutto: per es., « U. del discorso » o «U. delle stelle fisse» o «U. visibile ».
2. Il tutto della natura fisica, a prescindere dal suo ordine. Questo è il significato
che al termine dettero Aristotele (Mer., V, 26, 1024a 1) e gli Stoici (StoBEO,
Ecl., I, 21, pag. 442 sgg.). 3. Lo stesso che mondo. Questo uso prevale presso
i moderni (v. MonDo; TOTALITÀ; TUTTO). UNIVERSO DEL DISCORSO (ingl. Uni verse
of Discourse; franc. Univers du discours). L'espressione fu introdotta da De
Morgan (Forma! Logic, 1847, pag. 37) e diffusa da Boole (Laws of Thought, 1854,
III, $ 4) per indicare in generale « l’estensione del campo dentro il quale si
trovano tutti gli oggetti del nostro discorso ». Più precisamente, in seguito,
si designò con questo termine, nell’algebra della logica, una classe 899 non
vuota dalla quale, e solo dalla quale, siano tratti tutti gli elementi con i
quali siano costituite tutte le classi su cui si opera il calcolo. Va da sè che
in tal modo l’U. del discorso è la somma lo- gica di tutte le classi che si
possono formare con tali elementi. Viene indicato con il simbolo « V» oppure
«1». Nell’interpretazione proposizionale esso sarà costituito dalla disgiunzione
(somma logica) di tutte le proposizioni sulle quali opera il calcolo, oppure
dalla congiunzione (prodotto lo- gico) di tutte le proposizioni vere. Nella
Logica delle relazioni, l’U. del discorso è, ancora, formato da tutti gli
elementi che possono entrare nelle relazioni considerate: in tal caso deve
contenere almeno due elementi se si pren- dono in considerazione solo relazioni
diadiche, almeno tre se si prendono in considerazione anche relazioni
triadiche... almeno n se si prendono in considerazione relazioni n-adiche. La
relazione-U. è la relazione «a v 5» che vige tra tutte le coppie possibili di
elementi dell’universo. Nella Logica odierna questo concetto ha per- duto di
importanza: qualora venga usato, lo è nel senso sopra definito. In pratica però
si usa spesso l’espressione « U. del discorso » per desi- gnare l’insieme di
elementi (termini e proposi- zioni) che costituiscono il campo di una data di-
sciplina. G. P. UNIVOCO ED EQUIVOCO (gr. suvevupoc, sudvupog; lat. Univocus,
Aequivocus; ingl. Univocal, Equivocal; franc. Univoque, Équivoque; ted. Ein-
deutig, Aequivok). Questi due termini hanno avuto definizioni diverse a seconda
che sono stati riferiti all'oggetto o al concetto (o nome). 1. Aristotele li
riferì all'oggetto e intese per uni- voci (o sinonimi) gli oggetti che hanno in
comune sia il nome sia la definizione del nome: così, ad es., sia l’uomo che il
bue si dicono animali. Chiamò invece equivoci (od omonimi) gli oggetti che
hanno in co- mune il nome mentre le definizioni richiamate dal nome sono
diverse: in questo senso si chiama animale sia l’uomo sia un disegno (Car., I,
1a 1-11). Queste definizioni ricorrono frequentemente nella scola- stica (per
es., Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01) e si mantengono anche in logici più
recenti (ad es., Jungius, Logica Hamburgensis, 1, 2, 4-9). 2. La logica
terministica ritenne «improprio» il riferimento dei due termini agli oggetti e
ritenne che essi si dovessero riferire propriamente soltanto ai segni e cioè ai
concetti o nomi. Da questo punto di vista, le definizioni di Ockham sono le
seguenti. «U. è o la voce o il segno convenzionale che corri- sponde a un solo
concetto o, più strettamente, è ciò che si può predicare di per sè di più cose
o è il pronome dimostrativo di una cosa. Eguivoco dall’altro lato è il nome
che, significando più cose, 900 non è subordinato a un unico concetto ma è
unico segno di più concetti o intenzioni dell’anima. L’U. può derivare o dal
caso, come accade quando il nome Socrate viene imposto a più uomini, o da una
deliberazione quando si impone un certo nome a certe cose e lo si subordina a
un solo concetto e poi per la similitudine di questo concetto con altri si
estende ad altri il nome stesso» (Summa Log., I, 13). Le definizioni
terministiche dei due termini sono quelle che si danno anche oggi dei termini
stessi. Le discussioni medievali sulla natura dell’univocità avevano nel Medio
Evo un’immediata risonanza teologica, per la disputa tra i sostenitori
dell’uni- vocità e quelli dell’analogicità dell’essere (v. ANA- LOGIA). UNO (gr.
ele; lat. Unus; ingl. One; franc. Un; ted. Ein). 1. L'elemento di un insieme o
di una classe qualsiasi: come quando si dice «l’uomo è un ani- male ». A questo
proposito, si dice che una relazione è molti ad U. se per ogni x del suo campo
vi è un solo y che abbia la relazione stessa ad x. Si dice che essa è U. a
molti se per ogni y dominante inverso del suo campo vi è un unico x che abbia
la relazione stessa ad y. Si dice infine che la relazione è U. a U. se essa e
il suo inverso sono uno a molti e molti a uno. In questo caso si parla anche di
una corri- spondenza di U. a U. (A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic,
n. 556, 564). 2. Ciò che è unico, come quando si dice « Dio è U.» (v. UNICO).
3. L’unità nel senso proprio del termine (vedi UNITÀ). 4. Il numero U. cioè il
primo termine nella serie naturale dei numeri o in generale il primo termine di
una serie qualsiasi. 5. L’U. ipostatico o teologico cioè Dio o il Bene come
primo termine del processo dell’ema- nazione e ultimo termine del processo del
ritorno. In questo senso già Eraclito diceva «da tutte le cose l’U. e dall’U.
tutte le cose» (Fr., 10 Diels; cfr. EMPEDOCLE, Fr., 17, 1). Ma furono
soprattutto i Neoplatonici a adoperare il termine per designare la divinità o
il bene in quanto è trascendente rispetto all’essere e all’intelligenza e
quindi al di là d’ogni molteplicità. « Bisogna, diceva Plotino, che prima di
tutte le cose ci sia qualcosa di semplice e di di- verso da tutte quelle che
vengono dopo di essa; essa è in se stessa, non si mescola con quelle che la
seguono ma può essere in qualche modo presente alle altre: ed è veramente 1°U.
non qualcosa che sia una, ma semplicemente l’U.» (Enn., V, 4, 1). L’unità del
primo principio deve intendersi così rigorosa- mente che il nome stesso di « U.
» appare a Plotino improprio. « Questo nome U. non contiene forse altro che
l’esclusione del molteplice. I Pitagorici UNO lo designavano simbolicamente
come Apollo per indicare tra loro la negazione dei molti... Si può adoperare
questa parola per cominciare la ricerca con una parola che designi la massima
semplicità; ma infine bisogna negare questo stesso attributo che non merita più
degli altri di designare quella natura che non può essere attinta dall’udito nè
compresa da colui che la nomina ma soltanto da colui che la contempla» (2bid.,
V, 5, 6). Queste speculazioni sull'U. sono state frequentemente riprese dalla
teologia negativa e dal panteismo. Esse sono di solito accompagnate, in Plotino
e negli altri, dall’esaltazione della funzione dell’unità in tutto il dominio
del conoscere e dell’essere (v. UNITÀ). Così accadde nelle speculazioni plato-
niche del Rinascimento. Così accadde anche nel Romanticismo, dal quale
l’U.-Tutto, fu assunto come il principio del mondo coincidente con il mondo
stesso: come appare in modo più esplicito nella filosofia della natura di
Schelling (Werke, I, III, pag. 276). Hegel a sua volta, che vedeva la
concretezza nell’unità (v.), scorgeva nell’U. l’astra- zione o l’immediatezza e
insisteva sulla relazione dell’U. stesso con i molti che illustrava fantasti-
camente con le nozioni, arbitrariamente manipolate, dell’attrazione e della
repulsione (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. III, B; trad. ital.,
pag. 181 seguenti). Il concetto di U. in questo senso viene spesso utilizzato
sia dalle dottrine teistiche sia dalle dottrine panteistiche. Tra coloro che ne
hanno fatto un uso più esteso e rigoroso, si deve ricordare Piero Martinetti
(La libertà, 1928, pag. 490; Ragione e fede, 1942, pag. 402), per quanto nella
speculazione di Martinetti si senta l’effetto della separazione radicale tra
Dio come U. assoluto e realtà empi- rica e molteplice, su cui aveva insistito
Africano Spir (Denken und Wirklichkeit, 1873). UOMO (gr. &vpwros; lat. Homo; ingl. Man; franc.
Homme; ted. Mensch). Le definizioni dell’U. possono
essere raggruppate sotto i titoli seguenti: 1° definizioni che si avvalgono del
raffronto tra ’U. e Dio; 2° definizioni che esprimono una carat- teristica o
una capacità propria dell’U.; 3° defini- zioni che esprimono, come propria
dell’U., la sua capacità di autoprogettarsi. 1° Le definizioni del primo gruppo
sono di natura religiosa o teologica, ma possono anche trovarsi in dottrine che
di religioso e teologico non hanno nulla. Ogni definizione del genere si rifà
al detto della Genesi «E Dio disse: facciamo l’U. a immagine e somiglianza
nostra» (Gen., I, 26). Questo detto ha servito spesso di punto di partenza per
le speculazioni sull’anima e special» mente sulle partizioni dell’anima (v.
ANIMA): in realtà esso è un’esplicita definizione dell’U. e come tale fu
assunto dai teologi della Riforma. D'altronde UOMO 901 già Aristotele, parlando
della vita contemplativa, aveva parlato di un «elemento divino» dell’U. che di
quanto eccelle, nel composto che costituisce I°U., di tanto rende l’U. virtuoso
e beato (Et. Nic., X, 6, 1177b 26). Ma questo tipo di definizione dell’U. si è,
nella tradizione filosofica, costantemente ispirato alla Bibbia. Sull’U. come
immagine di Dio insistettero Calvino (/nstitutio, I, 15, 8) e Zuiglio (Deutsche
Schriften, I, 56); e lo stesso concetto attraverso le ricche amplificazioni di
Jacob Boehme (cfr., per es., Aurora oder die Morgenròthe im Aufgange, VI, 1)
passò nella filosofia romantica tedesca. Spinoza diceva che «l’essenza dell’U.
è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio » (Er., II, 10,
Corol.). Nelle lezioni sulla De- stinazione del dotto nel 1794 Fichte additava
come compito dell’U. quello di adeguarsi all’unità e all’immutabilità dell'Io
assoluto, secondo la mas- sima «agisci in modo da poter considerare la mas-
sima della tua volontà come legge eterna per te» (Uber die Bestimmung des
Gelehrten, 1794, 1); ma l’Io assoluto è il principio o la sostanza del- l’U., e
la sua unità e immutabilità non è che l’unità e l’immutabilità di Dio: sicchè
il miglior modo di esprimere la dottrina di Fichte in proposito è che l’U., nel
suo principio ideale, è Dio e deve sforzarsi di diventar tale. Analogamente,
per Hegel l’U. è essenzialmente Spirito e lo Spirito è Dio. «L’U., dice Hegel,
per quanto considerato per se stesso finito, è anche immagine di Dio e sorgente
dell’infinità in se stesso: giacchè è scopo a se stesso, ed ha in se stesso il
valore infinito e la destinazione all’eternità » (Philosophie der Geschichte,
editore Glockner, pag. 427). Il cristianesimo è definito da Hegel appunto come
la posizione della « unità dell’U. e di Dio +» (/bid., pag. 416). In queste de-
finizioni dell’U. il rapporto dell’U. con Dio è assunto in modo positivo. Ma lo
stesso rapporto può essere assunto in modo negativo o invertito, rimanendo
sostanzialmente lo stesso. Feuerbach, ad es., ritiene che I’U. si riveli e si
definisca a se stesso nel suo concetto di Dio. « L’essere assoluto, il Dio
dell’U., è l’essere stesso dell’U. », egli dice (Wesen des Christentum, $ 1).
Ciò che l’U. pensa di Dio, è la definizione dell’U.: 4 Pensi tu l’infinito?
Ebbene tu pensi e affermi l’infinità della potenza del pensiero. Senti tu l’in-
finito? Tu senti e affermi l’infinità della potenza del sentimento » (/bid.).
Le tesi dell’esistenza o del- l'inesistenza di Dio non influisce su queste
defi- nizioni dell’U., che rimangono ancorate al raffronto tra l’U. e Dio. Così
Nietzsche, dopo aver fatto proclamare da Zaratustra che «Dio è morto», gli fa
annunziare il Super U., come ciò che è al di là dell’U. stesso. «La grandezza
dell’U. sta in questo, che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che può farlo
amare è il fatto che egli è un pas- saggio e un tramonto» (Also sprach
Zarathustra, Prol., $ 4). In un senso analogo a quello di Feuer- bach e
Nietzsche, ma con in più il concetto dello scacco cui l’U. è destinato, Sartre
ha detto: « Se l’U. possiede una comprensione preontologica dell'essere di Dio,
non sono nè i grandi spettacoli della natura, nè la potenza della società che
gliela hanno conferita: ma Dio, valore e scopo supremo della trascendenza,
rappresenta il limite permanente a partire dal quale I’U. si fa annunciare ciò
che egli è. Essere U., è tendere a Dio; o, se si preferisce, l’U. è
fondamentalmente desiderio d’essere Dio » (L’étre et le néant, pag. 653-54). 2°
Le definizioni che esprimono una caratte- ristica o una capacità ritenuta
propria dell’U. sono numerose e di esse la prima e più famosa è quella secondo
la quale I’U. è « animale ragione- vole ». Questa definizione esprime bene il
punto di vista dell’Illuminismo greco e lo spirito della filosofia platonica e
aristotelica. Ma essa non si trova esplicitamente in Platone, il quale avrebbe
detto soltanto che l’U. è animale «capace di scienza » (Def., 415a): una
determinazione che Aristotele ripete considerandola come il proprio dell’U.
(7op., V, 4, 133a 20). Ma nella politica Aristotele afferma che «l’U. è l’unico
animale che abbia la ragione » e che la ragione serve a in- dicargli l’utile e
il dannoso, perciò anche il giusto e l’ingiusto (Po/., I, 2, 1253a 9; cfr. VII,
13, 1332 b, 5). Accettata dagli Stoici, (SEsTo EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 26;
StoBgo, Ecl., II, 132) questa de- finizione è rimasta classica e ad essa si
rifanno abitualmente gli scrittori medievali (cfr., ad es., S. TomMaso, S. 7h.,
II, 1, q.71, a. 2; II, 2, q.34, a. 5). È questa la sola definizione entrata
nella comune cultura; ed anche i filosofi si rifanno ad essa per variarla
opportunamente in conformità del senso specifico che essi dànno alla parola ra-
gione. Ad es., la definizione di Rosmini «I’U. è un soggetto animale dotato
dell’intuizione dell’es- sere ideale indeterminato» (Antropologia, $ 23) esprime
la stessa cosa della definizione tradizionale perchè, secondo Rosmini, la «
percezione dell’essere ideale indeterminato » è la ragione (Nuovo Saggio, $
396). La definizione di De Bonald, che fu per un certo tempo famosa, « l’U. è
un’intelligenza servita da organi » (Cuvres, 1864, I, pag. 41; III, pag. 149)
non è altro anch’essa che una parafrasi della de- finizione tradizionale in
quanto in essa il « servizio degli organi» è l’equivalente della « animalità ».
E l’ancora più famosa definizione di Pascal « L’U. non è che un giunco, il più
debole della natura, ma è un giunco pensante» (Pensées, 347) può anch’essa
essere considerata come una variante della definizione tradizionale: una
variante nella 902 quale la connotazione della fragilità naturale dell’U. ha
preso il posto della «animalità». Dall’altro lato Cartesio aveva fatto a meno
della animalità e aveva ridotto l’U. al pensiero, come coscienza immediata: «Io
non sono, precisamente parlando, che una cosa che pensa cioè uno spirito, un
intelletto o una ragione » (Med., II). Ma l’ani- malità, nella definizione
tradizionale, serviva da un lato a spiegare l’ovvia limitazione dell’attività
pen- sante dell’U., dall’altro a riconoscere nell’U. un essere terrestre o
mondano, che ha bisogno di organi. Nel senso cartesiano Husserl ha detto: «Se
l’U. è un essere razionale (animal rationale) lo è solo nella misura in cui
tutta la sua umanità è un'umanità razionale, nella misura in cui è la-
tentemente orientato verso la ragione oppure aper- tamente orientato verso l’entelechia
che si è rivelata a se stessa e guida ormai coscientemente, per una necessità
essenziale, il divenire umano » (Die Xrisis der europdischen Wissenschaften und
die transzen- dentale Phanomenologie, 1954, $ 6). L’ultima e più aggiornata
versione della vecchia definizione è quella dell’U. come animale simbolico cioè
come animale che parla (CASSIRER, Essay on Man, cap. II; trad. ital., pag. 49).
Questa caratteristica era in verità presente allo stesso termine greco che si-
gnifica ragione: logos infatti è il discorso razionale o la ragione che si fa
discorso. Nella filosofia con- temporanea, la definizione serve ad esprimere il
potere condizionante del linguaggio cioè del com- portamento segnico, in tutte
le attività dell'uomo. Questo potere difficilmente potrebbe essere esage- rato;
e la definizione in esame è a giusto titolo tra le più diffuse e accettate
nella filosofia contem- poranea. Essa tuttavia non può essere intesa a
prescindere da quella caratteristica della autopro- gettabilità che il terzo gruppo
di definizioni rico- nosce all’uomo. Una seconda e più specifica
determinazione, che è stata spesso assunta come definizione dell’U., è la
natura politica cioè socievole dell’U. stesso. Già menzionata da Platone (Def.,
415a) questa determinazione è strettamente legata, da Aristotele, con la natura
razionale dell’uomo. « Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi
non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città ma è o
una belva o un Dio» (Pol. I, 2, 1253 a 27). Ovviamente, per Aristotele, razio-
nalità e politicità dell’U. sono strettamente con- nesse; e tali rimangono per
tutti coloro che in se- guito faranno capo a questa definizione. Hobbes che
combatteva questa definizione la intendeva come se essa significasse: « L’U. è
adatto sin dalla nascita a vivere socialmente » e affermava che in questo senso
essa è falsa, perchè l’U. diventa adatto ad associarsi solo per educazione (De
Cive, I, 2, UOMO e nota). Ma il significato più ovvio della definizione in
esame è che l’U. non può fare a meno di vivere in società e in questo senso
neppure Hobbes dubita della fondamentale esattezza di essa. Questa defi-
nizione, tuttavia, non è stata proposta per deter- minare la natura dell’U.
nella sua totalità. Con la pretesa di esprimere la totalità dell’U., si
presenta invece la definizione di Bergson: « Se potessimo spogliarci del nostro
orgoglio, se per definire la nostra specie ci attenessimo strettamente a quelle
che la storia e la preistoria ci presentano come la caratteristica costante
dell’U. e dell’intel- ligenza, non diremmo forse Momo sapiens ma Homo faber. In
definitiva, l'intelligenza, considerata in ciò che sembra il suo compito
originale, è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in partico- lare
utensili per fare utensili, e di variarne indefi- nitamente la fabbricazione »
(Évol. Créatr., 83 ediz., 1911, pag. 151). In realtà però lo stesso Bergson am-
mette, attorno all'intelligenza, un « alone d’istinto » e ritiene possibile il
ritorno dell’intelligenza al- l’istinto mediante l’intuizione: il che dovrebbe
voler dire che l’U. non è soltanto homo faber. 3° Il terzo gruppo di
definizioni comprende quelle che interpretano l’uomo come possibilità di
auto-progettazione. Quasi tutte le definizioni del secondo gruppo, pur facendo
leva su un’unica determinazione dell’U., ritenuta come propria o fondamentale,
la considerano, esplicitamente o im- plicitamente, come una possibilità, cioè
una capacità o disposizione. Leibniz, difendendo la definizione dell’U. come
animale ragionevole, osservava che il fatto che gli idioti mancano di ragione
non è un'obiezione contro di essa: basta che essi, sia pure con la sola loro
figura fisica, ne mostrino un indice (Nouv. Ess., III, 6, 22). Ma in realtà già
in Aristotele è abbastanza chiaro che la ragione è una possibilità o capacità
di giudizio, non una determinazione necessitante; e che solo a questo titolo
costituisce la definizione dell’uomo. Forse, il carattere indeterminato dell’U.
veniva adombrato nel detto di Democrito: «I'U. è quello che tutti sappiamo »
(Fr., 165, Diels). Ma esso è chiaramente espresso nelle speculazioni dei
neoplatonici del- l’antichità e del Rinascimento sulla « natura media » o
«centrale» dell’uomo. Già Plotino affermava a questo proposito: «Il posto
dell’U. è nel mezzo tra gli Dei e le bestie ed egli inclina talvolta verso gli
uni talvolta verso le altre; certi uomini sono simili agli dèi, altri alle
bestie e i più tengono il mezzo » (Enn., III, 2, 8). Questo pensiero veniva
illustrato nel sec. ix da Scoto Eriugena: « Non immeritamente, egli diceva,
l’U. è stato chiamato l’officina di tutte le creature: difatti tutte le
creature si cont.ngono in lui. Egli intende come l’angelo, ragiona come l’U.,
sente come l’animale irragio- UOVO nevole, vive come il germe, consiste di
anima e corpo e non è privo di nessuna cosa creata » (De divis. nat., III, 37).
Questi pensieri venivano ripetuti nel Rinascimento da Nicolò Cusano (De visione
dei, 6; Excitationes, Vi De ludo globi, II) e da Marsilio Ficino (Theol. Plat.,
III, 2) che entrambi li trasferiscono all'anima dell’U.j Ficino chiama l'anima
copula del mondo. Ma soprattutto si trovano espressi in modo classico
nell’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola: « Non ti ho dato, o
Adamo, fa dire Pico a Dio, nè un posto determi- nato, nè un aspetto proprio, nè
alcuna prerogativa tua, perchè quel posto, quell’aspetto, quelle prero- gative
che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e
conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me
prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo
arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perchè di
là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto nè celeste nè
terreno, nè mortale nè immortale, perchè, di te stesso quasi libero e sovrano
artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu
potrai degenerare nelle cose inferiori; tu potrai, secondo il tuo volere,
rigenerarti nelle cose superiori che sono divine » (De hom. dign., f.131r). Certamente,
l’illimitata capacità di autoprogettazione dell’U. non è stata mai più esaltata
con tanta eloquenza e con tanto fiducioso ottimismo come in questa pagina di
Pico. Tuttavia, il concetto illuministico dell’U. come ragione progettante,
limitata e impedita, bensì, ma efficace può ritenersi una filiazione del
concetto rinascimentale dell'uomo. Diceva Kant: «La ra- gione in una creatura è
il potere di estendere, oltre gli istinti naturali, le regole e i fini dell’uso
di tutte le sue attività; essa non conosce limiti ai suoi disegni. Però la
ragione non agisce istintivamente, ma procede per tentativi, con l'esercizio e impa-
rando, per elevarsi a poco a poco e passare da un grado di conoscenza ad un
altro» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbilrgerlicher Absicht, 1784,
tesi II. Kant ritiene pertanto che soltanto attraverso la storia della specie
umana sulla terra l'uomo realizzi la sua natura: che è la libertà di
autoprogettarsi con la sua ragione e specialmente di progettare per sè una
società civile fondata total- mente sul diritto. Queste idee esprimevano bene
il punto di vista dell'illuminismo, al quale Kant stesso le riferiva. Ancora
più chiaramente, Kant descriveva così il carattere della specie umana: « Per
potere attribuire all'U. il suo posto nel sistema della natura vivente e così
caratterizzarlo, non rimane altro che dire che egli ha quel carattere che egli
stesso si fa in quanto sa perfezionarsi secondo i fini da se stesso derivati:
onde, come animale fornito della capacità di ragionare (animal rationabile),
può farsi da sè ani- male ragionevole (animal rationale) » (Antr., II, e).
L’esistenzialismo e lo strumentalismo americano hanno, nella filosofia
contemporanea, ereditato questo concetto dell’uomo. Da un lato, essi sotto-
lineano che I’U. è ciò che egli stesso può o vuole farsi; che perciò egli è
costantemente problema a se stesso e soluzione di questo problema; che con-
tinuamente egli progetta il suo modo d'essere o di vivere e che questo progetto
entra a costituire in qualche grado e misura il suo modo d’essere o di vivere
effettivo. Dall'altro lato, entrambe le correnti riconoscono le limitazioni di
questa pro- gettabilità: limitazioni che agiscono specialmente nel fatto che
ogni progetto trova già, in qualche misura, come dari (cioè come relativamente
immo- dificabili) gli elementi di cui si avvale; che tutto ciò che esso può
progettare nel futuro è già stato in qualche modo o forma nel passato; e che
per- tanto il passato condiziona entro certi limiti (ri- conosciuti più o meno
estesi) il futuro dell’uomo. Questo è il senso in cui Heidegger ha detto che il
progetto è il modo d’essere fondamentale dell’U. (Sein und Zeit, $ 31); e in
cui Sartre ha parlato di un progetto fondamentale del mondo (L’érre er le
néant, pag. 540). Nello stesso senso, John Dewey ha parlato della mutabilità
della natura umana e dei suoi stessi cosiddetti istinti o impulsi fonda- mentali
(Human Nature and Conduct, pag. 95 sgg.; 106 sgg.). Heidegger ha insistito pure
sulla limi- tazione della progettabilità in quanto ogni pro- getto ricadrebbe e
si appiattirebbe su ciò che è già stato e in ciò consisterebbe l’effertività (o
fat- tualità) dell’U. (v. PROGETTO). Sartre ha insistito sulla libertà assoluta
della progettabilità e ha con- siderato puramente arbitraria o gratuita la
scelta di un progetto qualsiasi (L’érre er le néant, pag. 721). Dall’altro
lato, Dewey ha ripreso il concetto illu- ministico della razionalità (che è
nello stesso tempo condizionamento e libertà) dei progetti umani; e sugli stessi
caratteri dell’auto-progettazione ha in- sistito l’esistenzialismo positivo
(cfr. ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, I, 7; II, 3; ecc.). D'al- tronde
questa concezione sembra oggi condivisa dagli stessi biologi. Dice, per es., G.
G. Simpson: «L’U. può scegliere di sviluppare le sue capacità come più alto
animale e tentare di sollevarsi an- cora di più; o può scegliere altrimenti. La
scelta è sua responsabilità, e sua soltanto. Non c’è un automatismo che lo
porterà in alto senza scelta o sforzo e non c'è una tendenza unilaterale nella
giusta direzione. L'evoluzione non ha alcuno scopo; D’U. deve dare lo scopo a
se stesso + (The Meaning of Evolution, 6 ediz., 1952, pag. 310). UOVO (gr. ®6y;
ingl. Egg; franc. (Euf; ted. Ei). Il primo principio del mondo, secondo la
teogonia orfica (Orphicorum fragmenta, 53, 54 Ke). La con- siderazione del
mondo come un gigantesco ani- male è alla base di questo mito, che ha parecchi
precedenti orientali. Su di questi e sul mito stesso cfr. A. OLIVIERI, Civiltà
greca nell’Italia meridionale, 1931, pag. 3-32. URDOXA o URGLAUBE. Husserl ha
chia- mato con questo termine (che significa credenza originaria) la certezza
propria della credenza cioè il riferimento certo della credenza a un oggetto
esistente (/deen, I, $ 104) (v. CREDENZA). URPHAENOMENON. Termine adoperato da
Goethe, che così ne illustrava il concetto: « Nell’esperienza per lo più
cogliamo soltanto casi che, con una certa attenzione, possono essere con- dotti
sotto rubriche empiriche generali. Queste a loro volta si subordinano a
rubriche scientifiche che rimandano oltre, sicchè veniamo a conoscere meglio
alcune condizioni indispensabili di ciò che appare. Di qui in poi tutto si
sistema gradualmente sotto regole e leggi superiori, che si manifestano, non
all’intelletto mediante parole e ipotesi, ma all’intuizione attraverso
fenomeni. Sono questi i fenomeni che chiamiamo originari; perchè niente
nell’apparenza è al di sopra di loro ed essi ci per- mettono, come prima siamo
saliti, di discendere gradualmente sino al caso più comune dell’espe- rienza
quotidiana » (Farbenlehre, 1808, $ 175). USIOLOGIA (ingl. Usiology; franc.
Usiologie; ted. Usiologie). Dottrina delle essenze. Termine raro. USO (ingl.
Use; franc. Usage; ted. Gebrauch). L’atto o il modo di adoperare mezzi, strumenti
o utensili. Il termine è usato in filosofia soprattutto a proposito di
strumenti o mezzi intellettuali, o della ragione stessa. Kant parlò di un U.
/ogico della ragione che è quello mediante il quale si effettuano inferenze
mediate cioè sillogistiche; e di un U. puro che è quello mediante la quale la
ra- gione si fa essa stessa « una speciale fonte di con- cetti e di giudizi».
Quest'ultimo è I’U. dialettico della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dialettica,
Intr., II, B-C). Kant distinse pure l’U. teoretico e l’U. pratico della ragione
stessa (Crit. R. Pura, Pref. alla 2* ediz.). Ed infine distinse l’U. empirico
dei concetti, che significa il loro riferimento a og- getti dell'esperienza
possibile, dall’U. trascendentale che invece significa il loro riferimento a
oggetti che sono al di là di tale esperienza (v. TRASCENDEN- TALE). Della
nozione di U. si è servito Wittgenstein per definire il significato dei termini
linguistici: « Per una estesa classe di casi — sebbene non per tutti — nei
quali adoperiamo la parola ‘ signifi cato * essa può essere definita così: il
significato di una parola è il suo U. nel linguaggio » (Philo- URDOXA O
URGLAUBE sophical Investigations, $ 43) (v. LINGUAGGIO; Sr- GNIFICATO). I
logici contemporanei distinguono l’U. di una parola dalla sua menzione. Nella
frase «l’uomo è un animale razionale » la parola «uomo» è usata ma non
menzionata. Invece nella frase «la tradu- zione italiana della parola inglese
man ha quattro lettere» la parola uomo è menzionata ma non usata. Infine nella
frase «la parola uomo ha quattro lettere », la parola uomo è nello stesso tempo
usata e menzionata. Quest'ultimo U. è quello che gli Scolastici chiamavano
della supposizione mate- riale (v. SuPPOSIZIONE) e che Carnap ha chiamato U.
autononimo (CARNAP, Logical Syntax of Lan- guage, $ 64; QuINE, Methods of
Logic, $ 7; CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 80). UTENSILE (ingl. Tool;
franc. Ustensile; te- desco Zuhandene). Un mezzo potenziale, che di- venta
attuale quando si congiunge all’occhio, al braccio, alla mano, in qualche
operazione speci- fica. Questa è la definizione data da Dewey (Human Nature and
Conduct, pag. 25). U. è stato spesso considerato il modo d’essere proprio della
cosa (v.) come tale. È questa una dottrina che è stata avan- zata da Heidegger
(Sein und Zeit, $ 15) ed accet- tata da Ortega y Gasset, che ha considerato
come U. anche l’intelligenza, la scienza e la cultura (Schema delle crisi,
1933, pag. 43); e da Sartre, che ha detto: «Il rapporto originale delle cose
tra loro è il rapporto d’utensilità... la cosa non è dapprima cosa per essere
in seguito U., nè dapprima U. per svelarsi di seguito come cosa: è cosa-U.»
(L’étre et le néant, pag. 250). UTILE (ingl. Useful; franc. Utile; ted. Niitz-
lich). 1. Ciò che è mezzo o strumento per un fine qualsiasi. In questo senso
definivano l'utilità Al- berto Magno (S. 7h., I, g. 8, a. 3), Geulincx (Ethica,
III, 6) e Baumgarten (Mer., $ 336). L’uti- lità è in questo senso un carattere
delle cose. 2. Più specificamente, a partire da Hobbes, è stato chiamato U. ciò
che giova alla conserva- zione dell’uomo o in generale appaga i suoi bi- sogni
o soddisfa i suoi interessi. Hobbes affermava a questo proposito che ciascun
uomo è, per di- ritto naturale, arbitro circa ciò che gli è U. e che «la misura
del diritto è l’utilità » (De Cive, 1642, I, 9-10). Sulle tracce di Hobbes,
Spinoza identi- ficava il comportamento razionale dell’uomo con la ricerca
dell’U.: «La ragione, non richiedendo nulla contro la natura, richiede di per
sè, innanzi tutto che ognuno ami se stesso e ricerchi il proprio U. che
veramente sia tale ». Tra le molte cose U. e desiderabili le più importanti
sono quelle che convengono alla natura umana c perciò la più importante di
tutte è la conservazione dell’uomo nella propria persona e nell'altrui. « Gli
uomini che sono governati dalla ragione, ossia gli uomini che cercano il
proprio U. secondo la guida della ra- gione, non desiderano per sè nulla che
non desi- derino anche per gli altri uomini giusti, fidati e onesti » (Er., IV,
18, schol.). L’utilità in questo senso divenne da un lato fondamento di quella
dottrina morale che è l’uzilitarismo (v.) dall'altro il concetto fondamentale
dell’economia politica (v.). Nel primo indirizzo, già Hume si domandava 4
perchè l’utilità piace» e vedeva la risposta a questa domanda nella naturale
simpatia dell’uomo verso l’altr'uomo (/ng. Conc. Morals, V). La coinci- denza
dell’utilità individuale con quella sociale era così già postulata e divenne
uno dei temi dell’uti- litarismo. Bentham definiva l’utilità come « quella
proprietà di un oggetto per la quale esso tende a produrre beneficio,
vantaggio, piacere, bene o feli- cità (Introduction to the Principles of
Morals, 1789, I, 1). Nel campo dell’economia politica, per U. fu inteso
abitualmente «tutto ciò che appaga un bi- sogno +; e l'avvertenza che non
sempre ciò che appaga un bisogno dal punto di vista economico (cioè viene
desiderato come tale) lo appaga dal punto di vista biologico, consigliò Pareto
a intro- durre la nozione di ofelimità (v.) che è l’U. nel contesto economico
(Traité d’économie politique, n. 2028). UTILITÀ MARGINALE. V. EcoNnoMIA Po- LITICA.
UTILITARISMO (ingl. Utilitarianism; francese Utilitarisme; ted. Utilitarismus).
Per quanto la dot- trina che identifica il bene con l’utile si possa far
risalire ad Epicuro (v. ETIcA) l’U., come dottrina storicamente determinata è
un indirizzo del pen- siero etico, politico ed economico inglese dei se- coli
xvin e xrx. Stuart Mill affermò di essere stato il primo ad usare la parola
utilitarista (utilitarian) e d’averla desunta da un’espressione usata da Galt
negli Annals of Paris (1812): ed a lui infatti è do- vuta la fortuna del nome.
Esso però era stato usato occasionalmente da Bentham, e per la prima volta nel
1781. I capisaldi dell’U. possono essere riassunti nel modo seguente: 1° L’U. è
in primo luogo il tentativo di tra- sformare l’etica in una scienza positiva
della con- dotta umana, scienza che Bentham voleva rendere «esatta come la
matematica » (/ntroduction to the Principles of Morals, in Works, I, pag. v). Questo
tratto fa dell’U. un aspetto fondamentale del mo- vimento positivistico; e dall’altro
lato assicura al- Il°U. stesso un posto importante nella storia del- l’etica
(v. ETICA). 2° Conseguentemente, 1’U. sostituisce alla con- siderazione del
fine, desunto dalla natura metafi- sica dell'uomo, la considerazione dei
moventi che, in linea di fatto, determinano l’uomo ad agire. In ciò esso si
riconnette alla tradizione edonistica che scorge nel piacere l’unico movente
cui l’uomo o in generale l’essere vivente, obbedisca (v. Epo- NISMO). Sotto
quest’aspetto, come sotto quello pre- cedente, l’U. veniva soprattutto
illustrato da Ge- remia Bentham (1748-1832). 3° Il riconoscimento del carattere
superindi- viduale o intersoggettivo del piacere come mo- vente, onde il fine
di ogni attività umana diventa «la massima felicità divisa nel maggior numero
possibile di persone »: una formula che enunciata per la prima volta da Cesare
Beccaria (Dei diritti e delle pene, 1764, $ 3) fu accettata da Bentham e da
tutti gli utilitaristi inglesi. L'accettazione di questa formula suppone la
coincidenza dell’utilità privata con l’utilità pubblica: una coincidenza che fu
ammessa da tutto l’indirizzo del liberalismo moderno (v. LiserALISMO).
Prevalentemente a giu- stificare tale coincidenza fu diretta l’opera di Gia-
como Mill e di Stuart Mill. Giacomo Mill l’affi- dava alla legge
dell’associazione psicologica: la felicità altrui viene desiderata perchè è
stretta- mente associata con la propria (Analysis of the Phenomena of the Human
Mind, ediz. 1869, II, pag. 351 sgg.). Stuart Mill affidava questa stessa
connessione al sentimento dell’unità umana, che Comte aveva messo in luce con
la sua religione dell’umanità (Urilitarianism, 2* ediz., 1871, pag. 61).4° La
stretta associazione dell’U. con le dot- trine della nascente scienza
economica. Due dei fondatori di questa scienza, Tommaso Roberto Malthus
(1766-1834) e Davide Ricardo (1772-1823) furono utilitaristi e condivisero
dell’U. lo spirito positivo e riformatore. 5° Lo spirito riformatore, nel campo
politico e sociale, degli utilitaristi che si preoccuparono di far servire la
loro dottrina morale come fon- damento di riforme che avrebbero dovuto, nei
vari campi, aumentare il benessere e la felicità degli uomini. Sotto questo
aspetto l’U. fu anche detto radicalismo. Cfr. S. LesLie, The English
Utilitarians, 3 voll., 1900; E. ALBEE, A History of English Utilitarianism,
1901, 2* ediz., 1957. UTOPIA (lat. Utopia; ingl. Utopia; francese Utopie; ted.
Utopie). Tommaso Moro intitolava così una specie di romanzo filosofico (De
optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, 1516) nel quale narrava le
condizioni di vita in un'isola sconosciuta detta appunto U.: condizioni di vita
che sarebbero state caratterizzate dall’abolizione della proprietà privata e
dell’intolleranza religiosa. In seguito il termine è stato esteso a designare
non solo ogni tentativo analogo, anteriore o po- steriore che fosse, come la
Repubblica di Platone o la Cirtà del sole di Campanella, ma' anche in generale
ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile
realizzazione. Come genere letterario, l’U. cade fuori della considerazione
filosofica: basti qui osservare che essa è stata ed è tutt'ora, in questa
forma, molto diffusa e che una delle sue incarnazioni sono i romanzi di
fantascienza. Problema filosofico è la valutazione dell’U., sia questa espressa
in forma romanzesca sia espressa in forma di mito o di ideologia, ecc.; e su
questa valutazione i filosofi non sono d’accordo. Comte affidava all’U. il com-
pito di migliorare le istituzioni politiche e di svi- luppare le idee scientifiche
(Politique positive, I, pag. 285). Marx ed Engels, al contrario, condan- navano
come « utopistiche » le forme che il socia- lismo aveva assunto per opera di
Saint Simon, Fourier e Proudhon, contrapponendo ad esse il socialismo «
scientifico » che prevede la trasforma- zione immancabile del sistema
capitalistico in si- stema comunista ma esclude qualsiasi previsione sulla
forma che assumerà la società futura e qual- siasi programma per essa (v.
SociaLIsMo). Sorel nello stesso senso contrapponeva all’U. « opera di teorici
che, dopo aver osservato e discusso i fatti, cercano di stabilire un modello al
quale si possano paragonare le società esistenti per misurare il bene e il male
che racchiudono» il mito che invece è l’espressione di un gruppo sociale che si
prepara alla rivoluzione (Réflexions sur la violence, 4* edi- zione, pag. 46).
Mannheim ha invece considerato l’U. come destinata a realizzarsi, in
contrapposto all'ideologia (v.) che non riuscirebbe mai a realiz- zarsi. L'U.
sarebbe in questo senso alla base di ogni rinnovamento sociale (/deologie und
Utopie, 1929, II, 1; cfr. R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure,
1957, 3* ediz., cap. XIII). In generale si può dire che Il’U. rappresenta una
correzione o un’integrazione ideale di una situazione politica o sociale o
religiosa esistente. Questa correzione può rimanere, come spesso è accaduto ed
accade, allo stato di semplice aspira- zione o sogno generico, risolvendosi in
una specie di evasione dalla realtà vissuta. Ma può anche accadere che l’U.
diventi una forza di trasforma- zione della realtà in atto e assuma abbastanza
corpo e consistenza per trasformarsi in autentica volontà innovatrice e trovare
i mezzi dell’innova- zione. Di regola la parola viene intesa più in rife-
rimento alla prima possibilità che alla seconda. E al primo significato si
riattacca la cosiddetta « teoria critica della società » svolta da Horkheimer,
Adorno e Marcuse (e specialmente da quest’ultimo) che si è concentrata
soprattutto sulla critica disso- lutrice della società contemporanea. «La
teoria critica della società, ha scritto Marcuse, non pos- siede concetti che
possano gettare un ponte tra il presente e il futuro, non offre promesse e non
mostra successi, rimane negativa» (One Dimen- sional Man, 1964, pag. 257). Ed
ancora: « Se oggi abba- stanza determinato, sicchè vi sono casi nei quali
sembra impossibile decidere se essa è applicabile o meno. Così la parola lontano
è V. perchè ci sono casi nei quali è impossibile decidere se si può par- lare
di lontananza o meno; mentre non è V. l’espres- sione « distante trenta
chilometri ». Peirce ha dato del termine la definizione seguente: « Una propo-
sizione è V. quando sono possibili stati di cose, riguardo ai quali chi parla,
anche contemplandoli, sarebbe intrinsecamente incerto se siano affermati o
negati dalla proposizione. Con intrinsecamente incerto intendiamo parlare di
ciò che è dubbio, non per l’ignoranza di chi interpreta, ma per l’in-
determinazione del linguaggio di chi parla» (in BALDWIN, Dictionary of
Philosophy, Il, pag. 748). La vaghezza non va identificata nè con l’ambiguità
nè con la generalità. B. Russell ha tuttavia insistito sulla difficoltà di
distinguere ciò che è V. da ciò che è generale, inclinando per una
interpretazione soggettiva dell’incertezza inerente a ciò che è V. (Analysis of
Mind, 1921, pag. 184). Max Black ha dato un'analisi esauriente della nozione di
V. suscitando una feconda discussione in proposito {Vagueness in Language and
Philosophy, 1952, cap.II; nella traduzione italiana del libro Vagueness è reso
con /ndeterminatezza). VAISESIKA. Uno dei-principali sistemi filo- sofici
dell’India antica, la cui fondazione è attri- buita a un bramano detto Kanada,
che sostenne una specie di atomismo, considerando la materia formata di
elementi indivisibili e caratterizzata da sei determinazioni fondamentali: la
sostanza, la qualità, il movimento, la generalità, la particolarità e
l’inerenza. Il sistema ammette pure l’esistenza delle anime, dimostrata per
inferenza dall’impos- sibilità di attribuire al corpo eventi come la cono-
scenza, il piacere, l’amore, ecc.; e l’esistenza di Dio considerato come la
causa e il regolatore del Karman (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia
indiana, 1957, pag. 112 sgg.). VALENZA (ingl. Valency; franc. Valence; ted.
Wertheit). Il corrispondente oggettivo o noe- matico del valore, secondo
Husserl. Dice Husserl: «Da un lato parliamo della semplice cosa che è valevole,
ha il carattere di valore, ha la V.; dall’altro parliamo degli stessi valori
concreti o della ogget- tività di valore» (/deen, I, $ 95). Peirce aveva
stabilito un’analogia tra le proprietà delle proposizioni e la V. chimica
(Coll. Pap., 3. 470-71). VALIDITÀ (ingl. Validity; franc. Validité; ted.
Giltigkeit). 1. L’universalità soggettiva (v. UNI- VERSALITÀ, 2): nel qual
senso è valido ciò che è (o dev'essere) riconosciuto da tutti vero, buono,
bello, ecc. 2. La conformità a regole di procedura sta-bilite o riconosciute.
In tal senso si dice valida un’inferenza, se conforme alle regole della logica,
o una legge se è conforme alle regole costituzionali; o una sentenza se è
conforme alle leggi, o un ordine se è dato dalla persona cui spetta darlo e
nelle forme stabilite dalle regole. La V. in questo senso dev'essere tenuta
distinta dai valori di verità, di giustizia, ecc. Difatti un’inferenza valida,
cioè effet- tuata in conformità delle regole logiche non è un’in- iaggio è
valido per effettuare un certo percorso; o una certa organizzazione è valida
per certe funzioni, ecc. 4. Più particolarmente e limitatamente al do- minio
della logica, Carnap ha proposto di chia- mare valido l’enunciato (o la classe
degli enunciati) che è la conseguenza di una classe nulla di enunciati; e
contro-valido l’enunciato di cui ogni enunciato può essere conseguenza. I due
termini in questo senso stanno rispettivamente per analitico e con- tradditorio
(The Logical Syntax of Language, $ 48). Analogamente Quine ha proposto di
chiamare valido uno schema logico che rimane vero quale che sia
l’interpretazione che si da ai suoi simboli. Per es., lo schema p > pè uno
schema valido; mentre lo schema p. 7 è coerente ma non è valido perchè è vero solo
quando p è interpretato come vero e qg come falso (Methods of Logic, $ 6). V.
in questo senso non significa altro che analiticità o verità logica. VALORE
(gr. &Ela; lat. Aestimabile; inglese Value; franc. Valeur; ted. Wert). In
generale, ciò che dev'essere oggetto di preferenza o di scelta. Fin
dall’antichità la parola fu usata a indicare l’utilità o il prezzo dei beni
materiali e la dignità o il merito delle persone; ma quest’uso non ha alcun
signi- ficato filosofico perchè non ha dato origine a pro- blemi filosofici.
L'uso filosofico del termine comincia soltanto quando il suo significato viene
generaliz- zato per indicare qualsiasi oggetto di preferenza o o di scelta; e
ciò accadde per la prima volta con gli Stoici i quali introdussero il termine
nel dominio dell’etica e chiamarono V. gli oggetti delle scelte morali. Ciò
accadde perchè essi intendevano il bene in senso soggettivo (v. BENE, 2) e
potettero così considerare i beni e i loro rapporti gerarchici come oggetti di
preferenza o di scelta. Per V., in generale, essi intesero «ogni contributo a
una vita conforme a ragione » (Dro. L., VII, 105); 0, come dice Cicerone, « ciò
che è conforme alla natura o ciò che è degno di scelta (selectione dignum)» (De
Fin., III, 6, 20). Per ciò che è conforme a VALORE natura, intendevano ciò che
dev’essere scelto in tutti i casi cioè la virtù; per ciò che è degno di scelta,
intendevano i beni da preferirsi come l’ingegno, l’arte, il progresso, fra le
cose spirituali; la ricchezza, la fama, la salute, la forza, la bellezza fra le
cose corporee; la ricchezza, la fama, la nobiltà fra le cose esterne (Diog. L.,
VII, 105-06). La divisione tra V. obbligatori e V. preferenziali sarà più tardi
espressa come quella tra V. intrinseci o finali e valori estrinseci o
strumentali. La ripresa della nozione nel mondo moderno si ha soltanto con la
ripresa della nozione soggettiva del bene: il che accade con Hobbes. «Il V. di
un uomo, egli dice, è, come quello di tutte le altre cose, il suo prezzo, ciò
che potrebbe esser pagato per l’uso della sua facoltà: quindi non è assoluto,
ma dipende dal bisogno e dal giudizio di un altro. Un abile condottiero di
soldati è di gran prezzo in tempo di guerra presente o imminente, ma non in
pace» (Leviath., I, $ 10). Tuttavia la nozione di V. soppiantò la nozione di
bene nelle discussioni morali solo nel sec. xrx; ed anche in questa occa- sione
ciò avvenne per una estensione del signi- ficato economico del termine, che
intanto era stato assunto a fondamento della scienza economica (v. EcoNOMIA
POLITICA). Kant aveva identificato il bene con il V. in generale: «Ognuno, egli
diceva, chiama bene ciò che apprezza ed approva cioè ciò in cui c’è un V.
oggettivo» e aggiungeva che il bene in questo senso è tale per tutti gli esseri
ragionevoli (Crit. del Giud., $ 5). Egli tuttavia limitava la parola V. a
designare il bene obiettivo, escludendone il piacevole e il bello. L'estensione
del termine a indicare non solo il bene ma anche il vero ed il bello fu dovuta
ai kantiani e in primo luogo all'indi- rizzo psicologistico del kantismo.
Polemizzando contro lo stesso Kant, Beneke affermava che la moralità non può
determinare una legge universale della condotta, ma può e deve determinare
l'ordine dei V. che devono essere preferiti nelle scelte in- dividuali; i V.
stessi poi sono determinati dal sentimento (Grundlinien der Sittenlehre, 1837,
I, pag. 231 sgg.); Grundlinien des Naturrechtes, 1838, I, pag. 41 sgg.). Questo
orientamento dell’etica verso i V., in filosofi che si ispiravano a Kant, è
dovuto indubbiamente all’indirizzo psicologistico, che ha come suo corollario
la nozione soggetti- vistica del bene. Ma fu soprattutto Windelband a parlare,
nei saggi che furono poi raccolti in Preludi (1884), di un « V. di verità » e
di un «V. di bellezza » oltre che di un « V. di bene ». Alla diffu- sione del
concetto e del termine di V. contribuì potentemente Nietzsche con le sue opere
fondamen- tali Jenseits von Gut und Bòse (1886) e Zur Genea- logie der Moral
(1887). Approssimativamente da questi anni, il concetto di V. diventa uno dei
concetti fondamentali della filosofia e le discussioni intorno ad esso
esauriscono quasi totalmente il campo dei problemi morali. Ed a partire dalla
stessa data tende a riprodursi, nel campo della teoria dei V., una divisione
analoga a quella che aveva caratterizzata la teoria del bene: la divisione tra
un concetto metafisico o assolu- tistico e un concetto empiristico o soggettivistico
del V. stesso. Il primo attribuisce al V. uno status metafisico, che è
completamente indipendente dai rapporti del V. con l’uomo. Il secondo considera
il modo d’essere del V. in stretto rapporto con l’uomo o con le attività o il
mondo umano. La prima concezione è animata dall’intento di sottrarre il V., o
meglio determinati valori e i modi di vita che su di essi si fondano, al
dubbio, alla critica e alla negazione: un intento che appare puerile, se si
pensa che il V. più saldamente ancorato nelle coscienze degli uomini e che
suscita le maggiori passioni è anche il V. più mutevole e relativo, tale che
talvolta i filosofi pudicamente si rifiutano di considerarlo autentico: il
V.-denaro. 1° La prima concezione deve, da un lato, insi- stere sulla connessione
del V.con l’uomo e dall’altro, sull’indipendenza del V. stesso. La prima
determi- nazione è difatti costitutiva del V. e segna la sua caratteristica
differenziale nei confronti del bene tradizionalmente inteso. La seconda
determinazione mira a garantire al V. la sua assolutezza. Il concetto kantiano
dell’a priori sembrava possedere entrambe queste determinazioni: perciò da
Windelband e Rickert il concetto di V. fu elaborato in relazione con quello di
a priori. Per Windelband, il V. è il dover essere di una norma che può anche
non avere realizzazione in linea di fatto, ma che è la sola che può dare
verità, bontà e bellezza alle cose giudicabili (Pràludien, 4* ediz., 1911, II,
pa- gina 69 sgg.). I V. in questo senso non sono cose o super-cose, non hanno realtà
o essere, ma il loro modo d'essere è il dover essere (sollen). Rickert ripete
questo punto di vista e ribadisce che l’essere dei V. non consiste nella loro
realtà ma nel loro dover essere. Tuttavia i V. si trasfor- mano, nella
trattazione di Rickert, in realtà tra- scendenti. Rickert distingue sei domini
del V.: la logica, l'estetica, la mistica (che è il dominio della santità
impersonale), l'etica, l’erotica (che è il dominio della felicità), e la
filosofia religiosa. A ciascuno di questi domini corrisponde un bene (scienza,
arte, uno-tutto, comunità libera, comunità d’amore, mondo divino), una
relazione al soggetto (giudizio, intuizione, adorazione, azione autonoma,
unificazione, devozione) e infine una determinata intuizione del mondo
(intellettualismo, estetismo, misticismo, moralismo, eudemonismo, teismo ©
politeismo) (System der Philosophie 1921). La 909 mediazione tra la realtà e i
V. è poi chiarita da Rickert con il concetto del senso (Sinn): il senso è il
riferimento della realtà, o di una parte della realtà, al mondo dei V. e
attraverso di esso i V. si calano nella storia e sono realizzati dall’uomo
(System der Philosophie, I, pag. 319 sgg.). Teorie dei V. molto simili a questa
venivano elaborate dal tedesco ame- ricano Ugo Miinsterberg in una Philosophie
der Werte, del 1908, dall’americano W. M. Urban (Va- luations: its Nature and
Laws, 1919; The Intelle- gible World, 1920), dall’italiano Guido della Valle
(Teoria generale e formale del V., 1916) e da numerosi altri scrittori. Tutte
queste dottrine si lasciano sfug- gire il problema che è alla radice della loro
im- postazione o presentano di esso soluzioni illusorie. Da un lato, infatti,
riconoscono che il V. è in qualche modo presente all'uomo o alle attività umane
o al mondo umano di cui costituisce la norma o il dover essere; dall’altro,
esigono che esso sia indipendente da ogni riconoscimento o vicenda umana e che
possegga uno status indifferente ri- spetto al mondo umano. Al V. si tendono ad
attri- buire, in queste teorie, i caratteri dell'essere perfetto: l’unità,
l’universalità, l'eternità, di fronte alla mol- teplicità, particolarità e
mutevolezza delle mani- festazioni empiriche di cui dovrebbero costituire la
regola. Ma dall’altro lato, come regole di tali mani- festazioni, essi debbono
avere con esse un rapporto essenziale, senza il quale non potrebbero servire nè
a giudicarle nè a dirigerle. Il concetto kantiano dell’a priori trascendentale
non si era rivelato efficace come modello per una soluzione di questo problema.
Un altro tipo di soluzione fu cercato affidando l’intuizione del V. a una
esperienza sui generis, di natura sentimentale. Il sentimento è, secondo
Scheler, «una forma di esperienza i cui oggetti sono completamente inac-
cessibili all’intelletto, che è cieco nei loro riguardi come l’orecchio e
l’udito nei riguardi dei colori »; questa forma di esperienza ci presenta
autentici oggetti disposti in un ordine eterno gerarchico, che sono i V. (Der
Formalismus in der Ethik, 3* ediz., 1927, pag. 262). In altri termini, il V. è
l’oggetto intenzionale del sentimento come la realtà è l’oggetto intenzionale
del conoscere; e questo oggetto è appreso nel suo rapporto gerarchico con gli
altri oggetti della stessa specie. L'’intuizione sentimentale del V. è anche un
atto di scelta prefe- renziale: scelta preferenziale che segue la gerarchia
oggettiva dei valori, costituita da quattro gruppi fondamentali: V. del
gradevole e dello sgradevole, corrispondenti alla funzione del godere e del
sof- frire; V. vitali, corrispondenti ai modi del sentimento vitale (salute,
malattia, ecc.), V. spirituali cioè estetici e conoscitivi; e V. religiosi (Op.
cit., pa- gina 103 sgg.). Questa soluzione di Scheler faceva tuttavia ri-
sorgere, nel dominio dell’intuizione fondamentale, quella stessa antinomia che
caratterizzava l’inter- pretazione neocriticista o trascendentale del valore. E
questa antinomia veniva addirittura assunta come caratterizzazione del V. nella
dottrina di Nicolai Hartmann. Hartmann da un lato afferma che i V. sono tali
solo rispetto all’essere del soggetto e riconosce pertanto la relazionalità
(non relatività) di essi (Erhik, 3° ediz., 1949, pag. 141). Dall’altro afferma
che i V. hanno un «essere in sè» indi- pendente dalle opinioni del soggetto e
costituiscono autentici oggetti che, sebbene non siano reali come gli oggetti
delle scienze naturali, hanno un modo d’essere altrettanto immutabile ad
assoluto (/bid., pag. 153). Con terminologia diversa perchè di natura teologica
ma analoga, gli stessi due aspetti anti- nomici del V. sono stati espressi da
R. Le Senne dicendo che il V. è un Dio-con-noi: come Dio è unico e
trascendente, come con-noi è in rapporto con l’uomo e capace di guidarlo
(Obstacle et valeur, 1934, pag. 220 sgg.). 2° La fortuna del termine V. nel mondo
mo- derno è dovuta in buona parte all’opera di Nietzsche e allo scandalo che
egli suscitò con la pretesa di invertire i valori tradizionali. Nietzsche
dichiarava di puntare le sue speranze « verso spiriti forti e abbastanza
indipendenti da dare impulso a giudizi di V. opposti, da riformare e invertire
i valori eterni: verso precursori o uomini dell'avvenire che nel presente
formino il nodo che costringerà la volontà dei millenni ad aprire nuovi
sentieri, ecc.» (Jenseits von Gut und Bòse, $ 203). L’inversione dei V.
tradizionali, ironizzati come « V. eterni », fu ritenuta da Nietzsche il
compito della sua filosofia (Ecce Homo, $ 4). E questa inversione consisteva
sostan- zialmente nel sostituire ai V. della morale cristiana fondata sul
risentimento (v.) quindi sulla rinuncia e sull’ascetismo, i V. vitali che
nascono dall’affer- mazione della vita cioè dalla sua accettazione dio- nisiaca
(Genealogie der Moral, I, $ 10). Questa concezione di Nietzsche è stata
considerata come un relativismo dei V. e come tale è stata il ter- mine
polemico di riferimento di tutte le dottrine assolutistiche. In realtà vi sono
scarse tracce, in Nietzsche, di una relatività dei V.: il suo intento è
piuttosto quello di ripristinare la tavola autentica dei V., che è quella dei V.
vitali, al posto dei V. fittizi che la morale del risentimento ha fatto propri.
La tesi autentica di Nietzsche è quella dello stretto rapporto dell'essere del
V. con l’uomo sicchè non c'è V. che non sia una possibilità o un modo d’essere
dell’uomo stesso. È questa la tesi caratteristica dell’interpretazione che
abbiamo detto empiristica o soggettivistica del valore. Meinong fu il primo a
ripresentare esplicitamente questa tesi riducendo il V. di un oggetto alla sua
« forza di motivazione » «Uber Werthaltung und Wert» in Archiv fiîr syste- matische
Philosophie, 1895, pag. 341). Ehrenfels osservando che in base a questa
definizione posse- derebbero V. solo gli oggetti esistenti, definiva il V. come
semplice «desiderabilità» (System der Werttheorie, I, 1897, pag. 53). Questa
definizione di Ehrenfels è importante giacchè introduce per la prima volta
esplicitamente, nella nozione di valore, la connotazione della possibilità. V.
non è la cosa desiderata, ma l’oggetto desiderabile: non è cosa nel senso che
non è necessariamente un oggetto reale, non è desiderato perchè semplicemente
può esserlo. Non diverso significato ha la definizione del V. che alcuni anni
più tardi dava R. B. Perry, dicendo che « ogni oggetto, qualunque sia, acquista
V. quando è investito da un interesse qualsiasi » (General Theory of Value,
1926, 2% ediz., 1950, pag. 116): l’interesse infatti, a differenza del desi-
derio, è soltanto una possibilità. Proprio sul dominio di questa concezione del
V. nasceva il relativismo dei valori e nasceva nel seno dello storicismo cioè
della considerazione del rap- porto tra i V. e la storia. Per la prima volta,
il re- lativismo dei V. è stato difeso da Dilthey. « La storia, diceva Dilthey,
è essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di V., degli ideali,
degli scopi in base ai quali si determina il signi- ficato di uomini e di
avvenimenti» (Gesammelte Schriften, VII, pag. 290). I V. e le norme pertanto
nascono e muoiono nella storia e non sussistono al di fuori o al di sopra del
corso di essa (/bid., pag. 290). Ancora più esplicitamente il relativismo dei
V. nei confronti della storia fu affermato da Simmel. Partendo dal
riconoscimento della rela- tività del V. economico, Simmel giunse al ricono-
scimento della relatività di ogni V.: il V. non è mai un’entità oggettiva ma la
sua oggettività deriva soltanto dalla correlazione tra soggetto e oggetto. Non
sussistono pertanto V. assoluti; e sono V. solo quelli che in condizioni
determinate gli uomini riconoscono come tali. La sfera dei V. si distingue da
quella della realtà, non in base a un proprio staerus ontologico, ma per una
qualifica- zione categoriale, che può investire qualsiasi og- getto
(Philosophie des Geldes, 1900, I, $ 1). Lo storicismo tedesco tuttavia non fu
unanime nel riconoscere questa relatività; la considerò sempre come un pericolo
ma talvolta volle evitarla. Fu Troeltsch il primo a formulare chiaramente l’an-
titesi tra relatività storica e assolutezza dei V. e nello stesso tempo a
cercare di recuperare questa assolutezza nell’ambito stesso dello storicismo.
La soluzione che egli dette all’antitesi è la coincidenza tra i due termini
antinomici: ogni punto della storia è in rapporto diretto con la sfera dei V.
assoluti VARIAZIONI CONCOMITANTI, METODO DELLE e contiene in sè tali V., senza
relativizzarli alla propria mutevolezza (Der Historismus und seine Probleme,
1922, Gesammelte Schriften, III, pag. 211). Allo stesso modo Meinecke affermava
che della storia è costitutiva la relazione con l'Assoluto ma che questa
relazione va dall’infinito al finito e non viceversa: sicchè mentre la storia
trova il suo fon- damento nei V. che realizza, il modo d’essere di questi V. è
irreducibile alla relatività storica e conserva la sua validità incondizionata
(Die Enr- stehung des Historismus, 1936, II, pag. 645). della storia stessa.
Max Weber, pur insistendo sulla pluralità dei V. e delle sfere di V. vedeva
nella storia, non un’incessante creazione dei V. ognuno relativo a un fuggevole
momento di essa, nè un rapporto fuggevole con V. assoluti, ma una lotta tra V.
diversi offerti alla scelta del- l’uomo (Gesammelte Politische Schriften, pag.
63; cfr. Pietro Rossi, Lo Stforicismo tedesco contem- poraneo, pag. 367 sgg.).
Lo stesso riconoscimento delle molteplicità dei V. e dell’importanza della
scelta, che continuamente tale molteplicità esige da parte dell’uomo, si trova
in Dewey che, appunto per questo, ha definito la filosofia come « critica dei
V. »: «La confusione che tutte le teorie del V. hanno fatto, dice Dewey, tra
una determinata posizione nel rapporto causale o successivo e il V. vero e
proprio, è un’indiretta testimonianza del fatto che ogni valutazione
intelligente è anche critica, cioè giudizio, della cosa che ha V. immediato.
Ogni teoria del V. è necessariamente un ingresso nel campo della critica»
(Experience and Nature, 1926, pag. 397). Ma la critica dei V. in questo senso
non è altro che la disciplina intelligente delle scelte umane. Tale disciplina
implica in primo luogo la considerazione del rapporto che c’è tra mezzi e fini,
sicchè non si può giudicare sui fini se non giudicando nello stesso tempo sui
mezzi che ser- vono a conseguirli (Theory of Valuation, 1939, pag. 53).
Dall’altro lato difficilmente la critica dei V. potrebbe essere efficacemente
istituita senza tener conto di un altro aspetto dei V. sul quale ha
specialmente insistito R. Frondizi: la connes- sione tra V. e situazione. «
L’organizzazione eco- nomica e giuridica, ha detto Frondizi, i costumi, la
tradizione, le credenze religiose e molte altre forme di vita che trascendono l’etica,
contribui scono a configurare determinati valori che invece sono affermati come
esistenti in un modo estraneo alla vita dell’uomo. Sebbene il V. non possa de-
rivarsi esclusivamente da elementi di fatto, non può neppure prescindere da
ogni connessione con la realtà. Una simile separazione condanna chi la ese-
guisce a mantenersi sul piano disincarnato delle essenze » (Qué son los
valores?, 1958, pag. 127). Gli studi contemporanei, impiantati su questo pre-
supposto negativo, hanno messo in luce i punti seguenti: 1° Il V. non è
semplicemente la preferenza o l’oggetto della preferenza stessa ma è piuttosto
il preferibile, il desiderabile, l’oggetto di un’antici- pazione o di un’attesa
normativa (confronta DEWEY, The Field of Value, in Value: a Cooperative In-
quiry, ed. Ray Lepley, 1949,
pag. 68; CLYDE KLUCKONN e altri, in Toward a General Theory of Action, ed. Parsons e Schils, 1951, pag. 422). 2° Dall'altro lato
esso non è un mero ideale da cui le preferenze o le scelte effettive possano
completamente o quasi completamente prescindere, ma è piuttosto la guida o la
norma (non sempre seguita) delle scelte stesse e in ogni caso il loro criterio
di giudizio (cfr. C. MoRrRIs, Varieties of Human Value, 1956, cap. I). 3°
Conseguentemente la migliore definizione di esso è quella che lo considera come
una possi- bilità di scelta cioè come una disciplina intelligente delle scelte,
che può condurre ad eliminarne al- cune o a dichiararle irrazionali o dannose,
e può condurre (e conduce) a privilegiarne altre, pre- scrivendone la
ripetizione ogni volta che certe condizioni si verifichino. In altri termini,
una teoria del V., come critica dei V., tende a deter- minare le autentiche
possibilità di scelta cioè quelle scelte che, potendosi sempre ripresentare
come possibili nelle stesse circostanze, costitui- scono la pretesa del V. alla
universalità e alla per- manenza. VANITÀ (ingl. Vanity; franc. Vanité; tedesco
Eitelkeit). 1. Nullità. In questo senso la parola è adoperata frequentemente
dalla Bibbia (cfr. Ec- clesiaste, I, 2: «V. delle V., disse l’Ecclesiaste; V.
delle V. e tutto è V.»). 2. Ambizione meschina, vanagloria, egocentri- smo
(v.). VARIABILE. V. COsTAnTE. VARIAZIONI CONCOMITANTI, ME- TODO DELLE (ingl. Method of Concomi- 912 tant
Variations; franc. Méthode des variations con- comitantes; ted. Methode der einander begleitenden Veranderungen). Così
J. Stuart Mill chiamò uno dei metodi induttivi già illustrati da Herschel (A Discourse
on the Study of Natural Philosophy, $ 145) e che si esprime con la seguente
regola: « Qualunque fenomeno che varii in qualsiasi ma- niera ogni volta che un
altro fenomeno varia in qualche particolare maniera, è una causa o un effetto
di questo fenomeno o è connesso con esso mediante qualche fatto di causazione »
(Logic, III, VIII, $ 6). Le altre regole dell’induzione sono il metodo della
concordanza, il metodo della diffe- renza e il metodo dei residui, sui quali
vedi le rispettive voci. VEDANTA (ingl. Vedanta; franc. Vedénta; ted.
Vedéînta). Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, che è stato
codificato nei Brahma- sutra o Vedantasutra attribuiti a Badarayana (forse m
secolo d. C.). Il principio del sistema è il Brahman o Atmann, riconosciuto
come unica realtà: il mondo è considerato come apparenza ingannevole, maya.
Nell’ambito di questo sistema, Sankara supponeva che l’io individuale è
identico con il Brahman o Atmann, mentre Ramanuja elaborava un sistema teistico
distinguendo dal Brahman sia il mondo creato sia le anime indi- viduali (Das
GuPTA, A History of Indian Philo- sophy, 1932-55, III; G. Tucci, Storia della
filosofia indiana, 1957, pag. 136 sgg.). VEDUTA. V. INTUIZIONE. VEICOLO SEGNICO
(ingl. Sign Vehicle). Uno dei quattro componenti del procedimento segnico
(assieme al designato, all'interpretante e all’interprete) secondo Morris; e
precisamente l’og- getto o cosa che funziona da segno (Founda- tions of the
Theory of Signs, 1938, $ 2) (vedi SEGNO). VELLEITÀ (ingl. Velleity; franc.
Velléité; te- desco Velleitàt). Sforzo impotente o mal riuscito. Il termine
ricorre in Locke che indica con esso «la gradazione più bassa del desiderio,
quella che è più vicina a non esistere affatto» (Saggio, II, 20, 6). Con senso
analogo, il termine ricorre in Leibniz che intende per esso «una specie assai
imperfetta di volontà condizionale» cioè di una volontà che si impegnerebbe, se
potesse, ma non può (Théod., III, 404). Questa notazione è assai più vicina al
significato moderno del termine. Ed è d’altronde il significato più antico. S.
Tommaso intendeva per V. una volontà antecedente, che può essere o rimanere
sospesa, come la volontà del giudice che vorrebbe che il reco vivesse, in
quanto è uomo, ma che tuttavia desidera che sia impiccato (S. TA., I, q. 19, a.
6, ad. 1°). VENDETTA. V. TAGLIONE. VEDANTA VERACITÀ (ingl. Truthfulness; franc.
Véra- cité; ted. Wahrhaftigkeit). 1. Carattere di un di- scorso che esprime la
convinzione di chi lo pro- nuncia e che pertanto non può essere fonte di
inganni in chi ascolta. Locke chiamava la V. in questo senso «verità morale» e
la distingueva dalla verità « metafisica » che è la conformità delle idee alle
cose (Saggio, IV, 5, 11). Ma Leibniz adoperava a questo proposito la parola V.
(Nour. Ess., IV, 5, 11). 2. Talvolta si intende per V. la sincerità, che è una
qualità, non del discorso, ma della persona che tiene abitualmente discorsi veraci.
In questo senso Cartesio aveva parlato della « V. divina », affermando che Dio
non può ingannarci nel senso che non può essere causa di errori (Medit., IV).
VERBALISMO (ingl. Verbalism; franc. Ver- balisme). 1. Un’espressione verbale di
scarso o impreciso significato; o la tendenza a valersi di tali espressioni. 2.
Un’espressione verbale. VERBO. V. Logos. VERBO (gr. &îua; lat. Verbum;
ingl. Verb; franc. Verbe; ted. Zeitwort). Come parte del di- scorso, il V. fu
definito da Aristotele come «il nome che ha nel suo significato, una determina-
zione temporale, le cui parti non significano nulla separatamente e che è il
segno delle cose che sono predicate di un’altra cosa» (De Int., 3, 16b 6).
Questa definizione fu conservata dalla logica me- dievale (cfr. Pietro Ispano,
Summ. Log., 1.05). Nella linguistica moderna, la distinzione tra nome e verbo è
diventata assai meno importante giacchè, per quanto comune a molti linguaggi,
essa manca in certi altri (BLOOMFIELD, Language, 1933, pa- gina 20). VERIDICO (ingl.
Veridical; franc. Véridique; ted. Wahrhaftig). 1. Lo stesso che verace o vero
(v. VERACITÀ). 2. Ciò che contiene una parte o un accenno di verità. Per es.,
«sogno V.», « allucinazione V.», ecc. VERIFICA, VERIFICABILITÀ. V. VERIFI-
CAZIONE. VERIFICAZIONE (ingl. Verification; francese Vérification; ted.
Verifikation). 1. In generale, ogni procedimento che consenta di stabilire la
verità o la falsità di un enunciato qualsiasi. Poichè i gradi e gli strumenti
della V. possono essere innumerevoli, il termine ha una portata generalis- sima
e indica la messa in opera di qualsiasi pro- cedimento di attestazione o di
prova (v.). Il ter- mine può anche essere usato per indicare il controllo di
una situazione qualsiasi in base a regole o a strumenti adatti; e in tal senso
si parla di verificare i conti o i gradi di un angolo o l’autenticità di certi
documenti, ecc.: procedure che in italiano si VERITÀchiamano più semplicemente
verifiche (termine che no va riscontro nelle altre lingue). In questo senso
generale, il termine viene adoperato anche senza riferimento all’esperienza o
ai fatti; e si può parlare di V. di un’espressione matematica o di un enunciato
analitico della logica come della V. di un enunciato fattuale o di un'ipotesi
scien- tifica. Dall'altro lato, la nozione di V. viene talora estesa nel senso
di includere in essa non solo il procedimento che consente di stabilire la
verità o falsità di un enunciato, ma anche quello che con- sente di stabilire
la verità, la falsità o l’indeter- minazione dell’enunciato stesso: cioè in
riferimento a una logica a tre valori piuttosto che a due (con- fronta
REICHENBACH, «The Principle of Anomaly in Quantum Mechanics», 1948, in Readings
in the Phil. of Science, 1953, pag. 519-20). 2. In senso ristretto e specifico,
la V. concerne gli enunciati fattuali ed è un procedimento che fa appello
all’esperienza o ai fatti. Proprio in questo senso la V. è stata assunta
dall’empirismo logico (v.) come criterio del significato delle propo- sizioni:
criterio che il Circolo di Vienna (v.) inter- pretava nella forma più rigorosa,
dichiarando privi di senso tutti gli enunciati che non si pre- stassero ad
un’assoluta verifica empirica. Questo punto di vista veniva espresso con tutto
rigore da Carnap nella sua opera Der /ogische Aufbau der Welt (1928). La
possibilità di una verifica assoluta fu però negata, nell’ambito dello stesso
Circolo di Vienna da K. Popper (Logik der For- schung, 1935) e in seguito da
Lewis (« Experience and Meaning» in Philosophical Review, 1934) e da Nagel (in
Journal of Philosophy, 1934). Sicchè Carnap stesso modificava il suo punto di
vista e in un saggio del 1936 (« Testability and Meaning », ora in Readings in
the Phil. of Science, 1953, pa- gine 47-92) parlava, invece che di V., di
conferma (confirmation) degli enunciati. Dove una V. com- pleta non è possibile
(e non è possibile quasi mai nel dominio della scienza) il principio della
verifi- cabilità esprime l’esigenza di una conferma gra- dualmente crescente
(Ibid, pag. 49). Da questo punto di vista l’accettazione o il rifiuto di un
enun- ciato fattuale contiene sempre una componente convenzionale, che consiste
nella pratica decisione che si deve prendere per considerare il grado di
conferma di un enunciato come sufficiente per l'accettazione dell’enunciato
stesso. Questo punto di vista è oggi estesamente accettato. 3. Per ciò che
concerne la procedura della V. fattuale, poco è stato finora detto dai
filosofi. Reichenbach ha diviso questo procedimento in due fasi che sono: 1°
l’introduzione di una classe fondamentale O di enunciati osservazionali cioè di
significati primitivi o diretti, che non sono sotto 58 — ABHAGNANO, Dizionario
di filosofia.indagine durante il corso dell’analisi; 2° un insieme di relazioni
derivative (o regole di trasformazione) D che consentono di connettere alcuni
termini con le basi O. Dopo aver definito, per un’indagine specifica, sia la
base O che le relazioni derivative D, il termine « verificato » può essere
definito come «l’esser derivato dalla base O in termini delle relazioni D+. A
questa descrizione Reichenbach aggiunge una determinazione importante: la con-
dizione del significato non è la V. attuale ma la V. possibile (senza la quale
gli enunciati storici per es., non avrebbero significato); perciò la no- zione
di verifica suppone quella di possibilità e Reichenbach distingue a questo proposito
la pos- sibilità /ogica, la possibilità fisica e la possibilità tecnica e
distingue corrispondentemente tre specie di significati « Verifiability Theory
of Meaning», in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1951,
pag. 46 sgg.). La teoria della V. si lega così strettamente alla nozione della
pos- sibilità (v.). VERISIMILE (gr.
elx6c; lat. Verisimilis; inglese Likely; franc. Vraisemblable; ted. Wahrschein- lich). 1. Ciò che è simile al vero, senza
avere la pre- tesa di essere vero (nel senso, ad es., di rappresen- tare un
fatto o un insieme di fatti). Pertanto un racconto, ad es., un romanzo o una
tragedia, può essere V. senza essere minimamente probabile, senza che ci sia
alcuna probabilità che i fatti che narra si siano verificati o si verifichino.
In tal senso, il concetto del V. è stato adoperato costantemente nel dominio
dell’estetica da Aristotele in poi. « Nar- rare cose effettivamente accadute,
diceva Aristotele, non è compito del poeta ma piuttosto quello di rappresentare
ciò che potrebbe accadere cioè le cose possibili secondo verisimiglianza o
necessità + (Poer., 9, 1451 a 36). In questo senso il V. è il carattere di
enunciati, teorie o espressioni che non contraddi- cono alle regole della
possibilità logica o a quelle delle possibilità tecniche o umane. Una vicenda
umana immaginata è V. se essa viene giudicata conforme al comune comportamento
degli uomini o trova spiegazioni o appigli in tale comportamento. 2. Lo stesso
che persuasivo (v.) o probabile (v.). Popper ha tuttavia distinto la
verisimiglianza (Ve- risimilitude) dalla probabilità, perchè mentre que-
st’ultima rappresenta l’idea di un avvicinamento alla certezza logica o alla
verità tautologica attra- verso una diminuzione graduale del contenuto in-
formativo, la verisimiglianza rappresenta l’idea del- l’avvicinamento alla
verità comprensiva e così combina verità e contenuto, mentre la probabilità
combina verità e mancanza di contenuto (Con- jectures and Refutations, 1965,
pag. 237). VERITÀ (gr.
&xH0ew; lat. Veritas; ingl. Truth; franc. Vérité; ted. Wahrheit). La validità o l’effi- cacia dei procedimenti
conoscitivi. Per V. s'intende infatti in generale la qualità per cui una
procedura conoscitiva qualsiasi risulta efficace o ha successo. Questa
caratterizzazione si può applicare ugualmente sia alle concezioni che vedono
nella conoscenza un processo mentale sia a quelle che vedono in essa un
processo linguistico o segnico. Essa ha pure il vantaggio di prescindere dalla
distinzione tra defi- nizione della V. e criterio della verità. Questa di-
stinzione non viene effettuata sempre, e neppure è frequente; quando viene
effettuata, non è altro che l’assunzione di due definizioni della V. stessa.
Per es., nell’ambito della teoria della corrispon- denza, quando si distingue da
essa il criterio della V., lo si definisce come evidenza ricorrendo al con-
cetto di V. come rivelazione. E la dottrina della V. come conformità a una
regola, presentata da Kant come criterio formale, accanto al concetto della V.
come corrispondenza, diventa poi una definizione della V. stessa. Si possono
distinguere cinque concetti fondamen- tali della V.: 1° la V. come
corrispondenza; 2° la V. come rivelazione; 3° la V. come conformità a una
regola; 4° la V. come coerenza; 5° la V. come utilità. Queste concezioni hanno
avuto un’impor- tanza assai diversa nella storia della filosofia: le prime due,
e specialmente la prima, sono incom- parabilmente le più diffuse. Esse non sono
nep- pure alternative tra loro: cioè accade che più d’una di esse si ritrova nello
stesso filosofo, per quanto adoperata a diverso proposito. Sono tut- tavia
disparate e irriducibili l’una all’altra, perciò vanno tenute distinte. 1° Il
concetto della V. come corrispondenza è il più antico e diffuso. Presupposto da
molte delle scuole presocratiche, veniva per la prima volta esplicitamente
formulato da Platone con la defini- zione del discorso vero che dà nel Cratilo:
« Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che le dice come
non sono» (Crar., 385 b; cfr. Sof., 262 e; Fil., 37c). A sua volta Aristotele
diceva: « Negare quello che è e affermare quello che non è, è il falso, mentre
affermare quello che è e negare quello che non è, è il vero 1 (Mer., IV, 7,
1011 b 26 sgg.; cfr. V, 29, 1024b 25). Aristotele enunciava anche i due teoremi
fondamentali di questa concezione della verità. Il primo è che la V. è nel
pensiero o nel linguaggio, non nell’essere o nella cosa (Mer., VI, 4, 1027 b
25). Il secondo è che la misura della V. è l’essere o la cosa, non il pensiero
o il discorso: sicchè una cosa non è bianca perchè si asserisce con V. che è
tale; ma si asserisce con V. che è tale, perchè essa è bianca (Mer., IX, 10,
1051 b 5). Nelle precedenti dottrine la definizione della V. e il criterio di
V. coincidono. In altre dottrine, pur mantenendosi immutata la definizione di
V., il criterio di V. viene ritenuto diverso; così accade nello stoicismo e
nell’epicureismo. Stoici ed Epi- curei continuano ad ammettere che la V. è la
cor- rispondenza della conoscenza alla cosa (SESTO Emp., Adv. Math., VIII, 38;
IH, 9) ma ritengono che il criterio della V. sia diverso, perchè gli Stoici lo
vedono nella rappresentazione caralettica (v.) che è la manifestazione
dell’oggetto all'uomo e gli Epicurei lo vedono nella sensazione, che è, per
loro, il manifestarsi stesso della cosa (Diog. L., X, 31). In tali casi, la
distinzione tra la V. e il cri- terio equivale al riconoscimento di due
concetti, rite- nuti compatibili (o non incompatibili) della verità. La
coesistenza di due concetti di V. d’altronde è tutt'altro che rara. Spesso la
teoria della corri- spondenza si accompagna con quella della V. come
manifestazione o rivelazione. S. Agostino da un lato definisce il vero come «
ciò che è così, come appare » (Solil., II, 5); dall’altro considera come V.
«ciò che rivela quel che è, o che manifesta se stesso » e in tal senso
identifica la V. con il Verbum o Logos che è la prima immediata e perfetta
mani- festazione dell’Essere, cioè di Dio (De Vera Rel., 36). A sua volta S.
Tommaso, riprendendo una definizione data da Isacco Ben Salomon nel se- colo
rx, definisce la V. come « l’adeguazione del» l'intelletto e della cosa» (S.
7h., I, g. 16, a. 2; Contra Gent., I, 59; De Ver., q. 1, a. 1). Ma mentre
conserva rispetto all’uomo il teorema aristotelico che le cose, e non
l’intelletto, sono la misura della V., inverte questo teorema rispetto a Dio. «
L’in- telletto divino, egli dice, è misurante, non misu- rato; la cosa naturale
è misurante e misurata; ma il nostro intelletto è misurato, non misurante,
rispetto alle cose naturali e misurante solo rispetto a quelle artificiali» (De
Ver., q.1, a. 2). Esiste quindi anche una V. delle cose che è ciò per cui le
cose somigliano al loro principio che è Dio; e in questo senso Dio stesso è la
prima e somma V. (S. 7h., I, q. 16, a. 5). Questi concetti ricorrono
frequentemente nella filosofia medievale. Il con- cetto della V. come
corrispondenza viene ampia- mente utilizzato. Pietro Ispano (Summ. Log., 3.34)
Herveus Natalis (Quod!., III, 1), Antonio Andrea (Super artem veterem, ed.
1508, f. 45r A) conser- vano la dottrina della V. come conformità dell’in-
telletto alla cosa pur polemizzando sul modo d°’es- sere della cosa o più
precisamente degli oggetti cui l’intelletto deve conformarsi. In generale,
nella Scolastica della seconda metà del *200 e in quella del ’300, si specifica
che la « cosa » cui l’intelletto deve conformarsi è la « res intellecta » cioè
la cosa come è appresa dall’intelletto, non esterna all’in- telletto stesso
(cfr. anche DURANDO DI SAINT- POURGAIN, /n Sent., I, d. 19, q. 5). Il concetto
del- l’adeguazione o della conformità tuttavia perde, a partire dal sec. xIv,
la sua portata metafisica e teologica per assumere un significato strettamente
logico o, come oggi si direbbe, semantico. L’iden- tificazione polemica, difesa
da Ockham, di « V.» e « proposizione vera » equivale appunto alla nega- zione
del valore metafisico della parola V. (Summa Log., I, 43; Quodl., V, q. 24). I
platonici di Cam- bridge mantengono, per ovvi motivi, il carattere metafisico e
teologico della nozione della corrispon- denza, parlando di una conformità
della cosa con se stessa o con la propria essenza contenuta nel- l'intelletto
divino (cfr. HERBERT DI CHERBURY, De veritate, 1656, pag. 4 sgg.); ma Hobbes
insiste sul punto di vista nominalistico della V. come semplice attributo delle
proposizioni (De Corp., 3, $ 7) e così fa Locke (Saggio, II, 32, 3-19); e
perfino Leibniz che rigetta la nozione metafisica della V. quale «attributo
dell’essere » e si limita a vedere nella V. «la corrispondenza delle
proposizioni, che sono nello spirito, con le cose di cui si tratta » (Nouv.
Ess., IV, 5, 11). Wolff metteva insieme il concetto della V. come «concordanza
del nostro giudizio con l'oggetto, cioè con la cosa rappre- sentata » (Log., $
505), che egli chiamava defini- zione nominale della V., e la nozione logica
della V. come « determinabilità del predicato mediante la nozione del soggetto»
che egli chiamava de- finizione reale (Ibid, $ 513). Baumgarten ritor- nava
alla nozione di V. metafisica come « ordine del molteplice nell’unità» (Mer., $
89); mentre Kant dichiarava di presupporre semplicemente la « definizione
nominale della V.» come « accordo della conoscenza con il suo oggetto » e si
poneva il problema di trovare un crirerio per la V. stessa. Escluso che fosse
possibile un criterio generale cioè valido per tutte le conoscenze, egli si
fermava sul criterio formale della V. che è la conformità della conoscenza a
proprie regole (Crir. R. Pura, Lo- gica, Intr., III; v. oltre). Questo concetto
della V. come corrispondenza non è mai venuto meno neppure nella filosofia più
recente dalla quale è talvolta assunto come semplice presupposto, tal- volta
esplicitamente difeso. Ciò è accaduto spe- cialmente nelle correnti realistiche
(cfr., per es., BoLzano, Wissenschaftslehre, I, $ 25; A. MEINONG, Ùber
Annahmen, pag. 125 sgg.). Appunto nello spirito del realismo, N. Hartmann ha
difeso la concezione della V. come «coincidenza con un oggetto che deve venire
inteso come tale» (Syste- matische Philosophie, $ 9). L’intero mondo della
conoscenza è inteso da Hartmann come «la rifles- sione dell'essere su se
stesso» (Meraphysik der Erkenntnis, 1921, cap. 27, b). La dottrina della
corrispondenza è quella cui ricorrono anche i logici contemporanei, che cer-
5b* — ADBAGNANO, Dizwnario di filosofia. cano di formularla in modo da renderla
indipen- dente da qualsiasi ipotesi metafisica. Da questo punto di vista la
migliore formulazione è stata data alla teoria da Alfred Tarski, che si è
esplici- tamente rifatto, oltre che alla definizione aristote- lica sopra
riportata, anche a definizioni analoghe o dipendenti da essa, come quella
secondo la quale «un enunciato è vero se designa uno stato di cose esistente»
(B. RusseLL, An /nquiry into Meaning and Truth, 1940, pag. 362 sgg.). Tarski è
partito da un’equivalenza di questo genere: « L’enunciato “la neve è bianca” è
vero se, e solo se, la neve è bianca» per generalizzarla nella formula « X è
vero se, e solo se p ». Utilizzando la nozione seman- tica di soddisfazione
intesa come la relazione tra oggetti arbitrari e certe espressioni chiamate «
fun- zioni enunciative» del tipo «x è bianco» «x è più grande di y», ecc.,
Tarski ha dato la seguente definizione della V.: « Un enunciato è vero se è
soddisfatto da tutti gli oggetti e falso altrimenti ». Tarski ha sottolineato
il fatto che la nozione se- mantica della V. (come egli l’ha chiamata e come
abitualmente si chiama) non implica nulla circa le condizioni sotto la quale un
enunciato come «la neve è bianca » può essere asserito. Indica solo che, ogni
qualvolta che asseriamo o rigettiamo questo enunciato, dobbiamo essere pronti
ad asserire o rigettare l’enunciato correlativo « L'enunciato ‘la neve è
bianca” è vero ». In tal modo egli ritiene che la concezione semantica della V.
possa con- ciliarsi con qualsiasi atteggiamento epistemologico essendo neutro
riguardo a qualsiasi concezione realistica o idealistica, empiristica o
metafisica della conoscenza (« The Semantic Conception of Truth », 1944, in
Readings in Philosophical Analisys, 1949, pag. 52-84; la concezione di Tarski
fu esposta per la prima volta in uno scritto polacco del 1933 tradotto in
tedesco negli Srudia Philosophica del 1935, pag. 261-405). Carnap accettava
questa con- cezione della verità ma insistendo sulla sua diffe- renza
fondamentale dai concetti di credenza, verifica- zione, conferma ecc.
(Introduction to Semantics $ 7). M. Black metteva in luce l’insignificanza
filosofica di essa (Language and Philosophy, IV, $ 8). 2° La seconda concezione
fondamentale della V. è quella che la considera come rivelazione o
manifestazione. Essa ha due forme fondamentali, una empiristica, l’altra
metafisica o teologica. La forma empiristica consiste nell’ammettere che la V.
è ciò che immediatamente si rivela all’uomo, ed è perciò sensazione, intuizione
o fenomeno. La forma metafisica o teologica è quella secondo la quale la V. si
rivela in modi di conoscere eccezio- nali o privilegiati, attraverso i quali si
rende evi- dente l’essenza delle cose o il loro essere o il loro stesso principio
(cioè Dio). La caratteristica fon- damentale di questa concezione è il rilievo
dato all’evidenza, assunta insieme come definizione e criterio della verità. Ma
l'evidenza, ovviamente, non è che rivelazione o manifestazione. Nel senso
empiristico, la V. veniva intesa come rivelazione dai Cirenaici, che vedevano
nelle sen- sazioni l’evidenza stessa delle cose (SESTO EMP., Adv. Math., VII,
199-200), dagli Epicurei che con- sideravano la sensazione come il criterio
della V. (Droga. L., X, 31-32) e dagli Stoici che lo vedevano nella
rappresentazione caralettica (v.) (Dioa. L., VII, 54). La nozione della
conoscenza intuitiva è in Ockham la nozione di una manifestazione im- mediata
delle cose, nei loro caratteri e nelle loro relazioni, all’uomo (/n Sent., Prol.,
q. 1, Z). Nello stesso spirito, Telesio diceva che le cose « retta- mente
osservate, manifestano da sè la grandezza che ognuna ha, nonchè la loro
capacità, le loro forze, la loro natura» e vedeva nella sensazione una tale
immediata rivelazione delle cose stesse (De rer. nat., I, Proem.). In generale
tutte le dot- trine che affidano alla sensibilità la conoscenza delle cose
tendono a scorgere nella sensibilità stessa la rivelazione della loro natura e
identificano con tale rivelazione o la verità stessa o il criterio della
verità. Dall’altro lato, dalla stessa interpretazione me- tafisica o teologica
della V. come corrispondenza, nasce il concetto di V. come manifestazione del-
l'essere o del principio supremo. Plotino diceva: «La V. vera non è in accordo
con un’altra cosa ma in accordo con se stessa: essa non enuncia nulla fuori di
sè, ma enuncia ciò che essa stessa è » (Enn., V, 5, 2). In questo senso la V. è
ipostatiz- zata: non è il carattere formale di certi procedi- menti conoscitivi
ma un principio metafisico o teologico che ha la stessa sostanzialità e la
stessa dignità del principio che si manifesta in essa, cioè di Dio. Questo
concetto è il tema di numerose speculazioni nella filosofia patristica e
scolastica. S. Agostino afferma che ci deve essere una natura che è così vicina
all’Unità suprema da riprodurla in tutto e da essere uno con essa; e che questa
na- tura è la V. o Verbo di Dio (De Vera Rel., 36). E che la V. sia, in primo
luogo, lo stesso intelletto o Verbo di Dio è dottrina comune nella Scolastica
(AnseLMO, De Veritate, 14; S. ToMMAasOo, De Veri- tate, q. l, a. 4). Più tardi
lo stesso concetto di V. come rivelazione condusse a riconoscere, sulla base
del criterio del- l'evidenza, l’esistenza di V. eterne. Cartesio vide nel
cogito (v.) l’evidenza originaria, quella per la quale si rivela al soggetto
pensante la sua stessa esistenza; e ritenne che dovesse essere considerato come
vero tutto ciò che si manifesta in modo evi- dente. Nell'ambito di ciò che si
manifesta in tal modo, Cartesio pose le V. eterne, stabilite e garan tite
dall’immutabilità di un decreto di Dio (Méd., IV; Princ. Phil., I, 49). Le V.
eterne, sono, secondo Cartesio, garantite e rivelate direttamente da Dio,
perciò sono eterne (Réponses, VI, 4). E tali le con- sidera anche Malebranche
per quanto, a differenza di Cartesio, ritiene che esse siano, non già poste ma
semplicemente riconosciute e fatte valere da Dio (Recherche de la verité, X
éclaircissement). Ma il concetto della V. come rivelazione fu soprat- tutto
caro al Romanticismo che, in suo aspetto essenziale, si potrebbe designare come
filosofia della rivelazione (v. RoManTticISMO). Hegel di- ceva: « L’Idea è la
V.: perchè la V. è il rispondere dell’oggettività al concetto. Non nel senso
che le cose esterne rispondano alle mie rappresentazioni: queste sono in tal
caso solo rappresentazioni esatte che io ho come individuo. Ma nel senso che
tutto il reale, in quanto è vero, è l’Idea; e ha la sua V. solo per mezzo
dell’Idea e nelle forme dell’Idea » (Enc., $ 213). In altri termini, l’Idea è
«l’oggettività del concetto » cioè la razionalità del reale, ma in quanto si
manifesta alla coscienza nella sua necessità, cioè come sapere o scienza (System
der Philosophie, ed. Glockner, I, pa- gina 423; Wissenschaft der Logik, ed.
Glockner, II, pag. 275): e il sapere e la scienza sono l'auto- manifestazione
dell’Idea cioè la sua autentica e completa rivelazione. A metà strada tra la
forma empiristica e la forma teologica di questa concezione della V., sta
quella che essa ha ricevuto per opera della feno- menologia e
dell’esistenzialismo. La fenomenologia è, nel suo stesso concetto, il metodo
per rendere possibile alle essenze di manifestarsi o rilevarsi come tali.
L’epoché (v.) fenomenologica, mettendo in parentesi l’atteggiamento naturalistico,
che con- siste nell’affermare la realtà delle cose nel mondo, tende a rendere
possibile alle cose stesse di mani- festare la loro essenza. Da questo punto di
vista la V. è la stessa evidenza con cui gli oggetti fenome- nologici si
presentano, quando l’epoché è stata ef- fettuata (/deen, I, $ 136). V. ed
evidenza, secondo Husserl, appartengono pertanto non solo agli og- getti
teoretici ma a tutti gli oggetti della conside- razione fenomenologica, siano
anche valori, sen- timenti, ecc. (/bid., $ 139). A sua volta Heidegger ha
insistito sul carattere di rivelazione o di sco- primento della V.,
appellandosi anche all’etimologia della parola greca. Perciò da un lato egli ha
insi- stito sulla stretta connessione del modo d'essere della V. col modo
d'essere dell’uomo cioè con l’esserci: in quanto solo all'uomo la V. può ri-
velarsi e si rivela (Sein und Zeit, $ 44). Dall’altro ha insistito sulla tesi
che il /uogo della V. non è il giudizio e che la V. non è una rivelazione
dicarattere predicativo, ma consiste nell’essere sco- perto dell’essere delle
cose o di queste cose stesse e nell'essere scoprente dell’uomo (/bid., $ 44b; cfr.
Vom Wesen des Grundes, I, trad. ital., pag. 20). Heidegger ha tuttavia
insistito anche sul fatto che ogni scoprimento dell’essere, in quanto
scoprimento parziale, è anche un coprimento di esso; un tema che ricorre
soprattutto nei suoi scritti del secondo periodo. « L'essere si sottrae, mentre
si rivela, all’ente. In tal modo, l’essere, illuminando l’ente, lo svia nello
stesso tempo verso l’errore » (Holzwege, pag. 310). 3° La terza concezione
della V. è quella che la considera come la conformità con una regola o con un
concetto. Questa nozione fu per la prima volta enunciata da Platone. «
Prendendo a fonda- mento, egli diceva, il concetto che io giudico il più saldo,
tutto ciò che mi sembra in accordo con esso lo pongo come vero, sia che si
tratti di cause sia che si tratti di altre cose esistenti; quello che non mi
sembra in accordo con esso, lo pongo come non vero» (Fed., 100a). Sporadicamente,
questa concezione ritorna nella storia della filo- sofia. S. Agostino affermava
che «c’è, sopra la nostra mente, una legge che si chiama V.» e che noi possiamo
giudicare tutte le cose in conformità di questa legge, che tuttavia sfugge a
qualsiasi giudizio (De Vera Rel., 30-31). Nella letteratura che si ispira a S.
Agostino questo tema ritorna frequentemente; ma la più importante espressione
di questo concetto della V. è dovuta a Kant. Kant veramente si avvale della
nozione, non per la de- finizione della V. (giacchè, come si è detto, di-
chiara di presupporre la definizione nominale della V. che è quella della
corrispondenza) ma come criterio della V. stessa. Il criterio può concernere,
secondo Kant, solo la forma della V., cioè del pensiero in generale; e consiste
nella conformità con «le leggi generali necessarie dell’intelletto ». «Ciò che
contraddice queste leggi, afferma Kant, è falso perchè l'intelletto in tal caso
contrasta con le sue stesse leggi, perciò con se stesso ». Tuttavia questo
criterio formale non basta a stabilire la verità materiale, od oggettiva, della
conoscenza; chè anzi il tentativo di trasformare questo canone di valutazione
formale in organo di conoscenza effettiva non è che l’uso dialettico, cioè
illusorio, della ragione (Crit. R. Pura, Logica, Intr., m; Logik, Intr., vm).
Questo criterio fu raccolto e accentuato dai neo-kantiani soprattutto da quelli
della scuola del Baden. Windelband riteneva che l’oggetto della conoscenza, ciò
che misura e de- termina la V. della conoscenza stessa, non è una realtà
esterna (che come tale sarebbe irraggiungi- bile e inconoscibile) ma la regola
intrinseca della conoscenza stessa (Prdludien, 1884, 4* ediz., 1911, passim).
Rickert identificava l’oggerto della cono- 917 scenza con la norma a cui la
conoscenza deve adeguarsi per essere vera (Der Gegenstand der Erkenntnis,
1892). In questi neo-kantiani la confor- mità alla regola, che Kant aveva posto
semplice- mente come criterio formale della V., diventa l’unica definizione
della V. stessa. 4° La nozione della V. come coerenza compare nel movimento
idealistico inglese della seconda metà del sec. xIx e viene condivisa da tutti
gli apparte- nenti a questo movimento in Inghilterra e in Ame- rica. Essa venne
espressa per la prima volta nella Logica o morfologia della conoscenza (1888)
di B. Bosanquet; ma la sua diffusione fu dovuta al- l’opera di F. H. Bradley,
Apparenza e realtà (1893). La critica del Bradley al mondo dell’esperienza
umana partiva dal principio che ciò che è con- tradditorio, non può essere
reale; e conduceva pertanto Bradley ad ammettere che la V. o realtà è coerenza
perfetta. La coerenza però, attribuita alla realtà ultima cioè alla Coscienza
infinita o assoluta, non è semplice assenza di contraddizione; è abolizione di
ogni molteplicità relativa e forma di armonia che non si lascia intendere nei
termini del pensiero umano (Appearance and Reality, 2 ed., 1902, pag. 143
sgg.). I gradi di verità raggiungi- bili dal pensiero umano si possono
giudicare © graduare, secondo Bradley, in base al grado di coerenza che essi
posseggono, per quanto tale coerenza sia sempre approssimativa e imperfetta
(Ibid., pag. 362). Questi concetti ritornano in una numerosa serie di pensatori
dello stesso indirizzo (v. IpraLIsMo) senza che la nozione della coerenza ne
venga modificata o chiarita (v. (COERENZA). I precedenti di questa dottrina si
trovano più che in Hegel (al quale tuttavia gli idealisti inglesi più
frequentemente si riferivano) in Spinoza. Essa in- fatti non è che la
trascrizione di quella che Spinoza chiamava « il terzo genere di conoscenza + o
« amore intellettuale di Dio »: cioè della conoscenza dell’or- dine totale e
necessario delle cose, che Spinoza identificava con Dio stesso (Er., V, 25). 5°
La definizione della V. come utilità è propria di alcune forme della filosofia
dell’azione e special- mente del pragmatismo. Ma il primo a formularla è stato
Nietzsche: « Vero, non significa in generale se non ciò che è adatto alla
conservazione dell’uma- nità. Ciò che mi fa perire quando ci credo non è vero
per me, è una relazione arbitraria e illegittima del mio essere con le cose
esterne» (Wille zur Macht, ed. Kréner, $ 78, 507). Fu il pragmatismo a diffon-
dere questa nozione, che fu difesa in primo luogo da W. James. Questi tuttavia
identificò utilità e V. solo nei limiti delle credenze non verificabili
empiricamente o non dimostrabili, quali erano, secondo lui, le credenze morali
e religiose (The Will to Believe, 1897). L'equazione tra utilità e V. fu estesa
a tutta la sfera della conoscenza da F. C. S. Schiller (Humanism, 1903 e
scritti seguenti). Da questo punto di vista una proposizione, a qual- siasi
campo appartenga, è vera solo per la sua effettiva utilità cioè perchè è utile
a estendere la conoscenza stessa o a estendere mediante la cono- scenza il
dominio dell’uomo sulla natura o alla solidarietà e all’ordine del mondo umano.
Un criterio simile veniva presentato da H. Vaihinger nella sua Filosofia del
come se (Philosophie des Als Ob, 1911) e popolarizzato da M. De Unamuno nella
sua Vita di Don Chisciotte e Sancio (1905) (v. PRAG- MATISMO). Forse si può
scorgere una forma diversa di questa stessa concezione nella tesi di Dewey
della strumentalità di ogni procedura conoscitiva, e della conoscenza nel suo
insieme, ai fini del perfe- zionamento della vita umana nel mondo. Non si trova
tuttavia in Dewey la definizione della V. come utilità ma soltanto
l’affermazione del carattere stru- mentale quindi valido, ma non vero, delle
propo- sizioni (Logic, XV; trad. ital., pag. 382-83) (vedi VALIDITÀ). VERITÀ
DOPPIA. V. DOPPIA VERITÀ. VERO (gr. dandé; lat. Verum; ingl. True; franc. Vrai;
ted. Wahr). Gli Stoici distinguevano il V. dalla verità perchè il V. è un
enunciato quindi è incorporeo, mentre la verità, come scienza che contiene
tutti i V., è un modo d'essere della parte egemonica dell’uomo e quindi
corporea. Inoltre il V. è semplice mentre la verità consta di molti V. e la
verità appartiene alla scienza quindi al sa- piente mentre il V. può essere
anche dello stolto (Sesto EMPIRICO, /p. Pirr., II, 81-83; Adv. Dogm., I,
38-42). Nella scolastica il V. fu inteso come uno dei #ra- scendentali (v.)
cioè dei caratteri che appartengono alle cose come tali, indipendentemente dai
loro generi e per esso fu intesa l’intelligibilità della cosa (S. Tommaso, S.
7h., q. 16, a. 3, ad. 3°). VERUM IPSUM FACTUM. Formula di cui si servl G. B.
Vico per esprimere il principio che l’uomo può conoscere solo ciò che egli
stesso ha fatto, perchè la conoscenza di una cosa è la cono- scenza della sua
genesi (De antiquissima italorum sapientia, 1710, $ 1). Ma questo concetto era
de- sunto da Hobbes che lo aveva esposto nel De Ho- mine (1658). Hobbes stesso
aveva ridotto il dominio della conoscenza umana da unlato alle matematiche, i
cui oggetti sono interamente prodotti dall’uomo, dall’altro alla politica e
all’etica che anch'esse trat- tano di oggetti (leggi, convenzioni, princìpi)
creati dall'uomo (De Hom. 10). Analogamente Vico dap- prima restrinse il
dominio della conoscenza umana alle matematiche (nel De Antiquissima) poi lo
estese al mondo della storia, nella Scienza Nuova (1725). Un precedente di
questa dottrina si può trovare VERITÀ DOPPIA nel De Possest (1460) di Cusano,
dove si dice che l’uomo può conoscere gli enti matematici « nozio- nali »
perchè procedono dalla sua ragione e hanno in essa il loro principio, mentre
solo Dio può conoscere gli enti reali che hanno in lui la sua causa
(Philosophisch-Theologische Schriften, ed. Ga- briel, II, pag. 318-20). VETTORE
(ingl. Vector; franc. Vecteur; te- desco Vector). In matematica, una grandezza
deter- minata in quantità, direzione e senso. Esso viene abitualmente
rappresentato con una freccia. White- head ha utilizzato il termine per
indicare il rife- rimento all’esterno dell’esperienza sensibile (Pro- cess and
Reality, 1929, pag. 249). VIOLENZA (gr. Bla; lat. Violentia; ingl. Vio- lence;
franc. Violence; ted. Gewaltsamkeit). 1. Azione contraria all’ordine o alla
disposizione della na- tura. In tal senso Aristotele distingueva il movi- mento
secondo natura e il movimento per V.: il primo è quello che porta gli elementi
al loro luogo naturale; il secondo è quello che li allontana (De Cael., I, 8,
276, a 22) (v. FISICA). 2. Azione contraria all’ordine morale giuridico o
politico. In tal senso si dice «commettere» o « subire V.». L’esaltazione della
V. in questo senso è stata talora fatta per motivi politici. Così Sorel ha contrapposto
la V. diretta a creare una società nuova alla forza che è propria della società
e dello stato borghese. « Il socialismo deve alla V. gli alti valori morali con
i quali porge la salvezza al mondo moderno » (Réflexions sur la violence; 1906,
tra- duzione ital, pag. 133). VIRTÙ (gr. dpeth; lat. Virtus; ingl. Virtue; franc. Vertu; ted. Tugend). Il termine designa una qualsiasi capacità o
eccellenza, a qualsiasi cosa o essere appartenga. I suoi significati speci-
fici possono essere ridotti a tre: 1° capacità o po- tenza in generale; 2°
capacità o potenza propria dell’uomo; 3° capacità o potenza propria dell’uomo,
di natura morale. 1° Nel primo senso che è quello della defini- zione generale,
la V. indica una capacità o po- tenza qualsiasi, per es., di una pianta o di un
animale o di una pietra. Machiavelli parla della «V.» dell’arte della guerra
(Principe, 14); e Berkeley delle « V. dell’acqua di catrame» (sottotitolo della
Siris, 1744). 2° Nel secondo senso, la V. è una capacità o potenza propria
dell’uomo. Così, ad es., si chiama virtuoso chi possiede un’abilità qualsiasi,
per es., nel canto o nel suonare uno strumento o nell’uso del grimaldello. A
questo senso della V. ha voluto ri- tornare Nietzsche. «Io riconosco la V. in
questo, egli ha detto: 1° che essa non si impone; 2° che essa non suppone
dappertutto la V. ma precisamente un’altra cosa; 3° che essa non soffre per
l’assenza della V. ma considera questa assenza come un rapporto di distanza
grazie al quale c’è qualcosa di venerabile nella V.; 4° che essa non fa propa-
ganda; 5° che essa non permette a nessuno di fare il giudice perchè è sempre
una V. di per se stessa; 6° che essa fa precisamente tutto ciò che è proibito
(la V. come io la comprendo è il vero veritum in tutta la legislatura del
gregge); 7° che essa è V. nel senso del Rinascimento, V. libera dalla mora-
lità » (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 431). 3° Nel terzo senso, il termine
designa una ca- pacità dell'uomo nel dominio morale. Deve trat- tarsi di una
capacità uniforme o continuativa, come già notava Hegel (Fil. del Dir., $ 150
ag- giunta) giacchè un atto morale non fa virtù. Questa condizione tuttavia non
è sempre rispettata e Locke, per es., parla di V. e di vizio nel senso di atti
mo- rali isolati (Saggio, II, 28, 11). Le definizioni della V. in questo senso
rientrano nelle seguenti rubriche: a) la capacità di adempiere a un compito o
ad una funzione; b) l’abito o la disposizione razionale; c) la capacità del
calcolo utilitario; 4) un sentimento o tendenza spontanea; e) lo sforzo. a) La V.
come capacità di attendere a un compito determinato è il concetto platonico
della virtù. Come la funzione di un organo, per es., degli occhi è quella di
vedere e la possibilità di vedere è la V. propria degli occhi, così l’anima ha
le sue proprie funzioni e la sua capacità di adempiere ad esse è la V. propria
dell’anima (Rep., I, 353). La diversità delle V. è perciò secondo Platone
determinata dalla diversità delle funzioni cui l'anima deve adempiere o cui
deve adempiere l’uomo nello Stato. Le quattro V. fondamentali o cardinali (v.)
sono per l’appunto determinate dalle funzioni fondamentali dell’anima e della
comunità. b) La concezione della V. come abito (v.) o disposizione razionale
costante è quella propria di Aristotele e degli Stoici ed è la più diffusa
nell’etica classica. Secondo Aristotele, la V. è l’abito che rende l’uomo buono
e gli consente di far bene il suo compito proprio (Ef. Nic., II, 6, 1106 a 22);
ed è un abito razionale (/bid., II, 2, 1103 b 32) nonchè, come tutti gli abiti,
uniforme o costante. Gli Stoici, a loro volta definivano la V. come « una
disposizione dell’anima coerente e concorde, che rende degni di lode coloro in
cui si trova ed è di per se stessa lodevole anche indipendentemente dalla sua
utilità » (Cic., Tusc., IV, 15, 34; STOBEO, Ecl., II, 7, 60). Queste
definizioni sono state ri- petute innumerevoli volte nella filosofia antica e
medievale ed anche nel pensiero moderno. Esse si trovano, ad es., in Abelardo
(Theol. Christ., II), Alberto Magno (S. 7A., II, q. 102, a. 3), S. Tom- maso
(S. 7A., II, 1, q. 55), Leibniz (il quale distingue le V. come abitudini dalle
corrispondenti azioni, 919 Nouv. Ess., II, 28, 7), e Cristiano Wolff. (Phil
Practica, I, $ 321). c) Il terzo concetto della V., è quello che la considera
come la capacità del calcolo utilitario. Fu Epicuro il primo ad esporre questa
nozione, considerando come V. suprema, dalla quale tutte le altre derivano, la
saggezza che giudica sui pia- ceri che occorre scegliere e su quelli che sono
da fug- gire e distrugge le opinioni che sono la causa delle perturbazioni
dell'anima (Dio. L., X, 132). Nel Rinascimento, questa concezione veniva difesa
da Telesio che vedeva nella V. la facoltà di stabilire la misura giusta delle
passioni e delle azioni affinchè non venga da esse alcun danno all’uomo (De
rer. nar., IX, 5). E più tardi una concezione analoga veniva ripresa da Hume
(/ng. Conc. Morals, I), e in generale dall’utilitarismo inglese e special-
mente da Bentham che definiva la V. come «l’at- titudine a produrre la
felicità» (Deontology, X). Per quanto questo concetto della V. sia solitamente
proprio dell’empirismo, Spinoza lo condivise: « Agire assolutamente secondo V.,
egli scrisse, non è altro per noi che agire, vivere, conservare il proprio
essere (tre cose che significano lo stesso) secondo la guida della ragione, sul
fondamento della ricerca dell’utile» (Er., IV, 24). d) Il concetto della V.
come sentimento o tendenza, cioè come spontaneità, fu proprio degli analisti
inglesi del *700 a cominciare da Shafte- sbury. «In una creatura sensibile,
egli dice, ciò che non è fatto attraverso un’affezione, non produce né bene né
male nella natura di quella creatura; la quale può essere detta buona solo
quando il bene o il male del sistema con il quale essa è in relazione è
l’oggetto immediato di qualche emo- zione o affezione che la muove»
(Characteristics of Men, Treatise IV, Book I, part. 2, sect. D. Su questa base
Hutchinson postulò un senso morale a fondamento della V. (System of Moral
Philosophy, I, 4): e Adamo Smith definì questo senso morale come simpatia
(Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1). Ma fu soprattutto l’illuminismo
francese a diffondere questo concetto della V., Rousseau parlava della pietà
come di una «V. naturale » che è «una disposizione con- veniente a esseri così
deboli e soggetti a tanti mali come gli uomini» e che precede ogni riflessione
(De l’inégalité parmi les hommes, I); e Voltaire riteneva nello stesso senso
che la V. non è altro che «il far bene al prossimo » (Dictionnaire philo-
sophique, art. Vertu). L'etica del positivismo si riattacca a questa concezione
facendo della V. la manifestazione dell’istinto altruistico (COMTE, Caré-
chisme positiviste, pag. 48; SPENCER, Data of Ethics, $ 46). Nella filosofia
contemporanea una conce- zione analoga si può scorgere nella dottrina di
Bergson della cosiddetta «morale aperta» che è la manifestazione dello slancio
vitale (Deux sources de la morale, 1932, cap. I). e) Infine la dottrina della
V. come sforzo è stata enunciata da Rousseau e fatta propria da Kant. Diceva
Rousseau: « Non c’è felicità senza coraggio nè V. senza lotta: la parola V.
deriva dalla parola forza; la forza è la base di ogni virtù. La V. appartiene
soltanto agli esseri deboli di natura, ma forti di volontà: per questo appunto
rendiamo onore all’uomo giusto e per questo, pur attribuendo a Dio la bontà,
non lo diciamo vir- tuoso, perchè le sue buone opere sono da Lui com- piute
senza sforzo alcuno» (Émile, V). In questo spirito Kant ha definito la V. come
« l’intenzione morale in lotta» che non avrebbe senso nel caso in cui all’uomo
fosse accessibile la santità cioè la coincidenza perfetta della volontà come
legge (Crir. R. Prat., I, libro I, cap. III). Come Cicerone (vedi Coraggio) e
Rousseau, egli ha connesso stretta- mente la nozione di V. con quella di
coraggio: «La qualità speciale e il proposito elevato con cui si resiste a un
forte ma ingiusto avversario si chiama coraggio (fortitudo) e quando si tratta
dell'avversario che l’intenzione trova in noi, si chiama V. (virtus, fortitudo
moralis). Dunque la parte della dottrina generale dei doveri che sotto- mette a
leggi, non la libertà esterna, ma la libertà interna è una dortrina della V.»
(Met. der Sitten, II, Intr., I). In polemica con Kant, Schiller cercò di
ricondurre la dottrina kantiana a quella della V. come spontaneità o
sentimento. « Non ho un buon concetto dell’uomo, scrisse Schiller, che si può
così poco fidare della voce dell’istinto che ogni volta deve farlo tacere
davanti alla legge della morale, e piuttosto rispetto e stimo colui che si
abbandona con una certa sicurezza all’istinto sognatori della sensazione » che
sono quelli che credono di avere la visione di spiriti disincarnati, e i
«sognatori della ragione » cioè i metafisici che anch'essi vi- vono in un mondo
di sogni o di visioni private. VISIONE (ingl. Vision; franc. Vision; tedesco
Anschauung, Traàumerei). 1. Nel senso propriamente filosofico, lo stesso che
intuizione (v.). 2. L’operazione propria del senso della vista. 3.
Allucinazioni, sogni, immagini credute reali di fantasmi o di spiriti
disincarnati. VITA (gr. oh, Bloc; lat. Vita; ingl. Life; francese Vie; ted.
Leben). La caratteristica di certi fenomeni di prodursi o regolarsi da sè; o la
totalità di tali fenomeni. Questa caratterizzazione si da qui soltanto come
quella sulla quale più ampio è l’ac- cordo tra filosofi e tra scienziati, e a
titolo pura- mente descrittivo, senza che il riconoscimento di una
caratteristica propria dei fenomeni della V. implichi il riconoscimento di un
principio o di una causa a sè di tali fenomeni. Vedremo anzi come a certi
livelli della V. la distinzione stessa tra ciò che è V. e ciò che non lo è
diventa oltre modo difficile o perde di senso. La disputa tra vitalismo e
antivitalismo non concerne il problema della ca- ratterizzazione della V.: concerne
invece quello circa l'origine e lo sviluppo della V. stessa; e su tale
problema, v. VITALISMO. Fin dall’antichità i fenomeni della V. sono stati
caratterizzati in base alla loro capacità di auto- produzione: cioè in base
alla spontaneità per cui gli esseri viventi si muovono, si nutriscono, cre-
scono, si riproducono e muoiono, in modo al- meno apparentemente e
relativamente indipendente dalle cose esterne. Platone identificava l’anima e
la V. (Fed., 105c) perchè riteneva propria del- l’anima la capacità di «
muoversi da sè» (Fedro, 245 c). Aristotele intendeva per V. «la nutrizione, la
crescita e la distruzione che si originano da sè stessi » (De An., II, 1, 412 a
13); e per conseguenza riteneva la V. propria degli esseri animali in quanto
«hanno in se stessi una potenza o un principio tale per cui subiscono aumento o
diminuzione nelle VITA direzioni opposte» (/bid., II, 413 a 27). In base allo
stesso concetto della V., Plotino affermava che «ogni V. è pensiero» e che il
pensiero « vive per se stesso » (Enn., III, 8, 8). E S. Tommaso aîffer- mava
che V. significa «la sostanza a cui conviene per sua natura muover se stessa o
condurre se stessa, in qualsiasi modo, all’operazione » (S. 7h., I, q. 18, a.
2); e che pertanto l’anima è il principio della V. (/bid., I, q. 75, a. 1).
Quando con Cartesio e Hobbes si affacciò la concezione meccanica della V. e si
cominciò a paragonare l’uomo, e in generale l’organismo vi- vente, a una
macchina ben congegnata, il concetto della V. non mutò, giacchè l'ipotesi meccanistica
era suggerita ai filosofi proprio dalla credenza che « gli automi possono
muoversi da sè » (DESCARTES, Traité de l’homme, pag. 1; HoBBEs, Leviarh., I,
Intr.). Ciò che veniva negato in questo caso era l'identità tra anima e V.: si
riteneva cioè possibile che la stessa materia corporea, in certe forme di
organizzazione, fosse in grado di muoversi o di svilupparsi da sè. La disputa
tra vitalismo e mecca- nicismo (v. VITALISMO) verte proprio su questo: il
meccanicismo afferma che la V. è dovuta a una certa organizzazione
fisico-chimica della materia corporea; il vitalismo ritiene che questa
organizzazione non basta e che la V. dipende da un principio di natura
spirituale, che è, ad es., l’archeus (v.) di Helmont, la natura plastica (v.)
di Cudworth, il dominante (v.) di Reinke, l’ente- lechia (v.) di Driesch, lo
slancio vitale (v.) di Bergson. Leibniz obiettava sia al meccanicismo sia al
vitalismo che essi contraddicono al « grande prin- cipio della fisica » secondo
il quale « un corpo non si muove se non spinto da un corpo vicino e in
movimento »; e riteneva che la sola teoria della V. d’accordo con quel
principio fosse quella del- l'armonia prestabilita, secondo la quale la V.
stessa consiste nella concordanza dell’azione delle sostanze, prestabilita da Dio
(Sur le principe de vie, 1705, in Op., ed. Erdmann, pag. 429 sgg.). Il con-
cetto della V. come auto-regolazione sembra essere semplicemente presupposto da
quella disputa, come dall’osservazione di Leibniz. E lo presuppone Kant quando
afferma che «la ag. 250); o in altri termini con «l’intero che si sviluppa, che
risolve il suo sviluppo e che si mantiene sem- plice in questo movimento»
(Phdnom. des Geistes, I, IV, 1). Dall’altro lato Claude Bernard scriveva: «Le
macchine viventi sono create e costruite in modo che, perfezionandosi, esse
divengano sempre più libere nell'ambiente cosmico generale... La mac- china
vivente conserva il suo movimento perchè il meccanismo interno dell’organismo
ripara, me- diante azioni e forze sempre rinascenti, le perdite provocate
dall’esercizio delle funzioni. Le macchine create dall’intelligenza dell’uomo,
per quanto infi- nitamente più grossolane, non sono costruite al- trimenti»
(Zntr. à l’étude de la médecine expéri- mentale, II, I, 8). Infine, occorre
appena notare che lo slancio vitale in cui Bergson ha riconosciuto la sorgente
della V. non è altro che coscienza, e coscienza creatrice, cioè che trae da se
stessa tutto ciò che produce. « Lo slancio di V. di cui parliamo, dice Bergson,
consiste in una esigenza di creazione. Non può creare assolutamente, perchè
incontra da- vanti a sè la materia cioè il movimento che è l’in- verso del suo.
Ma esso s’impadronisce di questa materia, che è la necessità stessa, e tende a
intro- durvi la più grande somma possibile di indetermi- nazione e di libertà»
(Évol. créatr., 8® edizione, 1911, pag. 273). Lo stesso significato pare che
abbia l’espressione di Whitehead che la vita è « autofrui- zione individuale e
assoluta» (Nature and Life, 1934, II. D'altronde sembra che la scienza stessa
ricorra a una caratterizzazione non diversa dei fenomeni vitali, per quanto
eviti di ipostatizzare in entità o principi tale caratterizzazione. I fenomeni
che la scienza considera come propri della V. cioè il me- tabolismo, la
plasticità, la reattività, la riproduzione, sono appunto uelli in cui il
carattere di autore- golazione è evidente. Quando J. B. S. Haldane ha detto che
« qualsiasi modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche » può chiamarsi
vivente (« The Origin of Life » in Rationalist Annual, 1928, pag. 148- 153),
non fa che esprimere con altre parole il vecchio concetto dell’autoregolazione.
Al quale fanno ap- pello anche, sia pure in modo indiretto o con espressioni
diverse (come quelle di « totalità », « ci- clicità », « autonomia », « selettività
», ecc.) anche gli scienziati di più schietta ispirazione materialistica. Ma
nonostante la quasi unanimità che esso rac- coglie, difficilmente il concetto
di autoregolazione può essere considerato in tutti i casi come una
caratterizzazione esclusiva dei fenomeni vitali. Da 922 un lato infatti, a
certi estremi della scala biologica (ad es., per i virus) non è possibile, in
base ad esso, decidere se si tratta di corpi viventi o non viventi. Non è
mancato chi, a questo proposito, ha rite- nuto addirittura privo di senso l’uso
della parola V. in riferimento ai sistemi posti nella zona limite tra la V. e
la materia inorganica (N. W. PIRIE, The Meaninglessness of the Terms «Life» and
« Living» in J. NEEDHAM, e D. R. GREEN, Per- spectives in Biochemistry, 1937,
pag. 21 sgg.). Dal- l’altro lato la releonomia (v.) ritenuta propria degli
organismi viventi e interpretata come attività orien- tata, coerente e
costruttiva, non impedisce alla bio- logia moderna fondata soprattutto sulla
genetica e sulla biochimica, di considerare gli esseri viventi come macchine
chimiche, dotate di unità funzionale e che si costruiscono da sè. Tali macchine
esigono l’intervento di un sistema cibernetico che governi e controlli
l’attività chimica nei punti strategici; e per quanto si sia ben lontani oggi
dall’aver chia- rito la struttura dei sistemi costituenti gli organismi
superiori, l’indirizzo della scienza moderna nelle ricerche biologiche rimane
quello segnato dalla ci- bernetica e dalla biochimica (cfr., ad es., MonNoD, Le
hasard et la nécessité, 1970, cap. Il). VITA, FILOSOFIE DELLA (ingl. Philo-
sophies of Life; franc. Philosophies de la vie; tede- sco Lebensphilosophien).
Con questa espressione, che è stata usata specialmente in Germania, vengono
designate quelle filosofie che hanno in comune la caratteristica di considerare
la filosofia come V., piuttosto che riflessione sulla vita. È un’espressione
polemica che consente di accomunare filosofie di- sparate come quelle di
Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, James, Bergson, ecc.; e polemicamente
questa espressione fu adoperata nel titolo di un libro di RICKERT, La filosofia
della vita (Die Phi- losophie des Lebens, 1920). VITALISMO (ingl. Vitalism;
franc. Vitalisme; ted. Vitalismus). Termine ottocentesco per indicare ogni
dottrina che consideri i fenomeni vitali come irreducibili ai fenomeni
fisico-chimici. Questa irre- ducibilità può significare varie cose perchè vari
sono i problemi le cui soluzioni dividono i parti- giani e gli avversari del
V.: 1° In primo luogo esso significa che i fenomeni vitali non possono essere
interamente spiggari con cause meccaniche; 2° in secondo luogo, significa che
un organismo vivente non potrà mai essere prodotto artificial- mente dall'uomo
in un laboratorio di biochimica; 3° in terzo luogo, significa che la vita sulla
terra, o in generale nell’universo, non ha avuto un’ori- gine naturale o
storica, dovuta all’organizzarsi o all’evolversi della sostanza dell’universo,
ma è frutto di un disegno provvidenziale o di una crea- zione divina. VITA, FILOSOFIE
DELLA 1° Dal primo punto di vista si possono chia- mare vitaliste tutte le
concezioni classiche che, iden- tificando la vita con l’anima, la sottraggono
ad ogni influenza delle forze materiali. Ma in senso più preciso, V. è la
dottrina difesa dai filosofi e scienziati tra la metà del sec. xvm e la metà
del sec. x1x, che pone, a fondamento dei fenomeni vitali una forza vitale
indipendente dai meccanismi fisico-chimici. La caratteristica propria del V. è
quelia di dichiarare inutile la stessa indagine scien- tifica dei fenomeni
vitali in quanto essa non riu- scirebbe mai a cogliere la forza che costituisce
l’essenza della vita. Il V. in questa forma fu reso impossibile dalle scoperte
della biochimica che, a cominciare dal 1828 (data in cui fu effettuata la
fabbricazione sintetica dell’urea) dimostrò la pos- sibilità di produrre nei
laboratori le sostanze or- ganiche. Il neo-vitalismo, prendendo atto di questa
possibilità, riconosce l’utilità dell'indagine fisico- chimica dei fenomeni
vitali, ma continua ad am- mettere l’irreducibilità di questi fenomeni alle
forze fisico-chimiche riconoscendo che ad essi presiede un elemento specifico
variamente denominato [il dominante (v.) di Reinke, l’entelechia (v.) di
Driesch, lo slancio vitale (v.) di Bergson]. La difficoltà principale di
quest’aspetto del V. è l’inopportunità di ammettere una causa sconosciuta e
inaccessibile, che è poco più di un nome e che per di più fa apparire
insignificante o fuori posto l’osservazione sciedella vita stessa. L’in-
teresse della scienza, è, da questo punto di vista, quello di un beninteso
materialismo metodologico, il quale ammette: 1° che i fenomeni vitali hanno
caratteri propri, diversi da quelli fisico-chimici e tuttavia non tali da
stabilire un abisso tra l’uno e l’altro ordine di fenomeni e da rendere impos-
sibile ogni passaggio dall’uno all’altro; 2° che si possa e si debba condurre
avanti l’analisi scienti- fica dei fenomeni vitali come l’unica adatta a dar
ragione di tali fenomeni. Questo è il punto di VIZIO vista assunto da un
numeroso gruppo di biologi contemporanei (cfr., su di essi: G. G. Simpson, The
Meaning of Evolution, cap. X). 3° Circa il problema dell’origine della vita
sulla terra o in generale dell’universo, la vecchia credenza nella generazione
spontanea ammetteva senz’altro, come un fatto non miracoloso ma nor- male,
l’originarsi della vita dalla materia inorganica. Questa vecchia credenza già
confutata dalle espe- rienze di Francesco Redi (1668) e di Lazzaro Spal-
lanzani (1765) fu definitavamente eliminata dalla scienza per opera di Pasteur
(1862). Dall'altro lato, l'ipotesi dalla panspermia (v.) che ammette l’emi-
grazione di semi vitali nell’universo, mentre non è una risposta al problema
dell'origine della vita, appare in contrasto con le condizioni che si sup-
pongono esistere negli spazi intrastellari e soprat- tutto con l’azione
battericida dei raggi ultravioletti. In questa situazione, non esistono che due
solu- zioni alternative. La prima è quella secondo la che li contrappose ai
valori rinunciatari della morale tradizionale (vedi TRASMUTAZIONE). VITA, TERZA
(franc. Troisième vie). Così Maine de Biran chiamò la vita religiosa o mistica
dell’uomo in quanto distinta dalla vita semplice- mente umana che è la libertà
dagli affetti e dalle passioni e dalla vita animale caratterizzata dalle
sensazioni e dagli istinti (Nouveaux essais d’An- thropologie, 1823-24, in
(Euvres, ed. Naville, III, pagina 519). La terza V. è quella che nel /V Evan-
gelo è detta la « V. secondo lo spirito ». VITTORIOSO, ARGOMENTO (gr. è xupi-
ebwy A6yoc). Un argomento famoso con cui Dio- doro Crono, uno dei seguaci della
scuola socratica di Megara (iv-v secolo a. C.) mostrava l’identità del
possibile e del necessario. L'argomento era formulato così: « Da ciò che è
possibile, non può seguire qualcosa di impossibile. Ora è impossibile che ciò
che è passato sia altro da ciò che è stato. Ma se, in un momento anteriore,
fosse stato pos- sibile qualcosa di diverso da ciò che è stato, dal possibile
sarebbe venuto fuori l'impossibile: dunque, ciò che è diverso da ciò che è
stato non era pos- sibile ad alcun momento. Ed è per conseguenza impossibile
che possa accadere qualcosa che non accada realmente» (EPITTETO, Diss., II, 19,
1; confronta CICERONE, De fato, 6 sgg.). Limitando la possibilità a ciò che è
realmente accaduto, Diodoro affermava la necessità di tutto ciò che accade:
cioè l’impossibilità che ciò che accade possa ac- cadere diversamente da come
accade (v. NECES- saRIO; PossisiLe). Nella filosofia contemporanea l’argomento
è fatto proprio da N. Hartmann, con esplicito riferimento a Diodoro Crono
(Méglich- keit und Wirklichkeit, 1938, pag. 186 sgg.). VIVACITÀ (ingl.
Vivacity). La caratteristica fondamentale che distingue le impressioni dalle
idee, secondo Hume: impressioni e idee si somi- gliano ma le prime hanno dalla
loro parte mag- giore « forza e V.» sicchè inclinano alla credenza (Treatise,
I, I, 1; I, III, 7). VIZIO (gr. xaxla; lat. Vitium; ingl. Vice; fran- cese
Vice; ted. Laster). 1. Il contrario della virtù, nei vari significati di questo
termine. In rife- rimento al concetto aristotelico-stoico della virtù come
abito razionale della condotta, il V. è un abito (o una disposizione)
irrazionale. Precisamente sono V., in questo caso, gli estremi opposti di cui
la virtù è la medietà: per es., l'astinenza e l’in- temperanza nei confronti
della moderazione, la codardia e la temerarietà nei confronti del co- raggio,
ecc. In questo senso la parola V. non si applica che alle virtù etiche. In
riferimento alle virtù dianoetiche o intellettive, V. significa sempli- cemente
la mancanza di esse: mancanza che, secondo Aristotele, è vergognosa solo come
man- cata partecipazione alle cose eccellenti di cui par- tecipano tutti gli
altri o quasi tutti o almeno quelli che sono simili a noi, cioè della nostra
città o età o famiglia o classe sociale (Rer., II, 6, 1383 b 19; 1384 a 22).
924 2. Pertanto il senso più generale di V. è la man- canza o il difetto di
qualche caratteristica che un oggetto V. può pertanto anche essere un vicolo
cieco (blind- alley vocarion). VOLGARE (lat. Vulgaris; ingl. Vulgar; fran- cese
Vulgaire; ted. Gemein). In senso non peggio- rativo, la parola fu usata da
Tertulliano che mise in valore la testimonianza contenuta nelle espres- sioni
che il popolo adopera: le quali: egli dice, sono « V. perchè comuni, comuni
perchè natu- rali, naturali perchè divine » (De testimonio ani- mae, 6). Vico
diceva: «le tradizioni V. devono avere avuto pubblici motivi di vero, onde
nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi» (Sc.
Nuova, degn., 16: cfr. degn., 17). VOLONTA (gr. Botamow; lat. Voluntas; in-
glese Will; franc. Volonté; ted. Wille). Il termine è stato usato in due
significati fondamentali: 1° come il principio razionale dell’azione; 2° come
il principio dell’azione in generale. Entrambi questi significati sono propri
tuttavia della filosofia tra- dizionale e della psicologia ottocentesca, perchè
sono collegati con la nozione di facoltà o poteri originari dell'anima che si
combinerebbero assieme per produrre le manifestazioni dell’uomo (v. Fa- coLTÀ).
Ma nè la filosofia nè la psicologia inter- pretano ora in questo modo la
condotta dell’uomo. Le nozioni di comportamento (v.) e di forma (v.) nonchè
l’indirizzo funzionalistico della psicolo- gia (v.) non consentono di parlare
di « princìpi » dell'attività umana e pertanto la classificazione intelletto-V.
o quella intelletto-sentimento-V. hanno perso il loro significato letterale.
Talvolta il termine V. vieoè « facoltà di agire secondo la rappresentazione di
re- gole (Grundlegung der Metaphysik der Sitten, Il). Fichte non intendeva una
cosa molto diversa affer- mando che la V. è la facoltà « di compiere il pas-
saggio dalla indeterminatezza alla determinatezza con coscienza »: una facoltà
che la ragione teoretica costringe a pensare che esiste (Sifrenlehre, $ 14). In
senso analogo, Hegel afferma che la V. è univer- sale « nel senso in cui
universale significa ‘ raziona- lità *» (Fil. del Dir., $ 24). La distinzione
di Croce tra la forma economica utilitaria e la forma etica o morale
dell’attività pratica corrisponde alla di- stinzione tradizionale tra desiderio
e volontà. La forma economica sarebbe, secondo Croce, voli- zione del
particolare cioè dell’utile, la forma mo- VOLONTA rale volizione
dell'universale cioè appetizione ra- zionale (Filosofia della pratica, 1909,
pag. 217 sgg.). Alla nozione di V. come appetito razionale si può anche
ricondurre la tendenza della psicologia moderna a distinguere la V. stessa
dagli impulsi e a considerarla come condizionata da una mani- polazione di
simboli. Dice, ad es., G. Murphy: «La V. è il nome con cui si indica un
complesso processo intimo che influenza il nostro comporta- mento in modo da
renderci meno facilmente preda della pura forza bruta degli impulsi.
Discorriamo con noi stessi, introduciamo modi diversi di espri- mere la nostra
situazione, ci immaginiamo le conse- guenze dei vari tipi di risposta e
cerchiamo di valu- tare quanto ognuno di essi ci piacerà » (Introduction to
Psychology, 1950, cap. IX, trad. ital., pag. 163). Ciò che la psicologia
moderna chiama «elaborazione di simboli » è quello stesso che nella
terminologia tradizionale si chiamava « processo razionale ». Infine la stessa
nozione di V. è implicita nelle espressioni V. pura, V. buona, V. generale, V.
di credere. La V. pura è, secondo Kant, la V. determinata, non da particolari
motivi empirici, ma soltanto da princìpi a priori cioè da leggi razionali
(Grund/egung der Metaphysik der Sitten, pref.). La V. buona, anche secondo
Kant, è la V. di agire esclusivamente in conformità del dovere e è in tal senso
esaltata da Kant come ciò di cui nulla c’è di meglio al mondo o anche fuori del
mondo (Ibidem I). La V. generale è concepita dagli ro lato la V. è stata talora
identi- ficata con il principio dell’azione in generale cioè con l’appetizione.
Il primo ad esporre questo con- cetto generalizzato della V. è S. Agostino, il
quale affermò che «la volontà è in tutti gli atti degli uomini, anzi tutti gli
atti nient’altro sono che volontà » (De Civ. Dei, XIV, 6). S. Anselmo ripeteva
questa nozione (De Libero Arbitrio, 14, 19) che nell’età moderna veniva
accettata da Cartesio. Cartesio, come S. Agostino, chiamò 925 V. tutte le
azioni dell'anima, in opposizione con le passioni: « Quelle che io chiamo
azioni sono tutte le nostre V. perchè noi sperimentiamo che esse vengono
direttamente dal nostro animo e sembrano dipendere solo da esso, mentre le af-
fezioni sono tutte le percezioni o conoscenze chLocke definiva la V. come « il
potere di cominciare o non cominciare, continuare o interrompere certe azioni
del nostro spirito o certi moti del nostro corpo, semplicemente con un pensiero
o la prefe- renza dello spirito stesso » (Saggio, II, 21, 5). E Hume
dichiarava: « Per V. non intendo altro se non l’impressione interna, che
sentiamo o di cui siamo consci, quando consapevolmente diamo origine a un nuovo
movimento del nostro corpo o a una nuova percezione del nostro spirito »
(Treatise, II, III, 1). Hume negava pure ogni influenza della ragione sulla V.
così intesa, riducendo le cosid- dette volizioni razionali alle emozioni
tranquille connesse o con istinti originari della natura umana come la
benevolenza e il risentimento, l’amore della vita, l). Secondo queste
interpretazioni in- fatti sarebbero atti volontari quelli in cui l’impulso
determinante è costituito da un atteggiamento di riguardo o di esaltazione
dell’Io di fronte a se stesso. Infine nel senso più generale la V. è intesa
nelle espressioni V. di vivere e V. di potenza. La V. di vivere che, secondo
Schopenhauer è il noumeno del mondo, non ha nulla di razionale: «è un cieco,
irresistibile impeto, che noi già ve- diamo apparire nella natura inorganica e
vege- tale, come anche nella parte vegetativa della nostra propria vita ».
Pertanto « ciò che la V. sempre vuole è la vita, appunto perchè questa non è
che il mani- festarsi della V. stessa nella rappresentazione: ed è semplice
pleonasmo dire V. di vivere invece di V.» (Die Welt, I, $ 54). Analogamente la
V. di potenza è, secondo Nietz- sche, un impulso fondamentale che non ha nulla
di razionale: « La vita, in quanto caso particolare, aspira al massimo
possibile sentimento di potenza. Essa è essenzialmente l’aspirazione a un
soprappiù di potenza. Aspirare non è altro che aspirare alla potenza. Questa V.
rimane ciò che v'è di più in- timo e di più profondo: la meccanica è una sem-
plice semiotica delle conseguenze (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 296).
VOLONTARIO (ingl. Voluntary; franc. Vo- lontaire; ted. Freiwillig). 1. Che
appartiene alla volontà o concerne la volontà. 2. Lo stesso che libero (v.
LIBERTÀ). VOLONTARISMO (ingl. Voluntarism; fran- cese Volontarisme; ted.
Voluntarismus). Il termine, che fu usato per la prima volta da Ténnies nel 1883
e diffuso da Wundt (cfr. EUCKEN, Geistige Stròomungen der Gegenwart, pag. 33),
è stato adoperato a indicare due indirizzi dottrinali diffe- renti: 1° quello
che afferma il primato della volontà sull’intelletto; 2° quello che vede nella
volontà la sostanza del mondo. 1° Il primo indirizzo è gnoseologico ed etico.
Il termine è stato in questo senso applicato a ca- ratterizzare alcune correnti
della filosofia medie- vale. Enrico di Gand (morto nel 1293) affermò la
superiorità della volontà sull’intelletto perchè VOLONTARIO l’abito, l’attività
e l’oggetto della volontà sono superiori a quelli dell’intelletto. Infatti
l’abito della volontà è l’amore, quello dell’intelletto è la sapienza; e
l’amore è superiore alla sapienza. L’attività del volere s’identifica con
l’oggetto di esso che è il fine, mentre l’attività dell’intellietto rimane
sempre distinta e separata dal suo oggetto. Infine, l’oggetto del volere è il
bene che è il fine assoluto, mentre l’oggetto dell’intelletto è il vero, che è
uno dei beni, quindi subordinato al fine ultimo (Quodi., I, q. 14). Duns Scoto
affermò a sua volta il primato della volontà ma su un altro fondamento: in
quanto cioè non la bontà dell’og- getto causa necessariamente l’assenso della
volontà, ma la volontà sceglie liberamente il bene e libe- ramente lotta per il
bene maggiore (Op. Ox., I, d. 1, q. 4, n. 16). A questa dottrina si collega
l’al- tra secondo la quale il bene e il male consistono nel comando divino. «
Dio non può volere qualcosa che non sia giusto perchè da numerosi psicologi nei
primi decenni del sec. xx. 2° Il V. metafisico è quello iniziato da Scho-
penhauer, che ha visto nella volontà la sostanza o il noumeno del mondo. mentre
ha considerato il mondo naturale come la manifestazione o rive- lazione della
volontà. Come apparenza o feno- meno, il mondo è rappresentazione; come so-
stanza o noumeno, il mondo è volontà. La volontà è l’essenza del corpo umano,
nel quale è colta di- rettamente e in se stessa, come di ogni altro corpo e si
identifica con qualsiasi forza del mondo (Die Welt, I, $ 19). Come tale la
volontà deter- mina lo stesso mondo della rappresentazione che viene definito
da Schopenhauer come « ogget- tività della volontà » e asservisce a sè questo
mondo facendolo apparire nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità
che sono le forme del fe- nomeno (/bid., $ 23). Queste idee hanno trovato spesso
accoglimento parziale nei filosofi della fine del secolo scorso: basti qui
ricordare i Nuovi VUOTO saggi d’antropologia (1823-24) di Maine de Biran e la
Filosofia dell'inconscio di Eduard von Hart- mann (1869). VOLUTTÀA. V. PIACERE.
VORTICE (gr. 8îvoc; lat. Vortex; ingl. Vortex; franc. Vortex; ted. Wirbel). Un
concetto fondamen- tale della fisica antica. Anassagora considerava il V. come
il mezzo di cui si avvale l’intelletto divino per ordinare il mondo (CLEMENTE,
Strom., II, 14). Democrito lo considerava come «la causa della generazione di
tutte le cose » e lo identificava con la necessità (Dioc. L., IX, 45). Epicuro
ri- 927 prendeva lo stesso concetto (/bid., X, 90) che nell'età moderna veniva
ancora utilizzato da Car- tesio (Phil. Princ., II, 33). VUOTO (gr. xevéy; lat. Vacuum; ingl.
Vacuum; franc. Vide; ted. Leere).
L’esistenza del V. è uno dei teoremi fondamentali della concezione dello spazio
come il contenente degli oggetti (v. SPAZIO). Leibniz parlò di un « V. di forme
» (vacuum forma- rum) che ci sarebbe se non ci fossero sostanze capaci di tutti
i gradi di percezione cioè sia infe- riori, sia superiori agli uomini (Op., ed.
Erdmann, pag. 431). W WELTANSCHAUUNG. V. INTUIZIONE DEL MONDO. X X. r. Come
simbolo dell’incognita, la lettera viene talora adoperata in filosofia.
L’adoperò Kant nella prima edizione della Critica della Ragion Pura e nell’Opus
Postumum: «L'oggett(ted. Yle sensuelle). Husserl ha indicato con questo termine
i contenuti sensi- bili (colori, suoni o anche piaceri, dolori, impulsi, ecc.)
che, in sè privi di riferimento intenzionale, acquistano tale riferimento
nell’esperienza vissuta; sicchè essi sono distinti dalla loro forma intenio-
nale e nello stesso tempo uniti con essa (/deen, I, $ 85) (v. ILETICO). YOGA.
Uno dei principali sistemi filosofici in- diani, che consiste essenzialmente in
una tecnica dell’ascetismo. Il testo fondamentale di questo sistema sono i
Yogasutra di Patanyali: opera pro- babilmente composta tra il v e il vi secolo
d. C., forse su frammenti o documenti più antichi. Lo Y. le cui dottrine
coincidono sostanzialmente con quelle del sistema Samkhya, ma con un’accentua-
zione teistica, consiste essenzialmente nella descri- zione di esercizi
graduali per ottenere la perfetta liberazione dell'anima. I gradi fondamentali
sono otto: 1° restrizione morale; 2° cultura dell’anima con lo studio dei testi
sacri; 3° positure convenienti alla meditazione; 4° controllo del respiro; 5°
con- trollo dei sensi; 6° concentrazione; 7° attenzione continuata; 8°
raccoglimento assoluto (samadhi) nel quale scompare la dualità tra chi
contempla e l'og- getto contemplato. Dallo Y. si distingue lo Hatha- yoga © Y.
violento che suggerisce gli esercizi in- tesi ad allentare il vincolo tra
l’anima e il corpo (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, pa- gina 98
sgg.). Z ZELOTIPIA (lat. Zelotypia). È, secondo Baum- garten, l’amore che vuole
che l’amore dell’amato sia proporzionato al proprio (Mer., $ 905). ZEN. La
corrente buddistica, fondata da Bo- dhidharma in Cina nel 527 d. C., introdotta
in Giappone da Ei-Sai nel 1191 e qui sviluppatasi con caratteri propri. Il suo
insegnamento fondamentale è l’eliminazione del contrasto, proprio del bud-
dismo, tra il mondo dell’apparenza (samsara) e il nirvana; e il suo compito è
quello d’insegnare a scorgere (e realizzare) il nirvana nelle più semplici e
modeste manifestazioni della vita quotidiana. Così un maestro dello Z. enumera
i dieci passi succes- sivi che costituiscono il lavoro dell’intera vita di un
seguace dello Z.: 1° un seguace dello Z. deve credere che vi è un insegnamento
(lo Z.) trasmesso fuori della dot- trina buddistica generale; 2° deve avere una
conoscenza definita di que- sto insegnamento; 3° deve capire perchè sia
l’essere senziente sia l’essere non senziente può predicare il dharma (cioè la
legge del mondo); 4° dev’essere capace di vedere la sostanza come se
contemplasse qualcosa di vivido e di chiaro proprio nella palma della sua mano;
il suo passo deve essere sempre deciso e fermo; 5° deve avere « l’occhio del
dharma +; 6° deve camminare sul « sentiero degli uccelli » e sulla «strada
dell’al di là » (o «strada del mira- colo 1); 7° deve saper adempiere sia a un
ruolo posi- tivo sia un ruolo negativo nel dramma dello Z.; 8° deve distruggere
tutti gli insegnamenti eretici e ingannevoli e additare quelli giusti; 9° deve
acquistare grande forza e flessibilità; 10° deve entrare nell’azione e
praticare dif- ferenti modi di vita. Lo Z. ha suscitato negli ultimi anni
interesse notevole nei paesi occidentali e specialmente in America dove è stato
talora anche considerato in rapporto con vari aspetti della cultura occidentale
(confronta la bibliografia contenuta nella traduzione italiana di A. W. WATTS,
The Spirit of Z., 1935. Per i dieci gradi dell’iniziazione dello Z., con-
fronta CÒang CHEN-CHI, The Practice of Z., 1959, pag. 33). ZERO (ingl. Zero;
franc. Zéro; ted. Null). Lo Z. è stato introdotto come numero solo nella ma-
tematica moderna. Peano l'ha incluso tra le no- zioni primitive del suo sistema
logico (v. ARIT- METICA). Russell ha definito lo Z. come «la classe il cui solo
membro è la classe nulla » (Introduction to Mathematical Philosophy, III; trad.
ital., pa- gina 35). In senso metaforico, talvolta, si dice punto Z. per
indicare il punto di incontro o di equilibrio di possibilità diverse. Dice
Kierkegaard: « Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio
la soddisfazione di conservare la mia esi- stenza al punto Z., tra il freddo e
il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra qualche cosa e il nulla, come
un semplice forse» (Werke, IV, pa- gina 246). ZETETICO (gr. tnonawx66; ingl.
Zeteric; fran- cese Zététique; ted. Zetetisch). Investigativo o in- quisitivo.
Il termine fu dapprima applicato da Tra- sillo a designare un gruppo di
dialoghi platonici (Diog. L., III, 49; cfr. ARISTOTELE, Pol., 1256a 12). In
seguito fu assunto come la denominazione dell’atteggiamento scettico: «
L'indirizzo scettico si chiama Z. dall’azione del cercare e dell’indagare;
sospensivo per la disposizione d’animo che con- serva dopo l’indagine rispetto
all’oggetto indagato; e dubitativo per il suo dubitare e investigare intorno a
ogni cosa» (Sesro EMP., /p. Pirr., I, 7). 930 Zetetica è stata talora chiamata
quella forma dell'analisi matematica che mira alla determina- zione delle
grandezze incognite. ZOOLATRIA (ingl. Zoolatry; franc. Zoolatrie; ted.
Zoolatrie). Il culto prestato agli animali in quanto creduti manifestazioni o
incarnazioni della divinità. La Z. fu propria di molte religioni an- tiche: di
quella egiziana, di quella frigia e di quella siriaca (cfr. F. CuMONT, Les
religions orien- tales dans le paganisme romain, 1906 passim) (vedi TOTEM).
ZOROASTRISMO (ingl. Zoroastrianism; fran- cese Zoroastrisme; ted.
Zoroastrismus). La religione persiana, conosciuta anche come mazdaismo o par-
sismo, stabilita da Zaratustra (vi secolo a. C.) e che ha il suo principale
documento nello Zenda- vesta. L'insegnamento principale di questa reli- gione è
il dualismo tra due principi opposti detti rispettivamente Ormuz (Ahura Mazdah)
e Ariman ZOOLATRIA (Angra Manyu) per cui essa si presenta in primo luogo come
una soluzione del problema del male (v. MALE, 1, bd). ZUINGLISMO (ingl.
Zwinglianism; franc. Zwin- glianisme; ted. Zwinglianismus). La dottrina del ri-
formatore svizzero Ulrico Zuinglio (1484-1531) che condivise con l’umanesimo
l’idea di una sapienza religiosa originaria dalla quale deriverebbero sia i
testi delle Sacre Scritture sia quelli dei filosofi pa- gani. Zuinglio ritenne
perciò che la rivelazione è universale e che Dio è la forza che regge il mondo
e si rivela in tutte le cose. Caratteristiche della dottrina di Zuinglio sono
anche la dottrina della predestinazione (v.) e l’in- terpretazione dei
sacramenti, compresa l’Eucarestia, «come pure cerimonie simboliche. Su questo
punto cadde il dissenso tra Lutero e Zuinglio. Diversamente da Lutero, Zuinglio
negava anche il valore assoluto dell’autorità politica. Nicola Abbagnano. Abbagnano.
Keywords: filosofia latina, filosofia romana, filosofia italiana, impiegare,
implicare, dizionario filosofico. Luigi
Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
#abbagnano #griceedabbagnano
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