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Tuesday, July 16, 2024

GRICE ED ABBAGNANO

 

 

Grice ed Abbagnano: filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno, Campania). Filosofo italiano. Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be different, dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later illuminismo), and MY Abbagnano, the one who explored that infamous Greek embassy that arrived in Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the fascination of the Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist Italian philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has no entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history of philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce.  Laureatosi in filosofia a Napoli con ALIOTTA (si veda), insegna al Liceo Umberto I ed all'Istituto Benincasa del capoluogo campano, per poi trasferirsi a Torino dove è professore di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Condirettore, a fianco di BOBBIO (si veda), della “Rivista di filosofia.” Ispiratore del gruppo di filosofi, comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e GEYMONAT (si veda), che prende il nome di neo-illuminismo italiano, organizzando una serie di convegni rivolti alla costruzione di una filosofia laica, aperta ai principali orientamenti della filosofia. Collabora con “La Stampa”. Si trasferisce a Milano dove collabora con “Il giornale” di MONTANELLI (si veda), e dove viene eletto consigliere comunale nelle liste del partito liberale e assume per I anno la carica di assessore comunale alla cultura.  Divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. Uno dei promotori del centro di studi metodologici di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza delle correnti esistenzialistiche, in particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti irrazionali del pensiero," A. esalta l'azione creativa, la volontà e l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre alla verità.  Sono elementi che A. ritrova soprattutto nella filosofia di Gentile.  Fondamentale nella sua filosofia  è il saggio "La struttura dell'esistenza” (Torino), nella quale propone un’alternativa all'esistenzialismo di Heidegger e Jaspers.  A. define la propria visione filosofica come esistenzialismo positivo. Esso, pur non esplicitamente formulato in veste sistematica, individua la centralità dell'esistenza come momento ontologicamente fondativo, considerando la razionalità dell'uomo come lo strumento principe in grado di garantire a questo fondamento un valore positivo contro ogni possibile nichilismo.  Diversamente rispetto all'impostazione di Heidegger e Jaspers, A. evidenzia l'importanza della libertà e della indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre a porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo che lo circonda A. insiste molto su un chiarimento dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con quello della necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo, fatto che spiega la sua forte critica nei confronti queste due scuole filosofiche. Nello saggio "Possibilità e libertà," A. chiara il senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure ottimista al punto da concedere all'essere una realizzazione certa. Prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo", nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Questo movimento, che ha sin dal principio una configurazione culturalmente e politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che al cattolicismo. A.  Ha del resto ripetutamente criticato all'idealismo e all’idealismo di GENTILE (si veda) la tendenza a sottostimare il valore della scienza, da lui invece considerata una disciplina indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari valore e ad essa complementare.  A. insiste nei suoi saggi sui concetti di libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di scegliere, la seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni dell'uomo. Anche il positivismo è oggetto di critica tramite la contrapposizione con Kant e Kierkegaard. Nel suo esistenzialismo positivo, A. insiste molto sulla finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere. Questo lucido senso del limite e della problematicità esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose, inteso come un aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. Ed è proprio questo senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni illusoria infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondare secondo A. la possibilità di un incontro genuino fra credenti e non credenti. E ciò all'insegna di una umiltà del pensiero che rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del dialogo e del reciproco rispetto. Oltre che autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), A. è anche l'autore di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate intere generazioni d’italiani. Egli realizza anche un "Dizionario di filosofia," considerato tra i migliori. La Storia della filosofia -- sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia, sia nella versione universitaria pubblicata dalla Pomba -- è stata aggiornata da FORNERO (si veda), in collaborazione con ANTISERI e RESTAINO. Fornero, insieme a un'équipe di noti studiosi, curato anche l'aggiornamento del "Dizionario di filosofia." Saggi: Le sorgenti irrazionali del pensiero” (Genova, Perrella); “Il problema dell'arte” (Genovam Perrella); “Il nuovo idealismo, Genova, Perrella. La filosofia di Meyerson e la logica dell'identità (Napoli, Castello); Ockham, Gubbio, Oderisi. Ockham, Lanciano; La nozione del tempo secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di una teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo, Milano, Bompiani, Storia della filosofia; Filosofia antica; Filosofia patristica; Filosofia scolastica, Torino, POMBA, Filosofia moderna, Torino, POMBA, 1II.2, Filosofia del romanticismo; Filosofia contemporanea, Torino, POMBA,  Filosofia del Rinascimento, POMBA, La filosofia contemporanea; Fornero, Lentini, Restaino, Antiseri, F. Restaino. POMBA, Torino,  Filosofia religione scienza, Torino, L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario di filosofia, Torino, POMBA, aggiornato da Fornero; Per o contro l'uomo, Milano, Fra il tutto e il nulla, Milano,  con Visalberghi, Linee di storia della pedagogia, Torino: Paravia, Questa pazza filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti esistenzialisti, Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Staglieno, Milano,  Protagonisti e testi della filosofia, Milano, L'esercizio della libertà. Scritti scelti, Maiorca, Boni, Bologna, Esistenza e metafisica, Maiorca, Milella, Lecce, Scritti neoilluministici, Maiorca, introduzione di Rossi e Viano, POMBA, Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da Fornero, Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire».  La prima edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che  aveva già pubblicato un Sommario di filosofia per i licei risale per il manuale scolastico e per il manuale universitario. Attraverso successive edizioni e aggiornamenti, per opera di Fornero, tale storia continua a essere la più diffusa nelle scuole d’Italia. Bobbio, Discorso su A., in: A., Scritti scelti (Taylor, Torino); Bobbio, La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Pareyson, Il pensiero di A. e i suoi sviluppi recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor, Torino, Aliotta, L'esistenzialismo positivo di A., in Id., Critica dell'esistenzialismo, Perrella, Roma; Giannini, L'esistenzialismo positivo di A., Morcelliana, Brescia, Chiodi, L'esistenzialismo (Loescher, Torino); Lombardi, L'esistenzialismo in Italia, in Id., La filosofia italiana, Arethusa, Asti, Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Mulino, Bobbio, Discorso su A., in A., Scritti scelti (Crescenzo e Laveglia) (Taylor, Torino); Semerari, L’illuminismo, in Id., Esperienze, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana, Atti del Convegno di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, Semerari, Genesi e formazione dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida, Napoli. Pasini, Rolando, L’illuminismo italiano. Cronache di filosofia, Saggiatore, Milano, Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. A. and His Predecessors, Temple University, Philadelphia. Cacciatore,  Cantillo, Una filosofia dell'uomo, Atti del Convegno in memoria di A. (Salerno), Comune di Salerno; Delpino, Riceputi, L'uomo e il filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento di Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure; Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Maiorca, Seam, Roma, Miglio, A.. Un itinerario filosofico, Atti del Convegno per A. (Torino,), Mulino, Bologna); Montano, Il prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, Maiorca, A.. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma. Marvulli, 'Tributo ad A.', in abbagnanofilosofo.,. Panelli Marvulli, A. Una vita per la filosofia, con un saggio di Fornero, POMBA, Torino, Paolini Merlo, A. a Napoli. Gl’anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida, Napoli; Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia fra Torino e l'Italia, Mulino, Bologna, Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano, Mulino, Bologna, Primerano, La prospettiva pedagogica, Aracne, Roma, Merlo, L'esistenza come struttura: A. e l'esistenzialismo, Scientifica, Napoli, Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di A., in Id., Estetica esistenziale, Mimesis, Milano, Ferrarotti, Un greco in via Po. Passeggiate silenziose con A., Edb, Bologna. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, A., Sito dedicato, su abbagnano filosofo. Filosofia Filosofo Storici della filosofia italiani Accademici italiani Professore Salerno Milano Esistenzialisti Studenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico II Professori dell'Università degli Studi Benincasa Professori dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di Torino. Refs.: Grice, “Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a hoot care what the dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. – NICOLA ABBAGNANO DIZIONARIO I FILOSOFIA Seconda edizione riveduta e accresciuta (41° migliaio) UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE © 1971 Unione Tipografico-Editrice Torinese corso Raffaello 28 - 10125 Torino Tipografia Sociale Torinese corso Monte Cucco 108 - 10141 Torino AVVERTENZA ALLA SECONDA EDIZIONE Questa seconda edizione interamente riveduta contiene 22 voci nuove: Artefatto, Asserzione, Automa, Avere, Classe coscienza di, Diacronico- Sincronico, Dio morte di, Dossologia, Ensomatosi, Futurologia, Gettone, Illu- minatismo, Lavoro, Matrimonio, Performativo, Poietico, Prassiologia, Previsione, Psichedelico, Rifiuto, Tavole di verità, Teleonomia. Sono state interamente rifatte le voci: Condizionale, Conseguenza, Entimema, Implicazione, Matrici, Paegola fondamentale cui si è obbe- dito nella composizione delle voci: quella di individuare le costanti di significato che possono essere dimostrate o documentate con citazioni testuali anche in dottrine apparentemente diverse. Ma le costanti di significato possono essere individuate solo se i significati diversi, compresi sotto uno stesso termine, sono chiaramente riconosciuti e distinti ; e questa è l'esigenza della chiarezza, che va ritenuta fondamentale in un’opera come questa; e che è in realtà condizione essenziale affinchè la filosofia possa eser- citare una qualsiasi funzione di illuminazione e di guida nei confronti degli uomini. In un periodo in cui i concetti sono spesso confusi e mistificati al punto da diventare inservibili, l'esigenza di una riistretto di amici: NorBERTO BosBIo, EuGENIO GARIN, C. A. Viano, Pietro Rossi, PiETRO CHIODI. Altri amici mi hanno aiutato a trovare o confrontare testi di più difficile accesso : così hanno fatto GrazieLLa VescovinI FEDERICI, GRAZIELLA GIorDANO, SERGIO RurrINO. VI PREFAZIONE Mia moglie, Marian TavyLor, mi ha aiutato validamente nella correzione delle bozze. A tutte queste persone io rivolgo il mio cordiale ringraziamento. Ma il lavoro di questo Dizionario non sarebbe stato iniziato nè portato a termine senza l’aiuto lun- gimirante della grande e benemerita Casa Editrice che ora lo pubblica. Ad essa esprimo pertanto la mia gratitudine. . NICOLA ABBAGNANO. Torino, 11 ottobre 1960. AVVERTENZE 1. — Il Dizionario contiene soltanto termini, non nomi propri. Esso contiene bensì voci come Pla- tonismo, Aristotelismo, Criticismo, Idealismo, ecc. che si riferiscono alla dottrina di un filosofo o di una scuola o ad aspetti o indirizzi comuni a varie dottrine; ma tali voci si limitano a esporre i capisaldi delle dottrine o degli indirizzi in questione, con la massima brevità, dato che le opinioni dei filosofi cui esse si riferiscono sono ampiamente citate in tutte le voci principali. 2. — Sono stati inclusi articoli dedicati non solo alle singole discipline filosofiche (Metafisica, Ontologia, Gnoseologia, Metodologia, Etica, Estetica, ecc.), ma anche a discipline scientifiche di carat- tere teoretico o a fondamento teoretico (Matematica, Geometria, Economia, Fisica, Psicologia, ecc.), nei cui confronti le voin modo da includere il maggior numero possibile di significati riscontrabili. 4. — Il Dizionario ha pertanto, come ogni altro Dizionario linguistico, una base essenzialmente sto- rica: esso mostra quali sono stati e sono gli usi di un termine nella lingua filosofica del mondo Occi- dentale, anche, all'occorrenza, in rapporto con l’uso che il termine ha nella lingua comune. Le ambi- guità di significato sono state accuratamente registrate. Dove la cosa poteva esser fatta senza eccessivo arbitrio, è indicato il modo di evitare tali ambiguità. 5. — Per evitare le incertezze e gli equivoci che potevano nascere dalle citazioni di passi composti originariamente in lingue diverse, si è provveduto a mettere al principio di ogni articolo l'indicazione del vocabsources . . . . Analytica posteriore, ed. Ross, Oxford, 1949. Analytica priora, ed. Ross, Ox- ford, 1949. Categoriae, ed. Minuo-Paluello, Oxford, 1949. De caelo, ed. E. J. Allan, Oxford, 1936. De generatione animalium, ed. Bekker. De partibus animalium, ed. Bekker. De sophisticis elenchis, ed. Bekker. Ethica Eudemia, ed. Susemihl, 1884. Ethica nicomachea, ed. Bywather, Oxford, 1957. Physicorum libri VIII, ed. Ross, Oxford, 1950. Metaphysica, ed. Ross, Oxford, 1924. De arte poetica, ed. Bywather, Oxford, 1953. Politica, ed. W. L. Newman, Oxford, 1887-1902. Rethorica, ed. Bekker. Topicorum libri VIII, ed. Bekker. La logique ou l'art de penser, 1662, in Euvres Philosophiques, 1893. Novum organum, 1620. De augmentis scientiarum, 1623. Evolution créatrice, 1907, 83 ed., 1911, Deux sources de la morale et de la religion, 1932; trad. italiana M. Vinciguerra, Milano, 1947. Boezio Phil. cons. . Campanella Phil. rat. .... Pass. de l'éme . Princ. phil. Cicerone Acad. . . . Cusano N. De docta ignor. Diels LISTA DELLE ABBREVIAZIONI PRINCIPALI Philosophiae consolationis libri V, 524. Philosophia rationalis, Parigi, 1638. Discours de la méthode, 1637. Méditations touchant la première philosophie, 1641. Passions de l'dme. Principia philosophiae, 1644. Academicorum reliquiae cum Lu- cullo, ed. Plasberg, 1923. De Divinatione, ed. Plasberg-Ax, 1965. De finibus bonorum et malorum, ed. Schiche, 1915. De legibus, ed. Mueller, 1897. De natura deorum, ed. Plasberg, 1933. De officis, ed. Atzert, 1932. De republica, ed. Castiglioni, 1947. Topica, ed. Klotz, 1883. Tusculanae disputationes, ed. Poh- lens, Lipsia, 1918. De docta ignorantia, 1440. Die Fragmente der Vorsokratiker, 5à ed., 1934. La lettera A si riferisce alle testimonianze, la lettera B ai frammenti; il nu- mero è sempre quello dato da Diets nel suo ordinamento. x LISTA DELLE ABBREVIAZIONI Diogene Laertio (sec. n) Dioa. L. Vitae et placita philosophorum, ed. Cobet, 1878. Duns Scoto Rep. Par. .. . . . Reportata Parisiensia, in Opera, a cura di L. Wadding, vol. XI. Opus Oxoniense, nelle Opere, a cura di L. Wadding, vol. V-X. Le parti di quest'opera pubblicate sotto il titolo di Ordinatio nei primi quattro volumi dell'Opera Omnia, edite a cura della Com- missione Vaticana nel 1950, sono state citate nel testo se- guito in quest’ultima edizione. ‘00000 Op. Ox. Fichte J. G. Wissenschaftslehre . . Grundlage der gesammten Wissen- schaftslehre, 1794, in Werke, a cura del figlio I. H. Fichte, 8 voll., 1845-46. Anche le altre opere di Fichte sono citate (salvo diverso avviso) da questa edizione o da quella delle Nachgelassene Werke, a cura dello stesso figlio, 1834-35 (ci- tate nel testo come Werke, IX, X, XI). Ficino Theol. Plat. .. . Theologia Platonica, in Opera, 1561. In Conv. Plat. de Am. Comm. In Convivium Platonis de Amore Commentarium, ibidem. Filone All leg... .... Allegoria Legis, ed. Colson-Whi- taker, 1929-62. Gellio Aulo Noct. Att... ... Noctes Attices, ed. Hertz-Hosius, 1903. Hegel Enci ele Encyklopddie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 2* ed., ell’Accademia Prus- siana. In tal caso, per ciò che riguarda la Critica della Ragion Pura, si indica con A la 319, con B la 2 edizione. Gesammelte Werke, trad. ted. a cura di E. Hirsch, 1957 e segg. LISTA DELLEABBREVIAZIONI PRINCIPALI xI Leibniz Disc. de Mét. Discours de Métaphysique, 1686, ed. Lestienee, 1929. Monadologie, 1714. Nouveaux essais sur l’entendement humain, 1703. Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origine du mal, 1710. Le precedenti due opere e molti altri scritti di Leibniz sono ci- tati da Opera Philosophica, ed. J. E. Erdmann, Berlino, 1740. Sono anche citate le due rac- colte: Mathematische Schriften, ed. C. J. Gerhardt, 7 voll, Berlino, 1848-63; Philosophi- sche Schriften, ed. C. J. Ger- bardt, 7 voll, Berlino, 1875. An Essay Concerning Human Un- derstanding, 1690, ed. a cura di A. Campbell Fraser, 1894; trad. it. Pellizzi, 1951. Lucrezio (sec. 1 a. C.) De rer. nat. .. .. De rerum natura, ed. Bailey, 1947. Ockham In Sent. . Quaestiones in IV libros senten- tiarum, Lugduni, 1495. Origene (sec. n) De prin. ..... De principiis. In Johann In Johannen. Pascal Pensées . ..... I numeri si riferiscono all'ordina- mento dell’ed. Brunschvicg. P.G.. MicNE, Patrologia Greca, il primo numero indica il volume. Piibi vien di DI Micne, Patrologia Latina, il pri- mo numero indica il volume. Peirce C. S. (1839-1914) Coll. Pap... ... Collected Papers, voll. I-VI, edited by C. Hartshorne e P. Weiss, 1931-35; voll. VII-VIII, edited by A. W. Burks, 1958. Pietro Ispano (Papa Giovanni XXI, sec. x111) Summ. log... .. Summulae logicales, ed. I. M. Bo- chenski, 1947. Platone ‘Alc:; In ao è 404000 CE E IT 000080000» 000000 S. Th. Scheler Formalismus .... Sympathie . . ... Alcibiades, I, II. Apologia Socratis. Charmides. Symposium. Cratylus. Crito. Critias. Definitiones. Epistulae. Euthydemus. Euthyphro. Phaedo. Philebus. Gorgias. Ion. Parmenides. Politicus. Protagoras. Respublica, ed. Chambry, 1932. Sophista. Theaethetus. Timaeus. I testi sono citati nell’ed. di Burnet, Oxford, 1899-1906. Enneades, ed. Bréhier, 1924. De civitate Dei. Confessionum libri XIII. Summa Theologiae, a cura di P. Caramello, Torino, 1950. Summa contra Gentiles, Torino, 1938. Quaestiones disputatae de veritate, Torino, 1931. Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, 1913-16. Wesen und Formen der Sympathie 1923; trad. franc. Lefebvre, 1928. Simmtliche Werke, a cura del figlio K. F. A. Schelling: I serie (opere edite), 10 voll.; II serie (opere inedite), 4 voll, 1856 e seguenti. XI LISTA DELLE ABBREVIAZIONI PRINCIPALI Schopenhauer Die Welt ..... Die Welt als Wille und Vor- stellung, 1819; 23 ed., 1844; trad. it. Savj-Lopez e De Lo- renzo, 1914-30. Scoto Eriugena (sec. rx) De divis. nat. De divisione naturae, nella P. L., 122. Seneca Episodi aes Epistulae morales ad Lucilium, ed. Beltrami, 1931; trad. it. Boella, 1951. Sesto Empirico Adv. math. Adversus mathematicos, ed. J. Mau, Lipsia, 1954. Ip. Pim. ..... Pirroneion hypotyposeon libri tres, ed. Mutschmann, 1912. Spinoza Etc e i Ga Ethica more geometrico demon- strata, 1677, in Opera a cura di C. Gerhardt, 1923. Stobeo Ecl... Wittgenstein Tractatus Eclocae physicae et ethicas, ed. Wachsmuth-Hense, 1884-1923. System of Logic Ratiocinative and Inductivr, 1843. De rerum natura iuxta propria principia, I-II, 1565; II-IX, 1586; ed. V. Spampanato, 1910-23. Tractatus logico-philosophicus, 1922. Cosmologia generalis, 1731. Philosophia rationalis sive logica, 1728. Philosophia prima sive ontologia, 1729. Altre abbreviazioni non sono sopra registrate o perchè sono quelle solitamente usate dagli studiosi o perchè di immediato intendimento come App. per Appendice; Fil. per Filosofia o Phil. per Philosophie o Philosophy; Intr. per Introduzione o Introduction; Met. per Metafisica o Métaphysique o Metaphysics o Metaphysik; Op. per Opere; Schol. per scholium; ecc. Tai A. 1. Per primo Aristotele, in particolare negli Analitici, ha usato le prime lettere maiuscole del- l’alfabeto, A, B, I, per indicare i tre termini di un sillogismo. Tuttavia, poichè nella sua sintassi il predicato è posto prima del soggetto (A brapyet té B, «A inerisce [o ‘appartiene ’) a B+) di so- lito negli Analitici i soggetti sono B e T. Nella Logica dell’età moderna, con l’uso di scrivere «A est B», A è diventato normalmente il simbolo del soggetto. 2. A cominciare dai trattatisti scolastici (pare, dalle Introductiones di Guglielmo di Shyreswood, sec. xm), la lettera A viene usata nella Logica formale « aristotelica» come simbolo della propo- sizione universale affermativa (v.), secondo i noti versi pervenuti a noi in varie redazioni. Nelle Summulae di Pietro Ispano (edit. Bochenski, l. 21) essi suonano: A affirmat, negat E, sed universaliter ambae, I firmat, negat O, sed particulariter ambae. 3. Nella logica modale tradizionale, la lettera A designa la proposizione modale che consiste nella affermazione del modo e nell’affermazione della proposizione. Per es., « È possibile che p » dove p è una proposizione affermativa qualsiasi (ARNAULD, Log., II, 8). 4. Nella formula « A è Ar o «A= A1 che si cominciò ad usare con Leibniz come tipo delle verità identiche e fu assunta poi da Wolff e da Kant come espressione del cosiddetto principio d’identità (v.), A significa un oggetto o un con- cetto qualsiasi. Diceva Fichte: « Ciascuno accorda la proposizione A è A (come pure A= A perchè questo è il significato della copula logica) ed in- fatti senza minimamente pensarci sopra la si ri- conosce per pienamente certa e indubitabile » (Wis- 1 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. senschaftslehre, 1794, $ 1). La formula è rimasta per lungo tempo a esprimere il principio di identità e nello stesso tempo a costituire un tipo di verità assolutamente indubitabile. Dice Boutroux: «Il principio di identità può esprimersi così A è A. Io non dico l’Essere ma semplicemente A, cioè ogni cosa, assolutamente qualsiasi, suscettibile di esser concepita, ecc.» (De l’idée de loi naturelle, 1895, pag. 12). 5. Nel simbolismo di Lukasiewicz la lettera « A » è usata come il simbolo della disgiunzione per la quale s’adopera più comunemente il simbolo « V » (cfr. A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, nota 9i). G. P.-N. A. ABALIETÀ. V. AserTÀ. ABDERITISMO (ted. Abderitismus). Così fu chiamata da Kant la concezione che considera la storia nè in progresso nè in regresso ma sempre nello stesso stato. Da questo punto di vista la storia umana non avrebbe più significato di quella di una qualsiasi specie animale, solo sarebbe più fa- ticosa (Se il genere umano sia în costante progresso verso il meglio, 1798). ABDUZIONE (gr. araywyrh; lat. Reductio; ingl. Abduction; franc. Abduction; ted. Abduc- tion). È un procedimento di prova indiretta, se- midimostrativa (teorizzato da Aristotele in 7op., VIII, 5, 159b 8, e 160a 11 sgg.; An. Pr., II, 25, 69 a 20 sgg.), in cui la premessa maggiore è evidente, la minore invece è solo probabile o comunque più facilmente accettata dall’interlocutore che non la conclusione che si vuole dimostrare. Sebbene si tratti in sostanza di un procedimento dialettico piuttosto che apodittico, era già stato ammesso da Platone (cfr. Menone, 86 sgg.) per la matematica, e verrà pure canonizzato tra i metodi di dimo- strazione matematica da Proclo (In Eucl., 212, 24). 2 AB ESSE AD POSSE Il Peirce ha introdotto il termine abduction (0 retroduction) per indicare il primo momento del processo induttivo, quello della scelta di un’ipotesi che possa servire a spiegare determinati fatti em- pirici (Coll. Pap., 2.643). G. P. AB ESSE AD POSSE. È una delle conse- quentiae formales temente confuso. Essa significa una disposizione costante, o relati- vamente costante, ad essere o ad agire in un certo modo. Per es., l’«abito di dire la verità» è la di- sposizione deliberata, che è in questo caso un impegno morale, di dire la verità. Ed è altra cosa dall’« abitudine di dire la verità » che implicherebbe un meccanismo adatto a far ripetere frequentemente l’azione in questione. Così « l’abito di alzarsi presto la mattina» è una specie di impegno che può costare sforzo ed esser penoso; «l’abitudine di alzarsi presto la mattina » non costa più sforzo perchè è un meccanismo consuetudinario. La parola è stata introdotta nel linguaggio filo- sofico da Aristotele il quale (Mer., V, 20, 1022 b, 10) la definì come «una disposizione ad essere bene o mal disposto verso qualche cosa, sia verso di sé che verso altro; e, per es., la salute è un abito perchè è una disposizione siffatta ». In questo senso egli ritenne che la virtù sia un abito, in quanto non è nè una «emozione» (come la cupidigia, l’ira, la paura, ecc.) nè una « potenza» come sarebbe la tendenza all'ira, al dolore, alla pietà, ecc. La virtù è piuttosto la disposizione ad affrontare bene o male emozioni e potenze; per es., a indulgere agli impulsi dell’ira o a moderarli (Et. Nic., II, 5). Lo stesso significato viene ripreso da S. Tommaso, che lo riespone nel modo seguente (Contra Gent., IV, 77): «L’abito si differisce dalla potenza in ciò che da esso non siamo resi capaci di far qualcosa ma piuttosto abili o inabili a poter agire bene o male ». Il concetto è rimasto pressocchè immutato sino ai nostri giorni. Dewey così lo espone: « Quella specie di attività umana che è influenzata dall’atti- vità precedente e in questo senso è acquisita; che contiene dentro di sè un certo ordine o una certa sistemazione dei minori elementi di azione; che è progettante, dinamico in qualità, pronto per la manifestazione aperta; e che è operativa in qualche forma subordinata e nascosta anche quando non è attività ovviamente dominante. Abito, anche nel suo uso ordinario, è il termine che denota più da vicino questi fatti di ogni altra parola » (Zuman Nature and Conduct, 1921, pag. 40-41). Dewey rite- neva che i termini «atteggiamento » e « disposi- zione » andassero ugualmente bene per questo con- cetto; ed in realtà questi due ultimi termini sono usati assai più frequentemente che abito e con significati assai simili. ABITUDINE (gr. €806; lat. Consuerudo; in- glese Habit, Custom; franc. Habitude; ted. Ge- wohnheit). In generale, la ripetizione costante di un evento o di un comportamento, dovuto ad un mec- canismo di qualsiasi genere, fisico, psicologico, bio- logico, sociale, ecc. Si assume, il più delle volte, che tale meccanismo si formi mediante la ripetizione degli atti o dei comportamenti e quindi, nel caso di eventi umani, mediante l’esercizio. Diciamo « le cose abitualmente vanno così» per indicare una qualsiasi uniformità di eventi, anche non umani, purchè non sia un’uniformità rigorosa e assoluta ma soltanto approssimativa e relativa e tuttavia suscettibile di autorizzare una previsione proba- bile. In questo senso Aristotele disse (Rer., I, 10, 1369 b 6): « Si fa per abitudine ciò che si fa perchè si è spesso fatto » e aggiunse che: « L’abitudine è in qualche modo simile alla natura, giacchè ‘ spesso ’ e ‘sempre’ sono vicini; la natura è di ciò che è sempre, l’abitudine di ciò che è spesso» (/bid., I, 11, 1370a 7). Con ciò Aristotele vide nell’abi- tudine una specie di meccanismo, analogo ai mec- canismi naturali, che garantisce, in qualche misura, la ripetizione uniforme di fatti, atti o comporta- menti, eliminando o riducendo, nei confronti di questi ultimi, sforzo e fatica e così rendendoli piacevoli. In questo significato il termine è stato ed è co- stantemente adoperato in un coaturalmente » (Pensées, n. 252). Fu questo il punto di vista che Hume, un secolo dopo, pose a base della sua filosofia. Hume definì l’abi- tudine come la disposizione, prodotta dalla ripe- tizione di un atto, a rinnovare l’atto stesso senza che intervenga il ragionamento (Ing. Conc. Un- derst., V, 1). E si avvalse dell’abitudine così intesa in primo luogo per spiegare la funzione delle idee astratte, che egli considerò come idee particolari assunte come segni di altre idee parti- colari simili. L’abitudine di considerare unite tra loro idee designate da un unico nome, fa sì che il nome stesso risvegli in noi, non una sola di quelle idee nè tutte, ma l’abitudine che abbiamo di con- siderarle assieme e quindi l’una o l’altra di esse a seconda delle occasioni (7reatise I, 1, 7). All’abi- tudine poi Hume ricorre per spiegare la connessione causale: per aver visto più volte congiunti due fatti od oggetti, per es., la fiamma e il calore, il peso e la solidità, siamo portati dall’abitudine ad aspet- tarci l'uno quando l’altro si mostra. L'insieme della nostra vita quotidiana è fondato sull’abitudine. «Senza l’abitudine — dice Hume (/nquiry, cit., V, 1) — saremmo interamente ignoranti di ogni questione di fatto, fuori di quelle che ci sono im- mediatamente presenti alla memoria o ai sensi. Non sapremmo adattare i mezzi ai fini e impiegare i nostri poteri naturali a produrre un qualsiasi effetto. Ogni azione sarebbe finita e così pure la parte principale della speculazione ». In modo analogo ma in campo diverso, Bergson (riprendendo forse un’idea di Renouvier, Nouvelle monadologie, pag. 298) si è servito della nozione di abitudine per spiegare le obbligazioni morali; le quali non sarebbero esigenze di ragione, ma abitudini sociali che garantiscono la vita e la so- lidità del corpo sociale (Deux sources de la morale et de la religion, pag. 21). L’interpretazione dell’abitudine come di una azione originariamente spontanea o libera che viene poi fissata dall’esercizio, sì da poter essere ripetuta senza l’intervento del ragionamento e della coscienza e quindi in modo meccanico, ha reso possibile l’uso metafisico di questa nozione: uso che ricorre abbastanza frequentemente nella filo- sofia moderna e contemporanea, specialmente nel- l’idealismo e nello spiritualismo. Il primo a trarre partito da questo uso per la costruzione di una metafisica dell’esperienza interiore è stato Maine de Biran nel suo scritto Influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1803). Mentre le abitudini pas- sive, che concernono le sensazioni, producono la diminuzione della coscienza, le abitudini artive che concernono invece le operazioni, producono la loro maggior facilità e perfezione e costituiscono perciò uno strumento di liberazione dello spirito dai mec- canismi che tendono a formarsi mediante la ripe- tizione dei suoi sforzi. Questa nozione di abitudine, che pur essendo espressa nei termini della cosiddetta « esperienza interiore» o «senso intimo», ha già una portata metafisica, perchè Maine de Biran ritiene che i dati di quest’esperienza rivelino la realtà stessa, trova riscontro nella dottrina di Hegel che le ha dedicato alcuni paragrafi della sua sezione sullo Spirito soggettivo, nella parte dedicata all’Anima senziente (Enc., $ 409-10). Hegel dice che mediante l’abitudine l’anima «ha il contenuto in suo pos- sesso e lo ritiene in sè in modo che in tali deter- minazioni essa non sta come sensitiva, non sta in relazione ad esse distinguendosene, nè è immersa in esse, ma le possiede senza sensazione e senza coscienza e vi si muove dentro. L’anima è perciò libera da esse in quanto non se ne interessa e non se ne occupa; ed esistendo in queste forme come in suo possesso essa è insieme aperta ad ogni ul- teriore attività ed occupazione (tanto della sensa- zione quanto della coscienza spirituale in genere) ». Per questa funzione dell’abitudine, di offrire al- l’anima il possesso di un certo contenuto, in modo che essa possa avvalersi di tale contenuto « senza sensazione e senza coscienza » sicchè sensazione e coscienza ridiventano libere, cioè disponibili per altre operazioni, Hegel ha sottolineato l’importanza dell’abitudine per la vita spirituale. « L’abitudine, egli ha detto, è la cosa più essenziale all’esistenza di ogni spiritualità nel soggetto individuale affinchè il soggetto esista come soggetto concreto, come idealità dell’anima; affinchè il contenuto religioso, morale, ecc., appartenga a lui come a questo se stesso, a lui come a questa anima; nè sia in lui solo in sè (come disposizione) nè come sensazione e come rappresentazione passeggera, nè come in- teriorità astratta separata dal fare e dalla realtà, ma nel suo essere ». Il che vuo! dire che l'abitudine incorpora un certo contenuto nell’essere stesso del- l’anima individuale, come un possesso effettivo, che si traduce in azione reale. Sulle orme di Maine de Biran, Ravaisson ha proposto una vera e propria metafisica dell’abitu- dine, che espose in una memoria famosa (Sull’abi- tudine, 1838). Nell’abitudine Ravaisson vide una idea sostanziale cioè un’idea che si è trasformata in sostanza, in realtà, e che agisce come tale. L’abi- tudine non è un puro meccanismo ma una « legge di grazia » in quanto segna il predominio della causa finale sulla causa efficiente. Essa consente perciò di intendere la natura stessa come spirito e come attività spirituale, giacchè dimostra che lo spirito può farsi natura e la natura spirito. Essa4 ABNEGAZIONE consente di ordinare tutti gli esseri in una serie di cui la natura e lo spirito rappresentano i limiti estremi. « Il limite inferiore è la necessità, il destino, se si vuole, ma nella spontaneità della natura; il limite superiore è la libertà dell’intelletto. L’abitu- dine discende dall’uno all’altro, riavvicina questi contrari, e riavvicinandoli ne svela l’essenza intima e la necessaria connessione». Da Bergson in poi frequentemente questi concetti sono stati ripresi nello spiritualismo contemporaneo, per spiegare in qualche modo il « meccanismo della materia » e ricondurlo alla spontaneità spirituale. ABNEGAZIONE (gr. drdpwnow; lat. Abne- gatio; ingl. Self-denial; franc. Abnégation; ted. Ver- leugnung). È il rinnegamento di sè e la disposi- zione di mettersi a servizio degli altri o di Dio col sacrificio dei propri interessi. Così la nozione è de- scritta nel Vangelo (Matt., XVI, 24; Luc., IX, 23): «Se uno vuole seguirmi rinneghi se stesso e porti giorno per giorno la sua croce». Questo rinnega- mento di se stesso, però, non è la perdita di se stesso ma piuttosto il ritrovamento del vero « se stesso +, come è spiegato nel versetto successivo a quello ci- tato: « giacchè chiunque vorrà conservare la sua vita la perderà; ma chiunque perderà la sua vita per me la salverà ». Perciò la nozione di abnegazione non è, nei Vangeli, una nozione di morale ascetica ma piuttosto esprime l’atto del rinnovamento cristiano, per il quale, dalla negazione dell’uomo vecchio, nasce l’uomo nuovo o spirituale. AB UNIVERSALI AD PARTICULAREM. È una delle consequentiae formales (v. Conseguenza) della Logica scolastica: ab universali ad particu- larem, sive indefinitam sive singularem valet (tenet) consequentia; cioè: da «ogni A è B» valgono le conseguenze qualche A è B», « A è Ba, <S (se Sè un A)è B». G.P. ACATALESSIA (gr. axatoAnpla; ingl. Acara- lepsy; franc. Acatalepsie; ted. Akatalepsie). È la negazione operata da Pirrone e dagli altri Scettici antichi della rappresentazione comprensiva (pavtuola xataAnmtuh) cioè della conoscenza che consente di comprendere e afferrare l’oggetto, la quale era, secondo gli Stoici, la conoscenza vera. L’acatalessia è l’atteggiamento di chi dichiara di non compren- dere e per conseguenza sospende il suo assenso, cioè non afferma nè nega (Sesto EMP., /p. Pirr., I, 25). ACCADEMIA (gr. ’Axadiuea; lat. Academia; ingl. Academy; franc. Académie; ted. Akademie). Propriamente la scuola fondata da Platone nel gin- nasio che prendeva nome dall’eroe Academo e che dopo la morte di Platone fu diretta da Speusippo (347-339 a. C.), da Senocrate (339-14 a. C.), da Pole- mone (314-270 a. C.) e da Cratete (270-68 a. C.). In questa fase l'Accademia continuò la speculazione platonica legandola sempre più strettamente al pi- tagorismo e appartennero ad essa matematici e astronomi, fra i quali il più famoso fu Eudosso di Cnido. Alla morte di Cratete l'Accademia mutò indirizzo con Arcesilao di Pitane (315 o 314-241 o 240 a. C.) avviandosi verso un probabilismo che prendeva lo spunto da quanto Platone aveva af- fermato intorno alla conoscenza delle cose naturali: le quali, non avendo alcuna stabilità e saldezza, non possono dar origine ad una conoscenza sta- bile e salda ma solo ad una conoscenza probabile. Da Arcesilao e dai suoi successori (di cui non sappiamo quasi nulla) questo punto di vista fu esteso all’intera conoscenza umana nel periodo che si chiamò della « media Accademia ». La « nuova Accademia » comincia con Carneade di Cirene (214 o 212-129 o 128 a. C.); quest’indirizzo scetti- cheggiante e probabilistico fu mantenuto sino a Filone di Larissa che, nel 1 secolo a. C., iniziò la IV Accademia d’indirizzo eclettico, alla quale soprattutto si ispirò Cicerone. Ma l'Accademia platonica durò ancora a lungo e rinnovò ancora il suo indirizzo nel senso religioso-mistico che è proprio del neo-Platonismo (v.). Solo nel 529 l’im- peratore Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia e confiscò l’ingente patrimonio dell’Ac- cademia. Damascio, che ne era il capo, si rifugiò con altri suoi compagni, tra cui Simplicio, autore di un vasto commentario ad Aristotele, in Persia; ma di lì tornarono presto disillusi. La tradizione indipen- dente del pensiero platonico ebbe così termine. ACCADEMIA FIORENTINA. Fu fondata per iniziativa di Marsilio Ficino e di Cosimo de’ Me- dici e raccolse un circolo di persone che vedevano la possibilità di rinnovare l’uomo e la sua vita re- ligiosa mediante un ritorno alle dottrine genuine del platonismo antico. In queste dottrine i seguaci del platonismo e specialmente Marsilio Ficino (1433- 1499) e Cristofaro Landino (vissuto tra il 1424 e il 1498) vedevano la sintesi di tutto il pensiero re- ligioso dell’antichità e quindi anche del cristiane- simo e perciò la più alta e vera religione possibile. Con questo ritorno all’antico si connette un altro aspetto dell’Accademia fiorentina, l’anticurialismo; contro le pretese di supremazia politica del papato l’Accademia sosteneva un ritorno all’idea imperiale di Roma e quindi faceva oggetto frequente di com- menti e di discussioni il De monarchia di Dante (v. RINASCIMENTO). ACCADIMENTO (gr. cvuBeBnxéc; lat. Ac- cidens; ingl. Occurrence; franc. Événement; te- desco Vorfalressa dalla definizione; perciò è un accidente. Ma è un accidente che ap- partiene al triangolo non per un caso, cioè per una causa indeterminabile, ma a causa del trian- golo stesso cioè per quello che il triangolo è; ed è perciò un accidente eterno (Mer., V, 30, 1025a 31 sgg.). Aristotele illustra la differenza nel modo seguente (An. Post., 4, 73 b 12 sgg.): « Se mentre qualcuno cammina, lampeggia, questo è un acci- dente, giacchè il lampeggiare non è causato dal camminare... Se invece un animale muore sgoz- zato a causa della ferita, diremo che esso è morto perchè è stato sgozzato, e non già che gli sia acca- duto accidentalmente di morire sgozzato ». In altri termini l’accidente per sè è connesso causalmente (e non casualmente) con le determinatte che la parola « modo» che egli adopera sia sino- nimo di accidente; sinonimia che sembra suggerita dalla definizione che egli dà del modo (£r., I, def. 5) come ciò che è in altro ed è concepito per mezzo di quest'altro. Comunque il mutamento di significato è chiaramente riscontrabile in Kant e Hegel. Kant dice (Crit. R. Pura, Analitica dei princìpi, Prima Analogia): «Le determinazioni di una sostanza le quali non sono che modi speciali di esistere di essa, si chiamano accidenti. Essi sono sempre reali, perchè riguardano l’esistenza della sostanza. Ora se a questo reale che è nella so- stanza (per es., al movimento come accidente della materia) si attribuisce una speciale esistenza, questa esistenza si chiama inerenza per distinguerla dalla esistenza della sostanza che si chiama sussistenza +. Questo passo riprende la terminologia scolastica in un significato del tutto differente perchè gli ac- cidenti sono considerati come « modi speciali di esistere » della sostanza stessa. Analoga nozione si trova in Hegel il quale dice (Enc., $ 151): «La sostanza è la totalità degli accidenti nei quali essa si rivela come la loro assoluta negatività, cioè come potenza assoluta, ed insieme come la ricchezza di ogni contenuto ». Il che significa che gli accidenti, nella loro totalità sono la rivelazione o manife- stazione stessa della sostanza. Fichte aveva d’al- tronde espresso un concetto analogo asserendo, sulle orme di Kant, che « Nessuna sostanza è pen- sabile se non è riferita a un A.... Nessun A. è th; francese Accidie; tedesco Acedie). La noia o nausea nel mondo medievale: il torpore o l’inerzia in cui ca- devano i monaci dediti alla vita contemplativa. Se- condo S. Tommaso, essa consiste nel « rattristarsi del bene divino » ed è una specie di torpore spiri- tuale che impedisce di iniziare il bene (S. 7h., II II, q. 35, a. 1). L’accidia ha in comune con la noia lo stato che la condiziona, stato, non di bisogno, ma di soddisfazione (v. NOIA). ACCORDO (ingl. Agreement; franc. Conve- nance; ted. Ùbereinstimmung). Questa nozione è servita nell’età moderna a definire la natura del giudizio o della proposizione in generale. Dice la Logica di Porto Reale: « Dopo aver concepite le cose mediante le nostre idee, noi paragoniamo queste idee fra di loro; e trowpé<e = mucchio, consiste nel domandare quanti grani di frumento occorrono per formare un mucchio; basta forse un solo grano? Ne bastano due?, ecc. Sic- come è impossibile determinare a qual punto co- mincia un mucchio, si adduce quest’argomento contro la pluralità delle cose (Cic., Acad., II, 28, 92 sgg.; 16, 49; Diog. L., VII, 82). Lo stesso argo- mento è stato talora espresso in altra forma sotto il nome di argomento del calvo (cfr. Diog. L., II, 108) e consiste nel chiedere se un uomo diventa calvo quando gli si strappa un capello. E quando se ne strappano due? E così via. ACHILLE (gr. ‘Ayoaesc; lat. Achilles; inglese Achilles; franc. Achille; ted. Achilleus). Con questo nome si indicava il secondo dei quattro argomenti di Zenone d’Elea contro il movimento. Esso così viene espresso da Aristotele: «Il più lento nella corsa non sarà mai raggiunto dal più veloce: giacchè colui che insegue dovrà cominciare per raggiungere il punto da cui è partito il fuggitivo, di modo che il più lento sarà sempre in vantaggio + (Fis., VI, 9, 239 b 14). Il presupposto di questo, come degli altri argomenti, è l’infinita divisibilità dello spazio. V. DICOTOMIA, FRECCIA, STADIO. A CONTRARIO. Forma di argomentazione dialettica per analogia: dal contrario si conclude il contrario. (Se ad A conviene un predicato B, a non-A è probabile convenga un predicato non-B). G. P. ACOSMISMO (ingl. Acosmism; franc. Acos- misme; ted. Akosmismus). Termine adoperato da Hegel (Enc., $ 50) per caratterizzare la posizione di Spinoza, in opposizione con l’accusa di € ateismo » frequentemente rivolta a questo filosofo. Spinoza, secondo Hegel, non mescola Dio con la natura e con il mondo finito considerando come Dio il mondo, ma piuttosto nega la realtà del mondo finito affermando che Dio, e Dio solo, è reale. In questo senso la sua filosofia non è a-teismo ma a-cosmismo; e Hegel ironicamente nota che l’ac- cusa contro Spinoza deriva dalla tendenza a credere che si può più facilmente negare Dio anzichè il mondo. ACRIBIA (gr. dxplBewa). Esattezza o preci- sione. Nel senso moderno, scrupolo nel seguire le regole metodiche di una qualsiasi ricerca scien- tifica. Nel significato platonico «l’esatto in sè» (&utò taxpiBéc) è il giusto mezzo (tò pérptov) cioè il conveniente o l’opportuno in quanto oggetto di una delle due branche fondamentali dell’arte della misura cioè di quella che propriamente interessa l’etica e la politica. L’altra branca della stessa arte è quella propriamente matematica che concerne il numero, la lunghezza, l’altezza, ecc. (Pol., 284 d-e). ACROAMATICO (gr. dxponpatixéc; inglese Acroamatic; franc. Acroamatique; ted. Akroama- tisch). Così sono stati chiamati, perchè destinati agli ascoltatori, gli scritti di Aristotele che costi- tuivano lezioni da lui tenute al Liceo per distin- guerle da quelle destinate al pubblico, di cui non ci restano che frammenti. Tutte le opere aristote- liche da noi possedute sono acroamatiche, perchè gli scritti che egli compose per un pubblico più vasto, e che erano quasi tutti in forma di dialogo, caddero in disuso quando gli scritti di lezioni, portati a Roma da Silla, furono riordinati e pub- blicati da Andronico da Rodi verso la metà del I secolo avanti Cristo (v. ESSOTERICO). ADDIZIONE LOGICA (ingl. Logica! Ad- dition; franc. Addition logique; ted. Logische Ad- dition). Nell’ Algebra della Logica (v.) si chiama così l’operazione «a + 5», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle dell’addizione aritmetica (importantissima l’eccezione «a + a = a»). Inter- pretata come operazione tra classi «a + 5+ viene a formare la classe contenente tutti e soli gli elementi, comuni e non comuni, della classe a e della classe d. Interpretata come operazione tra proposizioni, «a + b» ne indica l’affermazione disgiuntiva («a o br). G.P. ADEGUATO rità suprema in quanto il suo inten- dere è la misura di tutto ciò che è e di ogni altro intendere. La nozione di adeguazione (o accordo, o conformità, o corrispondenza) viene presupposta e adoperata da molte filosofie e precisamente da tutte quelle le quali considerano la conoscenza come un rapporto di identità o somiglianza (v. CONOSCENZA). Locke afferma che «la nostra conoscenza è reale solo se vi è una conformità tra le idee e la realtà delle cose» (Saggio, IV, 4, $ 3). Kant stesso di- chiara di presupporre « la definizione nominale della verità come accordo della conoscenza col suo 0g- getto» e si propone l’ulteriore problema di un criterio « generale e sicuro per determinare la verità di ciascuna conoscenza» (Crit. R. Pura, Logica trasc., Intr., III) riterio rimane quello della corri- spondenza. Dall’indirizzo linguistico della filosofia analitica contemporanea la nozione della corrispon- denza viene mantenuta come rapporto di somiglianza tra linguaggio e realtà. Wittgenstein, per es., dice: «La proposizione è l’imagine (2i/d) della realtà... La proposizione, se è vera, mostra come stanno le cose» (Tractatus, 4.021, 4.022). La coincidenza di dottrine così diverse su questa nozione di verità è dovuta all’interpretazione della conoscenza come rapporto di assimilazione (v. CONOSCENZA; VERITÀ). AD HOMINEM. Così fu chiamata nella logica del ’600 l’argomentazione dialettica che consiste nel contrapporre all’avversario le con- seguenze che risultano dalle tesi meno proba- bili concesse o approvate da lui (Jcapelli del capo o le stelle siano in numero pari. Il secondo indica ciò per cui si sente impulso o repulsione ma non più per questo che per quello, come nel caso di due monete identiche di cui bisogna scegliere una. In terzo senso, si dice indifferente «ciò che non conferisce nè alla feli- cità nè all’infelicità, come la salute e la ricchezza o in altri termini, ciò di cui è possibile fare uso buono o cattivo » (/p. Pirr., III, 177). Kant usò il termine per indicare le azioni credute moralmente indifferenti cioè nè buone nè cattive (Religion, I, Osservazione e nota relativa) (v. LATITUDINARISMO; RIGORISMO). ADIAFORISTICA, Controversia (inglese Adiaphoristic Controversy; franc. Controverse Adia- phoristique; ted. Adiaphoristen Streit). La contro- versia sorta tra i Luterani intorno al valore di quelle pratiche religiose (come la Messa, l’Estrema Unzione, la Cresima, ecc.) che Lutero aveva di- chiarato «indifferenti » per la salvezza e che Melan- tone aveva accettato per spirito di compromesso 0 di pace. La controversia fu conclusa con la « for- mula di concordia» del 1577-80 che riconfermava il carattere indifferente o neutro dei riti e delle cerimonie. A DICTO SECUNDUM QUID AD DICTUM SIMPLICITER. È una delle con- sequentiae formales (v. Conseguenza) della Logica aristotelica scolastica: a dicto secundum quid ad dictum simpliciter non valet consequentia; cioè se A è Bin relazione a qualche cosa, non consegue che A sia B in senso assoluto (ARIST., E/. Sof., 168 b 11; Pietro Isp., Summ. Log., 7.46). G.P. AD IGNORANTIAM. Così Locke chiamò l'argomento che consiste nell’esigere che l’avver- AFFEZIONE 9 sario accolga la prova addotta o ne porti una migliore (Saggio, IV, 17, 20). AD JUDICIUM. Così Locke chiamò l’ar- gomentazione che consiste «nell’usare le prove tratte da uno qualunque dei fondamenti della co- noscenza o della probabilità ». È la sola argomen- tazione valida (Saggio, IV, 17, 22). ADOMBRAMENTO (ted. Abschattung). Ter- mine adoperato da Husserl per indicare il modo parziale e approssimato in cui la cosa esterna è data alla coscienza percettiva. Per es.: « Il medesimo colore appare in serie continuative di adombra- menti di colore. Lo stesso vale per ogni qualità sensibile e per ogni figura spaziale. L’unica e me- desima figura, in quanto data in carne ed ossa come medesima, appare continuamente ‘in modo diverso *, in sempre diversi adombramenti di figura. È questa una necessaria situazione di cose, che ha validità universale » (/deen, I, $ 41). ADOZIONISMO (ingl. Adoptionism; francese Adoptionisme; ted. Adoptionismus). La dottrina se- condo la quale Cristo, nella sua natura umana, è considerato come Figlio di Dio solo per adozione. Questa dottrina è comparsa varie volte nella storia della Chiesa. Fu insegnata da Teodoro vescovo di Mopsuestia intorno al 400; fu ripresa nel sec. vii da alcuni vescovi spagnoli, combattuta da Alcuino e condannata nel Concilio di Francoforte del 794. La dottrina implicava l’indipendenza della natura umana da Dio e quindi il dualismo di natura umana e natura divina: dualismo inammissibile dal punto di vista della dogmatica cristiana. AD VERECUNDIAM. Così Locke chiamò l’argomentazione che consiste « nel citare le opi- nioni di uomini il cui ingegno, dottrina, eminenza, potere o qualche altra causa ha ottenuto un nome e stabilito la reputazione nella stima comune con Capri specie di autorità » (Saggio, IV, 17, 19). l'appello all’autorità. AFASIA (gr. dpacla; ingl. Aphasia; francese Aphasie; ted. Aphasie). In senso filosofico, è l’at- teggiamento degli Scettici in quanto si astengono dal pronunciarsi, cioè dall’affermare o negare al- cunchè intorno a tutto ciò che «è oscuro» cioè che non muove la sensibilità in modo da produrre una modificazione che spinge necessariamente ad assentire. L'A. è così l'astensione dal giudizio connessa con la sospensione dell’assenso (v.) (SESTO EMPIRICO, /p. Pirr., I, 20, 192 sgg.). AFFERMAZIONE (gr. xatépaoc; lat. Af- firmatio; ingl. Affirmation; franc. Affirmation; te- desco Bejahung). Termine col quale si può designare tanto l’atto dell’affermare, quanto il contenuto af- fermato, ossia la proposizione affermativa, Aristo- tele la considerò pertanto come una delle due forme dell’asserzione e precisamente quella che « unisce qualcosa con qualcosa» (De /nterpret., 17a 25). Secondo la medesima teoria aristotelica, essa unisce due concetti in un concetto composito. Sostanzial- mente la tradizione logica successiva ha conservato questa dottrina e quindi questo significato del ter- mine; soltanto i seguaci della teoria del giudizio coione, la protezione, l’attaccamento, la gratitudine, la tenerezza, ecc., che, nel loro complesso possono essere caratterizzati come la situazione in cui una persona «si prende cura di + o « nutre sollecitudine per» un’altra persona o in cui quest’altra risponde positivamente alla cura o alla sollecitudine di cui è fatta oggetto. Ciò che comunemente si chiama « bisogno di A.» è il bisogno di essere compreso, assistito, aiutato nelle proprie difficoltà, seguito con occhio benevolo e fiducioso. In questo senso l’A. non è che una delle forme dell’amore (v.). AFFEZIONE (gr. nd00c; lat. Passio; ingl. Af- fection; franc. Affection; ted. Affektion). Questo ter- mine, che viene talora usato promiscuamente con affetto (v.) e passione (v.), si può distinguere da essi, in base all’uso prevalente nella tradizione filosofica, per la sua maggiore estensione e gene- ralità: in quanto designa ogni stato, condizione o qualità che consiste nel subire un'azione o nell’es- 10 AFFEZIONE sere influenzato o modificato da essa. In questo senso un affetto (che è una specie di emozione [v.)) o una passione è bensì un’A., in quanto implica un'azione subita, ma ha anche altri caratteri che ne fanno una particolare specie di affezione. Di- ciamo comunemente che un metallo è affetto dal- l’acido, o che il tale ha un’A. polmonare; mentre riserviamo le parole « affetto» e «passione» per situazioni umane, le quali presentano tuttavia un certo grado di passività in quanto stimolate od occasionate da agenti esterni. In questo senso generalissimo, Aristotele intese la parola r&8os, che egli considerò come una delle dieci categorie ed esemplificò con « venir tagliato, venir bruciato » (Car., 2a 3); e chiamò affettive (ra&ituxa) le qualità sensibili perchè ciascuna di esse produce un’A. dei sensi (/bid., 9 b 6). Dichia- rando inoltre, al principio del De Anima, lo scopo della sua ricerca, Aristotele la intese diretta a co- noscere, oltre che la natura e la sostanza dell’anima, tutto ciò che ad essa accade, cioè sia le A. che sem- brano sue proprie, sia quelle che essa ha in comune con l’anima degli animali (De An., I, 1, 402a 9). Nel qual testo la parola A. (r&0n) designa tutto ciò che all’anima accade, cioè qualsiasi modificazione essa subisca. Il carattere passivo delle A. dell’anima, carattere che sembrava minacciare l’autonomia ra- zionale di essa, condusse gli Stoici a dichiarare irra- zionali, quindi cattive, tutte le emozioni (Diog. L., VII, 110): di qui la connotazione moralmente nega- tiva che assunse l’espressione « A. dell’anima » e che si rivela chiaramente in espressioni come per- turbatio animi o concitatio animi che vengono usate da Cicerone (Tusc., IV, 6, 11-14) e da Seneca (Ep., 116), e sono espressamente ritenute da S. Ago- stino (De Civ. Dei, IX, 4) sinonime con quelle di affectio e affectus (emozione). Ma S. Agostino e, dietro di lui, gli Scolastici, mantennero il punto di vista aristotelico della neutralità delle A. del- l’anima dal punto di vista morale, nel senso che esse possono essere buone o cattive a seconda che sono moderate o meno dalla ragione; punto di vista che S. Tommaso difese richiamandosi ap- punto ad Aristotele e a S. Agostino (S. 7A., II, I, q. 24, a. 2). La nozione di modificazione subita, cioè di qua- lità o condizione prodotta da un’azione esterna, si mantiene costante nella tradizione filosofica e viene espressa il più delle volte con la parola passio la quale solo nella seconda metà del xviit secolo assume il suo significato moderno (v. PASSIONE). Così Alberto Magno intende con A. «l’effetto e la conseguenza dell’azione » (S. 7h., I, q. 7, a. 1). S. Tommaso, che dà identica definizione (/bid., I, q. 97, a. 2) distingue tre significati del termine: «Il primo, che è il più proprio si ha quando qual- cosa viene allontanata da ciò che ad essa conviene secoe il paziente siano spesso assai di- versi, l’azione e l’affezione non cessano d'essere sempre una stessa cosa che ha questi due nomi per via dei due soggetti diversi ai quali la si può riferire ». In senso analogo la parola viene adope- rata da Spinoza per definire quelli che egli chiama affectus e che noi chiameremmo emozioni o senti- menti. Le emozioni, in quanto passiones cioè A., costituiscono l’impotenza dell’anima e l’anima le vince trasformandole in idee chiare e distinte. «L’emozione, dice Spinoza (Ef., V, 3) che è un’A., cessa di essere un'A. appena ci formiamo di essa un'idea chiara e distinta ». In tal caso, infatti, quest'idea si distingue solo razionalmente dall'emozione e si riferisce alla sola mente; così essa cessa di essere un’A. (/bid., A.; i concetti, invece, su funzioni » (Crit. R. Pura, Anali- tica dei concetti, I, sez. I). Queste notazioni kantiane sono in polemica con la tesi della scuola leibniziano- wolffiana che faceva consistere la sensibilità nelle rappresentazioni indistinte e l’intellettualità in quelle distinte: il che, notava Kant (Antr., $ 7, nota), significa far consistere la sensibilità in una mancanza (mancanza di distinzioni), mentre essa è qualcosa di positivo e di indispensabile alla conoscenza in- tellettuale. In conclusione il termine A., inteso come rice- zione passiva o modificazione subita, non ha ne- cessariamente una connotazione emotiva; e per quanto sia stato adoperato frequentemente a pro- posito di emozioni ed affetti (per il carattere chiaramente passivo di Aphorism; franc. Aphorisme; ted. Aphorismus). Proposizione che esprime in ma- niera succinta una verità, una regola o una massima concernente la vita pratica. Dapprima la parola fu usata quasi esclusivamente per indicare le formule che esprimono, in modo abbreviativo e mnemonico, i precetti dell’arte medica: per es., gli A. di Ippo- crate. Bacone espresse sotto forma di A. le sue osservazioni (contenute nei I libro del Novum Organum) « sulla interpretazione della natura e sul regno dell’uomo »: probabilmente per sottolineare il carattere pratico e attivo di queste osservazioni in quanto sono dirette a preparare il dominio del- l’uomo sulla natura. E Schopenhauer chiamò A. sulla saggezza della vita (nei Parerga und Paralipomena) i suoi precetti per rendere più felice, o meno infe- lice, l’esistenza umana, conservando così alla parola il suo significato di massima o regola per dirigere l’attività pratica dell’uomo. A FORTIORI. Espressione che non indica un modo specifico di argomentare ma significa sem- plicemente «a più forte ragione». Qualche logico designa con questa espressione le inferenze transi- tive del tipo «x implica y, y implica z, dunque x implica z » (cfr. STRAWSON, Introduction to Logical Theory, 1952, pag. 207). AFRICA (ingl. Africa; franc. Afrique; tedesco Afrik). I filosofi hanno talora cercato di giusti- ficare « speculativamente », cioè nei termini della loro filosofia, anche la partizione dei continenti considerandola non già come casuale o convenzio- nale ma come essenziale e razionale. Così apparve a Hegel la partizione del vecchio mondo in tre parti, A., Asia ed Europa che starebbero tra loro come tesi, antitesi e sintesi. L'A. rappresenterebbe in questa triade il momento in cui lo spirito non riesce a giungere alla coscienza e l’uomo rimane abbrutito nella passività e nella schiavitù (Philo- sophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 203 sgg.). Analogamente Gioberti vide nella razza africana «la più degenere delle tre schiatte umane » perchè «il nero è privazione della luce» (Prorologia, II, pag. 221). AGAPISMO (ingl. Agapism). Termine ado- perato da Peirce per designare la « legge dell'amore evolutivo » in virtù della quale l’evoluzione cosmica tenderebbe ad un incremento dell’amore fraterno fra gli uomini (Coll. Pap., 6. 60; ARNAULD, Log., II, 1). Nella linguistica moderna l’A. è quella classe di parole definibile per la sua funzione di caratterizzare la sostanza ed è diviso in descrittivo o limitativo, a seconda che segue o precede il nome (cfr. BLOOMFIELD, Language, 1933, pag. 202 sgg.). AGGREGATO (ingl. Aggregate; franc. Agré- gat; ted. Aggregat). In generale una collezione, un agglomerato, un raggruppamento, una somma o una quantità di cose che conservano tuttavia la loro individualità. Il termine ha un uso esteso nella matematica e nella logica matematica contempo- ranea (v. INSIEME) e in generale nelle scienze naturali che lo adoperano per indicare, in generale, masse o raggruppamenti di elementi che conservano, stando insieme, le proprietà che hanno separata- mea del sapere col procedi- mento che fu poi seguito anche da Spencer per determinare i confini dell’Inconoscibile (v.). AGNOSIA (gr. aywwota; ingl. Agnosy; francese Agnosie; ted. Agnosie). L’atteggiamento di chi pro- fessa di non conoscere nulla, come fu quello di Socrate che affermava di sapere solo di non sapere (PLATONE, Apol., 21 a) e che lo scettico Arcesilao rinforzava dicendo di non sapere neppure questo (Cic., Acad., I, 45). AGNOSTICISMO (ingl. Agnosticism; fran- cese Agnosticisme; ted. Agnosticismus). Il termine fu coniato dal naturalista inglese Tommaso Huxley nel 1869 (Collected Essays, V, pag. 237 sgg.) per indicare l'atteggiamento di chi si rifiuta di am- mettere soluzioni di quei problemi che non possono essere trattati con i metodi della scienza positiva e segnatamente dei problemi metafisici e religiosi. Huxley stesso dichiarò di aver coniato il termine «come antitesi dello ‘gnostico * della storia della Chiesa che pretendeva di saperla lunga sulle cose che io ignoravo ». Il termine fu ripreso da Darwin che si dichiarò agnostico in una lettera del 1879. D'’allora in poi il termine fu usato a designare l’at- teggiamento degli scienziati di indirizzo positivi- stico di fronte all’Assoluto, all’Infinito, a Dio ed ai problemi relativi, atteggiamento contrassegnato dal rifiuto di professare pubblicamente una qual- siasi opinione intorno a tali problemi. Così fu detta agnostica la posizione di Spencer che nella prima parte dei Primi principi (1862) intese dimo- strare l’inaccessibilità della realtà ultima cioè della forza misteriosa che si manifesta in tutti i fenomeni naturali. Il fisiologo tedesco Du-Bois Raymond in uno scritto del 1880 enunciava Sette enigmi del mondo (l’origine della materia e della vita; l'origine del movimento; il sorgere della vita; l’ordinamento finalistico della natura; il sorgere della sensibilità e della coscienza; il pensiero razionale e l’origine del linguaggio; la libertà del volere) di fronte ai quali egli riteneva che l’uomo fosse destinato a pronunciare un igrorabimus in quanto la scienza non potrà mai risolverli. Nello stesso periodo la parola fu estesa a designare anche la dottrina di Kant in quanto essa ritiene che il noumeno o cosa in sè è al di là dei limiti della conoscenza umana (v. NouMENno). Ma questa estensione della parola non può dirsi del tutto legittima, data la concezione kantiana del noumeno come concetto- limite. Fa parte integrante della nozione di A. la riduzione dell’oggetto della religione a semplice « mistero », rispetto al quale i simboli che si adope- rano per interpretarlo rimangono del tutto ina- deguati. AGOSTINISMO (ingl. Augustinianism; fran- cese Augustinism; ted. Augustinismus). S’intende con questo termine, più che l’intera dottrina originale di S. Agostino, quell’insieme di elementi dottrinali agostiniani che caratterizzarono uno degli indirizzi della Scolastica (v.) che fu seguito prevalentemente dai dottori francescani, in polemica con l’indirizzo aristotelico-tomista dei dottori domenicani. La fi- sionomia generale dell'A. medievale può essere espressa con i seguenti punti (cfr. MANDONNET, Siger de Brabant, 2* ediz., 1911, I, pag. 55 sgg.): a) man- canza di una distinzione precisa tra il dominio della filosofia e quello della teologia cioè tra l’ordine delle verità razionali e quello delle verità rivelate; b) teoria dell’illuminazione divina, secondo la quale l'intelligenza umana non può funzionare se non per l’azione illuminatrice e immediata di Dio e non può trovare la certezza della sua conoscenza se non nelle regole eterne e immutabili della scienza divina; c) preminenza della nozione di bene su quella del vero e perciò della volontà sull’intelligenza sia ALGEBRA DELLA LOGICA 13 in Dio che nell'uomo; d) riconoscimento alla ma- teria di una realtà positiva, in contrasto con Ari- stotele che vede in essa una pura potenzialità; dal che deriva, per es., che il corpo umano possiede già una sua realtà o attualità, cioè una forma in- dipendentemente dall’anima e che l’anima è quindi una forma ulteriore che si aggiunge al composto vivente e animale; di qui la cosiddetta pluralità delle forme sostanziali nel composto. Questi tratti accomunano i grandi maestri della scolastica francescana come Alessandro di Hales (1770 circa), Roberto Grossatesta, S. Bonaventura, Ruggiero Bacone, Duns Scoto e molti altri minori. Alcuni di quei tratti si possono anche riconoscere in dottrine filosofiche moderne e contemporanee, alle quali pervengono attraverso la tradizione me- dievale o direttamente dall’opera di S. Agostino. ALBERO DI PORFIRIO (lat. Arbor Por- phyriana; ingl. Tree of Porphyry; franc. Arbre de Porphyre; ted. Baum des Porphyrius). Celebre schema o modello di definizione per dicotomie successive, discendente dal genere generalissimo alle specie infime (sostanza: corporea, incorporea; sostanza corporea [corpo]: animato, inanimato; corpo animato: sensibile, insensibile; corpo ani- mato sensibile [animale]: ragionevole, irragione- vole; animale ragionevole: mortale, immortale; animale ragionevole mortale [uomo]: Socrate, Pla- tone, ecc.). Sebbene tale «albero» non si trovi propriamente nei manoscritti di Porfirio, fu co- struito sulla base del testo porfiriano (/sag., 4, 20) e si trova in tutti i trattati medievali di logica (cfr., per es., Pietro IspANO, Summ. Logic., 2. 10), donde è passato nei testi moderni di logica tradi- zionale. G. P. ALCUNI. V. QUALCHE. ALESSANDRISMO (ingl. Alexandrianism; franc. Alexandrisme; ted. Alexandrismus). S’in- tende con questo termine la cultura alessandrina cioè la cultura del periodo seguito alla morte di Alessandro Magno (323 a. C.) il quale aveva uni- ficato il mondo antico nel segno della cultura greca e ne aveva posto la capitale in Egitto nella nuova città di Alessandria. La dinastia dei Tolomei mirò a fare di questa città un grande centro intellettuale in cui confluissero insieme la cultura greca e quella orientale, mediate e unificate dalla lingua che era diventata di patrimonio comune dei dotti, il greco. Scienziati e dotti di tutti i paesi erano ospitati nel Museo ed avevano a loro disposizione un mate- riale scientifico e bibliografico eccezionale per quei tempi. Al Museo fu poi aggiunta la biblioteca, il cui primo nucleo si dice sia stato formato dalle opere possedute da Aristotele e che divenne poi ricchissima, fino a comprendere 700.000 volumi. La cultura alessandrina è contrassegnata dal di- vorzio tra scienza e filosofia. Mentre le ricerche scientifiche, la determinazione dei metodi della scienza e la sistemazione dei risultati di essa fanno grandi passi in questo periodo, la filosofia rinuncia al còmpito che costituì la sua grandezza nel pe- riodo classico: quello di cercare liberamente le vie e i modi di un’esistenza propriamente umana. Essa si irrigidisce nella pretesa di garantire all'uomo, a tutti i costi, la pace e la serenità dello spirito; e in tal modo diventa privilegio di pochi dotti che riescono ad isolarsi dal resto della vita e dai pro- blemi che la dominano e si disinteressa quindi anche della ricerca scientifica. La scienza dell’età alessandrina offre grandi figure di matematici (Eu- clide, Archimede, Apollonio); di astronomi (Iparco e Tolomeo); di geografi (Eratostene); di medici (Galeno). La filosofia si presenta divisa in due grandi scuole: Epicureismo (v.) e Stoicismo (v.) e in due indirizzi filosofici sostenuti da scuole diverse, lo Scerticismo (v.) e l’Eclettismo (v.). A questo periodo della filosofia si può far risalire quella nozione di essa, che talora ancora predo- mina nel senso comune, come un'attività consola- toria o tranquillizzante che impedisce all'uomo di mescolarsi alle cose della vita comune e cerca di garantirne l’imperturbabilità di spirito. ALESSANDRINISMO (ingl. Alexandrinism; franc. Alexandrinisme; ted. Alexandrinismus). Così fu chiamata, nel Rinascimento, la dottrina di Ales- sandro di Afrodisia sull’intelletto attivo (v.). ALETIOLOGIA (ted. Alethiologie). Così Lam- bert chiamò la seconda delle quattro parti del suo Nuovo organo (1764) e precisamente quella che studia gli elementi semplici della conoscenza. Essa è una specie di anatomia dei concetti che ha lo scopo di raggiungere i concetti più semplici e in- definibili. ALGEBRA DELLA LOGICA (ingl. Logica! Algebra; franc. Algèbre de la logique; ted. Algebra der Logik). Già Leibniz aveva intuita la possibilità di un calcolo letterale affine a quello dell’A. ordi- naria, in cui, definite mediante assiomi (molto simili a quelli algebrici) certe operazioni logiche (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione, negazione) e certe relazioni (implicazione, identità) fondamentali, indicate con simboli tolti alla matematica, si poteva da questi assiomi derivare mediante calcolo tutte le regole della sillogistica tradizionale. Ma (forse per il prevalere di preoccupazioni contenutistiche- intensive di origine filosofica sulla pura idea del calcolo) non era giunto a risultati soddisfacenti. E non più fortunati furono i tentativi di suoi con- tinuatori come Lambert. Solo i logici inglesi del- 1’800 riuscirono a fondare una vera e propria A. della logica. IH primo fu George Boole (Ma- thematical Analysis of Logic, 1847; Laws of Thought, 14 ALGORITMO 1854) sulle cui orme lavorarono Stanley Jevons (Pure Logic, 1864), J. Venn (Simbolic Logic, 1881) e il tedesco E. Schròder (Algebra der Logik, 1890- 1895). L’A. della Logica è generalmente intesa come un calcolo letterale bivalente, caratterizzato: 1° dal fatto che le equazioni vi possono assumere solo i valori 0 o 1; 2° dagli assiomi «a +a4= a» e «a*»a = a» (con tutte le conseguenze derivanti da ciò); 3° dall’assenza di operazioni indirette, come la sottrazione (non potendosi la negazione «— a» equiparare alla sottrazione, nonostante l’as- sioma, già enunciato da Leibniz, «a- — a= 03). Questo mero calcolo letterale in sè non significa nulla, è un mero giuoco simbolico (appunto, un'«A. zione a; finalmente 0 si interpreta «falso », 1 si interpreta «vero». In tal modo si fonda un’interpretazione del calcolo lo- gico-algebrico che viene ad assorbire in sè, tra- sformandola in disciplina formale e deduttiva, la sillogistica tradizionale. La Logica matematica, fon- data da Frege e Russell, e in seguito la Logica simbolica contemporanea, assorbendo in sè gli ele- menti più vitali dell’A. della Logica, l’hanno resa oramai desueta. Gg. P. ALGORITMO (ingl. Algorism; franc. Algo- rithme; ted. Algorithmus). Un qualsiasi proce- dimento di calcolo. Il termine derivato dal nome dell’autore arabo di un trattato che introdusse in Europa nel sec. ix la numerazione decimale, desi- gnava da principio i procedimenti del calcolo aritmetico ed è stato poi generalizzato a indicare ogni procedimento di calcolo. ALIENAZIONE (ingl. Alienation; franc. Alié- nation; ted. Entfremdung). Il termine, che nel lin- guaggio comune significa perdita di un possesso, di un affetto o dei poteri mentali, è stato ado- perato dai filosofi in alcuni significati specifici. 1. Nel Medioevo fu talora usato per indicare un grado dell’ascesa mistica verso Dio. Così Riccardo di San Vittore considera l’A. come il terzo grado dell’elevazione della mente a Dio (dopo la dilata- zione e la sollevazione) e ritiene che essa consiste nell’abbandono della memoria di tutte le cose finite e nella trasfigurazione della mente in uno stato che non ha più nulla di umano (De gratia con- templationis, V, 2). In questo senso l’A. non è che l’estas’autotogliersi di quest’ultimo ha un significato positivo, cioè se stessa; infatti, in quella A. essa pone sè come oggetto o, in forza dell’inscindibile unità dell’esser-per-sè, pone l’oggetto come se stessa, mentre d’altra parte in quest’atto è contenuto l’altro momento ond’essa ha tolto e ripreso in sè medesima quest’A. e oggettività, essendo dunque, nel suo esser altro come tale, presso di sè. Questo è il movimento della coscienza, la quale in tal movimento è la totalità dei propri momenti» (Phéinomen. des Geistes, VIII, 1). Questo concetto puramente speculativo viene ri- preso da Marx nei suoi scritti giovanili per descrivere la situazione dell’operaio nel regime capitalistico. Secondo Marx, Hegel ha avuto il torto di confon- dere l’obiettivazionatto ma infelice... E solo fuori del lavoro si sente presso di sè, si sente fuori di sè nel lavoro ». Nella società capitalistica il la- voro non è volontario ma costretto perchè non è soddisfacimento di un bisogno, ma solo un mezzo ALLEGORIA 15 per soddisfare altri bisogni. «Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena è un lavoro di sa- crificio di se stessi, di mortificazione » (Manoscritti economico-filos., 1844, I, 22). Questo uso del termine è diventato corrente nella cultura contemporanea, non soltanto nella descrizione del lavoro operaio in certe fasi della società capitalistica, ma anche a proposito del rapporto tra l’uomo e le cose nel- l’età della tecnica: giacchè sembra che il predominio della tecnica « alieni l’uomo da se stesso » nensional Man, 1964, pag. 12). Nel linguaggio filosofico-politico oggi corrente il termine ha i significati più disparati che dipendono dalla varietà dei caratteri su cui si insiste per la definizione dell’uomo. Se l’uomo è ragione auto- contemplativa (come riteneva Hegel), ogni suo rap- porto con un oggetto qualsiasi è alienazione. Se l’uomo è un essere naturale e sociale (come riteneva Marx) è A. il suo ritirarsi nella contem- plazione. Se l’uomo è istinto e volontà di vita, è A. ogni repressione e diminuzione di tale istinto e volontà; se l’uomo è razionalità operante o fattiva è A. il suo affidarsi all’istinto. Se l’uomo è ragione (comunque intesa), è A. il suo rifugiarsi nella fantasia; ma se è essenzialmente immagina- zione e fantasia, è A. ogni sua disciplina razionale. Infine, se l’individuo umano è una totalità auto- sufficiente e completa, è A. ogni regola o norma che venga imposta, in qualsiasi modo, alla sua espressione. L’equivocità del concetto di A. di- pende dalla problematicità della nozione di uomo. ALLEGORIA (gr. &anropla; lat. Allegoria; ingl. Allegory; franc. Allégorie; ted. Allegorie). Nel suo primo significato specifico, la parola indica un modo di interpretare le sacre scritture e di sco- prire, al di là delle cose, dei fatti e delle persone, di cui esse trattano, verità permanenti di natura religiosa o morale. La prima importante applica- zione del metodo allegorico è il commentario alla Genesi di Filone di Alessandria (sec. 1). Filone non esita a contrapporre il senso allegorico al senso letterale e a dichiarare «sciocco» (etnînc) que- st’ultimo. Ecco un esempio: «‘ E Dio finì nel set- timo giorno le opere che egli creò’ (Gen., 2, 2). È assolutamente sciocco credere che il mondo è nato in sei giorni o in generale nel tempo. Perchè? Perchè ogni tempo è un insieme di giorni e di notti che sono necessariamente prodotti dal movimento del sole che va al di sopra e al di sotto della terra; ma il sole è una parte del cielo sicchè si riconosce che il tempo è più recente del mondo » (A//. /eg., I, 2). A sua volta Origene che è il primo autore di un grande sistema di filosofia cristiana, distin- gueva nei testi biblici tre significati: il somatico, lo psichico e lo spirituale, che stanno tra loro come le tre parti dell’uomo: il coranifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’in- tende cioè che nella uscita dell'anima del peccato, essa si è fatta santa e libera in sua potestate» (Conv., II, 1). Ma tra questi sensi, come Dante stesso dice, quello fondamentale, per il teologo come per il poeta, è l’allegorico. E difatti l’A. divenne nel Medioevo il modo d'intendere la funzione del- l’arte e specialmente della poesia. Giovanni di Sa- lisbury diceva di Virgilio che egli « sotto l’imagine delle favole esprime la verità dell’intera filosofia » e Dante (Vita Nuova, 25) definiva così il compito 16 ALLOGLOSSIE del poeta: « Vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto veste di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole di cotal veste, in gure del simbolo (v.) che può essere vivo ed evocatore perchè l’imagine simbolica è au- tonoma e ha un interesse in se stessa cioè un inte- resse che non mutua dal suo riferimento convenzio- nale a un concetto o ad una dottrina. Tuttavia, se si tiene conto della potenza e della vitalità di certe opere d’arte di chiara struttura allegorica (per es., della Divina Commedia e di molte pitture medievali e rinascimentali) si deve dire che l'A. non necessariamente rende impossibile l’autonomia e la leggerezza dell’imagine estetica e che, in certi casi, anche la corrispondenza puntuale tra l’imagine e il concetto può non riuscire mortificante per la prima e non togliere ad essa la vitalità dell’arte o della poesia. T. S. Eliot ha fatto, proprio a pro- posito di Dse per designare Dio come principio e fine del mondo (Ap., I, 8; 21, 6; 22, 13; ecc.). ALTERAZIONE (gr. dMolwow; ingl. Alte- ration; franc. Altérat on; ted. Alteration). Secondo Aristotele, una delle forme del mutamento e preci- samente quella secondo la categoria della qualità: intendendosi per qualità non quella essenziale ad una sostanza ed espressa nella differenza specifica ma quella che una sostanza o realtà riceve o su- bisce (Fis., V, 2, 226a 23 sgg.). In altri termini, l’A. è per Aristotele l'acquisto o la perdita di qua- lità accidentali; come, per es., l’essere ora in buona, ora in cattiva salute (Mer., VIII, 1, 1042a 36). Questo significato di « mutamento qualitativo » è rimasto nell’uso filosofico della parola in questione; per quanto non sempMa più ge- neralmente si può dire che, secondo Hegel, l’A. ac- compagna l’intero sviluppo dialetico dell’Idea perchè essa è inerente al momento negativo che è intrinseco a questo sviluppo. Difatti appena fuori dell’essere indeterminato che ha come sua negazione il puro niente le determinazioni negative dell’Idea divengono a loro volta qualche cosa di determinato cioè un « essere altro » da quello stesso che negano. «La negazione — non più come il niente astratto ma come un essere determinato e un alcunchè — è soltanto forma per questo alcunchè, è un essere altro » (Enc., $ 91). ALTERNATIVA, PROPOSIZIONE  (in- glese Alternative proposition; franc. Proposition alter- native; ted. Alternative Proposition). Con questo ALTRO, PROBLEMA DELL’ 17 nome si suole indicare, propriamente, la proposi- zione molecolare disgiuntiva « poq+ («almeno p è vero, quindi se non è vero p è vero q+). Ma spesso in uso non rigoroso, le componenti della molecolare disgiuntiva si dicono « alternative» l’una rispetto all’altra. Pare che la parola a/ternatio, introdotta dagli scrittori latini ad indicare la proposizione di- sgiuntiva, derivi dal linguaggio giuridico. G. P. ALTERNAZIONE. V. ALTERNATIVA. ALTRO (gr. Gftnpov; ingl. Orher; franc. Autre; ted. Andere). Uno dei cinque generi sommi dell’es- sere, enunciati da Platone nel Soffsta e che sono: l’essere, la quiete, il movimento, l’identico e l’altro. Il motivo per ammettere l’altro come un genere a sè è il seguente: la quiete e il movimento, en- trambi, sono, perciò, sotto l’aspetto dell’essere, sono identici; ma essi sono anche diversi l’uno dall’altro e questa diversità è esattamente come è la loro iden- tità (dovuta al fatto che entrambi sono). L’altro (il diverso) è perciò un genere egualmente origi- nario e irriducibile degli altri quattro (Sof., 254 seguenti). Il riconoscimento dell’altro come di un genere sommo è molto importante perchè consente a Platone di risolvere l’antinomia, propria della sofistica e della eristica (v.), che è impossibile dire il falso perchè il falso è ciò che non è e dire ciò che non è significa dir nulla cioè non dire. Da questo punto di vista l’errore dovrebbe essere dichiarato inesistente; e non ci sarebbe neppure differenza pos- sibile tra il filosofo, che si preoccupa di stabilire la distinzione tra verità ed errore, e il sofista che non se ne preoccupa affatto. Ammesso invece l’A. come genere sommo, il non-essere potrà essere interpre- tato, non già come il nulla, ma come l’A. dall’es- sere e precisamente dall’essere di cui si parla; per es., dire che qualcosa è non grande o non bella significa semplicemente dire che è qualcosa di A., di diverso, dal grande e dal bello; ma non perciò che è l’opposto dell’essere e cioè il nulla (Ibid., 257 b sgg.). Quest’affermazione della realtà del non-essere, in quanto A. o diverso, è presen- tata, dal Forestiere eleate che è il maggiore prota- gonista del Sofista, come una specie di « parricidio + verso Parmenide, che aveva affermato che il solo essere è e il non essere non è (/bid., 242 d). Queste notazioni platoniche, soprattutto la categoria di «A.», sono poi state adoperate frequentemente per chiarire la nozione di niente (v.). ALTRO, PROBLEMA DELL’ (ingl. Problem of Others; franc. Problème de l’autre; ted. Problem von fremden Ichen). Con quest’espressione s’indica, nella filosofia moderna e contemporanea, il pro- blema concernente l’esistenza di altri io (spiriti o persone) indipendenti da quello di colui che si pone il problema stesso. Questo problema nasce da due punti di vista diversi e tuttavia connessi 2 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. insieme da alcuni presupposti comuni. Il primo è quello dell’idealismo romantico (v.) secondo il quale la realtà essendo un Principio infinito ed universale (per es., l’Io assoluto di Fichte), si tratta di vedere come essa si rompe o si moltiplica nella diversità degli io singoli. Il secondo è il punto di vista ge- nericamente idealistico e spiritualistico, secondo il quale ciò che a ciascuno di noi è originariamente dato è soltanto il suo proprio io e le sue esperienze psichiche di cui alcune (una parte solamente) si riferirebbero ad altri individui. AI primo problema Fichte rispose nella Dorfrina Morale (1798) affermando il carattere originario dell’idea del dovere e facendo derivare da essa il riconoscimento degli altri io. L'idea del dovere è l’autodeterminazione originaria dell’io; ma essa non potrebbe esser realizzata se non ci fossero altri io, altri soggetti nei confronti dei quali soltanto l’idea del dovere può trovare la sua determinazione e quindi la sua possibilità di realizzazione. La realtà degli altri io è quindi, per Fichte, un postulato morale: l’esistenza degli altri io deve essere ammessa e riconosciuta, se l'io deve poter concretamente rea- lizzare la sua moralità (Sittenlehre, $ 18). Questa concezione è stata, con qualche variante, ripresa da altri filosofi; per es., da Riehl nel suo libro sul Criticismo (1786-87) e da Cohen nella sua Erica della volontà pura (1904): il quale ultimo deduce l’esistenza delle persone in generale dal carattere giuridico e dalle funzioni pubbliche dell’uomo, sicchè la molteplicità degli io non esisterebbe che come molteplicità di « persone giuridiche ». Dall’altro lato, dal punto di vista che l’io conosce in modo immediato solo se stesso e i suoi stati interiori, cioè dal punto di vista di un accesso pri- vilegiato alla conoscenza interiore dell’io (v. Co- scieNZA) nasce il problema di vedere come mai una parte dell’esperienza dell’io possa essere rife- rita ad altri io; e il problema ancora più grave di vedere quale garanzia questo riferimento offra in favore dell’esistenza effettiva dell’altro io. Per ri- spondere a questi problemi due teorie sono state avanzate: 1° la teoria secondo la quale l’esistenza degli altri sarebbe inferita mediante un « giudizio di analogia », a partire dalle percezioni che ci ri- velano movimenti analoghi a quelli mediante i quali noi esprimiamo il nostro proprio io. Ma questa teoria, propria della psicologia associazionista, ha contro di sè il fatto che la credenza nell’esistenza o soggettivistico del problema è apparso sempre più debole; ed è stato anche at- taccato, sulla base di osservazioni sperimentali, dalla psicologia contemporanea. Scheler osservò che non esiste alcun privilegio ontologico o metafisico a favore dei pensieri o dei sentimenti che l’io chiama «miei ». Il mio pensiero mi è dato come « mio» allo stesso titolo in cui il pensiero di un altro mi è dato come pensiero « altrui »: è questo il caso comunissimo e normale in cui noi comprendiamo una comunicazione qualsiasi che ci vien fatta. Tra il mio e l’altrui c'è sempre una connessione stret- tissima ed essi si determinano e si condizionano vicendevolmente, senza tuttavia che le sfere rispet- tive si lascino fissare mai rigidamente, come è provato dal fatto che spesso non sappiamo dire se una certa esperienza psichica ci venga da noi stessi o da altri (Sympathie, III, cap. III). Questo equivale a negare il carattere privato e rigida- mente soggettivo dell’Zo (v.) e a riconoscere che esso si muove, sin dalla sua costituzione e in tutte le sue manifestazioni, in una rete di rapporti inter- soggettivi che lo costituiscono in proprio e nella quale vengono ritagliate le sfere correlative del «mio » e del « tuo ». Questo punto di vista si ritrova frequentemente, e anche presso scuole diverse, nella filosofia contemporanea. Mead afferma che « l’uomo diventa un io nella sua esperienza solo in quanto il suo atteggiamento richiama un corrispondente atteggiamento nei rapporti sociali ». L’autocoscienza stessa o io non è altro, in questo caso, che l’atteg- giamento generalizzato degli altri nei nostri riguardi. « Noi prendiamo il ruolo di quello che può essere chiamato l’altro generalizzato e nel far questo ap- pariamo come oggetti sociali, come io» (Phil. of the Present, pag. 185). Dall’altra parte Carnap ha espresso un punto di vista assai vicino a questo, insistendo sul carattere secondario e derivato della distinzione tra l’io e il tu. «La stessa caratterizza- zione degli elementi fondamentali del nostro si- stema costitutivo come psichicamente propri cioè come ‘psichici’ e come ‘miei’ acquista signifi- cato solo quando si sono costituiti il campo del non psichico (contrapposto allo psichico) e del ‘tu’» (Der logische Aufbau der Welt, $ 65). Queste notazioni dimostrano che un punto di partenza solipsistico che pretenda fondarsi su dati cadenti nell’àmbito della coscienza personale è sempre più difficile a sostenersi. Ed anche una filosofia come quella di Sartre per la quale l’altra esistenza è tale in quanto non è la mia, sicchè il rapporto inter- personale è un rapporto di negazione reciproca, e solo la negazione è «la struttura costitutiva dell’es- sere altri » (L’étre et le néant, pag. 285), si presenta come un trascendimento del cogito. « Ciò che noi chiamiamo, in mancanza di meglio, il cogito dell’esi- stenza altrui, si confonde col mio proprio cogito. Bisogna che il cogito mi getti fuori di lui sull’A., come mi ha gettato fuori di lui sull’in-sè e questo non già rivelandomi una mia struttura a priori che punterebbe verso l’altro egualmente a priori, ma scoprendo in me la presenza concreta e indubitabile di questo o quell’altro concreto come ha già ri- velato a me la mia esistenza inconfrontabile con- tingente e tuttavia necessaria e concreta» (/bid., pag. 308-09). Analogamente per Husserl l’esperienza dell’altro è una specie di Einfhlung o empatia per la quale l’altro si costituisce per «appresentazione» come «un altro me stesso» (Cartesianische Medita- tionen, $ 52). L’io stesso fa in modo che « una mo- dificazione intenzionale di se stesso e della sua pri- mordialità pervenga alla validità sotto il titolo di percezione dell’estraneità, percezione di un altro, di un altro io» (Die Krisis, $ 54 b). ALTRUISMO (ingl. Altruism; franc. Altruisme; ted. Altruismus). Il termine è stato creato da Comte, in opposizione a egoismo (v.), per designare la dot- trina morale del positivismo. Nel Catechismo posi- tivista (1852) Comte enunciò la massima fondamen- tale dell’A.: vivere per gli altri. Questa massima, egli ritenne, non è contraria a tutti, indistintamente, gli istinti dell’uomo; giacchè l’uomo possiede, ac- canto agli istinti egoistici, istinti simpatetici che l'educazione poiivista può sviluppare gradata- mente sino a renderli predominanti sugli altri. Già, infatti, le relazioni domestiche e civili tendono a contenere gli istinti personali, quando essi susci- tano conflitti tra i vari individui, e a promuovere le inclinazioni benevole che si sviluppano sponta- neamente presso tutti gl'individui. Il termine fu sùbito accettato da Spencer (nei Principi di psico- logia, 1870-72) il quale ritenne che l’antitesi tra egoismo e A. sia destinata a scomparire con l’evo- luzione morale e farà sempre più coincidere la sodisfazione del singolo col benessere e la felicità altrui (Data of Ethics, $ 46). Come si vede il fon- damento dell’etica altruistica è naturalistico, perchè essa fa appello agli istinti naturali che portano l’in- dividuo verso gli altri e intende promuovere lo sviluppo di tali istinti. Il suo termine polemico è l’etica individualistica del xvm secolo in quanto è un’etica che rivendica i valori e i diritti dell’in- dividuo contro quelli della società e in particolare dello Stato. Comte, come tutto il Romanticismo (v.) obbedisce all’esigenza opposta, che fa leva sul va- AMBIENTE 19 lore preminente dell'autorità statale e perciò la sua etica prescrive puramente e semplicemente il sacri- ficio dell'individuo. Non fa perciò meraviglia che le dottrine interessate alla difesa dell’individuo ab- biano considerato con ostilità e disprezzo la morale dell’altruismo. Così Nietzsche, identificando l’amor del prossimo con l’A., lo fa condannare da Zara- tustra. « Voi andate al prossimo sfuggendo a voi stessi e vorreste far di ciò una virtù; ma io leggo bene attraverso il vostro A. ... Voi non sapete sop- portare voi stessi e non vi amate abbastanza: ed ecco che volete sedurre il vostro prossimo inducen- dolo all'amore e farvi belli del suo amore» (Also sprach Zarathustra, cap. sull’Amore del prossimo). Su un terreno più obiettivo e scientifico Scheler (Sympathie, ll, cap. I) ha negato l’identificazione (presupposta anche da Nietzsche) dell'A. e del- l’amore. Egli ha osservato che gli atti che si diri- gono verso gli altri in quanto altri non sono sempre necessariamente « amore ». L’invidia, la cattiveria, la gioia maligna, si riferiscono egualmente agli altri in quanto altri. Un amore che fa completamente astrazione da se stesso poggia su un odio ancora più primitivo, cioè l’odio verso se stesso. «Il fare astrazione da sè, il non poter sopportare il colloquio con se stesso, son cose che non hanno niente a che vedere con l’amore ». In realtà la massima del- l’A. «vivere per gli altri», se presa alla lettera, farebbe di tutti gli uomini mezzi per un fine che non esiste; ed è perciò contraria ad uno dei teoremi meglio stabiliti dell’etica moderna (e in generale dell’etica) cioè a quello per il quale l’uomo non deve mai essere considerato come un semplice mezzo, ma deve sempre avere, anche, valore di fine. AMABIMUS. V. PURPURFA. AMBIENTE (ingl. Environment; franc. Milieu; ted. Mittel). Nel significato corrente, un complesso di rapporti tra mondo naturale ed essere vivente, che influiscono sulla vita e sul comportamento dello stesso essere vivente. In questo senso la parola (milieu ambiant) fu probabilmente introdotta nel- l’uso dal biologo Geoffroy St.-Hilaire (Études pro- gressives d'un naturaliste, 1835) e ripresa e adope- rata da Comte (Cours de philosophie positive, lez. 40, $ 13 sgg.). Osservazioni sull’influenza delle condi- zioni fisiche, e specialmente del clima, sulla vita degli animali in generale e in particolare su quella dell’uomo, ed anche sulla vita politica dell’uomo, si trovano frequentemente negli scrittori antichi (si confronti, per es., IPPOCRATE, Arie acque luoghi, 14-24; ARISTOTELE, Pol., VII, 4, 7) e sono state poi variamente ripetute. Nel mondo moderno si deve a Montesquieu (Libro XIV de L’Esprit des Lois, 1748) il principio, da lui sistematicamente sviluppato, che « il carattere dello spirito e le pas- sioni del cuore sono estremamente differenti nei diversi climi » e che perciò « le leggi devono essere relative e alla differenza di queste passioni e alla differenza di questi caratteri ». Il positivismo otto- centesco attribuì all’A. fisico e biologico il valore di causa determinante di tutti i fenomeni propria- mente umani, dalla letteratura alla politica. L’opera letteraria e filosofica di Ippolito Taine contribuì alla diffusione di questa tesi, secondo la quale l’ambiente fisico, biologico e sociale determina ne- cessariamente tutti i prodotti e i valori umani e basta a spiegarli. Nella Filosofia dell’arte (1865) Taine affermò che l’opera d’arte è il prodotto ne- cessario dell'ambiente e che conseguentemente si può derivare da questo non solo lo sviluppo delle forme generali dell'imaginazione umana, ma anche quella che spiega le variazioni degli stili, le diffe- renze delle scuole nazionali, e perfino i caratteri generali delle opere individuali. Nel mondo con- temporaneo la nozione di A. è rimasta fondamentale nelle scienze biologiche, antropologiche e sociolo- giche ma si è venuta gradualmente trasformando giacchè la relazione tra l’A. e l’organismo o l’uomo o il gruppo sociale non è stata più intesa secondo uno schema meccanico cioè come una relazione di determinismo causale assoluto. L’azione selettiva che l’essere, sul quale l’A. agisce, esercita nei con- fronti dell’A. stesso è stato ampiamente sottolineato. « L'A. di un organismo, ha detto Goldstein, non è qualcosa di compiuto ma si forma continuamente a misura che l’organismo vive ed agisce. Si po- trebbe dire che l’A. è estratto dal mondo dalla esistenza dell’organismo, o meglio, per esprimersi più oggettivamente, che un organismo non può esistere se esso non riesce a trovare nel mondo, a ritagliarsi in esso, un A. adeguato, a condizione naturalmente che il mondo gliene offra la possibi- lità » (Aufbau des Organismus, 1934, pag. 58). Analo- gamente, a proposito dell’A. storico-sociale, Toynbee ha detto: « L’A. totale, geografico e sociale, in cui è compreso sia l’elemento umano, sia il non umano, non può essere considerato come un fattore posi- tivo da cui le civiltà sono state generate. È chiaro che una combinazione virtualmente identica dei due elementi dell’A. può originare una civiltà in un caso e mancare di originare una civiltà in un altro, senza che sia possibile da parte nostra spiegare questa differenza assoluta nel loro sorgere con qualche sostanziale differenza nelle circostanze, per quanto si possono definire esattamente i ter- mini della comparazione » (A Study of History, I, pag. 269). Questo ovviamente non significa che l’A. non agisca affatto sulla vita e sulle creazioni degli uomini ma solo che ne è piuttosto la con- dizione che la causa. I filosofi hanno sottolineato questo nuovo significato dell'ambiente. Mead ha detto: « L’A. è una selezione che è dipendente dalla 20 AMBIGUITÀ forma vivente» (Phil. of the Act, pag. 164). Dal- l’altro lato Heidegger ha inteso la sua analisi del- l’essere nel mondo (che è determinazione essenziale dell’esistenza) quale una messa in questione e in discussione di quella nozione di A. che la biologia non fa che presupporre (Sein und Zeit, $ 12). AMBIGUITÀ (ingl. Ambiguity; franc. Ambi- guité; ted. Ambiguitàt). 1. Lo stesso che Equivo- cazione (v.). 2. Riferito a stati di fatto o situazioni: possibilità di interpretazioni diverse o presenza di alternative escludentisi. AMBIVALENZA (ingl. Ambivalence; francese Ambivalence; ted. Ambivalenz). Uno stato caratte- rizzato dalla presenza simultanea di valutazioni o di atteggiamenti contrastanti od opposti. Il termine è usato specialmente in psicologia per indicare certe situazioni emotive che implicano amore e odio, e in generale atteggiamenti opposti, nei confronti del medesimo oggetto (cfr. E. BLeuLER, Lehrbuch der Psychiatrie, 22 ediz., 1918). AMERICA (ingl. America; franc. Amérique; ted. Amerika). I filosofi del Romanticismo hanno avuto una parte importante in quella « disputa del Nuovo Mondo» che, cominciata verso la metà del *700, ancora, si può dire, perdura, a proposito dell’inferiorità o superiorità dell'America. La tesi della debolezza o della « immaturità » delle Americhe nasce con Buffon che esaminando comparativamente le specie animali in A. e in Europa, concludeva che in A. «la natura vivente è assai meno attiva, è assai meno varia e si può dire assai meno forte » (CEuvres, ediz. 1826-28, XV, 429). Le tesi di Buffon venivano polemicamente amplificate dal- l’abate De Paw in uno scritto del 1768, Recherches philosophiques sur les Américains. Nelle mani di Hegel le notazioni di Buffon e De Paw divengono, conformemente al sistema e allo spirito di lui, «determinazioni assolute +, verità necessariamente dedotte. L’A. è un mondo nuovo nel senso di es- sere immaturo e fiacco; la fauna vi è più debole, ma in compenso la vegetazione è mostruosa. Man- cano in essa i due strumenti di progresso civile, il ferro e il cavallo (Enc., $ 339, Zus.). L'A. è quindi un mondo nuovo nel senso che è giovane ed im- maturo. Perfino il mare tra l’A. del sud e l’Asia « manifesta una immaturità fisica anche quanto alla sua origine ». E per tutto questo « l’A. si è sempre mostrata e si mostra ancora impotente tanto dal punto di vista fisico quanto da quello spirituale » (Phil. der Geschichte, ediz. Lasson, pag. 122 e sgg.). È bensì vero che, forse proprio per questa imma- turità, l'A. è «il Paese dell’avvenire, quello a cui, in tempi futuri, forse nella lotta fra il nord e il sud, si rivolgerà l’interesse della storia universale ». Ma Hegel aggiunge sùbito: « Come paese dell’av- venire, essa assolutamente non ci riguarda. Il filo- sofo non s'intende di profezie. Dal lato della storia noi abbiamo piuttosto a che fare con ciò che è stato e con ciò che è, mentre nella filosofia non ci occupiamo nè di ciò che soltanto è stato o che soltanto sarà, ma di ciò che è ed è eternamente: della ragione; e con ciò abbiamo abbastanza da fare » (Ibid., ediz. Lasson, pag. 129). Schopenhauer dal canto suo ripeteva le osservazioni (se così pos- sono chiamarsi) sull’inferiorità della fauna ameri- cana e degli indigeni; e aggiungeva, nel linguaggio fiorito delle sue invettive, una descrizione degli Stati Uniti come di un paese prospero ma domi- nato da un vile utilitarismo e dalla sua immanca- bile compagna, l’ignoranza, che ha aperto il cam- mino alla stupida bigotteria anglicana, alla sciocca presunzione e alla brutale volgarità congiunta a una stolta venerazione per le donne (Die Welt, II, 44; Parerga, II, VI, $ 92). Alla stessa tendenza denigratrice non si sottrae l’altro corno del Ro- manticismo, il positivismo che, per bocca di Comte, svaluta la portata della rivoluzione americana, vede negli Stati Uniti una «colonia universale » e con- sidera la loro civiltà completamente priva di origi- nalità e semplice filiazione della civiltà inglese (Cours de phil. positive, V, 470-711; VI, 60n). D'altra parte lo stesso Romanticismo suggeriva ad Emerson un’esaltazione mistica dell’A. altrettanto fantasica ed arbitraria delle denigrazioni dei ro- mantici europei (The American Scholar, 1837; The Young American, 1844). Già Humboldt notava (Ansichten der Natur, 1807) il carattere arbitrario e fantastico di quelle notazioni che pretendevano di essere « scientifiche » o « speculative » e che erano soltanto dogmatizzazioni di pregiudizi. Ma con tutto ciò gli elementi della polemica intorno al Nuovo Mondo sono rimasti per lungo tempo e forse ancor oggi rimangono quelli che abbiamo accennato. (Per maggiori particolari, cfr. A. GERBI, La disputa del Nuovo Mondo, Milano-Napoli,AMICIZIA (gr. quia; ingl. Friendship; fran- cese Amitié; ted. Freundschaft). In generale la co- munità di due o più persone legate assieme da atteggiamenti concordanti e da affetti positivi. Gli antichi ebbero dell’A. un concetto assai più esteso di quello che oggi viene comunemente ammesso e adoperato, come risulta dall’analisi che Aristotele dette di essa nei libri VIII e IX dell’Etica Nico- machea. L’amicizia è, secondo Aristotele, o una virtù o strettamente congiunta con la virtù: co- munque, è ciò che c’è di più necessario alla vita giacchè i beni che la vita offre, come la ricchezza, il potere, ecc., non si possono nè conservare nè adoperar bene senza gli amici (VIII, 1, 1155 a 1). L’A. va distinta in primo luogo dalle due cose AMMIRAZIONE 21 cui sembra più strettamente affine, cioè dall’amore e dalla benevolenza. Essa si distingue dall’amore (ptc) perchè l’amore è simile ad un’affezione (v.), l’A. a un abito (v.). Sicchè l’amore si può rivolgere anche a cose inanimate, mentre il riamare, che è proprio dell’A., implica una scelta che deriva da un abito (VIII, 5, 1157b 28). Inoltre, all'amore si accompagnano l’eccitazione e il desiderio, che sono estranei all’A.; ed esso, a differenza dell’A., è provocato dal godimento che dà la vista della bel- lezza (IX, 5, 1166b 30). Si distingue poi dalla benevolenza perchè questa può dirigersi anche verso gli ignoti e può rimanere nascosta: il che non ac- cade dell’A. (IX, 5, 1167 a 10). L’A. è certamente una specie di concordia, ma una concordia che non riposa sull’identità delle opinioni ma piuttosto, come la concordia delle città, sull’armonia degli atteggiamenti pratici, sicchè a giusto titolo si chiama « A. civile » la concordia politica (IX, 6, 1167 a 22). L’A. è poi certamente una comunità nel senso che l’amico si comporta verso l’amico come verso se stesso (IX, 12, 1171 b 32). Ci sono tante specie di amicizie quante sono le comunità, cioè le parti della società civile: quella tra i naviganti, quella tra i soldati, quella tra coloro che fanno un qual- siasi lavoro comune (VIII, 9, 1159b 25). Vi può essere anche A. tra il padrone e lo schiavo, se lo schiavo è considerato, non più soltanto come uno strumento animato, ma come un uomo. Solo nella tirannide c'è poca o nulla A.: giacchè in essa non c’è niente in comune tra chi comanda e chi obbedisce, e l’A. è tanto più forte quante più sono le cose comuni tra uguali (VIII, 11, 1161 b 5). Ci sono, anche, tante A. quante sono le forme dell'amore: quella del padre col figlio, del giovane col vecchio, del marito con la moglie. Quest’ultima è quella più naturale e ad essa si congiungono l’uti- lità e il piacere (VIII, 12, 1161b 11). Quanto al fondamento dell’A., esso può essere o l’utilità reciproca o il piacere o il bene; ma è chiaro che mentre un’A. fondata sull’utilità o sul piacere è destinata a finire quando il piacere o l’utilità ces- sano, l’A. fondata sul bene è la più stabile e ferma ed è quindi la vera A. (VIII, 3, 1156 a 6 sgg.). Que- st’analisi aristotelica, che è la più compiuta e bella che la filosofia abbia mai dato del fenomeno dell’A., s’incardina sui seguenti punti: 1° I’A. è una certa comunità cioè una partecipazione solidale di più persone ad atteggiamenti, valori o beni determinati; 2° essa è collegata con l’amore e ne segue le forme ma non s’identifica con l’amore; 3° essa si avvi- cina piuttosto alla benevolenza ed è perciò colle- gata con gli affetti positivi, cioè con quelli che implicano sollecitudine, cura, pietà, ecc. L'A. è così, secondo Aristotele, più estesa dell'amore, che è limitato e condizionato dal godimento della bel- lezza. Ed è diversa dall’amore per il suo carattere attivo e selettivo, onde Aristotele dice che l’amore è un’affezione (r&80c) cioè una modificazione su- bita mentre l’A. è un abito (come un abito è la virtù) cioè una disposizione attiva e impegnativa della persona. Dopo Aristotele, l’A. trovò i suoi esaltatori negli Epicurei che ne fecero uno dei capisaldi della loro etica e della loro condotta pra- tica. Essa assume però presso questa scuola un carattere aristocratico; è una delle manifestazioni della vita del saggio, non già, come la riteneva Aristotele, collegata ai rapporti umani come tali. Ritornano nelle testimonianze epicuree che ci sono rimaste alcune notazioni aristoteliche, per es., que- sta: « L’A. è nata dall’utile ma essa è un bene per sè. Amico non è chi cerca sempre l’utile nè chi non lo congiunge mai con l’A.: giacchè il primo considera l'A. come un traffico di vantaggi, il se- condo distrugge la fiduciosa speranza di aiuto che è tanta parte dell’A.» (Sent. Var., 39-24, Bignone). Col prevalere del Cristianesimo l’importanza del- l'A. come fenomeno umano primario, decade nella letteratura filosofica. Il concetto più esteso e più importante diventa quello dell'amore, dell'amore del prossimo, che manca dei caratteri selettivi e speci- fici, che Aristotele aveva riconosciuto all’amicizia. Difatti « prossimo » è colui col quale c’imbattiamo o che è comunque in rapporto con noi, chiunque esso sia, amico o nemico. La massima aristotelica dell’A., «comportarsi verso l’amico come verso se stesso », vedere in lui « un altro se stesso » (Er. Nic., IX, 9, 1170 b 5; IX, 12, 1171 b 32), viene estesa dal Cristianesimo a tutto il prossimo. AMMIRAZIONE (gr. Gavpdtew; lat. Admi- ratio; ingl. Wonder; franc. Admiration; ted. Be- wunderung, Staunen). Secondo gli antichi l’A. è il principio della filosofia. Platone dice: « Questa emozione, questa A. è propria del filosofo; nè la filosofia ha altro principio fuori di questo; e chi affermò che Iride è figliola di Taumante non ha secondo me tracciato male la genealogia» (7eet., 11, 155d). E Aristotele: «In virtù dell'A., gli uomini cominciarono per la prima volta a filoso- fare ed anche ora filosofano: da principio comin- ciarono ad ammirare le cose intorno a cui era più facile il dubbio, poi procedettero a poco a poco a dubitare anche delle cose maggiori, come, ad es., delle affezioni della luna e di ciò che concerne il sole e le stelle e della generazione dell’universo. Colui che dubita e ammira sa di ignorare; perciò il filosofo è anche amatore del mito: il mito con- siste infatti di cose mirabili» (Mer., I, 2, 982b 12 sgg.). Al principio dell’età moderna Cartesio ha espresso lo stesso concetto: « Quando ci si pre- senta qualche oggetto insolito e che giudichiamo nuovo o diverso da ciò che prima conoscevamo o 22 AMMISSIONE supponevamo che fosse, questo oggetto fa sì che noi lo ammiriamo e ne restiamo sorpresi; e poichè ciò accade prima che noi sappiamo se l’oggetto ci sia utile o meno, l’A. mi appare come la prima di tutte le passioni; ed essa non ha opposto perchè se l’oggetto che si presenta non ha in sè niente che ci sorprenda, noi non siamo affetti da esso e lo consideriamo senza passione» (Passions de lame, II, 53). Su questo punto la differenza tra Cartesio e Spinoza è grande: Spinoza considerò l’A. solo come l’imaginazione di una cosa a cui la mente rimane attenta per essere essa priva di connessione con altre cose (E:., III, 52 e scol.) e si rifiutò di considerarla come una emozione primaria e fonda- mentale, tanto meno come una emozione filosofica o che sia all'origine della filosofia. L'unico atteg- giamento filosofico è per lui l’amore intellettuale di Dio, la contemplazione imperturbabile e beata della connessione necessaria di tutte le cose nella Sostanza divina. Per Aristotele e per Cartesio l’A. è invece l’atteggiamento che è alla radice del dubbio e della ricerca: è il prender coscienza di non com- prendere ciò che si ha davanti e che, anche se è per altri rapporti familiare, ci si rivela, ad un certo punto, inspiegabile e meraviglioso. Kant parlava dell'A. a proposito della finalità della natura, in quanto è inesplicabile con i concetti dell’intelletto (Crit. del Giud., $ 62). A sua volta Kierkegaard definiva l’A. come «il sentimento appassionato del divenire» e la riteneva propria del filosofo che considera il passato, come un segno della non ne- cessità del passato. «Se il filosofo non ammira nulla (e come potrebbe senza contraddizione am- mirare una costruzione necessaria?) egli è con ciò estraneo alla storia; giacchè dovunque entra in gioco il divenire (che certamente è nel passato) l’incertezza di ciò che è sicuramente divenuto (l’in- certezza del divenire) non può esprimersi che me- diante questa emozione necessaria al filosofo e propria di lui » (Philosophische Brocken, p. IV, $ 4). Whitehead ha detto «la filosofia nasce dell’A.» (Na- ture and Life, 1934, 1). AMMISSIONE (ingl. Admission; franc. Ad- mission; ted. Aufnahme). Una proposizione, che si assume da altri (in quanto altri l'hanno già pro- posta oppure in quanto si trova ad essere comune- mente adoperata) allo scopo di fondare su di essa un qualche ragionamento o di effettuare a partire da essa una qualche inferenza. Oppure: l’atto di assumere una proposizione siffatta. La proposizione ammessa può essere ritenuta o vera o falsa o pro- babile o indifferente; se la si ritiene vera la si chiama un assioma; se probabile, un’ipotesi; se indifferente, un postulato. Ma essa può essere ammessa anche solo allo scopo di confutarla, mediante una ridu- zione all’assurdo. Dall’assurzione (v.) l'A. si di- stingue in quanto concerne una proposizione la cui scelta o proposta, come base di un ragionamento, è già stata fatta da altri. AMORALE, AMORALISMO (ingl. Amoral, Amoralism; franc. Amoral, Amoralisme; ted. Amo- ralisch, Amoralismus). L’aggettivo «A.» designa propriamente ciò che è indifferente alle valutazioni morali: in questo senso un uomo A. è un uomo sulla cui condotta i giudizi sul bene e sul male non hanno alcuna presa e che perciò si regola in- dipendentemente da essi. Il termine « amoralismo » designa invece una professione di amoralità e perciò la pretesa di prescindere dai valori della morale cur- rente e di sostituirvi altri valori; in questo senso esso è stato spesso adoperato per designare l’atteggia- mento di Nietzsche (v. TRASMUTAZIONE DEI VALORI). AMOR DI SÉ (gr. puavria; ingl. Self-love; franc. Amour de soi; ted. Selbstliebe). Quest’espres- sione non deve essere confusa nè con « amor pro- prio » che significa vanità, o, nel migliore dei casi, senso di fierezza o di orgoglio, nè con egoismo (v.). Aristotele distinse la filautia, che è una virtù, dal- l’egoismo volgare di chi ama se stesso in quanto vuole attribuirsi la maggior parte di lucro, di pia- ceri e di onori. « Il filautos, egli disse, è piuttosto colui che si appropria del bello e del bene e si dà ad esso in signoria e gli obbedisce in tutto » (Er. Nic., IX, 8, 1168 a, 28). In altre parole, chi ama se stesso nel vero senso, non pretende la parte maggiore del piacere, degli onori o del lucro, ma la parte maggiore del bene e del bello, cioè l'esercizio della virtù. In senso analogo, S. Tommaso afferma che l’uomo ama se stesso quando ama la sua natura spirituale, non quella corporea e che in tal senso egli deve amare se stesso dopo Dio ma prima di qualsiasi altro; sicchè, per es., non può sopportare d’incor- rere in peccato per liberare il prossimo dal pec- cato (S. 7A., II, II, q. 26, a. 4). Nell’età moderna, Malebranche (nella Première lettre au R. P. Lamie) ha ripreso la distinzione tra amor proprio e A. considerando il primo come la fonte di tutte le sregolatezze umane e il secondo invece come il principio di tutti gli sforzi per il compimento del dovere. La distinzione fu ripresa da Vauvenargue (De l’esprit humain, 24): «Con l’amore di noi stessi si può cercare la propria felicità fuori di sè. Si può amare qualcosa fuori di sè più che la propria esistenza e non si è per se stessi l’unico oggetto. L’amor proprio al contrario subordina tutto alle proprie comodità e al proprio benessere, e ha in se stesso l’unico oggetto e l’unico fine; sicchè mentre le emozioni che vengono dall’A. dànno noi alle cose, l’amor proprio vuole che le cose si diano a noi e fa di sè il centro di tutto ». Kant, pur con- siderando l’A. di sì come una specie dell’egoismo (inteso però nel senso più generale di desiderio AMORE 23 della felicità) lo distingueva come benevolenza verso di sè (o philautia) portata all’estremo, dalla com- piacenza verso se stesso (o arrogantia) e lo riteneva suscettibile di accordarsi con la legge morale e di diventare «amore razionale di sè » (Crit. R. Prat., libro I, cap. III, A 129). Le analisi di Scheler hanno insistito sul carattere non egoistico dell’A. di sé: «L’amore orientato verso i valori e, per il loro tramite, verso gli oggetti che ne sono i portatori, senza preoccuparsi di sapere a chi appartengono questi valori, se a ‘ me’ o ad ‘altri’ » (Symparhie, II, cap. I, $ D. AMORE (gr. tpwc, dyamn; lat. Amor, Caritas; ingl. Love; franc. Amour; ted. Liebe). I significati che questo termine presenta nel linguaggio comune sono molteplici, disparati e contrastanti; e altret- tanto molteplici, disparati e contrastanti sono quelli che esso presenta nella tradizione filosofica. Comin- ceremo con l’accennare agli usi più correnti del linguaggio comune, per selezionarli e ordinarli e servircene come criterio per selezionare e ordinare gli usi filosofici del termine stesso: @) in primo luogo con la parola A. si designa il rapporto inter- sessuale, quando questo rapporto è selettivo ed elettivo ed è perciò accompagnato dall’amicizia e da affetti positivi (sollecitudine, tenerezza, ecc.). Dall’A. in questo senso si distinguono spesso le relazioni sessuali a base puramente sensuale, che sono fondate non già sulla scelta personale ma sull'’anonimo ed impersonale bisogno di rapporti sessuali. Spesso però lo stesso linguaggio comune estende anche a questo tipo di rapporti la parola A., come quando si dice « fare all’A. +; 5) in secondo luogo la parola A. designa una vasta gamma di rapporti inter-personali; come quando si parla del- l’A. dell'amico per l’amico, del padre per il figlio o reciprocamente, dei cittadini tra di loro, dei co- niugi tra di loro; c) in terzo luogo si parla dell’A. per cose od oggetti inanimati: per es., l’A. del denaro, dei quadri, dei libri, ecc.; d) in quarto luogo si parla dell’A. per oggetti ideali: per es., l'A. della giustizia, del bene, della gloria, ecc.; e) in quinto luogo si parla dell’A. per attività o forme di vita: A. del lavoro, della propria professione, del gioco, del lusso, del divertimento, ecc.; f) in sesto luogo si parla di A. per comunità o enti collettivi: per es., amor di patria, amor di partito, ecc.; g) in settimo luogo si parla di A. del prossimo e di A. di Dio. Indubbiamente alcuni di questi significati si pos- sono eliminare come impropri perchè possono es- sere espressi e designati più esattamente da altre parole. Così: a) per ciò che riguarda il rapporto inter-sessuale lo si può designare come A. solo quando esso è a base elettiva e implica l’impegno personale reciproco. Si potrà così evitare di desi- gnare come « A.» il rapporto sessuale occasionale o anonimo. Per ciò che concerne gli usi indicati sotto c) (cioè A. di oggetti inanimati), è chiaro che qui la parola « A.» sta per desiderio di possesso, quando tale desiderio raggiunge la forma dominante della passione. E per ciò che concerne gli usi in- dicati sotto d) (A. di oggetti ideali) è anche chiaro che la parola « A.» sta qui per indicare un certo impegno morale atto a segnare limiti e condizioni all’attività dell’individuo. Infine per ciò che ri- guarda e) (A. di attività, ecc.) la parola « A.» sta ad indicare un certo interesse più o meno domi- nante, cioè tutivi del- l’A. non può essere determinato una volta per tutte giacchè esso è diverso a seconda delle forme o delle specie diverse dell’A. ed implica anche gradi diversi di intimità, di intrinsichezza e di forma emotiva. Per es., l’A. tra uomo e donna o quello tra padre e figlio o quello tra cittadini o quello tra uomini che si considerano l’un l’altro come « prossimo », hanno differenti basi biologiche, culturali e sociali e non si lasciano ricondurre a uno stesso tipo o forma di solidarietà, di concordia e di compartecipazione emotiva. Bisognerà pertanto tenere presente questa diversità nella considerazione dell’uso che i filosofi hanno fatto del termine, giacchè spesso quest’uso si modella su uno o più tipi particolari di esperienza amorosa. I Greci videro nell’A. soprattutto una forza uni- tiva e armonizzatrice e la intesero sul fondamento dell'A. sessuale, della concordia politica e del- l'amicizia. Secondo Aristotele (Mer., I, 4, 984 b 25 sgg.), Esiodo e Parmenide furono i primi a suggerire che l’A. è la forza che muove le cose e le porta e le mantiene insieme. Empedocle rico- nobbe nell’A. la forza che tiene uniti i quattro elementi e nella discordia la forza che li separa: il regno dell’A. è lo sfero, la fase culminante del ciclo cosmico, nella quale tutti gli elementi sono legati nella più completa armonia. In questa fase non c’è nè il sole, nè la terra, nè il mare perchè non c’è altro che un tutto uniforme, una divinità che gode della sua solitudine (Fr. 27, Diels). Pla- 24 AMORE tone ci ha data la prima trattazione filosofica dell'A.: da essa vengono assunti e conservati i caratteri dell’A. sessuale; e nello stesso tempo tali caratteri vengono generalizzati e sublimati. In primo luogo, l’A. è mancanza, insufficienza, bisogno e nello stesso tempo desiderio di acquistare e con- servare ciò che non si possiede (Conv., 200 a, se- guenti). In secondo luogo l'A. si dirige verso la bellezza la quale non è altro che l'annuncio e l’apparenza del bene, ed è quindi desiderio del bene (/bid., 205 e). In terzo luogo l’A. è desi- derio di vincere la morte (com’è dimostrato dal- l’istinto di generare proprio di tutti gli animali) ed è quindi la via attraverso la quale l’essere mor- tale cerca di salvarsi dalla mortalità, non rimanendo sempre lo stesso, come fa l'essere divino, ma la- sciando dopo di sè in cambio di ciò che invecchia e muore, qualcosa di nuovo che gli somiglia (/bid., 208 a, b). In quarto luogo, Platone distingue tante forme dell’A. quante sono le forme del bello, a cominciare dalla bellezza sensibile e a finire alla bellezza della sapienza, che è la più alta di tutte e il cui A., cioè la filosofia, è quindi il più nobile (Ibid., 210 a, sgg.). Il Fedro è diretto appunto a mostrare la via attraverso la quale l’A. sensibile può diventare amor di sapienza, cioè filosofia, e il delirio erotico diventare una virtù divina, che allontana dai modi di vita consueti e impegna l'uomo alla difficile ricerca dialettica (Fedro, 265 b, seguenti). Questa dottrina platonica dell’A., mentre contiene gli elementi di un’analisi positiva del fe- nomeno, offre anche il modello di una metafisica dell'A. che doveva varie volte essere ripresa nella storia della filosofia. Aristotele si ferma, invece, alla considerazione positiva dell'amore. Per lui l’A. o è l’A. sessuale o è l'affetto tra consanguinei © tra persone comunque congiunte da un rapporto solidale, o è l'amicizia (v.). In generale l’A. e l'odio come tutte le altre affezioni dell'anima, apparten- gono non all’anima come tale ma all’uomo in quanto è composto di anima e corpo (De An., I, 1, 403 a, 3) e pertanto vengono meno col venir meno della unione di anima e corpo (/bid., I, 4, 408 b, 25). Aristotele inoltre riconosce all’A. quel fondamento di bisogno, imperfezione o deficienza, sul quale Platone aveva insistito. La divinità, egli dice, non ha bisogno di amicizia giacchè essa è il suo proprio bene a se stessa, mentre a noi il bene viene da altro (Et. Eud., VII, 12, 1245b 14). L’A. è quindi un fenomeno umano e non c’è da meravigliarsi che di esso Aristotele non faccia alcun uso nella sua teologia. Esso è un’affezione, cioè una modifica- zione passiva, mentre l’amicizia è un abito, cioè una disposizione attiva (Ef. Nic., VIII, 5, 1157 b 28). AIl’A. si congiunge la tensione emotiva e il desi- derio: nessuno è preso da A. se non sia stato prima colpito dal godimento della bellezza; ma questo godimento di per sè non è ancora A., che si ha soltanto se si desidera l’oggetto amato quando è assente e se lo si brama quando è presente (/bid., IX, 5, 1167 a 5). L’A. che è legato al piacere può cominciare e finire rapidamente ma può anche dar luogo alla volontà di vivere insieme; e in questo caso assume la forma dell’amicizia (/bid., VII, 3, 1156 b 4). Se l’analisi aristotelica dell'A. è priva di riferimenti metafisici e teologici, bisogna ricor- dare che l'ordinamento finalistico del mondo e la teoria del primo motore immobile conducono Ari- stotele a dire che Dio, come primo motore, muove altre cose «come oggetto d°A.+, cioè come ter- mine del desiderio che le cose hanno di raggiungere la perfezione di lui (Met., XII, 7, 1072b 3). Questa notazione sarà largamente adoperata dalla filosofia medievale. Sul finire della filosofia greca, il neoplatonismo ha adoperato la nozione del- l’A. non già per definire la natuogni « prossimo»; dall’altro lato esso si trasforma in un comando, che non ha connessioni con le situazioni di fatto e che si propone di tra- sformare queste situazioni e di creare una comu- nità che non esiste ancora ma che dovrà rendere tutti gli uomini come fratelli: il regno di Dio. L’A. del prossimo diventa il comando della non- resistenza al male (MatT., 5, 44); ela parabola del buon Samaritano (Luc., 10, 29 sgg.) tènde a de- finire l'umanità cui l’A. deve dirigersi, non nel suo senso composto, ma nel suo senso diviso, come ogni persona con la quale ciascuno venga a con- tatto; la quale proprio come tale fa appello alla sollecitudine e all’A. del cristiano. Inoltre, nella concezione cristiana, Dio stesso risponde con l'A. al- l’A. degli uomini, perciò il suo attributo fondamen- tale è quello di « Padre». Le Lettere di S. Paolo, identificando il regno di Dio con la Chiesa e con- siderando nella Chiesa il « corpo di Cristo » di cui i cristiani sono le membra (Rom., 12, 5 sgg.) fanno dell’A. (&y&mm) che è il vincolo della comu- AMORE 25 nità religiosa, la condizione della vita cristiana. Tutti gli altri doni dello Spirito, la profezia, la scienza, la fede, sono nulla senza di esso. « L’A. sop- porta tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la fede, la speranza, l’amore, queste tre cose; ma l’amore è la maggiore di tutte » (Cor., I, 13, 7-13). L’elaborazione teologica che il Cristianesimo subì nel periodo della Patristica non ha da principio utilizzata la nozione dell’amore. Nei grandi sistemi della Patristica orientale (Ori- gene, Gregorio di Nissa) la terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, è intesa come una potenza subordinata di carattere incerto: di qui, anche, le frequenti dispute trinitarie che il concilio di Nicea (325) non riuscì ad eliminare del tutto. Soltanto per opera di S. Agostino, con l’identificazione dello Spirito Santo con l’A. (mentre Dio Padre è l’Es- sere e Dio Figlio è la Verità) l’A. viene introdotto esplicitamente nella stessa essenza divina e diventa un concetto teologico, oltre che morale e religioso. L’A. di Dio e l'A. del prossimo si uniscono in S. Agostino quasi a formare un concetto unico. Amare Dio significa amare l’A.; ma, dice Agostino, «non si può amare l’A. se non si ama chi ama». Non è A. quello che non ama nessuno. L'uomo perciò non può amare Dio, che è l’A., se non ama l’altro uomo. L'A. fraterno fra gli uomini «non solo deriva da Dio, ma è Dio stesso» (De Trin., VIII, 12): è la rivelazione di Dio, in uno dei suoi aspetti essenziali, alla coscienza degli uo- mini. La nozione dell’A. rimane tuttavia in S. Ago- stino quella che era per i Greci, una specie di rapporto, unione o vincolo che lega un essere con l’altro: quasi «una vita che unisce o tende ad unire due esseri, l’amante e ciò che si ama » (2bid., VII, 6). Le notazioni agostiniane vengono riprese fre- quentemente lungo tutto lo sviluppo di una delle principali correnti della Scolastica medievale, cioè dell’Agostinismo (v.): da Giovanni Scoto Eriugena a Giovanni Duns Scoto. Scoesseri creati; ma 1’A. intellettuale, che è carità e virtù, è più perfetto del primo, quindi, aggiungendosi ad esso, lo per- feziona, nel modo stesso in cui la verità sopranna- turale si aggiunge, senza contrastarla, alla verità na- turale e la perfeziona (S. Th., I, g. 60, a. 1). Quanto all’A. intellettuale, cioè alla carità, questa è definita da S. Tommaso come « l’amicizia dell’uomo verso Dio »: intendendosi per « amicizia +, secondo il si- gnificato aristotelico, l'A. che è congiunto con la benevolenza (amor benevolentiae) cioè che vuole il bene di colui che si ama, e non vuole semplicemente appropriarsi del bene che è nella cosa amata (amor concupiscientiae) come accade in chi ama il vino o un cavallo. Ma l’amicizia suppone non solo la benevolenza ma anche il mutuo A. e così si fonda su una certa comunicazione, che, nel caso della carità, è quella dell’uomo con Dio, che comunica a noi la Sua beatitudine (/bid., II, 2, q. 23, a. 1). Questa comunione è, secondo S. Tommaso, ciò che c'è di proprio nell’A.: esso è una specie di unione o vincolo (unio ve/ nexus) di natura affettiva, che è simile all’unione sostanziale in quanto chi ama si comporta verso l’amato come verso se stesso. Una unione reale è poi anche l’effetto dell’A.; ma si tratta di un'unione che non àltera o corrompe coloro che si uniscono ma si mantiene nei limiti opportuni e convenienti: per es., fa sì che parlino e dialoghino insieme o si cogiungano in altri modi siffatti (/bid., II, 1, q. 28, a. 1, ad 2°). In quanto « amare » significa voler il bene di qualcuno, l'A. ap- partiene alla volontà di Dio e la costituisce. Ma l'amor di Dio è diverso da quello umano perchè mentre quest’ultimo non crea la bontà delle cose ma la trova nell’oggetto da cui è suscitato, l’A. di Dio infonde e crea la bontà nelle cose stesse (bid., I, q. 20, a. 2). La speculazione teologica sull’A. ritorna nel pla- tonismo rinascimentale; ma questo accentua la re- ciprocità dell'A. tra Dio e l’uomo, conformemente alla tendenza propria del Rinascimento a insistere sul valore e la dignità dell’uomo come tale. Mar- 26 AMORE silio Ficino afferma che l’A. è il legame del mondo e abolisce l’indegnità della natura corporea che viene riscattata dalla sollecitudine di Dio (Theo/. Plat., XVI, 7). L’uomo non potrebbe amare Dio, se Iddio stesso non lo amasse; Dio si rivolge al mondo con un libero atto di A., prende cura di esso e lo rende vivo ed attivo. L’A. spiega la libertà del- l’azione divina come quella dell’azione umana, giacchè esso è libero e nasce spontaneamente dalla libera volontà (In Conv. Piat. de Am. Comm., V, 8). E gli stessi accenti ritornano nei Dialoghi d’A. di Leone Ebreo che ebbero vastissima diffusione nella seconda metà del ’500. Ma anche nel natura- lismo del Rinascimento l’A. ritorna talvolta come forza metafisica e teologica. Campanella ritiene che le tre primalità dell’essere (cioè i principi costitutivi del mondo) siano il Potere, il Sapere e l’A. (Mer., VI, proem.). L’A. infatti appartiene a tutti gli enti perchè tutti amano il loro esszione di A. si può considerare, nella tradizione filosofica, come un portato dell’agosti- nismo; almeno fino al Romanticismo dal quale questa nozione viene ricondotta ad un senso pan- teistico, il cui precedente più importante è Spinoza. Bisogna poi tener presente che l’uso teologico della nozione di A. implica non solo che Dio sia oggetto d’A. (il che non è negato da nessuna concezione cristiana della divinità) ma che Egli stesso ami: il che è cosa completamente diversa e che per l’appunto si ritrova soltanto nell’agostinismo, nel Romanticismo e in talune concezioni che, come quella di Feuerbach e del positivismo moderno, tendono a identificare Dio con l’umanità. In realtà l’A., nel suo concetto classico, che si modella sulla esperienza umana, ha come sua condizione la man- canza, e quindi il desiderio e il bisogno, di ciò che si ama; difficilmente può essere pertanto attribuito a Dio che nella sua completezza e infinità si sottrae a ogni deficienza. La concezione panteistica del- l’A., per es., come quella di Spinoza, di Schelling e di Hegel, si sottrae a questa difficoltà solo in- terpretando l’A. come unità o coscienza dell’unità, cioè in un modo che non trova riscontro in qualsiasi tipo di esperienza amorosa. L’unità, sia essa o no cosciente di sè, non ha niente a che fare con l’A. ed è anzi la negazione di esso perchè esclude il rapporto e la comunità che costituiscono l’A. in tutte le sue manifestazioni. È abbastanza ovvio che dove c'è una cosa sola non c’è nè chi ami nè chi sia amato. Alla tradizione agostiniana si possono riportare le famose parole di Pascal: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio di A. e di consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di quelli ch’Egli possiede e fa loro sentire interiormente la loro mi- seria e la Sua misericordia infinita » (Pensées, 556, Brunschwicg). Ma è dubbio che in questo o simili testi di Pascal si possa vedere molto più della no- zione che Dio è, in primo luogo e soprattutto, oggetto d'amore. Quanto a Malebranche, egli af- ferma che Dio ha creato il mondo « per procurarsi un onore degno di Lui» (Recherche de la vérité, IX) e fa dire al Verbo: «È la mia potenza che fa tutto, così il bene come il male... perciò tu devi amare solo me perchè nessuno all’infuori di me produce in te i piaceri che tu sperimenti in occasione di ciò che accade nel tuo corpo » (Medirations chré- tiennes, XII, 5); parole che sembrano escludere la dottrina di Dio come amore. Le notazioni di Cartesio intorno al fenomeno dell’A., riportato alla scala umana, sono impor- tanti. «L’A., egli dice, è un’emozione dell’anima prodotta dal movimento degli spiriti vitali che la incita a congiungersi volontariamente con gli og- getti che le appaiono convenienti». In quanto è prodotta dagli spiriti l’A., che è un’affezione e dipende dal corpo, è diversa dal giudizio che anche induce l’anima, di sua libera volontà, a unirsi con le cose che essa crede buone (Pass. de l’dme, II, 79). L'A. si distingue altresì dal desiderio, che è rivolto al futuro; esso consente invece di con- siderarsi sùbito uniti con ciò che si ama «in modo tale che noi imaginiamo un tutto di cui siamo solo una parte e di cui la cosa amata è l’altra parte » (Ibid., 80). Cartesio rigetta la distinzione medievale tra A. di concupiscenza e A. di benevolenza perchè, egli dice, questa distinzione concerne gli effetti dell’A. ma non l’essenza di esso: in quanto siamo volontariamente congiunti con qualche oggetto, quale che sia la natura di questo, abbiamo per esso un senso di benevolenza e questo è uno dei principali effetti dell’A. (/bid., 81). Ci sono tuttavia varie specie dell’A., relative ai diversi oggetti che possiamo amare: I’A. che un uomo ambizioso ha per la gloria, il povero per il denaro, l’ubbriacone per il vino, un uomo brutale per una donna che desidera violare, l’uomo d’onore per l’amico o per la moglie e un buon padre per i suoi figli, sono AMORE 27 specie diverse e tuttavia simili dell'amore. Le prime quattro tuttavia, sono A. solo del possesso degli oggetti ai quali l'emozione si dirige e non sono A. degli oggetti in se stessi; le altre invece si diri- gono verso questi stessi oggetti e desiderano il bene di essi (/bid., 82). Di questa natura è anche l’ami- cizia; la quale, per di più, è legata alla stima della persona amata; sicchè non si può avere amicizia per un fiore, un uccello, un cavallo, ma solo per gli uomini (/bid., 83). In generale, quando stimiamo l'oggetto dell'A. meno di noi stessi, proviamo per esso un semplice affetto (v.); quando lo stimiamo come noi stessi, proviamo amicizia; e quando lo stimiamo più di noi stessi proviamo devozione. Di quest’ultima il principale oggetto è ovviamente Dio, ma essa può dirigersi anche alla patria, alla città e a qualsiasi uomo che stimiamo molto più di noi stessi (/bid., 83). Sulla stessa linea si trova l’analisi di Hume secondo il quale l’A. è un’emozione inde- finibile, di cui però si può intendere il meccanismo. La causa di essa è sempre un essere pensante (non si possono amare oggetti inanimati) e il meccanismo con cui questa causa agisce è costituita da una doppia connessione: una connessione di idee — tra l’idea di sè e l’idea dell’altro essere pensante — e una connessione emotiva tra l’emozione dell’A. e quella dell’orgoglio (che è l’emozione che ci mette in rapporto col nostro io); o tra l’emozione del- l'odio e quella dell’umiltà (Diss. on the Passions, II, 2). In generale gli scrittori del ’700 insistono sulla connessione dell’A. con la benevolenza: che è il tratto su cui aveva insistito Aristotele a pro- posito dell'amicizia. Leibniz ha espresso nella forma più chiara, che doveva essere ripetuta numerose volte nella letteratura del ’700, questa nozione del- l’amore. « Quando si ama sinceramente una per- sona, egli dice (Op. Phil., ed. Erdmann, pag. 789- 790) non si cerca il proprio profitto nè un piacere staccato da quello della persona amata, ma si cerca il proprio piacere nell’appagamento e nella felicità di questa persona; e se questa felicità non piacesse di per se stessa ma solo a causa di un vantaggio che ne risulta per noi, non si tratterebbe più di un A. sincero e puro. Occorre dunque che si provi immediatamente piacere in questa felicità e che si provi dolore nell’infelicità della persona amata; giacchè ciò che dà immediatamente piacere di per se stesso è anche desiderato di per se stesso come costituente (almeno in parte) lo scopo dei nostri intenti e come qualcosa che entra nella nostra propria felicità e ci dà sodisfazione ». Questa no- zione dell’A. toglie, secondo Leibniz, il contrasto fra due verità, cioè tra quella che è impossibile per noi di desiderare altra cosa se non il nostro proprio bene e quella che non c’è A. se non quando cer- chiamo il bene dell’oggetto amato di per se stesso e non per nostro proprio vantaggio. Questa nozione ha anche il vantaggio, secondo Leibniz, di esser comune all’A. divino e all’A. umano perchè esprime ogni tipo di A. « non mercenario », qual è, per es., la caritas o « benevolenza universale » (Op. Phil., pa- gina 218). Va da sè che in questo senso l’A. può rivolgersi solo a « ciò che è capace di piacere o di felicità »; sicchè non si può dire, se non per me- tafora, che amiamo le cose inanimate di cui go- diamo (Nouv. Ess., II, 20, 4). Notazioni di questo genere sono assai frequenti negli scrittori del °700. Wolff dice che l’A. è «la disposizione dell’anima a prender piacere dalla felicità altrui (Psicho!. em- pirica, $ 633). E Vauvenargues afferma: « L'A. è il compiacersi nell’oggetto amato. Amare una cosa significa compiacersi del suo possesso, della sua grazia, del suo accrescimento, temere la sua pri- vazione, i suoi decadimenti, ecc. + (De l’esprit hu- main, $ 24). Nessuno degli scrittori del ”700 mette in dubbio il fondamento sensibile dell’A.: fondamento per il quale esso si differenzia dall’amicizia. Vauvenargues, per es., dice: « Nell’amicizia lo spirito è l'organo del sentimento, nell’A. sono i sensi» (/bid., $ 36). E Kant sembra ammettere questo presupposto quando distingue risolutamente l’A. sensibile o « patologico » dall’A. « pratico » cioè morale, che è comandato dalla massima cristiana « Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso ». L’amor di Dio, come inclinazione, dice Kant, è impossibile perchè Dio non è un oggetto dei sensi. E un simile A. verso gli uomini è bensì possibile, ma non può esser comandato, perchè non è in potere di nessuno amare un altro solamente per precetto. « Amar Dio» può significare quindi sol- tanto «eseguire volentieri i suoi comandamenti +; e «amare il prossimo » soltanto « mettere in pratica volentieri tutti i doveri verso di esso». Ma qui la parola « volentieri » dice che la massima cristiana non impone che di aspirare a questo A. pratico senza che esso sia raggiungibile da parte degli es- seri finiti. Difatti sarebbe inutile e assurdo «co- mandare » ciò che si fa « volentieri »; perciò il pre- cetto evangelico presenta l’intenzione morale nella sua perfezione totale «come un ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura e che tut- tavia è l’esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci con un progresso ininterrotto ma in- finito» (Crit. R. Prat., I, I, cap. 3) (v. Fana- TISMO). La dottrina di Spinoza presenta due concetti dell’A., dei quali il secondo doveva essere utilizzato dai Romantici. In primo luogo l’A. come ogni altra emozione (affectus) è un’affezione dell’anima (passio) e precisamente consiste nella gioia accom- pagnata dall’idea di una causa esterna (Zr., III, 28 AMORE 13 scol.). In questo senso si deve dire, propriamente parlando, che Dio non ama alcuno giacchè esso non è soggetto ad alcuna affezione (/bid., V, 17, corol.). Ma esiste poi un « A. intellettuale di Dio » che è la visione di tutte le cose nel loro ordine necessario, cioè in quanto derivano, con eterna ne- cessità, dall’essenza stessa di Dio (/bid., V, 29 scol.; 32 corol.). Questo A. intellettuale è il solo eterno ed è quello con ui Dio ama se stesso; sicchè l’A. intellettuale della mente verso Dio è parte dell’A. infinito con cui Dio ama se stesso. « Ne consegue, dice Spinoza, che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e per conseguenza che l’A. di Dio verso gli uomini e l’A. intellettuale della mente verso Dio, sono la medesima cosa» (4bid., V, 36 corol.). Questo A. è ciò in cui con- siste la nostra salvezza o beatitudine, o libertà; ed è ciò che nei libri sacri si chiama « gloria » (/bid., scol.). È chiaro che esso non è più un’affezione, nè una emozione nel senso che Spinoza ha dato a tali termini, ma è la pura contemplazione di Dio, anzi, poichè la mente che contempla Dio non è che un attributo di Dio, quest’A. non è altro che la contemplazione che Dio ha di sè, come unità di se stesso e del mondo. Qui il concetto dell’A. cessa di riferirsi all’esperienza umana: diventa il con- cetto metafisico dell’unità di Dio con se stesso e col mondo, quindi con tutte le manifestazioni del mondo, uomini compresi. Questo concetto doveva diventare centrale e do- minante nel Romanticismo (v.) della prima metà dell’800, che s’impernia tutto sul tentativo di di- mostrare l’unità (cioè la totale identità e intrinsi- chezza) del finito e dell’Infinito. Schleiermacher fa di quest’unità, in quanto si rivela nella forma del sentimento, il fondamento della religione; Fichte, Schelling e Hegel fanno della stessa unità, da essi posta come principio della ragione, il fondamento della filosofia. Ma fu per l’appunto quest’unità che consentì ai Romantici di elaborare una teoria del- l’A., per la quale l’A. stesso, pur rivolgendosi a cose o creature finite, vede o coglie, in queste, le espressioni o i simboli dell’Infinito (cioè dell’Asso- luto o di Dio). Per l’unità del finito e dell’Infinito, infatti, l’aspirazione all’Infinito può giungere al suo appagamento anche nel mondo finito, per es., nell’A. verso la donna. A., poesia, unità di finito e d’Infinito e sentimento di quest’unità, diventano sinonimi per i romantici. Federico Schlegel è forse colui che ha espresso meglio questi concetti. « La sorgente e l’anima di tutte le emozioni, egli dice, è l’A.; e lo spirito dell'A. deve nella poesia ro- mantica esser presente ovunque, invisibile e visi- bile... Le passioni galanti alle quali nella poesia dei moderni, dall’epigramma alla tragedia, non si può sfuggire, sono il grado minimo di quello Spi- rito, o piuttosto, secondo i casi, la lettera estrinseca di esso o null’affatto o qualcosa di non amabile e privo di amore. No, è il Soffio divino che ci commuove nei suoni della musica. Esso non si lascia prendere a forza o meccanicamente afferrare, ma amichevolmente attirare dalla bellezza mortale e in essa velare: anche le magiche parole della poesia possono essere penetre e animate dalla sua forza. Ma nella poesia dove non è o non può essere dap- pertutto, esso non è affatto. Esso è una Sostanza infinita e non aderisce e non rivolge il suo intero ». Essi sono reciprocamente indipendenti solo in quanto « pos- sono morire». L'A. è superiore a tutte le opposi- zioni e ad ogni molteplicità. Queste notazioni romantiche ritornano nelle opere mature di Hegel. « L’A., egli dice, esprime in generale la coscienza della mia unità con un altro, sicchè io per me non sono isolato, ma la mia autocoscienza si af- ferma solo come rinunzia al mio essere per sè e attraverso il sapermi come l’unità di me con l’altro e dell’altro con me » (Fil. del dir., $ 158, aggiunta). «La vera essenza dell’A., dice ancora Hegel nelle Lezioni di estetica, consiste nell’abbandonare la co- scienza di sè nell’obliarsi in un altro se stesso e tuttavia nel ritrovarsi e possedersi veramente in quest’oblio » (Vorles. iiber die Aesta nozione roman- tica, che vede nell’A. la totalità della vita e dell’uni- verso nella forma di un « sentimento infinito » che è fine a se stesso, si ritrova in tutta la tradizione letteraria del Romanticismo, e specialmente nella narrativa, a cominciare dalla Lucinda di Schlegel. Questa stessa nozione ha anche penetrato di sè il costume e la vita dei popoli occidentali sino, si può dire, ai giorni nostri: nei quali ancora l’ag- gettivo «romantico » sembra il più adatto a defi- nire la natura di un sentimento esaltato e tendente a infinitizzarsi, in cui l’aspetto spirituale e l’aspetto sensuale si complicano e si limitano l’un l’altro, dando luogo a vicende interiori di cui ci si com- piace di seguire le più minute sfumature, esageran- done l’importanza e il valore. Fa parte anche del- l’A. romantico, in quanto il suo proprio oggetto è l’infinito, o meglio l’infinita unità e identità, l’insistenza sull’A. come aspirazione,desiderio o brama, che invece di trovare sodisfazione nell’atto sessuale, teme di essere diminuito o indebolito da quest’atto e tende ad evitarlo. La «lontananza » è ritenuta dai Romantici come un mezzo che favorisce i sogni voluttuosi; perciò l’A. romantico subisce di regola un raffreddamento alla presenza dell’og- getto amato. Ma la concezione romantica dell’A. si trova anche in filosofie e indirizzi che sono diversi dal Romanticismo o almeno non ne condividono tutti i caratteri. Schopenhauer distingue nettamente l’A. sessuale (*pwc) e l'A. puro (iy&rm). L'A. sessuale è semplicemente l’emozione di cui si serve il « genio della specie » per favorire l’opera oscura e proble- matica della propagazione della specie (Metaf. del- PA. sessuale). Ma il «genio della specie» non è che la cieca, malvagia e disperata « volontà di vi- vere +, che costituisce la sostanza dell’universo, il suo « noumeno ». L’A. sessuale non è quindi che la manifestazione in forma fenomenica e cioè sotto l’apparenza della diversità e della molteplicità degli esseri viventi, dell’unica forza che regge il mondo. Quanto all’A. puro, esso non è altro che com- passione e la compassione è la conoscenza del- l’altrui dolore. Ma l’altrui dolore è poi il dolore del mondo, il dolore della stessa volontà di vita divisa in se stessa e lottante contro se stessa nelle sue manifestazioni fenomeniche: al di là delle quali, l’A. come compassione è la per- cezione dell’unità fondamentale (Die Welt, I, $ 67). In tal modo la nozione romantica dell’A. come sentimento dell’unità cosmica, rimane nella teoria di Schopenhauer. Ed essa rimane anche nell’ana- lisi di un suo seguace, Edoardo von Hartmann, che la rende più esplicita affermando che l’A. è l’identificazione dell’amante e dell’amato; una specie di allargamento dell’egoismo mediante l’assorbi- mento di un io da parte di un altro io, onde il senso più profondo dell’A. consiste nel trattare l’oggetto amato come se fosse, nella sua essenza, identico con l’io che ama. Se quest’unità e identità non ci fossero, afferma Hartmann, l’A. stesso sa- rebbe un'illusione; ma Haduo dell’altro sesso) ma semplicemente la tendenza alla produzione e alla riproduzione di sensazioni voluttuose relative alle cosiddette « zone erotogene +; tendenza che si manifesta sin dai primi istanti della vita umana. L’impulso sessuale specifico è una formazione tarda e complessa, for- mazione che d’altronde non è mai completa come è dimostrato dai pervertimenti sessuali, così vari e numerosi. Questi pervertimenti non sono quindi, secondo Freud, deviazioni da un impulso primitivo normale ma modi di comportamento che rimon- tano ai primi istanti della vita, che si sono sottratti ad uno sviluppo normale e si sono fissati nella forma di una fase primitiva (v. PsicANALISI). Dalla libido si sviluppano, secondo Freud, le forme superiori dell’A. mediante l’inibizione e la sublimazione. La inibizione ha la funzione di mantenere la /ibido nei limiti compatibili con la conservazione della specie; e da essa derivano le emozioni morali, in primo luogo quelle della vergogna, del pudore, ecc., che tendono a immobilizzare e a contenere le ma- 30 AMORE nifestazioni della /ibido. Nell’inibizione della libido e dei suoi contenuti obiettivi, prendono radici le nevrosi. La sublimazione invece, si ha quando la libido si distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione voluttuosa e dagli oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri oggetti, che saranno in questo modo amati di per se stessi, indipendentemente dalla loro capacità di produrre sensazioni voluttuose. Sulla sublimazione d non contiene nessun elemento adatto a spiegare la scelta che è presente in tutte le forme dell’A. e che manca completamente nei comportamenti istintivi, che sono ciechi ed anonimi. Eppure, lo stesso Freud insiste sul valore della scelta nella sua critica dell’A. uni- versale. « Alcune persone, dice Freud, si rendono indipendenti dall’acquiescenza dei loro oggetti tra- sferendo il valore principale dal fatto di essere amate al loro proprio atto di amare; esse si pro- teggono contro la perdita dell’oggetto amato ri- volgendo il loro A., non a oggetti individuali, ma a tutti gli uomini egualmente, ed evitano le incertezze e le delusioni dell’A. genitale distogliendosi dallo scopo sessuale di esso e trasformando l’istinto in un impulso a intento inibito. Lo stato che esse inducono in se stesse con questo processo — un immutabile, non deviabile atteggiamento tenero — ha poca somiglianza superficiale con le tempestose vicende dell’A. genitale, ma è tuttavia derivato da questo » (Civilisation and its Discontents, pag. 69). Le obiezioni che Freud fa a questo tipo di A. sono due: esso non discrimina tra i suoi oggetti il che si risolve in un’ingiustizia verso questi oggetti stessi; e in secondo luogo non tutti gli uomini sono degni di amore. Se io amo qualcuno, dice Freud, egli dev'essere degno di quest’A. in un modo o in un altro: ne sarà degno perchè è così simile a me in qualche aspetto importante che io posso amare me stesso in lui; o perchè è molto più perfetto di me sicchè io posso amare in lui il mio ideale di me stesso; o perchè è il figlio del mio amico del quale intendo condividere gli affetti e le pene. Ma se non c’è alcun motivo specifico di amarlo, l’amarlo sarà assai difficile per me e sarà un’ingiustizia per quelli che sono degni del mio A. giacchè porrò questi ultimi allo stesso livello di lui. Ed inoltre l’A. che potrò dargli, come adem- pienza al precetto dell’A. universale, sarà soltanto una piccolissima parte di quello che, per tutte le leggi della ragione, io sono autorizzato a dare a me stesso. In conclusione il comando di amare il nostro prossimo come noi stessi è la più forte difesa contro l'aggressività umana ed è l’esempio superlativo dell’atteggiamento anti-psicologico del super-ego culturale. Ma è un comando impossi- bile a rispettarsi: tale un’enorme inflazione di A. potrebbe solo abbassare il valore e non sa- rebbe un rimedio del male» (/bid., pag. 139-41). Queste considerazioni presuppongono ovviamente che l’A. implica una scelta motivata dal valore riconosciuto o attribuito all’oggetto amato; ma proprio questo elemento di scelta non trova posto nella dottrina di Freud, tutta fondata sul principio del carattere istintivo della libido da cui ogni A. deriva. La critica di Freud all'«A. universale» è im- portante e, per qualche aspetto, decisiva per l’orien- tamento contemporaneo intorno al problema del- l’amore. Tuttavia Freud ha diretto questa critica contro un bersaglio sbagliato, il precetto evangelico dell'A. del prossimo: il vero bersaglio di essa è la nozione modeall’uomo nella sua finitudine. Ma nonostante questo trasferimento, la nozione rimane la stessa; e l’A. è infatti inteso da Feuerbach, romanticamente, come unità e identità: «l’unità di Dio e dell’uomo, dello spirito e della natura ». L’A. « non ha plurale ». L’incarnazione stessa, per Feuerbach come per Hegel, non è che «il puro, assoluto A., senza aggiunta, senza distinzione tra l’A. divino e l’umano » (/bid., pag. 82). Sulla base di questa nozione Feuerbach ha delineato la pro- gressiva estensione dell’A. dall’oggetto sessuale, al bambino, al figlio, dal figlio al padre e finalmente AMORE 31 alla famiglia, alla gente, alla tribù, ecc.: la quale estensione sarebbe dovuta al moltiplicarsi delle azioni reciproche e perciò della reciproca dipen- denza degl’istituti e degl’interessi vitali. Il termine ultimo di quest’estensione progressiva sarebbe « la umanità nel suo complesso +, che come tale è l’og- getto più alto dell'A. e l'ideale morale per eccellenza. Sull’A. esteso a tutta l’umanità hanno fondato la loro etica gli scrittori positivisti e specialmente Comte e Spencer; e su di esso si è pure fondata l’etica del neo-criticismo tedesco quale si trova, per es., espressa in Cohen. In questi indirizzi i termini « umanità» e « A.» diventano sinonimi perchè significano l’unità degli esseri umani e qualche volta, addirittura, l’unità cosmica secondo il concetto romantico. Le forme dell'A. vengono da questo punto di vista classi- ficate secondo la maggiore o minore estensione del circolo di oggetti cui l’A. si estende. Così l’A. della patria sarebbe inferiore all’A. dell’umanità, l’A. della famiglia inferiore all’A. della patria e l’A. di se stesso inferiore a quello che si prova per un amico. Scheler ha mostrato (Natura e forma della simpatia, 1923) il carattere fittizio di questa ge- rarchia che pretende ridurre le varietà autonome dell'A. ad un'unica forma che avrebbe gradi di- versi a seconda dell’estensione del circolo umano che costituisce il suo oggetto. Le sue osservazioni a questo proposito coincidono sostanzialmente con quelle già accennate di Freud: il valore dell’A. di- minuisce, mon s’accresce, a misura che l’A. si estende a un numero di oggetti maggiore: giacchè, io generale, l’A. di ciò che è prossimo ha più va- lore dell’A. di ciò che è lontano, almeno finchè si rivolge ad un essere vivente; e Nietzsche ha avuto torto a contrapporre (in Così parlò Zaratustra) l’A. del lontano all’A. del prossimo. Scheler ha negato il presupposto stesso della dottrina dell’A. universale: la nozione romantica dell’A. come unità o identificazione. L’A., e in generale la simpatia in tutte le sue forme (v. Simpatia), implica, e nello stesso tempo, fonda, la diversità delle persone. Ti senso dell’A. consiste proprio nel non conside- rare e nel non trattare l’altro come se fosse iden- tico a sè. «L’A. vero, dice Scheler (Sympathie, I, cap. IV, $ 3) consiste nel comprendere sufficiente- mente un’altra individualità modalmente differente dalla mia, nel potermi mettere al suo posto pur mentre la considero altra da me , che in linea di principio si orientano verso le qualità vitali che chiamiamo più « nobili ». Ma se l’A. sessuale domina la sfera vitale esistono altre forme di A. corrispondenti alla sfera spirituale e alla sfera religiosa; e queste forme sono varietà qualitativamente diverse, qualità pri- mordiali e irriducibili le une alle altre, che fanno pensare ad una preformazione, nella struttura psi- chica dell’uomo, dei rapporti elementari che esi- stono tra uomo e uomo (/bid.). Tra queste forme non c’è tuttavia l’A. dell'umanità. L'umanità può essere amata come individuo unico ed assoluto solo da Dio; il cosiddetto A. dell’umanità è perciò sol- tanto l’A. dell’uomo medio di una certa epoca cioè dei valori correnti in quest'epoca, che inte- ressano i sostenitori di questa forma di amore. La quale, secondo Scheler, non è altro che risen- timento, cioè odio per i valori positivi impliciti in « paese natale », « popolo », « patria », 4 Dio», odio che sostituendo l’umanità a questi portatori di va- lori specificamente superiori cerca di darsi e di dare l'illusione dell’A. (/bid.). Le analisi di Scheler sono, nella filosofia contem- poranea, il primo tentativo di sottrarre la nozione dell’A. all’ideale romantico dell’assoluta unità. Si può scorgere tuttavia la suggestione e l’azione di quest’ideale in due dottrine contemporanee, appa- rentemente eterogenee; la dottrina dell'A. mistico di Bergson e la dottrina dell’A. sessuale di Sartre. Secondo Bergson la formula del misticismo è questa: «Dio è A. e oggetto d’A.» (Deux sources de la morale et de la religion, III; trad. ital., pag. 275). Per quanto si possa dubitare dell’esattezza della prima parte di questa formula, perchè difficilmente si può riscontrare nei mistici la tesi che Dio ami l’uomo (ciò che Dio offre all'uomo che lo ama è la salvezza e la beatitudine e la partecipazione alla sua «gloria +), ciò che Bergson intende dire è che lo slancio mistico si realizza come un’unità fra l'uomo e Dio. « Non c’è più separazione com- pleta fra chi ama e chi è amato: Dio è presente e la gioia è senza limiti» (/bid., pag. 252). Per quest’unità, l’A. dell'uomo verso Dio è l'A. di Dio per tutti gli uomini. « Attraverso Dio, con Dio egli ama tutta l’umanità di A. divino ». Ma questo A. non è la fraternità dell’ideale razioè di stampo ro- mantico, non meno romantico è l’* amor profano » di Sartre. Il presupposto dell’analisi di Sartre è che l’A. sia il tentativo o, per meglio dire, il pro- getto di realizzare l’unità o l’assimilazione tra l’io e l’altro. Questa esigenza di unità o di assimilazione, è, dalla parte dell’io, l’esigenza che esso sia per l’altro una totalità, un mondo, un fine assoluto. L’A. è, fondamentalmente, un voler essere amato; e voler essere amato significa « voler situarsi al di là di tutto il sistema dei valori posto dagli altri, come la condizione di ogni valorizzazione e come il fondamento oggettivo di tutti i valori» (L’étre et le néant, pag. 436). La volontà di essere amato è così la volontà di valere per l’altro come l’infi- nito stesso. « Lo sguardo dell’altro non mi permea più di finitudine, non immobilizza più il mio essere in ciò che sono semplicemente; io non potrò essere guardato come brutto, come piccolo, come vile, perchè questi caratteri rappresentano necessaria- mente una limitazione di fatto del mio essere e un’apprensione della mia finitudine come finitu- dine » (/bid., pag. 437). Ma affinchè l’altro possa considerarmi così, occorre che esso possa volere, cioè che sia libero: perciò il possesso fisico, il pos- sesso dell’altro come cosa è, nell’A., insodisfacente e deludente. Occorre che l’altro sia libero per vo- lermi amare e per vedere in me l'infinito. Il che vuol dire che occorre che si mantenga « come pura soggettività, come l’assoluto per il quale il mondo viene all’essere » (/bid., pag. 455). Ma qui appunto è il conflitto e lo scacco inevitabile dell’A.: giacchè da un lato l’altro esige da me la stessa cosa che io esigo da lui, cioè d'essere amato e di valere per me come la totalità infinita del mondo; e dall’altro, proprio per voler ciò, per amarmi, «mi delude radicalmente col suo stesso A.: io esigevo da lui che egli fondasse il mio essere come oggetto privi- legiato, mantenendosi come pura soggettività nei miei confronti; e, dal momento che mi ama, mi riconosce invece come soggetto e s’inabissa nella sua oggettività di fronte alla mia soggettività » (Ibid., pag. 444). In altri termini ognuno, nell’A., vuol essere per l’altro l’oggetto assoluto, il mondo, la totalità infinita; ma per questo occorre che l’altro rimanga soggettività libera e altrettanto assoluta. Ma poichè entrambi vogliono esattamente la stessa cosa, l’unico risultato dell’A. è un conflitto ne- cessario e uno scacco inevitabile. C'è bensì un’altra via di realizzare l'assimilazione dell’uno e dell’altro, che è esattamente l’inversa di quella ora descritta: in luogo di progettare di assorbire l’altro conser- vandogli la sua alterità posso progettare di farmi assorbire dall’altro e di perdermi nella sua soggetti- vità per sbarazzarmi della mia. In questo caso, invece di cercare di esistere per l’altro come oggetto- limite, come mondo o totalità infinita, cercherò di farmi trattare come un oggetto fra gli altri, come uno strumento da utilizzare, in una parola, come una cosa. Si avrà allora l’atteggiamento masochista. Ma il masochismo stesso è e dev’essere uno scacco perchè si avrà un bel volere diventare un semplice strumento inanimato, una cosa umile, ridicola od oscena; si dovrà, per l’appunto, volerlo cioè valere, a questo scopo, come soggettività libera (/bid., pag. 346-47). Non c'è pertanto salvezza nell’A.: il conflitto e lo scacco gli sono intrinsecamente ne- cessari. D'altronde un conflitto analogo Sartre vede anche nel semplice desiderio sessuale, di cui così definisce « l’ideale impossibile »: « Possedere la tra- scendenza dell’altro come pura trascendenza e tut- tavia come corpo: ridurre l’altro alla sua semplice fattualità, perchè esso è allora nel mezzo del mio mondo, ma fare che questa fattualità sia una rap- presentazione perpetua della sua trascendenza nul- lificante » (/bid., pag. 463-64). E come l’A. può tendere al masochismo come a un’illusoria soluzione del suo conflitto, così il desiderio sessuale tende al sadismo cioè alla non reciprocità dei rapporti ses- suali, al godimento d’essere «potenza possessiva e libera nei confronti di una libertà imprigionata dalla carne » (/bid., pag. 469). Non c’è dubbio che l’analisi di Sartre, assai ricca di notazioni e di riferimenti, rappresenti un esame spregiudicato di certe forme che l’A. può assumere ed assume, e dei conflitti cui esse mettono capo. Ma si tratta delle forme dell’A. romantico e delle sue degene- razioni. L'A. di cui parla Sartre è il progetto della fusione assoluta fra due infiniti; e due infiniti non possono che escludersi e contraddirsi. Voler essere amato significa per Sartre voler essere la totalità dell’essere, il fondamento dei valori, il tutto e l’in- finito: cioè il mondo o Dio stesso. E l’altro, l'amato, dovrebbe essere un soggetto altrettanto assoluto ed infinito, capace di dare assolutezza ed infinità a chi lo ama. Sono evidenti i presupposti romantici di quest’impostazione. L’unità assoluta ed infinita che il Romanticismo classico ingenuamente postu- lava come una realtà garantita dell'A. diventa, in Sartre, un progetto inevitabilmente destinato allo AMORE 33 scacco. Quello di Sartre è un Romanticismo deluso e consapevole del suo fallimento. È tuttavia palese nella filosofia contemporanea la tendenza anti-romantica a togliere all’A. il suo carattere d’infinità, cioè la sua natura « cosmica » o «divina» e a circoscriverlo in limiti più ristretti e precisabili. Russell ha messo in luce la fragilità dell’A. romantico che pretende di essere la totalità della vita e va invece rapidamente incontro all’esau- rimento e al fallimento. « L’A., egli ha detto, è ciò che dà valore intrinseco a un matrimonio e, come l’arte e il pensiero, è una delle cose supreme che fanno la vita degna di essere vissuta. Ma seb- bene non ci sia un buon matrimonio senza A., i migliori matrimoni hanno uno scopo che va al di là dell'amore. L’A. reciproco di due persone è troppo circoscritto, troppo separato dalla comunità per essere per se stesso lo scopo principale di una buona vita. Esso non è in se stesso una fonte suf- ficiente di attività, non è sufficientemente prospettivo per costituire un’esistenza in cui si possa trovare una sodisfazione ultima. Esso diventa presto o tardi retrospettivo, è una tomba di gioie morte, non una sorgente di nuova vita. Questo male è in- separabile da ogni scopo che può essere raggiunto solo in un’unica emozione suprema. I soli scopi adeguati sono quelli i quali insistono sul futuro che non possono mai essere pienamente raggiunti ma sono sempre in crescendo e infiniti come l’in- finità della ricerca umana. Solo quando l’A. è legato a qualche scopo infinito di questa specie, può avere la serietà e la profondità di cui è capace » (Principles of Social Reconstruction, pag. 192). Con ciò l’A. non è negato ma ricondotto ai limiti che lo defi- niscono. « Un uomo, dice ancora Russell, che non ha mai veduto le cose belle in compagnia della donna amata, non ha conosciuto appieno il magico potere che tali cose possiedono. Inoltre l’A. è in grado di spezzare il duro nòcciolo del proprio io perchè è una specie di collaborazione biologica nella quale le emozioni dell’uno sono necessarie alla sodisfazione degli istintivi propositi dell’altro » (La conquista della felicità; trad. ital., pag. 42). In questo senso esso, tuttavia, non richiede il sacri- ficio delle persone che si amano ma costituisce piuttosto un arricchimento e un compimento delle loro personalità. Non richiede neppure l’ammuto- limento dello spirito critico da ambe le parti ma piuttosto il rispetto della reciproca autonomia e la fedeltà agli impegni presi. Per questo è indispen- sabile la realizzazione dell’uguaglianza di condizione morale e giuridica tra i sessi ed anche una tra- sformazione e una liberalizzazione delle regole mo- rali che ora restringono e inibiscono in modo troppo rigido i rapporti sessuali. Dall'altro lato però, «il rapporto sessuale senza A. ha un valore 3 — ABBAGNANO, Dirfonario di filosofia. minimo e deve essere considerato come un primo esperimento, tale da dare un concetto approssima- tivo dell’A.» (Marriage and Morals, cap. IX; trad. ital, pag. 118). Uno sguardo d’insieme alle teorie di cui si è fatto cenno mostra che in esse ricorrono due no- zioni fondamentali dell’A., all’una o all’altra delle quali ciascuna di esse può essere agevolmente ricondotta. La prima è quella dell’A. come un rapporto che non annulla la realtà individuale e l'autonomia degli esseri tra i quali intercorre, ma tènde a rafforzarle, mediante uno scambio reci- proco emotivamente controllato di servizi e di cure di ogni genere, scambio nel quale ognuno cerca ilbene dell’altro come suo proprio. In questo senso ’A. tènde alla reciprocità ed è sempre reciproco nella sua forma riuscita: la quale tuttavia potrà sempre dirsi un’urione (di interessi, d’intenti, di propositi, di bisogni, nonchè delle emozioni corre- lative) ma mai un’ unità » nel senso proprio del termine. In questo senso l’A. è un rapporto finito tra enti finiti, suscettibile della più grande varietà di modi in conformità con la varietà di interessi, propositi, bisogni, e relative funzioni emotive, che possono costituirne la base oggettiva. « Rapporto finito » significa rapporto non necessariamente de- terminato da forze ineluttabili, ma condizionato da elementi e situazioni atte a spiegarne le modalità particolari. Significa altresì rapporto soggetto alla riuscita come alla non riuscita e, anche nei casi più favorevoli, suscettibile di riuscite solo parziali e di stabilità relativa. In questo caso, ovviamente, l’A. non è mai «tutto» e non costituisce la solu- zione di tutti i problemi umani. Ogni tipo o specie di A., e, in ogni tipo o specie, ogni caso di esso, sarà delimitato e definito, nel rapporto che lo co- stituisce, da quei particolari interessi, bisogni, aspi- razioni, preoccupazioni, ecc., la cui compartecipa- zione costituirà di volta in volta la base o il motivo dell'amore. Specificamente, l’A. potrà essere defi- nito come il controllo emotivo di tali tipi o modi di compartecipazione e dei comportamenti corri- spondenti. Il valore di questo controllo emotivo può essere reso ovvio da qualche osservazione, Per es., la fedeltà nell’A. non ha valore se deriva non dal controllo emotivo, ma da una fredda no- zione del dovere; e d’altra parte certe infedeltà non intaccano necessariamente l’amore. In questi limiti in cui l'A. è un fenomeno umano, per la descrizione del quale termini come « unità », « tutto », « infinito », « assoluto » sono fuori luogo, l’A. perde di sostanza cosmica quanto guadagna d’importanza umana; e il suo significato, oggettivamente consta- tabile, per la formazione, la conservazione, l’equi- librio della personalità umana, diventa fondamen- tale. La nozione dell’A. in questo senso è quella 34 AMOR FATI illustrata da Platone, Aristotele, S. Tommaso, Car- tesio, Leibniz, Scheler, Russell. La seconda ricorrente teoria dell’A. è quella che vede in esso un'unità assoluta o infinita, ovvero la coscienza, il desiderio o il progetto di tale unità. Da questo punto di vista l’A. cessa di essere un fenomeno umano per diventare un fenomeno co- smico o meglio ancora la natura del Principio o della Realtà suprema. La riuscita o la non riuscita dell'amore umano diventa indifferente ed anzi, l’A. umano, come aspirazione all’identità assoluta, e come tentativo da parte del finito di identificarsi con l’Infinito, viene condannato preventivamente all’insuccesso e ridotto ad un’aspirazione unilate- rale, per la quale la reciprocità è deludente e che si contenta di vagheggiare la vaga forma di un ideale sfuggente. Due sono le conseguenze di tale concetto dell'amore. La prima è l’infinitizzazione delle vicende amorose che, considerate come modi o manifestazioni dell’Infinito, acquistano un si- gnificato e una portata sproporzionata e grottesca senza rapporto con l’importanza reale che esse hanno per la personalità umana e per i rapporti di essa con gli altri. La seconda è che ogni tipo o forma di A. umano viene destinato allo scacco; e la stessa riuscita di tale A., constatabile nella re- ciprocità, nella possibilità della compartecipazione, viene assunta come il segno di questo scacco. Questi due atteggiamenti si possono agevolmente riscontrare nella letteratura romantica sull’amore. Questa nozione dell'A. è quella che si trova difesa da Spinoza, Hegel, Feuerbach, Bergson, Sartre. AMOR FATI. Espressione usata da Nietzsche come « formula per la grandezza dell’uomo » e che significa: «Non voler nulla di diverso da quello che è, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l’eternità. Non solo sopportare ciò che è ne- cessario, ma amarlo». La formula esprime l’atteg- giamento proprio del superuomo e la natura dello 4 spirito dionisiaco » in quanto è accettazione in- tegrale ed entusiastica della vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più sconcertanti, tristi e crudeli (Ecce Homo, passim; Wille zur Macht, ed. Krònee la situazione o l’oggetto nei suoi elementi, sicchè un procedimento analitico si dice riuscito quando tale risoluzione è stata compiuta. Il procedimento venne adoperato da Aristotele nella logica della dimostrazione (apodittica) con lo scopo di risolvere la dimostrazione nel sillogismo, il sillogismo nelle figure, le figure nelle proposizioni (An. pr., I, 32, 47a 10). Nella logica del ’600, la differenza fra analisi e sintesi cominciò ad essere esposta come la differenza tra due metodi di inse- gnamento. « L’ordine didascalico, diceva Jungius, o è sintetico cioè compositivo o analitico cioè ri- solutivo ». L'ordine sintetico va «dai princìpi al principiato, dai costituenti al costituito, dalle parti al tutto, dai semplici ai composti » ed è quello ado- perato dal logico, dal grammatico, dall’architetto e anche dal fisico quando passa dalle piante agli animali o dagli esseri meno perfetti a quelli più perfetti. L'ordine analitico procede per la via op- posta ed è proprio del fisico e dell’etico, in quanto quest’ultimo passa, ad es., dalla considerazione del fine a quella dell’azione onesta (Logica Ham- burgensis, 1638, IV, cap. 18). Non più come di- versi metodi d’insegnamento, ma come diversi procedimenti di dimostrazione vennero considerate l’analisi e la sintesi a partire da Cartesio. Dice Cartesio: « La maniera di dimostrare è duplice: l’una dimostra attraverso l’A. o risoluzione, l’altra attraverso la sintesi o composizione. L’A. dimostra la vera via per la quale la cosa è stata metodica- mente inventata e fa vedere come gli effetti dipen- dano dalla causa... La sintesi, al contrario, quasi esaminando le cause dai loro effetti (benchè la prova che essa contiene vada sovente dalle cause agli effetti) dimostra in verità chiaramente ciò che è contenuto nelle sue conclusioni e si serve di una lunga serie di definizioni, postulati, assiomi, teo- remi, problemi » (Rép. aux II Ob.). Cartesio stesso nota come gli antichi geometri si fossero serviti prevalentemente della sintesi (come infatti fecero PapPo, VII, 1 sgg. e ProcLOo, Comm. al I libro di Euclide, pag. 211, Friedlein), mentre egli ha pre- ferito l'A. perchè questa via « sembra la più vera e la più adatta per insegnare». Hobbes ripeteva sostanzialmente queste considerazioni (De Corpore, VI, $ 1-2) e la Logica di Porto Reale chiamava l’A. « metodo d’invenzione » e la sintesi « metodo di com- posizione » o « metodo di dottrina » (Log., IV, 2). Questo punto di vista sanzionava la superiorità del procedimento analitico nella filosofia moderna. Tale superiorità è presupposta anche da Leibniz che definisce l’A. dal punto di vista logico-lingui- ANALISI 35 stico: « L'A. è questa: un qualsiasi termine dato sia risolto nelle sue parti formali, cioè si ponga la definizione di esso; queste parti siano a loro volta risolte in parti, cioè si dia la definizione dei termini della definizione, e così via sino alle parti semplici cioè ai termini indefinibili » (De Arte Combinatoria, Op., ed. Erdmann, pag. 23 a-b). Con altre parole Newton diceva la stessa cosa: « Con la via dell'A. noi possiamo procedere dai composti agli ingre- dienti e dai movimenti alle forze che li producono; e in generale dagli effetti alle loro cause e dalle cause particolari alle generali, sinchè il ragiona- mento termina alle più generali » (Opticks, 1704, Ill, 1, q. 31; ed. Dover, pag. 404). Wolff contrap- poneva nello stesso senso il metodo analitico e il metodo sintetico: « Si chiama analitico il metodo dal quale le verità sono disposte nell’ordine in cui furono trovate o almeno in cui potevano essere trovate. Si dice sintetico il metodo dal quale le verità sono disposte in modo che ciascuna possa essere più facilmente intesa e dimostrata a partire dall’altra » (Log., $ 885). Non diverso è il signi- ficato che Kant dette all’opposizione dei due me- todi. Più particolarmente nel De Mundi Sensibilis atque intellegibilis forma et ratione, I, $ 1, nota, egli distinse due significati di A.: uno qualitativo che è «il regresso a rationato ad rationem» l’altro quantitativo (di cui dichiara di avvalersi) che è «il regresso dal tutto alle sue parti possibili cioè mediate, cioè alle parti delle parti, sicchè l’A. non è la divisione ma la suddivisione del composto dato ». Kant si avvalse di questo procedimento in tutte le sue tre opere principali, in ciascuna delle quali la parte positiva fondamentale è costituita da una « Analitica ». Procedimento analitico è, se- condo Kant, quello proprio della « logica generale » in quanto «risolve l’intera opera formale dell’in- telletto e della ragione nei suoi elgni caso di determinare gli elementi veri o effettivi che condi- zionano queste attività, in contrasto con gli elementi apparenti o fittizi (o « dialettici »). Naturalmente il metodo analitico non ha niente a che fare con i giudizi analitici. «Il metodo analitico in quanto si oppone al sintetico è tutt’altra cosa che un com- plesso di giudizi analitici: esso vuol dire soltanto che si parte da ciò che è oggetto della questione, come dato, per risalire alle condizioni che lo ren- dono possibile » (Pro/., $ 5, nota). Hegel fissò in modo analogo il carattere fondamentale del proce- dimento analitico quando scrisse: « Anche quando il conoscere analitico procede a rapporti che non sono una materia data esteriormente ma determi- nazioni di pensiero, rimane ciò nondimeno anali- tico in quanto per esso anche questi rapporti sono dati» (Wissenschaft der Logik, III, III, II, A a; trad. ital., pag. 295). Il riconoscimento di dati si può infatti assumere come il crattere fondamentale del procedimento analitico, quello che più profon- damente lo distingue dal sintetico (v. FiLosoFia). Nella filosofia e in generale nella cultura moderna e contemporanea la tendenza analitica, cioè la ten- denza a riconoscere nell’A. il procedimento della indagine, si è estesa e si è manifestata feconda. Questa tendenza coincide sostanzialmente con la tendenza empiristica (nel senso metodologico del- l’empirismo [v.})) a restringere l’indagine ai « fatti osservabili » e alle relazioni fra tali fatti: tendenza la quale implica in ogni caso l’esigenza di indicare il metodo o il procedimento mediante cui il fatto può essere effettivamente osservato. In questo senso il procedimento analitico porta all'eliminazione di realtà o di concetti «in sè», cioè assoluti e indi- pendenti da ogni osservazione o verificazione e presupposti come realtà o verità « ultime». Sotto questo aspetto la fisica relativistica e la meccanica quantistica possono essere considerate come risul- tati del procedimento analitico. Quando Einstein osservò che, per parlare di « fatti simultanei », oc- corre dare un metodo per osservare la simultaneità di tali fatti (dando così la chiave della teoria della relatività) non fece che condurre a buon fine l’A. della nozione di « fatti simultanei ». E quando Niels Bohr e i suoi allievi misero in luce che ogni osser- vazione fisica è accompagnata da un effetto dello strumento osservante sull’oggetto osservato, non fe- cero che condurre a buon fine l’A. di « osservazione fisica »; e da questa analisi è nata l’intera meccanica quantistica. Analogamente la rinuncia a postulare un mezzo di trasmissione non osservabile dei fe- nomeni elettromagnetici (il cosiddetto « etere ») può essere considerato come un risultato del rafforza- mento del procedimento analitico. In matematica lo stesso procedimento ha prevalso in quanto si è rinunciato a discutere che cosa siano i punti, le rette, i numeri, in sé, e ci si è limitato all’A. delle relazioni intercorrenti tra questi termini e dei po- stulati che le esprimono. Da questo punto di vista 36 ANALITICA l'A. si è estesa e rafforzata a danno di ciò che si chiama « metafisica », cioè del dominio delle realtà assolute e delle verità necessarie. Nel campo delle scienze storiche Dilthey ha contrapposto al metodo metafisico e aprioristico, adoperato, per es., da Hegel, il metodo analitico e descrittivo proprio della psicologia: onde si parla oggi dell’« A. sto- rica » che mira a comprendere un fatto storico nei suoi elementi e nella connessione di tali elementi. Si parla anche di « A. sociologica + nel senso di un procedimento diretto a risolvere una realtà sociale nei comportamenti, negli atteggiamenti e nelle isti- tuzioni che ne costituiscono gli elementi osservabili. Nel dominio della filosofia contemporanea l’A. assume varie forme sia a li in cui l’uomo si trova nel mondo. Nell’empirismo logico, l’A. è A. del linguaggio e tènde a eliminare le confusioni mediante la de- terminazione e il controllo del significato o modo d’uso dei segni. Queste tendenze analitiche della filosofia contemporanea sono più o meno in po- lemica con la metafisica tradizionale e tendono a dare all’indagine filosofica un metodo rigoroso per l'accertamento e il controllo dei suoi risultati. Nello stesso tempo, tutte più o meno indulgono a certi irrigidimenti metafisici; parlando, per es., di «ati ultimi » come fa Bergson, di « forme o essenze ne- cessarie » come fa Husserl, di « strutture necessarie » come fa Heidegger, di « proposizioni atomiche » o di « fatti atomici » come fa l’empirismo logico, ecc. Si può dire tuttavia che la tendenza delle filosofie analitiche e dell’indirizzo analitico delle scienze con- siste nella progressiva eliminazione di punti fermi, cioè di elementi o strutture che per la loro sostan- zialità e necessità blocchino il corso ulteriore dell’A. e lo immobilizzino su risultati assunti come defi- nitivi e perciò sottratti ad ogni ulteriore controllo. Questa tendenza mira perciò a determinare e utiliz- zare tecniche di controllo che siano suscettibili di correzione o rettificazione. Da questo punto di vista l’A. è l’equivalente aggiornato dell’empirismo tra- dizionale e ad essa si contrappone la metafisica, nel senso classico del termine, come scienza o pretesa scienza di ciò che, essendo « necessariamente +» ed «in sè», non ha bisogno di essere analizzato cioè descritto, interpretato o compreso mediante proce- dure verificabili. ANALITICA (ingl. Analytics; franc. Anali tique; ted. Analitik). In generale una disciplina o una parte di disciplina il cui procedimento fonda- mentale è l’analisi (v.). Aristotele chiamò A. la parte della logica che mira a risolvere ogni ragio- namento nelle figure fondamentali del sillogismo (Primi Aalitici) ed ogni prova nei sillogismi stessi e nei primi princìpi che costituiscono le loro pre- messe evidenti (Secondi Analitici). Kant chiamò « A. trascendentale » la prima parte della « dottrina degli elementi » nella Critica della ragion pura e nella Critica della ragion pratica (mentre la seconda parte di essa è la Dialettica): intendendo per A. la deato 8 appartiene al soggetto A come qualcosa che è con- tenuto (implicitamente) in questo concetto A (Crit. R. Pura, Intr., IV). Sul carattere di questa implicazione però nulla vien detto; e il famoso esempio addotto da Kant della proposizione «i corpi sono estesi » che sarebbe analitica di fronte ANALOGIA 37 alla proposizione «i corpi sono pesanti» che sa- rebbe sintetica non chiarisce certo il concetto giacchè non si vede perchè l’estensione debba essere con- tenuta implicitamente nel concetto di corpo e non la pesantezza. 3° La tautologia. In questo senso Wittgenstein ha considerato le proposizioni analitiche come tau- tologie. « La tautologia, egli ha detto non ha con- dizioni di verità perchè è incondizionatamente vera » (Tractatus, 4.461). Ma dall’altrca; ma la proposizione « nessuno scapolo è sposato » non è più una tautologia ma è tuttavia una propo- sizione analitica, fondata sulla sinonimia tra « sca- polo » e « non sposato +. (Cfr. QuINE, From a Logical Point of View, 1953, cap. ID. 4° La sinonimia. Questa può essere stabilita: a) mediante definizioni, come si fa di solito nelle matematiche e in tutti i linguaggi artificiali; 5) me- diante il criterio dell’intercambiabilità, con cui Leibniz definisce la stessa identità (v.); in tal caso si chiamano sinonimi i termini che possono essere scambiati in uno stesso contesto senza alterare la verità del contesto stesso; c) mediante regole se- mantiche come anche accade nei linguaggi artificiali. È da notare che la difficoltà di stabilire con questi procedimenti il significato esatto di sinonimia e quindi di A. ha condotto alcuni logici moderni a negare che esista una netta distinzione tra A. e sinteticità (MORTON WHITE, The Analytic and the Synthetic: an Untenable Dualism, in SipNEY Hook, ed. John Dewey, New York, 1950; W. V. O. QuINE, From a Logical Point of View, Cambridge, 1953, cap. II). ANALOGIA (gr. &vadoyia; lat. Analogia; in- glese Analogy; franc. Analogie; ted. Analogie). Il termine ha due significati fondamentali: 1° il senso proprio e ristretto, desunto dall’uso matematico (per cui vale proporzione) di eguaglianza di rapporti; 2° il senso di estensione probabile della conoscenza mediante l’uso di somiglianze generiche che si pos- sono addurre tra situazioni diverse. Nel primo si- gnificato il termine fu adoperato da Platone e da Aristotele ed è tuttora adoperato dalla logica e dalla scienza. Nel secondo significato, il termine è stato ed è adoperato nella filosofia moderna e con- temporanea. L’uso medievale del termine serve da passaggio dall’uno all’altro significato. 1° Platone adoperò il termine per indicare l’uguaglianza dei rapporti fra le quattro forme — a due a due — di conoscenza che distinse nella Re- pubblica (VII, 14, 534a 6): cioè fra la scienza e la dianoia che appartengono alla sfera dell’intelli- genza (che ha per oggetto l’essere); e la credenza e la congettura che appartengono a quella della opinione (che ha per oggetto il divenire). « Come l’essere sta al divenire, dice Platone, così l’intelli- genza sta all’opinione; e comche gli elementi e i principi delle cose non sono gli stessi, ma sono solo analoghi, nel senso che sono gli stessi i rapporti che hanno tra loro. Per es., « nel caso del colore, la forma sarà il bianco, la privazione il nero e la materia la superficie; nel caso della notte e del giorno, la forma sarà la luce, la privazione sarà l’oscurità e la materia sarà l’aria» (/bid., 12, 4, 1070b 18). Ovviamente, il bianco, il nero e la superficie non sono le stesse cose rispettivamente che la luce, l’oscurità e l’aria; ma identico è il rapporto fra 38 ANALOGIA queste due terne di cose (come fra moltissime altre terne): rapporto che è espresso con i principi di forma, privazione e materia. In questo senso, cioè come uguaglianza di rapporti in tutti i casi in cui si tcessario. Questi due significati dell’essere non sono univoci cioè iden- tici e neppure eguivoci, cioè semplicemente diversi; sono analoghi cioè simili ma di proporzioni diverse. Solo Dio ha l’essere per essenza, le creature hanno l’essere per partecipazione; esse, in quanto sono, sono simili a Dio che è il primo principio universale dell'essere, ma Dio non è simile ad esse: questo rapporto è l’A. (S. TA., I, q. 4, a. 3). Il rapporto analogico si estende a tutti i predicati che si attri- buiscono allo stesso tempo a Dio e alle creature. Per es., il termine « sapiente» riferito all’uomo si- gnifica una perfezione distinta dall’essenza e dalla esistenza dell’uomo, mentre riferito a Dio vuol dire una perfezione che è identica alla sua essenza e al suo essere; inoltre, riferito all'uomo, fa com- prendere ciò che vuol significare mentre riferito a Dio lascia fuori di sè la cosa significata che tra- scende i limiti dell'intendimento umano (/bid., I, q. 13, a. 5). Il diverso significato che un termine può avere a seconda della sua attribuzione a questa o a quella realtà fu poi chiamato dagli scolastici A. di attribuzione. Questo tipo di A. si verifica non soltanto a proposito dell’attribuzione di uno stesso termine a Dio e alle creature ma in molti altri casi come, per es., quando si dice che è sana una me- dicina ed è sano un animale in quanto la medicina è causa della sanità che è nell’animale (/bid., I, q. 13, a. 5). L’A. di proporzionalità si riferisce invece soltanto all’analogicità di significato tra l'essere di Dio e l'essere delle creature: e diventa un tema di discussioni polemiche nella Scolastica del sec. xm e della prima metà del sec. x1v. L’A. di proporzio- nalità viene spesso dai Tomisti (come dallo stesso S. Tommaso) riportata ad Aristotele, ma in realtà questi aveva bensì cominciato col riconoscere vari sensi dell’essere ma solo per ricondurli a modi e specificazioni dell’unico senso della sostanza, cioè dell’essere in quanto essere, dell'essere nella sua necessità, che è l'oggetto della metafisica. Aristotele perciò non distingueva nè poteva distinguere tra l’essere di Dio e l’essere delle altre cose: per es., Dio e la mente sono sostanze proprio nello stesso senso (Er. Nic., I, 6, 1096 a. 24). Il maggior critico e oppositore del Tomismo su questo punto fu Duns Scoto che, per l’appunto rifacendosi ad Aristotele, considerò la nozione di essere comune a tutte lo cose esistenti, quindi alle creature come a Dio. La ANALOGIA 39 considerò perciò univoca per il motivo fondamentale che, se così non fosse, sarebbe impossibile cono- scere nulla di Dio e determinare un qualsiasi at- tributo di Lui, risalendo per via causale dalle crea- ture (Op. Ox., I, d. 3, q. 3, n. 9). In tal modo egli ripristinò pure l’unità della scienza dell’essere cioè della metafisica che per il tomismo era divisa in scienza dell’essere creato (metafisica) e in scienza dell’essere necessario (teologia) e pertanto ridusse la teologia a scienza pratica (cioè diretta, non a conoscere, ma a guidare l’uomo verso la propria salvezza). 2° Il secondo significato del termine, come estensione probabile della conoscenza mediante il passaggio da una proposizione che esprime una certa situazione a un’altra proposizione che esprime una situazione genericamente simile o come esten- sione della validità di una proposizione da una certa situazione a una situazione genericamente si- mile era conosciuto dagli antichi col nome di « pro- cedura per somiglianza » (St mapafoXîc 0 Su spor ros). Aristotele dice: « La probabilità appare anche nel procedimento per somiglianza quando si dice il contrario del contrario: per es., se bisogna far del bene agli amici, si può dire per somiglianza che bisogna far del male ai nemici» (Top., I, 10, 104 a 28; cfr. EI. Soph., 173 b 38; 176a 33; ecc.). Questo procedimento ovviamente non ha niente a che fare con l’A.: il rapporto è diverso (come il « far del male » è diverso dal «far del bene +) e tra le due situazioni pertanto non c’è uguaglianza di rapporti ma solo una generica simiglianza. Aristo- tele consiglia l’uso di questo procedimento a scopi polemici (Top., VIII, 1, 156b 25). Euclide di Me- gara ne aveva già negata la validità logica. Egli infatti «ripudiava il procedimento per simiglianza dicendo che esso si avvale o di cose simili o di cose dissimili. Se di simili è meglio rivolgersi alle cose stesse che a quelle di cui sono simili; se di dissimili è inutile la comparazione » (Diog. L., II, 107). Come ragionamento per analogia era in- tesa l’induzione dagli Epicurei che pertanto ne difendevano la validità subordinatamente al postu- lato dell’uniformità della natura. Dice Filodemo: «Quando noi giudichiamo: ‘ Poichè gli uomini che sono alla nostra portata sono mortali, tutti gli uomini sono mortali’ il metodo dell’analogia sarà valido solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione di esserci manifesti sono, sotto tutti i rispetti, simili a quelli che sono alla nostra portata, sicchè si deve assumere che anch'essi siano mortali. Senza questo presupposto il metodo dell’analogia non è valido» (De Signis, II, 25). Nella filosofia moderna la prima difesa dell’analogia è probabilmente quella di Locke che nel IV libro del Saggio include PA. fra i gradi dell’assenso; e precisamente la considera come la probabilità che concerne cose che trascendono llla permanenza della sostanza che si esprime di- cendo: «In ogni cangiamento dei fenomeni la so- stanza permane e la quantità di essa nella natura non aumenta nè diminuisce +; 5) il principio della serie temporale secondo la legge della causalità, che si esprime dicendo: « Tutti i cangiamenti av- vengono secondo la legge del nesso di causa ed effetto »; c) il principio della simultaneità secondo la legge dell’azione reciproca che si esprime di- cendo: « Tutte le sostanze in quanto possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in azione reciproca universale ». Kant ha chia- rito nel modo seguente il senso nel quale questi princìpi sono detti analogie. In matematica, le A. sono formule che esprimono l'uguaglianza di due rapporti quno bensì a priori e quindi certi in modo indubitabile, ma nel contempo sono privi di evi- denza intuitiva; mentre gli « assiomi dell’intuizione » (v. Assioma) e le «anticipazioni della percezione » (v. ANTICIPAZIONI) sono princìpi costitutivi perchè insegnano « come i fenomeni, sia rispetto alla loro intuizione, sia rispetto alla loro realtà percepita, possono essere prodotti secondo le regole di una sintesi matematica » (Crir. R. Pura, Anal. dei princ., IMI, 3). Come si vede, permane in quest’uso kantiano il significato dell’A. come eguaglianza tra rapporti; ma tali rapporti sono detti « qualitativi » nel senso che con essi non sono dati gli oggetti, ma soltanto quelle relazioni che consentono di scoprirli e or- dinarli in unità. E difatti, i princìpi della perma- nenza della sostanza, di causalità e di reciprocità non fanno conoscere nulla; ma servono a scoprire gli oggetti conoscibili e a ordinarli, secondo i loro nessi, nell’unità dell'esperienza. In tal senso l’A. è uno strumento, anzi uno degli strumenti fondamen- tali per estendere la conoscenza dei fenomeni natu- rali sulla guida delle loro connessioni determinanti. La logica e la metodologia della scienza dell’800 sono state diffidenti verso l’A., considerandola ge- neralmente come un'estensione della generalizza- zione induttiva al di là dei limiti nei quali essa offre garanzia di verità. Stuart Mill considerò il ragiona- mento per A. « un’inferenza che ciò che è vero in un certo caso è anche vero in un caso in qualche modo simile ma non esattamente parallelo, cioè non simile in tutte le circostanze materiali. Un og- getto ha la proprietà 5; un altro oggetto non ha la proprietà 5, ma è simile al primo in una pro- prietà a non connessa con b; l’A. porterà alla con- clusione che anche questo oggetto ha la proprietà b. Per es., si dice che i pianeti sono abitati perchè la Terra è abitata ». Questo modo di argomentare può, secondo Stuart Mill, accrescere solo in grado non determinabile, ma in ogni caso assai modesto, la probabilità della conclusione; ma in compenso può dar luogo a molte fallacie (Logic, V, 5, 6). Ma la logica e la metodologia del nostro secolo sono assai meno diffidenti nei confronti dell'A. forse perchè la riportano al significato 1° cioò a ugua- glianza di rapporti. Per es., uno dei procedimenti analogici consiste nella creazione di simboli che ab- biano somiglianza maggiore o minore con le situa- zioni reali, e i cui rapporti riproducano quelli inerenti agli elementi di tali situazioni. Tali simboli sono qualche volta modelli meccanici cioè disegni o schemi o macchine che riproducono i rapporti intercedenti di elementi reali; tali sono, per es., i modelli del sistema solare, della struttura dell'atomo, del si- stema nervoso, ecc. Altre volte tali modelli sono ottenuti mediante il cosiddetto processo di extra- polazione il quale consiste nel portare al limite il comportamento di un insieme di casi ordinati in una serie nella quale si suppongano eliminate gra- dualmente le influenze disturbatrici. Si parla così, per es., di velocità infinita o di velocità zero, di masse ridotte a un punto geometrico, di leve per- fette, di gas ideali, ecc. Ogni modello è un esempio di A., nel senso 1°, perchè il proprio di un modello è quello di riprodurre, fra i propri elementi, gli stessi rapporti degli elementi della situazione reale. Ma i fisici parlano oggi di A. anche come di con- dizione o di elemento integrante delle ipotesi e delle teorie scientifiche. Secondo questo indirizzo, l’A. entra nella costituzione di un’ipotesi in quanto «le proposizioni di un’ipotesi devono essere ana- loghe ad alcune leggi conosciute »: e in questo senso l’A. non è solo un aiuto alla formulazione di una teoria ma ne è parte integrante. « Considerare l'A. come un aiuto all’invenzione delle teorie è così assurdo come considerare la melodia come un aiuto alla composizione di una sonata. Se la sodisfazione delle leggi dell'armonia e i principi formali di svi- luppo fossero tutto ciò che è richiesto per comporre musica, noi saremmo tutti grandi compositori; ma è l’assenza del senso melodico che ci impedisce di raggiungere eccellenza musicale col semplice mezzo di acquistare un manuale di musica » (N. R. Camp- BELL, Physics: The Elements, 1920, pag. 130). L’A. corrisponderebbe perciò, nella fisica a ciò che è il senso musicale nella musica: essa garantirebbe l'ade- guazione di un'ipotesi scientifica alle uniformità espresse o formulate nelle leggi. ANALYSIS SITUS. V. TopoLocia. ANAMNESI (gr. daviumo; ingl. Remini- scence; franc. Réminiscence; ted. Reminiszenz). Il mito dell’A. è esposto da Platone nel Merone come antitesi e correttivo del « principio eristico » che non è possibile all'uomo indagare nè ciò che sa nè ciò che non sa; giacchè sarebbe inutile indagare ciò che si sa e impossibile indagare quando non si sa che cosa indagare. A questo discorso che «può rendere pigri e riesce gradito ai fiacchi » Platone oppone il mito per cui l’anima è immor- tale, ed è perciò nata e rinata molte volte, sì da aver visto ogni cosa sia in questo mondo che in un mondo di là; sicchè essa può, all’occasione, ricordare ciò che prima sapeva. «E poichè tutta la natura è congenere e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una sola cosa (che è poi quello che si chiama ‘imparare ’) trovi da sè tutto il resto, se ha coraggio e non si stanca ANARCHISMO 4l nella ricerca, giacchè il ricercare e l’apprendere non son altro che reminiscenza » (Men., 80 e-81 e). A. è stata chiamata da Croce il processo della cono- scenza storica perchè il soggetto di essa, lo Spirito assoluto, non ha altro da fare che ricordare o ri- chiamare ciò che è in lui; e le fonti della storia (documenti ed avanzi) non hanno per l’appunto che questa funzione di richiamo (Teoria e storia della storiografia, 1917, pag. 12 sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938, pag. 6). ANANCHISMO (ingl. Anancism). Termine adoperato da Peirce per indicare il principio della necessità assoluta nell’evoluzione del mondo (Chance Love and Logic, II, 5; Coll. Pap. 6. 302). ANAPODITTICO (gr. avanédertoc; lat. Zn- dimostrativus; ingl. Anapodeictic; franc. Anapodic- tique; ted. Anapodiktisch). Alla lettera: non dimo- strabile. Aristotele chiamò così le premesse prime del sillogismo che egli diceva pure immediate (Et. Nic., VI, 12, 1143 b 12; An. post., I, 2,72b 27, ecc.). Ma la teoria dei ragionamenti anapodit- tici fu sviluppata dagli Stoici proprio in contrasto con la teoria sillogistica di Aristotele. Mentre i sillogismi o ragionamenti apodittici traggono da premesse evidenti una conclusione non evidente, i ragionamenti anapodittici hanno una conclusione evidente e sono la base di tutti gli altri ragionamenti che possono sempre essere ad essi ridotti (SESTO E., Ip. Pirr., II, 156; cfr. Cicer., Top., 56-57). Gli Stoici enumeravano cinque tipi fondamentali di ra- gionamenti anapodittici e ritenevano che ad essi potessero ridursi tutti gli altri ragionamenti: onde Sesto Empirico dice che, tolti quelli di mezzo, tutta la dialettica sarà rovesciata. Ecco come essi esem- plificavano tali tipi fondamentali: 1° Se è giorno c'è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce. 2° Se è giorno c’è luce. Ma non c’è luce. Dunque non è giorno. 3° Se non è giorno è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte. 4° O è giorno o è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte. 5° O è giorno o è notte. Ma non è notte. Dunque è giorno (/p. Pirr., II, 157-568; Diog. L., VII, 80). Assumendo questi ragionamenti come fondamento della dialettica cioè dell’arte stessa del ragionare, gli Stoici riducevano al ragionamento A. ipotetico o disgiuntivo, che è sempre a due termini, ogni altra specie di ragiona» mento, implicitamente negando che avesse valore autonomo il ragionamento dimostrativo a tre ter- mini cioè il sillogismo aristotelico. MAMAMA Come sinonimo di questo termine Leibniz usò il termine asillogistico per indicare un tipo di ragio- namento non sillogistico. « Bisogna sapere, egli disse, che ci sono conseguenze asillogistiche buone, che non si potrebbero dimostrare a rigore con un sillogismo senza cambiare un po’ i termini; e questo stesso cambiamento dei termini fa che la conse- guenza sia asillogistica ». Per es.: « Gesù Cristo è Dio, dunque la madre di Gesù Cristo è la madre di Dio»; oppure «Se Davide è il padre di Salo- mone, Salomone è il figlio di Davide » (Nouv. Ess., IV, 17, 4). ANARCHISMO (ingl. Anarchism; franc. Anar- chisme; ted. Anarchismus). La dottrina che l’indi- viduo è la sola realtà, che dev'essere assolutamente libero e che ogni costrizione esercitata dividuo entra per moltiplicare la sua forza e che per lui è solo un mezzo. Questa forma di associazione può nascere solo dal dissolvimento della società attuale, che è per l’uomo lo stato di natura, e può essere solo il risultato di un’insurre- zione che riesce ad abolire ogni costituzione statale. Sul carattere rivoluzionario dell’A., insistettero poi gli anarchici russi, il maggiore dei quali fu Michele Bakunin (1814-96) autore di numerosi scritti fra i quali uno intitolato Dio e /o Stato (1871) in cui afferma la necessità di distruggere tutte le leggi, le istituzioni e le credenze esistenti. La tesi anar- chica della contrapposizione netta e radicale tra tutti gli ordinamenti politici e sociali esistenti, con- siderati come il male stesso, e il nuovo ordinamento libertario da venire, considerato come il bene to- tale, è stata di nuovo ripresentata da G. Landauer 42 ANFIBOLA (Die Revolution, 1923). (Su di lui cfr. K. MANNHEIM, Ideologie und Utopie, 1929, IV, $ 1; trad. ital., pag. 194 sgg.). ANFIBOLIA (gr. &upifolla; lat. Amphibolia; ingl. Amphiboly; franc. Amphibolie; ted. Amphibolie). In Aristotele (Soph. E/., 4, 166 a) è uno dei sofismi in dictione, e precisamente la fallacia (v.) che con- segue dal fatto che una frase è resa ambigua dalla sua difettosa costruzione grammaticale. Più gene- ricamente il termine A. è stato inteso per una pa- rola che significa due o più cose (SESTO EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 256). In Kant il termine A. è usato nell’espressione « A. dei concetti di riflessione » per indicare lo scambio che nasce dalla confusione tra l’uso empirico-intellettuale e l’uso trascendentale dei concetti di riflessione quali « unità » e « molte- plicità », « materia» e «forma», e simili (Critica R. Pura, An. dei Principi, Appendice). G. P. ANFIBOLOGIA. V. ANFIBOLIA. ANGELI (gr. &ryedow; lat. Angeli; ingl. An- gels; franc. Anges; ted. Engel). Così furono chiamate dalla teologia cristiana le «creature incorporee » che fanno da intermediarie tra Dio e le creature corporee, ammesse dal neo-platonismo (v. Dio). La fonte dell’angelologia medievale è lo scritto dello pseudo Dionigi l’Areopagita Sulla gerarchia celeste (sec. v). La gerarchia celeste è costituita da nove ordini di A. raggruppati in disposi- zioni ternarie. La prima disposizione è quella dei Serafini, dei Cherubini e dei Troni; la seconda è quella delle Dominazioni, delle Virtù e delle Po- destà; la terza è quella dei Principati, degli Arcan- geli e degli Angeli. Questa dottrina fu accettata da S. Tommaso (S. 7A., I, q. 108, a. 2); e adottata da Dante nel Paradiso. ANGOSCIA (ingl. Dread; franc. Angoisse; ted. Angst). Nel suo significato filosofico, cioè come atteggiamento dell’uomo di fronte alla sua situa- zione nel mondo, il termine è stato introdotto da Kierkegaard nel Concetto dell’A. (1844). La radice dell’A. è l’esistenza come possibilità (v. ESISTENZA). A differenza del timore e di altri stati analoghi che si riferiscono sempre a qualcosa di determinato, l'A. non si riferisce a nulla di preciso: essa è il puro sentimento della possibilità. L’uomo nel mondo vive di possibilità giacchè la possibilità è la dimen- sione del futuro e l’uomo vive continuamente pro- teso verso il futuro. Ma le possibilità che si pro- spettano all’uomo non hanno alcuna garanzia di realizzazione. Solo per una pietosa illusione esse gli si presentano come possibilità piacevoli, felici o vittoriose: in realtà, come possibilità umane, esse non offrono garanzia alcuna e celano sempre l’al- ternativa immanente dell’insuccesso, dello scacco e della morte. « Nel possibile tutto è possibile », dice Kierkegaard; il che vuol dire che una possibilità favorevole non ha maggiore sicurezza della possi- bilità più disastrosa ed orribile. Pertanto l’uomo che si rende conto di questo, riconosce la vanità di ogni accortezza e non ha di fronte a sè che due vie: o il suicidio, o la fede, cioè il ricorso a « Colui al quale tutto è possibile ». L’A. è, secondo Kierke- gaard, parte essenziale della spiritualità che è propria dell’uomo, sicchè se l’uomo fosse angelo o bestia non conoscerebbe l’A.: e infatti arriva a masche- rarla o a nasconderla l’uomo nel quale la spiritualità è troppo debole. In quanto riflessione sulla propria condizione umana, la spiritualità dell’uomo è con- nessa all’A. cioè al sentimento della minaccia im- manente ad ogni possibilità umana come tale. — Nella filosofia contemporanea, Heidegger ha imper- niato sull’angoscia la sua analisi esistenziale (v. EMo- ZIONE). L’A. è la situazione affettiva fondamentale «che può tener aperta la continua e radicale mi- naccia che viene dall’essere più proprio e isolato dell’uomo »: cioè la minaccia della morte. Nell’A., l’uomo « si sente in presenza del nulla, dell’impossi- bilità possibile della sua esistenza ». In questo senso l’A. costituisce essenzialmente ciò che Heidegger chiama «l’essere per la morte» cioè l'accettazione della morte come «la possibilità assolutamente propria, incondizionata e insormontabile dell’uomo » (Sein und Zeit, $ 53). Ma con ciò l’A. non è la paura della morte o dei pericoli che possono pro- spettarla. Dice Heidegger: « La paura trova il suo appiglio nell’ente di cui ci si prende cura dentro il mondo. L’A. invece scaturisce dall’Esserci stesso. La paura giunge improvvisa dall’intramondano. L’A. si leva dall’essere-nel-mondo in quanto get- tato essere-per-la-morte » (/bid., $ 68 b). L'A. non è neppure il pensiero della morte o l'attesa © la preparazione della morte. Vivere per la morte, angosciarsi, significa comprendere l’impossibilità dell’esistenza in quanto tale. E comprendere tale impossibilità significa comprendere che tutte le pos- sibilità dell’esistenza in quanto consistono di anti- cipazioni o progetti, che pretendono trascendere la realtà di fatto, non fanno che ricadere nella realtà di fatto. Perciò il vero significato dell’A. è il de- stino, cioè la scelta della situazione di fatto come un’eredità cui non si può sfuggire e il riconosci- mento dell’impossibilità o nullità di ogni altra scelta che non sia l’accettazione della situazione in cui si è già. In altri termini, l'A. come comprensione esistenziale rende possibile all’uomo far di necessità virtù: accettare con un atto di scelta quella situazione di fatto, che è il suo destino e che senza l’A. cerche- rebbe vanamente di trascendere. La coincidenza di ne- cessità e libertà sembra così il significato dell’A. hei- deggeriana (/bid., $ 74). In questo senso Heidegger dice che l’A. « libera l’uomo dalle possibilità nulle e lo fa libero per quelle autentiche » (/bid., $ 68 b). Tuttavia non è solo dalla filosofia esistenziali- stica che l’A. viene considerata come la rivelazione emotiva della situazione umana nel mondo. Una ricca letteratura psicologica ha chiarito il carattere omni-pervadente dell’A. che rimane distinta dalla paura, dal timore e da altri stati emotivi che hanno carattche si verifichi una situazione di impotenza; oppure la si- tuazione presente mi ricorda un evento traumatico precedentemente vissuto. Così io anticipo questo trauma, mi comporto come se esso fosse già qui, sin tanto che c’è ancora tempo di respingerlo. L’A. è dunque da un lato aspettativa del trauma, dall’altro una ripetizione attenuata di esso » (Hem- mung, Symptom und Angst, 1926, cap. XI, B; trad. ital., pag. 106). Dall'altro lato lo studio delle persone nelle quali l'A. si manifesta nelle forme più imponenti (per es., in quelle colpite da lesioni ce- rebrali) ha portato qualche scienziato (per es., GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus, 1934) a definire l’A. come «l'impossibilità di mettersi in rapporto con il mondo?» e di « realizzare un còm- pito corrispondente all'essenza dell’organismo », considerandola così come il caso limite di quelle «reazioni di catastrofe » che accompagnano il di- battito dell’organismo con il mondo. ANIMA (gr. vvyh; lat. Anima; ingl. Soul; franc. Ame; ted. Seele). In generale, il principio della vita, della sensibilità e delle attività spirituali (comunque intese e classificate), in quanto costi- tuente un’entità a sè o sostanza. Quest’ultima no- tazione è importante perchè l’uso della nozione di A. è condizionato dal riconoscimento che un certo insieme di operazioni o di eventi, quelli appunto detti « psichici » 0 « spirituali », costituiscano le ma- nifestazioni di un principio autonomo, irreducibile, per la sua originalità, ad altre realtà, sebbene in rapporto con esse. Che poi l’A. sia incorporea 0 abbia la stessa costituzione delle cose corporee, è questione meno importante: giacchè la soluzione materialistica di essa è spesso ugualmente fondata, come la sua opposta, sul riconoscimento dell’Acome sostanza. In questo significato fondamentale, l’A. viene il più delle volte considerata come « so- stanza »: intendendosi con questo termine per l’ap- punto una realtà a sè, cioè che esiste indipendente- mente dalle altre (v. SostAnZA). Il riconoscimento della realtà-A. sembra provvedere un solido fon- damento ai valori connessi con le attività spirituali umane, i quali, senza di essa, sembrerebbero so- spesi nel nulla; sicchè la sostanzialità dell’A. viene considerata, dalla maggior parte delle teorie filo- sofiche tradizionali, come una garanzia della sta- bilità e della permanenza di quei valori: garanzia che viene talora rafforzata dalla credenza che l’A. è, nel mondo, la realtà più alta o ultima o, qualche volta, lo stesso principio ordinatore e governatore del mondo. Date queste caratteristiche della nozione, la storia filosofica di essa si presenta relativamente monotona perchè è in prevalenza la reiterazione della realtà dell’A. nei termini di quei concetti che ogni filosofo assume per definire la realtà stessa. Sicchè, per es., l’A. è aria per Anassimene (Fr. 2, Diels) e per Diogene d’Apollonia (Fr. S, Diels) i quali ritengono che il principio delle cose è l’aria; è armonia per i Pitagorici (Arisr., Pol., VIII, 5, 1340 b 19) che nell’armonia esprimibile in numeri vedono la struttura stessa del cosmo; è fuoco per Eraclito (Fr. 36, Diels) che vede nel fuoco il prin- cipio universale; è, per Democrito, formata di atomi rotondi, che possono più agevolmente pene- trare nel corpo e muoverlo (Arisr., De an., I, 2, 404, 1); e così via. Probabilmente Platone non fece che esprimere un pensiero implicito in queste de- terminazioni quando affermò che l’A. si muove da sè e definì I’A. appunto sulla base di questa caratteristica. «Ogni corpo a cui il muoversi è impresso da fuori è inanimato; ogni corpo che si muove di per sè dal di dentro è animato; e tale è appunto la natura dell’A.» (Fedro, 245 d). L'A. è quindi la causa della vita (Crar., 399 d) e per- tanto è immortale giacchè la vita costituisce la sua stessa essenza (Fed., 105d sgg.). Con queste determinazioni Platone distingueva nettamente la realtà dell’A., semplice, incorporea, che si muove da sè, che vive e dà vita, dalla realtà corporea che ha i caratteri opposti. E queste determinazioni do- vevano servire di base a tutte le ulteriori tratta- zioni filosofiche dell’anima. Tra esse, quella di Aristotele è la più importante perchè le determinazioni che Aristotele attribuisce all’essere psichico, nei termini del suo concetto del- l’essere, dovevano lungamente rimanere il modello di buona parte delle dottrine dell’anima. Secondo Aristotele, l’A. è la sostanza del corpo. Essa è definita come «l’atto finale (enrelechia) primo di un corpo che ha la vita in potenza». L'A. sta al corpo come l’atto della visione sta all’orpo (/bid., II, 2, 413 b 26). Come atto o attività l’A. è forma e come forma è sostanza, in una delle tre determina- zioni della sostanza che può essere o la forma o la materia o il composto di forma e materia. La materia infatti è potenza, la forma è atto e ogni essere animato è composto di queste due cose; ma mentre il corpo non è l’atto dell’A., l’A. è l’attività di un corpo determinato cioè la realiz- zazione della potenza che è propria di questo corpo: onde si può dire che essa non esiste nè senza il corpo nè come corpo (/bid., 414a 11). Queste determinazioni aristoteliche hanno costi- tuito, per lunghi secoli, l'intero progetto della « psi- cologia dell’A.». A seconda dei vari interessi (me- tafisico, morale, religioso) che hanno presieduto agli sviluppi di tale psicologia, si è insistito, nella storia di essa, sull’una o sull’altra delle determina» zioni aristoteliche. Di queste, le più importanti sono: che l’A. sia sostanza cioè realtà nel senso forte del termine; e che sia principio indipendente di operazioni, cioè causa. Queste determinazioni hanno lo scopo di garantire un solido sostegno alle attività spirituali quindi ai valori che sono prodotti da tale attività. La seconda serie di de- terminazioni sono quelle della semplicità e indivi- sibilità; che hanno lo scopo di garantire l’impassi- bilità dell’A. nei confronti dei mutamenti corporei e, per il tramite della indecomponibilità, la sua im- mortalità. La terza determinazione importante è il suo rapporto col corpo, definito da Aristotele come rapporto della forma con la materia, dell’atto con la potenza. La prima determinazione non viene negata neppure dai materialisti. Epicuro che ri- tiene I’A. composta di particelle sottili, diffuse in tutto il corpo come un soffio caldo, ritiene tuttavia che l’A. abbia la capacità causativa della sensazione, che viene preparata dal corpo e di cui il corpo par- tecipa, ma che è in una certa misura indipendente dal corpo stesso: giacchè quando l’A. si distacca da esso, il corpo non ha più sensibilità (Ep. a Erod., 63 sgg.). In questo modo l'A. non è semplice nè immortale (essa si dissolve nelle sue particelle con la morte del corpo); ma è tuttavia una realtà a sè, dotata di una propria capacità causativa, indispensabile alla vita stessa del corpo. In modo analogo gli Stoici ritengono che l’A. è un soffio congenito in noi; che, come tale, è corpo perchè se non fosse corpo non potrebbe nè unirsi al corpo nè separarsi da esso; ma che può tuttavia essere immortale, com’è certamente immortale l’A. del mondo, di cui sono parti quelle degli esseri animati, e le A. dei saggi (Dioc. L., VII, 156-57). Qui la corporeità dell'A. non toglie ad essa nè la sempli- cità nè l’immortalità; come non la toglie nella con- cezione di Tertulliano che anch’egli la considera come un soffio o flatus di Dio e perciò generata, corporea e immortale (De an., 8 sgg.). L’accettazione quasi universale della dottrina ari- stotelica dell'A. ha una eccezione in Plotino. Plo- tino critica egualmente sia la dottrina che l’A. è corpo sia e in relazione, cioè le cose e gli altri uomini (/bid., V, 3, 1-2). I Neoplatonici e i Padri della chiesa orientale ripetono le determinazioni neoplatoniche: l’imma- terialità e l’unità dell'A. sono i caratteri fondamen- tali riconosciuti ad essa da Porfirio (STOB., Ecl., I, 818) e da Proclo (/nsf. theol., 15); nonchè da Gregorio di Nissa (De an. et resur., pag. 98 sgg.). Ma è soprattutto S. Agostino che raccoglie l’ere- dità del neo-platonismo e la trasmette al mondo cristiano, col riconoscimento dell’interiorità spiri- tuale come via d’accesso privilegiata alla realtà propria dell’anima. Questa via d’accesso è l’esperienza interiore, la riflessione sulla propria interiorità, la « confes- sione » come riconoscimento della propria realtà intima; in una parola ciò che nel linguaggio mo- derno si chiama coscienza (v.). Nei Soliloqui (I, 2) S. Agostino dichiarava di non voler conoscere altro che « Dio e l’A. ». Ma Dio e l’A. non richiedono, per lui, due indagini parallele o comunque diverse, giacchè Dio è nell’A. e si rivela nella più riposta interiorità dell'A. stessa. « Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso » (De vera rel., $ 39). Quest’atteggia- mento che domina tutta la ricerca agostiniana do- veva dare i suoi frutti più tardi, a cominciare dalla tarda Scolastica. — Ma la Scolastica è nel suo complesso dominata dalla dottrina aristotelica del- l’A., che viene riproposta quasi negli stessi termini a partire da Scoto Eriugena (De divis. nat., II, 23) sino a Duns Scoto (Op. Ox., IV, 43, q. 2), il quale ultimo si limita ad aggiungere che, poichè l’A. è la forma del corpo, come diceva Aristotele, essa non può sussistere quando il corpo è distrutto e che pertanto l'immortalità è pura materia di fede. Le stesse notazioni di S. Tommaso (S. 7A., I, q. 75; C. Genr., II, 79 sgg.) non aggiungono nulla alla dot- trina aristotelica dell’A., salvo la maggiore insi- stenza sull’indipendenza dell’A. dal corpo, al fine di garantirne l’immortalità. La sola innovazione che la Scolastica agostiniana presenta di fronte a questa teoria, e in contrasto con l’indirizzo aristo- telico-tomistico della stessa Scolastica, concerne il rapporto tra A. e corpo: l'ammissione di una forma corporeitatis che è propria del corpo come tale, anteriormente alla sua unione con l’A. e che lo predispone a tale unione. La forma corporeitatis è la realtà che il corpo umano possiede, come corpo organico, indipendentemente dalla sua unione con I’A. (Duns Scoro, Op. Ox., IV, 11, q. 3; OCKHAM, Quodl., II, q. 10). Quest'ammissione è legata al riconoscimento che la materia in generale non è pura potenza ma possiede, già come materia, una certa realtà attuale che è appunto la forma corpo- reitatis (v. AGOSTINISMO). Ma la Scolastica del *300 ci offre, con Ockham, un’innovazione assai più radicale; il dubbio avan- zato sulla realtà dell’A. intellettiva. Dice infatti Ockham (Quodi., I, q. 10) che, se s’intende per A. intellettiva « una forma immateriale e incorruttibile che è tutta in tutto il corpo e tutta in ciascuna parte, non si può conoscere con evidenza, nè con la ragione nè con l’esperienza, che una tale A. sia forma del corpo e che l’intendere sia proprio di una tale sostanza ». Difatti le ragioni che si possono addurre per la dimostrazione di una tale forma, sono dubbie; e, quanto all’esperienza, tutto ciò che noi sperimentiamo sono l’intellezione, la vo- lizione, ecc.: operazioni che possono ben essere proprie di una « forma estesa, generabile e corrut- tibile », cioè del corpo stesso. Ockham perciò re- lega tra le materie di fede non solo l’immortalità dell’A. (come aveva già fatto Duns Scoto) ma la realtà stessa dell'A. intellettiva come supposto sog- getto delle operazioni spirituali di cui ates il punto di partenza della filosofia moderna. La nozione dell’A. come sostanza sopravvive alla crisi del Rinascimento. Nè il materialismo di Telesio e di Hobbes costituiscono vere e proprie negazioni della sostanzialità dell’anima. Telesio am- mette una sostanza intellettiva, direttamente creata e infusa da Dio nell’uomo, solo per spiegare la vita religiosa dell’uomo, la sua aspirazione al tra- scendente (De rer. nat., V, 2); ma lo stesso « spirito animale », di cui egli si avvale per spiegare la sen- sibilità, l’intelligenza e anche la vita morale del- l’uomo, pur essendo di natura corporea e prodotto e tosti ‘PMR de4dal seme, è da lui considerato come realtà a sè, come « sostanza » (/bid., V, 10). Quanto a Hobbes, egli dichiara illegittimo il pivela « un essere l’esistenza del quale ci è più co- nosciuta di quella degli altri in modo che può servire come principio per conoscerli» (Lett. d Clercelier, in CEuvres, IV, 443). Ora il cogito com- prende «tutto ciò che è in me e di cui sono immediatamente cosciente » (Z/ Rép., def. I): cioè il dubitare, il capire, il concepire, l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’imaginare, il sen- tire, ecc. Sicchè la coscienza è una via d’accesso privilegiata perchè sicura al punto da essere asso- lutamente indubitabile, ad una realtà, la sostanza A., che è a sua volta privilegiata perchè può servire come principio per conoscere le altre realtà. E di- fatti è la stessa coscienza, in quanto testimonia il carattere passivo della facoltà sensibile, che fa ’A. nei ter- mini del loro concetto di realtà. Per Spinoza, l’A. è «l’idea di un corpo singolo esistente in atto + (Er., II, 11): è cioè la coscienza correlativa a un corpo organico. Non si può dire che l’A. sia sostanza perchè la sostanza è una sola ed è Dio. Ma, come idea, l’A. è parte dell’intelletto infinito di Dio, cioè è una manifestazione necessaria della sostanza divina (/bid., II, 9) quindi è eterna (/bid., V, 23). Per Leibniz l'A. è una sostanza spirituale, una monade che, come uno specchio, rappresenta in sè tutto il mondo ma è in se stessa semplice, cioè senza parti e indecomponibile (Monad., $$ 1, 56). A differenza delle altre monadi, che sono gli atomi spirituali che compongono tutte le cose dell’uni- verso (comprese quelle corporee), l'A. è sa nozione di A. come realtà o sostanza, Hume contribuisce in pari misura a stabilire la supremazia della coscienza i cui dati sono riconosciuti come i soli elementi certi della conoscenza umana. La rivalità tra le due nozioni di A. e di coscienza raggiunge il suo punto culminante nella critica di Kant alla psicologia razionale cioè alla nozione di A. nei suoi attributi tradizionali di sostanzialità, semplicità, unità e possibilità di rapporti col corpo {Crit. R. Pura, Dial. trasc., Paralogismi della ragion pura). La critica kantiana consiste nel dire che l’in- tera psicologia razionale si fonda su di un « para- logisma » cioè su un errore formale di ragionamento o su un «equivoco »: nel senso che assume come oggetto di conoscenza, a cui sia applicabile la scienza e, spesso, ridotta alla stessa coscienza. Quest’inversione del rapporto tra A. e coscienza per cui la coscienza, da via d’accesso alla realtà-A., si trasforma in questa stessa realtà, è egualmente evidente nelle due grandi correnti della filosofia ottocentesca, l’Idealismo e il Positi- vismo. Hegel, per es., considera l’A. come il primo grado dello sviluppo dello Spirito, che è la co- scienza nel suo grado più alto, cioè Auto-coscienza; e la configura come « Spirito soggettivo », cioè come lo spirito nell’aspetto della sua individualità. Ed ecco come egli descrive il processo dello Spirito soggettivo: « Nell'A. si desta la coscienza; la co- scienza si pone come ragione che si è immediata- mente destata alla consapevolezza di sè; e la ragione mediante la sua attività si libera col farsi oggetti- vità, coscienza del suo oggetto» (Enc., $ 387). Il primo di questi momenti, cioè il destarsi della co- scienza, è l’anima. Ad essa Hegel riconosce le caratteristiche tradizionali (sostanzialità, immateria- lità), ma in un senso in cui queste caratteristiche possono essere riferite alla coscienza. « L’A., egli dice, non è immateriale soltanto per sè ma è l’im- materialità universale della natura, la sua semplice vita ideale. Essa è la sostanza e quindi il fondamento assoluto di ogni particolarizzamento e individualiz- zazione dello spirito, di modo che lo spirito ha nell’A. ogni materia della sua determinazione e l’A. resta l’idealità identica e prevalente di questa. Ma in tale determinazione ancora astrapreparare e di fondare una « scienza » dei fatti psichici che avesse lo stesso rigore delle scienze della natura. In questa dire- zione già il termine « A. » appare improprio e viene spesso sostituito dal termine spirito (v.); e in questo senso Stuart Mill, dice, per es., che lo spirito (mind) è la «serie delle nostre sensazioni» con in più « un'infinita possibilità di sentire» (Examination of Hamilton’s Philosophy, pag. 242 sgg.) o, più sem- plicemente, « ciò che sente » (Logic, VI, IV, 1). Oggetto della psicologia diventano i « fenomeni psi- chici » o « gli stati di coscienza », che vengono spie- gati mediante il vario associarsi dei loro elementi più semplici (v. ASssociaZIONISMO). Tale « psicologia senza A.» presiedette agli inizi della psicologia scientifica e fu l’insegna polemica per l’elimina- zione, dal campo di essa, della nozione tradizionale dell'A. come sostanza. Il termine tuttavia fu ed è ancora usato per in- dicare l’insieme delle esperienze psichiche in quanto sono raccolte in una qualche unità. Così l’intese Wundt (Logik, II, pag. 245 sgg.), che per unità intese l’unità della coscienza. E così l’intende anche Dewey: «In conclusione si può affermare che la parola A., quando è liberata da tutte le tracce del tradizionale animismo materialistico, denota la qua- lità delle attività psico-fisiche, in quanto sono or- ganizzate in unità. Alcuni corpi hanno A. in modo eminente come altri hanno eminentemente fra- granza, colore e solidità... Dire enfaticamente di una persona particolare che essa ha un’A. o una grande A., non significa pronunziare una frase fatta applicabile ugualmente a tutti gli esseri umani. Esprime invece la convinzione che l’uomo o la donna in questione possiede in grado notevole le qualità di una sensibile, ricca e coordinata cipazione a tutte le situazioni della vita. Così le opere d’arte, la musica, la pittura, l’architettura, hanno A., mentre altre sono morte, meccaniche » (Experience and Nature, pag. 293 sgg.). Ma l’A. in questo senso non è più « un abitante del corpo »; designa un insieme di capacità o di possibilità di cui ogni singolo uomo o cosa partecipa più o meno. L'ultima critica alla nozione di A. è quella di Ryle (Concept of Mind, 1949) che ha battezzato la concezione dell'A. che fa risalire a Cartesio come quella dello «spettro nella macchina ». In realtà la nozione è molto più antica, come si è visto, e deve la sua forza, più che alle sue capacità esplicative, alle garanzie che essa fornisce o sembra fornire a determinati valori. Ryle ritiene che la nozione sia frutto di un errore categoriale per il quale i fatti della vita mentale sono considerati appartenenti a un tipo o categoria (o classe di tipi o categorie) logica (o semantica) diversa da quella cui essi appartengono. Tale errore è simile a quello di chi, dopo aver visitato aule, laboratori, biblio- teche, musei, uffici, ecc., che costituiscono un’Uni- versità, si domandi che cosa sia e dove risieda l’Università stessa. L'Università non è un’unità che si aggiunga agli organismi o ai membri che la co- stituiscono e che possegga quindi una realtà a parte da tali organismi o membri. Così pure l’A. non ha realtà a parte dalle manifestazioni singole, dai comportamenti particolari superiori che la parola serve a designare nel loro complesso. In conclusione, anche assai prima di quest’ul- tima condanna, la nozione tradizionale di A. come una specie di realtà a sè, principio e fondamento degli eventi detti mentali, era stata abbandonata e ridotta alla nozione di un’unità funzionale o di una qualche specie di coordinazione e di sintesi tra quegli eventi. Ma in questa forma la nozione rinvia a quella di coscienza (v.). ANIMA BELLA (gr. xx} yuyn; franc. Belle dime; ted. Schòne Seele). L’espressione è di origine mistica: Plotino già parlava dell’A. bella che è l’A. che quella in cui il sentimento morale ha finito per assicurarsi di tutte le affezioni dell’uomo, al punto da poter abbandonare senza timore alla sensibilità la dire- zione della volontà, senza mai correre il rischio di trovarsi in disaccordo con le decisioni di questa... Un”A. bella non ha altro merito che quello di esi- stere. Con facilità, come se l’istinto agisse per lei, esegue i doveri più penosi per l’umanità e il sacri- ficio più eroico, che essa strappa all’istinto naturale, appare come libero effetto di quel medesimo istinto » (Werke, ed. Karpeles, XI, 202. Cfr. PAREYSON, L’e- stetica dell’Idealismo tedesco, pag. 239 sgg.). Kant non rifiutò recisamente questo concetto di Schiller e pur attenuandolo, non negò che la virtù potesse e dovesse accordarsi le Esperienze di Wilhelm Meister e la faceva parlare così: «Io non mi ricordo di nessun comando; niente mi ap- ANOMALIA 49 pare in figura di legge; è un impulso che mi conduce e mi guida sempre giusto; io seguo liberamente le mie disposizioni e so così poco di limitazione come di pentimento ». L’A. bella è una delle figure tipiche del Romanticismo: l’incarmazione della mo- ralità, non come regola o dovere, ma come effusione del cuore o dell’istinto. Scheler, pur rendendosi conto del decadentismo di questa nozione roman- tica, ritiene ancora tuttavia che « l'antica questione circa il rapporto tra l’A. bella che vuole il dover essere ideale e lo realizza non già per dovere ma per inclinazione, e il comportamento ‘ per il dovere * a cui Kant riduce ogni valore morale, va risolta nel senso che l’A. bella è non solo di pari valore, ma di valore superiore » (Formalismus, pag. 226). Ma nell’uso contemporaneo l’espressione ha as- sunto un significato ironico o derisorio, designando l'atteggiamento di chi vive contento della propria presunta perfezione morale, ignorando o miscono- scendo i problemi effettivi, le difficoltà e le lotte che rendono difficile l'esercizio di un'attività mo- rale efficace. Questo capovolgimento di apprezza- mento è dovuto probabilmente a Nietzsche che nella Genealogia della morale (I, $ 10) descrisse i puri di cuore, le A. belle che si drappeggiano poe- ticamente della loro virtù, come « uomini del ri- sentimento » che fremono di un sotterraneo spirito di vendetta contro coloro che incarnano la ricchezza e la potenza della vita (v. RISENTIMENTO). ANIMA DEL MONDO (gr. persàn yuxh; lat. Anima Mundi; ingl. World-Soul; franc. Ame du monde; ted. Weltseele). Nozione che ricorre fre- quentemente nella cosmologia tradizionale, la quale concepisce spesso il mondo come « un grande ani- male », dotato perciò di un’A. propria. Così Platone concepì il mondo nel Timeo e imaginò che l’A. di esso fosse costruita e distribuita geometricamente nel mondo dal Demiurgo (Tim., 34 b). — La no- zione fu ripresa dagli Stoici che identificarono Dio col mondo e lo concepirono come « un animale immortale, razionale, perfetto, intelligente e beato » (Diog. L., VII, 137). Per Plotino l’A. del mondo è la seconda emanazione dell’Uno o Dio e procede dall’Intelletto, che è la prima emanazione, come questo procede dall’Uno. L'A. universale guarda da un lato all’intelletto, dall’altro alle cose infe- riori o materiali che essa ordina e governa (Enn., V, 1, 2). Nella Scolastica I’A. del mondo venne talora identificata con lo Spirito Santo: così fece Abelardo (Theol. Christ., I, 17); e così fecero alcuni rappresentanti della Scuola di Chartres (Bernardo Silvestre, Teodorico di Chartres). Nel Rinascimento questa dottrina venne ripresa da Giordano Bruno che considerò Dio come l’intelletto universale « che è la prima e principal facoltà dell'A. del mondo, la quale è forma universale di quello {del mondo 4 — ABBAGNANO, Disionario di filosofia, stesso] » (De /a causa, III) e fu comunemente ac- cettata da tutti coloro, e furono moltissimi, che ammisero la validità della magia (Cornelio Ag- grippa, Paracelso, Fracastoro, Cardano, Campa- nella, ecc.) giacchè fu ritenuta il fondamento di quella « simpatia universale » fra le cose del mondo, che il mago utilizza per i suoi incantesimi e le sue operazioni miracolose. Del concetto di A. del mondo si servì Schellling (Sul/"A. del mondo, 1798) per dimostrare la continuità del mondo or- ganico e del mondo inorganico in un fuffo che è esso stesso un organismo vivente; mentre negava invece l’« A. mondiale » Hegel, giacchè riteneva che l’A. «ha la sua verità effettiva solo come indivi- dualità, soggettività » (Enc., $ 391). Col prevalere della scienza e della concezione meccanica del mondo, la nozione di A. del mondo diveniva ov- viamente inservibile. ANIMA, PARTI DELL’. V. FACOLTÀ. ANIMISMO (ingl. Animism; franc. Animisme; ted. Animismus). Termine usato da Tylor (Primitive Culture, 1, 1934, p. 428-29) per indicare la credenza, diffusa presso i popoli primitivi, che le cose naturali sono tutte animate; e perciò la tendenza a spiegare gli avvenimenti con l’azione di forze o princìpi animati. Nell’A. così inteso il Tylor vide la forma primitiva della metafisica e della religione. Questa dottrina partiva dal presupposto che la prima e fondamentale preoccupazione dell’uomo primitivo sia quella di spiegare in qualche modo i fatti che lo circondano. L'osservazione sociologica ha però mostrato che questo non è il caso e che il primitivo è soprattutto interessato alla caccia, alla pesca, agli eventi e alle festività della tribù: e che con questi interessi è legato non già l'A. ma piuttosto la magia (v.). La dottrina che l’atteggiamento magico è quello da cui è nata la religione e su cui s'impernia la cultura primitiva è stata chiamata preanimismo. (Cfr. su di esso MARETT, The Threshold of Religion, 1909; G. FRAZER, Tie Golden Bough, 1911-14; Ma- LINOWSKI, Magic Science and Religion, 1925). ANNO GRANDE. V. Cicto. ANOETICO (ingl. Anoeric; franc. Anoétique; ted. Anoetik). Aggettivo che viene talvolta usato a designare le funzioni diverse dall’intelletto, per es., la sensibilità, le emozioni, ecc. ANOMALIA (ingl. Anomaly; franc. Anomalie; ted. Anomalie). In generale ogni fatto o elemento che si scosta dal modello uniforme, costantemente riscontrato, di un certo genere di fatti o elementi: per es., un corpo vivente presenta un’A. se la strut- tura di qualche suo organo si allontana da quella riscontrata in corpi dello stesso genere. Un fatto anomalo è un fatto che contravviene alla previsione probabile, fondata su uniformità ricorrenti (vedi ANOMIA (ingl. Anomy; franc. Anomie; te- desco Anomie). Termine moderno usato soprat- tutto da sociologi (per es., Durkheim) per indicare l'assenza o la deficienza di organizzazione sociale e quindi di regole che assicurino l’uniformità degli accadimenti sociali. ANONIMIA (ted. Man). Secondo Heidegger, è il modo d’essere livellato ‘dell’esistenza quotidiana, nella sua « medietà » pubblica, cioè nelle forme che finisce per assumere nella vita d’ogni giorno. In tale modo d'essere, « ognuno è gli altri e nessuno è se stesso. Il Si in cui trova risposta il problema circa il Chi dell’Esserci quotidiano, è il nessuno a cui ogni Esserci si è abbandonato nell’indifferenza del suo essere-insieme » (Sein und Zeit, $ 27) (v. MEDIETÀ). ANORMALITÀ (ingl. Abnormality; francese Anormalité; ted. Unregelmdssigkeit). Ciò che è con- trario a una norma e perciò si sottrae, in qualche misura, alla funzione o al fine che la norma tènde a garantire o a raggiungere. Il termine ha un signi- ficato diverso da anomalia (v.) giacchè questa non sempre costituisce un’anormalità. L’anomalia è una variante imprevista, un caso che si allontana dal- l’uniformità riconosciuta: essa può essere e può non essere un’anormalità. Per es., un organo ano- malo è anormale solo nel caso in cui non è in grado di adempiere alla funzione che gli sarebbe propria. ANTECEDENTE (ingl. Antecedent; franc. An- técédent; ted. Antezedens). In Logica, il primo ter- mine di una conseguenza (v.). o. P. ANTEPREDICAMENTI (lat. Antepraedica- menta; ingl. Antepredicament; franc. Anteprédica- ment; ted. Antepridicament). Nel Medioevo con il nome di A. si designava spesso l’/sagoge alle Cate- gorie di Porfirio. Inoltre la medesima parola desi- gnava anche, naturalmente, le quinque voces (o cate- gorie della Logica) trattate appunto nell’/sagoge: genere (v.), specie (v.), differenza (v.), proprio (v.), accidente (v.). Husserl ha chiamato evidenza ante- predicativa quella con cui gli oggetti si danno, con le varie modalità del loro essere, nel mondo della vita (v.): evidenza che è a fondamento del giu- dizio predicativo o apofantico (Erfahrung i agi 1939, intr.). ANTICHI E MODERNI (ingl. pe pe Moderns; franc. Anciens et Modernes). La disputa sulia superiorità degli A. o dei moderni nacque in Italia con i Pensieri diversi (1620) di Alessandro Tas- soni, si svolse soprattutto in Francia e in Inghilterra e vertè sostanzialmente intorno al concetto della storia come progresso. La nozione di progresso anzi trova appunto la sua origine da questa disputa e specialmente nel Dialogo dei morti (1683) di Fon- tenelle. Il concetto che viene elaborato in quelle discussioni era stato già espresso da Giordano Bruno con l’affermazione che « noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che i nostri predecessori » perchè attraverso il tempo il giudizio si matura (Cena delle ceneri, in « Op. It. », I, 31-32); concetto che Bacone aveva a sua volta espresso con quello di veritas filia temporis tolto da Aulo Gellio (Noct. Att., XII, 11): « L’antichità, diceva Bacone, fu an- tica e maggiore rispetto a noi, ma per rispetto al mondo nuova e minore; ed appunto come da un uomo anziano possiamo aspettarci molta maggior conoscenza delle cose umane e maggior maturità di giudizio che da un giovane — per via dell’espe- rienza e del gran numero di cose da lui vedute, udite e pensate — così pure dall'età nostra (se avesse coscienza delle sue forze e volesse darsi a sperimentare e capire) sarebbe giusto aspettarsi più gran cose che dai tempi A., essendo questa per il mondo la maggiore età, aiutata e arricchita da in- finiti esperimenti ed osservazioni + (Nov. Oro., I, 84). Questo concetto ripetuto da Fontenelle costituì il primo nòcciolo della nozione di progresso (v.). — (Sulla disputa degli A. e dei moderni cfr. RIGAULT, Histoire de la querelle des Anciens et des Modernes, 1856; J. B. Bury, 7he /dea of Progress, 1932,ANTICIPAZIONE (gr. rp6anpis; lat. Antici- patio; ingl. Anticipation; franc. Anticipation; te- desco Antizipation). Con questo termine i logici stoici ed epicurei designavano i concetti generali (di genere e specie) in quanto mediante essi i dati della esperienza erano « anticipati » dalla mente (Dioc. L., VII, 1, 54). Nella filosofia moderna, sulle tconclude in una contraddizione; nella Logica stoica il ragionamento che conclude in un dilemma, come «è giorno op- pure non è giorno» (invece in Aristotele «se è giorno, allora non è giorno +). G. P. ANTILOGIA (gr. avrmoyla; ingl. Antilogy; franc. Antilogie; ted. Antilogie). Contraddizione (v.). Talora il termine equivale a disputa, o ad arte della disputa, perchè questa consiste nel contrap- porre un argomento a un altro argomento. Anti- ANTINOMIE s1 logici fu il titolo di un’opera di Protagora (Dioc. L., II, 37). ANTILOGISMO (ingl. Antilogism; franc. An- tilogisme; ted. Antilogismus). Termine coniato con parole greche (&vri, «contro » e X6yoc, « ragione +), introdotto per indicare atteggiamenti filosofici di ostilità alla ragione discorsiva. G.P. ANTIMETAFISICO (ingl. Antimetaphysic; franc. Antimétaphysique; ted. Antimetaphysik). Ter- mine usato dai moderni ad indicare un atteggiamento o un indirizzo di pensiero contrario alle pretese della metafisica classica e cioè che si rifiuta di am- mettere la validità di una ricerca che proceda al di là dei confini dell’esperienza o che comunque metta capo ad affermazioni non verificabili in ter- mini di esperienza (v. METAFISICA). Più specifica- mente la critica antimetafisica si dirige (seguendo l’esempio di Hume) contro i due concetti fonda- mentali di sostanza e di causa o contro l’interpre- tazione che renda possibile la loro applicazione ad oggetti che trascendano il limite dell’esperienza. ANTINOMIE (ingl. Antinomies; franc. Anti- nomies; ted. Antinomien). Con questo termine o con quello di paradossi sono chiamate le contrad- dizioni cui mette capo l’uso della nozione assoluta di tutti nella matematica e nella logica. Le A. in questo senso non erano ignote all’antichità perchè fecero parte di quei ragionamenti insolubili o con- vertibili di cui Megarici e Stoici si compiacevano e che furono talora anche chiamati dilemmi (vedi DILEMMA). Tali ragionamenti vengono nella tarda scolastica trattati nelle raccolte di /nsolubilia o di Obligatoria; e il più famoso di essi è quello del mentitore che già Cicerone ricordava: « Se tu dici che mentisci, o dici il vero e allora menti o dici il falso e allora dici la verità » (Acad., IV, 29, 96). Questo paradosso veniva nel sec. xIv discusso da Ockham (Summa Log., III, II, 38). Nella logica contemporanea, la prima contraddizione del genere fu messa in luce da Burali Forti nel 1897 e riguar- dava la serie dei numeri ordinali: se la serie di tutti i numeri ordinali ha un numero ordinale, che sia, per es., w, anche è sarà un numero ordi- nale, sicchè la serie di tutti i numeri ordinali avrà il numero w + 1, più grande di w e è non sarà il numero ordinale di tutti gli ordinali (« Una. que- stione sui numeri transfiniti », in Rend. del Circolo Matematico di Palermo, 1897). Ma il più famoso paradosso, che richiamò l’attenzione su tutti gli altri, fu quello di Russell, che concerne la classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse. Ci sono classi che non sono membri di se stesse, come, ad es., la classe degli uomini: la quale, non essendo un uomo, non è membro di se stessa. Ci sono invece classi che sono membri di se stesse, come la «classe dei concetti », che è essa stessa un concetto. Ora la classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse è, o no, membro di se stessa? Se sì, contiene un membro che è membro di se stesso e pertanto non è più la classe di tutte le classi che non contengono se stessa come membro. Se no, sarà una delle classi che non contengono se stessa come membro e deve perciò appartenere alla classe di tali classi. Questo paradosso pub- blicato da Russell nel 1902 ha dato poi luogo alla riorganizzazione che della logica matematica hanno fatto Whitehead e Russell nei Principia Mathe- matica (1910-13). Ao di variazione è un insieme di oggetti individuali. Sono di grado due quelle for- nite di una variabile apparente che sta in luogo di una funzione proposizionale di grado uno; e così via. Posto ciò, si stabilisce la regola che non si possono trattare sullo stesso piano proposizioni ricavabili da funzioni di grado diverso. Per es., l’A. del mentitore dipende dal fatto che la frase «io mento » s’interpreta nel senso: « Qualunque sia la mia presente affermazione x, x è una menzogna »; e che si identifica questa frase, che chiamiamo », con l’affermazione x. Ma in realtà y è di grado diverso da x perchè x è la variabile apparente con- tenuta in y: perciò non può essere identificata con y. In altre parole, quando si dice ‘ io mentisco ’, non s’intende che è una menzogna la frase stessa «io mentisco » ma che è una menzogna qualche altra frase cui essa fa riferimento. Russell tuttavia per rendere possibile in matematica quel tipo di asserzione impropriamente espressa con la frase (che dà luogo alle A.) «tutte le proprietà di x, introduceva l’assioma delle classi o assioma di ri- ducibilità. Egli diceva: «Sia g x una funzione, di qualsiasi ordine, di un argomento x che può essere o un individuo o una funzione di qualsiasi ordine. Se ® è dell’ordine immediatamente superiore a x, scriviamo la funzione nella forma p!x; e in tal caso chiameremo ® una funzione predicativa. Così la funzione predicativa di un individuo è una fun- zione di primo ordine; e per argomenti di tipo più alto le funzioni predicative prendono il posto che le funzioni di primo ordine prendono nei ri- spetti degli individui. Noi assumiamo allora che ogni funzione è equivalente, per tutti i suoi valori, a qualche funzione predicativa dello stesso argo- mento » (Mathematical Logic, ecc., Op. Cit., pa- gina 81-82). Russell riteneva di avere in questo modo salvato il concetto di classe dall’A. e nello stesso tempo di averlo reso ancora utilizzabile nella sua funzione fondamentale, che sarebbe quella di ridurre l’ordine delle funzioni proposizionali; ma l’assioma suscitò molte critiche, che mostrarono spe- cialmente come esso aveva l’effetto di restaurare la possibilità di quelle definizioni impredicative che la teoria dei gradi era diretta ad eliminare (cfr. su tali critiche A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 59, n. 588). Lo stesso Russell nella Intro- duzione alla seconda edizione dei Principia Ma- thematica (1925) raccomandava l’abbandono del- l’assioma di riducibilità. Ramsey propose allora di dividere le A. in due ca- tegorie: le antinomie /ogiche (in senso stretto) che sono quelle esemplificate dall’A. di Russell e che non fanno riferimento alla verità o falsità delle espres- sioni; e le A. sintattiche, esemplificate dall'A. del men- titore, che sono quelle che nascono dal riferimento semantico e si possono perciò anche chiamare semantiche o epistemologiche (Foundations of Ma- thematics, 1931). Ramsey osservò che le antinomie della seconda specie non compaiono nei sistemi logistici ma solo nei testi che li accompagnano e che pertanto esse possono essere trascurate dalla logica in quanto ha per oggetto la costruzione di sistemi simbolici. Per le A. logiche, invece, Ramsey osservò che basta la teoria semplice dei tipi; la cui regola fondamentale, Carnap, seguendo il suggerimento di Ramsey, ha così formulata: « Un predicato appartiene sempre a un tipo diverso da quello dei suoi argomenti (cioè appartiene a un tipo di livello più alto); e perciò un enunciato non può avere mai la forma ‘F(F)’» (The Logical Syntax of Language, $ 60 a). Questa regola basta a evitare le definizioni impredicative (v.): sicchè la teoria dei tipi semplici è quella oggi più comune- mente accettata dai logici, per ciò che concerne le A. logiche. 2° La seconda soluzione fondamentale delle A. riguarda invece le A. sintattiche cioè semantico- epistemologiche, che sono quelle nelle quali ri- corrono i concetti di vero e falso. Questa soluzione consiste nel considerare quelle A. come proposi- zioni indecidibili cioè come proposizioni sulla cui verità o falsità la struttura della lingua, nella quale esse sono formulate, non permette di decidere nè in un senso nè nell’altro. Mediante un ampliamento della lingua considerata, tali proposizioni possono diventare suscettibili di decisione; ma a sua volta tale ampliamento può dar luogo ad altre proposi- zioni indecise. Una soluzione di questo genere era stata già prospettata da Ockham quando, nell’analisi del pa- radosso del mentitore, aveva riconosciuto il carat- tere indecidibile degli enunciati autoriflessivi. Così, diceva Ockham, non è legittimo porre che A si- gnifichi « A significa il falso». È certamente pos- sibile che A significhi il falso; ma appunto perchèANTINOMIE è possibile, e soltanto tale, esso non significa nè il vero nè il falso (Summa Log., III, II, 38). Questo punto di vista è stato oggi rafforzato dal cosiddetto teorema di Gédel secondo il quale è impossibile provare la non contraddittorietà di un sistema logistico con i mezzi di espressione conte- nuti nello stesso sistema (« Ùber formal unentscheid- bare Sétze der Principia Mathematica und verwandter Systeme », in Monatsh. Math. Phys., 1931). Posto ciò, si può intendere come le A. sintattiche nascano quando i predicati vero e falso, riferiti a un lin- guaggio determinato S, sono usati dentro questo stesso linguaggio. Dall’altro lato, la contraddizione può essere evitata adoperando i predicati ‘vero (in S)” e ‘falso (in S)” in una sintassi di S, che non è formulata nello stesso S; ma in un altro linguaggio Sy (CARNAP, Logical Syntax of Language, $ 60b). Questo equivale a dire che l'affermazione «io mentisco» può essere vera al livello di un certo linguaggio e falsa al livello di un altro linguaggio; e che cioè essa rimane indecisa finchè non si è determinato il livello del linguaggio a cui viene riferita. Solu- zioni sostanzialmente simili a queste sono state proposte da Quine (Mathematical Logic, 1940, cap. VII; cfr. From a Logical Point of View, VII, 3) e da Church (Introduction to Mathematical Logic, $ 57). ANTINOMIE KANTIANE (ingl. Kanzian Antinomies; franc. Antinomies kantiennes; ted. Kants Antinomien). La parola A. significa propriamente «conflitto di leggi» (QUINTILIANO, /nst. Or., VII, 7, 1) ma fu estesa da Kant a indicare il conflitto in cui la ragione viene a trovarsi con se stessa in virtù dei suoi stessi procedimenti. Kant parlò delle A. nel campo della cosmologia razionale, cioè della dottrina che ha per oggetto l’idea del mondo. Questa idea, come tutte le idee della ragion pura (v. IDEA), nasce dal tentativo, illegittimo secondo Kant, di applicare le categorie a se stesse, cioè dall’uso ri- flessivo delle categorie. L’idea di mondo è infatti «l’unità incondizionata delle condizioni oggettive della possibilità degli oggetti in generale ». Le « con- dizioni oggettive, ecc. », sono le categorie e i prin- cìpi da esse derivati; e l’unità è ancora una categoria. Le A. che sorgono in questo modo sono, secondo Kant, naturali o inevitabili: naturali perchè l’idea di mondo, che ad esse dà origine, per quanto priva di validità empirica e quindi conoscitiva, è formata dalla ragione con un procedimento naturale che consiste nell’applicare alle categorie le stesse ca- tegorie, che dovrebbero essere invece applicate sol- tanto ai fenomeni; inevitabili, perchè una volta formatasi l’idea di mondo come la totalità assoluta, incondizionata, di tutti i fenomeni e delle loro con- dizioni, non si può in alcun modo evitare di giun- KANTIANE 53 gere a proposizioni contraddittorie. Kant enumera quattro A. che corrispondono ai quattro gruppi di categorie, cioè alle categorie secondo la qualità, la quantità, la relazione e la modalità. Ecco le quattro A.: 18 Antinomia. Tesi: il mondo ha un inizio nel tempo e, nello spazio, è chiuso dentro limiti. Antitesi: il mondo non ha nè inizio nel tempo nè limite nello spazio ma è infinito sia nel tempo che nello spazio. 2 Antinomia. Tesi: ogni sostanza composta consta di parti semplici e non esiste altro che il semplice o ciò che risulta composto dal: semplice. Antitesi: non esiste al mondo alcuna cosa composta di parti semplici e non esiste in nessun luogo niente di semplice. 3» Antinomia. Tesi: la causalità secondo leggi della natura non è la sola da cui possano essere spiegati i fenomeni del mondo. È necessario am- mettere per la spiegazione di essi anche una cau- salità della libertà. Antitesi: non c’è alcuna libertà, ma tutto nel mondo accade unicamente secondo le leggi della natura. 48 Antinomia. Tesi: nel mondo c’è qualcosa che o come sua parte o come sua causa è un essere assolutamente necessario. Antfitesi: in nessun luogo esiste un essere assolutamente necessario nè nel mondo nè fuori del mondo come sua causa. Sia la tesi che l’antitesi di ciascuna di queste A. è dimostrabile con argomenti logicamente ineccepi- bili: tra l’una e l’altra è quindi impossibile decidere. Il conflitto pertanto rimane e dimostra l’illegitti- mità della nozione che gli ha dato origine, cioè dell’idea di mondo. Questa, essendo al di là di ogni esperienza possibile, rimane inconoscibile e non può fornire alcun criterio àtto a decidere per l’una o l’altra delle tesi in conflitto. L’illegittimità della nozione di mondo risulta evidente dal fatto che la tesi delle A. presenta un concetto di esso troppo piccolo per l’intelletto, mentre l’antitesi presenta un concetto troppo grande per l'intelletto stesso. Così, se il mondo ha avuto un principio, regredendo empiricamente nella serie dei tempi bi- sognerebbe arrivare ad un momento in cui questo regresso si arresta; e questo è un concetto del mondo troppo piccolo per l’intelletto. Se invece il mondo non ha avuto un principio, il regresso nella serie del tempo non può mai esaurire l’eternità; e questo è un concetto troppo grande per l’intelletto. Lo stesso si dica per la finità o l’infinità spaziale, per la divisibilità o io di sommo bene: «O il desiderio della felicità dev'essere la causa movente per la massima della virtù o la mas- sima della virtù dev'essere la causa efficiente della felicità »; ed una A. del giudizio teleologico (Critica d. Giud., $ 70) che è formata dalla tesi « Ogni produ- zione delle cose materiali è possibile secondo leggi puramente meccaniche » e dall’antitesi « Alcuni pro- dotti della natura non sono possibili secondo leggi puramente meccaniche ». A proposito delle A. kan- tiane, Hegel le interpretava come se Kant avesse voluto togliere la contraddizione dal mondo in se stesso e attribuirla alla ragione. E aggiungeva: «È questa una troppo grande tenerezza per il mondo, voler allontanare da esso la contraddizione per trasportarla invece e lasciarla altro le tesi di esse e rigettava le antitesi, riconoscendo così la finità del mondo nello spazio e nel tempo (Essais de critique générale, I, pag. 282). Il risultato rag- giunto dalla discussione kantiana delle A. è tuttavia importante. Esso consiste nell’aver messo in qua- rantena l’idea tradizionale del mondo come totalità assoluta e nell’aver insegnato l’uso critico del con- cetto di mondo (v.). ANTIPERISTASI (gr. dvrireplotani; lat. Anti- paristasis). Uno dei modi tradizionali di spiegare il movimento dei proiettili; poichè la natura non per- mette il vuoto, quando un corpo esce velocemente dal luogo in cui stava, l’aria si precipita in questo luogo e spinge il corpo stesso che passa così ad un altro luogo; e così via, per tutta l’estensione del mo- vimento. A questa spiegazione, Aristotele obiettava che essa non tiene conto del fatto che esiste un corpo che non è mosso da altro: il cielo (Fis., VIII, 10, 267 a 12). La nozione fu criticata da co- loro che elaborarono la dottrina dell’impeto (v.): per es., da Buridano (Quaesr. super physicam, VIII, q. 12. Cfr. anche BoviLLo, De Nihilo, in Opera, 1510, f. 72 v.). ANTISTORICISMO (ingl. Antihistoricism; franc. Antihistoricisme; ted. Antihistorismus). Ter- mine adoperato soprattutto da Croce per designare l’Illuminismo che, come «razionalismo astratto » avrebbe considerato « la realtà divisa in soprastoria e storia, in un mondo di idee o di valori e in un basso mondo che le riflette o le ha riflesse finora in modo fuggevole o imperfetto e al quale converrà una buona volta imporli, facendo succedere alla storia imperfetta o alla storia senz’altro una realtà razionale perfetta » (La storia, pag. 51). Da questo punto di vista, sono « antistoriche » tutte le dottrine che distinguono ciò che è da ciò che dev'essere e cioè che non ammettono l’identificazione hegeliana di realtà e razionalità. — In realtà, l’Illuminismo non è « antistoricismo » ma piuttosto « antitradizio- nalismo », in quanto ha costituito la prima e più radicale condanna della tradizione come portatrice e garante di verità (v. ILLUMINISMO; TRADIZIONE). ANTITESI (gr. d&vrtdeoc; ingl. Antithesis; franc. Antithèse; ted. Antithesis). 1. Contrapposi- zione: Aristotele dice che la contraddizione è una A. che non ha termine medio (An. post., I, 2, 72 a 10). 2. Uno dei due termini della contrapposizione, quello che si oppone alla tesi. In questo senso Kant chiamò A. il secondo membro dell’anti- nomia (v.) ed Hegel chiamò A. il secondo momento del procedimento dialettico detto appunto « mo- mento dialettico » o « negativo razionale». ANTITETICA (ted. Antithetik). Kant intese con questo termine «un conflitto di conoscenze in apparenza dogmatiche (thesis cum antithesi) a nessuna delle quali si attribuisca un diritto preva- lente all’assenso ». L’A. si opporrebbe così alla Tetica (v.). In particolare, l’A. trascendentale è «una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo risultato » (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. II, sez. II). ANTITIPIA (gr. dvritria; lat. Antitypia; ingl. Antitypy). Termine d’origine epicurea (SESTO, Adv. Math., I, 21) adoperato da Leibniz per indicare l'attributo della materia per il quale «essa è nello spazio » e per il quale perciò un corpo è impene- trabile all’altro (Op., ed. Erdmann, pag. 463, 691). ANTROPOLOGIA (ingl. Anthropology; fran- cese Anthropologie; ted. Anthropologie). L’esposi- zione sistematica delle conoscenze che si hanno intorno all’uomo. In questo senso generale l’A. è stata ed è una parte di ogni filosofia; ma come disciplina specifica e relativamente autonoma essa APATIA 55 è nata solo in tempi moderni. Kant distinse un’A. fisiologica che considera quel che la natura fa del- l’uomo da un’A. pragmatica che considera invece quello che l’uomo come essere libero fa, oppure può suo oggetto proprio non solo nell’analisi e nella classificazione dei lin- guaggi ma nella comprensione, attraverso i lin- guaggi, della psicologia individuale e di gruppo (cfr., R. Linton, ed. The Science of Man in the World Crisis, 1945, 1952”). Secondo Lévi-Strauss lA. si distingue dalla sociologia in quanto tende ad essere la scienza sociale dell’osservato mentre la sociologia tende ad essere la scienza sociale del- l'osservatore (Anthr. structurale, 1958, cap. XVII). I filosofi hanno spesso sottolineato l’importanza dell’A. come scienza filosofica, cioè come determi- nazione di ciò che l’uomo deve essere, nei confronti di ciò che è. Humboldt, per es., voleva che l’A., pur movendo a determinare le condizioni naturali dell’uomo (temperamento, razza, nazionalità, ecc.) mirasse a scoprire, attraverso di esse, l’ideale stesso dell'umanità, la forma incondizionata, alla quale nessun individuo si adegua mai perfettamente ma che rimane lo scopo cui tutti gli individui tendono ad avvicinarsi (Schriften, I, pag. 388 sgg.). In tal senso l’A. è stata intesa da Scheler (// posto dell’uomo nel cosmo, 1928) che perciò la colloca in un posto intermedio tra la scienza positiva e la metafisica. — Più specificamente il còmpito del- l’A. filosofica dovrebbe essere quello di considerare l’uomo non già semplicemente come natura, come vita, come volontà, come spirito, ecc., ma preci- samente come uomo e cioè di riportare il complesso delle condizioni o degli elementi che lo costituiscono al suo modo di esistenza specifico. Tale è l’esigenza prospettata, per es., da Biswanger (Ausgewédhite Vortràge und Ausdtze, I, pag. 176). E in questo senso il Saggio sull'uomo (1944) di Cassirer è una ricerca di A. filosofica che si accentra intorno al concetto dell’uomo come animal symbolicum, cioè come animale che parla e crea l’universo simbo- lico della lingua, del mito e della religione. ANTROPOMORFISMO (inglese Anthropo- morphism; franc. Anthropomorphisme; ted. Anthro- pomorphismus). S'indica con questo nome la ten- denza a interpretare ogni tipo o specie di realtà nei termini del comportamento umano o per so- miglianza o analogia con questo comportamento. « Credenze antropomorfiche » 0 « antropomorfismi » sono dette solitamente le interpretazioni di Dio in termini di condotta umana. Una critica di tale A. fu già fatta da Senofane di Colofone. « Gli uomini, egli disse, credono che gli dèi hanno avuto nascita e hanno voce e corpo simili al loro » (Fr. 14, Diels) perciò gli Etiopi fanno i loro dèi camusi e neri, i Traci dicono che hanno occhi azzurri e capelli rossi; e anche i buoi, i cavalli, i leoni, se potessero, imaginerebbero i loro dèi a loro somiglianza (Fr. 16, 15). — Ma l’A. non appartiene soltanto al dominio delle credenze religiose. L'intera scienza moderna si è venuta formando attraverso una progressiva liberazione dall'A. e lo sforzo di considerare le operazioni della natura non secondo la loro somi- glianza con quelle dell’uomo, ma juxta propria prin- cipia. PANTROPOSOFIA (ingl. Anthroposophy, fran- cese Anthroposophie; ted. Anthroposophie). Il ter- mine fu creato da J. P. V. Troxler per indicare, la dottrina naturale della conoscenza umana (Na- turlehre der menschlichen Erkenntnis, 1828) e ripreso da R. Steiner quando, nel 1913 si distaccò dal movimento teosofico e volle sottolineare l’impor- tanza della dottrina intorno alla natura e al destino dell’uomo. Cfr. STEINER, Die Rétsel der Philosophie, 2 voll., 1924-26 (v. TEOSOFIA). APAGOGICO, PROCEDIMENTO. Vedi ABDUZIONE; RIDUZIONE. APATIA (gr. &rdBeva; ingl. Apathy; franc. Apa- thie; ted. Apathie). Il termine propriamente signi- fica insensibilità; ma nell’uso filosofico antico esso designò l’ideale morale dei Cinici e degli Stoici, cioè l'indifferenza verso tutte le emozioni e il di- sprezzo di esse: indifferenza e disprezzo raggiunti attraverso l’esercizio della virtù. In questo senso, per cui l’insensibilità non è una dote nativa e na- turale, ma un ideale di vita difficile a raggiungersi, Cinici e Stoici videro nell’A. la felicità stessa (Diog. L., VI, 1, 8-11). Kant vide nell’A. un no- bile ideale, ma aggiunse che la natura fu saggia a dare all’uomo la simpatia, per guidarlo provvi- soriamente e cioè prima che la ragione raggiunga in lui la sua maturità, come un aiuto o appoggio sensibile alla legge morale e surrogato temporaneo della ragione (4ntr., $ 75). L’età moderna e con- temporanea, nonostante la grande suggestione che l’etica stoica ha sempre esercitato, non si mostra propensa all’ideale dell’A., giacchè essa è portata a riconoscere il valore positivo delle emozioni e ad evitare, perciò, la condanna sommaria e to- tale di esse che è inclusa nella nozione di apatia (v. EMOZIONE). APEIRON (gr. &repov). L'infinito o l’indetermi- nato: secondo Anassimandro di Mileto, il principio e l'elemento primordiale delie cose. Esso non è una miscela dei vari elementi corporei, in cui questi siano compresi ognuno con le sue qualità de- terminate; ma piuttosto è una materia in cui gli elementi non sono ancora distinti e che perciò, oltre che infinita, è anche indefinita o indeterminata (Diels, A, 9). Questa duplice determinazione di infinità nel senso di inesauribilità e di indetermina- tezza è poi rimasta per molto tempo attaccata al concetto di infinito (v.). APERTO (ingl. Open; franc. Ouvert). Agget- tivo adoperato frequentemente in senso metaforico nel linguaggio comune e filosofico per indicare at- teggiamenti o istituzioni che ammettono la possi- bilità di una partecipazione o comunicazione estesa o addirittura universale. Uno «spirito aperto» è uno spirito accessibile a suggerimenti, consigli, cri- tiche che gli vengono dagli altri o dalla stessa si- tuazione e che è disposto a tenere nel massimo conto, cioè senza pregiudizi, tali suggerimenti. Una «società aperta» è una società che rende possibile per vie pacifiche la correzione delle proprie istitu- zioni (K. Popper, The Open Society and its Enemies, London, 1945). Bergson chiamò società aperta quella che «abbraccia l’umanità intera» (Deux sources, 1932, I; trad. ital., pag. 28). C. Morris ha issa che interpreta il succedersi dei mondi come il teatro della progressiva rieducazione degli esseri alla condizione beata originaria. Gregorio afferma anche recisamente il carattere universale dell’A.: « Perfino l’inventore del male (cioè il demonio), unirà la propria voce all’inno di gratitudine al Salvatore » (De hom. opif., 26). Nell’età moderna una dottrina analoga è stata sostenuta da Re- nouvier nella Nuova Monadologia (1899): viene qui ripresa la tesi di Origene di una pluralità di mondi successivi e del passaggio da un mondo all’altro determinato dall’uso che l’uomo fa della libertà in ciascuno di essi; e la si corregge solo nel senso che «la fine raggiunta si ricongiunge col principio, non nell’indistinzione delle anime, ma nell’umanità perfeer oggetto la verità necessaria, cioè la verità pro- priamente detta e che ci conduce attraverso l’apo- dissi cioè la dimostrazione alla scienza, sicchè giusta- mente viene chiamata sia apodittica sia epistemo- nica» (Logica Hamburgensis, 1638, IV, I, cap. I, $ 1). Questo nome è stato poi raramente usato (cfr., ad es., BOUTERWEK, /deen zu einer Apodiktik, 1799). APODITTICO (gr. &rodemtixéc ; lat. Apodicticus; franc. Apodictique; ted. Apodiktisch). 1. Dimostra- tivo. Questo è il significato generale e fondamentale del termine: significato che esso ha in Aristotele sia quando Aristotele lo riferisce alla proposizione (An. Pr., I, 1, 24 a 30) sia quando lo riferisce alla scienza, definita come «abito dimostrativo » (Fr. Nic., VI, 3, 1139 b 31). 2. Necessario. Questo secondo significato è stato introdotto come significato primario da Kant che chiamò A. i giudizi in cui l’affermazione o la ne- gazione si considera come necessaria. « La propo- sizione A., scrisse Kant, pensa il giudizio assertorideterminato attraverso le leggi dello stesso intelletto e perciò affermato a priori; ed esprime così una necessità logica » (Crit. R. Pura, $ 9, 4). Questa, ovviamente, non è la necessità della dimostrazione. Kant però non escluse neppure il significato tradi- zionale perchè divise le proposizioni apodittiche in quelle dimostrabili e quelle immediatamente certe (Ibid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I [A 736, B 764]). L’uso di Kant è stato seguito da Husserl che ha parlato di « visione A. + e di «evidenza A.? (Ideena verità contemplata l’uomo greco vedeva dappertutto l'aspetto orribile e assurdo del- l’esistenza: l’arte gli venne in soccorso, trasfigu- rando l’orribile e l’assurdo in imagini ideali, per virtù delle quali la vita fu resa accettabile (Geburr der Tragòdie, $ 7). La trasfigurazione fu compiuta dallo spirito dionisiaco, modulato e disciplinato dallo spirito apollineo, e dètte luogo alla tragedia e alla commedia. Più tardi Nietzsche vide nello spirito dionisiaco il fondamento stesso dell’arte in quanto questa «corrisponde agli stati di vigore animale » (Wille sur Macht, $ 361, ed. Kroner, 802). Lo stato apollineo non è che la risultanza estrema dell’ebbrezza dionisiaca, una specie di semplifica- zione e concentrazione dell’ebbrezza stessa. Lo stile classico rappresenta questo stato ed è la forma più elevata del sentimento di potenza. Sull’esempio di Nietzsche, Spengler ha chiamato apollinea « l’anima della cultura antica che ha scelto il corpo indivi- duale presente e sensibile come tipo ideale della estensione ». Apollinei sono «la statica meccanica, i culti materiali degli dèi dell'Olimpo, le città greche politicamente isolate, la sorte di Edipo e il simbolo del fallo» (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $ 6). Questa caratterizzazione come quella corrispondente di faustismo (v.) è perfettamente arbitraria e fan- APOLOGETICA (ingl. Apologetics; franc. Apo- logétique; ted. Apologetik). La disciplina che ha per oggetto la difesa (apologia) di un determinato sistema di credenze. Il termine viene più frequen- temente riferito alla difesa delle credenze religiose: per es., « A. cristiana ». APOLOGISTI (ingl. Apologists; franc. Apo- logistes; ted. Apologeten). Si chiamano con questo nome i Padri della Chiesa del n secolo che scrivevano in difesa (apologia) del Cristianesimo contro gli attacchi e le persecuzioni che gli venivano mossi. La prima apologia di cui si abbia notizia (ma ne rimane solo un frammento) è la difesa presentata all'imperatore Adriano intorno al 124 da Qua- drato, discepolo degli Apostoli. Il principale dei Padri A. è Giustino. Altri autori di apologie sono Taziano, Atenagora, Teofilo, Ermia. Coi Padri A. comincia l’attività filosofica cristiana. La tesi comune che essi difendono è che il Cristianesimo è la sola filosofia sicura ed utile ed è il risultato ultimo al quale la ragione deve giungere. I filosofi pagani conobbero semi di verità che essi non po- tettero intendere appieno: i Cristiani conoscono la verità intera perchè Cristo è il /ogos, cioè la ragione stessa della quale partecipa tutto il genere umano. L’apologetica di questi Padri costituisce perciò il primo tentativo di inserzione del Cristianesimo nella storia della filosofia classica. APONIA (gr. &rovia; ingl. Aponia; franc. Aponie; ted. Aponie). L'assenza di dolore come piacere sta- bile, e quindi eticamente accettabile, nell’etica di Epicuro (Fr. 2, Usener). APOREMA (gr. &répnua; ingl. Aporem; fran- cese Aporème; ted. Aporem). In Aristotele (Top., VIII, 11, 162 a), è definito come un ragionamento dialettico che conclude ad una contraddizione, e quindi che non permette di stabilire per quale dei due corni della contraddizione stessa si debba sce- gliere. G.P. APORETICA (ingl. Aporetic; franc. Aporé- tique; ted. Aporetik). Così Nicolai Hartmann ha chiamato (da aporia = dubbio) quello stadio della ricerca filosofica che consiste nel mettere alla luce i problemi cioè tutti quegli aspetti dei fenomeni che non sono stati compresi e che perciò costitui- scono le aporie naturali (Systemarische Philoso- phie, $ 5). APORIA (gr. &ropla; ingl. Aporia; franc. Aporie; ted. Aporie). Questo termine viene usato nel senso di dubbio razionale cioè di difficoltà inerente a un ragionamento e non di stato soggettivo di incer- tezza. Essa è perciò il dubbio oggettivo, l’effettiva difficoltà di un ragionamento o della conclusione cui un ragionamento mette capo. Per es., « Le A. di Zenone d’Elea sul movimento », « Le A. dell’in- finito », ecc. A POSTERIORI. V. A PRIORI. APPARENZA (gr. tò qparvuevov; lat. Ap- parentia; ingl. Appearance; franc. Apparence; te- desco Erscheinung). Questo termine ha avuto nella storia della filosofia due significati simmetricamente opposti. Esso è stato inteso: 1° come nascondimento della realtà; 2° come manifestazione o rivelazione della realtà stessa. Secondo il significato 1°, l’A. vela od oscura la realtà delle cose sicchè questa non si può conoscere se non procedendo al di là dell’A. e prescindendo da essa. Secondo il signi- ficato 2°, l’A. è ciò che manifesta o rivela la realtà stessa, sicchè questa trova nell’A. la sua veriA. e realtà fu per la prima volta stabilito in modo netto e tagliente da Parmenide d’Elea che contrappose «la via della verità e della persuasione », che ha per oggetto l’essere, la sua unità, inevitabilità e necessità, alla «via dell’opi- nione» che ha per oggetto il non essere, cioè il mondo sensibile nel suo divenire. Ma il mondo dell’opinione e il mondo dell’A. coincidono, se- condo Parmenide: « Anche questo imparerai: come siano verosimilmente le cose apparenti per chi le esamini in tutto e per tutto» (Fr. 1, 31, Diels). La stessa coincidenza tra A. e opinione, opinione e sensazione è presupposta da Platone, che inter- preta il principio protagoreo dell’homomensura come se significasse « quali le cose appaiono a me tali sono per me» e pertanto come se identificasse conoscenza e sensazione (7eef., 152 a). D'altra parte il mondo dell'opinione è, secondo la Re- pubblica, il mondo sensibile diviso nei suoi due segmenti delle ombre e imagini riflesse, e delle cose e degli esseri viventi (Rep., VI, 510). Di questo mondo delle A. sensibili non si può avere, secondo Platone, che conoscenza verosimile o probabile, data la sua natura incerta e sfuggente: conoscenza che differisce non di grado ma di qualità dalla conoscenza scientifica o razionale che ha per og- getto l’essere (7irm., 29). Lo stesso Platone tuttavia affermando che l’oggetto dell’opinione sta all’og- getto della conoscenza come l’imagine sta al modello (Rep., VI, 510a), ammise un rapporto di somi- glianza o di corrispondenza tra A. e realtà. Ma il passo decisivo fu fatto da Aristotele che riconobbe la neutralità dell’A. sensibile: questa, sia come sen- sazione, sia come imagine può essere tanto vera che falsa. Certamente hanno torto coloro che ri- tengono che è vero tutto ciò che appare giacchè questi dovrebbero ammettere anche la realtà dei sogni; e, rispetto al futuro, non potrebbero stabi- lire alcuna differenza tra il parere dell’esperto (per es., del medico che fa la prognosi) e il parere dell’ignorante (Mer., IV, 5, 1010 b 1 sgg.). L'A. non contiene quindi nessuna garanzia di verità e solo il giudizio intellettuale su di essa può certi- ficarla o confutarla. Ma d’altronde essa è il punto di partenza della stessa ricerca scientifica la quale, come è chiarito da ciò che i matematici fanno ril’intero mondo sensibile come l’A., cioè la manifestazione, del mondo intellegibile, e quest’ultimo come l’A. o l’imagine di Dio stesso: pensiero che sarà ereditato da Scoto Eriugena: « Tutto ciò che s’intende e si sente non è altro che l’apparizione dell’apparente, la manifestazione dell’occulto (De divis. nat., III, 4)». Da questo punto di vista «il mondo è una teofania, ogni opera della creazione manifesta l’es- senza di Dio che perciò diventa apparente e visibile in essa e per essa » (/bid., I, 10; V, 23). Lungo l’una o l’altra di queste due vie procede quella che si potrebbe chiamare la rivalutazione dell’A. del mondo moderno. Lungo la prima pro- cede quella che si potrebbe chiamare la rivaluta- zione empiristica. Già nella Scolastica del °300, Pietro Aureolo partendo dalla negazione di ogni realtà universale e nell’intento di eliminare la species come intermediaria della conoscenza intellettuale, affermava che « le cose stesse sono viste dalla mente e ciò che si vede non è una qualche forma specu- lare ma è la cosa stessa nel suo essere apparente (esse apparens) e questo essere apparente è ciò che chiamiamo concetto o rappresentazione oggettiva » (In Sent., I, d. 9, a. 1). La distinzione tra il senso e l’intelletto non dipende perciò dalla natura del- l'oggetto appreso ma dal modo di apprendere. Al senso e all’imaginazione le cose appaiono sotto le condizioni della quantità mentre l’intelletto astrae da ciò che è quantitativo e materiale (/bid., I, d. 35, a. 1). Ma è solo nel mondo moderno, a partassunta come punto di partenza dell'indagine che concerne le cose non create dal- l’uomo (al modo in cui le definizioni sono il punto di partenza per l'indagine delle cose create dal- l’uomo, cioè degli enti matematici e politici). Con queste parole di Hobbes era posto il fondamento dell’empirismo moderno. Esso, mentre sottolineava il carattere relativo e soggettivo delle A. sensibili, le assunse come l’unico fondamento della cono- scenza umana. Locke osserva che se i nostri sensi venissero modificati e resi più pronti cd acuti, l’A. delle cose muterebbe completamente; ma con ciò essa diverrebbe anche incompatibile con l’essere nostro o almeno con i bisogni della nostra vita (Saggio, II, 23, 12). «A. sensibili» sono le idee di cui parla Berkeley (Prinma Kant, che i corpi paiano semplicemente esseri esterni o che l’anima mia paia semplicemente data nella mia autocoscienza, quando affermo che le qualità dello spazio e del tempo, secondo le quali, come condi- zione della loro esistenza, pongo quelli e questa, sono nel mio modo di intuire e non in questi og- getti. Sarebbe un errore il mio, se facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come feno- meno » (Crif. R. Pura, Estetica trascendentale, Os- servazioni gen., 3). L'affermazione: «I sensi ci rappresentano gli oggetti come appaiono, l’intelletto come sono» viene interpretata da Kant nel senso che l’intelletto rappresenta gli oggetti nella connes- sione universale dei fenomeni (il che non dice che essi siano indipendenti dalla relazione con l’espe- rienza possibile e quindi dalle « A. sensibili +) (/bid., Analitica dei princìpi, cap. III). L’A. fenomenica è dunque chiamata tale solo per sottolinearne le connessioni con le condizioni soggettive del cono- scere e per distinguerla dall’ipotetica conoscenza noumenica in modo da poterne chiaramente sta- bilire i limiti (v. FENOMENO). Dall’altro lato la stessa negazione del carattere ingannevole dell’A., è stata utilizzata, nella filosofia moderna, per ribadire il carattere assoluto della conoscenza umana. Così Hegel vede nell’A. feno- menica l’essenza stessa. A. ed essenza non si op- pongono ma s’identificano: l’A. non è che l'essenza che esiste nella sua immediatezza. « L’apparire, egli dice, è la determinazione per mezzo di cui l’essenza non è essere ma essenza; e l’apparire sviluppato è 60 APPERCEZIONE il fenomeno. L’essenza non è perciò dietro o di là del fenomeno; ma, perciò appunto che l’essenza è quel che esiste, l’esistenza è il fenomeno + (Enc., $ 131). Vero è che come determinazione « imme- diata », l’A. è destinata, secondo Hegel, ad essere assorbita o superata da altre determinazioni, ri- flesse o mediate, nello sviluppo dialettico dell’Idea assoluta; ma è pur vero che l’intera dottrina di Hegel è sorretta dal pensiero che non c’è realtà così recondita che in qualche modo non si mani- festi ed appaia. Nella filosofia contemporanea questo punto di vista ha trovato la sua migliore espres- sione per opera di Heidegger. « Quale significato dell’espressione ‘fenomeno * è quindi da tener ben fermo il seguente: ciò che si manifesta in se stesso, il rivelato... Questo manifestarsi lo definiamo come apparire (Scheinen). Anche in greco l’espressione phainomenon, ha questo significato: ciò che ha l’aspetto di apparente, A. ... Soltanto perchè qual- cosa, in virtù del suo senso, pretende in generale di manifestarsi, cioè di essere fenomeno, è possibile che essa si manifesti come qualcosa che non è, cioè abbia l’aspetto di... Noi riserviamo al termine ‘ fenomeno * il significato positivo e originario di phainomenon e distinguiamo fenomeno da A., con- siderando quest’ultima come una modificazione privativa di fenomeno» (Sein und Zeit, $ 7A). Questo tuttavia non vuol dire che la filosofia con- temporanea ha identificato l’essere con l’apparenza. Essa ha piuttosto riproposto in nuova forma il problema del loro rapporto passando a considerare questo rapporto in forma oggettiva od ontologica cioè senza riferimento ad una qualsiasi soggettiva- zione idealistica. Non è senza ragione che l’ultima opera importante nella quale sia stato dibattuto nella forma tradizionale il problema del rapporto tra apparenza e realtà appartiene a un idealista: F. H. Bradley (A. e Realtà, 1893). Soprattutto per l’influenza dell’impostazione fenomenologica (vedi FeNoMENOLOGIA) la considerazione del rapporto tra l’apparire e l’essere è stata sottratta completamente sia al dualismo tra questi due termini sia agli altri dualismi coi quali veniva di solito interpretata, come quello tra sensazione e pensiero, soggettività e oggettività, ecc. L’intero rapporto si colloca sul piano oggettivo delle esperienze diverse o dei gradi diversi di esperienza. Un filosofo che fonda le sue costruzioni su un gruppo di esperienze o su un dato tipo di realtà, che perciò in qualche modo privilegia e considera fondamentale, è portato a valutare meno reali o significanti e in qualche modo semplicemente « apparenti » le altre forme di espe- rienza o gli altri tipi di realtà. E, per es., chi privilegia l’esperienza interiore o coscienza, è portato a con- siderare come meno significante o in qualche modo solo « apparente » l’esperienza esterna o sensibile; o reciprocamente. Ma in ogni caso anche ciò che si dichiara apparente viene assunto come A. di qualche cosa; perciò dotata, già come A., di un suo grado o misura di realtà. Sicchè la relazione tra realtà e A. viene a configurarsi come relazione tra realtà e imagine o realtà e simbolo e, in ogni caso, tra due gradi o determinazioni oggettive. APPERCEZIONE (ingl. Apperception; fran- cese Apperception; ted. Apperzeption). Il significato specifico di questa parola è stato per la prima volta chiarito da Leibniz come consapevolezza delle proprie percezioni. Dice Leibniz: « La percezione della luce o del colore, per es., di cui abbiamo l’A., è com- posta di molte piccole percezioni di cui non ab- biamo l’A.; e un rumore che noi percepiamo ma a cui non facciamo attenzione diviene appercepibile se subisce un piccolo aumento » (Nouv. Ess., II, 9, 4). Mentre le percezioni appartengono anche agli anl’Idealismo romantico (v. IDEALISMO; Io). In senso psicologico-metafisico, il concetto di A. fu pure inteso da Maine de Biran che chiamò «A. interna immediata » la coscienza che l’io ha di se stesso come « causa produttrice » nell’atto di distinguersi dall’effetto sensibile che la sua azione determina ((Euvres inédites, ed. Naville, I, pag. 9; III, pag. 409-10). Un nuovo concetto dell’A. fu dato da Herbart come fondamento per intendere il meccanismo della vita rappresentativa. L'A. fu intesa da Herbart come il rapporto tra masse diverse di rappresen- tazioni il quale fa sì che una massa si appropri dell’altra al modo stesso in cui le nuove percezioni del senso esterno vengono accolte ed elaborate dalle rappresentazioni omogenee più vecchie. Questo fe- nomeno per cui una massa rappresentativa, detta appercipiente, accoglie ed assimila a sè una o più rappresentazioni omogenee, dette appercepite, è il fenomeno dell’A., che Herbart identificò col senso interno (Psychol. als Wissenschaft, II, $ 125). Questa nozione fu molto adoperata nella psicologia e nella pedagogia dell’800 soprattutto per chiarire il fe- nomeno dell’apprendimento e per riconoscere le condizioni psicologiche che lo facilitano. Sul ca- rattere attivo dell'A. come l’atto per il quale un contenuto psichico viene portato ad una più chiara comprensione, insistè Wundt che parlò anche di una « psicologia dell’A.» che avrebbe dovuto con- trapporsi alla dominante psicologia associazionistica appunto per il maggiore rilievo riconosciuto alla attivitche è difficile (cfr. S. Tommaso, S. 7h., q. I, 81, a. 2). Queste notazioni sono rimaste pressocchè immu- tate per secoli. Hobbes dice che l’A. e la fuga dif- feriscono dal piacere e dal dolore come il futuro differisce dal presente: sono esse stesse piacere e dolore ma non presenti, bensì previsti o aspet- tati (De hom., 11, 1). Spinoza connette l’appetito con lo sforzo (conatus) della mente di perseverare nel proprio essere per una durata infinita: « Questo sforzo, egli dice, si chiama volontà quando si at- tribuisce alla sola mente, si chiama appetito quando si riferisce insieme alla mente e al corpo; l’appetito, perciò, è l’essenza stessa dell’uomo, dalla cui na- tura derivano necessariamente le cose che servono 62 APPRENDIMENTO alla sua conservazione e che perciò è destinato a compiere » (Er., III, 9, Scol.). Leibniz vide nell’A. l’azione del principio interno della monade che opera il mutamento o il passaggio da una perce- zione all'altra (Monad., $ 15). Kant definì l’A. come «la determinazione spontanea della forza propria di un soggetto, che avviene per mezzo della rap- presentazione di una cosa futura considerata come effetto della forza medesima » (Antr., $ 73). L’A. costituisce perciò quella che, nella Critica della Ragion Pratica, egli chiama «facoltà di deside- rare inferiore» la quale presuppone sempre, come suo motivo determinante, un oggetto empirico: a differenza della facoltà di desiderare « superiore » che è determinata dalla semplice rappresentazione della legge (Cri. R. Pratica, libro I, cap. I, $ 3, Scol. I). Nella filosofia moderna e contemporanea il ter- mine A. è caduto in disuso ed è stato sostituito da altri come « tendenza » o « volontà », ai quali ven- gono talora riferite le determinazioni che la filo- sofia antica aveva attribuite all’appetizione. APPRENDIMENTO (gr. pd@nas; ingl. Learning; franc. Apprendre; ted. Erlernung). L’acqui- sizione di una tecnica qualsiasi, simbolica, emotiva o di comportamento: cioè un mutamento nelle ri- sposte di un organismo all’ambiente che migliori tali risposte ai fini della conservazione e dello svi- luppo dell’organismo stesso. Tale è il concetto che la psicologia moderna dà dell’A., pur nella varietà delle teorie che presenta. Questo concetto d'altronde non è che la generalizzazione di una nozione antichissima dell’A., considerato come forma di associazione. Fu Platone il primo a il- lustrare questa nozione con la sua teoria della anamnesi: « Tutta la natura essendo congenita, egli diceva, ed avendo l’anima appreso tutto, nulla im- pedisce che chi si ricorda di una sola cosa — che è quello che si chiama apprendimento — trovi da sè tutto il resto se abbia costanza e non desista dalla ricerca, perchè il ricercare e l’apprendere non son altro che reminiscenza » (Men., 81d). L’A. è perciò secondo Platone dovuto all’associazione delle cose tra loro per cui l’anima può, dopo aver af- ferrato una cosa, afferrare anche l’altra che è legata con essa. Non sostanzialmente diversa da questa fu la teoria avanzata da Herbart, secondo la quale l’A. di premio e punizione. Le prime reazioni ad una situazione problematica sono date a caso. Quando una di queste reazioni ha suc- cesso, essa viene scelta nelle prove successive, riu- scendo infine ad eliminare le altre. Thorndike ha formulato a questo proposito la cosiddetta /egge dell’effetto secondo la quale la risposta a uno sti- molo è rafforzata, se è seguita da un premio. Se- condo lo stesso Thorndike, questi due fattori, la ripetizione della reazione indovinata e il premio, bastano a spiegare tutti i processi dell’A. e quindi l’intera condotta dell’uomo (cfr. Animal Intelli- gence: Experimental Studies, 1911; The Psychology of Wants, Interests and Attitudes, 1935, spec. pa- gina 24). Più recentemente le stesse idee sono state generalizzate da Hull che ha insistito sui moventi dell’A., scorgendovi uno stato di bisogno. Uno sti- molo condizionato può rimanere attaccato ad una risposta che lo segue solo se questa produce una diminuzione del bisogno (Principles of Behavior, 1943). Se questa dottrina sia sufficiente a spiegare l’A. umano, è cosa su cui gli psicologi non sono d’ac- cordo (cfr. la discussione relativa in E. R. HILGARD, Theories of Learning, 1948). Il dubbio concerne il problema se l’A. consista semplicemente nel dare risposte indovinate o se esso implichi anche la scelta intelligente di tali risposte in base a deter- minati perchè. Sembra difficile escludere dal pro- cesso umano dell’A. le scelte intelligenti guidate dalle relazioni espresse dai segni « se», « ma», «come», «non di meno», ecc. Da questo punto di vista il fatto che l’uomo intenda la relazione tra i segni e le risposte è un elemento dell’A., non riducibile alla pura legge dell'effetto (cfr. M. WERTHEIMER, Productive Thinking, 1945). APPRENSIONE (lat. Apprehensio; ingl. Ap- prehension; franc. Appréhension; ted. Apprehenzion). Termine introdotto dalla Scolastica del ’300 per designare l’atto con cui si apprende o si assume come oggetto un termine qualsiasi (concetto, pro- posizione o qualità sensibile), in quanto distinto dall’assenso (v.) con cui propriamente si giudica di esso e cioè lo si afferma o lo si nega. Ockham dice: « Fra gli atti dell’intelletto, uno è quello apprensivo che si riferisce a tutto ciò cui mette capo l’atto della potenza intellettiva, l’altro si può dire giu- dicativo giacchè con esso l'intelletto non soltanto apprende l’oggetto, ma anche assentisce ad esso o A PRIORI, A POSTERIORI 63 ne dissente » (/n Sent., Prol., q. 1, O). L’atto ap- prensivo può consistere sia nella formazione di una proposizione sia nella conoscenza di un complesso già formato (Quodl., V, q. 6). La parola viene anche adoperata da Wolff (Log., $ 33) e Kant se ne avvalse nella prima edizione della Critica della Ragion Pura (Deduzione dei concetti puri dell’in- telletto) parlando di una « sintesi dell’A. » che con- sisterebbe nel raccogliere il molteplice della rap- presentazione in modo che da esso sorga «l’unità dell’intuizione ». Talvolta, nell’uso moderno, A. viene contrapposta a comprensione come cono- scenza primitiva o semplice che non cobi in poi, la filosofia araba aveva formulato la distinzione tra la dimostrazione propter quid e la dimostrazione quia, che da Alberto di Sassonia furono poi chiamate rispettivamente di- mostrazioni @ priori e dimostrazioni a posteriori. «La dimostrazione è duplice, dice Alberto; una è quella che procede dalle cause all'effetto e si chiama dimostrazione a priori o dimostrazione propter quid o dimostrazione perfetta, e questa dimostrazione fa conoscere la ragione per cui l’effetto è. L’altra è la dimostrazione che procede dagli effetti alle cause e si chiama dimostrazione a posteriori o di- mostrazione quia o dimostrazione non perfetta, e questa dimostrazione ci fa conoscere le cause per le quali l’effetto è » (In An. Post., I, q. 9). I due termini vengono adoperati per tutta la Scolastica e fino al sec. xvi appunto in questo senso, per indicare due specie di dimostrazione. 2° A partire dal sec. xvi, per opera di Locke e dell’empirismo inglese, i due termini acquistano un significato più generale passando a designare, l’a priori, le conoscenze raggiungibili mediante l’eser- cizio della pura ragione e l’a posteriori, invece quelle raggiungibili con l’esperienza. Hume e Leibniz sono d’accordo nel contrapporre, in questo senso, a priori e a posteriori. Dice Hume: « Oso affermare, come proposizione generale che non ammette ecce- zione, che la conoscenza della relazione di causa ed effetto non è, in nessun caso, raggiunta, ragio- nando a priori, ma sorge interamente dall’esperienza quando noi troviamo che certi particolari oggetti sono costantemente uniti con altri» (Zng. Conc. Underst., IV, 1). E Leibniz contrappone costan- temente il «conoscere a priori» e il « conoscere per esperienza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 15; Monad., $ 76); «la filosofia sperimentale che procede a po- steriori» e la «pura ragione» che «giustifica @ priori » (Op., ed. Erdmann, pag. 778 b). Wolff espri- meva con la sua solita chiarezza l’uso dominante ai suoi tempi dicendo: « Ciò che apprendiamo con l’esperienza, diciamo di conoscerlo a posteriori; ciò che ci è noto col ragionamento diciamo di co- noscerlo a priori » (Psychol. emp., $$ 5, 434 sgg.). La nozione kantiana dell’a priori, come cono- scenza indipendente dall’esperienza, ma non pre- cedente (nel senso cronologico) l’esperiecostituisce non un campo o dominio a parte di conoscenze ma la condizione di ogni conoscenza oggettiva. L’a priori è la forma della conoscenza, come l’a posteriori è il contenuto. Sull’a priori si fondano le conoscenze della matematica e della fisica pura; ma l’a priori di per se stesso non è conoscenza ma la funzione che condiziona universalmente ogni co- noscenza, sia sensibile che intellettuale. I giudizi sintetici a priori sono infatti possibili in virtù delle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto. L'a priori è per Kant l’elemento formale cioè in- sieme condizionante e fondante di tutti i gradi della conoscenza; e non solo della conoscenza, giacchè anche nel dominio della volontà e del sen- timento sussistono elementi a priori, come dimo- strano la Critica della Ragion Pratica e la Critica del giudizio. La nozione kantiana dell’a priori è stata assunta o presupposta da buona parte della filosofia moderna. L’Idealismo romantico la cor- resse nel senso di ammettere che l’intero sapere è a priori, cioè interamente prodotto dall'attività produttiva dell’Io. Così pensarono Fichte e Schel- ling. Hegel ritenne che il pensiero è essenzialmente la negazione di un esistente immediato, quindi di tutto ciò che è a posteriori o fondato nell’espe- rienza. L°a priori è invece la riflessione e la me- diazione dell’immediatezza, cioè l'universalità, lo «starsene del pensiero in se stesso» (Enc., $ 12). Più frequentemente, nella filosofia moderna, l’a priori conserva il significato kantiano. E a tale si- sono i seguenti: 1° La nozione di Dio come dell’Essere neces- sario, cioè tale che non può non esistere, e del mondo come derivante da Dio la sua propria ne- cessità. In quanto prodotti da una Causa prima necessaria, tutti gli eventi del mondo sono a loro volta necessari. Gli Arabi ammettono una inin- terrotta catena causale che va da Dio, come Primo Motore, alle Intelligenze celesti e ai cieli, infine agli avvenimenti terrestri e all'uomo. Essi giustificano perciò l’astrologia, spiegandone le deficienze con l’imperfetto grado di osservazione. 2° La dottrina dell’intelletto agente o attivo come una sostanza di natura divina, separata dal- l’anima umana: dottrina che Averroè modificò nel senso di ritenere separato dall’uomo e divino anche l'intelletto passivo o potenziale che Ai Kindi e Alfarabi ritenevano propri dell’uomo. All’uomo appartiene, secondo Averroè, soltanto una specie di riproduzione o d’imagine del vero intelletto. L'unico intelletto divino si moltiplica nelle varie anime umane come la luce del sole si moltiplica distri- buendosi sui vari oggetti che illumina. Questa dot- trina, che metteva in dubbio l’immortalità dell’anima umana, in quanto separava da essa e attribuiva a Dio la sua parte più alta e immateriale, venne chia- mata dottrina dell’unità dell’intelletto. ARCHEUS 65 3° La tendenza propria dell’aristotelismo e in particolare di Averroè a porre la filosofia al di sopra della religione, attribuendole il fine della con- templazione e riservando alla religione il dominio dell'azionein quanto accompagna la massima fioritura del- l’Impero arabo nel Mediterraneo, ha avuto notevole influenza sulla Scolastica latina. In primo luogo, essa ha fornito a tale Scolastica buona parte del suo materiale; che le è pervenuto attraverso le traduzioni latine delle traduzioni arabe delle tra- duzioni siriache delle opere di autori greci. In se- condo luogo, essa le ha offerto un costante punto di riferimento polemico, portandola ad organiz- zarsi come filosofia della libertà di fronte alla filosofia della necessità del mondo musulmano. L’aristotelismo stesso, al suo primo comparire nel mondo occidentale, fu identificato con la sua in- terpretazione A.; e solo per opera di Alberto Magno e di S. Tommaso fu poi adattato alle esigenze della Scolastica cristiana (v. SCOLASTICA). ARAZIONALE (gr. &oyoc; lat. Alogus; in- glese Arational; franc. Alogique; ted. Alogisch). Ciò che è privo di ragione o non si può esprimere o spiegare razionalmente: lo stesso che irrazionale. Questo è l’uso classico del termine (PLATONE, Gorg., SOl a; Conv., 202a; Teet., 205e; Sof., 238 c, ecc.; ARIST., Et. Nic., X, 2, 1172 b 10). Il termine greco (come quello latino) serve anche a designare le grandezze incommensurabili che noi chiamiamo irrazionali (ARIST., An. Post., I, 10, 76b 9; EUCLIDE, Z/., X, def. 10, ecc.). L’uso moderno ha tentato, raramente e senza successo, di distinguere A. da irrazionale. ARBITRIO (lat. Arbitrium, ingl. Free Will; fran- cese Arbitre; ted. Willkur). Il principio dell’azione negli animali e nell’uomo. A. è perciò termine più generale di volontà (v.) la quale può essere attri- buita solo all'uomo. Dice Kant: « È A. semplice- mente animale (arbitrium brutum) quello che non può essere determinato se non da stimoli sensibili 8 — ABBAGNANO, Dizionurio di filosofia. ossia patologicamente. Ma quello che è indipen- dente da stimoli sensibili, e quindi può essere de- terminato da motivi che non sono rappresentati se non dalla ragione, dicesi libero A. (arbitrium liberum) e tutto ciò che vi si connette o come prin- cipio o come conseguenza è detto pratico » (Critica KR. Pura, Dottr. trascendentale del metodo; Il ca- none della R. Pura, sez. I). L’A. implica così una possibilità di scelta, che tuttavia non è ancora libertà. Per libero A. v. LIBERTÀ. di manifestazioni del passato e le proietta come possibilità per l’avvenire. La storia A. considera invece ciò che è stata nel passato la vita di ogni giorno e radica in essa la mediocrità del presente. La storia critica serve invece a rom- rla col passato, a rinnovarsi (v. STORIA). ARCHETIPO (lat. Archetypus; ingl. Arche- type; ted. Archetyp, Urbild). Il modello o l’esem- plare originario o l’originale di una serie qualsiasi. A. sono state dette le idee platoniche in quanto modelli delle cose sensibili e, più frequentemente, le idee esistenti nella mente di Dio, come modelli delle cose create (PLOTINO, Enn., V, 1, 4; PROCLO, in Rep., II, 296). Ma Locke (Saggio, II, 31, $ 1) adoperò la parola A. per dire soltanto modello: « Chiamo adeguate le idee che rappresentano per- fettamente gli A. da cui la mente suppone siano state tratte, che essa intende siano rappresentate da quelle idee e cui essa le riferisce». A., in questo caso, sono le forze naturali, le idee sem- plici o le idee complesse che si assumono come modelli per misurare l’adeguatezza delle altre idee (v. EcTIPO). ARCHEUS. Secondo Teofrasto Paracelso, è la forza che muove gli elementi, cioè lo spirito ani- matore della natura. Come tutte le cose sono com- poste di tre elementi (zolfo, sale, mercurio), così tutte le forze che le animano sono costituite dai loro arcani, cioè dall’attività incosciente dell'A. (Meteor., pag. 79 sgg.). 66 ARCHITETTONICA ARCHITETTONICA (gr. dpyitextovii) TEX; ingl. Architectonics; franc. Architectonique; ted. Ar- chitektonik). In generale l’arte di costruire in quanto suppone la capacità di subordinare i mezzi al fine e il fine meno importante a quello più importante. In questo senso la parola è usata da Aristotele (Et. Nic., I, 1, 1094 a 26) il quale parla anche (Et. Eud., I, 6, 1217 a) di una «intelligenza A. e pratica » cioè costruttiva e operativa. La parola fu usata per la prima volta come nome di una disci- plina filosofica da Lambert che intitolò ad essa una sua opera (Architettonica, 1771) e la intese come «la teoria degli elementi semplici e primitivi nella conoscenza filosofica e matematica ». Kant riprese la parola per indicare «l’arte del sistema » al quale dedicò un capitolo (il III) nella seconda parte principale della Critica della Ragion Pura. Come sisGOMENTO (gr. 2606; lat. Argumentum; ingl. Argument; franc. Argument; ted. Argument). 1. In un primo significato, A. è qualsiasi ragione, prova, dimostrazione, indizio, motivo, che sia adatto a captare l’assenso e a indurre persuasione o con- vinzione. A. comuni o tipici o schemi di A. sono i luoghi (rérrot, loci) che costituiscono l’oggetto dei Topici di Aristotele. Cicerone infatti definiva i luoghi come le sedi dalle quali provengono gli A. i quali sono « le ragioni che fanno fede di una cosa dubbia » (Top., 2, 7). Il significato generalissimo della pa- rola A. risulta chiaro anche nella definizione di S. Tommaso: «A. è ciò che convince (arguit) la mente ad assentire a qualcosa» (De ver., q. 14, a. 2, ob. 14); e in quella di Pietro Ispano che ri- prendcui il discorso verte o può vertere. A questo secondo significato del termine si riconnette l’uso di esso nella logica e nella matematica per indicare i valori delle va- riabili indipendenti di una funzione. A. è in questo senso ciò che riempie lo spazio vuoto di una fun- zione o ciò a cui la funzione deve essere applicata perchè abbia un valore determinato. La parola è stata per la prima volta usata in questo senso da G. Frege, Funktion und Begriff, 1891 (v. FUNZIONE). ARISTOCRAZIA. V. Governo, FORME DI. ARISTOTELISMO (ingl. Aristotelianism; fran- cese Aristotélisme; ted. Aristorelismus). Con questo termine s'intendono alcuni capisaldi della dottrina di Aristotele che sono passati nella tradizione filo- sofica o hanno ispirato le scuole o i movimenti che più direttamente si rifanno ad Aristotele stesso, come la Scuola peripatetica, l’A. arabo, l’A. cri- stiano medievale, l’A. del Rinascimento e varie altre tendenze del mondo medievale e moderno. Tali capisaldi possono essere riassunti nel modo seguente: 1° L'importanza accordata da Aristotele al mondo della natura e il valore e la dignità delle indagini ad esso dirette. Mentre Platone pensava che tali indagini non possono raggiungere che un certo grado di probabilità assai inferiore alla co- noscenza scientifica (Tim., 29 c), Aristotele ritenne che non c’è nella natura nulla di così insignificante che non valga la pena di essere studiato, dato che, in ogni caso, il vero oggetto dell’indagine è la sostanza delle cose (v. SOSTANZA). 2° Il concetto della metafisica come filosofia prima e teoria della sostanza e come fondamento della intera enciclopedia delle scienze (v. METAFISICA). 3° La dottrina delle quattro cause (formale, materiale, efficiente, finale) e quella del movimento, come passaggio dalla porenza all’atto, che con- sentirono ad Aristotele l’interpretazione della intera realtà naturale (v. le voci corrispondenti). 4° La teologia con il suo concetto di Primo Motore e di Atto puro (v. Dio). 5° La dottrina dell’essenza sostanziale o ne- cessaria, posta a base della teoria della conoscenza e della logica (v. ANIMA; ESSENZA; ESSERE). 6° L'importanza attribuita alla logica, di cui Aristotele è il primo espositore sistematico, come ARTE 67 strumento di ogni conoscenza scientifica (v. Con- CETTO; LOGICA; SILLOGISMO; TOPICA; ecc.). Le varie correnti dell’A. si sono rifatte, abitual- mente, soltanto ad alcuni di questi capisaldi e ciò spiega perchè l’A. è talora apparso come una metafisica teologica (nella Scolastica medievale) ta- lora come naturalismo (nel Rinascimento) e talaltra come spiritualismo (in alcune interpretazioni mo- derne, per es., quelle di Ravaisson e Brentano). ARITMETICA (ingl. Arithmetic; franc. Ari- thmétique; ted. Arithmetik). La teoria matematica dei numeri naturali, cioè dei numeri interi positivi. S’intendono comunemente per leggi dell’A. le se- guenti proposizioni o regole: lo a+b=b+a (legge commutativa dell’ad- dizione); 2° ab = ba (legge commutativa della molti- plicazione); 3° a+(b+0=(a+td5)+c (legge associa- tiva dell’addizione); 4° a (bc) = (ab)c (legge associativa della mol- tiplicazione); 5° a(b + c) = ab + ac (legge distributiva). La formalizzazione dell’A. cioè la riduzione del- l’A. ad un sistema logico fondata su pochi assiomi è stata effettuata per la prima volta da Peano che si avvalse di alcuni concetti di Dedekind. Peano presuppose come nozioni primitive quella di zero, quella di insieme di numeri naturali e quella di suc- cessione espressa con l’espressione i/ successivo di. Egli fece vedere come tutte le proposizioni dell’A. si lasciassero derivare dai cinque assiomi seguenti: 1° 0 è un numero naturale; 2° se x è un numero naturale, il numero suc- cessivo è anche un numero naturale; 3° se x e y sono numeri naturali e se il suc- cessivo di x è identico al successivo di y, allora x e y sono identici; 4° se x è un numero naturale, il numero suc- cessivo di x è differente da 0; 5° se 0 appartiene a un insieme a e se il succes» sivo di un numero naturale qualunque appartiene anche a questo insieme, l'insieme dei numeri naturali è una parte di a. Con l’espressione aritmetizzazione della matema- tica s'intende talora l’esigenza che si affacciò verso la metà dell’800, nel campo delle matematiche, ad opera soprattutto di Weierstrass, di dare unità e rigore logico all’analisi matematica, fondandola sopra una teoria dei numeri reali. Questa teoria fu poi sviluppata da Giorgio Cantor (1845-1918) e Riccardo Dedekind (1831-1916). Cfr. le memorie di logica matematica di Peano ora raccolte in Opere Scelte, Roma, 1958. Cfr. pure B. RusseLL, /Introduction to Mathematical Philo- sophy, 1918 (v. MATEMATICA: NUMERO). ARMONIA (gr. dpuovia; lat. Yarmonia; inglese Harmony; franc. Harmonie; ted. Harmonie). L’or- dine o la disposizione finalisticamente organizzata delle parti di un tutto, per es., del mondo, o dell’anima, la quale fu detta « A.» dai Pitagorici in quanto proporzione o mescolanza degli elementi corporei (cfr. PLAT., Fed., 86 c). Empedocle si av- valse del concetto per definire la natura dello sfero (Fr. 122, Diels). Il termine è stato usato da Leibniz nell’espressione A. prestabilita per designare un par- ticolare sistema di comunicazione tra le sostanze spi- rituali (monadi) che compongono il mondo. Leibniz ritiene che tali sostanze non possono influenzarsi re- ciprocamente essendo ognuna « chiusa in se stessa » e perciò esclude la dottrina comunemente ammessa della influenza reciproca. Esclude pure la dottrina che egli chiama della assistenza e che è propria del sistema delle cause occasionali di Guelingx e Malebranche secondo il quale la comunicazione tra le varie monadi sarebbe stabilita di volta in volta direttamente da Dio. L’A. prestabilita è la dottrina secondo la quale le varie monadi, come tanti oro- logi costruiti perfettamente, sono sempre tra loro d’accordo, pur seguendo ognuna la propria legge. Così l’anima e il corpo vivono ognuno per proprio conto e tuttavia d’accordo perchè Dio ha coordi- nato le leggi dell’uno e dell’altra. Il corpo segue la legge meccanica, l’anima segue la propria spon- taneità: l’A. tra essi è stata predisposta da Dio all’atto della creazione (Phil. Schriften, ed. Ger- hardt, IV, pag. 500 sgg.). Il termine ricorre frequentemente nello spiritua- lismo, specialmente in Ravaisson. Si è avvalso di esso Whitehead per spiegare la bellezza, la verità, il bene nonchè la libertà e la pace e tutta «la grande avventura cosmica ». «La grande A., egli dice (Adventures of Ideas, pag. 362), è l’A. di individua- lità durature connesse nell’unità del fondamento. È per questa ragione che la nozione di libertà non ab- bandona mai le civiltà più alte; la libertà in ognuno dei suoi molti sensi è l’esigenza di una vigorosa autoaffermazione ». ARS MAGNA V. COMBINATORIA, ARTE. ARTE (gr. teyxvà; lat. Ars; ingl. Ars; franc. Art; ted. Kunsto erworatuei) di cui la prima consiste sem- plicemente nel conoscere, la seconda nel dirigere, in base alla conoscenza, una determinata attività (Pol., 260 a, b; 292 c). In tal modo I’A. comprende per Platone ogni attività umana ordinata (com- presa la scienza) e si distingue nel suo complesso dalla natura (Rep., 381 a). — Aristotele restrinse notevolmente il concetto dell’arte. In primo luogo egli sottrae all’àmbito dell'A. la sfera della scienza, che è quella del necessario, cioè di ciò che non può essere diverso da com'è. In secondo luogo egli divide quel che cade fuori della scienza, cioè il possibile (che « può essere in un modo o nell’altro ») in ciò che appartiene all’azione e in ciò che appar- tiene alla produzione. Soltanto il possibile che è oggetto di produzione, è oggetto dell’arte. In questo senso si dice che l’architettura è un’A.; e l’A. si definisce come l’abito, accompagnato da ragione, di produrre qualcosa (Et. Nic., VI, 3-4). L’àm- bito dell’A. viene così a restringersi molto. Sono A. la retorica e la poetica, ma non è A. l’analitica (la logica) il cui oggetto è necessario. Sono A. quelle manuali o meccaniche, come è A. la medicina; mentre non è A. la fisica o la matematica. Questo è, almeno, il punto di vista di Aristotele maturo; giacchè le pagine con cui si apre la Metafisica sembrano invece stabilire una distinzione puramente di grado tra l’A. e la scienza, ponendo l’A. stessa come intermediaria tra l’esperienza e la scienza. Anche quelle pagine si concludono tuttavia con l’affermazione che la sapienza è piuttosto cono- scenza teoretica anzichè A. produttiva (Mer., I, 1, 982 a 1 sgg.). Questa distinzione aristotelica non fu però ereditata nel suo rigore dal mondo antico e medievale. Gli Stoici estesero di nuovo la nozione dell’A., affermando che « l’A. è un insieme di com- prensioni », intendendo per comprensione l’assenso od una rappresentazione comprensiva (Sesto E., Ip. Pirr., Ill, 241; Adv. dogm., V, 182); questa de- finizione non permette infatti di distinguere l’A. dalla scienza. E Plotino che fa invece questa di- stinzione perchè vuole conservare alla scienza il suo carattere contemplativo, distingue le A. in base al loro rapporto con la natura. Distingue pertanto l’architettura e le A. analoghe, che hanno il loro termine nella fabbricazione di un oggetto, da quelle che si limitano ad aiutare la natura come la medi- cina e l’agricoltura e dalle A. pratiche, come la reto- rica e la musica, che tendono ad agire sugli uomini, rendendoli migliori o peggiori (Enn., IV, 4, 31). A partire dal sec. 1 si chiamarono « A. liberali » (cioè degne dell’uomo libero) in contrasto con le A. manuali, nove discipline, alcune delle quali Ari- stotele avrebbe chiamate scienze e non arti. Queste discipline furono enumerate da Varrone: gramma- tica, retorica, logica, aritmetica, geometria, astro- nomia, musica, architettura e medicina. Più tardi, nel sec. v, Marciano Capella nelle Nozze di Mercurio e della filologia riduceva a sette le A. liberali (gram- matica, retorica, logica, aritmetica, geometria, astro- nomia e musica), eliminando quelle che gli parevano non necessarie ad un essere puramente spirituale {che non ha corpo) cioè l’architettura e la medi- cina e stabilendo così il curriculum di studi che doveva restare immutato per molti secoli (v. CuL- TURA). S. Tommaso stabiliva la distinzione tra A. liberali e A. servili sul fondamento che le prime sono dirette al lavoro della ragione, le seconde in- vece « ai lavori esercitati con il corpo, che sono in un certo modo servili, in quanto il corpo è sotto- messo servilmente all’anima e l’uomo è libero se- condo l’anima » (S. 7h., II, 1, q. 57, a. 3, ad 3). La parola A. rimase tuttavia a designare per lungo tempo non solo le A. liberali ma anche le A. mec- caniche, cioè i mestieri; come ancora accade oggi che intendiamo per A. o artigiano un mestiere o chi pratica un mestiere. Kant ha riassunto le ca- ratteristiche tradizionali del concetto quando ha distinto l’A. dalla natura da un lato, dalla scienza dall’altro; e ha distinto, nell’A. stessa, l'A. mec- canica e l’A. estetica. Su quest’ultimo punto egli dice: «Quando l’A., conformemente alla cono- scenza di un oggetto possibile, compie soltanto le operazioni necessarie per realizzarlo, essa è A. mec- canica; se invece ha per scopo immediato il senti- mento di piacere, è A. estetica. Questa è A. piacevole o A. bella. È piacevole quando il suo scopo è di far sl che il piacere si accompagni alle rappresen- tazioni in quanto semplici sensazioni; è bella quando il suo scopo è di accno strato geologico è perciò comunemente assunta dagli antropologi come segno della presenza dell’uomo nell’età corrispondente: e la natura e la com- plessità degli A. si assumono come base per distin- guere i tipi di cultura cui appartengono. L’A., per essere riconosciuto tale, deve manifestare l’inten- zione, preesistente alla sua costruzione, di utiliz- zarlo per uno scopo determinato: cioè costituire la realizzazione di un progetto (v.). ARTEFICE INTERNO. Così Giordano Bruno chiamò nel De /a causa, principio e uno l'intelletto universale, che è «l’intima più reale e propria facultà e parte potenziale de la anima del mondo +»: perchè « forma la materia e la figura da dentro ». ASCESI (gr. &oxna; ingl. Ascesis; franc. Ascèse; ted. Askese). La parola significa propriamente eser- cizio e originariamente indicò l’allenamento degli atleti e le loro regole di vita. Con i Pitagorici, i Cinici e gli Stoici, la parola si cominciò ad appli- care alla vita morale in quanto la realizzazione della virtù implica limitazione dei desideri e rinuncia. Il senso di rinuncia e di mortificazione divenne perciò prevalente; A. significò nel Medioevo la mortificazione della carne e la purificazione dai legami corporei. La rivolta contro l’ideale ascetico si iniziò col Rinascimento cioè con la rivalutazione degli aspetti corporei e sensibili dell’uomo. Kant considera l’ascetica morale come « l’esercizio fermo, coraggioso e ardito della virtù» e la contrappone all’A. monacale « che per timore superstizioso o per ipocrito orrore di sè usa mortificare e trascurare il proprio corpo »; e si castiga invece di pentirsi moralmente, cioè di prendere la risoluzione di cor- reggersi (Meraph. der Sitten, II, $ 53). Schopen- hauer ha dato un significato metafisico all’A. in cui ha visto «l'orrore dell’uomo per l’essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nòcciolo e l’essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore» (Die Welt, I, $ 68), e perciò il solo strumento di liberazione, di cui l’uomo disponga. ASCETISMO (ingl. Asceticism; franc. Ascé- tisme; ted. Asketismus). La pratica dell’ascesi. ASEITÀ (lat. Aseitas; ingl. Aseity; franc. Aséité; ted. Aseitàt). Qualità o carattere dell’essere che ha in se stesso la causa e il principio del proprio es- sere, cioè di Dio. Abalietà è la qualità contraria, cioè quella dell’essere che ha in un altro essere la sua causa. Vocaboli usati nella tarda Scola- stica. ASILLOGISTICO. V. ANAPODITTICO. ASINO DI BURIDANO (ingl. Buridan®s Ass; franc. Ane de Buridan; ted. Esel des Buridan). Gio- vanni Buridano maestro e rettore dell’Università di Parigi nella prima metà del xv secolo fu disce- polo di Ockham ed è importante per alcune os- servazioni che anticipano il principio d'inerzia della meccanica moderna (v. ImpETO). Il caso dell’A., il quale, messo in mezzo tra due fasci di fieno uguali morrebbe di fame prima di decidersi a mangiare l’uno o l’altro di essi, non si trova nelle sue opere. Se ne trovano però le premesse. Buridano ritiene infatti che la volontà segue necessariamente il giu- dizio dell’intelletto; per es., si decide per il bene maggiore, se l’intelletto lo giudica tale. Ma quando l’intelletto giudica uguali due beni, la volontà non può decidersi nè per l’uno nè per l’altro: la scelta non avviene (/n Eth., III, q. 1). Questo è proprio il caso dell’asino. Soltanto che Buridano ritiene che l’uomo può non morire di fame come l’A.: può difatti sospendere o impedire il giudizio dell’intel- letto (/bid., III, q. 4). L'origine del caso (per quanto non riferito all’A.) si trova in Aristotele: « Si dice che chi è molto assetato o affamato, se si trova a uguale distanza dal cibo e dalla bevanda, neces- sariamente rimane immobile dove si trova» (De Cael., II, 13, 295 b 33). E neanche Dante riferisce il caso all’A.: «Intra duo cibi, distanti e moventi — D’un modo, prima si morria di fame — Che liber uom l’un si recasse a’ denti» (Par., IV, 1-3). In realtà la discussione intorno al caso dell’A. di Buridano fu propria di un periodo (l’ultima Sco- lastica) nel quale si accentuò il carattere arbitrario della scelta volontaria e si intese la libertà dell’uomo come « arbitrio d’indifferenza » (v. LIBERTÀ). ASOMATICO (ingl. Asomatous; franc. Asoma- tique; ted. Asomatisch). Privo di corpo o disincar- nato. La condizione dell'anima dopo la sua sepa- razione dal corpo, o delle sostanze angeliche. ASPETTAZIONE (ingl. Expectation; francese Attente; ted. Erwartung). L’anticipazione di un av- venimento futuro (v. AvvENIRE). Una delle forme dell’attenzione o attenzione aspettansito egli dice: « L’intelletto può assentire ad una cosa in due modi. Nel primo modo, perchè è mosso ad assentire dallo stesso oggetto o perchè è cognito di per se stesso, come accade dei primi principi di cui abbiamo intelligenza, o perchè è conosciuto attraverso altro come accade delle con- clusioni di cui abbiamo scienza. Nel secondo modo, l'intelletto assentisce a qualcosa, non perchè sia mosso sufficientemente dal suo proprio oggetto, ma per una scelta volontaria che lo inclina da una parte piuttosto che dall’altra. Ora se questo ac- cadrà insieme col dubbio e col timore che l’altra parte sia vera, si avrà l’opinione; se accadrà invece con certezza e senza quel timore, si avrà la fede » (S. Th., II, 2, q. 1, a. 4). Nell’ultima fase della Sco- lastica la dottrina dell’A. fu elaborata da Ockham. Secondo Ockham, l’atto dell’A. accompagna l’atto dell’apprendimento. « Chiunque apprende una pro- posizione, egli dice (Ir Sent., Prol., q. 1 55), as- sente, dissente o dubita di essa ». La teoria dell’A. è sostanzialmente la teoria dell’errore. Secondo Ockham, quando una proposizione è empiricamente o razionalmente evidente, l’A. è garantito dalla sua evidenza; mentre quando questa evidenza manca l’A. è più o meno volontario e va incontro alla pos- sibilità dell’errore (/bid., II, q. 25). Una dottrina analoga si trova in Cartesio. Per giudicare si richiede in primo luogo l’intelletto, dato che non si può giudicare su ciò di cui non si ha l’apprensione, e in secondo luogo la volontà per cui si assentisce a ciò cosa (Scienza morale, ed. naz. 1941, pag. 109). La Grammatica dell’A. (1870) di Newmann distinse l’A. reale, che si dirige alle cose, dall’A. nozionale che si dirige alle proposizioni. L’A. nozionale è ciò che viene chiamato professione, opinione, pre- sunzione, speculazione; l’A. reale è la credenza. L’A. nozionale ad una proposizione dogmatica è un atto teologico, l’A. reale alla stessa proposizione è un atto religioso. Le due cose non si contraddi- cono, ma solo l’A. reale raggiunge al credo dogma- tico i sentimenti e le imaginazioni che condizionano la sua validità religiosa. Queste idee di Newmann riprese e sviluppate da Ollé-Laprune e da Blondel dettero lo spunto alla filosofia dell’azione (v.). ASSENZA. V. NULLA. ASSERZIONE (gr. &répavote, Abyog drtopam degli Stoici. E in realtà i due termini sono equivalenti, finchè non si consideri il diverso contesto in cui trovano posto (v. ENUNCIATO e PROPOSIZIONE). Nella logica matematica contemporanea Russell, sull'esempio di Frege seguito da molti altri logici ha introdotto un simbolo speciale (° — ’) da ante- porre al simbolo dell’asserzione. La logica termi- nistica medievale riconosceva, invece che le espres- sioni «è vero che ‘p’» e ‘p’ (dove ’p’ è il segno di una proposizione) sono da considerarsi sinonime. L’A. tuttavia implica in ogni caso che si creda o si assentisca alla proposizione (v.) espressa; e come tale è talora distinta da enunciato (v.). Cfr. .As- SENSO. G.P. ASSIALE, EPOCA. V. Epoca. ASSICURAZIONE (ingl. Security; franc. As- surancej ted. Assecuranz)ì. Un sistema di A. fu suggerito da Royce per realizzare quella che egli chiamava la « Grande comunità » umana. L’A. è difatti un’associazione fondata sul principio tria- dico dell’interpretazione: come in questa c’è l’in- terprete che interpreta qualcosa a qualcuno, così nell’A. ci sono con lo stesso rapporto l’assicurato, l'assicuratore e il beneficiario (La speranza nella grande comunità, 1916). Royce ha anche suggerito lA. contro la guerra (Guerra e A., 1914). ASSIOMA (gr. dElwua; lat. Axioma; inglese Axiom; franc. Axiome; ted. Axiom). Originaria- mente la parola significa dignità o valore (gli Sco- lastici e Vico dicevano appunto degnità) e fu adope- rata dagli Stoici per indicare l’enunciato dichiarativo che Aristotele chiamava apofantico (Diog. L., VII, 65). I matematici l’usarono per designare i principi indimostrabili, ma evidenti, della loro scienza. Ari- stotele ha dato la prima analisi di questa nozione, intendendo per A. «le proposizioni prime da cui parte la dimostrazione » (che sono i cosiddetti A. co- muni ) e in ogni caso i « principi che devono essere necessariamente posseduti da chi vuol apprendere checchessia » (An. post., I, 10, 76b 14; I, 2, 72a 15). Come tale l’A. è completamente diverso dal- l’ipotesi e dal postulato (v.). Il principio di contrad- dizione è esso stesso un A., anzi «il principio di tutti gli A. » (Mer., IV, 3, 1105 a 20 sgg.). Questo significato della parola come principio che appare immediatamente evidente dai suoi stessi termini si è mantenuto costante attraverso l’antichità e l’età moderna. «I princìpi immediati, dice S. Tommaso (In I Post., Lez. 5), non sono conosciuti per il tra- mite di qualche termine medio ma attraverso la conoscenza dei loro stessi termini. Posto che si sappia che cosa è il tutto e che cosa è la parte, si riconosce che ‘il tutto è maggiore della parte ’ giacchè in tutte le proposizioni di questa specie il predicato è compreso nella nozione del soggetto ». La verità dell’A. è in altri termini manifestata dalla semplice intuizione dei termini che entrano a com- porlo. Veramente l’esempio scelto da S. Tommaso si presta particolarmente a rivelare il carattere fit- tizio dell’evidenza intuitiva cui sarebbe affidata la validità dell’assioma. Già a poca distanza da S. Tommaso, Ockham riscontrava che il principio «il tutto è maggiore della parte » non vale quando si tratta di tutti che comprendono infinite parti e che non si può dire che nell’intero universo ci siano più parti che in una fava, se in una fava ci sono in- finite parti (Quodi., I, q. 9; Cent. theol., concl. 17, C). Dopo le ricerche di Cantor e di Dedekind noi sap- piamo oggi che questo preteso A. è semplicemente la definizione degli insieme finiti (v. INFINITO). Per più secoli si è cercato di giustificare in un modo o nell’altro la validità assoluta degli A.; ma questa validità non è stata posta in dubbio. Bacone ri- tenne gli A. ottenibili per via di deduzioneo di induzione (Nov. org., I, 19) mentre Cartesio li ri- tenne verità eterne che hanno sede nella nostra mente (Princ. Phil., I, 49); entrambi però li cre- dettero verità immutabili. Locke considerò gli A. come proposizioni, esperimenti, esperienze imme- diate (Saggio, IV, 7, 3 e sgg.) e Leibniz invece li considerò come principi innati nella forma di di- sposizioni originarie che l’esperienza rende espli- cite (Nouv. Ess., I, 1, 5); ma entrambi attribui- rono ad essi il carattere di verità evidenti. Gli empiristi non hanno dubitato della loro evidenza più dei razionalisti; Stuart Mill afferma che essi sono «verità sperimentali, generalizzazioni dalla osservazione » (Logic, II, 5, $ 4). Altrettanto evi- denti, ma a priori, sono gli A. per Kant che li definisce « princìpi sintetici a priori in quanto immediatamente certi». La certezza immediata, cioè l’evidenza, è, secondo Kant, la caratteristica degli assiomi. La matematica possiede A. perchè essa procede mediante la costruzione dei concetti. La filosofia, invece, che non costruisce i suoi con- cetti, non possiede assiomi. Gli stessi A. dell’in- tuizione che Kant ha posto fra i principi dell’in- telletto puro, non sono veramente A. secondo lo stesso Kant, ma semplicemente contengono «il principio della possibilità degli A. in generale» (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del met., Disciplina della ragion pura, I). Nel mondo contemporaneo la nozione di A. ha subito la sua trasformazione più radicale. La ca- ratteristica che lo definiva, l'immediatezza della sua verità, la certezza, l’evidenza, gli è stata negata. Questo risultato si deve allo sviluppo del formalismo matematico e logico, cioè all’opera di Peano, Russell, 72 ASSIOMATICA Frege e Hilbert. Secondo il punto di vista for- malistico, che è quello ora più diffuso, gli A. della matematica non sono nè veri nè falsi, ma sono assunti convenzionalmente, in base a mo- tivi di opportunità, come fondamenti o premesse del discorso matematico (HiLBERT, « Axiomatischen Denken », in Math. Annalen, 1918). In tal modo gli A. non si distinguono più dai postulati e le due parole vengono oggi usate scambievolmente. La scelta degli A. è in una certa misura libera e in questo senso si dice che gli A. sono « convenzio- nali» o «assunti per convenzione». Ma in realtà questa scelta è limitata da esigenze o condizioni precise che si possono riassumere nel modo se- guente: 1° Gli A. devono essere coerenti, altrimenti il sistema che ne dipende diventa contraddittorio. E che il sistema diventi contraddittorio significa che esso permette di dedurre qualsiasi cosa e si può in esso dimostrare una proposizione qualsiasi come la sua negazione. Poichè la prova della non con- traddittorietà non si può ottenere nell’interno di un sistema (v. AssIoMaTICA), ci si avvale abitual- mente del sistema della riduzione a una teoria anteriore la cui coerenza appare bene stabilita, per es., all’aritmetica classica o alla geometria eu- clidea. Questo procedimento indubbiamente non equivale a una dimostrazione di non contraddit- torietà, ma fornisce un indizio importante. Un altro procedimento è la realizzazione, cioè il riferimento del sistema a un modello reale; sul presupposto che ciò che è reale deve essere possibile, quindi non contraddittorio. 2° Un sistema di A. deve essere completo nel senso che di due proposizioni contraddittorie for- mulate correttamente nei termini del sistema, una deve poter essere dimostrata. Il che vuol dire che in presenza di una qualsiasi proposizione del si- stema, si può sempre dimostrarla o confutarla e per conseguenza decidere sulla sua verità o falsità in rapporto al sistema dei postulati. In questo caso il sistema si chiama decidibile. 3° La terza caratteristica di un sistema di A. è la loro indipendenza, cioè la loro irreducibilità re- ciproca. Tale condizione non è così indispensabile come quella della coerenza, ma è opportuna per evitare che le proposizioni primitive siano troppo numerose. 4° Infine il minor numero possibile e la sempli- cità degli A. sono condizioni desiderabili che confe- riscono eleganza logica ad un sistema di assiomi. ASSIOMATICA (ingl. Axiomarics; franc. Axio- matique; ted. Axiomatik). L’A. si può considerare come un risultato di quella aritmetizzazione della analisi che ha avuto luogo nelle matematiche a partire dalla seconda metà del x1x secolo per im- pulso soprattutto di Weierstrass. Il primo tenta- tivo di assiomatizzazione della geometria fu fatto da Pasch nel 1882. All’assiomatizzazione delle ma- tematiche ha poi contribuito il formalismo di Peano, Russell, Frege e specialmente l’opera di Hilbert. Ma l’A. non si limita oggi al dominio delle matematiche: la fisica la ricerca come suo scopo finale o almeno come sua formulazione ul- tima e più soddisfacente: e ogni disciplina che raggiunga un certo grado di rigore tende ad assu- mere la forma assiomatica. Il significato dell'A. può essere riassunto brevemente nei punti seguenti: 1° Assiomatizzare una teoria significa in primo luogo considerare, al posto di oggetti o di classi di oggetti forniti di caratteri intuitivi, simboli op- portuni, le cui regole d’uso siano fissate dalle re- lazioni enunciate dagli assiomi. Poichè tali simboli sono privi di ogni riferimento intuitivo, la teoria formale così ottenuta è suscettibile di molteplici interpretazioni, che si chiamano modelli. Ma il mo- dello qui non è un archetipo preesistente alla teoria, e anche la teoria concreta originale, che ha fornito i dati per lo schema logico dell’A., non è che uno di tali modelli. La caratteristica dell'A. è quella di prestarsi a interpretazioni o a realizzazioni dif- ferenti, delle quali essa costituisce la struttura lo- gica comune. 2° Il metodo A. è un potente strumento di generalizzazione logica. Uno dei modi di generaliz- zazione di tale metodo consiste nel far cadere suc- cessivamente alcuni assiomi di una certa teoria deduttiva conservando gli altri e così costruendo teorie sempre più astratte. Il sistema generato dal- l’A. così ristretta, è coerente, se il sistema iniziale lo è, e costituisce una generalizzazione di questo. 3° L’A. rende indispensabile distinguere tre modi in cui si possono differenziare l’una dall'altra le teorie deduttive. Consideriamo il caso della geo- metria euclidea. In primo luogo, se si modifica uno dei suoi postulati, si otterranno altre geometrie che si dicono vicine ad essa o imparentate con essa: in questo senso si parla di una pluralità di geo- metrie. In secondo luogo, si può effettuare la ri- costruzione logica di una qualsiasi di queste geo- metrie in più modi cioè secondo A. differenti; e queste A. saranno eguivalenti fra loro. Infine, se si sceglie una di queste A. si potranno il più delle volte trovare per essa interpretazioni differenti: ci saranno cioè vari modelli di essa, modelli che sa- ranno detti isomorfi. Ci saranno così: a) una plu- ralità di geometrie; 5) una pluralità di A. per una stessa geometria; c) una pluralità di modelli per una stessa assiomatica. 4° La caratteristica fondamentale dell'A. è la scelta e la chiara enunciazione delle proposizioni primitive di una teoria, cioè degli assiomi che in- ASSOCIAZIONISMO 73 troducono i termini indefinibili e stabiliscono le regole d’uso indimostrabili. La scelta delle nozioni primitive è la parte fondamentale nella costituzione di un’assiomatica. È ormai chiaro tuttavia che le stesse nozioni di « primitivo +, « indefinibile », « in- dimostrabile » sono relative, nel senso che un ter- mine indefinibile o una proposizione indimostrabile nell’interno di un sistema possono diventare defi- nibili o dimostrabili se si modificano le basi del sistema. Per es., nella geometria euclidea non si può dimostrare il postulato delle parallele; ma se si rinuncia a dimostrare il teorema che la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due retti, si può assumere questa proposizione come un as- sioma, e dimostrare l’unicità della parallela. Inoltre, spesso i termini non definiti sono implicitamente definiti dall’insieme dei postulati prescelti (defini- zione per postulati). La scelta dei postulati si dice che è libera: in realtà essa deve obbedire a partico- lari condizioni che la limitano notevolmente; per queste condizioni v. ASSIOMA. 5° Si è detto (v. Assioma) che il limite fonda- mentale per la scelta degli assiomi è la loro coerenza o compatibilità. Tuttavia un teorema di Gédel (1931) ha stabilito che un’aritmetica non contrad- dittoria comporta enunciati non decisi e tra questi enunciati c'è la non contraddizione del sistema aritmetico. In altri termini non si può, rimanendo nell'àmbito di un sistema, stabilire la non con- traddittorietà del sistema stesso. È questo uno dei limiti dell'A. oltre quelli messi in luce dalla corrente intuizionista dei matematici (v. Ma- TEMATICA). ASSIOMI DELL'INTUIZIONE (inglese Axioms of Intuition; franc. Axiomes de l’intuition; ted. Axiomen der Anschauung). Kant ha indicato con quest’espressione quei princìpi sintetici dell’in- telletto puro che derivano dall’applicazione delle categorie all’esperienza e che esprimono la possi- bilità delle proposizioni della matematica e della fisica pura. Tutti i princìpi dell’intelletto puro hanno la funzione di eliminare il carattere soggettivo della percezione dei fenomeni, riconducendo tale perce- zione a quella connessione necessaria dei fenomeni stessi che è propria dell’esperienza oggettivamente valida. In particolare, glmenti della coscienza, connessione per la quale tali elementi, quali che siano, si richiamano l’un l’altro secondo uniformità o leggi riconoscibili. La simiglianza, la continuità e il contrasto, costituiscono le uniformità o le leggi fondamentali dell'A. che furono già ri- conosciute da Platone (Fed., 76 a) e da Aristotele (De memoria et reminiscentia, II, 451 b 18-20). In sèguito il fenomeno non ha più attratto l’attenzione dei filosofi sino all’età moderna. Hobbes nel Le- viathan dedica un capitolo (il III) all’A. delle imagini, ma fu Locke a creare l’espressione stessa « A. delle idee» e a introdurre il fenomeno relativo come principio di spiegazione della vita della coscienza. L’importanza che l’A. acquista per opera di Locke deriva dal presupposto asulle connessioni naturali sono fondate tutte le operazioni dello spirito umano: la conoscenza nei suoi vari gradi, l’imaginazione, la volontà, ecc. Per Locke tuttavia l’A. delle idee assume forme differentissime. Hume la ridusse in- vece a solo tre principi: la rassomiglianza, la con- tiguità nel tempo e nello spazio e la causa ed effetto (/ng. Conc. Underst., III). Abbandonato, dopo di Kant, in filosofia come principio esplica- tivo dell’intera vita spirituale, l'A. è rimasta il principio esplicativo della psicologia scientifica dalla metà dell’800 fino ai princìpi del nostro secolo. Nel periodo contemporaneo la psicologia della forma o gestaltismo (v.) ha impugnato lo stesso presupposto atomistico su cui si fondava la teoria dell’associazione. ASSOCIAZIONISMO (ingl. Associationism; franc. Associationnisme; ted. Associazionstheorie). L’indirizzo filosofico e psicologico che assume come principio esplicativo dell’intera vita spirituale l’as- sociazione delle idee (v.). Il presupposto dell'A. è l’atomismo psicologico cioè la riscluzione di ogni 74 ASSOLUTISMO evento psichico in elementi semplici che sono le sensazioni, le impressioni, o, genericamente, le idee. Il fondatore dell'A. è Hume, ma uno dei suoi maggiori diffonditori fu il medico inglese David Hartley (1705-57) per il quale l’associazione delle idee è per l’uomo ciò che la gravitazione è per i pianeti: cioè la forza che determina l’organizzazione e lo sviluppo del tutto. L’A. trovò altre manife- stazioni importanti nell’opera di Giacomo Mill (1773-1836) che se ne servì nell’analisi dei problemi morali spiegando con l’associazione tra il piacere proprio e l’altrui il passaggio dalla condotta egoi- stica alla condotta altruistica; e di Stuart Mill (1806-73) che se ne avvalse nella trattazione di problemi morali e logici. Ma dopo Stuart Mill Il’A. ha cessato di essere una dottrina filosofica viva; ed è rimasta soltanto come ipotesi operante nel do- minio della psicologia scientifica dalla quale è stata esclusa solo negli ultimi decenni ad opera della psicologia della forma (v. PSICOLOGIA). ASSOLUTISMO (ingl. Absolutism; franc. Abso- lutisme; ted. Absolutismus). Termine coniato nella prima metà del xvi secolo per indicare ogni dot- trina che difenda il « potere assoluto » o la « sovra- nità assoluta » dello Stato. Nel suo senso politico originario il termine ora designa: 1° l’A. utopistico di Platone nella Repubblica; 2° l’A. papale affer- mato da Gregorio VII e da Bonifacio VIII, riven- dicante per il Papa, come rappresentante di Dio sulla Terra, la p/enitudo potestatis cioè la sovranità assoluta su tutti gli uomini compresi i principi, i re e l’imperatore; 3° l’A. monarchico del xvi se- colo che trova il suo difensore in Hobbes; 4° l’A. democratico, teorizzato da Rousseau nel Contratto sociale e da Marx e dagli scrittori marxisti come «dittatura del proletariato ». Tutte queste forme dell'A. difendono ugualmente, pur con motivi o fondamenti vari, l’esigenza che il potere statale venga esercitato senza limitazioni o restrizioni. L'esigenza oche deter- minano la condotta più riuscita che si possa tenere ad un dato stadio di conoscenza. Chiunque vuol trovare di più in queste asserzioni, scoprirà alla fine che ha inseguito una chimera ». L’A. filoso- fico non è tanto di chi parla dell’Assoluto o ne riconosce l’esistenza, ma di chi pretende che l’as- soluto stesso appoggi le sue parole e dia ad esse un’incondizionata garanzia di verità. In questo senso il prototipo dell’A. dottrinale rimane l’Idea- lismo romantico, secondo il quale nella filosofia non è il filosofo come uomo che si manifesta e parla, ma l’Assoluto stesso che giunge alla sua consapevolezza e si manifesta a se stesso. ASSOLUTO (ingl. Absolute; franc. Absolu; ted. Absolut). Il termine latino absolutus (sciolto da, staccato da, cioè liprovarla falsa »; il quale secondo significato è meno dogmatico del primo. Così rispondere « As- solutamente no» ad una domanda o ad una ri- chiesta, significa semplicemente avvisare che questo «no» è saldamente appoggiato da buone ragioni e sarà mantenuto. Questi usi comuni del termine corrispondono all'uso filosofico che, genericamente, è quello di «senza limiti», «senza restrizioni », e quindi «illimitato » o « infinito ». Molto probabil- mente la diffusione della parola, la quale ha inizio dal °700 (per quanto sia stato Niccolò da Cusa ASSURDO 75 a definire Dio come l’A., Docta ignor., II, 9) è dovuta al linguaggio politico e ad espressioni come « potere A. », « monarchia A. +, ecc., nelle quali la parola significa chiaramente «senza restrizioni » 0 « illimitato ». La grande voga filosofica del termine è dovuta al Romanticismo. Fichte parla di una « deduzione A.», di «attività A.», di «sapere A.», di «rifles- sione A.», di «Io A.», per indicare, con questa ultima espressione, l’Io infinito, creatore del mondo. E nella seconda fase della sua filosofia, quando cerca di interpretare l’Io come Dio fa della parola un abuso che rasenta il ridicolo: « L’A. è assolu- tamente ciò che è, riposa su e in se medesimo assolutamente », « Esso è ciò che è assolutamente perchè è da se stesso... perchè accanto all’A. non rimane niente di estraneo ma svanisce tutto ciò che non è l’A.» (Wissenschafislehre, 1801, $$ 5 e 8; Werke, II, pag. 12, 16). La stessa inflazione della parola si trova in Schelling; il quale, comfilosofia. Il Romanticismo ha così fissato l’uso della parola sia come aggettivo sia come sostantivo. Secondo questo uso la parola significa « senza restrizioni », « senza limitazioni », «senza condizioni »; e come sostan- tivo significa la Realtà che è priva di limiti o con- dizioni, la Realtà suprema, lo « Spirito » 0 « Dio ». Già Leibniz aveva detto: «Il vero infinito, a rigore, non è che l'A. » (Nouv. Ess., II, 17, $ 1). E in realtà il termine può essere considerato come sinonimo di « Infinito » (v.). Dato il posto centrale che la nozione di infinito ha nel Romanticismo (v.) s’in- tende come questo sinonimo abbia trovato acco- glimento e voga nel periodo romantico. In Francia la parola fu importata da Cousin del quale sono noti i legami col Romanticismo tedesco. In Inghilterra essa fu introdotta da William Hamilton, il cui primo scritto fu uno studio sulla Filosofia di Cousin (1829); e la nozione divenne la base delle discus- sioni sulla conoscibilità dell’A., iniziate da Ha- milton e Mansel e continuate dall’evoluzionismo positivistico (Spencer, ecc.) che, come questi due pensatori, affermò l’esistenza e insieme l’inconosci- bilità dell’Assoluto. Nella filosofia contemporanea la parola è stata ampiamente usata appunto da quella corrente che più strettamente si rifaceva al- l’Idealismo romantico, cioè dall’Idealismo anglo- americano (Green, Bradley, Royce) e italiano (Gen- tile, Croce) per designare la Coscienza infinita o lo Spirito infinito. La parola rimane pertanto legata a una fase determinata del pensiero filosofico, precisamente alla concezione romantica dell’Infinito, che com- prende e risolve in sè ogni realtà finita e non è perciò limitato o condizionato da niente, non avendo nulla fuori di sè che possa limitarlo o condizionarlo. Nel suo uso comune come in quello filosofico il termine rimane a significare o lo stato di ciò che, a qualsiasi titolo, è privo di condi- zioni e di limiti, o (come sostantivo) ciò che rea- lizza se stesso in modo necessario e infallibile. ASSORBIMENTO, LEGGE DI (ingl. Law of Absorption; franc. Loi d’absorption). Con questo nome si designano nella Logica contemporanea i due teoremi dell’algebra delle proposizioni: p»pa=pì  P(pv9)=p e i due corrispondenti teoremi dell'algebra delle classi: —avab=a; alavb)=a. L’A. è in queste espressioni la possibilità logica di sostituire p a pvpgq 0 a p(pvg) nelle prime espres- sioni; o a ad avab o ad a(avb) nelle seconde espressioni. (Cfr. CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic, 15. 8). Fuori del linguaggio della logica, la legge significa che, se un concetto ne implica un altro, esso assorbe quest’altro, nel senso che l’asserzione simultanea dei due equivale all’asser- zione del primo e può essere quindi sostituita dall’asserzione di questo ogni volta che essa ricorra. Cfr. TAUTOLOGIA. ASSUNZIONE (gr. ji; lat. Sumptio; in- glese Assumption, Sumption; franc. Assomption; ted. Vordersatz). La proposizione che si sceglie come premessa del ragionamento; oppure l’atto di scegliere una proposizione a questo scopo (cfr. Ci- CERONE, De divinatione, II, 53, 108). Più precisamente, la proposizione che si sceglie come prima premessa del sillogismo e che talora è detta anche /emma (v.) (cfr. HAMILTON, Lectures on Logic, 1, pag. 283). L’A. non implica necessariamente la verità della premessa che si assume. Si può assumere una pro- posizione vera o un'ipotesi o anche una proposi- zione falsa allo scopo di confutaria. Il termine è equivalente a posizione (v.). ASSURDO (lat. &torov, &Sivarov; lat. Absurdum; ingl. Absurd; franc. Absurde; ted. Absurd). In ge- nerale, ciò che non trova posto nel sistema di 76 ASTRATTE, IDEE credenze cui si fa riferimento o è in contrasto con qualcuna di tali credenze. Gli uomini, e i filosofi, hanno sempre fatto un uso abbondante di questa parola per condanso più ristretto e preciso la parola si- gnifica «impossibile » (adynaton) perchè contrad- dittorio. In questo senso Aristotele parlava di un ragionamento per A. o di una riduzione all’A.; che sarebbe un ragionamento che assume come ipo- tesi la proposizione contrapposta alla conclusione che si vuol dimostrare e fa vedere che da tale ipotesi deriva una proposizione contraddittoria con l’ipo- tesi stessa (An. Pr., II, 11-14, 61a sgg.). La di- mostrazione per A., aggiunge Aristotele (/bid., 14, 62 b 27) si differenzia dalla dimostrazione ostensiva perchè assume ciò che, con la riduzione all’errore riconosciuto, vuol distruggere; la dimostrazione ostensiva, invece, parte da premesse già ammesse. Leibniz chiamò dimostrazione apagogica il ragiona- mento per A. e lo ritenne utile o almeno difficil- mente eliminabile, nel dominio della matematica (Nouv. Ess., IV, 8, $ 2). Kant che adopera lo stesso nome, lo giustificò nelle scienze ma lo escluse dalla filosofia. Lo giustificò nelle scienze perchè in queste è impossibile il modus ponens di conchiudere alla verità di una conoscenza dalla verità delle sue conseguenze: bisognerebbe infatti conoscere tutte le conseguenze possibili: il che è impossibile. Ma se da una proposizione può essere ricavata anche una sola conseguenza falsa, la proposizione è falsa: perciò il modus tollens dei sillogismi conchiude insieme con rigore e con facilità. Ma questo modo di ragionare è senza pericoli solo nelle scienze in cui non si può scambiare l’oggettivo col soggettivo, cioè nelle scienze della natura. In filosofia invece quello scambio è possibile, cioè può darsi che sia soggettivamente impossibile ciò che non è oggetti- vamente impossibile. E quindi il ragionamento apa- gogico non porta a conclusioni legittime (Critica R. Pura, Disciplina della ragion pura, IV). ASTRATTE, IDEE. V. ASTRAZIONE. ASTRATTE, SCIENZE. V. Scienze, CLAS- SIFICAZIONE DELLE. ASTRATTIVA, CONOSCENZA (lat. Co- gnitio abstractiva; ingl. Abstractive Knowledge; fran- cese Connaissance abstractive; ted. Abstrahierende Erkenntnîss). Termine che Duns Scoto adoperò, simmetricamente od oppostamente a quello di cono- scenza intuitiva (cognitio intuitiva), per indicare una delle specie fondamentali della conoscenza: la prima delle quali « astrae da ogni esistenza aTRAZIONE 77 alla quantità discreta e continua; il fisico prescinde da tutte le determinazioni dell’essere che non si riducono al movimento. Analogamente il filosofo spoglia l’essere di tutte le determinazioni partico- lari (quantità, movimento, ecc.) e si limita a con- siderarlo solo in quanto essere» (Mer., XI, 3, 1061 a 28 sgg.). L’intero procedimento del conoscere può essere, secondo Aristotele, descritto con l’A.: «La conoscenza sensibile consiste infatti nell’assumere le forme sensibili senza la materia come la cera assume l’impronta del sigillo senza il ferro o l’oro di cui esso è composto è (De An., II, 12, 424 a 18). E la conoscenza intellettuale riceve le forme intel- ligibili astraendole dalle forme sensibili nelle quali sono presenti (/bid., III, 7, 431 sgg.). All’opera- zione dell’A., S. Tommaso riduce la conoscenza intellettuale; la quale è un astrarre la forma dalla materia individuale e così trarre fuori l’universale dal particolare, la specie intelligibile dalle imagini singole. AI modo in cui possiamo considerare il colore di un frutto prescindendo dal frutto, senza perciò affermare che esso esista separato dal frutto; così possiamo conoscere le forme o specie univer- sali dell’uomo, del cavallo, della pietra, ecc., pre- scindendo dai princìpi individuali cui vanno unite, ma senza pretendere che esistano separatamente da questi. L’A. perciò non falsifica la realtà ma solo rende possibile la considerazione separata della forma e con ciò la conoscenza intellettuale umana (S. 7h., I, q. 85, a. 1). Questi concetti, o concetti affini, ricorrono in tutta la Scolastica. La Logica di Porto Reale (I, 4) ha riassunto assai bene il pen- siero della Scolastica e la stretta connessione del procedimento astrattivo con la natura dell’uomo, dicendo: «La limitazione della nostra mente fa sì che non possiamo comprendere le cose composte se non considerandole nelle loro parti e contem- plando le facce diverse con cui esse ci fronteggiano: ciò è quello che si suole generalmente chiamare conoscere per A. ». Locke per primo ha messo in luce la stretta con- nessione del procedimento dell’A. con la funzione simbolica del linguaggio. « Mediante l’A., egli dice, le idee tratte da esseri particolari diventano le generali rappresentanti di tutti gli oggetti della stessa specie e i loro nomi diventano nomi generali, applicabili a tutto ciò che esiste ed è conforme a tali idee astratte... Così, venendo oggi osservato nel gesso o nella neve lo stesso colore che ieri lo spirito ha ricevuto dal latte, esso considera quel solo aspetto e ne fa la rappresentazione di tutte le altre idee dalla medesima specie; e avendogli dato il nome ‘bianchezza’ con questo suono significa la medesima qualità, dovunque essa venga imaginata o incontrata; e così vengono composti gli universali, sia che si tratti di idee, sia che si tratti di termini » (Saggio, II, 11, $ 9). Proprio sulla base di queste osservazioni di Locke, Berkeley giunse alla nega- zione dell’idea astratta e della stessa funzione della astrazione. Egli nega, in altri termini, che l’uomo possa astrarre l’idea del colore dai colori, l’idea dell’uomo dagli uomini, ecc. Non c’è infatti l’idea di un uomo che non abbia alcun carattere parti- colare, come non c’è in realtà un uomo di tal genere. Le idee generali, non sono idee prive di ogni carat- tere particolare (cioè « astratte »), ma idee partico- lari assunte come segni di un gruppo di altre idee particolari fra loro affini. Il triangolo che un geo- metra ha presente per dimostrare un teorema non è un triangolo astratto, ma un triangolo particolare, per es., isoscele; ma poichè di tale carattere parti- colare non si fa menzione nel corso della dimo- strazione, il teorema dimostrato vale per tutti indi- stintamente i triangoli, ognuno dei quali può prendere il posto di quello considerato (Princ. of Hum. Know., Intr., $ 16). Hume ripetette l’analisi negativa di Berkeley (7reazise, I, 1, 7). Tali analisi tuttavia non negano l’A., ma piuttosto la sua nozione psicologica in favore del concetto logico-simbolico di essa. L’A. non è l’atto con cui lo spirito pensa certe idee separatamente da certe altre; è piuttosto la funzione simbolica di certe rappresentazioni par- ticolari. Kant tuttavia sottolinea l’importanza del- l’A. nel senso tradizionale, mettendola accanto alla attenzione come uno degli atti ordinari dello spirito e sottolineando la sua funzione di separare una rappresentazione, di cui si è coscienti, dalle altre con cui essa è legata nella coscienza. Per quanto egli esemplifichi in modo curioso l’importanza di questo atto (« Molti uomini sono infelici perchè non sanno astrarre ». « Un celibe potrebbe fare un buon matrimonio se soltanto sapesse astrarre da una verruca del viso o dalla mancanza di un dente della sua amata », [Aner., $ 3]), è chiaro che l’intero procedimento di Kant inteso a isolare (isolieren) gli elementi a priori della conoscenza o in generale dell’attività umana, è un procedimento astrattivo. «In una logica trascendentale, egli dice per es., noi isoliamo l'intelletto (come sopra, nell’Estetica trascendentale, la sensibilità) e rileviamo di tutta la nostra conoscenza soltanto la parte del pensiero che ha la sua origine unicamente nell’intelletto » (Crit. R. Pura, Div. della Log. trascend.). Con Hegel si assiste allo strano fenomeno di una sopravvalutazioperciò, secondo Hegel, la realtà stessa, anzi la sostanza della realtà. Dall’altro lato, tuttavia, l’astratto è considerato da Hegel come ciò che è finito, immediato, non posto in relazione col tutto, non risolto nel divenire del- l’Idea, e perciò prodotto di una prospettiva provvi- soria c fallace. «L’astratto è il finito, il concreto è la verità, l’oggetto infinito » (Phil. der Religion, II, in Werke, ed. Glockner, XVI, pag. 226). «Soltanto il concreto è il vero, l’astratto non è il vero » (Geschi- chte der Phil., III, in Werke, ed. Glockner, XIX, pag. 99). È chiaro tuttavia che Hegel intende per astratto quello che comunemente si chiama con- creto — le cose, gli oggetti particolari, le realtà singole offerte o testimoniate dall’esperienza — mentre chiama me immanenza di esso nelle rappresentazioni singole e dell’« astrattezza » delle nozioni considerate avulse dai particolari (Lo- gica, 48 ediz., 1920, pag. 28). Bergson ha costante- mente contrapposto il tempo «concreto» della coscienza al tempo « astratto» della scienza; e in generale il procedimento della scienza che si av- vale di concetti o simboli cioè di «idee astratte o generali» al procedimento intuitivo o simpate- tico della filosofia (cfr., per es., La pensée et le mouvant, 3» ediz., 1934, pag. 210). Simili temi polemici sono stati assai frequenti nella filosofia dei primi decenni del nostro secolo. E certamente la polemica contro l’A. è stata efficace contro la tendenza ad entificare i prodotti di essa cioè a con- siderare come sostanze o reogo alle vere e proprie entità astratte, per es., nella matematica. «Il più ordinario fatto della percezione, come, ad es., ‘ c’è luce ® implica A. precisiva o prescissione. Ma l’A. ipostatica, l'A. che trasforma il ‘c’è luce’ in ‘c’è la luce qui’ che è il senso ch'io do comunemente alla parola A. (dal momento che prescissione in- dica l’A. precisiva) è un modo specialissimo del pensiero. Esso consiste nel prendere un certo aspetto di un oggetto o di più oggetti percepiti (dopo che è stato già prescisso dagli altri aspetti di tali oggetti) e di esprimerlo in forma proposizionale con un giudizio » (Coll. Pap., 4.235; cfr. 3.642; 5.304). Questa distinzione che era stata già accennata da James (Princ. of Psychol., I, 243) ed è stata accet- tata da Dewey (Logic, cap. 23; trad. ital., pag. 603- 604) non toglie che sia la prescissione sia l’A. ipo- statica sono specificazioni di quella generale funzione selettiva, che tradizionalmente è stata indicata con la parola « astrazione ». Paul Valéry ha poeticamente insistito sull’importanza dell’A. in ogni costruzione umana quindi anche nell’arte: « L'uomo, ti dico, fabbrica per A.; ignorando e dimenticando gran parte delle qualità di ciò che impiega, applicandosi soltanto a condizioni chiare e distinte che possono per lo più essere simultaneamente soddisfatte non da una ma da più specie di materie» (Eupalinos, trad. ital., pag. 134). ASTRAZIONISMO (ingl. Abstractionism; franc. Abstractionnisme; ted. Abstraktionismus). Così William James (The Meaning of Truth, 1909, capi- tolo XIII) chiamò l’uso illegittimo dell’astrazione e in particolare la tendenza a considerare come reali i prodotti dell’astrazione. ASTROLOGIA (gr. dotpodoria; lat. Astrologia; ingl. Astrology; franc. Astrologie; ted. Astrologie). La credenza nell’influsso dei movimenti degli astri sul destino degli uomini e la scienza, o pretesa scienza, fondata su questa credenza. L'A. è legata con la nascita dell’astronomia nel mondo orientale e ha accompagnata l’astronomia nella prima parte della sua storia. Secondo F. Cumont, furono i Caldei i primi a concepire l’idea di una necessità inflessibile che regoli l’universo e a sostituire tale idea a quella di un mondo retto da dèi in confor- mità delle loro passioni. L’idea fu ad essi suggerita ATEISMO 79 dalla regolarità dei movimenti dei corpi celesti (CumonT, Oriental Religions in Roman Paganism, trad. ingl., pag. 179). Questa credenza condusse a stabilire una corrispondenza tra il macrocosmo (mondo) e il microcosmo (uomo): corrispondenza in virtù della quale gli avvenimenti dell’uno si ri- fletterebbero negli avvenimenti dell’altro e sarebbe possibile, a partire dalla conoscenza dei primi, predire in qualche modo i secondi. L’A. si diffuse in Occidente nel periodo greco-romano. La filo- sofia araba la giustificò, proprio come gli antichi Caldei, sul fondamento della necessità universale che lega insieme tutti gli eventi del mondo e che da Dio, come primo motore, va sino agli eventi umani. Questa catena necessaria passa attraverso gli avvenimenti celesti: gli avvenimenti terrestri, e quelli umani, non sono determinati direttamente da Dio, ma sono determinati da lui per il tramite degli avvenimenti celesti, cioè dei movimenti degli astri. Sicchè tali movimenti sono quelli che imme- diatamente determinano gli eventi del mondo sub- lunare e quindi del mondo umano; e la conoscenza di essi rende possibile la previsione di questi. Le credenze astrologiche erano comuni nel Medioevo, nonostante le condanne ecclesiastiche: Dante stesso ne partecipava (Conv., II, 14; Purg., XXX, 109 se- guenti). Nel Rinascimento furono difese e giusti- ficate da uomini come Paracelso, Bruno, Campa- nella. Quest'ultimo dedicò all’A. un’opera Astro- logicorum Libri VII, 1629, e si avvalse di essa per confermare il suo vaticinio dell’imminente ri- torno del mondo all’unità religiosa e politica (Atheismus triumphatus, 1627). Altri filosofi furono ostili all’astrologia, pur ammettendo la validità della magia. Così fece, per es., Pico della Miran- dola che scrisse le Disputationes adversus Astrologos nelle quali accusa l’A. di rendere gli uomini servi e miserabili; e così fece Giovan Battista Helmont negando l’influsso degli astri sugli avvenimenti umani (De Vita Longa, 15, 12). L’A. ha perduto il suo fondamento scientifico con la scienza moderna, la quale esige, per poter affermare un qualsiasi rapporto causale, che tale rapporto sia riscontrato uniforme in un numero di casi sufficientemente grande. Il rapporto causale tra i movimenti degli astri e gli eventi umani po- trebbe pertanto essere riconosciuto come tale solo sul fondamento di osservazioni ripetute e ripetibili, che ne mettessero in luce tutti gli anelli intermedi, in modo da farne comprendere il funzionamento. Niente del genere si è verificato nell’A. la quale tuttora si fonda su antichi testi e tradizioni, su simbolismi non suscettibili di controllo e su cre- denze magiche o teosofiche. D'altronde, le credenze astrologiche rimangono tra le più diffuse anche nel mondo contemporaneo, permeato com'è di spirito scientifico: forse lo spirito contemporaneo trova in esse un correttivo all'assenza di sicurezza che è caratteristica della sua situazione e nelle pre- dizioni astrologiche una via per limitare, sia pure in modo arbitrario e fantastico, le previsioni in- torno al suo destino prossimo o lontano. ASTRUSO (lat. Abstrusus [= nascosto]; in- glese Abstruse; franc. Abstrus; ted. Abstrus). Ter- mine peggiorativo per qualificare qualsiasi nozione inconsueta o di difficile comprensione; 0, come dice Locke (Saggio, II, 12, $ 8) «lontana dai sensi e da ogni operazione del nostro spirito ». Il termine è applicato soprattutto a nozioni astratte; ma viene ugualmente applicato a nozioni che si allon- tanino, più o meno, dall’ordinario universo di discorso. ASTUZIA DELLA RAGIONE (ingl. Astu- teness of the Reason; franc. Astuce de la raison; ted. List der Vernunfr). Così Hegel ha chiamato il fatto che l’Idea universale fa agire nella storia le passioni degli uomini come suoi strumenti e le fa logorare e consumarsi per i propri fini. « L’Idea paga il tributo dell’esistenza e della caducità non di sua tasca ma con le passioni degli individui. Cesare doveva compiere quello che era necessario per rovesciare la decrepita libertà; la sua persona perì nella lotta ma quello che era necessario restò: la libertà secondo l’idea giaceva più profonda del- l’accadere esterno » (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 83-84; trad. ital, pag. 98). ATANATISMO (ingl. Arhanatism; franc. Atha- natisme; ted. Athanatismus). Così fu chiamata da alcuni autori dell’800 la dottrina dell’immortalità dell’anima. ATARASSIA (gr. drapazla; ingl. Afaraxia; franc. Ataraxie; ted. Ataraxie). Termine usato dap- prima da Democrito (Fr., 191) poi dagli Epicurei e dagli Stoici per designare l’ideale della impertur- babilità o della serenità dell’anima derivante dal dominio sulle passioni o dall’estirpazione di esse (v. ApATIA). Analogamente «Il fine dello scetti- cismo è l’A. nelle cose opinabili e la moderazione nelle cose che sono per necessità » (SESTO E., /potip. Pirr., I, 25). ATEISMO (gr. a0e6mns; lat. Arheismus; inglese Atheism; franc. Athéisme; ted. Atheismus). È, in generale, la negazione della causalità di Dio. Il riconoscimento dell’esistenza di Dio può ac- compagnarsi con l’ateismo se non include anche il riconoscimento della causalità specifica di Dio. La prima analisi dell'A. che la storia della fi- losofia ricordi è quella di Platone nel X libro delle Leggi. Platone considera tre forme di A.: 1° la negazione della divinità; 2° la credenza che la divinità esista ma non si curi delle cose umane; 3° la credenza che la divinità possa essere propi- 80 ATEISMO ziata con doni ed offerte. La prima forma è il materialismo: il quale dipende dall’opinione che la natura precede l’anima e cioè che la materia « dura e molle, pesante e leggera» preceda «l’opinione, la previsione, l’intelletto, l’arte e la legge ». Questo è l’errore di tutti i filosofi della natura che pongono l’acqua, o l’aria o il fuoco come principi delle cose e li chiamano «natura» per intendere che sono l'origine di esse (Leggi, X, 891 c, 892 b). Per con- futare il materialismo non c’è che da dimostrare che l’anima precede la natura; e Platone dimostra come lo stesso movimento dei corpi materiali pre- suppone un Primo Motore immateriale (v. Dro, Prove DI). La seconda forma di A., che consiste nel ritenere che la divinità non si occupa delle cose umane, è confutata da Platone con l’argomento che essa equivarrebbe ad ammettere che la divinità è pigra e indolente e a ritenerla inferiore al più comune mortale che sempre vuol rendere perfetta l’opera sua, grande o piccola che sia. Infine la peggiore aberrazione è quella dei malvagi i quali credono di poter propiziarsi la divinità con doni ed of- ferte. Costoro pongono la divinità stessa alla pari dei cani che, ammansiti dai doni, permet- tono di depredare le greggi e al di sotto degli uomini comuni che non tradiscono la giustizia accettando doni delittuosamente offerti. Platone è così severo con quest’ultima forma di A. che, per evitarla, vorrebbe impedire ogni forma di sacrificio privato ed ammettere solo quelle effet- tuate sui pubblici altari e con rituale stabilito (Leggi, X, 909 d). L’analisi di Platone assomma a dire che l’unica forma di A. filosofico è il materialismo naturalistico, il quale pone il corpo prima dell’anima; le altre due forme sono piuttosto pregiudizi volgari che credenze filosofiche (sebbene la prima di esse, l’indifferen- tismo degli dèi, doveva essere fatta propria dagli Epicurei). Uno sguardo al corso ulteriore della filo- sofia occidentale mostra che accanto al materialismo, possono essere considerati, come forme di A. filoso- fico, lo scetticismo, il pessimismo e il panteismo. 1° Nell’età moderna la coincidenza di mate- rialismo e A. è stata affermata da Berkeley che appunto da questa coincidenza è stato indotto a sostenere l’irrealtà della materia (v. IMMATERIA- LIsMO). Se si ammette che la materia è reale l’esi- stenza di Dio diventa inutile perchè la materia stessa diventa la causa di tutte le cose e delle idce che sono in noi. L’esistenza della materia è il principale fondamento dell'A. e del fatalismo e della stessa idolatria (Prince. of Hum. Knowledge, $$ 92-94). In linea di fatto si può dire che non la realtà della materia, ma solo la causalità della materia è uno dei fondamenti dell’ateismo. Il materialismo sette- centesco di La Mettrie e d’Holbach come quello ottocentesco di Luigi Buchner, di Ernesto Heckel e di Felice Le Dantec hanno appunto questo fon- damento. Dio viene eliminato come principio cau- sale di spiegazione perchè si ammette come tale la materia. 2° La seconda forma di A. filosofico è quella scettica, che trova la sua prima manifestazione nel neo-accademico Carneade di Cirene (214-129 a. C.). Questi non solo fa vedere la debolezza delle prove che si adducono dell’esistenza della divinità, ma mostra le difficoltà inerenti al concetto di divinità. Per es., Carneade dice: « Se esistono, gli dèi sono viventi, se viventi sentono... Se sentono, ricevono piacere o dolore. E se ricevono dolore sono capaci di turbamento e mutazioni in peggio; e così sono mortali» (Sesto E., Adv. math., IX, 139-40). Un punto di vista analogo a quello di Carneade è stato elaborato nell'età moderna da Hume nei suoi Dialoghi sulla religione naturale. Hume ritiene che una prova « priori dell’esistenza di Dio sia impos- sibile perchè l’esistenza è sempre materia di fatto. Quanto alle prove a posteriori, egli rigetta la validità di una prova cosmologica, ritenendo illegittimo chiedersi la causa di una collezione di individui. « Se, egli dice, si mostra la causa di ciascun individuo di una collezione che comprende venti individui, è assurdo domandare poi la causa dell’intera col- lezione che è stata già data con le cause particolari. Questo vuol dire che non ha senso domandarsi la causa del mondo nella sua totalità. Maggior va- lore ha la prova fisico-teologica; ma essa può con- sentire soltanto di risalire ad una causa proporzio- nata all’effetto; e poichè l’effetto, cioè il mondo, è imperfetto e finito, la causa dovrebbe essere al- trettanto imperfetta e finita. Ma se la divinità si riconosce imperfetta e finita, manca il motivo per riconoscerla unica. Se una città può essere co- struita da più uomini, perchè l'universo non po- trebbe essere stato creato da più deità o dèmoni? » (Works, Il, 1827, pag. 413). Da ultimo la disputa tra teismo e A. diventa una questione di parole: « Il teista ammette che l’intelligenza originale è assai di- versa dalla ragione umana. L’ateista ammette che il principio originale dell’ordine ha qualche remota analogia con la ragione stessa. Volete allora, miei signori, bisticciare intorno al grado dell’analogia ed entrare in una controversia che non ammette preciso significato nè conseguentemente una con- clusione qualsiasi? » (/bid., pag. 535). Questo tipo di scetticismo non è tuttavia, come spesso il materia- lismo, una forma di professato A.: esso ténde, come si vede, a togliere ogni valore drammatico alla di- sputa sull’A. e a dimostrarla da ultimo insignificante. 3° La terza forma di A. è il panteismo (v.). Anche qui non si tratta di un professato A. ma piuttosto di un'accusa che spesso viene rivolta a ATOMISMO 81coloro che identificano Dio col mondo. L’accusa di A. è stata per molto tempo rivolta a Spinoza per il suo Deus sive Natura: in realtà, come notava Hegel, più esattamente si sarebbe dovuto parlare di acosmismo (v.). Accuse di A. furono rivolte anche a Fichte in séguito ad un articolo pubblicato nel 1798 nel Giornale filosofico di Jena, « Sul fon- damento della nostra credenza nel governo divino del mondo», nel quale s’identificava Dio con l’or- dine morale del mondo. Per la polemica che seguì a questo articolo, Fichte fu costretto a dimettersi dal- l’Università di Jena. Fichte, come Spinoza, rigettava l’accusa di A.; e, comunque si voglia giudicare la cosa, è certo che il panteismo non è A. professato. 4° A. professato è invece, in alcune delle sue forme, il pessimismo. Il disordine, il male, l’infeli- cità del mondo sono, secondo Schopenhauer, osta- coli insormontabili sia all’affermazione del Dio personale che è richiesto dal teismo, sia all’identi- ficazione del mondo con Dio operata dal panteismo (Selected Essays, trad. ingl. Belfort-Bax, pag. 71). Teismo e panteismo presuppongono l’ottimismo che non solo è smentito dai fatti in quanto viviamo nel peggiore dei mondi possibili, ma è anche pernicioso perchè non fa altro che legare gli uomini alla spie- tata e crudele volontà di vita (Die Welt, ecc., II, cap. 46). Nella filosofia contemporanea, la dottrina di Sartre rappresenta un A. pessimistico aggior- nato coi nuovi indirizzi della speculazione. Non è il male o il dolore come tale il fondamento di questo pessimismo; ma piuttosto l'ambiguità radicale, l’in- certezza dell’esistenza umana gettata nel mondo e dipendente soltanto dalla propria assoluta libertà che la condanna allo scacco. Non c’è Dio, secondo Sartre, ma c’è l’essere che progetta di essere Dio, cioè l’uomo: progetto che è nello stesso tempo l’atto della libertà abissò nel mare e scomparve, rendendo impraticabile e ine- splorabile il mare nel quale era situata (7im., 24 sgg.). La Nuova A. è un’opera postuma di Bacone, pubblicata nel 1627. È la descrizione di 8 — ARRAGNANO, Dizionario di filosofia. una società in cui la scienza, posta a servizio dei bisogni umani, ha scoperto o va scoprendo le tecniche per far dell’uomo il dominatore dell’uni- verso. La Nuova A. è perciò un paradiso della tecnica dove sono portati a compimento le inven- zioni e i ritrovati di tutto il mondo e ha l’aspetto di un enorme laboratorio sperimentale nel quale gli abitanti cercano di « estendere i confini dell’im- pero umano ad ogni cosa possibile ». I numi tutelari dell’isola sono i grandi inventori di tutti i paesi e le sacre reliquie sono gli esemplari di tutte le più rare e importanti invenzioni. ATOMICO (ingl. Atomic; franc. Atomique; ted. Atomik). Elementare, non riducibile a parti costitutive più semplici. Fatto A.: si è tradotto con questa espressione ciò che Wittgenstein aveva chia- mato «stato di cose» (Sachkverhalte) cioè il fatto in quanto costituisce l’elemento ultimo del mondo (Tract. logico-philos., 1922, 2). Proposizione A.: la proposizione elementare cioè quella che « asse- risce l’esistenza di un fatto A. + (/bid., 4. 21). Cor- risponde alla propositio categorica della logica sco- lastica: è una proposizione immediatamente vera o falsa (appunto come imagine di un fatto A.), non scomponibile in altre proposizioni più sem- plici. G. P.-N. A. ATOMISMO (ingl. Aromism; franc. Atomisme; ted. Atomismus). S’intendono con questa parola tre dottrine diverse, che hanno scopi diversi, e precisamente: 1° l’A. filosofico o naturalismo ato- mistico; 2° la teoria atomica; 3° la concezione atomistica della realtà psichica o sociale o del lin- guaggio. 1° L’A. filosofico è quello di Democrito e Leucippo, degli Epicurei e di Gassendi. Esso è una filosofia della natura che non ha maggiori basi sperimentali della fisica aristotelica (v. ATOMO). 2° La teoria atomica (ingl. Atomic Theory; franc. Théorie atomique; ted. Atomtheorie) è quella formulata nella scienza moderna per la prima volta da Dalton, ed esprime il modello che la scienza si è via via fatta dell’aromo (v.). 3° La concezione atomistica (ingl. Atomistic Idea; franc. Idée atomistique; ted. Atomistisches Denken) consiste nel proporre per la spiegazione della vita della coscienza o della società o del linguaggio un’ipotesi analoga a quella dell’A. filo- sofico o della teoria atomica assumendo che co- scienza o società o linguaggio siano costituiti da elementi semplici irreducibili, la cui diversa com- binazione ne spieghi tutte le modalità. Così fa l’associazionismo (v.) per la vita della coscienza e l’individualismo (v.) per la vita della società. Si parla pertanto di A. associazionistico (per es., ne parlava JAMES, Psychology, I, 1890, pag. 604 e ne parla KATZ, Gestalipsychologie, cap. 1). L’espres- 82 ATOMISTICO sione «A. sociale» ricorre frequentemente a de- signare le dottrine individualistiche che ritengono la società risolvibile interamente negli individui che la compongono. Infine l’espressione « A. logico » fu adoperata da Russell nel 1918 per indicare la sua filosofia. «La ragione per cui io chiamo la mia dottrina A. logico, egli diceva, è che gli atomi ai quali desidero arrivare come residui ultimi della analisi sono atomi logici e non atomi fisici » (« The Phil. of Logical Atomism», in The Monist, 1918, ora in Logic and Knowledge, London, 1956). Già nel libro Merodo scientifico in filosofia (1914) aveva parlato di « proposizione atomica » intendendo la proposizione che esprime un fatto cioè che afferma che una cosa ha una certa qualità o che certe cose hanno certe relazioni; e aveva chiamato « atomico » il fatto espresso dalla proposizione atomica. Questi concetti costituiscono anche i capisaldi del Tractatus Logico-Philosophicus (1922) di Wittgenstein. ATOMISTICO. V. AtoMisMo. ATOMO (gr. &ropov; ingl. Atom; franc. Atome; ted. Arom). La nozione di A. ha offerto alla filo- sofia occidentale una delle più importanti alterna- tive di speculazione e di ricerca. Essa è stata infatti lo strumento principale della spiegazione mec- canica delle cose e in generale del mondo (v. Mec- canIcisMo). Leucippo e Democrito elaborarono nel sec. v a. C. questa nozione: l’A. è un elemento corporeo, invisibile per la sua piccolezza e non divisibile. Gli A. differiscono solo per forma e grandezza; unendosi e disunendosi nel vuoto de- terminano la nascita e la morte delle cose e dispo- nendosi diversamente ne determinano la diversità. Aristotele (Mer., I, 4, 985 b 15 sgg.) li paragonò alle lettere dell'alfabeto, che differiscono fra loro per la forma e danno luogo a parole e a discorsi diversi, disponendosi e combinandosi diversamente. Le qua- lità dei corpi dipendono dunque o dalla figura degli A. o dall’ordine e dal movimento di essi. Perciò non tutte le qualità sensibili sono oggettive e appartengono veramente alle cose che le provocano in noi. Sono oggettive le qualità proprie degli A.; la forma, la durezza, il numero, il movimento; invece il freddo, il caldo, i sapori, i colori, gli odori, sono soltanto apparenze sensibili provocate bensì da speciali figure o combinazioni di A., ma non appartenenti agli A. stessi (DeMOCRITO, Fr. 5, Diels). Il movimento degli A. è determinato da leggi immutabili: « Nessuna cosa, dice Leucippo {Fr. 2) accade senza ragione ma tutto accade per una ragione e di necessità ». Il movimento originario degli A. facendoli roteare e urtarsi in tutte le direzioni produce un vortice dal quale le parti più pesanti sono portate al centro e le altre invece respinte verso la periferia. Il loro peso, che li fa tendere verso il centro, è dunque un effetto del loro movimento vorticoso. In questo modo si formano infiniti mondi che incessantemente si generano e si dissolvono. Questi capisaldi, propri del vecchio atomismo, rimasero immutati nelle altre forme dell’atomismo. La fisica di Epicuro rappresenta una ripetizione della fisica democritea: non molta importanza ha difatti la variante di Epicuro che gli A. cadono in linea retta e che s’incontrano e producono vor- tici quando, senza causa, deviano dalla traiettoria rettilinea (CICERONE, De fin., I, 18; De nat. deor., I, 69). La nozione dell’A. non viene utilizzata per tutto il Medioevo, durante il quale l’unica teoria fisica accettata è quella aristotelica delle quattro cause (v. Fisica). E ai principi dell’età moderna, per quanto la nozione ritorni occasionalmente — per es., in Cusano e in Giordano Bruno (De mi- nimo, I, 2) — non viene utilizzata come strumento di una teoria sistematica se non da Pierre Gassendi. Questi però, ammettendo che gli A. sono creati da Dio, da lui dotati di movimento, e da lui guidati e ordinati mediante una specie di anima del mondo, fa perdere alla fisica epicurea il carattere materia- listico e meccanico e la trasforma in una fisica spiritualistica e finalistica (Synragma Philosophiae Epicuri, 1658). Nel frattempo Cartesio aveva dato luogo al meccanismo non atomistico e considerato impossibile la stessa nozione di atomo. «Se gli A. esistessero, egli disse, dovrebbero necessaria- mente essere estesi e in tal caso, per quanto si imaginassero piccoli potremmo sempre dividerli col pensiero in due o più parti minori e riconoscerli perciò come divisibili » (Princ. Phil., II, 20) Fu probabilmente in base a questa considerazione che Leibniz accettò la nozione di un A. non più fisico ma psichico, cioè della monade (v.). La scienza moderna, pur essendo meccanistica, non si avvale, da principio, dell'atomo. È vero che alla fine dell’Orrica (1704) Newton adduceva un com- plesso di ragioni, cioè di esperienze, per ammettere che « tutti i corpi siano composti di particelle dure »; e formulava l’ipotesi che « Dio al principio abbia dato alla materia la forma di particelle solide, do- tate di massa, dure, impenetrabili e mobili, di tali dimensioni e figure e con tali proprietà e in tali proporzioni con lo spazio, da essere adatte al fine per il quale egli le ha formate» (Opzicks, IMI, 1, q. 31); ma è anche vero che queste e simili specula- zioni cadevano fuori della scienza appartenendo alla sfera delle opinioni private dello scienziato. In realtà, l’ipotesi atomica fa il suo ingresso nella scienza soltanto ai principi dell’800, per opera della chimica. La legge delle proporzioni multiple, for- mulata da Giovanni Dalton, esprimeva il fatto che quando una sostanza entra in combinazione con quantità diverse di un’altra sostanza, queste quan- tità stanno tra loro come i numeri semplici, cioè ATTEGGIAMENTO 83 si comportano come se fossero parti indivisibili. Ma le parti indivisibili non sono altro che atomi.’ Pertanto l’ipotesi della composizione atomica della materia come spiegazione della legge delle pro- porzioni multiple veniva avanzata da Dalton nel 1808. Per quanto essa suscitasse sùbito vivaci op- posizioni perchè appariva come il ritorno di una vecchia dottrina metafisica quindi come uno scon- finamento della scienza nella metafisica, essa in realtà era ora un’ipotesi invocata a dar ragione di un fatto bene accertato. E più che un’ipotesi, la nozione stessa apparve come una realtà quando nel 1811 la teoria di Avogadro (circa l’uniformità del numero delle particelle contenute in un volume dato di gas) permetteva di stabilire il peso degli A. relativamente ali’ A. d’idrogeno, assunto come unità: il che dava agli A. una realtà fisica (misurabile). La nozione di A. doveva subire una trasformazione radicale a partire dalla seconda metà dell’800 con lo studio dei fenomeni dei gas rarefatti e delle ema- nazioni radioattive. L’A., indivisibile per la chimica, non era più indivisibile per la fisica. Verso il 1904 Thompson escogitava il primo modello di A., ima- ginando che esso fosse costituito da una piccola palla elettrizzata positivamente che racchiudesse nel suo interno un certo numero di elettroni. Ma al- cune esperienze di Rutherford mostravano che la materia è assai meno compatta di come avrebbe fatto supporre il modello atomico di Thompson. Perciò Rutherford verso il 1911 imaginava la strut- tura dell'A. come un sistema solare in miniatura, costituito da un nucleo centrale elettrizzato positi- vamente (paragonabile al Sole) e da vari elettroni rotanti intorno ad esso (paragonabili ai pianeti). Un'ulteriore innovazione del modello dell’A. fu operata da Bohr, il quale, tenendo presente la scoperta del quantum di azione, imaginò che l’elet- trone percorra intorno al nucleo un numero deter- minato di ellissi e possa saltare da un’ellissi all’altra, liberando in questo salto un quanium di energia. La scoperta del principio di indeterminazione (v.) dimostrava tuttavia che non è possibile osservare nella sua interezza la traiettoria di un elettrone e che perciò la stessa nozione di traiettoria non ha significato fisico (nulla che non sia osservabile o misurabile ha significato fisico). Ma allora lo stesso modello dell’A. di Bohr perdeva il suo significato fisico e cessava di avere la pretesa di essere l’imagine esatta dell’atomo. Dal 1927 in poi, cioè dalla data in cui Heisenberg ha scoperto il principio di in- determinazione, la scienza ha praticamente abban- donato ogni tentativo di descrivere l’A. o di defi- nirlo in un modo qualsiasi. Allo stato attuale delle cose l’aggettivo «atomico » rimane soltanto a de- signare la scala sulla quale certi fenomeni possono essere osservati e misurati. ATOMO PRIMEVO (ingl. Primeval Atom). L’ipotesi cosmogonica che presenta l’universo come il risultato della disintegrazione radioattiva di un atomo (G. LeMAITRE, The Primeval A., An Essay on Cosmogony, 1950) (v. COSMOLOGIA). ATTEGGIAMENTO (ingl. Attitude; franc. At- titude; ted. Einstellung). Termine ampiamente usato nella filosofia, nella sociologia e nella psicologia contemporanee per indicare in generale l’orienta- mento selettivo e attivo dell’uomo nei confronti di una situazione o di un problema qualsiasi. Dewey ritiene la parola sinonima di abito (v.) e di disposizione (v.); e in particolare gli sembra che essa designi «un caso speciale di predisposizione, la disposizione che aspetta di prorompere attraverso una porta aperta» (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 41). Lewis analogamente dice che nel- l’A. ciò che è presente è afferrato nel suo significato pratico e anticipatorio, come un indizio di ciò che sta al di là, nel futuro (An Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 438). Del termine si è servito ampiamente Stevenson per la sua distinzione tra « si- gnificato descrittivo » e « significato emotivo » delle parole: il primo dei quali si avrebbe quando la risposta allo stimolo è un insieme di processi men- tali conoscitivi e il secondo quando la risposta allo stimolo è una certa spinta all'azione. Stevenson chiama A. questa spinta all’azione, che viene, non si sa perchè, qualificata come « emotiva »; ma ri- tiene troppo difficile definire precisamenono di un determinato reticolato di forme trascendentali » (Psychologie, Intr., $ 4). Più precisamente l’A. si può definire come il progetto di scelte a venire di fronte a un certo tipo di situazione (o di pro- blemi); o come un progetto di comportamento che consenta di effettuare scelte di valore costante nei confronti di una situazione determinata. In questo caso dire, per es., che «x ha un A. contrario al matrimonio » significa dire che x progetta di non sposarsi; perciò, in generale, l’A. di x per S è un progetto di x riguardante il comportamento da te- 84 ATTEGGIAMENTO NATURALnere nei confronti di situazioni in cui S è possibile (cfr. ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, cap.V). ATTEGGIAMENTO NATURALE (tedesco Naturlicher Einstellung). Husserl ha chiamato così l’A. che consiste nell’assumere come esistente il comune mondo in cui viviamo, formato di cose, beni, valori, ideali, persone, ecc., così com’esso si offre a noi. Da questo A. la filosofia fenomenolo- gica intende uscire mediante un dubbio radicale che consiste nel sospendere l’A. naturale, cioè nel vie- tarsi ogni giudizio sull’esistenza del mondo e di tutto ciò che è in esso. Solo questo nuovo A. sarebbe il punto di partenza della ricerca filosofica (/deen, I, $ 27 seg.) (v. EPOCHÉ; SOSPENSIONE DELL’ASSENSO). ATTENZIONE (ingl. Attention; franc. Af- tention; ted. Aufmerksamkeit). Nozione relativa- mente recente (sec. xvil) con la quale s’intende in generale l’atto con cui lo spirito prende possesso in forma chiara e vivida di uno dei suoi possibili oggetti; o il presentarsi in forma chiara e vivida di uno di tali possibili oggetti allo spirito. La no- zione di A. si trova in Cartesio, che la intende come l’atto con cui lo spirito prende in considera- zione un unico oggetto per qualche tempo (Passions de l’àme, I, $ 43). Locke chiama «A.» l’A. pas- siva con la quale lo spirito è attratto da certe idee mentre chiama «riflessione» l’A. attiva per cui esso sceglie certe idee come propri oggetti privile- giati (Saggio, II, I, $ 8). Egli dice: «Quando si prende nota delle idee che ci si presentano da sè, ed esse vengono per così dire registrate nella me- moria, si tratta dell’A. » (/bid., II, 19, $ 1). Leibniz, invece, dà un senso attivo all’A.: « Noi facciamo A. agli oggetti che distinguiamo e preferiamo agli altri ». E come forme dell’A. enumera la considera- zione, la contemplazione, lo studio, la meditazione (Nouv. Ess., II, 19, $ 1). Essa costituisce il pas- saggio dalle piccole percezioni all’appercezione (/bid., prefaz.). Lo stesso carattere attivo l’A. con- serva in Wolff (Psychol. emp., $ 237) e in Kant (Antr., I, $ 3) il quale la definisce come «lo sforzo di di- ventar cosciente delle proprie rappresentazioni ». A partire dalla seconda metà del sec. xrx, col sorgere della psicologia scientifica, l’A., conside- rata come una delle condizioni della vita psichica, cade sotto la competenza di questa scienza. Il con- cetto di essa rimane quello che i filosofi avevano formulato; e gli psicologi distinguono un’A. spon- tanea o passiva o involontaria, per la quale è l’og- getto che s'impone alla coscienza; e un’A. attiva o volontaria o controllata per la quale è il soggetto che sceglie l'oggetto della sua attenzione. La psi- cologia contemporanea considera l’A. come l’adat- tamento attivo ad una situazione, come l’orienta- mento selettivo nei confronti degli oggetti da percepire (cfr., ad es., D. O. HeBB, 7lie Organisa- tion of Behaviour, 1949, pag. 4). Con questa nozione dell’A., che si adatta allo schema generale prevalente nelle scienze antropologiche secondo il quale ogni attività dell’uomo è la sua risposta a un complesso determinato di stimoli (situazioni o problemi), l'A. è stata sottratta al dominio della pura interiorità e riconosciuta come una forma di comportamento (v.). ATTIMO (gr. tò tEalewne; lat. Momentum; ingl. Instant; franc. Instant; ted. Augenblick). 1. Se- condo il significato specifico, che è proprio di una certa tradizione filosofica, l’A. ha un significato diverso dall’ora (v.) o istante, che è il limite o la condizione del tempo, perchè rappresenta una specie di incontro o di compromesso tra il tempo e l’eter- nità. Questa nozione rimonta a Platone. «L’A., egli diceva, sembra che indichi ciò che fa da tran- sizione tra due mutamenti inversi. Il trapasso in- fatti dal movimento alla quiete e viceversa non ha luogo a partire da un’immobilità che è ancora immota o dal movimento che è tuttora mosso. La natura un po’ strana dell’A. si asside nel mezzo tra la quiete ed il moto pur non essendo cesso nel tempo e lo fa essere il punto di arrivo e di partenza di ciò che si muove verso lo star fermo e di ciò che sta fermo verso il muoversi» (Parm., 156 d). In altri termini per Platone l’A. non è nè il tempo nè l'eternità, nè il movimento nè la quiete, ma sta in mezzo tra essi e costituisce il loro punto di in- contro. Questa nozione è stata ripresa da Kierke- gaard che ha visto nell’A. la subitanea inserzione dell'eternità nel tempo e quindi la subitanea in- serzione della verità divina nell'uomo cioè la na- scita della fede (Philosophische Brocken, cap. IV; cfr. Werke, II, pag. 108, 116 sgg.). Il carattere istantaneo della fede esclude che essa possa essere suscitata o prodotta da procedimenti di dimostra- zione o di persuasione. Di qui la polemica di Kierke- gaard contro la chiesa ufficiale danese. Polemica che egli condusse nel giornale che intitolò per l’ap- punto L’attimo. Il concetto dell’A. ritorna nell’esi- stenzialismo tedesco ma senza la risonanza religiosa che aveva in Kierkegaard. Dice Jaspers: « L’A. vis- suto è il fatto supremo, calore di sangue, immedia- tezza, vita, presente corporeo, totalità del reale, unica cosa vera e concreta. Invece di partire dal presente per perdersi nel passato o nel futuro, l’uomo trova l’esistenza e l’assoluto nell’A. che solo può darglieli. Passato e futuro sono abissi oscuri informi, tempo indefinito, mentre l’A. può essere l'abolizione del tempo, la presenza del- l’eterno » (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, I, 3; trad. ital., pag. 132). Lo stesso Jaspers mette in rapporto la che istante od ora (v.). ATTITUDINE (ingl. Aptitude; franc. Aptitude; ted. Eignung). Da non confondere con atteggia- mento (v.). Questo termine designa la presenza di determinati caratteri che nel loro complesso ren- dono l’individuo particolarmente adatto ad un còm- pito determinato. Sulla determinazione delle A. è fondato l’orientamento professionale, cioè la sele- zione e l’avviamento dell’individuo a questo o a quel lavoro, in conformità delle sue attitudini. ATTIVISMO (ingl. Activism; franc. Activisme; ted. Activismus). Il significato di questo termine va tenuto distinto da quello di artualismo (v.): questo indica la teoria metafisica per la quale la realtà è atto o attività, mentre il termine in questione in- dica l’atteggiamento (talvolta razi A. sono state, in questo senso, il fascismo, il nazismo e lo stali- nismo. (Cfr. K. MANNHEIM, /deologie und Utopie, 1929, III, $ 2; trad. ital., pag. 141). ATTIVITÀ (ingl. Activity; franc. Activité; te- desco Tatigkeit o Aktiviràt). Questo termine ha due significati corrispondenti ai due significati della parola azione. Da un lato, infatti, esso viene ado- perato a indicare un complesso più o meno omo- geneo di azioni volontarie (in riferimento al signi- ficato 2° della parola azione) come quando si dice «x ha svolto intensa A. politica». Dall’altro, è adoperato a indicare il modo d'essere di ciò che agisce o ha in suo potere l’azione, come quando si dice « Lo spirito nel conoscere è attivo + per dire che non è semplicemente ricettivo o passivo. Il contrario di A. in questo secondo senso è « passi- vità », mentre il contrario di A. nel primo senso è s inerzia » o « inazione ». L’uso filosofico coincide con l’uso del linguaggio comune ed è quindi anch’esso duplice. Tuttavia prevale, soprattutto nell’uso moderno, il secondo significato. Malebranche (Recherche de la vérité, II, 7), alcuni ideologi francesi e Galluppi (Filosofia della volontà, I, 6, $ 60) si servono del termine A. per designare il modo d’agire della volontà; ma anche in questo caso il significato del termine è il secondo, non il primo. Per questo secondo si- gnificato si può forse risalire a Locke che distingue la « passività » dello spirito per la quale esso riceve tutte le sue idee semplici, dall'A. per cui esso « compie in proprio numerosi apotere creativo, è al centro della filosofia di Fichte. « L’A. dell’io consiste nell’il- limitato porsi » dice Fichte (Wissenschaftslehre, 1794, II, $ 4) e ponendo se stesso, l'io pone nello stesso tempo anche il mondo esterno come proprio li- mite e condizione. Da Fichte in poi la filosofia moderna ha avuto come uno dei suoi temi prefe- riti «1’A. creatrice dello spirito » delle quali alcune filosofie, come l’attualismo di Gentile, hanno fatto 86 ATTO il proprio tema dominante. È chiaro che in queste forme estreme la nozione di attività perde il suo significato: questo deriva dal rapporto con quelia di passività, in quanto designa la possibilità e il potere d’azione di fronte a limiti o condizioni determinate; mentre là dove l’A. è infinita, limiti o condizioni non sussistono e la distinzione tra A. e passività non dà senso. ATTO (gr. evipyea, tvredtyera; lat. Actus; ingl. Act; fr. Acte; ted. Akt). Questo termine ha due significati: 1° quello di azione nel significato ri- stretto e specifico di questa parola, come operazione che emana dall’uomo o da un suo potere specifico (v. AZIONE, 2). Diciamo infatti « A. volontario », «A. responsabile » o «A. dell’intelletto », « A. mo- rale », ecc.; ma non diciamo «A. degli acidi sui metalli » o « A. distruttivo del DDT», ecc., bensì usiamo, in questi casi, la parola « azione +; 2° quello di realtà che si è realizzata o si va realizzando, dell’essere che ha raggiunto o va raggiungendo la sua forma piena e finale, in quanto si contrappone a ciò che è semplicemente potenziale o possibile. Nel secondo senso la parola fa esplicito riferi- mento alla metafisica di Aristotele e alla sua di- stinzione fra potenza ed atto. L’A. è l’esistenza stessa dell’oggetto: sta alla potenza «come il co- struire al saper costruire, l'essere desto al dormire, il guardare al tener chiusi gli occhi pur avendo la vista, e come l’oggetto cavato dalla materia ed ela- borato compiutamente sta alla materia grezza e al- l’oggetto non ancora finito » (Mer., IX, 6, 1048 a 37). Alcuni A. sono movimenti, altri azioni: sono azioni quei movimenti che hanno il loro fine in se stessi, per es., il vedere o l’intendere o il pensare; mentre l’apprendere, il camminare, il costruire hanno fuori di sè il loro fine, nella cosa che si apprende, nel punto cui si vuole arrivare, nell’oggetto che si co- struisce. L'azione perfetta, che ha in sè il suo fine, è detta da Aristotele A. finale o entelechia (v.). Mentre il movimento è il processo che porta gra- dualmente all'A. ciò che prima era in potenza, l’entelechia è il termine finale (re/os) del movimento, il suo compimento perfetto. Come tale è anche la realizzazione completa, quindi la forma perfetta di ciò che diviene, la specie e la sostanza. L’A. pre- cede la potenza sia rispetto al tempo sia rispetto alla sostanza: giacchè se il seme vien prima della pianta, in realtà esso non può essere derivato che da una pianta. Ciò che nel divenire è ultimo, è sostanzialmente primo: la gallina vien prima dell’uovo (/bid., IX, 8, 1049b 10 sgg.). Queste distinzioni hanno dominato per molti secoli il pen- siero occidentale e sono entrate a far parte del linguaggio comune. S. Tommaso ripropone queste distinzioni con la sua solita chiarezza a proposito della differenza tra A. ed azione, dicendo: «L’A. è duplice, cioè primo e secondo. L’A. primo è la forma e l’integralità della cosa (forma et inte- gritas rei); l’A. secondo è l’operazione (operatio) + (S. Th., I, q. 48, a. 5; Contra gent., II, 59). In altri termini ogni realtà come tale è A. e quindi è A. anche l’azione, per es., un'operazione della volontà o dell’intelletto, sebbene non si tratti, in questo caso, di un oggetto esistente. Nella concezione aristotelica la distinzione tra potenza e A. determina l’ordinamento gerarchico dell’intera realtà che va da un estremo limite in- feriore che è la materia prima (v.), pura potenzialità indeterminata, a Dio che è puro A., senza mesco- lanza di potenzialità. Dio è difatti il Primo Motore immobile dei cieli; e poichè il movimento dei cieli è continuo, il motore di esso non solo deve essere eternamente attivo, ma dev’essere per sua natura attività, assolutamente privo di potenza. E poichè la potenza è materia, esso è anche privo di ma- teria, A. puro (Mer., XII, 6, 1071 b 22). La no- zione di A. puro è rimasta fondamentale per la elaborazione dell'idea di Dio nel pensiero occi- dentale. Ad essa si rifanno alcune moderne « filo- sofie dell'A. »: qual è quella di Gentile, che è intesa a realizzare la rigorosa e totale immanenza di ogni realtà nel soggetto pensante, cioè nted. Attribut). Il termine latino cor- risponde probabilmente a ciò che Aristotele chia- mava « accidente per sè » (An. post., I, 22, 83 b 19; Met., V, 30, 1025 a 30): indica, cioè, un carattere o una determinazione che, pur non appartenendo alla sostanza dell'oggetto, quale risulta dalla defini- zione, trova in questa sostanza la sua causa (vedi AcciIDENTE). Nella Scolastica il termine fu usato quasi esclusivamente per indicare gli A. di Dio come la bontà, l’onnipotenza, la giustizia, l’infi- nità, ecc., che sono anche chiamati momi di Dio (cfr. S. Tommaso, S. Th., I, q. 33). Quest’uso ter- minologico fu modificato da Cartesio con l’esten- sione del termine alle qualità permanenti della sostanza finita. Difatti Cartesio intende per A. le qualità in quanto « ineriscono alla sostanza ». Perciò «in Dio diciamo che non ci sono propriamente modi o qualità ma soltanto A., perchè nessuna variazione si deve concepire in Lui. E anche nelle cose create, ciò che in cose non si comporta mai in modo diverso, come l’esisitenza e la durata, non deve essere, nella cosa che esiste ec dura, chiamata qualità o modo, ma A.» (Princ. Phil, I, $ 56). Questa terminologia è stata letteralmente fatta propria da Spinoza, con la sola correzione che, dal momento che non esistono sostanze finite, gli attributi possono essere solo di Dio. « Per A., dice Spinoza, intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente l’essenza di essa » (Er/., I, 4). Dio o la sostanza consta di infiniti A. ognuno perciò esiste necessariamente (/bid., I, 11): di tali in- finiti A., però ne conosciamo due soltanto, cioè il pensiero e l’estensione (/bid., II, 1-2). Per la loro immutabilità e la loro connessione con la sostanza divina, gli attributi sono a loro volta eterni e infi- niti e sono il tramite per il quale da Dio scaturi- scono gli enti finiti (i modi della sostanza) con assoluta necessità (/bid., I, 21-23). Nella filosofia moderna e contemporanea la pa- rola A. è raramente usata, salvo che nel suo signi- ficato logico-grammaticale di predicato. ATTUALISMO (ingl. Actualism; franc. Actua- lisme; ted. Aktualitàtstheorie). Ogni dottrina che riconosca come sostanza o principio dell'essere un atto o un'attività. Ogni dottrina di questo ge- nere è una forma di idealismo, e precisamente di idealismo romantico. A. è pertanto la dottrina di Fichte che riconosce come principio l’attività del- l’Io infinito. A. è pure la dottrina di Hegel per il quale l’Idea è attualità perfetta di coscienza. In Italia il termine A. è stato ristretto a indicare l’idea- lismo di Gentile in quanto risolve ogni realtà nel- l’atto del pensiero o nel «pensiero in atto» o « pensiero pensante » (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916). In questo senso Gentile parlava della «attualità» o «attuosità » dello spi- rito; e dello spirito come « auto-posizione », « auto- creazione » o « autoctisi ». Questo termine va tenuto distinto da attivismo. AUMENTO E DIMINUZIONE (gr. dino xal glow; lat. Auctio et diminutio; ingl. Increase and Diminution; franc. Augmentation et diminution; ted. Vermehrung und Verringerung). Secondo Ari- stotele, una delle quattro specie del mutamento e precisamente il mutamento secondo la categoria della quantità, anch’esso riducibile, come tutte le altre, al mutamento di luogo (Fis., IV, 4, 211 a). AURA VITALIS. Termine adoperato da Giovan Battista Helmont (1577-1644) per indicare la forza che muove, anima e ordina gli elementi corporei. AUTARCHIA (gr. aùripxera; ingl. Self-suffi- ciency; franc. Autarchie; ted. Autarkie). La condi- zione di autosufficienza del saggio, al quale essere virtuoso basta per essere felice, secondo i Cinici (Droc. L., VII, 11) e gli Stoici (Zbid., VII, 1, 65). AUT AUT. È il titolo di una delle prime opere di Kierkegaard (1843), titolo che esprime l’alter- nativa che si offre all’esistenza umana, di due forme di vita o come Kierkegaard dice, di due «stadi fondamentali della vita»: la vita estetica e la vita morale. Tra questi due stadi, come tra essi e lo stadio religioso che Kierkegaard analizzò in Timore e tremore (1843) non c’è passaggio nè pos- sibilità di conciliazione, ma abisso e salto. L’aut aut, cioè la forma dell’alternativa fu da Kierke- gaard contrapposta alla forma della dialettica di Hegel nella quale c’è sempre conciliazione, sintesi e armonia tra gli opposti (v. DIALETTICA). AUTENTICO (ingl. Authentic; franc. Authen- tique; ted. Authentisch). Termine adoperato da Jaspers (insieme a quello simmetrico e opposto di inauten- tico) per indicare l'essere che è proprio dell’uomo in contrapposto acome una caduta da uno ‘stato originario’ più puro e più alto. Di qualcosa di simile non solo non abbiamo alcuna sperimentazione ontica, ma neppure la via di una possibile interpretazione on- tologica + (/bid., $ 38). In un senso analogo a quello di Jaspers o di Heidegger, le due parole sono usate frequentemente nella filosofia contemporanea. AUTISMO (ingl. Autism; franc. Autisme; tedesco Autismus). Termine creato da Bleuler (LeArbuch der Psychiatrie, 1923) per indicare l’atteggiamento che consiste nell’assorbimento dell’individuo in se stesso con la conseguente perdita di ogni interesse per le cose e gli altri. È un egocentrismo (v.) patologico. AUTOCENTRALITÀ (ingl. Self-centrality; franc. Autocentralité; ted. Selbstcentralitàt). Espres- sione adoperata interno; quella è chiamata appercezione pura (e falsamente senso intimo), questa appercezione empirica. Nella psi- cologia indaghiamo noi stessi secondo le rappre- sentazioni del nostro senso interno, nella logica invece, secondo ciò che la coscienza intellettuale ci offre. Così l’io ci appare doppio (il che può es- sere contraddittorio): 1° l’io come soggetto del pen- siero (nella logica) a cui si riferisce l’appercezione pura (l’io che soltanto riflette) e di cui nulla si può dire tranne che è una rappresentazione del tutto semplice; 2° l’io come oggetto dell’appercezione equindi del senso interno, che include una molte- plicità di determinazioni le quali rendono possibile un’esperienza interna ». L’A. non è dunque la co- scienza (empirica di sè) ma la cosmateriale ma questo materiale deve essergli dato e quindi dev'essere un materiale sen- sibile. Fichte trasforma questo concetto funzionale kantiano in un concetto sostanziale: ne fa un Io infinito, assoluto e creatore e pertanto considera l’A. come auto-produzione o auto-creazione. L’A. diventa così il principio non solo della conoscenza ma della realtà stessa; e principio non nel senso di condizione, ma di forza o attività produttiva. Auto- producendosi, l’Io produce nello stesso tempo il non-io, cioè il mondo, l’oggetto, la natura. Dice Fichte: « Non si può pensare assolutamente a nulla senza pensare in pari tempo al proprio Io come cosciente di se stesso; non si può mai astrarre della propria A.»(Wissenschaftslehre, 1794, $ 1, 7). Matale A. è in realtà il principio creatore del mondo: « L’Io di ciascuno è esso stesso l’unica Sostanza suprema » dice Fichte criticando Spinoza (/bid., $ 3, D6); ‘ L’essenza della filosofia critica consiste in ciò che un Io assoluto viene posto come assolutamente incon- dizionato e non determinabile da nulla di più alto». Questa nozione dell’A. divenne il fondamento dell’Idealismo romantico. Dice Schelling: «L’A., dalla quale noi partiamo, è atto uno ed assoluto; e con quell’atto uno è posto non solamente l’Io stesso con tutte le sue determinazioni ma anche ogni altra cosa che è posta in generale per l’Io... L'atto dell’A. è ideale e reale ad un tempo ed as- solutamente. Mercè di esso, ciò che è stato posto realmente, diviene idealmente anche reale e ciò che si pone idealmente è posto anche realmente » System des transzendentalen Ideal., 1800, sez. III, avvertenza). Quanto a Hegel, egli già nella Propedeutica filosofica (Dottrina del concetto, $ 22) diceva: « Come A. l’Io guarda se stesso, e l’espressione di questa nella sua purezza è: Io = Io, oppure: Io sono Io» e nella Enciclopedia ($ 424): « La verità della coscienza è l’A., e questa è il fondamento di quella; cosicchè nell’esistenza la coscienza di un altro oggetto è A.; io so l’oggetto come mio (esso è mia rappresenta- zione), io perciò so in esso me stesso ». Nella sua forma più alta l’A. è « A. universale » cioè ragione assoluta. « L’A., ossia la certezza che le sue deter- minazioni sono tanto oggettive — determinazioni dell’essenza delle cose — quanto suoi propri pen- sieri, è la ragione; la quale, in quanto ha siffatta identità, è non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere »' (Enc., $ 439): cioè la ragione come sostanza o realtà ultima del mondo. L’A. come auto-creazione e perciò creazione della realtà tutta, rimane la nozione dominante dell’Idea- lismo romantico, non solo nella sua forma classica (alla quale si è accennato) ma anche nelle forme ricorrenti nella filosofia contemporanea, cioè nel- l’idealismo anglosassone e nell’idealismo italiano (v. IpeaLISMO). Fuori dell’Idealismo, la nozione non può essere utilizzata e non presenta neppure problemi: giacchè i problemi filosofici, psicologici e sociologici inerenti alla coscienza di sè sorgono ovviamente soltanto quando per tale coscienza s'intenMIE). AUTOMA (gr. adrsuarov; lat. Automaton; inglese Automaton; franc. Automate). Ciò che si muove da sè, in generale; o una cosa inanimata che si muove da sè; o, più specificamente, un apparato meccanico che effettua qualcuna delle operazioni ritenute proprie dell’animale o dell’uomo. Si hanno notizie di A. favolosi costruiti dagli antichi. Nel sec. xvm, il meccanico francese Vau- canson costruì un A. che suonava il flauto. Samuel Butler in scritti romanzeschi (Darwin tra le mac- chine, 1863; Lucubratio ebria, 1865; Erewhon, 1872) parlava di macchine che hanno poteri umani ed entrano in conflitto con. l’uomo. L’inglese Charles 90 AUTONIMO Babbage (1792-1871) progettò una macchina calco- latrice che però non venne mai costruita. Un A. logico cioè una macchina capace di com- binare proposizioni e derivarne conclusioni fu costruita da Stanley Jevons nel 1869. John Venn costruiva nel 1881 un diagramma che poteva essere adoperato in maniera da illustrare le relazioni tra i valori di verità delle proposizioni. Nel 1885 Allan Marquand disegnava una macchina analoga a quella di Jevons e nel 1947 un calcolatore elettrico fu costruito ad Harvard da T. A. Kalin e W. Burk- hart per la soluzione di problemi impostati sul- l’algebra di Boole, che ha per oggetto variabili che possono assumere solo due valori (vero o falso, indicati rispettivamente con 1 e 0) e che perciò può essere applicata in tutti i casi in cui si ha la scelta tra due alternative. La teoria degli A. nel senso moderno, cioè delle macchine calcolatrici fu sviluppata da A. M. Turing nel 1936. I calcolatori eseguono in generale il programma in base al quale sono stati progettati, ma effettuano le operazioni relative con rapidità e sicurezza enormemente maggiori di quanto po- trebbe fare un uomo. Tali A. sono cioè « rispar- miatori di tempo». Da essi il biologo inglese R. W. Ashby distinse gli « amplificatori dell’intel- ligenza » che hanno, ad un certo grado, ciò che nell’uomo si chiama « iniziativa ». Tra questi ci sono in fase di realizzazione o in fase teorica, gli A. che giuocano e gli A. che imparano. Von Neumann ha parlato anche di A. che si riproducono (Theory of Self-Reproducing Automata, 1966). Per le teorie relative a tali A. vedi CIBERNETICA. AUTONIMO. V. Uso. AUTONOMIA (ingl. Autonomy; franc. Auto- nomie; ted. Autonomie). Termine introdotto da Kant per designare l’indipendenza della volontà da ogni desiderio od oggetto di desiderio e la sua capacità di determinarsi in conformità di una legge propria, che è quella della ragione. L’A. è cotrapposta da Kant alla eteronomia per la quale la volontà è determinata dagli oggetti della facoltà di desiderare. Anche gli ideali morali della felicità o della perfezione suppongono l’eteronomia della vo- lontà perchè suppongono che essa sia determinata dal desiderio di raggiungerli e non da una sua propria legge. L’indipendenza della volontà da ogni oggetto desiderato è la libertà nel senso negativo, mentre la legislazione propria di essa (come « ragion pratica ») è la libertà nel senso positivo. « La legge morale non esprime nient'altro che l’A. della ragion pura pratica, cioè della libertà » (Cri. R. Prat., I, $ 8). In virtù di tale A. «Ogni essere ragionevole deve considerarsi come fondatore di una legislazione universale » (Grundlegung zur Met. der Sitten, II, [BA 77)).. Questo è rimasto il concetto classico dell'autonomia. Più genericamente si parla oggi, per es., di un «principio autonomo» nel senso di un principio che abbia in sè, o ponga da sè, la sua validità o la regola della sua azione. AUTOOSSERVAZIONE, AUTORIFLES- SIONE, AUTOSCOPIA. V. INTROSPEZIONE. AUTORIFERIMENTO (ingl. Self-reference). Con questo termine equivalente a riflessività (v.), è indicata nei Principia Mathematica (Intr., cap. II, pag. 64) di Whitehead e Russell la comune cache resistono acquistano la loro dannazione. I prin- cìpi infatti sono il terrore non delle buone opere ma delle cattive. Vuoi non temere la potestà? Fa il bene e avrai lode da essa. Infatti essa è ministra di Dio a te per il bene. Ma se avrai fatto il male, abbine timore: perchè non invano porta la spada. Essa infatti è ministra di Dio e vendica nell’ira colui che fa il male. Perciò siate soggetti di neces- sità, non solo per timore dell’ira ma anche per la coscienza » (Ad Rom., XIII, I, 5). Questo documento è rimasto fondamentale per la concezione cristiana dell’autorità. Essa viene difesa da Sant'Agostino (De Civ. Dei, V, 19; cfr. V, 21); da Isidoro di Si- viglia (Sent., III, 48) e da Gregorio Magno che insiste sul carattere sacro del potere temporale sino a fare del sovrano il rappresentante di Dio sulla Terra. Sostanzialmente la stessa tesi veniva fatta propria da S. Tommaso: « Da Dio, come dal primo dominante, deriva ogni dominio», egli dice (De Regimine Principum, III, 1). Questa concezione coin- cide con la prima in un carattere negativo: cioè nel rendere l’A. completamente indipendente dal consenso dei soggetti. Ma si differenzia dalla prima in un carattere fondamentale: essa giustifica ogni A. che venga esercitata de facto. Mentre la prima non esige che la classe che è destinata a comandare comandi sempre di fatto (e per Platone infatti la cosa non sta così); la seconda invece implica che ogni A. che di fatto venga esercitata, essendo posta o stabilita da Dio, sia sempre pienamente legittima. Questo è il teorema tipico della concezione in esame: teorema che consente di riconoscerla anche nelle forme più o meno consapevolmente mistifi- cate. Quando, per es., Hegel afferma che lo Stato è «la realizzazione della libertà» o «l’ingresso di Dio nel mondo» (Fil. del dir., $ 258, Aggiunta) fa coincidere quella che per lui è I’A. più alta con la realtà storica dello Stato: e cioè giustifica ogni potere di fatto, secondo quello che è la mas- sima della sua filosofia: « intendere ciò che è, è il còmpito della ragione, perchè ciò che è, è la ra- gione » (/bid., Pref.). Da questo punto di vista, A. e forza coincidono: ciò che possiede la forza di farsi valere non può non godere di un’A. valida giacchè ogni forza è voluta da Dio o è divina. 3° La terza 1). Uno dei tipici teoremi di questo punto di vista è il carattere di legge che viene riconosciuto alle consuetudini: di- fatti se le leggi non hanno altro fondamento che il giudizio del popolo, quelle che il popolo stesso approvò pur senza scriverle hanno lo stesso valore di quelle scritte (/bid., I, 3, 32). I grandi giuristi del Digesto ammettevano pertanto che l’unica fonte 92 AUTOSUFFICIENZA dell’A. è il popolo romano (R. W.-A. J. CARLYLE, History of Mediaeval Political Theory in the West, II, I, 7; trad. ital., pag. 369 e sgg.). Tale è la forma che assunse, nel Medioevo, la dottrina del fonda- mento umano dell’autorità. Dice Dante: «Il po- polo romano di diritto, non con l’usurpazione, si assunse il còmpito del monarca, che si dice impero, sopra tutti i mortali » (De Mon., II, 3). Nelio stesso modo Ockham affermava che « l'impero romano fu certamente istituito da Dio, ma attraverso gli uo- mini cioè attraverso i Romani » (Dia/ogus inter ma- gistrum et discipulum, III, tract. II, lib. I, cap. 27, in GoLpast, Monarchia, II, pag. 899). La stessa A. papale, Ockham riteneva, è limitata dalle esigenze dei diritti e della libertà di coloro sui quali si estende ed è quindi l’A. di un principato ministra- tivus, non dominativus (De Imperatorum et pontificum potestate, VI). E alla domanda quali sono i diritti e le libertà che devono essere rispettati dalla stessa A. papale, Ockham risponde che sono quelli che spettano anche agli infedeli, sia prima che dopo l'incarnazione di Cristo: giacchè i fedeli non de- vono nè dovranno essere in condizioni peggiori di quelle in cui furono gli infedeli sia prima che dopo l’incarnazione di Cristo (/bid., IX). Marsilio da Pa- dova affermava chiaramente la tesi generale im- plicita in simili riconoscimenti: « Il legislatore, cioè la prima ed effettiva causa efticiente della legge, è il popolo o il complesso dei cittadini oppure la parte prevalente di essi, che comanda e decide per sua scelta o per suo volere in un’assemblea gene- rale, in termini precisi che certi atti umani si devono compiere e altri no sotto pena di penalità o di punizioni corporali» (Defensor pacis, 1, 12, 3). Nicolò da Cusa non meno esplicitamente affermava riferendosi all’A. ecclesiastica: « Poichè tutti gli uomini sono naturalmente liberi, qualsiasi A. che distolga i sudditi dal fare il male e limiti la loro libertà col timore di sanzioni, deriva solo dall’ar- monia e dal consenso dei sudditi, sia che risieda nella legge scritta sia che risieda in quella vivente, rappresentata dal reggitore » (De Concordantia ca- tholica, II, 14). Nel mondo moderno, la prevalenza del contrattualismo (v.) e del giusnaturalismo (v.) determinano la prevalenza di questa dottrina. E nonostante che oggi contrattualismo e giusnatura- lismo non possano più essere invocati come giu- stificazioni sufficienti dello Staro (v.) e del di- ritto (v.) la tesi dell'origine umana dell’A. non è revocata in dubbio. La stessa dottrina di Kelsen, attribuendo l’A. all’ordinamento giuridico non è che una specificazione della tesi tradizionale. Dice Kelsen: «L'individuo che è, o ha, un’A. deve avere ricevuto il diritto di emanare comandi ob- bligatori, di modo che altri individui siano obbli- gati a obbedire. Tale diritto o potere può venire conferito a un individuo soltanto da un ordina- mento normativo. L’A. è quindi originariamente la caratteristica di un ordinamento normativo » (General Theory of Law and State, 1945, II, cap. VI, C, h; trad. ital., pag. 389). Ma, al di là di questo punto di vista formale, sta il problema delle forme o dei modi in cui il consenso che fonda l’A. può essere esercitato o espresso, nonchè dei limiti o dell’estensione che esso può o deve avere nei singoli campi. È chiaro, ad es., che l’A. deve avere in politica còmpiti ed estensione maggiore che non nel campo della ri- cerca scientifica; e che pertanto in politica il con- senso che la convalida deve avere limiti ed esten- sione ed essere esercitato ed espresso in forme e caratteri diversi che non nel campo scientifico. Un riconoscimento che esprima accettazione o consenso è alla base di ogni A.: le modalità, le forme e i limiti istituzionali o meno di quel ricono- scimento possono essere diversissimi e costituiscono problemi fondamentali di politica generale e speciale. 2. Nella filosofia medievale auctoritas è un’opi- nione particolarmente ispirata dalla grazia divina e quindi in grado di guidare e correggere il lavoro d’indagine razionale. Auctoritas, può essere la de- cisione di un concilio, un detto biblico, la sententia di un Padre della Chiesa. +). Si dice anche, osserva Aristotele, «A. una donna» ma questo significato è im- proprio perchè si vuol dire soltanto che si coabita con lei (Car., 15, 15b 3 sgg.). Queste distinzioni vengono ripetute nella logica medievale (cfr., ad esempio, Pietro Ispano, Summ. Log., 3.37-38; JunGiUs, Logics Hamburgensis, I, 14, 24). In un significato così ampio il termine indica una rela- zione qualsiasi. Hegel voleva invece restringerlo alla relazione tra la cosa e le sue proprietà (Enc., $ 125). Marcel ha contrapposto l'A. all’essere. L’A. sa- rebbe la categoria dominante nell’esteriorità delle cose, fra le quali l’uomo stesso vive nella sua fun- zione sociale o vitale, mentre l’essere sarebbe la categoria propria della soggettività in quanto mi- stero (Étre et avoir, 1935). Nell’A. nel fare e nel- l'essere, Sartre ha visto le tre grandi categorie dell’esistenza umana. Ma il fare si risolverebbe nel- l’A., perchè ogni forma d’azione o di produzione, anche il conoscere, è una forma di appropriazione; e dall’altro lato l’A. si riduce all’essere perchè il desiderio d’A. è in fondo riducibile a quello di «essere in rapporto a un certo oggetto in una certa relazione d’essere » (L’étre er le néant [1943], 1955, pag. 663 sgg.). Nel linguaggio corrente come in quello della logica e della matematica, A. non indica oggi che una relazione di qualsiasi genere. AVERROISMO (ingl. Averroism; franc. Aver- rolsme; ted. Averroismus). La dottrina di Averroè (Ibn-Rosch, 1126-98) come fu intesa e interpretata dagli Scolastici medievali e dagli Aristotelici del Rinascimento. Essa si compendiava nei capisaldi seguenti: 1° eternità e necessità del mondo: tesi che era contraria al dogma delia creazione; 2° sepa- razione dell’intelletto attivo e passivo dall’anima umana e la loro attribuzione a Dio. Questa tesi, riconoscendo all’anima umana solo una specie di imagine dell’intelletto, la privava della sua parte più alta ed immortale; 3° dottrina della doppia verità, cioè di una verità di ragione, che si può ricavare dalle opere di Aristotele, il filosofo per eccellenza, e di una verità di fede: le quali possono anche essere contrastanti fra loro. La figura mag- giore dell'A. latino fu Sigieri di Brabante, nato verso il 1235, morto verso il 1281-84. AVVENIMENTO. V. Fatto. AVVENIRE (ingl. Future; franc. Avenir; te- desco Zukunft). Per il primato dell’A. sulle altre determinazioni del tempo in alcune forme della filosofia contemporanea (v. TEMPO). AXIOCENTRICO (ingl. Value-centric). Ter- mine introdotto recentemente nella filosofia ameri- cana per designare la dottrina che afferma la priorità del valore sulia realtà, del dover essere sull’es- sere, nel senso che anche il giudizio esistenziale implichi la distinzione di valore tra verità e falsità. (Cfr. E. G. SpauLDING, The New Rationalism, 1918, pag. 206 sgg.; W. M. UrBAN, 7he /ntelligible World, 1929, pag. 61 seguenti). AXIOLOGIA (ingl. Axiology; franc. Axiologie; ted. Axiologie). La « teoria dei valori + era stata già da qualche decennio riconosciuta come una parte importante della filosofia o addirittura la totalità della filosofia dalla cosiddetta « filosofia dei valori » e da indirizzi connessi (v. VALORE) quando si co- minciò, ai princìpi del nostro secolo, ad usare, per indicarla, l’espressione axiologia. I primi scritti in cui tale espressione ricorre sono i seguenti: P. LAPIE, Logique de la volonté, 1902, pag. 385; E. von HART- MANN, Grundriss der Axiologie, 1908; W. M. URBAN, Valuation, 1909. Il termine ebbe fortuna, mentre non ebbe fortuna l’altro di Timologia proposto per la stessa scienza (KrerIBIG, Psychologische Grundle- gung eines Systems der Werttheorie, 1902, pa- gina 194). AZIONE (gr. npdéw; lat. Actio; ingl. Action; franc. Action; ted. Tat, Handlung). 1. Termine di significato generalissimo che denota qualsiasi ope- razione, considero generico, un significato speci- fico per il quale il termine possa riferirsi soltanto alle operazioni umane. Così egli ha cominciato coll’escludere dall’estensione della parola le ope- razioni che si realizzano in modo necessario, cioè in un modo che non può essere diverso da quello che è. Queste operazioni sono oggetto delle scienze teoretiche, matematica, fisica e filosofia prima. Queste scienze si riferiscono a realtà, fatti o eventi che non possono essere diversi da ciò che sono. Fuori di esse rimane il dominio del possibile cioè di ciò che può essere in un modo o nell’altro; ma neppure tutto il dominio del possibile appartiene all’azione. Da esso bisogna infatti distinguere quello della produzione che è il dominio delle arti e che ha il suo carattere proprio e il suo fine negli oggetti 94 AZIONE ELICITA E AZIONE COMANDATA prodotti (Et. Nic., VI, 3-4, 1149 e sgg.). S. Tom- maso distingue l’A. rransitiva (transiens) che passa da chi opera nella materia esterna, come il bru- ciare, il segare, ecc.; e l’A. immanente (immanens) che rimane nell’agente stesso come il sentire, l’in- tendere, il volere (S. 7h., II, I, q. 3, a. 2; q. 11, a. 2). Ma la cosiddetta A. transitiva non è altro che il fare o produrre di cui parla Aristotele (Ibid. II, I, q. 57, a. 4). In queste notazioni tomistiche, come in quelle aristoteliche, è presente la tendenza a riconoscere la superiorità dell'A. cosiddetta im- manente che si consuma nell’interno del soggetto operante: A. che poi non è altro che l’attività spi- rituale o il pensiero o la vita contemplativa. S. Tom- maso dice infatti che solo l’A. immanente è «la perfezione e l’atto dell’agente +», mentre l’A. tran- sitiva è piuttosto la perfezione del termine che subisce l’A. (/bid., II, I, q. 3, a. 2). Dall’altro lato S. Tommaso distingue, nell’A. volontaria, l’A. im- perata che è quella comandata dalla volontà, per es., il camminare o il parlare e l’A. elicita della volontà che è lo stesso volere. L’ultimo fine dell’A. non è l’atto elicito della volontà ma quello imperato: giacchè il primo appetibile è il fine cui la volontà ténde, non la volontà stessa (/bid., II, I, q. 1, a. 1, ad 2°). Questi concetti sono rimasti per molto tempo immutati e vengono presupposti anche dalla cosiddetta filosofia dell’A. (v.); la qualll’attore, dice Parsons, i mezzi impiegati non possono in generale essere considerati come scelti a caso o di- pendenti esclusivamente dalle condizioni dell'A. ma devono in qualche modo essere soggetti all’in- fluenza di un determinato fattore selettivo indipen- dente, la conoscenza del quale è necessaria alla comprensione del concreto andamento dell'A. ». Questo fattore è l'orientamento normativo, che per quanto possa essere diversamente orientato, non manca in nessun tipo d'A. effettiva (The Structure of Social Action, 1949, pag. 44-45). Questo schema analitico proposto da Parsons risponde indubbia- mente assai bene alle esigenze dell’analisi sociolo- gica; ma esso può essere assunto anche in filosofia come base per la comprensione dell'A. nei vari campi in cui la filosofia è interessata cioè nel campo morale, giuridico, politico, eccetera. AZIONE ELICITA e AZIONE COMAN- DATA (lat. Actus elicitus et actus imperatus). Secondo gli Scolastici, l'A. volontaria elicita è l’operazione stessa della volontà, il volere, mentre l’A. comandata è quella che è diretta, iniziata e controllata dalla volontà, come, per es., il camminare o il parlare (S. Tommaso, S. 7h., II, I, Ù AZIONE, FILOSOFIA DELL’ (ingl. Phi losophv of Action; franc. Philosophie de l’action). Con questo nome si indicano alcune manifestazioni della filosofia contemporanea, caratterizzate dalla credenza che l’A. costituisca la più diretta via per conoscere l’Assoluto o il più sicuro modo per pos- sederlo. Si tratta di una filosofia di derivazione romantica: il moralismo di Fichte era fondato sulla superiorità metafisica dell’A. (v. MoraLISMO). Il primato della ragion pratica di cui Kant aveva parlato non aveva significato fuori del dominio morale; ma con Fichte questo primato significa che solo nell’A. l’uomo si identifica con l’Io in- finito. Il simbolo della filosofia dell’A. si può vedere espresso nella frase di Faust, nell’opera di Goethe, che proponeva di tradurre In principio erat Verbum del IV Evangelo con «In principio era l’A.». Con questi presupposti romantici si connette la filosofia dell'A. che in Francia, per opera di Ollé- Laprune (1830-99) e di Blondel (1861-1949), as- sunse una forma religiosa: l'A. è per essa il nucleo essenziale dell’uomo e solo un’analisi dell'A. può mostrare i bisogapparten- gono alla filosofia dell’A. doveva riportare la no- zione dell’A. ai suoi limiti e avviarla ad una nuova fase interpretativa. Questa corrente è il pragma- tismo (v.). Se in un primo tempo l’A. viene dichia- rata da William James la misura della verità del conoscere e quindi assunta a giustificare proposi- AZIONE RIFLESSA 95 zioni morali e religiose teoreticamente ingiustifica- bili, le analisi empiristiche di James, e meglio ancora quelle di Dewey, dovevano mettere in luce il con- dizionamento dell'A. da parte delle circostanze che lo provocano, il rapporto di essa con la situazione che ne costituisce lo stimolo; e perciò i limiti della sua efficienza e della sua libertà. Ma da questo punto di vista l’A. cessa di essere legata unicamente al soggetto e di trovare unicamente in esso o nella attività di esso (volontà) il suo principio. Perde la possibilità di consumarsi e di esaurirsi nel soggetto stesso; e diventa un comportamento, la cui analisi deve prescindere dalla divisione delle facoltà o dei poteri dell'anima, mentre deve tener presente la situazione o lo stato di cose cui deve riuscire ade- guato (v. AZIONE; COMPORTAMENTO). AZIONE MINIMA (ingl. Least Action; fran- cese Moindre Action; ted. Kleinsten Aktion). Il principio che «la natura non fa nulla d’inutile » (natura nihil facit frustra) e segue la via più breve ed economica. La massima si trova in Aristotele (De An., III, 12, 434 a 31; De cael., I, 4, 271 a 32; De Part. Anim., I, 5, 645 a 22), viene ripetuta da S. Tommaso (/n III An., 14); e ripresa in tempi moderni da Galileo, Fermat, Leibniz, ecc. Nel 1732 Maupertuis formulava il principio matematicamente e lo introduceva nella meccanica col nome di «legge di economia della natura » (Lex Parsimo- niae). Ma anche per Maupertuis il principio con- servava quel carattere finalistico che aveva convinto Aristotele ad adottarlo. Nel Saggio di Cosmologia Maupertuis scriveva: « È questo il principio, così saggio, così degno dell’Essere supremo: qualsiasi cambiamento abbia luogo in natura, la somma di A. spese in questo cambiamento è la più piccola possibile ». Tuttavia il principio non ha, nella mec- canica, il significato finalistico che Maupertuis gli attribuiva. Nella riesposizione che ne dette La- grange (Mécanique Analytique, II, 3, 6) fu chiaro che esso esprime la conservazione non soltanto del mi- nimo ma anche del massimo di A. e che inoltre sia il minimo che il massimo devono essere considerati relativamente e non assolutamente. Da questo punto di vista Hamilton generalizzava il principio nella forma di « principio dell'A. stazionaria »: e in questa forma esso dice soltanto che, in certe classi di feno- meni naturali, il processo di mutamento è tale che qualche grandezza fisica appropriata sia un estremo (cioè un minimo o un massimo, più spesso un mi- nimo). Ma quale sia la grandezza in questione e quale sia il suo minimo o massimo è cosa che può mutare da un ordine di considerazioni all’altro. Del principio della minima azione si è talora parlato in psicologia, in estetica e perfino nell’etica (cfr. James, Princ. of Psychol., II, pag. 188, 239 seguenti; SIMMEL, £inleitung in die moral Wis- senschaft, 1892, I, pag. 58). Esso non va confuso col principio metodologico dell’economia che con- cerne, non l’azione della natura o di Dio, ma la scelta dei concetti e delle ipotesi per la descrizione dei fenomeni naturali (v. ECONOMIA). AZIONE RECIPROCA. V. RECIPROCITÀ. AZIONE RIFLESSA (ingl. Reflex Action; franc. Action réflexe; ted. Reflex Bewegune). In ge- nerale, una risposta meccanica (involontaria), uni- forme e adatta, dell'organismo ad uno stimolo esterno © interno all’organismo stesso. Un riflesso è, per es., la contrazione della pupilla quando l’occhio è stimolato dalla luce o la salivazione al gusto o alla vista di un cibo. Dal riflesso così in- teso va distinto l’arco riflesso che è il dispositivo anatomo-fisiologico destinato a mettere in atto il riflesso. Tale dispositivo è formato dal nervo af- ferente o centripeto che subisce lo stimolo, dal nervo efferente o centrifugo che produce il movi- mento e da una connessione tra questi due nervi, stabilita nelle cellule nervose centrali. L'importanza filosofica di questa nozione, elaborata prima dalla fisiologia (sec. xvi) poi dalla psicologia, sta nel fatto che essa è stata assunta come lo schema esplicativo causale della vita psichica: dapprima dei meccanismi involontari soltanto (istinti, emo- zioni, ecc.) poi anche delle attività superiori. Tutto ciò che dalla vita psichica può infatti essere ricon- dotto all’A. riflessa, può essere spiegato causal- mente a partire dallo stimolo fisico che mette in moto l’arco riflesso. Data l’uniformità di tale A., essa è prevedibile a partire dallo stimolo: il che vuol dire che essa è causalmente determinata dallo stimolo stesso. In tal modo l'A. riflessa non è che il meccanismo per il quale la causalità psichica si inse- risce nella causalità della natura, come parte di essa. Queste nozioni si sono venute elaborando a par- tire dalla metà dell’800 in poi cioè da quando la psicologia si è costituita come scienza sperimentale {v. PsicoLogIa). Conformemente all’indirizzo ato- mistico che è stato proprio per lungo tempo della psicologia essa ha cercato di risolvere i riflessi com- plessi in riflessi semplici, dipendenti da circuiti nervosi elementari. La dottrina dei riflessi condi- zionati fondata da Pavlov su basi sperimentali (a partire dal 1903; cfr. gli scritti di Pavlov raccolti nel volume / riffessi condizionati, Torino, 1950) obbedisce alla stessa esigenza ed ha anzi contribuito per qualche tempo a rafforzarla, facendo nascere la speranza che anche i comportamenti superiori si potessero spiegare col vario combinarsi di mec- canismi riflessi assai semplici. Un riflesso condizio» nato è quello in cui la funzione eccitatrice dello stimolo che abitualmente lo produce (stimolo in- condizionato) è assunta da uno stimolo artificiale (condizionato) col quale il primo è stato in qualche modo associato. Per es., se si presenta un pezzo di carne a un cane questo stimolo provoca nel cane un’abbondante salivazione. Se la presentazione del pezzo di carne è stata numerose volte associata ad un altro stimolo artificiale, per es., al suono di un campanello o alla comparsa di una luce, questo secondo stimolo finirà per produrre, da solo, l’effetto del primo, cioè la salivazione del cane. È chiaro che il combinarsi e il sovrapporsi dei riflessi condizionati può spiegare numerosi comportamenti che a prima vista non si collegano con riflessi na- turali o assoluti. Più recentemente si è visto nel riflesso condizionato anche la spiegazione del com- portamento cosiddetto simbolico dell’uomo, cioè del comportamento diretto da segni o simboli, lingui- stici o di altra natura. Per es., il viaggiatore che incontra sulla strada un cartello che lo avverte che la strada è più in là interrotta, reagisce (per es., tornando indietro) proprio come se avesse visto l'interruzione della strada. Qui il simbolo (il car- tello) si è sostituito come stimolo artificiale allo stimolo naturale (la vista dell’interruzione). Pavlov e molti sostenitori della teoria dei riflessi condizio- nati hanno tenuto fede al principio che ogni ri- flesso che entra a comporre un riflesso condizionato è un meccanismo semplice ed infallibile realizzato da un determinato circùito anatomico. Perciò anche la teoria del riflesso condizionato, com’è esposta da Pavlov, s’inscrive nei limiti di quella che si suole oggi chiamare «teoria classica dell’atto riflesso », cioè dell'interpretazione causale dell’A. riflessa. Tuttavia un imponente complesso di osservazioni sperimentali, fatte dalla fisiologia e dalla psicologia negli ultimi decenni a partire dal 1920 circa, hanno reso sempre più difficile d’intendere l’A. riflessa nel suo schema classico. In primo luogo si è visto che l’A. degli stimoli complessi non è prevedibile a partire da quella degli stimoli semplici che lo compongono e cioè che i cosiddetti riflessi semplici si combinano tra di loro in modi imprevedibili. In secondo luogo, lo stesso concetto di « riflesso elementare +, cioè del riflesso che entrerebbe a com- porre i riflessi complessi, è stato giudicato illegittimo: e difatti tutti i riflessi osservabili sono complessi e un riflesso « semplice » cioè non decomponibile è una semplice congettura. In terzo luogo, le stesse osservazioni sui riflessi condizionati dimostrano la irregolarità e l’imprevedibilità di certe risposte: ir- regolarità e imprevedibilità che Pavlov spiegava con la nozione dell’inibizione la quale tuttavia è soltanto un nome per indicare il fatto che una certa reazione, che si aspettava, non si è verificata (GOLDSTEIN, Der Aufbau des Organismus, 1927; MERLEAU PONTY, Structure du comportement, 1949). Questi e altri or- dini di osservazione, messi avanti soprattutto dalla psicologia della forma (cfr., ad es., KATZ, Gestalt- psychologie, cap. III), fanno vedere come il ri- flesso non può essere inteso come un’A. dovuta a un meccanismo causale. Si parla di riflesso là dove si può determinare, nei confronti di un certo stimolo, un campo di reazioni sufficientemente uni- formi per essere prevedute con un alto grado di probabilità. Le A. riflesse costituiscono da questo punto di vista una classe di reazioni e precisamente quella caratterizzata dall’alta frequenza di uniformità delle reazioni stesse. Ma con ciò la nozione di riflesso si sottrae allo schema causale per rientrare in quello generale di condizionamento (v. CONDIZIONE). B. Nella logica medievale tutti i sillogismi indicati da una parola mnemonica che cominci con B (Ba- ralipton, Baroco, Bocardo) sono riducibili al primo modo della prima figura (Barbara). (Cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20). BANAUSIA (gr. Bavavota). La parola, che in greco significa arte meccanica o lavoro manuale in genere, implica una valutazione negrato per tutto il Medioevo, e solo il Rinascimento T — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. ha cominciato ad introdurre nel mondo moderno il concetto della dignità del lavoro manuale (vedi LAVORO). BARALIPTON. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il quinto modo della prima figura del sillogismo e precisamente quello che con- siste di due premesse universali affermative e di una conclusione particolare affermativa come nel- l’esempio: « Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale, Dunque qualche sostanza è uomo + (PIETRO Ispano, Summul. logic., 4.08). BARBARA. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il primo dei nove modi del sillogismo di prima figura, il quale consta di due premesse universali affermative e di una conclu- sione anche universale affermativa come l’esempio: «Ogni animale è sostanza, Ogni uomo è animale, Dunque ogni uomo è sostanza » (Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.07; Logica di Porto Reale, III, 5). BARBARI. Parola mnemonica usata nella Lo- gica di Porto Reale per indicare il quinto modo del sillogismo di prima figura (cioè il Baralipton) con la modificazione di assumere per premessa maggiore la proposizione in cui entra il predicato della con- clusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i miracoli della natura sono ordinari, Tutto ciò che è ordinario non ci meraviglia, Dunque ci sono cose che non ci meravigliano, che sono miracoli della natura » (ARNAULD, Logique, III, 8). BARBARIE. Così Vico chiamò lo stato primi- tivo, ferino, del genere umano dal quale poi il ti- more del divino ha a poco a poco tràtto l’ordine del mondo propriamente umano. « B. ritornata + 0 « B. ricorsa +, chiamò poi il Medioevo (Scienza nuova, degnità, 56; Lettera al De Angelis, Opere, ed. Utet, pag. 159). BAROCO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il quarto dei quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale affermativa, 98 BEATITUDINE di una premessa particolare negativa e di una con- clusione particolare negativa come nell’esempio: «Ogni uomo è animale, Qualche pietra non è ani- male, Dunque qualche pietra non è uomo » (PIETRO Ispano, Summul. logic., 4.11). Si è fatta derivare da questa parola la voce « barocco » usata a designare la forma d’arte o in generale lo spirito proprio del sec. xva. « Non par dubbio, ha detto Croce, che la parola si ricolleghi ad uno di quei vocaboli artificialmente composti e memoriali coi quali nella logica me- dioevale si vennero designando le figure del sillo- gismo. Tra quei vocaboli (Barbara, Celarent, ecc.) due, almeno in Italia, colpirono più degli altri e divennero quasi proverbiali, a preferenza degli altri: il primo, cioè Barbara, perchè era il primo, e poi, chissà perchè, Baroco, che designava il quarto modo della seconda figura. Dico non so perchè non essendo quello più strano degli altri, nè più contorto il modo di sillogismo che esso indicava: forse vi contribuì l’allitterazione con Barbara » (Storia dell’età barocca in Italia, 19olta usa il termine scambievolmente con felicità, connette la B. con la contemplazione e la commisura all'estensione che l’attività con- templativa ha nei vari esseri viventi. Così, l’intera vita degli dèi è beata perchè è tutta contemplativa. Agli uomini spetta una specie di similitudine di questa vita perchè si sollevano solo di tanto in tanto alla contemplazione; gli animali non sono per nulla beati perchè mancano di attività contem- plativa (Er. Nic., X, 8, 1178 b 9 sgg.). Tra gli uomini, ovviamente, il saggio è il più beato (/bid., I, 11, 1101 b 24). Nella filosofia post-aristotelica e soprattutto in quella stoica, la B. del saggio divenne un tema diffuso di esercitazione (cfr. il De vita beata di Seneca) e nel neo-platonismo di Plotino la critica della felicità come è intesa da Stoici e Aristotelici (Enn., I, 4) si accompagna col concetto di una B. che è inattiva perchè è indifferente ad ogni realtà esterna. « Gli esseri beati sono immobili in se stessi e a loro basta d’essere quel che sono: essi non si arrischiano ad occuparsi di checchessia perchè questo li farebbe uscire dal loro stato, ma tale è la loro felicità che, senza agire, essi compiono grandi cose e fanno non poco restando immobili in se stessi» (/bid., III, 2, 1). Dal neo-platonismo in poi si può dire che il concetto di B. si sia distinto sempre più nettamente da quello di felicità connet- tendosi strettamente con la vita contemplativa, con l'abbandono dell’azione e con l’atteggiamento della riflessione interiore e del ritorno a se stesso. La tradizione cristiana agì nello stesso senso, connet- tendo la B. con una condizione o stato, di tanto indipendente dalle vicende mondane di quanto in- vece dipendente dall’interna disposizione dell’anima. La dottrina aristotelica della felicità propria della vita contemplativa, servì di modello agli Scolastici per l’elaborazione del concetto di beatitudine. San Tommaso dice che la B. è « l’ultima perfezione del- l’uomo », cioè l’attività della sua più alta facoltà, l’intelletto nella contemplazione della realtà supe- riore, cioè di Dio e degli angeli. « Nella vita con- templativa l’uomo comunica con le realtà superiori, cioè con Dio e con gli angeli ai quali si assimila anche nella B.». Pertanto la B. perfetta l’uomo la otterrà soltanto nella vita futura che sarà tutta e interamente contemplativa. Nella vita terrena egli può ottenere una B. solo imperfetta, in primo luogo attraverso la contemplazione e in secondo luogo attraverso l’attività dell’intelletto pratico che or- dina le azioni e le passioni umane, cioè con la virtù (S. 7A., II, I, q. 3, a. 5). Nell’età moderna il con- cetto di B. e quello di felicità si sono sempre più distinti, il primo riferendosi alla sfera religiosa e contemplativa, il secondo alla sfera morale e pra- tica. Si può dire che il solo filosofo che unisca i due significati non per una semplice confusione, è Spinoza per il quale la B. «è la stessa sodisfazione intima che nasce dalla cognizione intuitiva di Dio » (Er., IV, app. 4); e che la identifica con la libertà e con l’amore dell’uomo verso Dio, che è lo stesso amore con cui Dio ama se stesso (/bid., V, 36 Scol.). Ma poichè l’intuizione di Dio o l'amore di Dio significano per Spinoza la conoscenza dell’or- dine necessario delle cose del mondo (/bid., V, 31-33) il carattere mistico-religioso o contemplativo della B. s’identifica col carattere mondano e pra- tico della felicità. Lo stesso significato essa ha nel- l’opera di Fichte Introduzione alla vita beata (1806). Qui la B. è definita, tradizionalmente, come l’unione con Dio: ma Fichte si preoccupa di togliere il signi- ficato contemplativo tradizionale, considerandola come il risultato, non già di un « sogno devoto », ma della stessa moralità operante (Werke, V, pag. 474). Nel pensiero moderno, la nozione e la parola one. Si possono distinguere cinque concetti fondamentali del B., difesi e illustrati sia dentro che fuori l’estetica e cioè: 1° il B. come manifestazione del bene; 2° il B. come manifesta- zione del vero; 3° il B. come simmetria; 4° il B. come perfezione sensibile; 5° il B. come perfezione espressiva. 1° Il B. come manifestazione del bene è la teoria platonica del bello. Secondo Platone, alla sola bellezza, fra tutte le sostanze perfette, « toccò il privilegio d’essere la più evidente e la più ama- bile » (Fedro, 250 e). Perciò nella bellezza, e nel- l’amore che essa suscita, l’uomo trova il punto di partenza per il ricordo o la contemplazione delle sostanze ideali (/bid., 251 a). La ripetizione di questa dottrina del B. nel neo-platonismo assume un ca- rattere teologico o mistico perchè il bene o le essenze ideali di cui Platone parlava sono da Plo- tino ipostatizzate e unificate nell’Uno cioè in Dio; e l’Uno e Dio vengono definiti come «il Bene ». «È il Bene, dice Plotino, che fornisce la bellezza a tutte le cose» sicchè il B. nella sua purezza è il bene stesso e tutte le altre bellezze sono acquisite, mescolate e non primitive: perchè vengono da esso (Enn., I, 6, 7). Questa forma mistica o teologica non sempre riveste la dottrina del B. come mani- festazione del bene; ma è ovvio che simile dottrina è esplicitamente o implicitamente presupposta ogni volta che si pone il compito dell’arte nel perfezio- namento morale. 2° La dottrina del B. come manifestazione del vero è propria dell’età romantica. «Il B., diceva Hegel, si definisce come l’apparizione sensibile del- l’Idea ». Ciò significa che bellezza e verità sono la stessa cosa e che si distinguono solo perchè mentre nella verità l’Idea ha la sua manifestazione ogget- tiva e universale, nel B. essa ha la sua manifesta- zione sensibile (Vorlesungen iber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 160). Raramente, fuori di Hegel, questo punto di vista è stato presentato in una forma così decisa. Esso tuttavia ricompare in quasi tutte le forme dell’estetica romantica e co- stituisce indubbiamente una definizione tipica del bello. 3° La dottrina del B. come simmetria fu pre- sentata per la prima volta da Aristotele. Il B. è costituito, secondo Aristotele, dall’ordine, dalla sim- metria e da una grandezza adatta ad essere ab- bracciata nel suo insieme da un sol colpo d’occhio (Poetica, 7, 1450b 35 sgg.). E questa dottrina fu accettata dagli Stoici, dai quali la ripeteva Ci- cerone: «Come nel corpo esiste un’armonia di fattezze ben proporzionate congiunta con un bel colorito, che si chiama bellezza, così per l’anima l’uniformità e la coerenza delle opinioni e dei giu- dizi congiunta a una certa fermezza e immutabilità, che è conseguenza della virtù o contiene l'essenza stessa della virtù, si chiama bellezza » (Tusc. Disp., IV, 13, 31). Questa dottrina rimase fissata per lungo tempo nella tradizione. La seguirono gli Sco- lastici (per es., S. ToMMasO, S. 7h., I, q. 39, a 8). E la seguirono molti scrittori-artisti del Rinasci- mento quando vollero illustrare del piacere sensibile ciò che si suol chiamare « bellezza ». Kant unificò quelle due de- finizioni complementari del B. e insistette su quello che anche oggi appare come il carattere fon- damentale di esso cioè il disinteresse. Conseguen- temente egli definiva il B. «ciò che piace uni- versalmente e senza concetti » (Crif. del Giud., $ 6): e insisteva sull’indipendenza del piacere del B. da ogni interesse, sia sensibile che razionale. « Ognuno chiama piacevole, egli disse, ciò che lo sodisfa, B. ciò che gli piace, buono ciò che apprezza o approva, ciò a cui dà un valore oggettivo. Il pia- cere vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini nella loro qualità di esseri animali ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono ragiopondente alle tre forme dell’attività umana riconosciute proprie dell’uomo: l’intelletto, il sentimento e la volontà. Per quanto questa tripartizione sia stata per lungo tempo ritenuta come un dato di fatto originario, testimoniato dalla «coscienza» o dall’« esperienza interiore +», essa è in realtà una nozione storicamente derivata, che è nata, nella seconda metà del ’700, dal- l’inserirsi della « facoltà del sentimento » tra le altre due facoltà (riconosciute sin dal tempo di Aristotele): la teoretica e la pratica (v. GUSTO; SENTIMENTO). 5° Come perfezione espressiva o compiutezza dell’espressione, il B. è implicitamente o esplicita- mente definito da tutte le teorie che considerano l’arte come espressione (v. ESTETICA, 3). Croce ha detto: « Ci sembare al dominio della moralità, cioè dei mores, della condotta, dei comportamenti umani inter-soggettivi, e designa perciò il valore specifico di tali compor- tamenti. In questo secondo significato, cioè come B. morale, il B. è oggetto dell’etica e la registra- zione dei suoi differenti significati storici deve es- sere fatta appunto a proposito della voce Etica (v.). In questa sede dovremo pertanto occuparci della nozione del B. solo nel primo senso, cioè nella sua accezione più generale. Possiamo allora di- stinguere due punti di vista fondamentali, che si sono intersecati nella storia della filosofia: 1° la teoria mefafisica per la quale il B. è la realtà e precisamente la realtà perfetta o suprema e viene desiderato come tale; 2° la teoria sogget- tueste cose e sta al di là di esse (/bid., 509 b). Analogamente Plotino vede nel B. la prima Ipostasi, cioè l'origine della realtà, Dio stesso, e lo considera come causa ad un tempo dell’essere e della scienza (Enn., VI, 7, 16) e in generale di tutto ciò che è o vale a un titolo qualsiasi (/bid., V, 4, 1). Queste nozioni di- vennero correnti nella filosofia medievale che iden- tificò, secondo l’esempio neo-platonico, il B. con Dio stesso in modo che può dirsi « buono » solo ciò che in qualche modo è simile a Dio (S. Tom- MASO, S. Th., I, q. 6, a. 4). Il teorema caratteristico di questa concezione del B. è quello che afferma l’identità di ciò che è B. e di ciò che esiste. « Bonum e ens sono la stessa cosa in realtà, dice S. Tommaso, per quanto pos- sano dissè col B. » (Philosophische Propàdeutik, III, $ 83); o che il B. è «la libertà realizzata, l’assoluto scopo finale del mondo » (Fil. del dir., $ 129). Tutte le forme di idealismo e di spiritualismo costituiscono altrettante dottrine metafisiche del B. giacchè tutte identificano il B. con la realtà e, al limite, con la realtà suprema; così fa, per es., Rosmini che iden- tifica l’essere e il bene (Principi della scienza morale, ed. naz., pag. 78) e così fa Gentile che identifica il B. con lo spirito in atto: «Il B. o valore morale non è altro che la realtà spirituale nella sua idea- lità, come produzione di se stessa o libertà » (Lo- gica, I, pag. 110). Alcune filosofie contemporanee che preferiscono parlare del valore anzichè del B., considerando il valore coola dei valori prescindeva com- pletamente dalla perfezione oggettiva cui si rife- rivano le tavole dei valori della concezione clas- sica greca. Obliterata per tutto il Medioevo, la concezione soggettivistica del B. ritorna, nel Rinascimento, con gli accenni a un’etica del movente che ricorrono in questo periodo (v. Erica). Ma fu affermata nella sua forma più recisa da Hobbes. «L'uomo, egli dice, chiama buono l’oggetto del suo appetito o del suo desiderio, cartivo l’oggetto del suo odio 0 della sua avversione, vile l’oggetto del suo disprezzo. Le parole ‘ buono ”, ‘ cattivo ’, ‘ vile’, s'intendono sempre in rapporto a chi le adopera; perchè non c’è nulla di assolutamente e semplicemente tale e non c’è nessuna norma comune per il B. e per il male, che derivi dalla natura delle cose +» (Leviath., I, 6). Spinoza accettò con entusiasmo questo punto di vista. « Noi non ci proponiamo, vogliamo, deside- riamo, bramiamo una cosa perchè la giudichiamo buona; ma al contrario giudichiamo buona una cosa per il fatto che la proponiamo, vogliamo, de- sideriamo e bramiamo +» (Er., III, 9, Scol.). E nella Prefazione al IV libro ribadisce: «Il B. e il male non indicano nulla di positivo, che sia nelle cose in sè considerate; ma sono nient’altro che modi di pensare o nozioni che ci formiamo confrontando le cose fra loro. Difatti una stessa cosa può nello stesso tempo essere buona, cattiva, e anche indiffe- rente ». A sua volta Locke affermò che «ciò che è àtto a produrre piacere in noi è quello che chia- miamo B. e ciò che è àtto a produrre pena è ciò che chiamiamo male» (Saggio, II, 21, 43); defini- zioni che trovano consenziente Leibniz: « Si divide il B. in onesto, piacevole e utile, ma in fondo io credo che esso deve essere o piacevole di per se stesso o servire a qualcosa che ci dia un sentimento di piacere: e cioè il B. è piacevole o utile e l’onesto stesso consiste in un piacere dello spirito » (Nouv. Ess., II, 20, 2). Kant ha accettato queste notazioni aggiungendovi un elemento importante, cioè l’esi- genza di un riferimento concettuale. «Il B., egli dice, è ciò che, mediante la ragione, piace per il suo puro concetto. Chiamiamo qualcosa buona a (utile) quando essa piace solo come mezzo; quella che invece piace per se stessa, la diciamo buona 102 in sè. In acere perchè al riconosci- mento del B. è connessa la valutazione concettuale della sua efficienza rispetto a certi fini e questo costituisce il B. come « un valore oggettivo ». Dopo di Kant, la nozione di valore ténde a soppiantare quella di B., nelle discussioni morali, e può essere considerata come l’erede del concetto soggettivo di B., dotata com’è delle sue stesse con- nessioni sistematiche. Sul suo terreno tuttavia rina- scerà, in forma appena mutata, l’alternativa tra una concezione oggettivistica e una concezione sog- gettivistica: alternativa che a tutt’oggi costituisce uno dei temi fondamentali della discussione morale (v. VALORE). BENE SOMMO (gr. caya0év; lat. Summum bonum; ingl. Supreme Good; franc. Souverain Bien; ted. Das hochste Gut). Nozione introdotta da Ari- stotele per indicare ciò che viene desiderato di per se stesso e non in vista di un B. ulteriore. Un B. sommo è necessario che ci sia per evitare il processo all’infinito (Et. Nic., I, 2, 1094a 18). Per Aristotele il sommo B. è la felicità. Gli Scola- stici adoperano l’espressione per indicare Dio stesso (S. Tommaso, S. 7h., I, q. 6, a. 1). Kant ritenne l’aggettivo «sommo» equivoco giacchè esso può significare sia supremo (supremum) sia perfetto (con- BENE SOMMO summatum). Il B. supremo è la condizione prima, originaria di ogni B.: è perciò la virtù. Ma il B. perfetto è quello che non è parte di un B. mag- giore della stessa specie; e in questo senso la virtù non può dirsi il B. perfetto, che è invece l’unione di virtù e felicità (Crit. R. Pratica, Dialettica, ca- pitolo II). BENEVOLENZA. V. Bontà. BENTHAMISMO. V. UTILITARISMO. BERGSONISMO. V. SPIRITUALISMO. BERKELEISMO. V. IMMATERIALISMO. BICONDIZIONALE (ingl. Biconditional; fran- cese Biconditionnel). Con questo nome o con quello di «equivalenza materiale » è inteso comunemente, nella logica contemporanea, il connettivo «se e solo se» simboleggiato talora col segno = (cfr. Quine, Methods of Logic, $ 3). Il B. equivale ovvia- mente alla congiunzione dei due condizionali « se p allora g + e «se gq allora p». BIOGENETICA, LEGGE (ted. Biogenetisches Grundgesetz). Così il biologo tedesco Ernesto Hae- ckel (1834-1919) chiamò il parallelismo tra lo svi- luppo dell’embrione individuale e lo sviluppo della specie a cui esso appartiene. Per ciò che riguarda l’uomo, «l’ontogenesi ossia lo sviluppo dell’individuo è una breve e rapida ripetizione (una ricapitola- zione) della filogenesi o evoluzione della stirpe cui esso appartiene » (Nasùrliche Schopfungsgeschichte, 1868; trad. ital., pag. 178-89). BIOLOGISMO (ingl. Biologism; franc. Biolo- gisme; ted. Biologismus). 1. L’interpretazione del mondo fisico o del mondo umano per analogia con l’organismo (v. ORGANICISMO). 2. Lo stesso che Vitalismo (v.). 3. La metafisica di Hans Driesch (1867-1941), in quanto è una « filosofia dell’organico ». Driesch divide infatti la filosofia in « dottrina dell’ordine » che ha per oggetto l’intero mondo inorganico e « dottrina della vita » che ha per oggetto il mondo organico. Il presupposto di questa suddivisione è che l'organismo non è riducibile a forma o mani- festazione dell’ordine inorganico; o, in altre parole, non è una macchina. Ciò che esso ha in più della macchina è l’entelechia che è concepita da Driesch come una specie di monade nel senso leibniziano, la quale determina tutto lo sviluppo di un essere vivente. L’entelechia è sopra-individuale e sopra-per- sonale: la nascita di un uomo non è che la manife- stazione di un’entelechia, manifestazione che ter- mina con la morte. Gli individui sono soltanto parti della vita sopra-personale dell’entelechia (Philosophie des Organischen, 1908-09; Ordnungslehre, 1925). BIOSFERA (franc. Biosphère). Così Le Roy ha chiamato la vita nella sua totalità, in quanto sta con gli individui nello stesso rapportsciplina » o di «regole » e di « B. di li- bertà »; di « B. di affetto » e di « felicità », di « aiuto », di «comunicazione + e via dicendo. Ogni tipo o forma possibile di rapporto tra l’uomo e le cose o tra l’uomo e gli altri uomini può essere conside- rata sotto l’aspetto del B.: il quale implica la di- pendenza dell’essere umano da tali rapporti. Nella storia della filosofia la nozione del B. è stata trat- tata sotto due angoli visuali: 1° più frequentementedal punto di vista morale, cioè dal punto di vista del problema dell’atteggiamento da prendere di fronte ai B., se limitarli o incoraggiarli o in che modo e grado limitarli; 2° meno frequentemente, dal punto di vista della importanza e del signifi- cato che il bisogno ha rispetto al modo d’essere proprio dell’uomo, della possibilità che offre di comprendere e descrivere la sua esistenza. Il pro- blema della disciplina dei B., cioè della limitazione qualitativa e quantitativa di essi, è il problema stesso della virtù, in particolare della virtù etica; e i suoi sviluppi storici devono essere considerati per l’appunto sotto la voce Virtà (v.). Il problema che il B. presenta come segno, sintomo o elemento della condizione umana, può essere invece consi- derato in questa sede. Nell’antichità, Platone pare che abbia riconosciuto il valore del B.: questo sembra essere il significato dell’importanza che egli riconosce all’amore, che egli intese nel Convito (204-05) nel significato più vasto, come mancanza e ricerca di ciò che manca. AI B. inoltre, Platone attribuì nella Repubblica (II, 369b sgg.) l’origine dello Stato: « Quando un uomo prende con sè un uomo in vista di un B. e un altro uomo in vista di un altro B., e la molteplicità dei B. riunisce nella stessa residenza più uomini che si associano per aiutarsi, a questa società noi diamo il nome di Stato ». Meno esplicita è la funzione che la nozione del B. ha nella filosofia di Aristotele: il quale non ignora certo il peso che esso ha nella vita singola e associata dell’uomo (come mostra specialmente la sua Politica) ma non gli attribuisce una funzione 103 specifica: l’origine stessa dello Stato è da lui posta nell’esigenza di realizzare una vita felice, che si- gnifica prevalentemente una vita virtuosa (Pol., VII, 2, 1324 a S sgg.). La filosofia post-aristotelica si disinteressa dei bisogni anche quando con Epi- curo prescrive di sodisfarli (Mass. capit., 26; Fr. 200, Usener), giacchè è troppo occupata a delineare l’ideale del saggio, dedito alla vita puramente con- templativa. E non si avvalgono del B. per inter- pretare la realtà umana nè la filosofia medievale, nè quella moderna, le quali preferiscono far leva su quegli elementi o caratteri che mettono in ri- salto piuttosto l’indipendenza dell’uomo dal mondo che la sua dipendenza da esso. Hegel, pur parlando di un «sistema dei B.» preferisce insistere sul- l’aspetto per cui il B. è dominato dall’uomo più che dominarlo: « L'animale ha una cerchia limitata di mezzi e di modi di appagamento dei suoi B., che sono parimenti limitati. L'uomo, anche in questa dipendenza, dimostra, nello stesso tempo, il suo superamento della medesima e la sua univer- salità, soprattutto mediante la moltiplicazione dei B. e dei mezzi e poi mediante la scomposizione e la distinzione del B. concreto » (Fil. del Dir., $ 190). La prima clamorosa affermazione dell’importanza dei B. per l’interpretazione di ciò che l’uomo è O può essere, si può scorgere nella filosofia di Scho- penhauer che interpretò come B., quindi come man- canza, quindi come dolore, la volontà di vita che costituisce l’essenza noumenica del mondo. «La base di ogni volontà è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura » (Die Welt, 1819, I, $ 57). Al di fuori della metafisica, sul terreno dell’antropologia, insisteva sulla stretta connessione del B., con la natura umana L. Feuerbach (Grundsatze der Philosophie der Zukunft, 1844). Marx nei suoi scritti giovanili (Economia e filosofia, 1844; Ideologia tedesca, 1845-46) accentuò l’importanza dei B. e perciò del lavoro diretto a sodisfarli, sino a farne il tema fondamentale della sua antropologia (v. PER- sona). Nella filosofia contemporanea, oltre che dal marxismo, l’importanza della nozione del B. per l’interpretazione della realtà umana, è sotto- lineata da un lato dal naturalismo, dall’altro dal- l’esistenzialismo. Dewey, per es., insistendo sulla « matrice biologica » di ogni attività umana, quindi anche della logica, vede nel B. la rottura dell’in- stabile equilibrio organico e l’inizio della ricerca che ténde a ristabilirlo (Logic, cap. II; trad. ital., pag. 63). Dall’altro lato Heidegger definendo l’« es- sere-nel-mondo + in cui l’esistenza dell’uomo con- siste come cura (v.), insiste sulla dipendenza del- l’uomo dal mondo, sul suo «esser gettato nel mondo, dal quale le possibilità umane dei rapporti con le cose e con gli altri uomini si trovano do- minate » (Sein und Zeit, $ 39 sgg., cfr. $ 20). La nozione di bisogno che emerge da queste notazioni non è quella di uno stato provvisorio di mancanza o di deficienza (si ha bisogno dell’aria anche se ce n’è in abbondanza) ma piuttosto quella di uno stato o condizione di dipendenza che caratterizza, in modo specifico, l’uomo e in generale l’essere finito nel mondo. BOCARDO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il quinto dei sei modi del sillo- gismo di terza figura e precisamente quello che con- siste di una premessa particolare negativa, di una premessa universale affermativa e di una con- clusione particolare negativa come nell’esempio: «Qualche uomo non è pietra, Ogni uomo è ani- male, Dunque qualche animale non è pietra» (Pietro Ispano, Summul. logic., 4.15). BONTÀ (lat. Bonitas; ingl. Goodness; francese Bonté; ted. Giitigkeit). Nel significato più esteso: l’eccellenza di un oggetto qualsiasi (cosa o persona). Dice, ad es., S. Tommaso: «La B. che in Dio è semplicemente e uniformemente, nelle creature è in modo molteplice e diviso» (S. 7h., I, q. 47, a. 1). Le discussioni del Sei e Settecento intorno alla B. di Dio come movente della creazione (cfr. LerBNIZ, 7héod., II, $ 116 e sgg.) si fondarono su un più ristretto significato del termine, che fu espresso chiaramente da Baumgarten: « La B. (be- nignità), egli disse, è la determinazione della volontà a far bene agli altri. Il beneficio è l’azione utile all’altro, suggerita dalla B.» (Mer., $ 903). In questo senso la B. si identifica con quella che Ari- stotele chiamava benevolenza (eùvola) (Er. Nic., VIII, 2, 1155 b 33). I due significati del termine sono vivi nell'uso comune. BORIA. Vico parla della B. delle nazioni che consiste nel credere «d’aver esse prima di tutte l’altre ritrovati i comodi della vita umana e con- servar le memorie delle loro cose fin dal principio del mondo +»: e della B. dei dotti «i quali, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo » (Scienza Nuova, 1744, Degn. 3, 4). La B. dei dotti ha impedito di riconoscere che l’origine del mondo storico è dovuta a «uomini bestioni » e ha con- dotto ad attribuire tale origine a « uomini sapienti » che avrebbero agito per riflessione. BOVARISMO (franc. Bovarisme). Termine de- rivato dal nome della famosa eroina di Flaubert (Madame Bovary, 1857) per indicare l’atteggiamento di chi crea a se stesso una personalità fittizia e cerca di vivere in conformità di essa, urtando contro la sua propria natura e contro i fatti. Il termine fu creato da Jules de Gaultier (Le bovarisme, 1902). BRACHILOGIA (gr. Bpayvàdoyia). Nel Prota- gora di Platone, Socrate contrappone alla tendenza di Protagora di tener lunghi discorsi, la sua esi- BOCARDO genza di risposte brevi e succinte, ovviamente perchè soltanto attraverso lo scambio di frasi concise è pos- sibile la discussione dialogata (Prof., 334 c-335 a). BRUTISMO (franc. Brutisme). Termine adope- rato da St.-Simon per indicare la concezione mec- canistica dei fenomeni, e che è perciò l’equivalente di meccanicismo (v.). BUDDISMO (ingl. Buddhism; franc. Bouddhi- sme; ted. Buddhismus). La dottrina religiosa e filoso- fica che si è originata dagli insegnamenti di Gautama Budda (563-480 a. C. circa) e che è poi stata svolta da mumerosissimi indirizzi in India, in Cina e in Giappone. I principali testi del B. sono quelli scritti in lingua pali, detti Tipitaka e divisi in tre gruppi o ceste che sono: 1° il Surrapitaka che o sforzo; 7° nella giusta men- talità; 8° nella giusta concentrazione. L’uomo è, secondo il B., sottoposto alla legge del- l’incessante fiuire della vita (dharma) che lo porta di desiderio in desiderio, di dolore in dolore, e di incar- nazione in incarnazione. Finchè l’uomo non si libera dal desiderio, è sottoposto al ciclo della rinascita (sam- sara). La liberazione dal desiderio, ottenuta attraverso le regole morali suddette e la disciplina ascetica (che il B. condivideva con il bramanesimo e con la pra- tica yoga), si ha soltanto con la dissoluzione dell’il- lusione prodotta dal desiderio (e che è il karma), con l’eliminazione del desiderio stesso e la di- struzione dell’attaccamento alla vita, che è il nirvana. Le numerosissime scuole, sètte, indirizzi a eguale in tutti gli uomini ». Questa sinonimia non potrebbe più oggi essere ammessa. Da un lato la ragione è passata sempre più a designare tecniche specifiche (v. RAGIONE), dall’altro il B. senso è rimasto a designare un certo equilibrio e una certa moderazione nel giudizio sulle faccende ordinarie della vita e nel modo quo- tidiano di comportarsi. Spesso tuttavia accade che ciò che appare stravagante o paradossale al B. senso ha maggior valore di ciò che ad esso è conforme: perchè il B. senso non può far altro che riferirsi al sistema stabilito di credenze e di opinioni e non può giudicare che in base ai valori che esso include. Molto spesso la scienza e Ja filosofia devono pre- scindere dal B. senso, per quanto non possano prescindere mai o mai interamente da quelle fac- cende quotidiane e minute fra le quali il B. senso dovrebbe trovarsi a suo agio.C. 1. Nella logica medievale tutti i sillogismi indi- cati con parole mnemoniche che cominciano con C sono riducibili al secondo modo della prima figura (Celarent) (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20). 2. Nella notazione di Lukasiewicz è usato per indicare il condizionale o l’implicazione logica, più comunemente simboleggiato con «95» (A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 91). CADUTA (gr. tertwaw; lat. Casus; ingl. Fall; franc. Chute; ted. Fall). Il mito della C. dell’anima umana da uno stato originario di perfezione, nel quale contemplava beata la verità a faccia a faccia, è esposto nel Fedro (248a e sgg.) di Platone e ripetuto da Plun’addizione o sottrazione delle conseguenze dei nomi generali riuniti insieme per definire ed esprimere i nostri pensieri » (Leviarh., I, 5). Leibniz chiamò « C. filosofico », la scienza universale o ca- ratteristica universale (v.) in cui egli vedeva lo strumento dell’invenzione concettuale (Op., ed. Erd- mann, pag. 82 sgg.). Carnap distingue il C. dal sistema semantico nel senso che « mentre gli enun- ciati di un sistema semantico sono interpretati, asse- riscono qualcosa, perciò sono o veri o falsi, entro un calcolo gli enunciati sono considerati da un punto di vista puramente formale ». Per sottolineare tale di- stinzione talvolta si chiamano formule gli elementi di un C. e proposizioni gli elementi di un sistema se- mantico (Foundations of Logic and Mathematics, $ 9). Lo stesso Carnap ha osservato che i calcoli possono prendere il nome o dai segni o espressioni che ricor- rono in essi, e in tal senso si dice calcolo degli enun- ciati o dei predicati oppure, come accade più frequen- temente, dai loro designati cioè dagli oggetti cui si riferiscono (Introduction to Semantics, 2> ediz., 1959, p-230). In questo secondo senso, il C. proposizionale è lo studio formalizzato dei connettivi logici (v. Con- NETTIVI) e i suoi teoremi sono costituiti dalle formule che possono essere derivate dalle formule primitive con l’applicazione successiva delle regole primitive di inferenza. Il C. funzionale ha invece per oggetto le funzioni proposizionali (v. FUNZIONE) e adopera, oltre i connettivi, il quantificatore universale (v. OpE- RATORE). Il C. delle classi o algebra delle classi, ha da fare con classi o insieme determinati da fun- zioni proposizionali o predicati e mette capo a formule che sono espressioni nelle quali ricorre il simbolo = o =/= (disuguale). L’algebra delle classi è isomorfica con il C. funzionale perchè coincide con esso nel suo significato (v. ALGEBRA DELLA Logica). Infine l’a/gebra delle relazioni è lo studio formalizzato delle relazioni (v.). CANCELLAZIONE CALCOLO COMBINATORIO. V. ARTE COMBINATORIA. CALCOLO EDONISTICO (ingl. Hedonic Calculus). Così Bentham chiamò la tavola com- pleta dei moventi dell’azione umana, da servire di guida per ogni futura legislazione. La tavola com-prende la determinazione della misura del dolore e piacere in genle: « Parmenide prende per princìpi il C. e il freddo, che egli però chiama fuoco e terra » (Fisica, I, 5, 188 a 20). Nel Rinascimento Bernardino Telesio la riprendeva considerando il C. e il freddo come le due forze o « nature agenti» che determinano l’universo e delle quali l’una risiede nel Sole, l’altra nella Terra (De Rer. Nat., I, 3). CALENDES. Parola mnemonica usata dalla Logica di Porto Reale per indicare il sesto modo del sillogismo di prima figura (cioè il Celantes), con la modificazione di assumere per premessa mag- giore la proposizione in cui entra il predicato della conclusione. L’esempio è il seguente: « Tutti i mali della vita sono mali passeggeri, Tutti i mali passeggeri non sono da temersi, Dunque nessuno dei mali che sono da temersi è un male di questa vita + (ARNAULD, Logique, III, 8). CALVO, ARGOMENTO DEL. V. AceRrvo, ARGOMENTO DELL’. CAMBIAMENTO. V. MUTAMENTO. CAMESTRES. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il secondo dei quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale af- fermativa, di una premessa universale negativa, e di una conclusione universale negativa, come nel- l’esempio: «Ogni uomo è animale, Nessuna pietra è animale, Dunque nessuna pietra è uomo » (PIETRO Ispano, Summul. logic., 4, 11). CAMPO (ingl. Field; franc. Champ; ted. Feld). L'insieme delle condizioni che rendono possibile un evento; o i limiti di validità o di applicabilità di uno strumento conoscitivo. Kant diceva: « I mperatura attraverso il volume è un esempio fisico di scalare di C. (D’ABRO, New Physics, ca- pitolo X). Analogamente nella psicologia, per es., nella psicologia della forma, dove è stato illustrato così: « Ciò che determina l'impressione di colore che proviamo in un punto circoscritto del C. vi- sivo è lo stato eccitatorio globale del C. visivo; ciò che determina l’impressione di un peso che alziamo non è soltanto la tensione del gruppo mu- scolare immediatamente legato al sollevamento del peso, ma pure il tono di tutto il resto della musco- latura » (KATZ, Gestalipsychologie, 3; trad. ital., pag. 29-30). Più precisamente e generalmente, K. LEWIN ha definito il C., inteso quale lo « spazio vitale» di un organismo, come «la totalità degli eventi possibili », dalla quale deriverebbe il com- portamento dell’organismo stesso (Principles of To- pological Psychology, 7* ediz., 1936, pag. 14). Dewey adopera la parola in senso generico: «È sempre in un qualche C. che si verifica l’osserva- zione di questo o quell’oggetto. Tale osservazione è fatta allo scopo di trovare ciò che quel C. rap- presenta in rapporto a qualche attiva risposta di adattamento con cui far procedere un corso di comportamento » (Logic, Intr.; trad. ital, pa- gina 11l). Più precisamente la nozione è usata in logica, dove per C. di una relazione si intende l’insieme del dominante e del dominante inverso della rela- zione: cioè dei termini che sono in una data rela- zione con questo o quel termine (dominanti) e dei termini con cui questo o quel termine si trova in una data relazione (dominanti inversi) (v. RELA- ZIONE). Il concetto è stato anche usato per la teoria del significato (cfr. A. P. UsHENKO, The Field Theory of Meaning, 1958) e nella linguistica, nella quale il C. è stato inteso come la rete di associa- zioni che connettono un termine a molti altri ter- mini (ULLMANN, Semantics, 1962, IX, 1). CANCELLAZIONE (ted. Durchstreichung). Nelle /deen (I, $ 106) Husserl chiama C. la nega- 108 zione di una credenza o la presa di posizione contro di essa. CANONE (gr. xawoy; ingl. Canon; franc. Canon; ted. Kanon). Criterio o regola di scelte per un campo qualsiasi di conoscenza o di azione. Il ter- mine fu introdotto probabilmente dallo scultore Policleto che intitolò così un’opera nella quale de- scriveva la simmetria del corpo e indicava le regole e le proporzioni che lo scultore deve rispettare (40, A, 3 Diels). Epicuro chiamò canonica la scienza del criterio, criterio che per lui è la sensazione nel dominio della conoscenza, e il piacere nel dominio pratico (Diog. L., X, 30). Il termine fu ripreso dai matematici del °700 e Leibniz l’adopera per desi- gnare « le formule generali che dànno ciò che si do- manda » (Math. Schriften, VIII, 217), per es., quella che dà due numeri di cui si conosce la somma e la differenza o quella che dà le radici di un’equa- zione. Stuart Mill chiama C. le regole che espri- mono i quattro metodi della ricerca sperimentale, cioè quelli di concordanza, di differenza, dei re- sidui e delle variazioni concomiime dicendo: «Si deve poter volere che la massima della, nostra azione diventi legge universale » (Grundlegung zur Mer. der Sitten, II). Nella filosofia moderna e nella filosofia contemporanea si adopera più frequente- mente il termine criterio (v.). Anche C. viene però talvolta adoperato nel senso tradizionale. Dewey chiama C. i princìpi logici d’identità, di contrad- dizione, e del terzo escluso (Logic, cap. XVID. CAOS (gr. y&wc). Propriamente: abisso sbadi- gliante. Lo stato di completo disordine anteriore alla formazione del mondo e dal quale tale for- mazione s’inizia, secondo i mitologi. Esiodo dice: «Prima di tutti gli esseri ci fu il C., poi la Terra dal largo seno» (Teog., V, 116). Aristotele com- battette questa nozione (Fis., IV, 208 b 31 sgg.) perchè ammise l’eternità del mondo. Kant si servì di essa per indicare lo stato originario della materia dal quale si sono poi originati i mondi (Allgemeine Natur- geschichte oder Theorie des Himmels, 1755, Pref.). CARATTERE (gr. yapaxtip, 7006; lat. Cha- racter; ingl. Character; franc. Caractère; ted. Cha- rakter). Propriamente il segno, o l’insieme di segni, che contraddistingue un oggetto e consente di ri- conoscerlo agevolmente tra gli altri. In particolare, il modo d’essere o di comportarsi abituale e costante di una persona, in quanto individua e distingue la persona medesima. In questo senso diciamo che « Una persona ha un C. ben marcato» o «ben deciso », nel senso che il suo modo di agire rivela orientamenti abituali e costanti; e qualche volta, semplicemente, « È un C.». All’opposto descri- viamo come « mancanza di C.» o «C. debole», «incerto » o «incostante » un comportamento abi- tualmente dovuto piuttosto a scelte casuali e ca- pricciose che ad un orientamento determinato e costante. Gli antichi possedevano questa nozione. Eraclito dice che il C. ({90c) di un uomo è il suo destino (Fr. 119, Diels). E l’aristotelico Teofrasto ci ha lasciato nello scritto intitolato / C. la descrizione di trenta tipi di C. morali (l’importuno, il vanitoso, lo scontento, il fanfarone, ecc.) descritti appunto sul fondamento delle loro manifestazioni abituali. Dimenticata nel Medioevo, durante il quale la pa- rola servì prevalentemente a designare l’indistrut- tibilità della ordinazione sacerdotale (S. TomMASO S. Th., III, q. 65, a. 1 sgg.) la nozione fu ripresa nel '600 e rimessa in circolazione da La Bruyère (Les caractères, 1687). Kant l’ha utilizzata nel ten- tativo di conciliare la causalità naturale e la cau- salità libera. Ciascuna causa efficiente deve avere un carattere, cioè «una legge della sua causalità, senza la quale non sarebbe causa ». Un oggetto del mondo sensibile ha in primo luogo un C. em- pirico per il quale i suoi atti, come fenomeni, sono connessi causalmente con gli altri fenomeni in con- formità delle leggi naturali. Ma lo stesso oggetto può anche avere un C. intellegibile « per il quale esso è sì la causa di quegli atti come fenomeni, ma di per se stesso non sottostà a nessuna condi- zione sensibile e non è fenomeno». Del C. intel- legibile si può dire « che esso comincia da se stesso i suoi effetti nel mondo senza che l’azione cominci in lui stesso +; e con questa distinzione Kant crede di aver accordato fra loro libertà e natura (Critica R. Pura, Antinomie della ragion pura, $ 3). Meno metafisicamente (e più chiaramente) nell’ Antropo- logia egli distingue un C. fisico che è il segno di- stintivo dell’uomo come essere naturale e un C. morale che è il segno dell’uomo come essere razio- nale, provvisto di libertà. Il C. fisico dice «ciò che si può fare dell’uomo, il C. morale dice ciò che l’uomo è capace di fare di se stesso» (Antr., II, a). Schopenhauer ha utilizzato la distinzione kantiana tra C. empirico e C. intelligibile per ne- CARATTERE gare la libertà: tutto ciò che l’uomo fa sarebbe la manifestazione di un €. intelligibile innato e immutabile (Die Welt, I, $ 55; Neue Paralipo- mena, $ 220). La distinzione kantiana di un duplice C., l’uno naturale e immutabile, l’altro morale e libero, viene universalmente abbandonata nella antropologia con- temporanea che tuttavia dà grande rilievo alla no- zione di carattere. Ma nell’interpretazione di questa nozione, l’antropologia contemporanea si può dire che assuma o l’uno o l’altro dei due concetti in cui Kant aveva distinto la nozione stessa, e cioè o che intende il C. come una formazione naturale inevitabile che l’uomo porta con sè e non può modificare, o lo intende come una formazione do- vuta alle scelte dell’uomo e perciò essa stessa libera e modificabile. Accenneremo solo ad alcune delle principali prese di posizioni in un senso o nell’altro. La teoria dei tipi psicologici di Jung appartiene al primo indirizzo perchè considera il C. come un orientamento prevalentemente inconscio dovuto a disposizioni organiche o al fondamento istintivo. Il C. di un uomo è la direzione in cui avviene l’in- contro tra quest'uomo e il mondo o tra questo uomo e la società: è cioè il complesso degli atteg- giamenti o delle disposizioni ad agire o reagire in una certa direzione. Ora, nell’incontro tra l’uomo e il mondo, due atteggiamenti fondamentali sono possibili: o l’uomo cerca di dominare il mondo, cioè gli oggetti esterni, assumendo un atteggia- mento attivo, positivo, creatore, oppure cerca sem- plicemente di difendersi da egie, pag. 1). Soltanto che per Le Senne il C. non costituisce la totalità dell’uomo: è soltanto uno degli elementi della sua personalità, la quale comprende, oltre il C., anche elementi liberamente acquisiti, che possono contri- buire a specificare il C. stesso in un senso o nell’altro. Il C. è pertanto un limite oggettivo, intrinseco alla stessa personalità, della scelta che la personalità può fare liberamente di se stessa; ma come limite è qualche cosa di congenito e, in se stesso, di im- mutabile. La determinazione dovuta al C., non è quindi per Le Senne una determinazione neces- sitante nonostante la sua originarietà e la sua immutabilità relativa. Per quanto su questo punto Le Senne si riattacchi ad un caposaldo stabi- lito da Adler (di cui diremo sùbito) la nozione di C. rimane in lui quella di una determinazione o complesso di determinazioni originarie e immodi- ficabili, cioè rimane fissa a quel significato per il quale esso non si distingue da temperamento (v.). Questo concetto del C. fa della libertà e del deter- minismo nella personalità umana due forze diverse e reciprocamente autonome, di cui l’una risiede nell’io, l’altra nel C. (o nel temperamento), riprodu- cendo, in linguaggio diverso, il dualismo kantiano di C. intelligibile e C. empirico. La dottrina di Adler si era invece sottratta a questo dualismo. Per Adler il C. è la manifestazione oggettiva, rilevabile attraverso l’esperienza sociale, della stessa personalità umana. Non solo il C. è un «concetto sociale » nel senso che si può par- lare di C. solo riferendosi alla connessione di un uomo col suo ambiente, ma anche i tratti o le di- sposizioni di cui il C. consiste sono rilevabili solo socialmente. Le manifestazioni del C. « sono simili ad una linea direttiva che aderisce all'uomo come uno schema e che gli permette, senza molta rifles- sione, di esprimere in ogni situazione la sua origi- nale personalità » (Menschenkenntnis, 1926, II, 1; trad. ital, pag. 150 sgg.). Esse non esprimono alcuna forza e substrato innato, ma sono, anche se molto presto, acquisite. Il C. sostanzialmente è il modo in cui l’uomo prende posizione di fronte al mondo naturale e sociale; e Adler fonda la va- lutazione di esso su due punti di riferimento: la volontà di potenza e il sentimento sociale, che con la loro azione reciproca costituirebbero gli aspetti fondamentali del carattere. « Si tratta, egli dice, di un gioco di forze la cui forma di manifestazione esteriore caratterizza ciò che noi chiamiamo C. » (/bid., 1926, II, 1; trad. ital., pag. 176). Una di- stinzione radicale tra persona e C. fa invece Scheler. La persona è il soggetto degli atti intenzionali ed è quindi il correlato di un mondo, e precisamente del mondo in cui essa vive. Il C., invece, è la co- stante ipotetica x che si assume per spiegare le particolari azioni di una persona. Pertanto se un uomo agisce in modo non corrispondente alle de- duzioni che abbiamo ricavate dall’imagine ipote- ticamente assunta del suo carattere, si è disposti, a buon diritto, a mutare questa imagine. Ma la persona non può mutare: non possono quindi toc- carla i mutamenti di C., come non la tocca la malattia psichica che solamente la nasconde (For- malismus in der Ethik, pag. 501 sgg.). Questa netta separazione tra C. e persona, che in Scheler è dovuta al primato metafisico che egli attribuisce alla persona, non trova però riscontri nell’antro- pologia contemporanea. I tratti più comuni e im- portanti di questa antropologia per ciò che riguarda la dottrina del C., si possono ricapitolare nel modo seguente: 1° il C. è la manifestazione oggettiva della personalità umana o è questa stessa perso- nalità nel suo aspetto oggettivo, quale si lascia cogliere attraverso la comune esperienza umana o le tecniche d'indagine della personalità stessa (vedi PERSONALITÀ); 2° il C. si differenzia dal rempera- mento (v.) perchè non è un dato puramente organico come quest’ultimo e perchè non è un elemento immutabile e necessitante ma è il risultato delle scelte effettuate da un individuo e consiste nelle costanti osservabili delle sue scelte; 3° tali scelte non sono assolutamente libere nè necessitate, ma condizionate da elementi organici, ambientali, so- ciali, ecc.; e nelle loro costanti osservabili delineano un progetto di comportamento nel quale coincidono il C. e la personalità dell’uomo. CARATTERE POETICO. Secondo Vico, i primi uomini concepirono le cose dapprima me- diante « C. fantastici di sostanze animate e mutoli » cioè mediante atti o corpi che avessero un qualche rapporto con le idee e poi con « C. divini ed eroici, dappoi spiegati con parlari volgari » (Scienza nuova, 1744, passim): nelle quali locuzioni ovviamente la parola « carattere » sta per segno o simbolo. CARATTERI (ted. Charakters). Così Avena- rius (Kritik der reinen Erfahrung, 1888-90) ha chia- mato uno dei due fattori di cui è composto il mondo dell'esperienza e precisamente quello che consiste nelle determinazioni emotive, esistenziali, pratiche e in generale valutative degli elementi che costitui- scono l’altro fattore dell’esperienza stessa. Così sono C. il piacere, il dolore, l’essere, l'apparenza, il sicuro, l’insicuro, ecc., mentre sono elementi le sensazioni (suoni, colori, ecc.). CARATTERISMI (ted. Charakterismen). Sono secondo Kant « designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti » come le parole, i gesti, i segni algebrici, ecc. (Crit. del Giud., $ 59). CARATTERISTICA (lat. Characteristica). Leibniz chiamò preferibilmente C. o C. universale quella che in un primo tempo (1666) aveva chia- mato «arte combinatoria »: e cioè « l’arte di for- mare e di ordinare i caratteri in modo che si rife- riscano ai pensieri, cioè in modo che abbiano tra loro la stessa relazione che c’è tra i pensieri stessi ». I caratteri non sono altro che i segni o scritti o di- segnati o scolpiti. I fondamenti dell’arte C. sono espressi dallo stesso Leibniz nello scritto Funda- menta calculi ratiocinatoris (Op., ed. Erdmann, pa- gina 92 sgg.) nel modo seguente. Tutti i pensieri umani si possono ridurre a poche nozioni primitive: Csistenza del tesoro sul letto di morte, sommuovono la terra e la fanno fertile e questo è l’unico tesoro che tro- vano (Nova Dilucidatio Principiorum Metaphysicae, 1755, prop. II. Tuttavia l’idea di Leibniz e i vari tentativi di realizzarla costituiscono il precedente storico immediato della moderna logica simbolica. CARATTEROLOGIA (franc. Caraciérologie; ted. Charakterologie o Charakterkunde). Nome en- trato nell’uso nella seconda metà del secolo scorso per indicare la scienza del temperamento o del ca- rattere. Cfr. CARATTERE; ETOLOGIA. CARDINALI, VIRTÙ (lat. Cardinales virtutes; ingl. Cardinal Virtues; franc. Vertues cardinales; ted. Kardinaltugenden). Così furono chiamate da S. Ambrogio (De off. ministr., I, 34; De Par., III, 18; De sacr., III, 2) le cristiano fondamentale «Ama il prossimo tuo come te stesso ». S. Paolo soprattutto ha insistito sulla superiorità della C. sulle altre virtù cristiane cioè sulla fede e sulla spe- ranza. «La C. sopporta tutto, ha fede in tutto, spera tutto, sostiene tutto... Ci sono ora la fede, la speranza e la C., queste tre cose; ma la C. è la maggiore di tutte » (Cor., I, 13, 7, 13). La C. è sostanzialmente, per S. Paolo, il legame che tiene avvinti i membri della comunità cristiana e fa di questa comunità lo stesso «corpo di Cristo ». In séguito, la filosofia cristiana ha visto nella C. so- prattutto il legame fra l’uomo e Dio. S. Tommaso definisce la C. come « l’amicizia con Dio» e dice: «Questa società dell’uomo con Dio, che è quasi una conversazione familiare con Lui, comincia nella vita presente mediante la grazia e si perfe- ziona nel futuro mediante la gloria; ed una cosa e l’altra sono tenute dalla fede e dalla speranza » (S. 7h., II, 1, q. 65, a. 5). Sul concetto dell’amore cristiano, v. AMORE. Nel linguaggio comune la pa- rola è talvolta adoperata invece di beneficenza, cioè per significare l’atteggiamento di chi vuole il bene degli altri e si comporta verso di essi generosamente. Ma anche il linguaggio comune conosce e adopera il retto significato del termine, come quando si dice che «Occorre un po’ di C.» a chi giudica troppo severamente del suo prossimo: nel qual caso ovviamente C. significa amore o compren- sione (v. AMORE). CARNE (gr. odpt; lat. Caro; ingl. Flesh; franc. Chair; ted. Fleisch). Nella terminologia del Nuovo Testamento, e specialmente di S. Paolo, è qualcosa di differente dal corpo. La C. o carna- lità è infatti l’avversione o la resistenza alla legge di Dio, perciò il peccato o l’orientamento verso il peccato (per es., S. PaoLO, Ad Rom., VII, 14; VIII, 3, 8, ecc. Cfr. BULTMANN, Theologie des N. T., 1948, pag. 223). Lo stesso senso il termine ha con- servato nel linguaggio comune e nella predicazione moralistica. In un senso diverso ha usato il termine Merleau-Ponty (Le visible et l’invisible, 1964), par- lando della «+ C. del mondo» come della sostanza viva che è comune al corpo dell’uomo e alle cose del mondo e costituisce insieme l’oggetto e il sog- getto delle esperienze umane. CARTESIANESIMO. L'insieme dei capisaldi che sonata e c’è una C. cristiana contro la quale, da Pascal in poi (Lettere Provin- ciali, 1657) è stato spesso rivolta l’accusa di mora- lità rilassata o accomodante. L’esigenza di una C. morale fu affacciata da Kant che così chiarì il concetto di essa: « L'etica, per il largo margine che concede ai doveri imperfetti, conduce inevitabil- mente a questioni che spingono il giudizio a deci- dere come la massima debba essere applicata nei casi particolari o quale massima particolare (su- bordinata) fornisca a sua volta (in questo modo possiamo sempre chiedere quale sia il principio di applicazione di queste massime secondo i casi che si presentano); e così l’etica sbocca in una C.». La C. non è nè una scienza nè parte di scienza, perchè in tal caso sarebbe dogmat5) riportava l’opinione secondo la quale la fortuna sarebbe una causa superiore e divina, nascosta all’intelligenza umana. Ad errore o a illusione equiparavano il C. gli Stoici che ritenevano che tutto accadesse nel mondo per un'assoluta necessità razionale (P/ac. philos., I, 29). È chiaro che chi ammette una ne- cessità di questo genere, e dovuta, o (come gli Stoici ritenevano) alla divinità immanente nel cosmo, o all’ordine meccanico dell’universo, non può am- mettere la realtà degli eventi che si sogliono chia- mare accidentali o fortuiti e tanto meno del caso come principio o categoria di tali eventi; e deve vedere in essi l’azione necessaria della causa ri- conosciuta in atto nell’universo, negando come illusione o errore il loro carattere casuale. È ia contemporanea, Bergson ha spiegato il C. con lo scambio, pura- mente soggettivo, tra l’ordine meccanico e l’ordine vitale o spirituale: « Che il gioco meccanico delle cause che arrestano la roulette sul numero mi faccia vincere e perciò agisca come avrebbe fatto un genio benefico cui stessero a cuore i miei inte- ressi; o che la forza meccanica del vento strappi dal tetto una tegola e me la lanci sulla testa, cioè agisca come avrebbe fatto un genio malefico che cospirasse contro la mia persona, in tutti e due i C. io trovo un meccanismo là dove avrei cercato o dove avrei dovuto incontrare, a quanto sembra, un’intenzione: è questo che si esprime parlando del C. » (Évol. créatr., 8* ediz., 1911, pag. 254). 2° Dall'altro lato, secondo l’interpretazione og- gettivistica, il C. non è un fenomeno soggettivo ma oggettivo e precisamente consiste nell’interse- carsi di due o più ordini o serie diverse di cause. La più antica delle interpretazioni del genere è quella di Aristotele. Aristotele comincia col notare che il C. non si verifica nè nelle cose che accadono sempre allo stesso modo nè in quelle che accadono per lo più nello stesso modo, ma piuttosto tra quelle che avvengono per eccezione e fuori di ogni uni- formità (Fis., II, 5, 196b 10 e sgg.). In tal modo egli correttamente assegna il C. alla sfera dell'im- prevedibile, cioè di ciò che accade fuori del ne- cessario (« ciò che accade sempre allo stesso modo ») e dell’uniforme («ciò che accade per lo più allo stesso modo +1). Stando a ciò, il C. (o la fortuna) è definito da Aristotele come «una causa acciden- tale nell’àmbito di quelle cose che non accadono nè in modo assolutamente uniforme nè frequente- mente e che potrebbero accadere in vista di un fine + (/b., 197 a 32). La determinazione del fine è, per Aristotele, essenziale giacchè il C. ha almeno l’aspetto o l'apparenza della finalità: come nel- l’esempio di chi si reca al mercato per tutt’altro motivo e lì incontra un debitore che gli restituisce la somma dovuta. In quest’esempio si chiama C. (o fortuna) l’evento della restituzione dovuto ad un incontro che non è stato deliberato o voluto come un fine, ma che avrebbe potuto essere un fine: mentre in realtà è stato l’effetto accidentale di cause che agivano in vista di altri fini. La no- zione di un incontro, di un intreccio di serie causali per la spiegazione del C., è stata ripresa nell'età moderna per opera di filosofi, matematici, econo- misti, che hanno riconosciuta l’importanza della nozione di probabilità (v.) per l’interpretazione della realtà in generale. Così Cournot definì il C. come il carattere di un avvenimento « dovuto alla com- binazione o all’incontro di fenomeni indipendenti nell'ordine della causalità » (Théorie des chances et des probabilités, 1843, cap. II) nozione che divenne prevalente nel positivismo, anche perchè fu accet- tata da Stuart Mill (Logic, II, 17, $ 2): «Un evento che avvenga per C. può essere meglio de- scritto come una coincidenza dalla quale non ab- biamo motivo per inferire un’uniformità... Possiamo dire che due o più fenomeni sono congiunti al C. o che coesistono o si succedono per C., nel senso che essi non sono in nessun modo connessi dalla cau- sazione; che non sono nè la causa o l’effetto l’uno dell’altro nè effetti della stessa causa o di cause tra le quali sussista una legge di coincidenza nè effetti della stessa collocazione di cause primarie ». In modo simile Ardigò (Opere, III, pag. 122) ri- conduceva il C. alla pluralità e all’intreccio di serie causali distinte. Questa nozione tuttavia è ogget- tiva solo in certi limiti o per meglio dire solo in apparenza. Che il C. consista nell’incontro di due serie causali diverse significa che esso è un avveni- mento causalmente determinato come tutti gli altri ma solo più difficile a prevedersi appunto perchè il suo accadere non dipende dal corso di un’unica serie causale. Secondo questa nozione la determi. nazione casuale del C., è più complessa ma non meno necessitante; e l’imprevedibilità che è la ca- ratteristica fondamentale del C. è dovuta soltanto a tale complessità e non è di natura oggettiva. Affinchè CATARSI 113 sia di natura oggettiva, tale imprevedibilità dev’es- sere infatti dovuta ad un’indeterminazione effettiva inerente al funzionamento della causalità stessa. 3° Questa ultima alternativa costituisce un terzo concetto del C., un concetto che si può far risalire a Hume. Sembra che Hume voglia ridurre il caso a un fenomeno puramente soggettivo perchè dice: «Per quanto non vi sia al mondo qualche cosa come il C., tuttavia la nostra ignoranza della causa reale di ogni avvenimento ha la stessa influenza sopra l'intelletto e genera una simile sorta di credenza o di opinione ». Ma in realtà se non esiste il «C.» come nozione o categoria a sè, non esiste neppure la «causa» nel senso necessario e assoluto del ter- mine; ma esiste soltanto la « probabilità ». E sulla probabilità è fondato quello che chiamiamo C.: «Sembra evidente che, quando la mente cerca di prevedere per scoprire l’evento che può risultare dal gettare quel dado, si considera l’apparire di ciascun singolo lato come egualmente probabile; e questa è la vera natura del C., di eguagliare interamente tutti i singoli eventi che comprende » (Ing. Conc. Underst., VI). È questa di Hume un’idea che nella filosofia contemporanea doveva rivelarsi estremamente feconda. Che il C. consista nell’equi- pollenza di probabilità che non lasciano adito ad una previsione positiva in un senso o nell’altro è un concetto su cui ha insistito Peirce, il quale ne ha visto anche l’implicazione filosofica fondamentale: l’eliminazione del « necessitarismo », cioè della dot- trina che tutto nel mondo avviene per necessità (Chance, Love and Logic, Il, 2; Coll. Pap., 6. 47 e sgg.). Da questo punto di vista il C. diventa un esempio particolare del giudizio di probabilità e precisamente quello nel quale la probabilità stessa non ha sufficiente rilevanza ai fini della prevedibi- lità di un evento. In tal senso il C. è stato consi- derato come una specie di entropia (v.) e il relativo concetto è comunemente adoperato nel campo della teoria dell’informazione e della cibernetica (v.). CASUALISMO (ingl. Casualism; franc. Ca- sualisme). La dottrina che il caso non è soltanto l’espressione dell’ignoranza umana a proposito delle cause di certi eventi, ma una condizione o situa- zione oggettiva di indeterminazione nelle cose stesse. Peirce chiamò questa dottrina tichismo (Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6. 47 sgg.) da toxn che in realtà significa fortuna. Un C. radicale è so- stenuto da Wittgenstein. « Fuori della logica tutto è caso », egli dice (Tracr. Logico-Philos., 6. 3). E si deve ricordare che la logica ha a che fare soltanto con tautologie (v.) le quali non significano nulla. CATALETTICA, RAPPRESENTA- ZIONE (gr. pavragia xataAnitixh; lat. Fantasia comprehensiva; ted. Kataleptische Vorstellung). Il criterio della verità, secondo gli Stoici. Essi chia- 8 — ABBAGNANO, Distonario di filosofia. marono C., cioè comprensiva, la rappresentazione evidente o che rende evidente l’oggetto che la produce. Secondo una testimonianza di Cice- rone (Acad., II, 144) Zenone poneva il significato della rappresentazione C. nella sua capacità di afferrare o comprendere l’oggetto: perciò para- gonava la mano aperta alla rappresentazione pura e semplice, la mano che fa l’atto di afferrare al- l’assenso; la mano stretta a pugno alla compren- sione C.; e le due mani strette l’una sull'altra alla scienza. Secondo Diogene Laerzio (VII, 46) e Sesto Empirico (Adv. Math., VII, 248) la rappresentazione C. è invece quella che viene da un reale sussC. come « quella discriminazione che con- serva il meglio e rigetta il peggio» (Sof., 226 d). Egli inoltre ricorda l’esistenza di libri di Museo e Orfeo secondo i quali « gli adepti celebrano sa- crifici persuadendo non solo privati ma anche città che ci sono assoluzioni e purificazioni dagli atti ingiusti per via di sacrifici e di giochi piacevoli, sia per i vivi che per i morti ». Empedocle chiamò Purificazioni (x49xpuor) uno dei suoi poemi che per l’appunto s’ispirava all’orfismo. In Platone il ter- mine ha una portata morale e metafisica. Esso designa in primo luogo la liberazione dai piaceri (Fed., 67 a, 69c); in secondo luogo la liberazione dell'anima dal corpo come un separarsi e ritirarsi dell’anima dalle operazioni corporee e realizzazione, già nella vita, di quella separazione totale che è la morte (/bid., 67 c). E su quest’ultimo punto insisterà Plotino secondo il quale la virtù purifica l’anima dai desideri e da tutte le altre emozioni nel senso che separa l’anima dal corpo e fa in modo che l’anima si raccolga in se stessa e divenga impassi- bile (Enz., I, 2, 5). Aristotele adoperò ampiamente il termine nel suo significato medico negli scritti di storia naturale come purificazione o purga. Ma per primo lo estese a designare anche un fenomeno estetico, cioè quella specie di liberazione o di rasserenamento che l’uomo subisce ad opera della poesia e in par- 114 ticolare del dramma e della musica. « La tragedia, egli disse, è imitazione di azione di carattere ele- vato e completa, di una certa estensione, in lin- guaggio abbellito e che ha diverse specie di abbellimenti distribuite nelle varie parti di essa, imitazione compiuta da attori e non in forma nar- rativa e che suscitando il terrore e la pietà per- viene alla purificazione da tali affezioni» (Poet., 1449 b, 24 sgg.). Abbastanza curiosamente Ari- stotele, che esamina uno per uno tutti gli elementi della tragedia, non si ferma invece a spiegare che cos'è la C.: il che vuol dire che egli adopera qui la parola nel senso generale corrente di rasserena- mento e di calma per quanto non di assenza totale delle emozioni: senso che trova riscontro in ciò che dice nella Politica a proposito della musica. Qui egli osserva che quando alcuni, che sono for- temente scossi da emozioni come pietà, paura, entusiasmo, odono canti sacri che impressionano l’anima «si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o purificato ». Anche tutte le altre emozioni possono subire una « purificazione e un piacevole alleggerimento ». E «le musiche particolarmente adatte a produrre purificazione dànno agli uomini un’innocente gioia » (Po/., VIII, 7, 1342 a 17). Delle molte interpretazioni che sono state date della C. estetica la prevalente è stata quella di Goethe (Nachlese zu Aristot. Poetik, 1826) secondo la quale essa consisterebbe nell’equilibrio delle emozioni che l’arte tragica induce nello spettatore dopo averne eccitate le emozioni stesse e perciò nel senso di serenità e di pacificazione che essa procura. Se pure qualche cosa di simile c’è in Aristotele, bisogna tuttavia osservare che per lui il significato della C. estetica non è diversa da quella della C. medica o morale: una specie di cura delle affezioni (corporee © spirituali) che non le abolisce ma le porta alla misura in cui esse sono compatibili con la ragione. Nella cultura moderna il termine C. è stato ado- perato quasi esclusivamente nel suo riferimento alla funzione liberatrice dell’arte. Freud ha talvolta chia- mato C. il processo di sublimazione della /ibido (v. AMORE) per il quale la libido si distacca dal suo contenuto primitivo, cioè dalla sensazione volut- tuosa e dagli oggetti che vi si connettono, per concentrarsi su altri oggetti che saranno amati di per se stessi. A questo processo di C. (di « subli- mazione +) sono dovuti, secondo Freud, tutti i progressi della vita sociale, l’arte, la scienza e la civiltà in generale, almeno nella misura in cui di- pendono da fattori psichici (v. PSICANALISI). CATASILLOGISMO (lat. Catasyllogismus). Controdimostrazione. Il termine è adoperato da Giovanni di Salisbury (Meralogicus, IV, 5) in rife- rimento al verbo controdimostrare adoperato da Aristotele (An. Pr., II, 19, 66 a 25). CATASILLOGISMO CATASTROPE (ingl. Catastrophe; franc. Ca- tastrophe; ted. Katastrophe). Ricorre a questa no- zione ogni teoria che cerchi di spiegare lo sviluppo di una realtà qualsiasi mediante rivolgimenti radi- cali e totali che avverrebbero periodicamente. Così Cuvier (Discours sur les révolutions du globe, 1812) spiegava l’estinzione delle specie animali fossili mediaesa dai primi cristiani) ma basta che essa valga come un « mito ». Cfr. ATTIVISMO; MITO. CATECHISMO (ingl. Catechism; franc. Caté- chisme; ted. Katechismus). Kant distinse il metodo dell’interrogatorio (o erotematico) in metodo ca- techetico per il quale ci si rivolge soltanto alla memoria di chi viene interrogato e in metodo dia- logico o socratico col quale ci si rivolge a ciò che è contenuto nella ragione dell’interrogato ed è perciò suscettibile di essere reso esplicito o svilup- pato (Mer. der Sitten, II, Intr., $ 18 nota). Egli ritenne tuttavia indispensabile un C. morale che avrebbe dovuto precedere il C. religioso ed essere indipen- dente da esso (/bid., $ 51). Il positivismo ottocen- tesco mostrò una certa predilezione per C. filosofici o filosofico-politici. Ne compilò uno il St.-Simon (C. degli industriali, 1823-24) e uno famoso Augusto Comte (C. positivista, 1852). Ciò avvenne perchè il positivismo si presentò spesso come una religione « scientifica » che avrebbe dovuto soppiantare la re- ligione tradizionale. CATEGOREMATICO (lat. Categoremata; ingl. Categorematic; franc. Catégorematique; te- desco Kategorematisch). Nella grammatica e nella logica medievale sono dette così le parti del discorso di per se stesse significanti, come il soggetto o il predicato, mentre sono dette sincategorematiche (v.) le altre. L'espressione deriva probabilmente dalla distinzione, fatta dagli Stoici, tra « discorso per- fetto» che è quello di senso compiuto (per es., « Socrate scrive +) e discorso imperfetto che manca di qualche cosa (per es., « Scrive» che fa nascer la domanda «Chi?+) (Diog. L., VII, 63). Nella forma che poi divenne un luogo comune nella CATEGORIA logica medievale, la distinzione si può vedere per la prima volta nel trattato anonimo del sec. x1I, De generibus et speciebus, edito da Cousin ((Euvres inédites d’Abélard, pag. 531). Essa è poi costante- mente ripetuta nella logica posteriore (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 1.05). CATEGORIA (gr. xamyopla; lat. Praedica- mentum; ingl. Category; franc. Catégorie; ted. Kate- gorie). In generale, qualsiasi nozione che serva come regola per l’indagine o per la sua espressione lingui- stica, in un campo qualsiasi. Storicamente, il primo significato attribuito alle C. è realistico: esse sono considerate come determinazioni della realtà e in secondo luogo come nozioni che servono a inda- gare e a comprendere la realtà stessa. Così le in- tese Platone che le chiamò « generi sommi» ed enumerò cinque di tali generi, cioè l’essere, il mo- vimento, la quiete, l’identità e l’alterità (Sof., 254 seguenti). Come alcuni di questi generi si legano assieme tra loro ed altri no, così le parti del di- scorso, cioè le parole, si legano assieme e quando tale mescolanza corrisponde a quella reale il discorso è vero, altrimenti è falso (/bid., 263 seguenti). Questa corrispondenza tra la realtà e il discorso, per il tramite delle determinazioni ca- tegoriali, è anche la base della teoria di Ari- stotele. Questi, tuttavia, parte da un punto di vista linguistico: le e qualche volta il luogo dove sta o il tempo, ne segue che tutti questi sono modi dell’essere » (Met., V, 7, 1017a 23 sgg.). Questo concetto di C. come di determinazione appartenente all’essere stesso e di cui il pensiero debba servirsi per conoscerlo ed esprimerlo in pa- role, è durata lungamente; e per molto tempo le scuole filosofiche o i filosofi furono dissenzienti solo rispetto al numero e alla distinzione delle ca- tegorie. Così gli Stoici le ridussero a quattro: la sostanza, la qualità, il modo d’essere e la relazione (StmpL., /n car., f. 16 d). Plotino ritornò ai cinque generi sommi platonici (Enn., VI, 1, 25). Nel Me- dicevo, la sola alternativa alla dottrina del fonda- mento reale delle C. è il carattere puramente verbale di esse, sostenuto dal nominalismo. Ockham, af- ferma recisamente che le C. non sono che segni delle cose, segni semplici dai quali possono essere costituiti « complessi » sia veri che falsi (De corpore Christi, 35; In Sent., I, d. 30, q. 2, I). Pertanto la loro distinzione non implica una pari distinzione tra gli oggetti reali giacchè non sempre a concetti o a parole distinti corrispondono cose distinte. Le C. di sostanza, qualità e quantità, per quanto di- stinte come concetti, significano la medesima cosa (Quodi., V, q. 23). Questa negazione radicale della realtà delle C., dipende dalla negazione totale che il nominalismo medievale faceva di ogni realtà uni- versale. Questo punto di vista equivale a conside- rare le C. come semplici nomi che si riferiscono a classi di oggetti. La dottrina di Kant non ha niente a che fare con questo nominalismo per quanto si sottragga ugualmente al realismo della concezione classica. Le C. sono per Kant i modi in cui si manifesta l’attività dell’intelletto, la quale consiste essenzial- mente « nell’ordinare diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune », cioè nel giudicare. Esse pertanto sono le forme del giudizio, cioè le forme in cui il giudizio si esplica indipendentemente dal suo contenuto empirico. Per questo le C. pos- sono essere ricavate dalle classi del giudizio enu- merate dalla logica formale. «In tal modo, dice Kant, sorgono precisamente tanti concetti puri del- l’intelletto, che si applicano a priori agli oggetti dell’intuizione in generale, quante funzioni lualità, divenire, forza, finalità, personalità) come determinazioni e specificazioni di essa (Essai de critique générale, I, 1854, pag. 86 sgg.), E Cohen ha considerato come C. fondamentale quella del sistema, perchè l’unità dell’oggetto, su cui si fonda l’unità della natura, è un'unità sistematica (Logik, pag. 339). Ma per quanto non ci sia stato filosofo d’ispirazione kantiana che non abbia voluto dare la sua tavola delle C., il concetto kantiano della C. è rimasto immutato per tutta la parte della filosofia moderna che trae la sua ispirazione da Kant. Tut- tavia tale concetto non è il solo nella filosofia moderna e contemporanea. Quello tradizionale di C. come «determinazione dell'essere» è stato ri- preso dall’idealismo romantico e in particolare da Hegel. Questi considera le C. come « determina- zioni del pensiero » e fa merito a Fichte di aver affermato l’esigenza della loro « deduzione» cioè della dimostrazione della loro necessità (Enc., $ 43). Ma in realtà per Hegel le determinazioni del pen- siero sono, nel contempo, le determinazioni della realtà (per l’identità da lui posta di realtà e ragione); e abitualmente egli chiama « momenti » più che C., queste determinazioni. L'unica C. che egli riconosca veramente come tale è la stessa Realtà-pensiero, cioè l’Autocoscienza, l’Io o la Ragione. Nella Fe- nomenologia (I, cap. V, $ 2) egli dice: «L’Io è la sola pura essenzialità dell’ente o la C. semplice. La C., che altrimenti aveva il significato di essere essenzialità dell’ente, essenzialità indeterminata- mente dell’ente in generale o dell’ente di contro alla coscienza, è ora essenzialità o semplice unità dell'ente in quanto questo è soltanto realtà pen- sante: ossia la C. consiste in ciò che autocoscienza ed essere sono la medesima essenza ». Il che vuol CATEGORIA dire che la C. dev'essere considerata non come una determinazione dell’essere in generale, ma come la coscienza, e quindi la realtà stessa. Questa teoria dell'Io o della Coscienza o dello Spirito come dell'unica C. è rimasta poi un luogo co- mune di tutte le forme dell’idealismo romantico. Simmetrica e opposta a quella di Hegel è la dot- trina di Heidegger, per il quale la C. è la deter- minazione, non dell’autocoscienza o dell’Io, ma dell'essere delle cose. Heidegger distingue infatti gggetti dell’intenzionalità della co- scienza. 3° In qualche altra corrente della filosofia contemporanea, per es., nell’empirismo logico, le C. vengono invece considerate come le regole con- venzionali che presiedono all’uso dei concetti. Così fa, per es., Ryle che chiama «tipo o categoria lo- gica di un concetto l’insieme dei modi in cui, per convenzione, è lecito servirsi del termine rispettivo » (Concept of Mind, Intr.; trad. ital., pag. 4). Questa è certamente la nozione meno dogmatica e più gene- rale di C., che la filosofia abbia finora prospettato: contiene tuttavia ancora un certo dogmatismo, perchè limita le C. a quelle già stabilite dall’uso linguistico comune, negando implicitamente la va- lidità di ogni nuova proposta. Eppure scienziati e fsi parla di «errore C.» per indicare lo scambio di una cate- goria con un’altra (per es., RyLE, Concept of Mind, I, $ 2) CATEGORICO (gr. xatnyopix6g; ingl. Catego- rical; franc. Catéporique; ted. Kategorisch). In gene- rale, una proposizione o un ragionamento non limi- tato da condizioni. Si cominciò a chiamare C. il sillogismo aristotelico (SESTO E., /pot. Pirr., II, 163) dopo che gli Stoici ebbero elaborato la teoria del ra- gionamento ipotetico (v. ANAPODITTICO). Molto pro- babilmente gli Stoici consideravano assorbita la 117 teoria aristotelica del sillogismo dalla loro teoria dei ragionamenti ipotetici, come consideravano assorbita nella loro teoria degli assiomi o proposizioni la teoria aristotelica dell’inzerpretazione (v.). Ma la logica posteriore (specialmente gli Aristotelici) semplice- mente aggiunse le determinazioni stoiche a quelle aristoteliche, parlando così di una proposizione C. e di una proposizione ipotetica, di sillogismo C. e di sillogismo ipotetico. Questa terminologia fu in- trodotta da Marciano Capella (De nuptiis, $ 404 seguenti) e da Boezio nella tradizione latina. Dice Boezio: «I Greci chiamano proposizioni C. quelle che sono pronunziate senza alcuna condizione mentre sono condizionali quelle del tipo ‘se è giorno, c’è luce’, che i Greci chiamano ipotetiche ». Corrispondentemente il sillogismo C. o « predica- tivo » è quello che è formato da proposizioni C., mentre quello che consta di proposizioni ipotetiche, si dice ipotetico cioè condizionale (De syll. hypot., I, in P. L. 64, col. 833). Questa terminologia si è conservata lungo tutta la tradizione logica dell’occidente e fu accettata da Kant (Crit. R. Pura, Analitica dei concetti, $ 9). Kant ha a sua volta esteso la distinzione stessa ap- plicandola agli imperativi, cioè alle massime della volontà. Egli ha chiamato C. l’imperativo della moralità, che non è sottoposta ad alcuna condizione e ha quindi una « necessità incondizionata vera- mente oggettiva » e che per conseguenza vale per tutti gli esseri ragionevoli quali che siano i loro desideri (Grundlegung zur Met. der Sitten, 11) (v. IMPERATIVO). CATENOTEISMO (ingl. Kathenotheism). Ter- mine inventato dallo storico delle religioni Max Miller per indicare la dottrina che c’è un solo Dio per volta, cioè il monoteismo dei Veda secondo i quali un Dio solo per volta governa il mondo, mentre le altre divinità aspettano il loro turno. CAUSA ESEMPLARE. L’idea in Dio delle cose che intende creare (v. IDEA). CAUSALITAÀ (gr. altia, altiov; lat. Causa; ingl. Causality; franc. Causalité; ted. Causalitàt). Nel suo significato più generale, la connessione tra due cose, in virtù della quale la seconda è uni- vocamente prevedibile a partire dalla prima. Sto- ricamente questa nozione ha assunto due forme fondamentali: 1° la forma di una connessione ra- zionale, per la quale la causa è la ragione del suo effetto, che è perciò deducibile da essa. In questa concezione l’azione della causa viene spesso de- scritta come quella di una forza che genera o pro- duce immancabilmente l’effetto; 2° la forma di una connessione empirica o temporale, per la quale l’effetto non è deducibile dalla causa, ma è tuttavia prevedibile in base ad essa per la costanza e uni- formità del rapporto di successione. Questa conce- zione elimina dal rapporto causale l’idea di forza. Ad entrambe queste forme è comune la nozione della prevedibilità univoca cioè infallibile dell’ef- fetto, a partire dalla causa, e perciò pure la nozione della necessità del rapporto causale. 1° La prima forma della nozione di causa può dirsi che cominci con Platone, il quale considera la causa come il principio per il quale una cosa è, o diventa, ciò che è. In tal senso egli afferma che la vera causa di una cosa .è ciò che per la cosa è «il meglio», cioè l’idea o lo stato perfetto della cosa stessa e, per es., la causa del due è la dualità, di ciò che è grande la grandezza, di ciò che è bello la bellezza; e in generale il bene è causa di ciò che c’è di bene nelle cose e delle cose stesse (Fed., 97c sgg., spec. 101c). Accanto a queste cause «prime » o « divine » Platone ammise poi le con- cause che sono le limitazioni che l’opera creativa del demiurgo incontra e costituiscono gli elementi di necessità del mondo stesso (Tim., 69 a). Ma la prima vera analisi della nozione di causa si trova in Aristotele. Per primo Aristotele afferma (Fis., I, 1, 184 a 10) che conoscenza e scienza consistono nel rendersi conto delle cause e non sono nulla fuori di questo. Ma nello stesso tempo egli nota che, se chiedere la causa significa chiedere il perchè di una cosa, questo perchè può essere diverso e ci sono quindi varie specie di cause. In un primo senso, è causa ciò di cui una cosa è fatta e che rimane nella cosa, per es., il bronzo è causa della statua e l’argento della coppa. In un secondo senso, la causa è la forma o il modello, cioè l’essenza ne- cessaria o sostanza, (v.) di una cosa. In questo senso è causa dell’uomo la natura razionale che lo definisce. In un terzo senso, è causa ciò che dà inizio al mutamento o alla quiete: e, per es., l’autore di una decisione è la causa di essa, il padre è causa del figlio e in generale ciò che produce il mutamento è causa del mutamento. In un quarto senso, la causa è il fine e, per es., la salute è la causa per cui si passeggia (/bid., II, 3, 194b 16; Met.,, V, 2, 1013 ione di un effetto, come nel caso di due buoi che tirano l’aratro. La cooperante è infine la causa che ar- reca una piccola forza in virtù della quale l’effetto si produce con facilità: come quando a due che portano con fatica un peso si aggiunge un terzo che aiuta a sostenerlo. Ma la causa per eccellenza è, per gli Stoici, quella sinettica, e in questo senso Dio è causa e costituisce il principio attivo del mondo (Diog. L., VII, 134; SENECA, Ep., 65, 2). CAUSALITÀ La filosofia medievale poco o nulla ha innovato al concetto della struttura causale (perchè sostan- ziale) del mondo. Il suo contributo maggiore è l’elaborazione del concetto di causa prima in un senso diverso da quella aristotelica, cioè non come tipo di causa fondamentale ma come primo anello ddel Joro naturalismo. Così Pomponazzi intende riportare anche gli eventi più straordinari e miracolosi all’ordine necessario della natura; e si avvale, per farlo, del determinismo astrologico degli Arabi (De incantationibus, 10). La nozione di un ordine causale del mondo (qualche volta ricondotto a Dio come a prima causa), se- condo il concetto neo-platonico e medievale, forma anche il presupposto e lo sfondo del primo organiz- zarsi della scienza con Copernico, Keplero e Galilei. Questo sfondo viene espresso in termini meccani- stici da Hobbes e in termini teologici da Spinoza, ma rimane lo stesso. Hobbes ritiene che il rapporto causale si riduce all’azione di un corpo sull’altro e che perciò la causa sia ciò che genera o distrugge un certo stato di cose in un corpo (De corp., IX, 1). La causa perfetta, cioè da cui l’effetto infallibil- mente segue è l’aggregato di tutti «gli accidenti attivi» quanti sono: con essa l’effetto è già dato (Ibid., IX, 3). La concatenazione dei movimenti costituisce l’ordinamento causale del mondo. Dal suo canto Spinoza, come vede in Dio la sola so- stanza, così vede in lui la sola causa; dalla quale tutte le cose e gli eventi del mondo (i « modi» della Sostanza) derivano con necessità geometrica (Er., I, 29). La necessità causale che per Hobbes è una concatenazione dei movimenti, per Spinoza è una concatenazione di ragioni, cioè di verità che costituiscono una catena ininterrotta. D'altronde il carattere meccanico della C. non diminuisce, agli occhi di Hobbes, la natura razionale di essa: chè anzi Hobbes vede nel meccanismo la sola spiega- zione razionale del mondo, nel corpo e nel movi- mento i due soli princìpi di spiegazione, e non ri- conosce altre realtà fuori di essi. Ciò accade perchè in Hobbes, come in Spinoza, prevale l’identifica- zione accettata da Cartesio di causa con ragione. La causa è ciò che dà ragione dell’effetto, ne di- mostra o giustifica l’esistenza o le determinazioni. Così Cartesio la concepisce quando, definendo ana- litico il metodo da lui adoperato, afferma che esso «fa vedere come gli effetti dipendano dalle cause » (Secondes Réponses). Il che vuol dire che la causa è ciò che consente di dedurre l’effetto. Che spie- gare mediante la causa significhi « dar ragione » di ciò che esiste, è il significato di chiamava principio del determinismo assoluto. « Il principio assoluto delle scienze sperimentali, egli diceva (Introduction, I, 2, 7) è un determinismo necessario e cosciente nelle condizioni dei fenomeni. Se un fenomeno naturale, quale che sia, è dato, mai uno sperimentatore potrà ammettere che vi sia una variazione nell’espressione di quel feno- meno, senza che nello stesso tempo siano soprav- venute condizioni nuove nella sua manifestazione: in più egli ha la certezza 4 priori che queste varia- zioni sono determinate da rapporti rigorosi e ma- tematici. L'esperienza ci mostra soltanto la forma dei fenomeni; ma il rapporto di un effetto con una causa determinata è necessario e indipendente dal- l’esperienza, e forzatamente matematico e assoluto ». Ma nonostante queste affermazioni così recise di uno dei maggiori scienziati e metodologi della scienza dell’800, la scienza stessa seguì un altro corso, rispetto all’elaborazione e all’uso della no- zione di causalità. I progressi del calcolo delle pro- babilità, alcune teorie fisiche (specialmente la teoria cinetica dei gas), poi la meccanica quantistica, fe- cero un posto sempre maggiore alla nozione di probabilità e da ultimo, appunto la meccanica quantistica tende a sostituire l’uso di questa no- zione a quella di C. che pareva indispensabile agli scienziati e ai metodologi dell’800. Si può dire che l’ultima manifestazione filosofica della teoria classica della C. è la dottrina di Nicolai Hartmann che, pur considerando la realtà divisa in piani negandolo alle cose, osservò che l’unico legame accertabile tra le cose è una certa connessione temporale e che, per es., diciamo che la combustione è causata dal fuoco unicamente perchè sopravviene insieme col fuoco (AVERROÈ, Destructio destructionum, I, dub. 3). Con altri in- CAUSALITÀ 121 tenti Ockham nel xiv secolo anticipava la critica di Hume affermando che la conoscenza di una cosa non porta con sè a nessun titolo la cono- scenza di una cosa diversa sicchè « una proposizione come “il calore riscalda’ in nessun modo si può dimostrare per sillogismo, ma la conoscenza di essa si può ottenere solo per esperienza; giacchè se non si esperimenta che alla presenza del calore segue il calore in un’altra cosa, non si può sapere che il calore produce calore più di quanto si sappia che la bianchezza produce bianchezza » (Summa Log., III, 2, 38). Qui è anticipato chiaramente il punto fondamentale della critica di Hume, cioè l’indeducibilità dell’effetto dalla causa. Hume co- mincia infatti col negare proprio che ci sia tra causa ed effetto un tale rapporto. « Noi ci illudiamo, dice Hume, che se fossimo condotti all'improvviso su questo mondo potremmo sùbito dedurre che una palla di biliardo può co- municare il movimento ad un’altra ». Ma in realtà «anche supponendo che mi nasca per caso il pen- siero del movimento della seconda palla quale risultato del loro urto, io potrei concepire la pos- sibilità di altri mille avvenimenti differenti, per es., che entrambe le palle rimanessero ferme o che la prima se ne tornasse indietro diritta o scappasse da uno dei lati in una direzione qualsiasi. Tutte queste supposizioni sono coerenti e concepibili; e quella che l’esperienza dimostra vera non è più coerente e concepibile delle altre». La conclusione è che « tutti i nostri ragionamenti @ priori non po- tranno mostrare alcun diritto a questa preferenza a; e che «invano pretenderemmo di predire qualche singolo avvenimento, o inferire qualche causa o effetto, senza l’aiuto dell’osservazione e dell’espe- rienza » (/ng. Conc. Underst., IV, 1). L’osservazione e l’esperienza, tuttavia, con la ripetizione di certi avvenimenti simili, cioè con le uniformità che ri- velano, fanno nascere l’abitudine a credere che tali uniformità si verificheranno anche nel futuro e rendono pertanto possibile la previsione su cui è fondata la vita quotidiana. Ma questa previsione, secondo Hume, non è giustificata da nulla. Anche dopo che l’esperienza è stata fatta, la connessione tra causa ed effetto rimane arbitraria (giacchè causa ed effetto rimangono due avvenimenti distinti) sicchè rimane arbitraria la previsione fondata su quella connessione. «Il pane che prima mangiavo mi nu- triva; cioè un corpo con certe qualità sensibili era dotato di segrete forze in quel tempo; ma ne segue che un altro pane debba nutrirmi pure in un altro tempo e che qualità sensibili simili debbano essere sempre accompagnate da eguali forze segrete? La conseguenza non sembra affatto necessaria » (/bid., IV, 2). La conclusione di Hume è che il rapporto causale è ingiustificabile e che la credenza in esso si può spiegare solo con l’istinto, cioè col bisogno di vivere che la richiede. Quest’analisi di Hume ha proposto il problema della C. nella forma che esso conserva ancora nella filosofia contemporanea. Il criterio adoperato da Hume per dimostrare l’in- sufficienza della teoria classica è quello della pre- vedibilità. Il rapporto causale deve rendere pre- vedibile l’effetto; ma nessuna deduzione @ priori può rendere prevedibile un effetto qualsiasi; la deduzione è perciò incapace di fondare il rapporto causale. La ripetizione empiricamente osservabile di una connessione tra due eventi è allora l’unico fondamento per asserire un rapporto causale e il modo in cui essa renda possibile tale asserzione è il problemul primo punto ci limiteremo a riportare l’opinione di Nietzsche, secondo il quale la nozione di causa non è che la trascrizione simbolica della volontà di potenza, cioè del sentimento interno di forza o di espansione gioiosa. « Fisiologicamente, dice Nietzsche, l’idea di causa è il nostro sentimento di potenza, in ciò che si chiama volontà; e l’idea dell’effetto è il pregiudizio di credere che il sentimento di potenza sia la stessa potenza motrice. La condizione che accompagna un evento e che è già un effetto di quest’evento, è proiettata come ‘ ragion sufficiente ’ di esso ». In realtà per Nietzsche l’intera concezione meccanica del mondo non è che un linguaggio sim- bolico per esprimere « la lotta e la vittoria di certe quantità di volontà» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 296). Questa connessione della nozione di C. in quanto forza produttiva con l’esperienza interna dell’uomo e cioè come trascrizione 0 concettualiz- zazione antropomorfica, fu sostenuta nell’800 da numerosi filosofi per quanto fosse stata criticata e rigettata da Hume (Ing. Conc. Underst., VII, 1). Si cercò perciò di « purificare » la nozione di C. dai suoi riferimenti antropomorfici; e il più importante tentativo in questo senso fu fatto da Comte. Egli ritenne che l’idea stessa di causa quale forza pro- duttiva o agente fosse propria di uno stato sor- passato della scienza, cioè dello stato metafisico; e ritenne invece propria dello stato positivo la nozione di causa come «relazione invariabile di successione e di simiglianza tra i fatti ». Tale nozione bastava infatti, secondo Comte, a rendere possibile il còmpito essenziale della scienza che è quella di prevedere i fenomeni in vista di poterli utilizzare: il rapporto costante, una volta riconosciuto e for- mulato in una /egge, rende possibile prevedere un fenomeno quando si verifica quello con il quale essa è collegato; e la previsione rende a sua volta possibile agire sui fenomeni stessi (Cours de Phil. positive, I, cap. I, $ 2). Questo concetto della previ- sione come còmpito fondamentale della scienza, che Comte derivava da Bacone ma ch’egli ha fatto am- piamente prevalere nell’indagine moderna, doveva diventare dominante come criterio della validità e dell'efficacia della scienza e quindi anche della por- tata e del significato del principio di causalità. E la nozione di C. e quella di previsione furono da Comte e rimasero, dopo di lui, strettamente congiunte. Mach che parte da questa congiunzione fra le due nozioni vuole sostituire al concetto tradizionale di causalità il concetto matematico di funzione, cioè di « dipendenza dei fenomeni tra loro o più esat- tamente dipendenza dei caratteri distintivi dei fe- nomeni tra loro» (Analyse der Empfindungen, 9* ed., 1922, pag. 74). Tuttavia nè Comte nè Mach met- tono in dubbio il carattere necessitante della C. e il determinismo rigoroso che essa comporta nel mondo dei fenomeni naturali. Conseguentemente, essi non mettono in dubbio la prevedibilità certa e infalli- bile dei fatti naturali di cui siano conosciuti i rap- porti causali. Soltanto gli sviluppi della scienza contemporanea hanno messo in dubbio queste due cose e hanno perciò provocato la crisi definitiva della nozione di causalità. Nella seconda metà dell’800 la formulazione ma- tematica della teoria cinetica dei gas, dovuta a Maxwell e a Boltzmann, servì a interpretare stati- ticamente il secondo principio della termodinamica, CAUSALITÀ secondo il quale il calore passa soltanto da un corpo a temperatura più alta ad un corpo a tem- peratura più bassa. La teoria cinetica interpretava questo fatto come un caso di probabilità statistica; e per la prima volta la nozione di probabilità, che era stata fino allora limitata nel dominio della matematica, veniva utilizzata nel dominio della fisica. Tuttavia la teoria cinetica dei gas non rap- presentava ancora una infrazione al principio di C. dominante in tutto il resto della fisica. Soltanto con gli sviluppi della fisica subatomica e con la scoperta dovuta a Heisenberg del principio d’in- determinazione (1927) il principio di C. subiva un colpo decisivo. L’impossibilità, stabilita da tale principio, di misurare con precisione una gran- dezza senza scapito della precisione nella misura di un’altra grandezza collegata, rende impossibile predire con certezza il comportamento futuro di una particella subatomica e autorizza soltanto pre- visioni probabili, fondate su accertamenti statistici, del comportamento di tali particelle. In conse- guenza di ciò, la fisica tende oggi a considerare gli stessi rapporti di prevedibilità nel cao-temporale degli eventi da un lato e la classica legge causale dall’altro, rappresentano due aspetti complementari, escluden- tisi a vicenda, degli avvenimenti fisici (Die phy- sikalischen Prinzipien der Quantumtheorie, IV, $ 3). Nel 1932 von Neumann così riassumeva lo stato della questione: «In fisica macroscopica, non c’è alcuna esperienza che provi il principio di C., per- chè l’ordine causale apparente del mondo macro- scopico non ha altra origine all’infuori della legge dei grandi numeri e ciò del tutto indipendentemente dal fatto che i processi elementari (che sono i veri processi fisici) seguano o meno leggi di C.... È solo alla scala atomica, nei processi elementari, che la questione della C. può realmente essere og- getto di discussione; ma, sola asserzione circa la realtà, la cui validità possa essere asserita con più che probabilità ». Questi sviluppi della scienza hanno reso inutili le discus- sioni dei filosofi circa il fondamento, la portata e i limiti del principio di causa. Questo principio non viene più adoperato, nè nella sua forma classica nè nella sua forma moderna: il concetto del sapere o della scienza come « conoscenza delle cause» è entrato in crisi ed è stato praticamente abbandonato dalla scienza stessa. Una nuova terminologia si va formando, nella quale i termini di condizione (v.) e condizionamento (v.), definibili mediante i pro- cedimenti in uso nelle varie discipline scientifiche, prendono il posto del venerando e ormai inservibile concetto di causa. CAUSA STRUMENTALE (la divinità è perciò moderno e collegato con l’orientamento pan- teistico; come appare chiaro dalla osservazione di Hegel (/. c.) che C. sui è equivalente a effectus sui. CAVERNA, IDOLI DELLA. V. Ipoti. CAVERNA, MITO DELLA. Il mito esposto da Platone nel VII libro della Repubblica, secondo il quale, la condizione degli uomini nel mondo è simile a quella di schiavi legati in una C. che pos- sono scorgere solo le ombre, proiettate sul fondo, delle cose e degli esseri che sono al di fuori. La filosofia è, in primo luogo, l’uscita dalla C. e l’os- servazione delle cose reali e del principio della loro vita e della loro conoscibilità, cioè del Sole (il bene [v.]); e, in secondo luogo, il ritorno alla C. e la partecipazione alle opere e ai valori propri del mondo umano (Rep., 519 c-d). CAVILLO (lat. Cavillatio; ingl. Cavil). Il ter- mine fu proposto da Cicerone come traduzione della parola greca sophisma che fu in séguito tra- dotta comunemente con fallacia (v.) (De Orat., II, 54, 217; cfr. Seneca, Ep., 111; QUINTILIANO, Inst. Or., IX, 1, 15). Il termine veniva ancora ri- cordato in questo senso nel sec. xvm (cfr. JUNGIUS, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 1, 16). CELANTES. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il sesto modo della prima figura del sillogismo e precisamente quello che con- siste di una premessa universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una conclu- sione universale negativa, come nell’es.: « Nessun animale è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque nessuna pietra è uomo + (Pietro Ispano, Surumul. logic., 4.08). CELARENT. Parola mnemonica usata dagli Scolastici per indicare il secondo modo della prima figura del sillogismo, precisamente quello che con- siste di una proposizione universale negativa, di una proposizione universale affermativa e di una conclusione universale negativa, come, ad es., « Nessun animale è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPaNO, Summul. logic., 4.07). CERTEZZA (gr. BeBawrhg; lat. Certitudo; in- glese Certitude, Certainty; franc. Certitude; tedesco Gewissheit). La parola ha due significati fondamen- tali: 1° la sicurezza soggettiva della verità di una conoscenza; 2° la garanzia che una conoscenza offre della sua verità. La parola ha avuto, nel suo uso store concetti di C. vengono perciò sempre chiariti as- sieme e complementarmente, nella tradizione filo- sofica. S. Tommaso distingue due modi di con- siderare la certezza. Il primo consiste nel conside- rare la causa di essa e sotto questo aspetto la fede è più certa della sapienza, della scienza e dell’in- telletto perchè si fonda sulla verità divina, mentre queste tre cose si fondano sulla ragione umana. Nel secondo modo, la C. si può considerare dalla parte dell’oggetto (subiectum) e in questo modo è più certo l’oggetto che più s’adatta all’intelletto umano ed è meno certa la fede (S. 7%., II, 2, q. 4, a. 8). Ovviamente, la C. considerata nella sua causa è la C. soggettiva cioè la sicurezza soggettiva della verità della credenza mentre la C. considererto che è costituito dall’insieme delle conoscenze ap- prestate da quelli che Vico chiama «filologi», cioè dagli storici, dai critici, dai grammatici, che si sono occupati dei costumi, delle leggi e dei linguaggi dei popoli (/bid., degn. 10). Ma in generale l’identifica- zione tra C. e verità è rimasta salda nella filosofia moderna. Kant ha chiamato C. la credenza oggetti- vamente sufficiente cioè sufficientemente garantita come vera (Crir. R. Pura, Canone della ragion pura, sez. 3). Egli ha distinto inoltre la C. empirica, che può essere originaria, cioè connessa con la pro- pria esperienza storica o derivata da un’esperienza altrui; e la C. razionale che si distingue da quella empirica per la «coscienza della necessità» e si può quindi chiamare apodittica (Logik, Intr., $ IX). Hegel stesso ha accettato l’identificazione di C. e di conoscenza e ha così illustrato i due aspetti, soggettivo e oggettivo, della C. sensibile: « Nella C. sensibile, un momento è posto come ciò che semplicemente e immediatamente è, come l’es- senza: e questo è l’oggetto. L'altro momento è posto come l’inessenziale e mediato, che non è in sè ma mediante qualcosa d’altro: e questo è l’Io, un sapere che sa l’oggetto soltanto perchè l’oggetto è, un sapere che può essere o anche non essere » (Phaenomen. des Geistes, I, A, 1). Analoga- mente i due significati sono stati distinti e accettati CHIAREZZA E DISTINZIONE 125 da Husserl che ha considerato il fenomeno della C. come originario, connesso con lo stesso atteggia- mento della Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il primo dei quattro modi del sillogismo di seconda figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una conclusione universale negativa come nell’esempio: « Nessuna pietra è animale, Ogni uomo è animale, Dunque nessun uomo è pietra» (Pietro IsPANO, Summul. logic., 4.11). CESARISMO (ted. Casarismus). Spengler ha così chiamato « quella specie di governo che, mal- grado tutte le forme del diritto pubblico, è ancora totalmente sprovvisto di forma nella sua natura interna ». Esso si verifica alla fine di certi periodi quando le istituzioni politiche fondamentali sono morte, per quanto minuziosamente conservate nelle loro apparenze: in questi periodi niente ha signi- ficato tranne il potere personale esercitato dal Ce- sare. «È il ritorno di un mondo, che ha raggiunto la sua forma, al primitivo, a ciò che è cosmicamente astorico » (Der Untergang des Abendlandes, ll, 4, 2, $ 14). CHIACCHIERA (ted. Gerede). Secondo Hei- degger uno dei modi d’essere dell’uomo nella vita quotidiana ed anonima (insieme con la curiosità [v.] e l’equivoco [v.]). La C. non è un termine dispre- giativo ma indica un fenomeno positivo che co- stituisce uno dei modi (l’inautentico) di comprendere il mondo e di viverci dentro. La C. rompe il rap- porto del linguaggio coi fatti. Sicchè ciò che viene detto acquista un carattere d’autorità e si implica che «la cosa stia appunto così come si dice » (Ste questo farsi è la chiarificazione. CHILIASMO (ingl. Chiliasm; franc. Chiliasme; ted. Chiliasmus). C. o millenarismo si chiama ogni credenza nell’avvento di un radicale rinnovamento del genere umano e nell’instaurazione di uno stato definitivo di perfezione. L°Apocalisse di S. Gio- vanni è il maggiore documento di una credenza del genere che fu abbastanza frequente nei primi tempi del Cristianesimo e si ripresentò spesso an- che nel Medioevo. Gioacchino da Fiore (sec. x) preconizzò l'imminente avvento di una terza epoca della storia umana, quella dello Spirito Santo (Con- cordia Novi et Veteris Testamenti, IV, 35). Kant ha parlato di un C. filosofico « che spera in uno stato di pace perpetua, fondata in una lega delle nazioni come repubblica mondiale » (Religion, I, 3). CI (ted. Da). Secondo Heidegger, il ci dell’Es- serci (Dasein) indica non solo il fatto che l’Esserci (= l’uomo) si trova qua o là, cioè in qualche luogo dello spazio, ma specialmente l’apertura dell’uomo alla spazialità, cioè al mondo in generale (Sein und Zeit, $ 28). In altri termini «Esserci» significa essere nel mondo; e l’essere nel mondo è carat- terizzato dalla situazione emotiva e dalla compren- sione (v.). CHIARIFICAZIONE CIBERNETICA (ingl. Cybernetics). La pa- rola significa propriamente arte del pilota, ma è stata usata dall’americano Wiener per designare «lo studio dei messaggi, e particolarmente dei mes- saggi che effettivamente comandano, ai fini della costruzione delle macchine calcolatrici» (C., or Con- trol and Communication in the Animal and the Ma- chine, 1947). In senso più generale la C. è intesa oggi come lo studio di «tutte le possibili mac- chine », indipendentemente dal fatto che alcune di esse siano o non siano state prodotte dall'uomo 0 dalla natura. E in questo senso essa offre lo schema nel quale tutte le macchine individuali possono essere ordinate, poste in relazione e comprese (cfr. ad es. W. Ross AsHBy, An Introduction to C., 1957). Le macchine di cui si occupa la C. sono tuttavia gli automi (v.) cioè quelle capaci di eseguire ope- razioni che, nel corso della loro esecuzione, pos- sono essere corrette in modo da rispondere meglio al loro scopo. Questa correzione si chiama retro- azione (feedback). Poichè essa è la caratteristica fondamentale delle operazioni dell’uomo o di qual- siasi essere intelligente, tali macchine sono anche dette pensanti o cervelli elettronici perchè il loro funzionamento è affidato alle proprietà fisiche del- l’elettrone. Lo schema del loro funzionamento si può scorgere nella più semplice operazione di un essere umano. Se, avendo visto un oggetto in una certa direzione (cioè avendone ricevuto un mes- saggio visivo), stendo il braccio per afferrarlo e sbaglio la direzione o la distanza, subito l’infor- mazione di questo sbaglio rettifica il movimento del mio braccio e mi consente di dirigerlo esatta- mente verso l’oggetto: sia l’operazione, sia la cor- rezione dell’operazione stessa sono in questo caso guidati da messaggi cioè da informazioni ricevute o trasmesse dal sistema nervoso che dirige il mo- vimento del braccio. La teoria dell’informazione fa perciò parte integrante della C. o comunque è strettamente collegata con essa. Nella C. possono essere distinti gli aspetti seguenti: 1° lo schema generale dell’informazione; 2° la misura della quan- tità d’informazione; 3° le condizioni che rendono possibile l’informazione; 4° gli scopi dell’informa- zione. 1° Lo schema di ogni informazione sembra co- stituito essenzialmente da tre elementi: il mes- saggio emesso, la trasmissione, e il messaggio ricevuto. Ma in realtà le cose sono più complicate perchè il messaggio emesso (per es., una frase pronunciata in italiano o l’insieme di punti e linee che costituiscono un messaggio telegrafico) è già l’espressione o la traduzione o, come anche si dice, la messa in codice di ciò che chi lo emette (l’emittente) intende trasmettere. Dall'altro lato, il messaggio ricevuto dev’essere compreso cioè ritra- dotto o decodificato per essere registrato dal rice- vente e guidarne la condotta. Così il messaggio telegrafico trasmesso mediante combinazioni di punti e linee dev'essere decodificato o ritradotto in pa- role o la frase pronunciata in italiano deve esser compresa secondo le regole e il dizionario della lingua italiana e non apporterà alcuna informa- zione a chi non conosce l’italiano. Già in tutti questi passaggi sono possibili equivoci, errori di emissioni, di trasmissioni, di codificazione e deco- dificazione nonchè disturbi vari dovuti all’interfe- renza di rumori o di altri fattori meccanici. 2° Proprio quest’ultima osservazione ha dato l’avvio alla teoria matematica dell’informazione con un teorema proposto da C. E. Shannon nel 1948 (cfr. SHANNON e WEAVER, The Mathematical Theory of Communications, 1949) Shannon osservava che un messaggio inviato attraverso un canale qualsiasi subisce, nel corso della trasmissione, deformazioni diverse, per cui al suo arrivo una parte delle in- formazioni che conteneva è andata perduta. Egli stabili l'analogia tra questa perdita e l’entropia (v.) che è la funzione matematica esprimente la degra- dazione dell’energia che si verifica (in base al se- condo principio della termodinamica) in ogni tra- sformazione del lavoro meccanico in calore in quanto la trasformazione inversa (del calore in lavoro meccanico) non è mai completa. In base a questa analogia la quantità di informazione, tra- smessa può essere calcolata come entropia negativa giacchè, nella trasmissione dei messaggi, come nella trasformazione dell’energia, l’entropia negativa de- cresce continuamente perchè quella positiva (per- dita d’informazione o degradazione di energia) cresce continuamente. Sulla base di questa ana- logia, il calcolo delle probabilità, di cui si avvale la termodinamica, può essere adoperato, con op- portuni accorgimenti, per determinare le formule in cui la misura della quantità di informazione può essere espressa nei singoli casi, che variano a se- conda del numero e della frequenza dei simboli adoperati, della loro possibilità di combinazione, dell’interferenza dei fattori di disturbo nella tra- smissione dei simboli stessi e così via. In quest’ul- timo caso, si prendono in considerazione i simboli detti ridondanti che hanno lo scopo di prevedere e correggere gli errori della trasmissione prima che essi si producano, in modo che il funzionamento della trasmissione sia corretto in anticipo dalla previsione dei disturbi, col processo della retro- azione. In generale si può dire che più un mes- saggio è improbabile, maggiore è l’informazione che esso trasmette. Perciò la quantità minima di informazione si ha quando l’informazione lascia la scelta soltanto tra due possibilità ugualmente probabili. Questa quantità minima è stata assunta come unità di misura dell’informazione ed è stata chiamata bif (abbreviazione dell’espressione inglese binary digit = cifra binaria). 3° Il concetto e il calcolo dell’informazione si- tuano l’informazione stessa nel dominio della pro- babilità (v.). Questo vuol dire che l’informazione è possibile solo in un mondo che non è nè neces- sariamente ordinato, nè necessariamente disordinato. In un mondo necessariamente ordinato, tutto sa- rebbe infallibilmente prevedibile e l’informazione sarebbe inutile. In un mondo necessariamente di- sordinato, cioè puro frutto del caso, nessun ordine sarebbe possibile quindi nessuna informazione tra- smissibile. L’informazione trasmette infatti un or- dine determinato di simboli e la misura dell’infor- mazione è la misura di un ordine. Un messaggio telegrafico consiste, per es., di una certa combi- nazione di punti e linee che, se comunica un’in- formazione, ha un ordine determinato, scelto tra i moltissimi che sono resi possibili dall’alfabeto Morse. La misura dell’informazione è data, come si è visto, dall’entropia negativa cioè da una fun- zione che esprime la diminuzione dell’entropia che è il disordine (cioè la distribuzione casuale) degli elementi di un sistema qualsiasi. Pertanto le con- dizioni della C., cioè dell’uso teoretico e pratico della teoria dell’informazione, possono essere rica- pitolate nel modo seguente: a) La negazione di ogni tipo o forma di ne- cessità in tutte le situazioni in cui l’informazione prende posto. b) La negazione di ogni conoscenza assoluta cioè totale, definitiva ed eseste condizioni dell’informazione (e quindi della C. che l’adopera per i più diversi scopi), sono implicitamente o esplicitamente ammesse da tutti gli scienziati che in qualsiasi campo si avvalgono di questa disciplina; e costituiscono il fondamento filosofico di essa. Esse sono riassunte nel passo seguente di F. C. Frick: « Informazione e ignoranza, scelta previsione e incertezza, sono tutte intima- mente correlate... AI confine della completa cono- scenza e della completa ignoranza, sembra intuiti- vamente ragionevole parlare di gradi di incertezza. Più vasta è la scelta, più esteso è l’insieme delle alternative che si aprono davanti a noi, più incerti noi siamo circa come procedere e di maggiore in- formazione abbiamo bisogno per prendere la nostra decisione » (Information Theory, in Psychology: A Study of a Science, 22 ediz., Sigmund Koch, 1959, pag. 614-15). 4° Il quarto aspetto della C. è costituito dagli usi e dagli scopi che essa può avere nei più diversi campi dell’attività umana: a) In primo luogo la C. è un potente stru- mento per la spiegazione e la previsione dei feno- meni. Uno dei suoi successi più clamorosi si è avuto nel campo della generica (v.), dove ha reso possibile spiegare la trasmissione dei caratteri ere- ditari mediante le varie combinazioni degli elementi di un alfabeto genetico, costituito dagli acidi desos- siribonucleici, costituenti la doppia elica del DNA (Watson e Crick, 1953). La teoria dell’evoluzione (v.), sull’impianto darwiniano, considera l’evoluzione stessa come un processo di variazione a caso e di sopravvivenza selettiva: due concetti che sono (come si è visto) quelli fondamentali della teoria dell’informazione. Nella psicologia, nell’antropo- logia, nella sociologia tali concetti sono adoperati a spiegare ogni forma di organizzazione e sono ora generalizzati in una teoria dei sistemi, applicabile a tutti questi campi (cfr., ad es., W. BUCKLEY, Sociology and Modern Systems Theory, 1967, e relativa bibl.). b) In secondo luogo la C. è utilizzata per la costruzione di macchine sempre più complesse, alle quali sono affidate operazioni e compiti, ritenuti, sino a poco tempo fa, propri dell’uomo. Sui limiti e le possibilità di queste macchine, i pareri di scien- ziati e filosofi sono discordi. C'è chi ritiene che, in un futuro più o meno prossimo, esse possano sostituirsi all'uomo nella soluzione di tutti i suoi problemi e anche nelle scelte decisive che concer- nono l’avvenire o la sopravvivenza del genere umano. Altri avanzano dubbi su questa possibilità illimitata, che sembra fra l’altro contraddetta dal teorema di Gédel (v. MATEMATICA) che tra le sue implicazioni, ha anche quella che non è possibile costruire una macchina che risolva ogni problema. Si insiste, inoltre, sulla differenza tra l’uomo e la macchina dovuta alla presenza nell’uomo del fat- tore coscienza (v.). Raymond Ruyer ha, per es., af- fermato che « senza coscienza non c’è informazione » e che perciò se il mondo fisico è quello delle mac- chine fossero abbandonati a se stessi, « tutto spon- CICLO DEL MONDO taneamente diverrebbe disordine e ci sarebbe la prova che non c’è mai stato ordine vero, ordine consistente o, in altri termini che non c'è mai stata informazione» (La cybernétique et l’origine de l’information, 1954). Si insiste, anche da più parti, su fondamenti vari (spesso di natura meta- fisica o morale) sulla differenza fra l’uomo e la macchina, ma in generale viene riconosciuto che le macchine hanno gli stessi limiti dell’uomo, sep- pure a un grado inferiore, e che si distinguono dall’uomo per l’enorme « complessità » del cervello umano e per la capacità di quest’ultimo di pre- vedere in misura, corrispondentemente maggiore, gli avvenimenti futuri. Wiener ha insistito sull’esi- genza di una simbiosi fra l’uomo e la macchina, per la quale è necessario, da parte dell’uomo, avere una chiara idea degli scopi che deve prefiggersi nella programmazione e nell’uso delle macchine. Una macchina infatti può, eseguendo il suo pro- gramma, mettere in atto operazioni che, per l’in- sorgere di circostanze impreviste, possono rivolgersi contro gli interessi e la vita stessa dell’uomo. Anche una macchina che può imparare e prendere deci- sioni sulla base di una conoscenza acquisita, ha osservato Wiener, non sarà obbligata a decidere nel senso in cui avremmo deciso noi stessi o al- meno in modo per noi accettabile: « Per colui che non ha coscienza di ciò, addossare il problema della propria responsabilità alla macchina (sia che questa possa apprendere o no) vorrà dire affidare la propria responsabilità al vento e vedersela tornare indietro tra i turbini della tempesta » (7he Human Use of Human Beings, 1950, cap. XI; cfr. pure God & Golem, Inc., 1964). I problemi della C. si colle- gano così strettamente, oltre che a quelli dell’on- tologia e della gnoseologia, anche a quelli dell’etica. CICLO DEL MONDO (gr. xixdog; ingl. Co- smic Cycle; franc. Cycle cosmique; ted. Kosmic Cyklus). La dottrina secondo la quale il mondo ritorna, dopo un certo numero di anni, al caos primitivo dal quale uscirà di nuovo per ricomin- ciare il suo corso sempre uguale. La dottrina è suggerita ai più antichi filosofi dalle vicende ci- cliche constatabili: l’alternarsi del giorno e della notte, delle stagioni, delle generazioni animali, ecc. La nozione del C. cosmico si trova nell’orfismo, nel pitagorismo, in Anassimandro (HyP., Refut. omn. haeres., I, 6, 1), in Empedocle (Fr. 17, Diels), in Eraclito (Fr. 5, Diels); ed inoltre negli Stoici secondo i quali: «Quando nel loro moto gli astri siano tornati allo stesso segno e alla latitudine e longitudine in cui ciascuno era al principio, ac- cade, nel C. dei tempi, una conflagrazione e distru- zione totale; poi di nuovo si ritorna dal principio allo stesso ordine cosmico e di nuovo muovendosi gli astri ugualmente, ogni avvenimento accaduto nel precedente C. torna a ripetersi senza alcuna differenza. Vi sarà infatti di nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi, ed ogni città e villaggio e campagna ritornerà ugualmente. Questo ritorno universale si effettuerà non una sola volta ma molte volte e all’infinito » (NEMESIO, De nat. hom., 38). Nella filosofia moderna questa dottrina è stata ripresa da Federico Nietzsche: per il quale l'eterno ritorno è il sì che il mondo dice a se stesso, la vo- lontà cosmica di riaffermarsi e di essere se stessa, quindi l’espressione cosmica di quello spirito dio- nisiaco che esalta e benedice la vita. «Il mondo, dice Nietzsche, si afferma da sè, anche nella sua uniformità che rimane la stessa nel corso degli anni, si benedice da sè, perchè è ciò che deve eter- namente ritornare, perchè è il divenire che non conosce sazietà nè disgusto nè fatica» (Wille zur Macht, ed. e fuoco) che compongono i corpi sublunari; sicchè il C. che si muove di movimento circolare, che non ha l’opposto, è incorruttibile e ingenerabile (De cael., Il, 1 sgg.). La dottrina dell’incorruttibilità dei C. ha dominato tutta la fisica antica e medie- 9 — ABDAGNANO, Dizionario di filosofia, vale. Nell’antichità fu forse messa in dubbio da Teofrasto (cfr. STEINMETZ, Die Physik des Theo- phrast, 1964, pag. 158 sgg.). Nel Medioevo il primo a metterla in dubbio fu Ockham nel sec. xiv, il quale nega la diversità tra la materia che com- pone i corpi celesti e la materia che compone i corpi sublunari e ammette come sola differenza tra questi e quelli il fatto che la materia dei corpi celesti non può essere trasformata per l’azione di alcun agente creai e senza entrare a far par- te dell’esistenza soggettiva (PAi/., III, pag. 137). Una cosa, una persona, una dottrina, una poesia possono valere come simboli o C. della trascendenza; simboli e C. sono anche le siruazioni-limite (v.). CINEMATOGRAFICO, MECCANISMO (franc. Mécanisme cinématographique). Così Bergson chiamò il procedimento del pensiero nei riguardi del movimento: il pensiero prenderebbe sul movi- mento istantanee immobili alle quali aggiungerebbe un movimento artificiale esterno. Su questo pro- cedimento sarebbe fondata «l'illusione meccani- stica » (Évol. Créatr., cap. IV). CINICA, FILOSOFIA (ingl. Cynicism; fran- cese Cynisme; ted. Cynismus). La dottrina di una delle scuole socratiche e precisamente di quella fondata da Antistene di Atene (sec. rv a. C.) nel Ginnasio Cinosarge. Proprio da questo Ginnasio i Cinici probabilmente derivarono il loro nome; oppure, come altri dicono, lo derivarono dal loro ideale di vita conforme alla semplicità (e alla sfac- ciataggine) della vita canina. La tesi fondamentale del cinismo è che l’unico fine dell’uomo è la feli- cità e la felicità consiste nella virtù. Fuori della virtù non esistono beni sicchè fu proprio dei Cinici il disprezzo per le comodità, gli agi e i piaceri e l’ostentazione del più radicale disprezzo per le con- venzioni umane e in generale per tutto ciò che allontana l’uomo dalla semplicità naturale di cui gli animali dànno l’esempio. La parola « cinismo » è rimasta nel linguaggio comune per l’appunto a designare una certa sfacciataggine. 130 CIRCOLO (gr. xixdo, Sdandoc bro; lat. Cir- culus; ingl. Circle; franc. Cercle; ted. Zirkelbe- weiss). La dimostrazione in circolo o reciproca è, secondo Aristotele, quella che consiste nel dedurre dalla conclusione e da una delle due premesse di un sillogismo (quest’ultima assunta nel rapporto di predicazione inverso) l’altra conclusione del sil- logismo stesso (An. Pr., II, 5, 57b sgg.). Aristo- tele ammette la piena validità di questo procedi- mento e ne stabilisce i limiti e le condizioni a proposito di ciascuna figura del sillogismo. Esso pertanto non ha niente a che fare col « C. vizioso + o «petizione di principio », da lui enumerata fra i sofismi extra dictionem (cioè non dipendenti dal- l’espressione linguistica) e che consiste nell’asgismo è un diallele perchè in esso la premessa maggiore, per es., «Tutti gli uomini sono mortali » presuppone accertata la con- clusione « Socrate è mortale » (/pot. Pirr., II, 195 seguenti). Questa critica trascura un punto fonda- mentale della logica di Aristotele e cioè che le premesse del sillogismo non sono stabilite per induzione ma esprimono la causa o sostanza ne- cessaria delle cose. Per es., quando si dice « Tutti gli uomini sono mortali» non si esprime l’osser- vazione che Tizio, Caio, Sempronio sono mortali, bensì un carattere che appartiene alla sostanza o essenza necessaria dell'uomo ed è perciò la causa o ragion d’essere della conclusione. Il C. viene solitamente assunto come segno della incapacità di dimostrare. Hegel osservò tuttavia che « La filosofia forma un C. +: perchè essa, in ognuna delle sue parti, deve prendere le mosse da qual- cosa di indimostrato, che è invece il risultato di qualche altra sua parte (Fi/. de/ dir., $ 2, Zusatz). A sua volta Rosmini (Logica, 1854, pag. 274 n) parlò di un «C. solido» per cui la conoscenza della parte suppone quella del tutto e reciproca- mente. E Gentile rifacendosi a tali esempi a sua volta ritenne che il diallele o C., quale Sesto Em- pirico l’ha mostrato in atto nel sillogismo, è la CIRCOLO caratteristica propria del « pensiero pensato », cioè del pensiero come oggetto di se stesso. « Questo diallelo, egli disse, che è stato sempre lo spauracchio del pensiero, sarà, anzi è, la morte del pensiero pen- sante; ma è la vita, la stessa legge fondamentale del burgo (1559-73), metodo che consisteva prevalen- temente nello spiegare ogni singolo passo mediante il senso totale della Scrittura. CLASSIFICAZIONE CLAVIS UNIVERSALIS. Questo termine fu usato tra il °500 e il ”600 per indicare la tecnica della memoria e dell’invenzione, che ha il suo precedente più illustre nell’ Ars magna di Lullo e il suo sbocco più importante nella Caratteristica universale di Leibniz (cfr. PaoLo Rossi, Clavis universalis, 1960) (v. CARATTERISTICA; COMBINATORIA; MNEMONICA). CLINAMEN. V. DECLINAZIONE. COCCODRILLO, DILEMMA DEL. Vedi DILEMMA. COERENZA (ingl. Coherence; franc. Cohé- rence; ted. Zusammenhang). 1. L'ordine, la con- nessione, l'armonia di un sistema di conoscenza. In questo senso Kant attribuiva alle conoscenze a priori il còmpito di mettere ordine e C. nelle rappresentazioni sensibili (Crit. R. Pura, 1* ediz., Intr., $ 1). E in tal senso la C. è stata assunta da alcuni idealisti inglesi come criterio della verità. Secondo Bradley, ad es., la realtà è una Coscienza assoluta che abbraccia, nella forma di una C. ar- moniosa, tutto il molteplice disperso e contraddit- torio dell’apparenza sensibile (Appearance and Rea- lity, 2* ediz., 1902, pag. 143 sgg.). La C. in questo senso è assai più della semplice compatibilità (v.) fra gli elementi di un sistema: implica, infatti, non solo l'assenza della contraddizione, ma la presenza di connessioni positive che stabiliscano armonia tra gli elementi del sistema. In questa accezione il termine non ha significato logico. 2. Lo stesso che compatibilità. Questo significato è assunto frequentemente dal termine italiano e da quello francese, giacchè in queste lingue il termine compatibilità non si presta a esprimere il carattere del sistema che è privo di contraddizione, ma de- signa piuttosto il carattere di non contraddittorietà reciproca degli enunciati. COESISTENZA (ingl. Coexistence; fr. Coexis- tence; ted. Mitsein o Mitdasein). Nell’esistenzia- lismo contemporaneo s’intende con questo termine il modo specifico in cui l’uomo è con gli altri uomini nel mondo: modo che è diverso da quello in cui egli si trova ad essere, nel mondo, con le altre cose. Questo significato specifico del termine è dovuto a Heidegger che ha distinto la presenza delle cose come mezzi o strumenti utilizzabili dal con-esserci (Mif- dasein), o C. degli altri con l’Io. La stretta connes- sione della C. con l’esistenza fa sì che non vi possa essere comprensione di sè senza la comprensione degli altri. « Nella comprensione dell’essere propria dell’Esserci, dice Heidegger, è implicita la com- prensione degli altri, e ciò perchè l’essere dell’Es- serci è coesistenza » (Sein und Zeit, $ 26). COGITO. Si abbrevia in questa parola l’espres- sione cartesiana « Cogito ergo sum (Discours, IV; Méd., II, 6 che esprime l’autoevidenza esi- stenziale del soggetto pensante, cioè la certezza che il soggetto pensante ha della sua esistenza in quanto tale. Si tratta di un movimento di pensiero che è stato ripresentato varie volte nella storia, sia pure per fini diversi. S. Agostino si av- valse di esso per confutare lo scetticismo accade- mico, cioè per dimostrare che non si può rimaner fermi al dubbio o alla sospensione dell’assenso. Chi dubita della verità è certo di dubitare, cioè di vivere e di pensare; consegue dunque nel dubbio stesso la certezza che lo rapporta alla verità (Contra Acad., III, 11; De Trin., X, 10; Solil., II, 1). Da S. Agostino lo stesso atteggiamento di pensiero passa in alcuni Scolastici; per es., in S. Tommaso: « Nessuno, egli dice, può pensare con assenso [cioè credere] di non essere; giacchè, in quanto pensa qualcosa, percepisce di essere» (De ver., q. 10, a. 12, ad. 7). Contemporaneamente a Cartesio il principio è ripreso da Campanella (Mer., I, 2, 1). Per quanto questo movimento di pensiero sia stato fatto servire a fini diversi (S. Agostino lo utilizza per dimostrare la trascendenza della Verità [che è Dio stesso] e la presenza di essa all’anima umana; Campanella lo utilizza per dimostrare la priorità di una « nozione innata di sè » su ogni altra specie di conoscenza; e Cartesio per giustificare il suo metodo dell’evidenza) e il suo preciso significato sia quindi diverso da un filosofo all’altro, poche volte si è tuttavia dubitato della sua validità generale. Ad ogni filosofia che faccia appello alla coscienza (v.) come allo strumento della ricerca filosofica, il C. deve apparire indubitabile perchè in realtà esso non è che la formulazione del postulato metodo- logico di una tale filosofia. Ma anche filosofie che non riconoscono tale postulato fanno uso del C. e lo riconoscono valido. Così fa, per es., Locke che vede in esso « il più alto grado di certezza + (Saggio, IV, 9, 3). E così fa Kant che vede in esso la stessa appercezione pura (v.) o coscienza riflessiva. Nella filosofia contemporanea, Husserl assume esplici- tamente il C. come punto di partenza della sua filosofia (/deen, I, $ 46; Méd. cart.,8 1) e ricorre ad esso continuamente nel corso delle sue analisi, con- siderandolo come la struttura stessa dell’esperienza vissuta (Erlebniss) o coscienza. Heidegger stesso non mette in dubbio la validità del C. per quanto rimproveri a Kant di aver ristretto con esso l’io a un «soggetto logico», isolato, «soggetto che accom- pagna le rappresentazioni in un modo ontologica- mente del tutto indeterminato» (.Sein und Zeit, $ 64). Di fronte a una così ampia accettazione, le cri- tiche sono state assai scarse. Si può pensare alla critica di Vico; ma è facile vedere che questa non è veramente una critica del Cogito. Vico nega che la «coscienza» del proprio essere possa costituire la «scienza » di esso 0 almeno il principio di questa scienza. La scienza infatti è conoscenza di causa e il C. cartesiano sarebbe principio di scienza solo nel caso che la coscienza fosse la causa dell’esistenza (De antiquissima Italorum sapientia, I, 3). Ma con ciò Vico non nega che il C. costituisca una certezza valida, anzi si preoccupa di correggerlo affermando che Cartesio avrebbe dovuto dire non «io penso dunque sono + ma * Io penso dunque esisto » (Prima risposta al Giornale dei letterati,83). La critica di Kier- kegaard si rivolge alla portata, più che alla validità, del C. cartesiano: «Il principio di Cartesio ‘io penso, dunque sono’ è, al lume di logica, un gioco di parole; poichè quell’ io sono * non significa altro, logicamente, se non ‘io sono pensante’ ovvero ‘io penso» (Diario, V, A, 30). In altri termini, secondo Kierkegaard, la proposizione cartesiana è puramente tautologica, giacchè il suo presupposto è l’identità dell’esistenza con il pensiero. Una tau- tologia però è ancora una proposizione valida. Nel 1868 Peirce rispondeva negativamente alla questione «se abbiamo una autocoscienza intuitiva », nella quale la parola autocoscienza stava per cono- scenza della propria esistenza. Peirce non affrontava la validità del C. ma con prove psicologiche e storiche credeva di poter concludere che +« non c'è necessità di supporre un’autocoscienza intui- tiva, dal momento che l’autocoscienza può fa- cilmente essere il risultato di un’inferenza + (Coll. Pap., 5.263). Neppur questa è così, propriamente parlando, una critica del cogito. Pertanto la più semplice e decisiva critica a questa no- zione si può ritenere quella di Nietzsche: « ‘Si pensa, dunque c’è qualcosa che pensa ’: a questo si riduce l’argomentazione di Cartesio. Ma questo significa soltanto ritenere come vera a priori la nostra credenza nell’idea di sostanza. Dire che, quando si pensa, bisogna che ci sia qualcosa ‘che pensi * è semplicemente la formulazione dell’abitu- dine grammaticale che all’azione aggiunge un attore. In breve qui non si fa altro che formulare un po- stulato logico-metafisico, in luogo di contentarsi di constatarlo... Se si riduce la proposizione a questo: ‘Si pensa, dunque ci sono pensieri” ne risulta una semplice tautologia e la ‘realtà del pensiero’ ri- mane fuori questione sicchè, in questa forma, si è portati a riconoscere l’ ‘apparenza’ del pen- siero. Ma Cartesio voleva che il pensiero non fosse una realtà apparente, ma fosse un in sè» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 260). Queste considerazioni di Nietzsche costituiscono una critica, che molti filosofi contemporanei accetterebbero, del principio del cogito. Ad essa infatti fa esplicito riferimento Carnap che sostanzialmente la ripete. « L'esistenza dell’io, egli dice, non è un originario stato di fatto del dato. Dal C. non segue il sum; da ‘Io sono co- sciente’ non segue che io sono ma soltanto che vi è un’esperienza cosciente (Er/ebniss). L’io non 136 COINCIDENTIA appartiene all’espressione delle fondamentali espe- rienze vissute, ma viene costituito più tardi, essen- zialmente allo scopo di delimitare il suo àmbito da quello dell'altro... Al posto dell’espressione di Descartes bisognerebbe porre quest'altra: ‘Questa esperienza cosciente; quindi c’è un’esperienza co- sciente ’; ma questa sarebbe certamente una pura tautologia » (Der /ogische Aufbau der Welt, 1928, $ 163). Questa critica è però ben lungi dall’essere condivisa anche dagli stessi empiristi logici e Ayer, per es., riconferma sostanzialmente la validità del principio cartesiano come verità logica, pur limi- tandone la portata. « Se qualcuno pretende di sa- pere che egli esiste o che è conscio, la sua pretesa deve essere valida semplicemente perchè il suo es- sere valida è una condizione del suo essere fatta » (Problem of Knowledge, 1956, pag. 53). La posi- zione di Nietzsche su questo punto era più radicale e, probabilmente, più corretta (v. COSCIENZA). COINCIDENTIA OPPOSITORUM. Espres- sione adoperata per la prima volta da Niccolò Cusano per esprimere la trascendenza e l’infinità di Dio: il quale sarebbe C. del massimo e del mi- nimo, del tutto e del nulla, del creare e del creato, della complicazione e dell’esplicazione, in un senso che non può essere inteso ed afferrato dall’uomo (De docta ignor., I, 4; De coniecturis, II, 1). Nello stesso senso si servirono dell’espressione Reuchlin (De arte cabalistica, 1517) e Giordano Bruno che se ne avvale per definire l’universo ch'egli identifica con Dio. L’universo « comprende tutte contrarietà di nell’esser suo in unità e convenienza» (Della causa [v.}). COLLETTIVISMO (ingl. Collectivism; fran- cese Collectivisme; ted. Kollektivismus). 1. Questo termine è stato coniato nella seconda metà dell’800 per indicare il socialismo non statalista di fronte

a quello statalista. Furono collettivisti in questo senso il socialismo riformista d’anteguerra ed è collettivista il laburismo inglese in quanto vuole una società senza squilibri di classe, quindi col- lettivizzata; ma non controllata con la forza da una élite privilegiata che goda di un livello di vita radicalmente diverso da quello della popolazione. 2. In senso più vasto, s'intende per C. ogni dot- trina politica che si opponga all’individualismo e che in particolare sostenga l’abolizione della pro- prietà privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. In questo senso sono collettivistici sia il socialismo che il comunismo, in tutte le loro forme. COLLIGAZIONE (ingl. Colligation; franc. Col- ligation; ted. Kolligation). Operazione descrittiva in- vocata da Whewell (Novum organum renovatum, 1840, II, cap. 1 e 4) per spiegare il modo in cui si possono raccogliere un certo numero di dettagli in una sola proposizione. Stuart Mill (Logic, III, 2, 4) riprese questa nozione collegandola a quella di indu- zione. « L’asserzione che i pianeti si muovono in el- lissi fu un modo di rappresentare fatti osservati, quin- di una C.; l’asserzione che essi sono attratti verso il Sole è l’asserzione di un nuovo fatto, inferito per induzione ». La parola è caduta in disuso nella lo- gica contemporanea. COLPA (lat. Culpa; ingl. Guilt; franc. Culpabi- lité; ted. Schuld). Originariamente, termine giuridico per indicare l’infrazione di una norma compiuta « involontariamente », cioè senza averla progettata; in contrapposto al delitto (dolus) che è la trasgres- sione progettata. Ecco come Kant esprime la cosa: « Una trasgressione involontaria ma imputabile si chiama colpa; una trasgressione volontaria (cioè unita con la coscienza che si tratta proprio di trasgressione) si chiama delitto » (Mer. der Sitten, I, Intr., $ 4). Per Heidegger la colpa è «un modo d’essere dell’Esserci » cioè una determinazione es- senziale dell’esistenza umana in quanto tale. Egli distingue due significati di esser colpevole (corri- spondentemente ai due significati del tedesco Schw/d che significa debito e colpa): l’essere in debito verso qualcuno e l’esser causa, autore od occa- sione di qualche cosa. « In questa forma di ‘ aver C. * in qualcosa si può ‘esser colpevole ’ senza ‘ essere in debito” con qualcuno o essergli debitore. E, rovesciando si può dovere qualcosa a qualcuno senza averne la C. (esserne la causa)» (Sein und Zeit, $ 58). In un senso analogo, Jaspers ha posto la C. tra le situazioni-limiti dell’esistenza umana, cioè tra quelle situazioni alle quali l’uomo non può sfuggire (Phil., II, pag. 246 sgg.). COMBINATORIA, ARTE (lat. Ars combi- natoria). Con il nome di ars combinatoria Leibniz designa il progetto, o meglio l’ideale, di una scienza che, partendo da una characteristica universalis (vedi CARATTERISTICA), ossia da un linguaggio simbolico che assegnasse un segno ad ogni idea primitiva, combinasse in tutti i modi possibili questi segni primitivi, ottenendo così tutte le possibili idee. Il progetto, derivante in parte dalle idee esposte da R. Lullo nella Ars Magna, aveva già sedotto molti pensatori del *500 e °600 (tra gli altri, Agrippa di Nettesheim, A. Kircher, P. Gassendi, G. Dalgarno) e venne parzialmente coltivato anche da continuatori di Leibniz, come Wolff e Lambert. G. P. COME SE (ted. A/s ob). Espressione che ricorre frequentemente nelle opere di Kant per indicare il carattere ipotetico o semplicemente regolarivo di certe affermazioni. Per es., le cose in sè possono essere pensate per analogia «come se fossero so- stanze, cause, ecc. + (Crit. R. Pura, Dialettica, V, d). L’imperativo categorico ordina di agire « come se l’essere razionale fosse un membro legislatore nel regno dei fini » (Grundlegung zur Met. der Sitten, II). Noi dobbiamo trattare le massime della libertà «come se fossero leggi della natura » (/bid., III). La facoltà del giudizio considera gli oggetti naturali « come se la finalità della natura fosse intenzionale » (Critica del Giud., $ 68). Il come se kantiano non è una mera finzione: è semplicemente l’interpretazione, in termini di operazioni o di comportamenti, di proposizioni il cui senso letterale e metafisico ap- pare al di là della confutazione e della conferma, perciò inesistente. Come finzione interpretò invece il come se Hans Vaihinger nella sua Filosofia del come se (1911); la cui tesi è che tutti i concetti e le cate- gorie, i principi e le ipotesi di cui si avvalgono le scienze e la filosofia, sono finzioni (v.) prive di vali- dità teoretica, spesso intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute solo in quanto utili. Un altro kantiano Paolo Natorp, aveva ristretto il come se al dominio dell’arte, la quale rappresente- rebbe le cose come se ciò che è dovesse ancora essere o come se ciò che deve essere fosse anche in realtà (Die Religion innerhalb der Grenzen der Humanitàt, 1894). COMICO (gr. yedotoy; lat. Comicus; ingl. Comic; franc. Comique; ted. Komisch). Ciò che fa ridere, o la possibilità di far ridere, mediante la risolu- zione impreveduta di una tensione o di un contrasto. La più antica definizione del C. è quella di Aristo- tele, che lo considerò come « qualcosa di sbagliato e di brutto che non procura nè dolore nè danno » (Poet., 5, 1449a 32 sgg.). Lo «sbagliato» come carattere del C. significa il carattere imprevisto, perchè non ragionevole, della soluzione, che il C. presenta, di un contrasto o di una situazione di tensione. Queste notazioni sono rimaste sostan- zialmente le stesse nella storia della filosofia. Hobbes ha insistito sul carattere inaspettato del C., e lo ha connesso con la coscienza della propria supe- riorità (De homine, XII, $ 7). Alla tensione e quindi alla soluzione inaspettata di essa riduce il C. Kant: «In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, deve esserci qualcosa di assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare alcun piacere). Il riso è un’affe- zione che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d'un tratto si risolve in nulla. Proprio questa ri- soluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l'intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta vivacità » (Crif. del Giud., $ 54). L’Illu- minismo vide nel C., e nel riso che lo esprime, un correttivo contro il fanatismo e la manifestazione di quel « buon umore » che Shaftesbury considerava come il miglior correttivo del fanatismo stesso (Letter on Enthusiasm, II). Hegel invece lo con- siderava come l'espressione di un possesso so- disfatto della verità, della sicurezza che si prova di sentirsi al di sopra delle contraddizioni e di non essere in una situazione crudele o disgraziata. Lo identificava, in altri termini, con una felicità sicura di sè, che può perciò sopportare anche lo scacco dei suoi progetti. E in ciò egli lo distingueva dal semplice risibile, in cui vedeva «la contraddi- zione per la quale l’azione si distrugge da sè e lo scopo si annulla realizzandosi » (Vorlesungen liber Aesthetik, ed. Glockner, III, p. 534). Questa nozione hegeliana del C. è tuttavia un’idealizzazione ro- mantica del fenomeno, più che un’analisi di esso; è l’esagerazione di quel sentimento di superiorità che già Aristotele notò trovarsi nel C. quando considerò la commedia come «imitazione di uo- mini ignobili» (Poer., 5, 1448, 32). La nozione tradizionale del C. esce riconfermata dall’analisi che ne ha fatto Bergson (Le rire, 1900), la quale rimane fino ad oggi la più ricca e precisa. Egli nota che il C. si ha quando un corpo umano fa pensare a un semplice meccanismo; o quando il corpo prende il sopravvento sull’anima o la forma sor- passa la sostanza e la lettera lo spirito; o quando la persona ci dà l’impressione di una cosa; tutti casi, questi, nei quali il C. è posto in un’aspetta- tiva che viene delusa con una soluzione imprevista e, come avrebbe detto Aristotele, sbagliata. Allo stesso modo, il C. delle situazioni o delle espres- sioni che si ha quando una situazione può inter- pretarsi in due modi differenti o per l’equivocità delle espressioni verbali; è perciò sempre uno sbaglio, una soluzione irragionevole data ad una aspettativa di soluzione. Al C., Bergson attribuisce anche un potere educativo e correttivo. « Il rigido, il bell'e fatto, il meccanismo in opposizione al- l'agile, a ciò che è perennemente mutevole, al vi- vente, la distrazione in opposizione alla previsione, infine l’automatismo in opposizione all’attività libera, ecco ciò che il riso sottolinea e vorrebbe correggere » (/bid., cap. II, in fine). COMINCIAMENTO (lat. Inceptio; ingl. Be- ginning; franc. Début; ted. Anfang). Propriamente, l’inizio di una cosa nel tempo: che può coincidere o no col principio (v.) o con l’origine (v.) della cosa stessa. Questa distinzione è importante in taluni casi: per es., secondo S. Tommaso la creazione, come C. del mondo nel tempo, è materia di fede, ma non lo è come produzione dal nulla da parte di Dio (S. 7h., I, q. 46, a. 2). Hegel ha affermato che il C. della filosofia è relativo, nel senso che ciò che appare come C. è, da un altro punto di vista, ri- sultato (Fil. del dir, $ 2, Zusatz). Comunque, l’Assoluto si trova, secondo Hegel, piuttosto nel risultato che nel C. perchè questo « come dapprima e immediatamente vien pronunziato, è solo l’uni- versale », e l’universale in questo senso è solo l’astratto che non può valere come concretezza e totalità; per es., le parole «tutti gli animali» che esprimono l’universale di cui si occupa la zoologia, non possono valere come l’intera zoologia (Phae- nom. des Geistes, Intr., II, 1). Con tutto ciò, la filosofia ha spesso cercato il C. assoluto da far coincidere con lo stesso « principio » di essa: di qui la ricerca del « primo principio » del filosofare. COMMUTATIVO (lat. Commutativus; inglese Commutative; franc. Commutatif; ted. 1° Ausgleichend; 2° Kommutativ). 1. Gli Scolastici hanno chiamato C. perchè ha luogo negli scambi (commufationes) la specie di giustizia che Aristotele chiamava « cor- rettiva » (vò Stopfwrwxdy Sixatov): la quale, a diffe- renza della giustizia distributiva, che dà a ciascuno secondo i suoi meriti, serve a pareggiare i vantaggi e gli svantaggi in tutti i rapporti scambievoli tra gli uomini, sia volontari che involontari (Et. Nic., V, 4, 1131 b 25) (v. GIUSTIZIA). 2. Proprietà C. o legge C. si dice l’assioma (0 postulato) per il quale x o y = y o x. Questa legge è a fondamento dell’addizione e della moltiplica- zione nell’aritmetica e della teoria dei numeri reali. Algebra « non C.» è stata chiamata la teoria delle matrici dovuta all’inglese Arturo Cayley (1821-95) che è stata utilizzata dalla meccanica dei quanti; perchè essa non obbedisce alla legge C. conside- rando come unità schiere di numeri (quali sarebbero, per es., quelli scritti sui quadrati di una scacchiera). COMPARATIVO (ingl. Comparative; francese Comparé; ted. Vergleichend). Questione C. chia- mano i logici tradizionali quella nella quale si domanda se qualcosa sia minore o maggiore, mi- gliore o peggiore, ecc., di un’altra; per es.: « Se la giustizia sia da preferirsi alla fortezza » (JuNGIUS, Logica, V, 2, 42). La Logica di Porto Reale chiamò C. le proposizioni che istituiscono un confronto del genere (ARNAULD, Logique, II, 10, 3): e questa espressione rimane nella logica tradizionale (con- fronta B. ERDMANN, Logik, I, $ 40, 229). COMPASSIONE (gr. &xeoc; lat. Commise- ratio; ingl. Pity; franc. Compassion; ted. Mileid). La partecipazione alla sofferenza altrui in quanto è qualcosa di diverso da questa stessa sofferenza. Quest'ultima limitazione è importante perchè la C. non consiste nel provare la stessa sofferenza che la suscita. L'emozione suscitata dal dolore di un’altra persona si può chiamare C. solo se è il sentimento di una solidarietà più o meno attiva, ma che non ha niente a che fare con un’identità di stati emotivi tra chi ha C. e chi è compassionato. Aristotele de- finì la C. come «il dolore causato dalla vista di qualche male, distruttivo o penoso che colpisce uno che non lo merita e che possiamo aspettarci possa colpire noi stessi o qualche nostro caro + (Ret., II, 8, 1385 b). Definizione che viene ripetuta quasi alla lettera da Hobbes (Leviazh., I, 6), Car- tesio (Passions de l’dme, III, $ 185), Spinoza (Er., III, 22 scol.). La C. è, secondo Adamo Smith, un caso tipico della simpatia che costituisce la struttura di tutti i sentimenti morali (Theory of Moral Senti- ments, III, 1). Per Schopenhauer, la C. è l'essenza stessa di ogni amore e solidarietà fra gli uomini, perchè amore e solidarietà si spiegano soltanto sulla base del carattere essenzialmente doloroso della vita (Die Welt, I, $ 66-67). Di fronte a questa tradizione, ce n°è un’altra, che vede nella C. un elemento negativo della vita morale. Questa seconda tradizione s’inizia dagli Stoici (StoBEO, Ec/., II, 6, 180), passa attraverso Spinoza. Questi ritiene che «nell'uomo che vive secondo ragione la C. è per se stessa cattiva ed inutile », perchè non è altro che dolore: onde «l’uomo che vive secondo ragione si sforza per quanto può di non essere toccato dalla C.» come neppure dall’odio, dal riso o dal disprezzo, perchè sa che tutto deriva dalla necessità della natura divina (Ef., IV, 50, corol. schol.). Questa valu- tazione trova la sua estrema espressione nell’invet- tiva di Nietzsche contro la C.: «Questo istinto depressivo e contagioso indebolisce gli altri istinti che vogliono conservare ed aumentare il valore della vita; esso è una specie di moltiplicatore e di conservatore di tutte le miserie, perciò uno degli strumenti principali della decadenza dell’uomo » (Anticristo, Ap. 7). Il tratto comune di queste con- danne della C. è di considerarla come in se stessa miseria o dolore, anzi, secondo l’espressione di Nietzsche, come qualcosa che conserva o molti- plica miseria e dolore. Scheler ha mostrato l’equi- voco di questo presupposto che in realtà confonde la C. (che è simpatia e partecipazione emotiva) con il contagio emotivo. Al contrario, nota Scheler, «la C. è assente tutte le volte che c’è contagio della sofferenza, giacchè allora la sofferenza non è più quella di un altro ma la mia, ed io credo di poter- mici sottrarre evitando il quadro o l’aspetto della sofferenza in generale» (Sympathie, cap. II, $ 3). Per l’appunto quest’avvertenza fondamentale si è tenuta presente nel caratterizzare la C. al principio di questo articolo. COMPATIBILITÀ (ingl. Consistency; francese Compatibilité; ted. Widerspruchslosigkeit). L'assenza di contraddizione come condizione di validità dei sistemi deduttivi. «Ogni verità, diceva Aristotele, dev'essere in accordo con se stessa sotto tutti i rapporti » (An. Pr., I, 32, 47 a 8). Tuttavia soltanto nella matematica moderna, da Hilbert in poi, la C. interna di un sistema deduttivo è diventata l’unico criterio di validità del sistema stesso. Da questo punto di vista si dice che c’è C. in un sistema nel quale non vi è nessun teorema la cui negazione sia un teorema; o nel quale non ogni enunciato sia un teorema. Questa seconda formula è ancora più generale (cfr. A. CHURCH, Introduction to Ma- thematical Logic, 1956, $ 17). La dimostrazione della C. diventa, da questo punto di vista, la di- mostrazione stessa della validità di un sistema nonchè dell’esistenza (v.) delle entità cui esso fa riferimento. E la dimostrazione della C. dovrebbe, nel pensiero di Hilbert, non fare riferimento a un infinito numero di proprietà strutturali delle for- mule o a un infinito numero di operazioni con- formi. La dimostrazione dovrebbe essere, in questo senso, finitistica perchè solo in questo caso sarebbe assoluta. Ma appunto la non possibilità di una as- soluta dimostrazione della C. dei sistemi deduttivi fu provata dal teorema di Gédel (1931). Il teorema di Gédel non esclude che si possa provare la C. di un sistema deduttivo assumendo la C. di un altro sistema deduttivo, preso come modello; ma a sua volta la validità del modello non potrà essere di- mostrata. La C. « assoluta » è pertanto stata espulsa dal dominio delle matematiche ad opera del teo- rema di Gédel, che stabilisce per ciò stesso i limiti del cosiddetto formalismo. Nessun sistema forma- listico infatti può offrire la garanzia della propria assoluta compatibilità. Cfr. W. V. O. QuINE, Me- thods of Logic, 1950; J. LADRIÈRE, Les limitations internes des formalismes, 1957; B. NagEL-J. R. NEW- MANN, Godel’s Proof, 1958 (v. MATEMATICA, PROVA). COMPITO (gr. tpyov; lat. Officium; ingl. Task; franc. Téche; ted. Aufgabe). La limitazione della attività propria di una persona o di una cosa, tale da garantire il risultato migliore dell’attività stessa. In questo senso, Platone intendeva per C. di una cosa «ciò che soltanto la cosa stessa sa fare o almeno sa fare meglio di ogni altra» (Rep., I, 353 a): e si serviva di questa nozione per definire la virtù (v.). Nello stesso senso e per lo stesso fine si avvaleva della nozione Aristotele quando, per definire che cosa è la felicità, si domandava qual è «il C. dell’uomo »; e rispondeva che il C. dell’uomo è l’attività dell'anima conforme a ragione o non indipendente dalla ragione (Et. Nic.,I, 6,1098 a 7). Il concetto ritorna frequentemente, con lo stesso significato, nella filosofia contemporanea (v. Fun- ZIONE; OPERAZIONE). COMPLEMENTARITÀ (ingl. Complemen- tarity; franc. Complémentarité; ted. Komplementdr- heit). Con espressione desunta dalla geometria (si chiamano complementari due angoli la cui somma è uguale ad un angolo retto) si dicono complemen- tari due concetti opposti che però si correggono reciprocamente e si integrano nella descrizione di un fenomeno. Così si sono, per es., chiamati com- plementari i concetti di onda e di corpuscolo per la descrizione dei fenomeni ottici, nella moderna meccanica quantistica. Il principio di C. formulato da Bohr esprime poi l’incompatibilità della mecca- nica quantistica con la concezione classica della causalità (v.). Esso viene espresso così: « Una descri- zione spazio-temporale rigorosa e una sequenza cau- sale rigorosa di processi individuali non possono es- sere realizzate simultaneamente, o l’una o l’altra deve essere sacrificata » (D’ABrO, New Physics, pag. 951). COMPLESSO (gr. cvurerdeyutvov; lat. Com- plexum; ingl. Complex; franc. Complexe; tedesco Komplex). Gli Stoici, che introdussero il termine, intesero per esso le proposizioni composte cioè costituite o da una sola proposizione presa due volte (ad es., «se è giorno, è giorno +) o da proposizioni diverse legate assieme da uno o più connettivi (ad es.: «È giorno e c’è luce», «Se c’è giorno, c’è luce», ecc.) (Sesto E., Adv. Math., VIII, 93; Dioc. L., VII, 72). Nella logica medievale il ter- mine veniva generalizzato e s’intese per esso o un termine composto da voci diverse come « uomo bianco », «animale ragionevole », ecc., o la propo- sizione semplice composta dal nome e dal verbo (per es., « l’uomo corre », ecc.). In tal caso l’opposto di complesso, indicato con il termine incomplexum (cioè «semplice +) è o il termine isolato o qual- siasi termine della proposizione anche se composto da due o più termini (come, ad es., il soggetto « uomo bianco + nella proposizione « l’uomo bianco corre +) (OckHAM, Expositio super artem veterem, fol. 40 b). Queste nozioni ricorrono in forma poco diversa in Vincenzo di Beauvais (Speculum doctrinale, 4) ed in Armando di Beauvoir (De declaratione difficilium ter- minorum, I, 1). Cfr. TomMaso, S. Th., II, 2, q. 1, 4.2. COMPLICAZIONE, ESPLICAZIONE (la- tino Complicatio, Explicatio). Termini adoperati da Cusano per indicare il rapporto tra l’essere e le sue manifestazioni, in quanto tali manifestazioni sono contenute nell’essere e l’essere si spiega o manifesta in esse. Cusano dice che l’unità infinita è « la C. di tutte le cose »; che il movimento è « l’espli- cazione della quiete +; e che Dio «è la C. e l’espli- cazione di tutte le cose e, in quanto è la C. di esse, tutte le cose sono in lui mentre, in quanto è l’espli- cazione, egli stesso è in tutte le cose ciò che esse sono » (De Docta Ign., II, 3). COMPORTAMENTISMO (ingl. Behaviorism; franc. Comportamentisme; ted. Behaviorismus). L’in- dirizzo della psicologia contemporanea che ténde a restringere la psicologia stessa allo studio del com- portamento (v.) eliminando ogni riferimento alla « coscienza », allo « spirito » e in generale è ciò che non può essere osservato e descritto in termini oggettivi. Il fondatore di questo indirizzo si può scorgere in Ivan Pavlov, l’autore della teoria dei riflessi condizionati, che, per la prima volta, ha impiantato ricerche psicologiche che prescindevano

da qualsiasi riferimento agli «stati soggettivi» o « stati interni ». « Dobbiamo noi forse, si doman- dava Pavlov nel 1903, per comprendere i nuovi 140 fenomeni, penetrare nell’essere interiore dell'animale, rappresentarci a modo nostro le sue sensazioni, i suoi sentimenti e desideri? Per lo sperimentatore scientifico, la risposta a quest’ultima domanda può essere, a me sembra, una sola: un mo categorico » (I riflessi condizionati, 1950; trad. ital., pag. 17). Nel laboratorio di Pavlov (come egli stesso racconta Ubid., pag. 129)) fu vietato, perfino con multe, di servirsi di espressioni psicologiche come «il cane indovinava, voleva, desiderava, ecc. +; e Pavlov non esita a definire « disperata » da un punto di vista scientifico la situazione della psicologia come scienza degli stati soggettivi (/bid., pag. 97). Tuttavia il primo che enunciò chiaramente il programma del C. fu J. B. Watson in un libro intitolato // comporta- mento, introduzione alla psicologia comparata pub- blicato nel 1914. Da Watson questo indirizzo ri- cevette anche il nome (Behaviorismo) e la pretesa fondamentale di limitare l’indagine psicologica alle reazioni oggettivamente osservabili. La forza del C. consiste appunto nell’esigenza metodologica che esso ha fatto valere: esigenza per la quale non si può scientificamente parlare di ciò che sfugge a ogni possibilità di osservazione oggettiva e di con- trollo. Il C. è stato spesso interpretato, da un punto di vista polemico, come la negazione della « co- scienza » o dello « spirito » o degli « stati interni », ecc. In realtà esso è semplicemente la negazione del- l'introspezione come legittimo strumento d’inda- gine: una negazione che era già stata fatta da Comte (v. INTROSPEZIONE). Esso è, in più, il deli- berato riconoscimento del comportamento come oggetto proprio dell’indagine psicologica. Nelle sue prime manifestazioni il C. rimase legato all’indi- rizzo meccanistico, per il quale lo stimolo esterno è la causa del comportamento, nel senso che io rende infallibilmente prevedibile; Pavlov stesso sot- tolineava questa infallibilità (/bid., pag. 133). Ma questo presupposto, di natura ideologica, è stato oggi abbandonato dal C., che ha permeato profon- damente di sè l'indagine antropologica moderna (psicologia, sociologia, ecc.) (v. PSICOLOGIA). COMPORTAMENTO (ingl. Behavior; fran- cese Comportement; ted. Verhalten). Ogni risposta di un organismo vivente ad uno stimolo, che sia: 1° oggettivamente osservabile con un mezzo qual. siasi; 2° uniforme. Il termine C. è stato introdotto da Watson verso il 1914 ed è ormai diventato di uso corrente nel significato ora esposto. Origina- riamente esso servì a sottolineare polemicamente l’esigenza che la psicologia e in generale ogni con- siderazione scientifica delle attività umane o animali assumesse a suo proprio oggetto elementi osserva- bili oggettivamente, cioè non accessibili solo alla «intuizione interna» o alla «coscienza». Attual- mente il termine è diventato di uso generale. Esso va tenuto distinto: 1° da azione, perchè a diffe- renza di questa il C.: a) è una manifestazione non di un particolare principio, per es., della volontà o dell’attività pratica, ma dell’intero organismo animale; 5) è costituito unicamente da elementi osservabili e descrivibili in termini oggettivi; c) è uniforme, cioè costituisce la reazione abituale e costante dell'organismo a una situazione determi- nata; 2° da atteggiamento, che è il C. specificamente umano includente quindi elementi anticipatori e nor- mativi (progetto, previsione, scelta, ecc.); 3° da con- dotta, che può mancare del carattere di uniformità. COMPOSIZIONE (ingl. Composition; fran- cese Composition; ted. Komposition). Nei logici me- dievali (per es., Pietro Ispano, Summul. Log., 7.25) compositio designa il paralogismo o fallacia (v.) de- rivante da un uso sintattico che rende ambigua la frase. È quindi una specie di anfibolia (v.). G. P. COMPOSSIBILE (franc. Compossible; tedesco Kompossibel). Leibniz ha chiamato con questo ter- mine il possibile che si accorda con le condizioni di esistenza dell’universo reale cioè la possibilità reale. Il possibile è ciò che è concepibile in quanto privo di contraddizione, il C. è ciò che può essere reale. « È vero che ciò che non è, non è stato e non sarà, non è affatto possibile, se possibile è preso per compossibile... Può darsi che Diodoro, Abelardo, Wicleff e Hobbes abbiano avuto questa idea in testa senza ben chiarirla » (Op., ed. Erd- mann, pag. 719). V. PossiBILE. COMPRENDERE (lat. /ntelligere; ingl. Un- derstanding; franc. Comprendre; ted. Verstehen). La nozione del C. come attività conoscitiva specifica, diversa dalla conoscenza razionale e dalle sue tecniche esplicative, può essere considerata in due fasi storiche distinte, la prima nella filosofia me- dievale o nella scolastica in generale, la seconda nella filosofia contemporanea. 1. L’intera Scolastica s’impernia sul problema di « C. » la verità rivelata. Ma sul valore di questo C. gli stessi scolastici non sono stati d’accordo. Alcuni hanno identificato il C. con la conoscenza razionale e con la sua tecnica dimostrativa; e la comprensi- bilità dei dogmi è apparsa da questo punto di vista come la possibilità di dimostrarli, cioè di equipa- rarli a verità razionali. Anselmo e Abelardo sem- brano d’accordo nell’intendere così l'intelligere che essi ritengono indispensabile alla fede stessa. È ovvio che in questo caso l’intelligere non è affatto un C. nel senso specifico del termine. Una sfera specifica dell’intelligere come comprendere, nella sua diversità dalla conoscenza dimostrativa fu de- lineata invece da S. Tommaso nel suo tentativo di determinare il còmpito della ragione di fronte alla fede. Questo còmpito consiste: 1° nel dimostrare i preamboli della fede; 2° nel chiarire, mediante si- militudini, le verità della fede; 3° nel controbattere le obiezioni che si fanno contro tali verità (In Boer. De Trin., a. 3). Ovviamente la seconda e la terza parte di questo còmpito, che non sono di natura dimostrativa, costituiscono la sfera del compren- dere. E difatti, secondo S. Tommaso, le fonda- mentali verità di fede, la Trinità, l’Incarnazione, la Creazione, sono comprensibili in questo senso: non sono dimostrabili (nel quali caso sarebbero verità di ragione) ma possono essere chiarite con analogie e, specialmente, sostenute contro le obie- zioni. Questa posizione tomistica costituisce la mi- gliore e più diffusa soluzione di quel problema del C. nato sul piano della Scolastica. Essa veniva ancora difesa nel sec. xvm da Leibniz contro le obiezioni di Bayle e di Toland. Secondo Leibniz, il dogma è « incomprensibile » solo nel senso che non si può dimostrare; ma si può dire che esso s'accorda con la ragione nel senso «che si può mostrare al bisogno che non c’è contraddizione tra il dogma e la ragione, confutando le obiezioni di coloro che pretendono che il dogma stesso è un’assurdità » (Théod., $ 60). 2. Nella filosofia contemporanea, la distinzione della sfera del C., da quella del conoscere razionale, è nata dall’esigenza di distinguere il procedimento esplicativo delle scienze morali o storiche da quello delle scienze naturali. Tale esigenza nacque dalla difficoltà di applicare la tecnica causale, propria della scienza naturale dell’800, al dominio degli eventi umani, quali sono i fatti storici, e in generale all'uomo ed ai rapporti interumani. In base a quella tecnica, si ritiene come « razionalmente spie- gato » ciò di cui si può mostrare la genesi causale necessaria, cioè di cui si può mostrare che accade in modo necessario o infallibilmente prevedibile quando ne è data la causa (v.). Il carattere neces- sario della genesi causale, in quanto conforme a una legge immutabile, e il carattere di uniformità meccanica che gli eventi causalmente spiegabili as- sumono per effetto di tale legge, rendono assai diffi- cile trasferire questo tipo di spiegazione al mondo dell’uomo; e rendono difficile spiegare i fatti sto- rici e in genere ogni fatto che consista in un rap- porto con l’uomo. L'applicazione della tecnica causale a tali fatti implicherebbe la loro riduzione a casi di uniformità meccanica, dovuti all’azione di leggi necessitanti. Sicchè quando negli ultimi decenni del sec. xIx le scienze storiche, o, come allora si di- ceva, le « scienze dello spirito », che avevano ormai raggiunta una sufficiente saldezza di metodi e una grande ricchezza di risultati, cominciarono a proporsi il problema del loro metodo e cercarono di chiarirlo criticamente, apparve chiara l’esigenza di agganciare questo metodo a tecniche e procedure diverse da quelle in uso nelle scienze naturali. In tal senso il « C.» come procedura propria delle scienze dello spi- rito, fu contrapposto allo « spiegare », fondato sulla causalità e proprio delle scienze naturali. Il primo a formulare chiaramente questa distin- zione fu Dilthey nella sua /nsroduzione alle scienze dello spirito (1883). Dilthey osservò che i nostri rapporti con la realtà umana sono completamente diversi dai nostri rapporti con la natura. La realtà umana, quale appare nel mondo storico sociale, è tale che noi possiamo comprenderla dal di dentro, perchè possiamo rappresentarcela sul fondamento dei nostri propri stati. La natura, al contrario, è muta e rimane sempre qualcosa di esterno. Pertanto nelle scienze dello spirito, che hanno appunto per og- getto la realtà umana, il soggetto non si trova di fronte ad una realtà estranea, ma a se stessa, perchè uomo è colui che indaga e uomo colui che viene indagato. «Il C., dice Dilthey, è un ritrovamento dell’io nel tu... Il soggetto del sapere è qui iden- tico con il suo oggetto e questo è il medesimo in tutti i gradi della sua oggettivazione » (Gesammelte Schriften, VII, pag. 191). Da questo punto di vista Dilthey additò come strumento proprio del C. l’Er- lebnis, cioè l'esperienza vissuta o rivivente che per- mette di cogliere la realtà storica nella sua indivi- dualità vivente e nei suoi caratteri specifici. Dopo Dilthey, nella corrente dello storicismo tedesco che continua l’opera sua, il C. rimane l’organo della co- noscenza storica e in generale della conoscenza inter- personale, in quanto non suscettibile di spiegazione causale. Tuttavia sulla natura stessa del C. non c’è accordo. Rickert intende per C. l’afferrare « il senso di un oggetto, cioè il rapporto dell’oggetto stesso con un valore determinato » (Die Grenzen der  naturwissenschaftlichen  Begriffsbildung, 1896- 1902). Simmel considera il C. come diretto a ri- produrre la vita psichica di un’altra personalità e quindi come l’atto di proiezione mediante il quale il soggetto conoscente attribuisce un suo stato rap- presentativo, o volitivo, ad un'altra personalità (Die Probleme der Geschichtsphilosophie, 1892, pa- gina 17). A sua volta Max Weber, pur insistendo sulla diversità della spiegazione storica e della spie- gazione causale, volle colmare o diminuire l’abisso che si stava formando tra i due procedimenti, affermando che la spiegazione storica è essa stessa una spiegazione causale; ma una spiegazione cau- sale specifica, che mira a riconoscere il nesso par- ticolare e singolare fra determinati fenomeni e non la loro dipendenza da una legge universale. «Il nostro bisogno causale, egli scrive, può trovare nell’analisi dell’atteggiamento umano una sodisfa- zione qualitativamente diversa, che implica al tempo stesso un'intonazione qualitativamente diversa del concetto di razionalità. Per la sua interpretazione noi possiamo proporci lo scopo, almeno fondamen- talmente, non solo di rendere l’atteggiamento stesso penetrabile come possibile in rapporto al nostro sa- pere nomologico, ma anche di comprenderlo, cioè di scoprire un motivo concreto che possa venire rivissuto internamente e che noi accertiamo con un diverso grado di precisione, secondo il materiale delle fonti » (Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschafts- lehre, 1951, pag. 67). Tuttavia, il concetto di cau- salità individuale, sul quale Weber insisteva, è poco solido giacchè la causa, come ciò che rende infalli- bilmente prevedibile l’effetto, ha con l’effetto stesso un rapporto necessario e costante, perciò essenzial- mente uniforme, e universale. L'esigenza prospettata da Weber di eliminare o diminuire il contrasto tra la spiegazione scientifica e la comprensione sto- rica o inter-umana, potè trovare sodisfazione solo dopo che la scienza stessa ebbe abbandonato il concetto classico di causalità. Frattanto, l’esigenza d’una tecnica conoscitiva che fosse diversa dalla tecnica esplicativa causale veniva frequentemente riconosciuta in sociologia. Znaniecki invocava un « coefficiente umanistico » nella ricerca sociologica e sottolineava l’importanza della esperienza vicariante come fonte di dati sociologici (Method of Sociology, 1934, pag. 167). Sorokin riteneva inapplicabile il metodo causale all’interpretazione dei fenomeni cul- turali (Socia/ and Cultural Dynamic, 1937, pag. 26). E Maclver a sua volta riconosceva l’inapplicabilità della formula causale della meccanica classica alla condotta umana (Socia! Causation, 1942, pag. 263). I filosofi a loro volta, non trovando posto per il comprendere tra le attività razionali che sem- bravano monopolizzate dalle tecniche della spiega- zione causale, avevano finito col connetterlo con la vita emotiva. Così fecero, principalmente, Scheler e Heidegger, ai quali si devono tuttavia le più importanti determinazioni della nozione del com- prendere. A Scheler, tale nozione serve per fondare i rapporti umani — che sono poi quelli per cui l'io riconosce l’altro io — non su una inferenza o sulla proiezione che l’io faccia delle proprie espe- rienze interne nell’altro, ma sulla base dei fenomeni espressivi. Così Scheler afferma che «l’esistenza delle esperienze interne, dei sentimenti intimi degli altri, ci è rivelata dai fenomeni di espressione: cioè ne acquistiamo la conoscenza non in séguito a un ragionamento, ma in modo immediato, me- diante una ‘ percezione * originaria e primitiva. Noi percepiamo il pudore di qualcuno ne/ suo rossore, la gioia re/ suo riso » (Sympathie, I, cap. II). Perciò non è vero che degli altri conosciamo in primo luogo il corpo e che solo a partire da esso infe- riamo l’esistenza di altri spiriti. Soltanto il medico e il naturalista conoscono soltanto il corpo perchè fanno artificialmente astrazione dai fenomeni di espressione che sono la manifestazione primaria e immediata degli altri spiriti: ma proprio tali fe- nomeni sono alla base della comprensione emotiva. Questa dev'essere, secondo Scheler, distinta dalla fusione emotiva perchè implica l’alterità dei senti- menti. Per es., la sofferenza del mio vicino e la mia comprensione simpatetica di essa, sono due fatti differenti, e questa differenza appunto stabi- lisce la possibilità della comprensione: mentre non ba niente a che fare con questa il fatto che io e il mio vicino soffriamo della stessa sofferenza. Le analisi di Scheler hanno contribuito a fissare i punti seguenti: 1° il C. non implica l’identità delle persone tra cui intercede o l'identità dei loro stati d’animo o sentimenti; implica piuttosto l’a/terità fra le persone e tra i loro stati rispettivi; 2° la comprensione è fondata sul rapporto simbolico che esiste tra le esperienze interne e la loro espressione: rapporto che costituisce una specie di « gramma- tica universale », valevole per tutti i linguaggi espres- sivi, la quale fornisce il criterio ultimo della com- prensione inter-umana. Come Scheler, Heidegger connette il fenomeno della comprensione soprattutto alla sfera emotiva; ma aggiunge all’analisi di questo fenomeno una notazione d’importanza fondamen- tale, connettendolo con la nozione di possibilità. Heidegger, difatti, considera la comprensione come essenziale all’esistenza umana (all’Esserci) giacchè essa significa che l’esistenza è essenzialmente pos- sibilità di essere, esistenza possibile. « Usiamo so- vente l’espressione ‘C. qualcosa’ nel senso di ‘essere in grado di far fronte a qualcosa ’, ‘ esser capace di’, ‘poter qualcosa ’... Nella compren- sione è riposto essenzialmente il modo d'essere dell’Esserci in quanto poter essere. L’Esserci non è una semplice presenza che, aggiuntivamente, pos- segga il requisito di potere qualcosa, ma al contrario è primariamente un essere possibile ». Pertanto « la comprensione ha in sè la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto » (Sein und Zeit, $ 31). Come possibilità e progetto l’esistenza umana possiede una trasparenza a se stessa che Heidegger chiama visione e che è la prima manifestazione della comprensione. L’intuizione e il pensiero sono invece due lontani derivati della comprensione stessa (/bid., $ 31). È abbastanza chiaro che il riferimento del C. alla vita emozionale, effettuato da Scheler e Hei- degger, era motivato dal fatto che la vita razionale sembrava ad essi occupata da tecniche che poco o nulla avevano a che fare col comprendere. I risultati ottenuti da Scheler e Heidegger, tuttavia, sono molto importanti: i primi negativamente, con- sentendo di sottrarre il C. alla sfera dell’immediato e dell’inesprimibile, e i secondi positivamente perchè connettono il C. stesso con la nozione di possibi- lità. Nell’analisi di Heidegger, il C. non solo è stato generalizzato, perchè è stato reso applicabile alle cose oltrecchè alle persone; ma anche, con ciò stesso, ha cessato di essere antagonista col concetto di spiegazione. Comprensione e spiegazione possono infatti essere identificate dalla nozione di possibilità ed essere entrambe intese come dichiarazione della 4 possibilità di... »: dove ciò che è lasciato in so- speso può essere riempito, nei diversi campi d’inda- gine, da diverse specie di progetti e previsioni. Ma questo avvicinamento tra spiegazione e comprensione e questa loro unificazione nel concetto di « possibi- lità di... » venivano sanciti dagli stessi sviluppi delle scienze della natura, che abbandonavano la no- zione classica di causalità e pertanto si disanco- ravano dalla tecnica esplicativa causale. La fisica relativistica e la teoria dei quanti compivano il passo decisivo verso l’eliminazione dell’antitesi tra spiegazione e comprensione. Come nota Carnap, nella meccanica quantica « C. un’espressione, un enunciato, una teoria, significa la capacità di usarla per la descrizione di fatti noti o per la previsione di fatti nuovi» (Foundations of Logic and Mathe- matics, 1939, $ 25). La « capacità di» è dunque ciò che esprime il significato della comprensione nella fisica stessa. Ma la possibilità della previsione pro- babile è anche tutto ciò cui si riduce oggi la spiega- zione scientifica (vedi SPIEGAZIONE). In tal modo la differenza radicale che sembrava stabilita salda- mente dalla metodologia scientifica dell’800 tra scienza dello spirito e scienza della natura, è venuta a sparire. Ciò che questi due gruppi di discipline cercano di fare, nei confronti dei loro oggetti ri- spettivi, è fondamentalmente la stessa cosa: deter- minare le possibilità di descrizione o di anticipa- zione (progettazione, uso, fruizione) che i loro oggetti comportano. COMPRENSIONE (ingl. Understanding; fran- cese Compréhension; ted. Verstehen). L'atto o la capacità di comprendere (v.). COMPRENSIONE (ingl. Comprehension; fran- cese Compréhension; ted. Inhalt). 1. La logica di Porto Reale introdusse la distinzione tra C. ed estensione del concetto: distinzione grosso modo identica a quella che verrà espressa da Stuart Mill con la coppia connotazione-denotazione o dalla logica moderna con la coppia intensione-estensione. Diceva infatti Arnauld: « Nelle idee universali è importante distinguere bene due cose, la C. e l’estensione. Chiamo C. dell’idea gli attributi che essa include in sè e che non possono essere tolti senza distruggerla; così la C. dell’idea di triangolo contiene estensione, figura, tre linee, tre angoli e l'eguaglianza di questi tre angoli con due retti, ecc. Chiamo estensione dell’idea i soggetti ai quali quest'idea conviene; quelli che si chiamano anche gli inferiori di un termine generale che, nei rispetti di essi, è chiamato superiore; così l’idea del trian- golo in generale si estende a tutte le diverse specie dei triangoli » (Logique, I, 6). Questa distinzione tro- vava qualche precedente nella logica medievale ma era stata approssimativamente espressa solo a partire dal sec. xvi (per es., da CAJETANUS, /n Porphyrii Praed., ed. 1579, I, 2, pag. 37; cfr. HAMILTON, Lectures on Logic, I, 1866, pag. 141). Alla di- stinzione stessa era connessa la determinazione del rapporto inverso che c'è tra C. ed estensione così definite: a misura che la C. s’impoverisce, cioè diventa più generale, l’estensione si arricchisce, cioè il concetto si applica a più cose; e reciproca- mente. Queste distinzioni e notazioni riprese dalla logica, specialmente tedesca, dell’800 (cfr., per es., LoTzE, Logik, 1843, $ 15) rimasero costanti e fu- rono talora, specialmente da scrittori inglesi, espresse mediante la coppia sinonima connotazione-denota- zione. A parte il tentativo di distinguere la C. dalla connotazione (v.) come la sfera di tutte le note possibili, oltre quelle espressamente connotate dalla definizione, la nozione di C. è rimasta costante nella logica dell’800. 2. Talvolta nella logica contemporanea la C. è assunta come analoga della denotazione o esten- sione, invece che della connotazione o intensione. Così Lewis definisce la C. di un termine come: «la classificazione di tutte le cose consistentemente pensabili alle quali il termine correttamente si ap- plichi » dove per «consistentemente pensabile » si intende ogni cosa l’asserzione della cui esistenza non implichi, esplicitamente o implicitamente, una contraddizione. In questo significato, il termine si distinguerebbe da denotazione o estensione perchè questa è la classe di tutte le cose reali o esistenti alle quali il termine correttamente si applica. La de- notazione sarebbe perciò inclusa nella C.; ma non viceversa. La C. di « quadrato » include non solo i quadrati esistenti (che sono denotati) ma tutti i qua- drati possibili o imaginabili, salvo quelli rotondi (Ana- Iysis of Knowledge and Valuation, 1950, pag. 39-41). COMUNE, SENSO. V. SENSO COMUNE. COMUNI, NOZIONI (gr. xoîvar two; lat. Notiones communes). Gli Stoici chiamarono con quest’espressione i concetti universali o anti- cipazioni (v.) che si formano nell’uomo natural- mente, cioè non come prodotti di un'istruzione specifica (Aezio, P/ac., IV, 11). L'espressione fu adoperata negli E/ementi di Euclide, per designare i princìpi evidenti, che in séguito furono detti as- siomi (v. ASSIOMA). COMUNICAZIONE (ingl. Communication; franc. Communication; ted. Kommunikation). Filo- sofi e sociologi si servono oggi di questo termine per designare il carattere specifico dei rapporti umani in quanto sono, o possono essere, rapporti di partecipazione reciproca o di comprensione. Per- 144 tanto il termine viene ad essere sinonimo di « coe- sistenza » o di « vita con gli altri » e indica l’insieme dei modi specifici in cui la coesistenza umana può atteggiarsi; purchè si tratti di modi « umani », cioè nei quali una certa possibilità di partecipazione e di comprensione sia salva. In questo senso, la C. non ha niente a che fare con la coordinazione e con l’unità. Le parti di una macchina, ha osser- vato Dewey, sono strettamente coordinate e for- mano un'unità ma non formano una comunità. Gli uomini formano una comunità perchè comuni- cano, cioè perchè possono reciprocamente parteci- pare dei loro modi d'essere, che così acquistano nuovi e imprevedibili significati. Questa partecipa- zione dice che un rapporto di C. non è un semplice contatto fisico o uno scontro di forze. Il rapporto tra il predatore e la sua preda, per es., non è un rap- porto di C., anche se talora può intercorrere fra gli uomini. La comunicazione in quanto caratteri- stica specifica dei rapporti umani, delimita la sfera di tali rapporti a quelli nei quali un certo grado di libera partecipazione può essere presente. Il rilievo del concetto di C. nella filosofia contemporanea è dovuto: 1° all’avvenuto abbandono, da parte di essa, della nozione romantica di Autocoscienza in- finita, Spirito Assoluto o Superanima: nozione che implicando l’identità di tutti gli uomini rende ov- viamente inutile il concetto stesso di C. interumana; 2° al riconoscimento che i rapporti interumani implicano l’alterità tra gli uomini stessi e sono rapporti possibili; 3° al riconoscimento che tali rapporti non si aggiungono in un secondo mo- mento alla realtà già costituita delle persone, ma entrano a costituirla come tale. In questi termini il concetto di C. entra in filosofie disparate. Secondo Heidegger il concetto di C. deve essere inteso «in un senso ontologicamente largo », cioè come «C. esistenziale ». «In quest’ultima si costituisce l’articolazione dell’essere insieme com- prendente. Essa realizza la partecipazione della si- tuazione emotiva comune e della comprensione propria dell’essere insieme. La C. non è il trasferi- mento di esperienze vissute (quali possono essere, ad es., opinioni e desideri) dall’intimo di un sog- getto all’intimo di un altro. L’'esserci insieme è già essenzialmente rivelato nella situazione emo- tiva comune e nella comune comprensione » (Sein und Zeit, $ 34). In altri termini, per Heidegger, C. è già coesistenza perchè la compartecipazione emotiva e la comprensione degli uomini tra di loro entrano a costituire la realtà stessa dell’uomo, l'essere dell’Esserci. Jaspers, che è sostanzialmente d’accordo con Heidegger, da questo punto polemizza contro le scienze empiriche (psicologia, antropologia, sociologia) che pretendono di analizzare i rapporti di comunicazione. Il loro difetto è, secondo Ja- spers, che esse debbono limitarsi a considerare i rapporti umani, non quelli possibili; mentre la C. è per l’appunto possibilità di rapporti. In questo senso essa può essere chiarita soltanto dalla filo- sofia (Phil., II, cap. III). Al contrario Dewey, che condivide con Heidegger e Jaspers la veduta che la C. costituisce essenzialmente la realtà umana, la considera come una forma speciale dell’azione reciproca della natura e ritiene pertanto che possa e debba essere studiata dall’indagine empirica (Experience and Nature, cap. V). Se la filosofia dell’800, per il prevalere delle concezioni assolutistiche (lo stesso positivismo par- lava dell’Umanità come di un tutto) climinava la nozione di C., la filosofia del ’600 e del *700 aveva elaborato la nozione, ma per rispondere ad un diverso problema. Il problema era quello della « C. delle sostanze +, cioè della sostanza anima con la sostanza corpo, e reciprocamente, problema nato col cartesianesimo, che aveva distinto per la prima volta in modo netto le due specie di sostanze. Lo stesso Cartesio aveva ammesso come valida la nozione corrente di un’azione reciproca fra le due sostanze, che egli riteneva si toccassero nella glan- dola pineale (Passions de l’ame, I, 32). Dall’altro lato gli Occasionalisti avevano ritenuto impossibile l’azione di una sostanza finita sull’altra, perchè nessuna sostanza finita può agire cioè esser causa; ed avevano pertanto ritenuto che Dio stesso inter- viene a stabilire il rapporto tra l’anima e il corpo, o tra i vari corpi, o tra le varie anime, servendosi dell’occasione offertagli dal mutamento avvenuto in una sostanza per produrre mutamenti nelle altre sostanze. Era questa la teoria delle cause occasio- nali sostenuta, fra gli altri, da Malebranche (Re- cherche de la vérité, III, II, 3). Leibniz ritenne la prima teoria impossibile, la seconda miracolosa, in- tese la C. come armonia prestabilita (v.) e la estese a intendere il rapporto fra tutte le parti dell’uni- verso, cioè fra tutte le monadi che lo compongono: l'armonia è prestabilita da Dio in modo tale che a ogni stato di una monade corrisponde uno stato delle altre monadi (Op., ed. Gerhardt, IV, pag. 500- 501). Ovviamente la dottrina di Leibniz non è una soluzione del problema della C.; essa, anzi, ha lo scopo di rendere la C. stessa inutile, garantendo il rapporto preordinato delle monadi fra di loro. Leibniz stesso nota che la sua dottrina fa dell'anima una specie di macchina immateriale (/bid., pag. 548). Questo tratto rivela quanto la sua dottrina sia lon- tana dalla nozione contemporanea di C.: la quale, come si è detto, non è mai automatica e non può sussistere tra gli automi o tra le parti di un automa. COMUNISMO (ingl. Communism; franc. Com- munisme; ted. Kommunismus). L'ideologia politica che trova il suo programma nel Manifesto dei co- CONATO munisti pubblicato da Marx ed Engels nel 1847; come è stato sviluppato nelle opere di Marx ed Engels nonchè di Lenin e Stalin. Tale ideologia può essere riassunta nei capisaldi seguenti: 1° la dipendenza della personalità umana dalla società storicamente determinata cui essa appartiene, di- pendenza per la quale essa è nulla fuori e indi- pendentemente dalla società stessa; 2° la dipendenza della struttura di una società storicamente deter- minata dai rapporti di produzione e di lavoro che sono propri di tale società e che determinano tutte le manifestazioni di essa: moralità, religione, filo- sofia, ecc., oltrecchè le forme della sua organizza- zione politica. Questi due punti costituiscono la dottrina del materialismo storico (v.); 3° il carattere permanente e necessario della lotta di classe in ogni e qualsiasi società capitalistica, cioè in ogni società nella quale i mezzi di produzione siano proprietà di privati; 4° il necessario, inevitabile trapasso dalla società capitalistica, dopo che essa ha raggiunto il suo maximum di concentrazione della ricchezza in poche mani e di immiserimento e livellamento di tutti i lavoratori, nella società socialista che possiede ed esercita direttamente i mezzi di produzione, ed è perciò senza classi; 5° l’esistenza di un periodo di trapasso tra la so- cietà capitalistica e la società comunistica durante il quale il proletariato s’impadronirà del potere dello Stato e lo eserciterà, come aveva fatto il capitalismo, nel proprio interesse. Questo sarà il periodo della dittatura del proletariato. Di questi capisaldi il C. russo ha soprattutto sottolineato l’ultimo che, nelle opere di Marx ed Engels, rimaneva secondario. E l’ha sottolineato trasformandolo, nel senso d'intendere la dittatura del proletariato come dittatura del partito comu- nista, e affidando al partito stesso la funzione di avanguardia del proletariato. Il partito diviene in tal modo lo strumento fondamentale per la rea- lizzazione della società nuova e pretende di subor- dinare a sè, controllare e dirigere, ogni azione di- retta a questo scopo. Tale preminenza del partito, già teorizzata da Lenin, fu portata agli estremi da Stalin, con l’affermazione della necessaria « par- titicità » della scienza, dell’arte, della filosofia e in ge- nerale di ogni attività intellettuale: partiticità che non significa altro se non la subordinazione di tali atti- vità agli interessi del partito, quali si trovino ad essere interpretati o stabiliti dai dirigenti di esso. COMUNITÀ (ingl. Community; franc. Com- munauté; ted. Gemeinschaft). 1. Kant aveva chia- mato con questo termine la terza categoria della relazione e precisamente quella dell’azione reci- proca, nonchè la corrispondente terza analogia del- l’esperienza (o principio della C.) così espressa: «Tutte le sostanze, in quanto possono essere per- 10 — AuHnagnano, Dizionario di filosofia. 14cepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in un'azione reciproca universale ». Egli annotava a questo proposito: « La parola Gemeinschaft ha un doppio significato che può indicare tanto communio quanto anche commercium. Noi qui ce ne serviamo nel secondo senso, come comunione dinamica senza la quale anche quella spaziale (communio spatiî) non potrebbe mai essere cono- sciuta empiricamente » (Crit. R. Pura, Analitica dei principi, 33 analogia). In quest’applicazione il ter- mine non ha avuto fortuna. 2. Esso invece è stato adoperato dal Romanti- cismo, a partire da Schleiermacher, per indicare la forma di vita sociale caratterizzata da un or- ganico, intrinseco, perfetto legame tra i suoi membri. In tal senso la C. è stata contrapposta alla società in un’opera di FERDINANDO TONNIES, C. e Società, pubblicata nel 1887. «Tutto ciò che è fiducioso, intimo, vivente esclusivamente insieme, diceva Tòn- nies, è compreso come la vita in comunità. La società è ciò che è pubblico, è il mondo; al con- trario ci si trova in C. con i propri cari sin dalla nascita, legati ad essi nel bene e nel male. Nella società si entra come in una terra estranea. Si mette l’adolescenza in guardia contro la cattiva società, ma l’espressione ‘cattiva C.’ suona come una contraddizione» (Gemeinschaft und Gesellschaft,1, 1). Così espresso questo concetto contiene ovvie conno- tazioni valutative per le quali si presta poco ad un uso oggettivo: giacchè è abbastanza chiaro che non esiste nessuna pura C. e nessuna pura società e che il bisogno di operare una distinzione in questo senso è suggerito non dall’osservazione ma dall'aspira- zione a un ideale. Pertanto nell’uso dei sociologi posteriori (tra i quali Simmel, Cooley, Weber, Dur- kheim, e altri) questo significato si è venuto trasfor- mando sino ad assumere quello corrente nella socio- logia contemporanea di distinzione fra relazioni sociali di tipo /ocalistico e relazioni di tipo cosmo- politico: che è una distinzione puramente descrittiva fra comportamenti legati alla C. ristretta in cui si vive e comportamenti orientati o aperti verso una più larga società (R. K. MERTON, Social Theory and Social Structure, 1957, pag. 393 sgg.). CONATO (lat. Conatus). Si indicò con questo nome nel Rinascimento l’ormé stoica (Dioc. L., VII, 85) cioè l’isrinto (v.) o la tendenza di ogni essere alla propria conservazione. Questo concetto trovò la sua forma classica in Spinoza, secondo il quale « lo sforzo di conservarsi è la stessa essenza della cosa» (£f., IV, 22, cor.). Esso «si chiama volontà quando si riferisce alla sola mente; quando si riferisce insieme alla mente e al corpo si chiama appetito, il quale perciò è l’essenza stessa dell’uomo » (Ibid., III, 9, Scol.). Nello stesso senso adoperava la parola Vico: «La matura cominciò ad esistere per un atto di C.; in altri termini, il C. è la na- tura (come anche le Scuole dicono) in fieri, in procinto di giungere all’esistenza» (De antiquis- sima Italorum sapientia, 4, $ 1). Hobbes dette un nuovo concetto del termine: intese per C. il mo- vimento istantaneo cioè «il movimento in uno spazio e tempo minore di ogni spazio o tempo dato » (De corp., 15, $ 2). Leibniz in un primo tempo ha inteso il C. nello stesso senso: « Il conatus, egli disse, sta al movimento come il punto allo spazio, cioè come l’unità all’infinito: è l’inizio o la fine del movimento » (Hypothesis Physica Nova, 1671, Op., ed. Gerhardt, IV, pag. 229). Ma in sè- guito identificò il C. con la forza attiva cioè con l'energia cui egli ridusse la materia stessa: « La forza attiva, che si suole anche dire senz'altro forza, non è da concepirsi come la semplice po- tenza volgare della scuola, cioè come una ricetti- vità di azione, ma implica un conatus, cioè una tendenza all’azione, cosicchè, se non c’è impedi- mento, ne deriva l’azione » (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 100). Lo stesso concetto si trova in Wolff (Cosm., $ 149) (v. SFORZO). CONCAUSA (gr. avvartia). Platone indicò con questo termine la causa naturale che concorre con quella ideale alla formazione delle cose del mondo (Tim., 68 e). CONCETTO (gr. x6y06; lat. Conceptus; in- glese Concept; franc. Concept; ted. Begriff). In generale, ogni procedimento che renda possibile la descrizione, la classificazione e la previsione degli oggetti conoscibili. Così inteso, il termine ha significato generalissimo e può includere ogni specie di segno o procedura semantica, quale che sia l’oggetto cui si riferisce, astratto o concreto, vicino o lontano, universale o individuale, ecc. Si può avere un C. del tavolo come del numero 3, dell’uomo come di Dio, del genere e della specie (i cosiddetti universali [v.]) come di una realtà individuale, per es., di un periodo storico o di una istituzione storica (il « Rinascimento » o il « Feudalesimo +). Per quanto il C. sia normalmente indicato da un nome, esso non è il nome, giacchè differenti nomi possono esprimere lo stesso C. o differenti C. possono essere indicati, per equivo- cazione, dallo stesso nome. Il C. inoltre non è un elemento semplice o indivisibile ma può essere costituito da un insieme di tecniche simboliche estremamente complesse; come è il caso delle teorie scientifiche che possono anche essere chiamate C. (il C. della relatività, il C. di evoluzione, ecc.). Il C. non si riferisce neppure necessariamente a cose o fatti reali giacchè ci possono essere C. di cose inesistenti o passate o la cui esistenza non è veri- ficabile o ha un senso specifico. Infine, l’allegato carattere di universalità soggettiva o validità inter- soggettiva del C. è in realtà semplicemente la sua comunicabilità di segno linguistico: la funzione prima e fondamentale del C. essendo quella stessa del linguaggio cioè la comunicazione. La nozione di C. dà origine a due problemi fonda- mentali: quello circa la natura del C. e quello circa la funzione del C. stesso. Questi due problemi pos- sono coincidere ma non coincidono necessariamente. A) ll problema della natura del C. ha avuto due soluzioni fondamentali: 1° per la prima il C. è l'essenza delle cose e precisamente la loro essenza necessaria, ciò per cui non possono essere in modo diverso da ciò che sono; 2° per la seconda soluzione il C. è un segno. 1° La concezione del C. come essenza è quella del periodo classico della filosofia greca: nel quale il C. è assunto come ciò che si sottrae alla diversità o al mutamento dei punti di vista o delle opinioni, perchè si riferisce a quei tratti che, essendo costi- tutivi dell’oggetto stesso, non vengono alterati da un mutamento di prospettiva. Nei primordi della filosofia greca, il C. è apparso come il termine con- clusivo di una ricerca, che prescinde, per quanto è possibile, dalla mutevolezza delle apparenze, per puntare a ciò che l'oggetto è «realmente», cioè nella sua «sostanza » o «essenza ». Questa ricerca è apparsa ai Greci come il còmpito proprio del- l’uomo quale animale ragionevole, cioè come il còmpito proprio della ragione; e infatti C. e ra- gione vengono designati dai Greci con lo stesso termine, /ogos. Aristotele attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto « il ragionamento induttivo e la definizione dell’universale, due cose che en- trambe riguardano il principio della scienza » (Mer., XIII, 4, 1078 b). Lo stesso merito viene a Socrate riconosciuto da Senofonte (Mem., IV, 6, 1): So- crate ha mostrato come il ragionamento induttivo porti alla definizione del C.; e il C. esprime l’es- senza o la natura di una cosa; ciò che la cosa veramente è. Platone fa dell’universale socratico la realtà stessa. Il bello, il bene, il giusto sono sostanze cioè realtà, anzi realtà nel senso forte del termine, realtà assolute. Platone adopera gli stessi termini (sostanza, specie, forma o semplice- mente enti) per indicare le realtà ultime come sono «in se stesse» e come sono «in noi» (cioè come C.). La mente umana contiene «la verità degli enti » (Men., 86 a-b); essa trova già come sue le sostanze che costituiscono la struttura fon- damentale della realtà (Fed., 76 d-e). Aristotele non fa su questo punto che riprodurre, e articolare in una dottrina assai più complessa, il punto di vista platonico. Il C. (Jogos) è ciò che circoscrive o definisce la sostanza o l’essenza necessaria di una cosa (De an., II, 1, 412 b 16): perciò esso è indi- pendente dal generarsi e corrompersi delle cose e non può esser prodotto o distrutto da tali processi (Met., VII, 15, 1039 b 23). In altri termini, il C. è per Aristotele identico con la sostanza, che è la struttura necessaria dell’essere, ciò per cui ogni essere non può essere diverso da ciò che è (vedi SOSTANZA). Queste determinazioni sono rimaste ti- piche della concezione del C. come essenza. Ri- spetto ad esse, il carattere dell’universalità appare secondario e derivato: per universale, dice Aristo- tele, intendo «ciò che inerisce al soggetto in ogni caso e per sè e in quanto un soggetto è quello che è » (An. post., I, 4, 73 b 25 sgg.). Ora, «ciò che inerisce al soggetto in ogni caso e di per sè, ecc.» non è altro che l’essenza necessaria del soggetto stesso, quel che esso non può non essere: sicchè l’universalità è per Aristotele la sostanzialità o necessità del concetto. Perciò Aristotele dice che ci può essere C. anche dell’individuo (del « sinolo » o composto di materia e forma) per quanto non dell’individuo considerato nella sua materia che è indeterminata, quindi indefinibile, e che, per es., il C. di un uomo è l’anima (Mer., VII, 11, 1037 a 26); distingue C. comuni e C. propri (De an., II, 3, 414 b 25); e parla di « C. materiali », quali sono le emozioni le quali sono definite mediante i movimenti del corpo che le suscitano (/bid., I, 1, 403 a 25). Nell’àmbito di quest’identificazione del C. con l'essenza, non costituisce innovazione decisiva il far derivare, come fa Epicuro, il C. stesso dalle sensazioni; giacchè questa derivazione, per il ca- rattere necessariamente veridico delle sensazioni, garantisce la realtà del C. (Drogo. L., X, 32). Dal- l’altro lato la disputa medievale sugli universali (v.) — con la quale parola s'intendono i C. di genere e di specie — è in realtà la disputa tra le due con- cezioni fondamentali del C., quella platonico-aristo- telica e quella stoica: il realismo rappresenta la prima di tali concezioni, il nominalismo la seconda. Non fa meraviglia che la Scolastica la quale è nata e si è sviluppata, dal punto di vista logico e gnoseologico, sotto il segno del neo-platonismo agostiniano e dell’aristotelismo, abbia scelto pre- valentemente la soluzione realistica del problema degli universali, affermando la realtà del C. come elemento costitutivo o essenziale della realtà stessa. S. Tommaso dice: « Poichè ogni conoscenza è per- fetta nella misura in cui c’è simiglianza tra il cono- scente e il conosciuto, occorre che nel senso ci sia la simiglianza della cosa sensibile quanto agli accidenti di essa, ma nell’intelletto ci sia la simi- glianza della cosa intesa quanto all'essenza di essa » (Contra gent., IV, 11). Il C. « penetra nel- l'interno della cosa » (/bid., IV, 11) coglie l’essenza o la sostanza di essa giacchè non è altro che questa sostanza asrrarta dalla cosa stessa. Attraverso l’in- terpretazione della sostanza aristotelica, come es-senza necessaria, Duns Scoto riafferma la stessa tesi: il C. ha per oggetto una « natura comune» che è il quod quid erat esse di Aristotele. Essa «non è così universale come il C., nè così indi- viduale come la cosa, ma è a fondamento dell’uno e dell’altra » (Op. Ox., II, d. 3, q. 1, n. 7). Questo realismo non subisce mutamenti importanti nep- pure nella filosofia moderna. L’identità di C. e realtà, forse presupposta da Cartesio, è resa espli- cita da Spinoza: «Il circolo esistente nella natura e l’idea del circolo esistente, la quale è anche in Dio, sono una sola e medesima cosa, che si mani- festa per diversi attributi » (Er., II, 7, Scol.). Un realismo del C., limitato tuttavia alla realtà feno- menica (che è poi la sola accessibile all'uomo) è la stessa dottrina di Kant. Difatti se i C. empirici si riferiscono alle cose solo per il tramite di una sensazione, i C. puri o caregorie entrano a costi- tuire le cose stesse in quanto percepite, cioè appa- renti nell’esperienza. I C. puri o categorie sono infatti, nello stesso tempo, «forme dell’intelletto » e «condizione degli oggetti fenomenici ». Essi cioè entrano a costituire gli stessi oggetti fenomenici, cioè gli oggetti di ogni esperienza possibile (Critica R. Pura, Analitica dei concetti, $ 10). La dottrina fondamentale del kantismo è per l’appunto il ca- rattere costitutivo dei C. puri, carattere sul quale si fonda lo stesso carattere rappresentativo dei C. empi- rici (Zbid., $ 16, nota). Indubbiamente, per Kant il C. non è tutta la realtà e non è creativo della realtà stessa: costituisce l’ordine necessario, per cui la realtà si rivela all’indagine scientifica come sotto- posta a leggi immutabili. Ma appunto per ciò costi- tuisce la struttura ossea, o l’ossatura necessaria, della realtà empirica, cioè della sola realtà che l'uomo possa indagare e conoscere. Da questo punto di vista, l’intero armamentario del criticismo sembra sia diretto a riconfermare la tesi classica, platonico-aristotelica, sulla natura del C.: la sua identità con la sostanza necessaria della realtà. E questa stessa tesi, senza le limitazioni del fenome- nismo kantiano, si trova nell’Idealismo romantico: che però accentua la funzione creativa del C. e iden- tifica il C. stesso col Principio razionale infinito, creatore e organizzatore della realtà stessa. È un luogo comune della filosofia hegeliana che il C. non è una pura rappresentazione soggettiva ma è l’es- senza stessa delle cose, il loro «in sè ». «La natura di ciò che è, è di essere, nel proprio essere, il proprio C., dice Hegel; e in ciò sta, in generale, la necessità logica » (Phénom. des Geistes, Pref., $ 3). L’Idea assoluta o infinita, la Ragione autocosciente che è la sostanza del mondo, non è altro che « il C. come C.» (Enc., $ 213). «Il C., dice ancora Hegel — non ciò che si ode spesso chiamare in tal modo ed è soltanto un’astratta determinazione 148 intellettualistica — è unicamente ciò che ha realtà, in maniera cioè da darsi esso stesso la realtà» (Fil. del Dir., $ 1). Nella concezione hegeliana, la struttura necessaria della realtà è divenire e pro- gresso e si è posta come Ragione infinita e crea- trice. Per quanto grande la distanza possa apparire tra questa e la concezione classica, essa non lo è dal punto di vista della teoria del C.; per Hegel, come per Aristotele, il C. è l’essenza necessaria della realtà, ciò che fa sì che essa non possa esser diversa da quella che è. Nella filosofia contempo- ranea l’idealismo ha ripreso l’interpretazione he- geliana del C. come realtà necessaria o necessità reale. Croce, per es., l'intende come sviluppo, dive- nire e sistema, attività razionale e concreta, spirito o ragione (Logica come scienza del C. puro, 1908). Un ritorno alla forma classica che l’interpreta- zione del C. aveva assunto in Aristotele si può invece considerare la fenomenologia di Husserl. Husserl condivide la polemica del logicismo mo- derno contro lo psicologismo che vede nel C. una formazione psichica (v. PsicoLoGIsMo). Formazione psichica è, per es., la rappresentazione di numero che varia da momento a momento e da un indi- viduo a un altro; ma il C. di numero è sempre quello, ed è un’entità intermporale. I C. devono perciò essere ritenuti identici con le essenze ed è anzi meglio parlare, anzichè di C., di essenze (che sono oggetti) e, dal lato soggettivo, di « visione delle essenze » come atto analogo al percepire sensibile (Ideen, I, $$ 22-23). Così in quella che è l’ultima formulazione storica dell’interpretazione del C. come realtà necessaria, il termine stesso di C. viene ab- bandonato come improprio, analogamente a quanto accade negli sviluppi della seconda interpretazione del concetto. 2° Per tale seconda interpretazione, il C. è un segno dell’oggetto (quale che sia) e si trova con esso in rapporto di significazione. Per questa inter- pretazione, che si presenta per la prima volta negli Stoici, la dottrina del C. diventa una teoria dei segni. Non ci può essere segno, secondo gli Stoici, nè delle cose evidenti nè delle cose assolutamente oscure; ci può essere soltanto delle cose oscure per il momento od oscure per loro natura. A queste due specie di cose corrispondono due specie di segni: 1° i segni rammemorativi che si riferiscono alle cose oscure per il momento; 2° i segni indica- tivi che si riferiscono alle cose oscure per natura. Un segno rammemorativo si ha, per es., quando si dice «Se c’è fumo, c’è fuoco»? non vedendo ancora fuoco. Un segno indicativo è, per es., un movimento del corpo, in quanto esprima uno stato dell'anima. Per segno s’intende poi «una proposizione che, essendo antecedente in una con- nessione vera, è discopritrice del conseguente ». In CONCETTO altri termini si ha un segno, se si ha una propo- sizione condizionale del tipo «Se... allora», la quale soddisfi a due condizioni: 1° deve cominciare dal vero e finire nel vero, cioè sia l’antecedente che il conseguente devono essere veri; 2° deve es- sere discopritiva, cioè deve dire qualcosa non im- mediatamente evidente. Ad es., «Se è giorno, c’è luce », detto quando è giorno, non è ancora un segno; mentre è un segno la proposizione: «Se questa ha latte, allora ha partorito» dove l’ante- cedente è discopritore del conseguente (/por. Pirr., II, 97 sgg.; Adv. Dogm., II, 141 sgg.). Questa dottrina stoica dei segni (sulla quale v. SIGNIFI- CATO) è rimasta il modello della seconda alternativa fondamentale che la dottrina del C. ha storicamente trovato. Trasmessa da Boezio alla Scolastica la- tina, essa trova la sua prossima tappa nella logica di Abelardo (x secolo) il quale accentuando il carattere predicativo del C., negò che esso potesse essere considerato sia come una cosa (res) sia come un nome (vox) — giacchè nè la cosa nè il nome (che è pure una cosa) possono essere predicati di un’altra cosa — e considerò il C. stesso come un sermo (discorso). A differenza della vox, il sermo implica il riferimento semantico ad una realtà significata, riferimento che la Scolastica po- steriore chiamerà suppositio. La realtà significata non è, secondo Abelardo, nè una sostanza univer- sale nè una classe di cose singole ma lo sraro comune in cui convengono un gruppo di cose. In questo senso Abelardo dice che «la causa comune» dell’universale «uomo» è lo status di uomo che non è nè una cosa nè una sostanza ma piuttosto ciò in cui tutti gli uomini con- vengono in quanto tali (Philosophische Schriften, ed. Geyer, pag. 19-20). La dottrina fu poi ripresa dalla logica terministica che trovò Ia sua formula- zione scolastica nelle Summulae Logicales di Pietro Ispano (verso la metà del 1200). Nelle Summu/ae la funzione del termine, sia universale sia par- ticolare, viene definita mediante la nozione di supposizione (v.) per la quale i termini stanno in luogo della cosa supposta, sicchè, per es., nella proposizione « l’uomo corre», il termine « uomo » sta per Socrate, Platone, e così via (Sumunulae Log., 6.03). La Scolastica del ’300 segna il defi- nitivo abbandono del realismo o formalismo che era prevalso in S. Tommaso e Duns Scoto, e un ritorno della teoria stoica del concetto. Questo è chiamato intfentio animae come ogni altro atto o elemento di conoscenza (giacchè la conoscenza si riferisce sempre a qualcosa d’altro da sè) ed è definito come «segno predicabile di più cose». Secondo Ockham, il C. possiede inoltre un altro carattere fondamentale: è un segno naturale. Egli dice: «L’universale è duplice. Uno è l’universale naturale che è un segno predicabile di più cose; al modo in cui il fumo naturalmente significa il fuoco, il gemito dell’infermo il dolore, e il riso l’interna gioia. Tale universale è solo un’intenzione del- l’anima, giacchè nessuna sostanza fuori dell’anima e nessun accidente fuori dell’anima è un universale siffatto... L'altro è l’universale istituito ad arbitrio (per voluntariam institutionem); e in questo senso la voce profferita, che tuttavia è una qualità nume- ricamente una, è universale perchè è un segno isti- tuito arbitrariamente per significare più cose» (Summa Log., I, 14). La funzione logica del C. è quella della supposizione, per la quale il C. stesso, in tutti i complessi in cui entra, sta per le cose si- gnificate; quanto alla realtà che il C. stesso pos- siede nell'anima come infentio animae, Ockham non si mostra interessato a decidere; e sembra anzi inclinare alla dottrina estrema che il C. non ha nell’anima alcuna realtà ma esiste soltanto in essa obiective cioè a titolo di rappresentazione o di immagine (In Sent., I, d. 2,q.8E). La dottrina di Ockham è tipica della posizione empiristica ri- spetto alla natura del C., posizione che ha costan- temente due capisaldi: 1° la natura segnica del C.;

2° la sua connessione causale con le cose, delle quali sarebbe il naturale prodotto nell’uomo. Questa dottrina si ritrova infatti in Locke (Saggio, III, 3, $$ 6-9), in Berkeley (Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12 sgg.) e in Hume (7rearise, I, 1, 7). Hume invoca l’abitudine per spiegare la genesi psicologica del C. (/bid., I, 1, 7); James Mill invoca la legge dell’associazione psicologica (Analysis of the Phe- nomena of the Human Mind, 2* ed., 1869, I, pa- gina 78 sgg.) e così fa pure Stuart Mill (Exami- nation of Phil. of Hamilton, pag. 393). È proprio dell’empirismo assumere la spiegazione psicologica della genesi del C. come giustifica- zione della sua validità: cioè ritenere dimostrata la validità del C. e la legittimità del suo uso per aver mostrato il modo in cui esso viene a formarsi nell'uomo con l’azione dell’astrazione (come ri- teneva Locke) o della associazione psicologica, come ritengono gli Empiristi della prima metà dell’800. Ma già Kant aveva insistito sulla diffe- renza tra le due cose distinguendo la « derivazione fisiologica » dei C. tentata da Locke, dalla « dedu- zione » dei C. stessi, cioè dalla dimostrazione della loro validità (Crir. R. Pura, $ 13). La distinzione tra validità logica e realtà psicologica dei C. si mantiene in tutte le scuole del neo-criticismo te- desco contemporaneo (e soprattutto dalla Scuola di Marburgo cui appartengono Cohen, Natorp e Cassirer) ed era stata riaffermata come indispen- sabile alle formulazioni del pensiero matematico e in generale del pensiero scientifico, da Bolzano nella sua Dottrina della scienza (1837). L’elabora- 149 zione matematica della logica portava ad insistere sulla natura oggettiva, non psicologica, del C., come sulla sua natura simbolica. Questi due aspetti del C. vengono sottolineati da Frege. In uno scritto del 1890 egli asseriva che « il C. è qualcosa di oggettivo, che non viene costruito per opera nostra »; e che pertanto una proposizione come «Il numero 3 è un numero primo +» è « qualcosa di completamente indipendente dalla circostanza che noi vegliamo, o dormiamo, viviamo 0 no; qualcosa che vale e varrà oggettivamente sempre, non importando se esistano o esisteranno esseri che riconoscano 0 no questa verità » (Ueber das Tràgheitsgesetz, 1890, in Aritme- tica e logica, ed. Geymonat, pag. 211-12). Da questo punto di vista, Frege definiva il C. come «il significato di un predicato » (Ueber Begriff und Gegenstand, 1892, $ 2; ed. Geymonat, pag. 199); e definiva il significato stesso come l’oggetto de- signato dal segno distinguendo il significato dal senso che denota « il modo in cui l’oggetto ci vien dato» (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 1, ed. Gey- monat, pag. 216 sgg.). Queste notazioni di Frege

sono molto importanti perchè segnano l’inizio della risoluzione, avvenuta in buona parte della filosofia contemporanea, della nozione di C. nella nozione di significato. Già Husserl (che tuttavia sosteneva un realismo concettualistico) considerava i C. come significati (Bedeutungen: cfr. Ideen, I, $ 10). «Termini o significati » chiama i C. Dewey che sotto questo titolo procede a classificarli (Logic, cap. XVIID. E R. Carnap identificando, nello stesso senso di Frege, il C. con l'oggetto intendeva per esso « tutto ciò su cui possono formularsi proposizioni » (Der logische Aufbau der Welt, 1928, $ 5). Dell’avvenuta identificazione tra C. e significato dava atto nel 1942 Susan K. Langer mostrando la convergenza di molte correnti della filosofia contemporanea verso il riconoscimento del simbolismo nella scienza, nell’arte, nella filosofia e in generale in tutte le forme culturali umane (Philosophy in a New Key, 1942, cap. III). Quine ha indicato esattamente il punto critico della trasformazione delia nozione di C. quando ha detto « il significato è ciò che l’es- senza diventa quando ha fatto divorzio dall’oggetto di riferimento e si è sposata con la parola » (From a Logical Point of View, II, 1). È tuttavia da notare che il termine C. o signifi- cato viene più frequentemente riferito a indicare la connotazione che la denotazione. Così Carnap negli ultimi scritti ha inteso per concetto la proprietà o l'attributo o la funzione (Introduction to Semantics, 1942; 2» ediz., 1959, $ 37). Ciò costituisce una ec- cezione alla terminologia proposta da Frege, ecce- zione tuttavia che è raccomandata dai logici (con- fronta A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 01, e n. 17). V. SIGNIFICATO. B) La funzione del C. può essere concepita in due maniere fondamentali diverse, cioè come finale e come strumentale. Funzione finale attribuisce al C. l’interpretazione di esso come essenza: giacchè per questa interpretazione il C. non ha altra fun- zione se non di esprimere o rivelare la sostanza delle cose. La funzione si identifica da questo punto di vista con la natura stessa del concetto. Quando invece si ammetta la teoria simbolica del C., si ammette con ciò anche la strumentalità di esso; e questa strumentalità può essere chiarita e de- scritta nei suoi molteplici aspetti. Gli aspetti prin- cipali sono i seguenti: 1° La prima funzione attribuita al C. è quella di descrivere gli oggetti dell'esperienza per con- sentirne il riconoscimento. Era questa la funzione principale che Epicurei e Stoici attribuivano alle anticipazioni (o prolessi). Secondo gli Epicurei, l’anticipazione è « una comprensione o retta opi- nione o pensiero o nozione universale insita in noi come memoria di ciò che ci è spesso apparso fuori di noi» (Dioc. L., X, 33). Questa funzione descrittiva o riconoscitiva del C. viene spesso sotta- ciuta in quanto è la più ovvia. Recentemente G. Berg- mann ha chiamato I C. parole-caratteri (Character- Words) per indicare la loro funzione descrittiva o referenziale (Philosophy of Science, 1957, pag. 13). 2° La seconda funzione attribuita al C. è quella economica. A questa funzione si lega il carattere classificatorio del C. stesso. «La varietà delle rea- zioni biologicamente importanti, ha detto E. Mach, è molto minore della varietà degli oggetti esistenti. Perciò l’uomo è stato condotto a classificare i fatti nei concetti. Lo stesso procedimento si ripro- duce quando, in una professione, si affrontano fatti che non offrono più interessi biologici imme- diati » (Erkenniniss und Irrtum, 1905, cap. VIII; trad. franc., pag. 136). Sotto questo aspetto, i C. sono «segni riassuntivi e indicativi delle reazioni possibili dell'organismo umano nei confronti dei fatti » (Mechanik, 1883, pag. 510). È questo il ca- rattere su cui hanno fatto leva alcuni filosofi per negare il carattere teoretico dei C. scientifici a van- taggio di una forma superiore o privilegiata di conoscenza. Così Bergson ha contrapposto al C., semplice schema economico ai fini dell'azione, l'intuizione (Évolution Créatrice, 88 ediz., 1911, pag. 247 sgg.). Croce ha chiamato per questo mo- tivo i C. scientifici pseudo-concetti riservando il nome di C. alla Ragione stessa (Logica, cap. II). 3° La terza funzione del C. è quella di orga- nizzare i dati dell’esperienza in modo tale da sta- bilire tra essi connessioni di natura logica. Un C., soprattutto un C. scientifico, non si limita, di re- gola a descrivere e classificare i dati empirici ma rende possibile la loro derivazione deduttiva CONCETTO-CLASSE (DuHEM, La théorie physique, pag. 163 sgg.). È questo l’aspetto per cui la formulazione concettuale delle teorie scientifiche ténde all’assiomatizzazione: la generalizzazione e il rigore dell’assiomatizzazione tendono a portare al limite il carattere logicamente organizzativo del concetto. 4° La quarta funzione del C., ritenuta oggi quella fondamentale nelle scienze fisiche, è la previ- sione. Come già riconoscevano gli Stoici, lo scopo di un segno è in generale quello di prevedere; e il nome di anticipazione, che Epicurei e Stoici davano al C., esprime appunto questa funzione. Per essa, il C. è un mezzo o procedimento anticipatorio o proget- tante. Per Dewey, esso anticipa o progetta la solu- zione di un problema esattamente formulato (Logic, XX, $ 1; trad, ital, pag. 516; cfr. XXIII, $ 1; pag. 599). Per altri la funzione anticipatoria del C. è lo strumento di cui la scienza si serve « per predire l’esperienza futura alla luce dell'esperienza passata »

(Quine, From a Logical Point of View, II, 6). Alle funzioni della organizzazione e della previ- sione adempiono oggi i tipi fondamentali dei C. scientifici che non sono nè descrittivi nè classifica- tori: cioè i modelli, i C. matematici e i costrutti. I modelli costituiscono semplificazioni o idealiz- zazioni dell’esperienza e si ottengono portando al limite caratteri o attributi propri degli oggetti em- pirici. Sono modelli in questo senso i C. di velocità istantanea, di sistema isolato, di gas perfetti e in generale i modelli meccanici. I C. matematici sono semplicemente occasioni per introdurre speciali procedimenti di calcolo e in questo senso sono strumenti di previsione. Il C. di «onda di probabilità », proprio della mec- canica quantistica, appartiene a questa specie: come appartengono a questa specie quelli di «campo tensoriale », « spazio CUTvo ?, ecc. Infine i costrutti (v.) sono C. di entità che non sono date nell'esperienza e non somigliano neppure ad oggetti dati, e la cui esistenza consiste sempli- cemente nella possibilità di essere usate come stru- menti di previsione nel contesto di una teoria. Sono esempi di costrutti i C. di campo, di elet- trone, di etere, ecc. (P. W. BRIDGMANN, The Logic of Modern Physics, 1927, cap. II; M. K. MUNITZ, Space Time and Creation, 1957, IV, 2). CONCETTO-CLASSE (ingl. Class-Concept). Termine introdotto nella Logica da Russell (The Principles of Mathematics): designa il C. me- diante cui si definisce una c/asse (v.), o, più esattamente, la funzione proposizionale « Fx» le cui radici formano la classe, in modo che con- dizione necessaria e sufficiente perchè un in- dividuo a sia un elemento di una classe (« appar- tenga alla classe +) definita mediante una funzione «Fx+è che la proposizione « Fa» sia vera. G.P. CONCETTUALISMO (ingl. Conceptualism; franc. Conceptualisme; ted. Conceptualismus). Nome che gli storici ottocenteschi della filosofia medievale hanno dato a quella corrente della Scolastica me- dievale che gli Scolastici stessi chiamavano nomi- nalismo (v.); ciò allo scopo di distinguere il nomi- nalismo estremo di Roscellino, per il quale il concetto universale è una semplice vox o ffatus vocis dal nominalismo di Abelardo, per cui l’univer- sale stesso è un discorso (sermo) predicabile di più cose e dal nominalismo posteriore che s’ispira ad Abelardo (v. NOMINALISMO; UNIVERSALI). CONCEZIONE (ingl. Conception; franc. Con- ception; ted. Konzeption). Questo termine designa (come quelli corrispondenti di percezione e di ima- ginazione), sia l’atto del concepire, sia l'oggetto concepito; ma, a preferenza, l’atto di concepire an- zichè l’oggetto, per il quale va riservato il termine concetto (v.). Hamilton faceva già questa osserva- zione (Lectures on Logic, I, pag. 41) che talora è ripetuta nella filosofia contemporanea: «Appena un concetto è simbolizzato per noi la nostra imagina- zione lo riveste di una C. privata e personale, che possiamo distinguere solo per un processo di astra- zione dal concetto pubblico e comunicabile + (Susan K. LAnGER, Philosophy in a New Key, cap. IID. CONCLUSIONE (lat. Conclusio; ingl. Con- clusion; franc. Conclusion; ted. Schluss). Mentre in Apuleio e Boezio conclusio è il termine mediante il quale si designa la totalità di un discorso dimostra- tivo, nei Logici medievali esso è usato come tra- duzione del ovurépacpa aristotelico e della trupopà stoica, cioè per indicare la proposizione terminale del discorso dimostrativo stesso (cfr. PIETRO ISPANO: « Est enim conclusio argumento vel argumentis ap- probata propositio »; Summul. Log., 5.02). Nella filo- sofia moderna e contemporanea ha mantenuto lo stesso senso. Solo nei filosofi tedeschi Sck/uss è spesso usato per indicare l’intero sillogismo. G. P. CONCOMITANZA (ingl. Concomitance; fran- cese Concomitance; ted. Konkomitanz). Uno dei quattro metodi della ricerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e precisamente quello detto delle « variazioni concomitanti » espresso con la seguente regola: « Un fenomeno che vari in qualche maniera

ogni volta che un altro fenomeno vari in qualche particolare maniera è la causa o l’effetto di questo fenomeno o è connesso con esso da qualche fatto di causazione » (Logic, III, 8, $ 6). A questo metodo Mach ridusse tutti i procedimenti della scienza. «Il metodo delle variazioni, egli disse, consiste nello studiare per ciascun elemento la variazione che si trova legata alla variazione di ciascuno degli altri elementi. Importa poco che tali variazioni si producano da sè o che noi le provochiamo volon- tariamente; le relazioni saranno scoperte dall’os- servazione o dall’esperimento» (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad. franc., pag. 28-29) (v. Con- CORDANZA; DIFFERENZA; RESIDUI). CONCORDANZA, METODO DELLA (in- glese Method of Agreement; franc. Méthode de con- cordance; ted. Methode der Uebereinstimmung). Uno dei quattro metodi della ricerca sperimentale enu- merati da Stuart Mill e precisamente quello espresso dalla regola seguente: « Se due o più casi del feno- meno che si sta investigando hanno un’unica cir- costanza in comune, la circostanza nella quale sola tutti i casi concordano è la causa, o l’effetto, del fenomeno dato » (Logic, III, 8, $ 1). Un caso del metodo della C. è la combinazione di esso con quello di differenza, combinazione che è retta dalla seguente regola: «Se due o più casi nei quali il fenomeno ha luogo hanno solo una circostanza in comune, mentre due o più casi nei quali esso non ha luogo non hanno in comune se non l’as- senza della circostanza, la circostanza nella quale sola i due insieme di casi differiscono, è l’effetto o la causa, o una parte indispensabile della causa del fenomeno + (/bid., $ 4) (v. CONCOMITANZA; DIF- FERENZA; RESIDUI). CONCRESCENZA (ingl. Concrescence). White- head ha visto nell’evoluzione emergente (o crea- trice) un « processo di C. + al quale contribuiscono egualmente l’aspetto fisico e l’aspetto spirituale, indissolubilmente uniti ed entrambi attivi (Process and Reality, pag. 151). CONCRETO (ingl. Concrete; franc. Concret; ted. Konkret). Il contrario di astratto (v.). I filosofi designano abitualmente col termine elogiativo di C. ciò che s’adegua al loro criterio di realtà. Perciò C. non è sempre l’individuale, il singolo, la cosa o l’essere esistente, come si potrebbe credere e come è, forse, l’uso comune del termine. Per Hegel il C. è l’Universale, la Ragione, l’Infinito, mentre l’astratto è appunto l'individuo, l’oggetto sin- golo, ecc. « L’astratto è il finito, il C. è la Verità, l’Oggetto infinito », dice Hegel (Philosophie der Re- ligion, ed. Glockner, II, pag. 226; cfr. Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, I, pag. 52 sgg.). Così Croce ha parlato di un «universale C.» e Gentile del « pensiero C. ». Per Bergson il C. è la durata reale, cioè la vita della coscienza nella sua immediatezza. Si può dire che il termine non ha altra funzione che quella di qualificare onorificamente la realtà, vera o supposta, che si intende privilegiare. CONCREZIONE (ingl. Concrezion). Parola co- niata da G. Santayana per indicare la crescita do- vuta all’unificazione di più cose. Così le C. formate da un’associazione per simiglianza sono idee o es- senze 0 «C. di discorso»; mentre le C. costituite dal- l’associazione per contiguità sono cose. (Cfr. special- mente Reason in Common Sense, 1905, pag. 161 sgg.). CONCUPISCENZA (lat. Concupiscientia; in- glese Concupiscence; franc. Concupiscence; ted. Ge- liste). È, secondo S. Tommaso (che rinvia alla defini- zione aristotelica del piacere, Rer., I, 11, 1369 b 33) il desiderio del piacere (delectatio). Il piacere si può provare sia per un bene spirituale, sia per un bene sensibile, e il primo appartiene solo all’anima, il se- condo all’anima e al corpo insieme: la C. designa il desiderio di questa seconda specie di piacere, cioè il desiderio sensibile (S. 7h., II, 1, q. 30, a. 1). CONCUPISCIBILE. Una delle parti del- l’anima, secondo Platone (v. FACOLTÀ). CONCURSUS DEI. Si designò con questa espressione, negli ultimi tempi della Scolastica, la parte dovuta a Dio nella produzione e nel compor- tamento delle sostanze finite. La dottrina domi- nante nella Scolastica è quella esposta da S. Tom- maso: che la causa prima, cioè Dio, è più efficiente delle cause seconde che derivano il loro potere solo da essa (S. 7A., II, 1, q.19,a. 4). Ma nell’ultima fase della Scolastica e precisamente ai principi del sec. xIv, si cercò di limitare la portata della causalità divina, per evitare che si attribuissero a Dio stesso le im- perfezioni e i mali del mondo. Così Durando di St.-Pourgains e Pietro Aureolo ritennero che il concorso di Dio con la creatura è solo generale e mediato; che Dio crea le sostanze e dà loro la forza di cui hanno bisogno, ma dopo ciò le lascia fare e si limita a conservarle nel loro essere, senza aiutarle nelle loro azioni. Nell’età post-cartesiana, sia gli occasionalisti, sia Spinoza, sia Leibniz ri- tornarono alla nozione tradizionale dell’intera e piena causalità divina nel mondo. Leibniz, in par- ticolare, riespose a suo modo la dottrina del con- corso divino, distinguendo, oltre il concorso straor- dinario o miracoloso, un concorso immediato e un concorso speciale: il primo che consiste nel fatto che l’effetto non solo dipende da Dio ma che Dio concorre a produrlo non meno della causa seconda di esso; e il secondo che è diretto non sol- tanto all’esistenza della cosa ma anche al suo modo di esistere e alle sue qualità, giacchè ciò che nella cosa c’è di perfetto non può dipendere che da Dio (Op., ed. Erdmann, pag. 653). CONDILLACHISMO. V. Sensismo. CONDIZIONALE (gr. cvwupévoy délwpa; lat. Propositio hypothetica; ingl. Conditional; fran- cese Conditionnel; ted. Bedingt). Una relazione tra due stati di cose o due proposizioni, indicata dal connettivo se... allora. Questa relazione fu studiata per la prima volta nella scuola di Megara e inter- pretata in due modi diversi da Filone e da Diodoro Crono. Filone affermava che la relazione è vera quando non comincia dal vero e finisce nel falso. Diodoro affermava invece che essa è vera quando non comincia dal vero nè finisce nel falso. La condizione posta da Diodoro per la validità del C. era perciò assai più ristretta di quella posta da Filone giacchè per quest’ultimo una proposi- zione vera segue da ogni cosa (anche dal falso). Per es., la relazione «Se è notte, è giorno », posto che sia giorno, è vera secondo Filone perchè comincia dal falso (cioè ha l’antecedente falso) «è notte», ma finisce nel vero (cioè ha il conseguente vero) « è giorno ». Secondo Diodoro, invece, è falsa perchè ammette di cominciare dal vero, posto che sopraggiunga la notte, e di finire nel falso «è giorno » (Sesto EMPIRICO, Adv. Math., VIII, 113- 117; Cicer., Acad., IV, 143). Le interpretazioni di Filone e di Diodoro corrispondono perciò rispettiva- mente a quelle che oggi si chiamano implicazione materiale e implicazione formale (v. IMPLICAZIONE): giacchè Filone interpretava il C. «se è giorno, c'è luce » come se dicesse «0 non è giorno o c’è luce », mentre Diodoro l’interpretava come se di- cesse «ora c’è giorno, dunque ci dev'essere luce », ammettendo una connessione causale tra l’antece- dente e il conseguente. E difatti Filone ammetteva una tavola di verità che è identica a quella del- l’implicazione materiale. Il C. è vero in tre casi e falso in un caso. È vero se comincia dal vero e finisce nel vero: « Se è giorno, c’è luce »; è vero se comincia dal falso e finisce nel falso: «Se la terra vola, la terra ha le ali». È vera se co- mincia dal falso e finisce nel vero: «Se la terra vola, la terra esiste». È falsa solo quando co- mincia dal vero e finisce nel falso: « Se è giorno, è notte», posto che sia giorno. E così la relazione: «Se è giorno, io discorro », è vera secondo Filone, posto che io discorra, ma falsa secondo Diodoro. La dottrina di Filone fu sostanzialmente accettata dagli Stoici (Dio. L., VII, 73) e fu discussa nella logica medievale (che utilizzò la trascrizione che ne aveva fatta Boezio) come dottrina della conseguenza (v.). Nella logica moderna, la dottrina è stata ripresa da Frege (a partire dal Begriffsschrift, 1879) e da Peirce a partire dal 1885; secondo il quale, il prin- cipale vantaggio dell’interpretazione di Filone è quello che essa consente di esprimere le proposi- zioni categoriche e le proposizioni condizionali nella stessa forma. Così, per es., la proposizione « Ogni uomo è ragionevole» si può esprimere dicendo: « Per ogni oggetto x qualsiasi, è vero che o x non è un uomo o x è ragionevole » (PEIRCE, Coll. Pap., 3. 43945). Il concetto di C. è oggi il più delle volte consi- derato equivalente a quello di implicazione (v.). Quine ha tuttavia proposto una distinzione oppor- tuna tra i due concetti: l’implicazione dovrebbe essere intesa come relazione tra proposizioni e il C. come relazione tra oggetti o stati di fatto. Così si dovrebbe dire « ‘Se piove” implica ‘la terra si bagna ’ », mentre il C. sarebbe « Se piove, la terra si bagna » (Methods of Logic, 1952, $ 7). CONDIZIONATO (ingl. Conditioned; fran- cese Conditionné; ted. Bedingt). Ciò la cui possi- bilità dipende da altro. Riflesso C. ha chiamato Pavlov il riflesso prodotto da uno stimolo artifi- ciale (v. AZIONE RIFLESSA). Kant nella discussione delle antinomie della ragion pura (Crif. R. Pura, Dialettica trascendentale, cap. II) ha usato la parola come sinonimo di cau- sato. Hamilton (Lectures on Metaphysics, 1859- 1860) ha inteso per C. il relativo; e in questo senso ha detto che « pensare è condizionare » perchè ciò che si pensa o si conosce è quello che è rispetto

alle facoltà umane, non assolutamente. Lo stesso significato è attribuito alla parola da Mansel (Phil. of the Conditioned, 1866). CONDIZIONE (ingl. Condition; franc. Con- dition; ted. Bedingung). In generale, ciò che rende possibile la previsione probabile di un evento. La nozione si è formata nell’età moderna, dapprima attraverso il tentativo di liberare la nozione di causa dalle sue implicazioni antropomorfiche, poi attraverso l’esigenza di liberarla dal suo carattere necessitante. Claude Bernard, che tuttavia credeva nel carattere necessitante della causa (v. Causa- LITÀ), diceva: «L’oscura nozione di causa deve essere confinata all’origine delle cose: non ha senso che quando si parla della causa prima o causa finale. Nella scienza, deve far posto alla nozione di rapporto o di condizione » (Lecons sur les phéno- ménes de la vie, II, pag. 396 sgg.). Dall'altro lato, Stuart Mill, osservando che la successione invaria- bile in cui la causalità consiste, raramente si trova tra un conseguente e un singolo antecedente ma c’è il più delle volte tra un conseguente e la somma di di- versi antecedenti, che sono tutti richiesti « a produrre il conseguente, cioè affinchè siano certamente seguiti da esso», aggiungeva: «In tali casi è cosa assai comune mettere in evidenza uno solo degli ante- cedenti sotto la denominazione di causa, chiamando gli altri soltanto condizioni» (Logic, III, 10, 3). La C. sarebbe così ciò che per suo conto non basta a produrre l’effetto, cioè: non rende certo il veri- ficarsi dell’effetto. Il che corrisponde all’uso della parola C. nell'espressione (di origine giuridica) conditio sine qua non, nella quale la C. significa una clausola o riserva da cui dipende l’intera va- lidità dell'atto giuridico, sebbene indubbiamente non sia la causa di esso. Alla parola è pertanto connesso il significato di una limitazione di possi- bilità tale che ciò che cade fuori delle possibilità così limitate elimini o renda non-possibile l’og- getto condizionato. In riferimento a questo signi- ficato, la parola viene usata da Kant. Per quanto l'opera di Kant sia diretta a difendere il principio di causalità necessaria come forma o struttura og- gettiva della natura, essa fa un uso frequente della nozione di C. in un significato che non è ricondu- cibile a quello di causa e che Kant non si è fermato di proposito a delucidare. L’uso kantiano è in- dicato da espressioni come le seguenti, che s’in- contrano frequentemente nella Critica della Ragion Pura: « C. della possibilità dei fenomeni », « C. sog- gettiva della sensibilità », « C. della possibilità di ogni esperienza », «C. formale di tutti i fenomeni in generale» (il tempo), «C. soggettive del pen- sare » (le categorie), « C. a priori per cui è possibile l’esperienza » (le categorie), ecc. In queste e simili espressioni ciò che vi è di importante è la connes- sione tra « C.» e « possibilità ». Kant qualche volta dice semplicemente « C.+, qualche volta dice « C. della possibilità »; e le due espressioni s’equival- gono. Il che vuol dire che, secondo Kant, dire che «x è la C. di y» o dire che «x rende possi- bile y » significa la stessa cosa. Ciò che rende pos- sibile qualcosa (per es., la conoscenza o l’esperienza o il fenomeno) è la C. di questo qualcosa. Questa definizione, certamente non data mai esplicitamente ma neppure soltanto implicita, della nozione nel- l’opera di Kant, costituisce il punto decisivo della elaborazione filosofica di essa. Un passo ulteriore nello stesso senso è stato effettuato da Max Weber nella sua ricerca sul significato del principio di causalità per le scienze storiche (1905). Per quanto Weber adoperi di preferenza la parola causa e parli di spiegazione causale, ciò che egli dice si riferisce più precisamente alla nozione di C.; e serve a collegare questa nozione con quella di « possibilità oggettiva » (v. PossiBILITÀ) che è in- dispensabile, secondo Weber, alla conoscenza sto- rica. «Il giudizio sulla possibilità oggettiva, dice Weber, ammette per sua essenza gradazioni; e si può raffigurare la relazione logica in esso impli- cita con l’aiuto dei princìpi che sono applicati nell’analisi del calcolo delle probabilità. Le com- ponenti causali, al cui ‘possibile’ effetto si rife- risce il giudizio, possono concepirsi isolate rispetto a tutte le C. che si possono in genere concepire con esse cooperanti. Ci si può chiedere allora come il complesso di queste C., insieme alle quali le com- ponenti isolate erano prevedibilmente adatte a pro- durre la conseguenza possibile, si comporta rispetto a quelle altre C., insieme alle quali non l'avrebbero ‘ prevedibilmente * prodotta » Xritische Studien auf dem Gebiet der Kulturwissenschaftlichen  Logik, 1906; trad. ingl. in Methodology of Social Science, pag. 181-82). Ciò che qui Weber chiama « com- ponente causale » che sarebbe concettualmente iso- lata per formulare un giudizio di possibilità og- gettiva, cioè un giudizio sul corso che gli eventi avrebbero potuto prendere se, per l’appunto, quella componente causale fosse intervenuta, non è altro che una C. di possibilità, nel senso kantiano del termine. Aggiunge Weber: « Noi possiamo enun- ciare giudizi generalmente validi intorno al fatto che una maniera di reagire identica, in certe carat- teristiche da parte di persone che affrontano deter- minate situazioni, è favorita a un grado maggiore o minore e possiamo stimare il grado al quale un certo effetto è favorito da certe C. » (/bid., pag. 183). In queste parole il concetto della C. come limita- zione di possibilità oggettive e quindi prevedibilità probabile dell’evento, è chiaramente espresso. Gli sviluppi della fisica che hanno segnato il tra- collo della nozione di causa (v. CAUSALITÀ) esigono la sostituzione del determinismo condizionale al determinismo causale classico. Nel campo biologico, è facile osservare come solo il concetto di C. è in grado di esprimere i rapporti funzionali consi- derati da tale scienza; e, per es., quello tra stimolo e risposta, che oggi non può più essere tradotto in termini di causalità, cioè di previsione infallibile, e può essere invece espresso in termini di condizio- nalità, cioè di previsione probabile (v. AZIONE RIFLESSA). Il concetto di C. è inoltre largamente usato nella sociologia, nella teoria dell’informa- zione, nella cibernetica e in generale nella teoria dell’organizzazione o dei sistemi, perchè consente di conciliare la nozione dell’ordine con un certo grado di contingenza o di casualità nelle relazioni fra gli elementi che entrano a comporlo. Così Wiener ha scritto: « Un’idea significante di orga- nizzazione non può essere ottenuta in un mondo nel quale ogni cosa è necessaria e niente è con- tingente » (/ am a Mathematician, New York, 1956, pag. 322). W. Ross Ashby, ha ritenuto sotto questo aspetto essenziale l’idea di condizionalità secondo la quale nello spazio di possibilità di interazione, dato da un insieme di elementi, ogni organizzazione reale degli elementi è costretta a qualche sub- insieme di interazioni. Il converso dell’organizza- zione è l'indipendenza degli elementi (in Principles of Self-Organization, ed. H. von Foerster e G. W. Zopf, New York, 1962, pag. 217). Un certo grado di libertà nella relazione reciproca delle parti è essenziale ad ogni organizzazione o sistema; e dove non si fosse scelta fra un insieme di alternative non ci sarebbe neppure un’organizzazione qualsiasi (J. ROTHSTEIN, Communication, Organization and Science, 1958, pag. 35). Il concetto di C. sta così prendendo il posto, nelle discipline più disparate, di quello di causa. CONDOTTA (ingl. Conduct; franc. Conduite; ted. Berragen). Ogni risposta dell’organismo vivente ad uno stimolo, che sia oggettivamente osserva- bile, anche se non abbia carattere di uniformità: nel senso che vari o possa variare nei confronti di una situazione determinata. Per questa mancanza di uniformità, la C. si differenzia dal comporta- mento (v.); e l’uso del termine diventa utile, giacchè altrimenti non si distingue da comportamento. CONFERMABILITÀ. V. TESrABILITÀ; VE- RIFICABILITÀ. CONFESSIONE (lat. Confessio; ingl. Con- fession; franc. Confession; ted. Beichte). La parola significa in generale: riconoscere una cosa per quella che è (corrispondentemente al significato del verbo greco éfoporoyetv usato nella traduzione greca della Bibbia). Pertanto essa viene adoperata S. Agostino sia a indicare il riconoscimento di Dio come Dio (della verità come verità) sia il riconoscimento dei propri peccati come tali. S. Ago- stino dice: « Mi comandi di lodarti e di confes- sarti » rivolgendosi a Dio (Conf., I, 6, 9-10); e dice pure: « Ha (la casa dell’anima mia) cose che of- fendono i tuoi occhi, lo confesso, lo so» (Ibid. I, 5, 6). Il significato indicato comprende i due usi del termine distinti dagli studiosi (cfr. M. PELLE- aRINO, Le C. di S. Agostino, Roma, 1956, pag. 9-10). Esso consente inoltre di spiegare: 1° la composi- zione delle Confessioni le quali solo in parte con- tengono l’esposizione delle vicende biografiche di S. Agostino, ma che dal X Libro in poi sono pura- mente teoretiche, cioè sono dedicate al riconosci- mento della Verità come tale attraverso la solu- zione dei dubbi e delle difficoltà che si frappongono al riconoscimento stesso; 2° la coincidenza dell’at- teggiamento di chi si confessa, cioè riconosce in se stesso la verità, con l’atteggiamento del ritorno a sè e del ripiegamento dell’uomo su se stesso che è proprio della ricerca agostiniana, come di quella neo-platonica (v. COSCIENZA). CONFIGURAZIONISMO (ingl. Configuratio- nism). Lo stesso che Gestaltismo (v. PERCEZIONE; PSICOLOGIA, C).

CONFLAGRAZIONE (gr. èxmipoore; lat. Con- ffagratio; ingl. Conflagration; franc. Conflagration; ted. Weltbrand). Secondo Eraclito (Dioc. L., IX, 1, 8) e gli Stoici (Sroseo, Ec/., I, 304), la catastrofe finale che chiude un ciclo del mondo con la di- struzione totale di esso ad opera del fuoco. CONFLITTO (ingl. Conflict; franc. Conflit; ted. Wiederstreit). Contraddizione, opposizione o lotta di principi, proposizioni o atteggiamenti. Kant chiamò « C. di tesi » le anrinomie (v.). Hume aveva parlato di un C. tra la ragione e l'istinto: l’istinto che porta a credere, la ragione che mette in dubbio ciò che si crede (Treatise, I, Introduzione). CONFUSIONE. V. DIsTINZIONE. CONFUTAZIONE (gr. &eyxos; lat. Confu- tatio; ingl. Confutation; franc. Réfutation; ted. Wi- derlegung). Il metodo adoperato da Socrate che consiste nel porre in luce ia contraddizione a cui CONNOTAZIONE 155 conduce l’asserzione dell’interlocutore e, perciò con- sente di liberare l'interlocutore stesso dalla presun- zione di sapere. Questo procedimento fu sempre ritenuto da Platone come la propedeutica indispen- sabile della ricerca scientifica (Apol., 21a sgg.; Men., 84a-c; Sof., 230b sgg.). Aristotele definì la C. come «la dimostrazione del contraddittorio » (El. Sof., I, 165a 2): cioè come il sillogismo che ha come conclusione la proposizione che nega un’altra conclusione (la quale così è « confutata »). Le C. (elenchi) sofistiche non sono, secondo Ari- stotele, vere C.; e le due classi di esse (quelle che utilizzano il modo di esprimersi e quelle che ne prescindono) sono non già dimostrazioni negative, ma artifici o trucchi verbali che hanno lo scopo di ridurre al silenzio l’avversario e di aver la meglio su di lui. CONGETTURA (gr. elxaola.; lat. Conjectura; ingl. Conjecture; franc. Conjecture; ted. Conjectur). Secondo Platone, il più basso grado del conoscere sensibile, quello che ha per oggetto le ombre e le imagini delle cose; al modo in cui l’opinione, nello stesso grado sensibile, ha per oggetti le cose stesse (Rep., VI, 510a Slle). Niccolò Cusano riprese la parola per indicare la natura di tutta la conoscenza umana: la quale, come C., sarebbe una conoscenza per alterità, cioè che rinvia a ciò che è altro da sè, la verità come tale, e solo per tale rinvio è in rapporto con la verità e partecipa di essa. «La C. è un’asserzione positiva che par- tecipa per alterità alla verità in quanto tale » (De Conjecturis, I, 13). Nell’uso moderno questo ter- mine è sinonimo di /potesi (v.). CONGIUNZIONE (lat. Conjunctio; ingl. Con- junction; franc. Conjonction; ted. Konjunktion). Nella Logica scolastica è una propositio hypothetica formata da due categorie unite dal segno «et» (« Socrates currit et Plato sedet v). Nella Logica contemporanea è una proposizione molecolare formata da due (o più) atomiche unite dal segno 4 v + 0 «4.» (tp.Q?). In entrambe le Logiche, condizione necessaria e suffi- ciente per la verità di una C. è che entrambe le proposizioni componenti siano vere. G. P. CONGRUENZA (lat. Congruentia; ingl. Con- gruence; franc. Congruence; ted. Uebereinstimmung). Adeguazione. Per es., « ricompensa congrua » cioè adeguata al lavoro o al merito. In geometria, la C. è la coincidenza delle figure per sovrapposi- zione sullo stesso piano. La definizione della C. è fondamentale per la scelta di una geometria. Dice Reichenbach: « La scelta di una geometria è arbi- traria solo finchè non si è specificata la definizione della congruenza. Una volta stabilita tale definizione, diventa una questione empirica il problema di quale geometria si adatta allo spazio fisico » (cfr. A. Ein- steîn; Philosopher-Scientist, a cura di P. A. Schilpp, 1949, pag. 295). Whitehead ha generalizzato questo concetto: « La C., egli ha detto, è un esempio par- ticolare del fatto fondamentale del riconoscimento nella percezione. Noi riconosciamo: non sempli- cemente nel senso di paragonare un fattore natu- rale offerto dalla memoria con un fattore rivelato dalla sensazione immediata, bensì nel senso che il riconoscimento prende posto nel presente, senza alcun intervento della pura memoria » (The Concept of Nature, 1920, cap. VI; trad. ital., pag. 113). CONGRUISMO. È la dottrina controriformi- stica della grazia efficace, cioè adeguata al merito. CONNATURA (ingl. Connature). Sostantivo creato da Spencer per analogia con gli aggettivi « connaturato » o « connaturale ». Secondo Spencer (Psychology, II, $ 289) una delle tre idee (insieme con la coestensione e la coesistenza), implicita nel ragionamento quantitativo e precisamente quella della identità delle cose quanto alle loro specie; mentre la coestensione significa l’identità nella quantità di spazio occupata e la coesistenza l’iden- tità nel tempo di presentazione alla coscienza. CONNETTITVI (ingl. Connectives; franc. Con- nectifs). Nella logica contemporanea, si chiamano così i simboli impropri (o sincategorematici [v.])) che, combinati con uno o più costanti, formano o producono una nuova costante. Le costanti o forme unite dai C. si chiamano operandi. Un C. si chiama singolare, binario, ternario, ecc., a seconda del numero dei suoi operandi. I C. sono quelli espressi dalle parole e, 0, non, se... allora. Si adopera comunemente la giustapposizione degli operandi per denotare la congiunzione: così «‘p.qg’* significa « p e g*. Si adopera il segno v per de- notare la disgiunzione inclusiva; così « p v g» si- gnifica «p 09 o entrambi ». Si adopera il segno + per denotare la disgiunzione esclusiva; così «p + g » significa « p o g ma non entrambi». Si adopera il segno — per indicare la negazione: così « — p+ significa « non p». Per il C. se... allora, v. ConDI- ZIONALE, IMPLICAZIONE. Le notazioni citate sono le più comuni, ma non sono le sole. Per altri sistemi di simboli vedi le note al $ 05 della Introduction to Mathematical Logic, 1956, di CHURCH. CONNOTAZIONE (lat. Connotatio; inglese Connotation; franc. Connotation). L'aggettivo con- notativus compare nella logica della tarda Scolastica a proposito di una distinzione dei nomi in assoluti e connotativi. Secondo Ockham, sono assoluti i nomi che non significano qualche cosa principal- mente e qualche altra cosa secondariamente, per es., il nome « animale ». Sono invece connotativi i nomi che significano qualche cosa in linea primaria e qualche cosa in linea secondaria: per es., i nomi relativi, quelli che appartengono al genere della quantità e anche nomi come «uno», «bene», « vero », « intelletto », « potenza », ecc. (Summa Log., I, 10). Questa distinzione divenne abituale nella logica posteriore. Nell’età moderna la distinzione fu ripresa da James Mill nella sua Analisi dei feno- meni dello spirito umano (1829) che usava la parola «connotare » in ogni caso in cui il nome, che in- dica direttamente una cosa (la quale costituisce perciò il suo significato) include anche un riferi- mento a qualche altra cosa. L’uso della parola fu radicalmente mutato da Stuart Mill, il quale ado- però la parola per esprimere «il modo in cui un nome concreto generale serve a designare gli attri- buti che sono impliciti nel suo significato ». Con- seguentemente Mill distinse la C. dalla denotazione: «Ogni volta che i nomi dati agli oggetti apportano qualche informazione, cioè ogni volta che essi, propriamente, hanno un significato, il significato risiede non in ciò che essi denotano, ma in ciò che essi connotano. I soli nomi di oggetti che non con- notano niente sono i nomi propri; e questi, stretta- mente parlando, non hanno significato » (Logic, I, 2, $ 5). In questo senso i nomi degli attributi sono connotativi, perchè la parola « bianco » non denota tutti gli oggetti bianchi, ma connota l’attributo della bianchezza. Nomi connotativi sono anche « il primo imperatore di Roma » o « l’autore dell’Iliade +, ecc. Questo concetto di C. corrispondeva a quello che la Logica di Porto Reale aveva designato col termine di comprensione (v.). Alla coppia compren- sione-estensione della Logica di Porto Reale corri- sponde perciò la coppia C.-denorazione della Lo- gica di Stuart Mill e quella intensione-estensione (v.) della logica leibniziana e contemporanea. Qualche volta, tuttavia, è stato fatto il tentativo di distin- guere C. da comprensione, adottando entrambi i termini. Così J. N. Keynes (Forma! Logic, I, 2) e Goblot (Traité de logique, $ 72) dettero a «C.» il significato più ristretto di ciò che è compreso nella definizione convenzionale di un termine, e a « comprensione » il significato più ampio di com- prensione totale che includa tutte le determinazioni non escluse dalla definizione stessa. Questa distin- zione tuttavia non è stata seguita e il termine mo- derno di intensione comprende entrambi i signifi- cati proposti per comprensione e connotazione. CONOSCENZA (gr. visow; lat. Cognitio; ingl. Knowledge; franc. Connaissance; ted. Erkennt- niss), In generale, una tecnica per l’accertamento di un oggetto qualsiasi, o la disponibilità o il pos- sesso di una tecnica siffatta. Per tecnica di accer- tamento va intesa una qualsiasi procedura che renda possibile la descrizione, il calcolo o la pre- visione controllabile di un oggetto; e per oggetto va intesa qualsiasi entità, fatto, cosa, realtà o proprietà, che possa essere sottoposto a una tale procedura. Tecnica in questo senso è l’uso normaledi un organo di senso come la messa in opera di complicati strumenti di calcolo: entrambi questi procedimenti consentono infatti accertamenti con- trollabili. Non è da presumersi che tali accertamenti siano infallibili ed esaurienti: cioè che sussista una tecnica di accertamento tale che, una volta adope- rata nei confronti di una C. x, renda inutile il suo ulteriore impiego nei confronti della stessa C., senza che questa perda nulla della sua validità. La controllabilità delle procedure di accertamento, grossolane o raffinate che siano, significa la ripe- tibilità delle loro applicazioni, sicchè una C. « ac- certabile » o più semplicemente una «C.+ rimane tale solo finchè sussiste la possibilità dell’accer- tamento. Le tecniche di accertamento possono avere, tuttavia, i più diversi gradi di efficacia e possono, al limite, avere efficacia minima o nulla: in questo caso, decadono di diritto dal rango di conoscenze. « La C. di x» significa infatti una pro- cedura che è in grado di fornire qualche informa- zione controllabile intorno a x cioè che consenta di descriverlo, calcolarlo o prevederlo in certi li- miti. La disponibilità o il possesso di una tecnica conoscitiva designa la partecipazione personale a questa tecnica. «Io conosco x» significa (salvo limitazioni) che sono in grado di porre in opera una procedura che rende possibile la descrizione, il calcolo o la previsione di x. Il significato perso- nale o soggettivo di C. è perciò da ritenersi secon- dario e derivato: il significato primario è quello oggettivo e impersonale su esposto. Questo signi- ficato primario consente pure di distinguere age- volmente la credenza dalla C.: la credenza (v.) è l’impegno alla verità di una nozione qualsiasi, anche non accertabile; la C. è una procedura di accertamento o la partecipazione possibile ad una tale procedura. Come procedura di accertamento, ogni opera- zione conoscitiva è diretta ad un oggetto e ténde a instaurare con l’oggetto stesso un rapporto dal quale emerga una caratteristica effettiva di esso. Pertanto le interpretazioni della C. che sono state date nel corso della storia della filosofia si possono considerare come interpretazioni di questo rapporto e come tale ricondurre a due alternative fondamen- tali: 1° per la prima di esse, quel rapporto è una identità o simiglianza (intendendosi per simiglianza un’identità debole o parziale) e l'operazione cono- scitiva è una procedura di identificazione con l'oggetto o di riproduzione di esso; 2° per la se- conda alternativa, il rapporto conoscitivo è una presentazione dell’oggetto e l’operazione conosci- tiva una procedura di trascendenza. 1° La prima interpretazione è quella più co- munemente ricorrente nella filosofia occidentale. Essa si può a sua volta dividere in due fasi di- CONOSCENZA 157 verse: A) nella prima di esse, l’identità o la simi- glianza con l’oggetto viene intesa come identità o simiglianza degli elementi della C. con gli elementi dell’oggetto: per es., dei concetti o delle rappre- sentazioni con le cose; 8) nella seconda fase, invece, l’identità o la simiglianza viene ristretta all’ordine dei rispettivi elementi: nel qual caso l’operazione del conoscere consiste nel riprodurre, non già l’og- getto, ma i rapporti costitutivi dell’oggetto stesso cioè l’ordine dei suoi elementi. Nella prima fase la C. è considerata come un’immagine o ritratto del- l'oggetto; nella seconda fase, sta con l’oggetto nello stesso rapporto in cui una carta geografica sta col paesaggio che rappresenta. A) La prima fase costituisce la forma nella quale la dottrina della C. come identificazione è apparsa nel mondo antico. I presocratici la espres- sero col principio che « il simile conosce il simile », per cui Empedocle affermava che conosciamo la terra con la terra, l’acqua con l’acqua, ecc. (Fr. 105, Diels). Varianti di questo principio possono essere considerati sia l’affermazione di Eraclito « ciò che si muove conosce ciò che si muove » (ARIST., De an., I, 2, 405 a 27) sia quella di Anassagora secondo la quale «l’anima conosce il contrario col con- trario » (TEOFR., De sens., 27). Quest'ultima infatti sembra alludere più ad una condizione della C. — che presuppone la diversità, come dirà Aristo- tele (De an., II, 5, 417a 16) — che allo stesso atto conoscitivo, come ìndica la giustificazione che gli viene data: «il simile infatti non può subire l’azione del simile ». Ma furono Platone e Aristo- tele che stabilirono su solide basi questa interpre- tazione della conoscenza. L’incontro del simile col simile, l'omogeneità, sono i concetti di cui Platone si serve per spiegare i processi conoscitivi (7im., 45 c, 90c-d): conoscere significa rendere simile il pensante al pensato. Di conseguenza, i gradi di C. si modellano sui gradi dell'essere: non si può co- noscere con certezza cioè con « saldezza » ciò che non è saldo perchè la C. non fa che riprodurre l’oggetto; sicchè « ciò che assolutamente è, è asso- lutamente conoscibile, mentre ciò che non è in nessun modo, in nessun modo è conoscibile» (Rep., 477 a). In tal modo all'essere, Platone fece corrispondere la scienza, che è la C. vera; al non essere l’ignoranza e al divenire, che sta in mezzo tra l'essere e il non essere, l’opinione che sta in mezzo tra la C. e l’ignoranza. E distinse i seguenti gradi della C.: 1° la supposizione o congettura che ha per oggetto ombre ed immagini delle cose sensibili; 2° l’opinione creduta ma non verificata che ha per oggetto le cose naturali, gli esseri viventi e in generale il mondo sensibile; 3° la ragione scien- tifica che procede per via d’ipotesi ed ha per oggetto gli enti matematici; 4° l'intelligenza filosofica che procede dialetticamente ed ha per oggetto il mondo dell’essere (Zbid., VI, 509-10). Ognuno di questi gradi di C. è la copia esatta del suo oggetto ri- spettivo: sicchè non c’è dubbio che conoscere sia per Platone stabilire in ogni caso con l'oggetto un rapporto d’identità o che si avvicini quanto più possibile all’identità. In forma ancora più rigorosa questo punto di vista veniva realizzato da Aristo- tele. Secondo Aristotele, la C. in atto è identica con l’oggetto conosciuto: è cioè la stessa forma sen- sibile dell’oggetto, se si tratta di C. sensibile; è la stessa forma intelligibile (o sostanza) dell’oggetto se si tratta di C. intelligibile (De an., II, 5, 417 a). La facoltà sensibile e l’intelletto potenziale sono, s’intende, semplici possibilità di conoscere; ma quando queste possibilità si realizzano, per l’azione delle cose esterne la prima, per l’azione dell’intel- letto attivo la seconda, s’identificano con i rispettivi oggetti e, per es., l’udire un suono (sensazione in atto) s’identifica con il suono stesso come l’in- tendere una sostanza s’identifica con la sostanza stessa. Aristotele può affermare perciò in generale che «la scienza in atto è identica col suo oggetto » (De an., III, 7, 431 a 1). Questa dottrina aristotelica si può considerare come la forma tipica dell’interpretazione della C. come identità con l’oggetto. Tale interpretazione domina, con l’eccezione degli Stoici, il corso ulte- riore della filosofia greca. Per Epicuro il flusso dei simulacri (eidola) che si staccano dalle cose e si imprimono sull’anima serve appunto a garantire la simiglianza delle immagini con le cose (Ep. @ Erod., 51). E Plotino si avvale dello stesso concetto per chiarire la natura della conoscenza. La C. si ha quando la parte dell'anima con cui si conosce si unifica e fa tutt'uno con l'oggetto conosciuto. Se l’anima e quest’oggetto rimangono due, l’og- getto rimane esterno all’anima stessa e la cono- scenza di esso rimane inoperante. Solo l'unità dei due termini costituisce la conoscenza vera (Enn., III, 8, 6). Nella filosofia cristiana la stessa inter- pretazione prevale, ed è anzi il fondamento delle più caratteristiche speculazioni teologiche e antro- pologiche. Secondo S. Agostino, l’uomo può co- noscere Dio in quanto egli stesso è immagine di Dio. Memoria, intelligenza e volontà, nella loro unità e distinzione reciproca, riproducono nel- l’uomo la trinità divina di Essere, Verità e Amore (De Trin., X, 18). Questa nozione, pur variando nei particolari dominò l’intera teologia medievale e fu anche il fondamento dell’antropologia. Ma da essa derivava una conseguenza importante per la C. che l’uomo ha delle cose inferiori a Dio. Il riconoscimento dell’origine divina dei poteri umani (in quanto immagini dei poteri divini) rende i poteri umani relativamente indipendenti dagli altri oggetti conoscibili e accentua l’importanza del sog- getto conoscente. Per Aristotele, la facoltà sen- sibile e l’intelletto potenziale non sono che i loro stessi oggetti «in potenza»: non hanno nessuna indipendenza di fronte a questi oggetti. Ma S. Ago- stino afferma invece che «ogni C. (noritia) deriva insieme dal conoscente e dal conosciuto» (/bid., XIX, 12), mettendo così sullo stesso piano l’oggetto conosciuto e il soggetto conoscente come condi- zione della conoscenza. S. Tommaso, pur sanzio- nando esplicitamente il principio che ogni C. av- viene per assimilationem (Contra Gent., II, 77) o per unionem (In Sent., I, 3, 1) della cosa conosciuta e dell’oggetto conoscente, afferma che «l’oggetto conosciuto è nel conoscente secondo la natura del conoscente stesso » (De Ver., q. 2, a.1; S. Th., I, q. 83, a. 1); e così il peso del soggetto viene a bilan- ciare nel conoscere il peso dell’oggetto. Questo punto di vista porta a temperare la tesi aristotelica secondo la quale la C. in atto è l’oggetto stesso. S. Tommaso, commentando l’affermazione aristo- telica che « l’anima è tutte le cose » (De an., III, 8, 431 b 20) la attenua nel senso che l’anima non è le cose ma le specie delle cose. Ma la specie non è altro che la forma della cosa: C. è quindi astra- zione: astrazione della forma dalla materia indivi- duale, dell’universale dal particolare. La specie deli- mita così, per S. Tommaso, il confine dell'identità tra il conoscente e il conosciuto;ma il conoscere rimane identità. A sua volta, S. Bonaventura, pur rimanendo fedele al principio agostiniano di un lumen directivum che l’uomo attinge direttamente da Dio e da cui derivano certezza e verità, ammette che il materiale della C. è costituito da specie che sono immagini, similitudini 0 « quasi pitture » delle cose stesse (/n Sent., I, d. 17, a. 1, q. 4). Se l’ultima scola- stica segna il prevalere di una diversa interpreta- zione del conoscere (v. oltre), il Rinascimento con- serva in generale l’interpretazione della C. come identità o simiglianza. Cusano dice esplicitamente che l’intelletto non intende se non si assimila a ciò che deve intendere (De mente, 3; De lglobi, 1; De venatione sapientiae, 29) e Ficino dice che la C. è l’unione spirituale con qualche forma spirituale (Theol. Plat., III, 2). I naturalisti non si esprimono in modo diverso: Bruno riprende il principio presocratico che ogni simile si conosce col simile; e Campanella afferma « noi conosciamo ciò che è, perchè ci rendiamo simili ad esso » (Mer., I, 4, 1). Il pitagorismo dei fondatori della nuova scienza, Leonardo, Copernico, Keplero, Galilei, ha un presupposto analogo: il procedimento matema- tico della scienza si giustifica perchè la natura stessa ha struttura matematica: nel senso che, come Galilei dice, i caratteri in cui è scritto il libro della natura sono triangoli, cerchi, ecc. (Opere, VI, pag. 232). CONOSCENZA Nella filosofia moderna, la dottrina che il cono- scere è un’operazione di identificazione assume tre forme principali, a seconda che tale operazione si ritiene effettuata mediante: a) la creazione che il soggetto fa dell'oggetto; 5) la coscienza; c) il lin- guaggio. a) L’idealismo romantico e le sue diramazioni contemporanee hanno affermato la tesi che cono- scere significa porre, cioè produrre o creare, l’og- getto: tesi la quale consente di riconoscere nell’og- getto stesso la manifestazione o l’attività del soggetto. Questa tesi fu per la prima volta affer- mata da Fichte. « La rappresentazione in generale, egli disse, è inconfutabilmente un effetto del Non-io. Ma nell’Io non può esserci assolutamente nulla che sia un effetto; perchè l’Io è quel che esso si pone e non v’è nulla in lui che non sia posto da lui. Quindi quello stesso Non-io dev'essere un ef- fetto dell’Io, anzi dell'Io assoluto e così non ab- biamo un’azione sull’Io dal di fuori ma solo una azione dell’Io su se stesso» (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, D. Da questo punto di vista il Non-io, cioè l’oggetto, non è che l’Io stesso cioè il soggetto: l’identità con l’oggetto è così garan- tita dalla stessa definizione della conoscenza. La quale, ovviamente, è una definizione arbitraria che non ha effetto sulla riuscita o meno degli effettivi atti di C. e non serve perciò nè a dirigere nè a chiarire questi atti. Il principio affermato da Fichte fu tuttavia tra quelli che costituirono i pilastri del movimento romantico (v. ROMANTICISMO); e uno dei luoghi comuni più perniciosi e stucchevoli, quello del «potere creativo dello spirito », trova in esso la sua origine. Di esso Schelling non faceva che chiarire il significato quando affermava: « Nello stesso fatto del sapere — quando io so — l’ogget- tivo e il soggettivo sono così uniti che non si può dire a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo: sono entrambi contem- poranei e costituiscono un tutto unico » (System des transzendentalen Idealismus, Intr., $ 1). Il concetto del conoscere come processo di unificazione domina da un capo all’altro la filosofia di Hegel. La protago- nista di questa filosofia, l’Idea, è la coscienza che si realizza, gradualmente e necessariamente, come unità con l’oggetto. Dice Hegel: « L'Idea è in primo luogo uno degli estremi di un sillogismo in quanto è il concetto che ha come scopo innanzitutto se stesso come realtà soggettiva. L’altro estremo è il limite del soggettivo, il mondo oggettivo. I due estremi sono identici nell’essere l’Idea. L’unità loro è in primo luogo quella del concetto che nell’uno di essi è soltanto per sè, nell’altro soltanto in sè; in se- condo luogo, la realtà è astratta nell’uno, mentre nel-

l’altro è nella sua esteriorità completa. Questa unità viene ora posta per mezzo del conoscere » (Wissen- CONOSCENZA schaft der Logik, III, 3, cap. II; trad. ital., pag. 282). Il conoscere è così il processo che unifica il mondo soggettivo con il mondo oggettivo; o meglio che porta alla coscienza l’unità necessaria dei due. Tutte le forme dell’idealismo contemporaneo si attengono a questa dottrina. Croce la introduce chiamando «concreto» il concetto: per il qual carattere si dovrebbe escludere che esso sia « uni- versale e vuoto», « universale e inesistente» ed ammettere che esso comprende in sè « l'atto logico universale » e il « pensamento della realtà » che è poi la stessa realtà (Logica, 4° ediz., 1920, pag. 29). Gentile affermava: « Conoscere è identificare, su- perare l’alterità come tale » (Teoria generale dello Spirito, 2, $ 4). A sua volta Bradley, più critica- mente, considerava questa identificazione come un ideale-limite irrealizzabile in noi, ma realizzato nella Coscienza assoluta nella quale C. ed essere, verità e realtà coincidono (Appearance and Reality, pag. 181). 5) Lo spiritualismo moderno in tutte le sue manifestazioni considera il conoscere come un rap- porto interno della coscienza cioè come un rapporto della coscienza con se stessa. Questa interpreta- zione garantisce l’identità del conoscere con l’og- getto: giacchè l’oggetto, da questo punto di vista, non è che la coscienza stessa o almeno un suo prodotto o una sua manifestazione. Schopenhauer così esprimeva questa dottrina: « Nessuno può mai uscire da sè per identificarsi immediatamente con cose diverse da sè: tutto ciò di cui egli ha C. si- cura, quindi immediata, si trova dentro la sua coscienza » (Die Welt, II, cap. I). Coscienza, senso intimo, introspezione, intùito, intuizione, sono i termini che la filosofia moderna, a partire dal Romanticismo, adopera per indicare la C. carat- terizzata dall’identità con il suo oggetto, perciò privilegiata nella sua certezza. La considerazione di base è qui che, se il soggetto non può co- noscere ciò che è altro da sè, la sola C. vera e originaria è quella che esso ha di se stesso. Su questa base Maine de Biran vedeva nel « senso intimo » la sola C. possibile e ne interpretava le testimonianze come verità metafisiche (Essais sur les fondements de la psychologie, 1812). Altre volte, la coscienza, anche detta intùito o intuizione, è in- terpretata come la rivelazione che Dio fa all'uomo o di un suo attributo fondamentale (per es., del- l'essere, come afferma ROSMINI, Nuovo saggio, $ 473) o del suo stesso processo creativo, come fa Gioberti (Znrr. allo studio della fil., II, pag. 183). In modo analogo, l’intuizione di cui parla Bergson come « visione diretta dello spirito da parte dello spirito » (La Pensée et le Mouvant, pag. 37) è una procedura privilegiata di C., nella quale il termine oggettivo è identico con il soggettivo. E quando Husserl ha voluto chiarire il modo d’essere privi- legiato della coscienza, ha chiamato « percezione immanente » quella che la coscienza ha delle proprie esperienze vissute: perchè l’oggetto di essa appar- tiene alla stessa corrente di coscienza a cui appar- tiene la percezione (/deen, I, $ 38). La percezione immanente, cioè la coscienza è, su questa base, considerata da Husserl assoluta e necessaria: in essa «non vi è posto per discordanza, apparenza, possibilità di essere altra cosa. Essa è una sfera di assoluta posizione + (/bid., $ 46). La esemplifi- cazione fin qui data può bastare per questo punto di vista, che è molto diffuso nella filosofia contem- poranea ma, nonostante la varietà delle sue espres- sioni, altrettanto uniforme. c) Il positivismo logico ha paradossalmente trasportato nel linguaggio, in cui esso vede la vera e propria operazione conoscitiva, la dottrina del carattere identificatorio di questa operazione. Witt- genstein afferma che «la proposizione può essere vera o falsa solo in quanto è una imagine (Bild) della realtà » (Tractatus, 4.06). Che la proposizione sia un’imagine della realtà, Wittgenstein lo prova così: «Io infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata se capisco la proposizione. E capisco la proposizione senza che il suo senso mi venga spiegato » (/bid., 4.021). A prima vista, egli aggiunge, «non sembra che la proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta, sia una imagine della realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista una imagine della musica nè la nostra scrittura fo- netica (a lettere) sembra un’imagine del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si di- mostrano, anche nel senso ordinario del termine, come imagini di ciò che rappresentano» (/bid., 4.011). L’insistenza sulla nozione di imagine in- dica chiaramente che Wittgenstein condivide la vecchia interpretazione del conoscere come opera- zione di identificazione. Egli infatti dice: « Ci deveessere qualcosa di identico nell’imagine e nel-l’oggetto raffigurato affinchè quella possa essere l’imagine di questo » (/bid., 2.161). Ma questo qualcosa di identico è « la forma di raffigurazione » (Ibid., 2.17). E la forma di raffigurazione è «la possibilità che le cose stiano l’una rispetto all’altra come stanno tra loro gli elementi dell’imagine » (Ibid., 2.151). E questo sembra rinviare alla inter- pretazione 8) del rapporto identificatorio. B) La seconda fase della dottrina della C. come identificazione nasce con la filosofia moderna e precisamente con Cartesio. Il principio carte- siano che l’idea è il solo oggetto immediato della C. e che perciò l’esistenza dell’idea nel pensiero non dice nulla sull’esistenza dell’oggetto rappresentato, metteva ovviamente in crisi la dottrina del cono- scere come identificazione con l'oggetto: l’oggetto è infatti, in questo caso, chiaramente irraggiungi- bile. Cartesio aveva continuato a concepire l’idea come «quadro» o «imagine» della cosa (Méd., TIM); ma già in lui compare la tendenza (cfr. Re- gulae, V) a scorgere nella C., più che l'assimilazione o l’identità dell’idea coll’oggetto conosciuto, l’as- similazione e l’identità dell’ordine delle idee con l’ordine degli oggetti conosciuti. Malebranche, il quale ammette che l’uomo vede direttamente in Dio le idee delle cose e considera perciò fortemente problematica la realtà delle cose stesse, ammette tuttavia questa realtà come fondamento dell’ordine e della successione delle idee nell’uomo; ordine e successione non avrebbero senso, egli pensa, se non coincidessero con l’ordine e la successione delle cose cui le idee si riferiscono (Entretien sur la Métaphy- sique, I, 6-7). Spinoza che ammette tre generi di C. (la percezione sensibile e l’imaginazione; la ra- gione con le sue nozioni comuni e universali; la scienza intuitiva) ritiene che solo i due ultimi con- sentano di distinguere il vero dal falso perchè tolgono l’idea dal suo isolamento e la collegano con le altre idee, situandola nell’ordine necessario che è la stessa Sostanza divina (Er., II, 44). Locke che definisce la C. come « la percezione dell’accordo e del legame o del disaccordo e del contrasto delle idee tra di loro » (Saggio, IV, 1, 2) esige, affinchè essa sia reale, che « le idee rispondano ai loro ar- chetipi » (Zbid., IV, 4, 8) e perciò definisce la verità come «l’unione o separazione di segni, secondo che le cose significate da esse concordino o discor- dino tra di loro» (/bid., IV, 5, 2). Locke ritiene che questo riferimento ad oggetti reali non sia indispensabile alla C. matematica e a quella mo- rale, mentre lo è alla « C. reale » che ha per oggetto sostanze (/bid., IV, 4, 12). Per Leibniz, accanto alla C. @ priori, fondata sui princìpi costitutivi dell’intelletto c'è una C. rappresentativa la quale consiste nella simiglianza delle rappresentazioni con la cosa (Nouv. Ess., IV, 1, 1). Ma l’una e l’altra C. fanno dell'anima «uno specchio vivente, per- petuo dell’universo » perchè entrambe sono fon- date sul legame che tutte le cose create hanno tra loro sì che « ciascuna sostanza semplice ha rapporti che esprimono tutti gli altri » (Monad., 56). In tutte queste notazioni, sebbene non venga negato il ca- rattere di simiglianza o di imagine degli elementi conoscitivi, la C. viene intesa propriamente come identità con l’ordine oggettivo. L'oggetto di essa è propriamente quest'ordine e il conoscere è l’ope- razione che ténde a identificare o identificarsi con esso e non già con gli elementi singoli tra i quali intercede. A questo proposito la « rivoluzione co- pernicana » di Kant non consiste nell’innovare ra- dicalmente questo concetto di C., quanto nell’am- mettere che l’ordine oggettivo delle cose si modella CONOSCENZA sulle condizioni della C. e non viceversa. Le ca- tegorie sono infatti considerate da Kant come « concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni e perciò alia natura come insieme di tutti i feno- meni » (Crit. R. Pura, $ 26). I fenomeni non es- sendo « cose in se stesse » ma « rappresentazioni di cose » devono per essere tali esser pensati e così sottostare alle condizioni del pensiero che sono appunto le categorie. L’ordine oggettivo della na- tura non è quindi altro, secondo Kant, che l’ordine stesso dei procedimenti formali del conoscere in quanto quest'ordine si è incorporato in un con- tenuto oggettivo che è il materiale sensibile dell’in- tuizione. Da questo punto di vista il conoscere non è un’operazione di assimilazione o di identi- ficazione, ma di sintesi; e come tale va considerato sotto l’altra rubrica, della C. come trascendenza. Tutta questa fase della dottrina della C. come assimilazione, per cui l’oggetto dell’assimilazione è l'ordine, si può considerare come situata fra la prima e la seconda interpretazione principale del conoscere: cioè tra l’interpretazione del conoscere come assimilazione e l’interpretazione del cono- scere come trascendenza. 2° Per la seconda interpretazione fondamentale, la C. è un’operazione di trascendenza. Secondo questa dottrina, conoscere significa venire in pre- senza dell’oggetto, puntare su di esso 0, col termine preferito dalla filosofia contemporanea, trascendere verso di esso. La C. è allora l'operazione in virtù della quale l’oggetto stesso è presente: o presente per così dire in persona o presente in un segno che lo renda rintracciabile o descrivibile o prevedi- bile. Questa interpretazione non si fonda su alcuna assunzione di carattere assimilatorio o identificatorio: i procedimenti del conoscere non mirano, per essa, a convertirsi con l’oggetto stesso del conoscere. Mirano piuttosto a rendere presente questo oggetto come tale o a stabilire le condizioni che rendono possibile la sua presenza, cioè consentono di pre- vederla. La presenza dell’oggetto o la predizione di questa presenza, ecco la funzione effettiva della C., secondo questa interpretazione. Per la prima volta, tale interpretazione compare negli Stoici. Essi chiamavano evidenti le cose che «vengono di per se stesse alla nostra C.+ come, per es., l’esser giorno; e chiamavano « oscure » quelle che sfuggono solitamente alla C. umana. Tra queste ultime, distinguevano poi quelle oscure per natura, che non cadono mai sotto la nostra evidenza, e quelle oscure momentaneamente ma evidenti per natura (per es., la città di Atene a chi non vi risiede). Queste due ultime specie di cose si comprendono per mezzo di segni; mediante segni indicativi le cose oscure per natura (come, per es., il sudore si assume come segno degli invisibili pori) CONOSCENZA e mediante segni rammemorativi le cose evidenti per natura ma oscure momentaneamente (come il fumo è un segno del fuoco) (SESTO EMP., Adv. Dogm., II, 141; /pot. Pirr., II, 97-102). Sono riconoscibili in questa impostazione due tesi fondamentali, e cioè: 1° la C. evidente consiste nella presenza della cosa, per cui la cosa «si manifesta da sè» o «si comprende da sè » cioè si comprende come cosa, quindi come altro da chi la comprende; 2° la C. non evidente avviene per mezzo di segni che rin- Viano alla cosa stessa senza avere una qualsiasi identità o simiglianza con essa. Questa dottrina degli Stoici è rimasta per lunghi secoli inoperante, come una possibilità che la storia della filosofia ha trascurato. Comincia a riaffac- ciarsi soltanto nella Scolastica del ’300, coi pen- satori che criticano la dottrina della species come intermediaria della conoscenza. La species, come si è visto, è una tesi tipica della dottrina dell’assi- milazione: essa è infatti insieme l’atto della C. e l'atto dell’oggetto (come forma o sostanza di que- st’ultimo). Ma Duns Scoto aveva distinto una C. «che astrae dall’esistenza attuale della cosa » e che chiamava astrattiva, e una « C. della cosa in quanto esiste ed è presente nella sua esistenza attuale » che aveva chiamata inzuitiva (Op. Ox., II, d. 3, q. 9, n. 6). Ora la C. intuitiva (che è da un latoquella sensibile, dall’altro quella intellettuale che ha per oggetto la sostanza o natura comune, per es., la natura umana) non ha bisogno di specie perchè ad essa è direttamente presente la cosa in persona. Solo la C. astrattiva, cioè la C. intellettuale del-l'universale, ha bisogno di specie (/bid., I, d. 3, q. 7, n. 2). A questa dottrina fa riferimento la Scolastica del ’300. Durando di St.-Pourgains af- ferma che la specie è inutile perchè l’oggetto stesso è presente al senso, e, attraverso il senso, anche all'intelletto (Zr Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10); e che pertanto la C. universale non è che C. confusa, nel senso che chi ha la C. universale, per es., della rosa, conosce confusamente ciò che è intuito di- stintamente da chi vede la rosa che gli è presente (Ibid., IV, d. 49, q. 2, n. 8). Per Pietro Aureolo l'oggetto della C. è la stessa cosa esterna che as- sume, per opera dell’intelletto, un essere intenzio- nale od obiettivo che non è diverso dalla stessa realtà individuale della cosa (In Sent., I, d. 9, a. 1). Ockham a sua volta trasforma la teoria scotistica della C. intuitiva in una teoria dell’esperienza ed afferma l’immediata presenza della cosa alla C. in- tuitiva. «In nessuna C. intuitiva, nè sensibile nè intellettiva, egli dice, la cosa si costituisce in un essere intermedio tra la cosa stessa e l’atto di co- noscere; ma la cosa medesima immediatamente e senza intermediario tra sè e l’atto, è vista ed ap- presa » (In Sent., I, d. 27, q. 3, I). La C. intuitiva 11 — ABBAGNANO, Disionario di filosofia. perfetta, che ha per oggetto una realtà attuale o presente, è l’esperienza (/bid., II, q. 15, H); quella imperfetta, che concerne un oggetto passato, de- riva sempre da un’esperienza (/bid., IV, q. 12, Q). A sua volta, la C. astrattiva, che prescinde dalla realtà o irrealtà dell’oggetto deriva da quella in- tuitiva ed è una intentio o signum. Ockham ripro- duce così l’interpretazione degli Stoici: quando la realtà non è presente alla C. «in persona», si annuncia o si manifesta nel segno. La validità del segno concettuale, che a differenza di quello lin- guistico non è arbitrario o convenzionale ma na- turale, deriva dal fatto che esso è prodotto natu- ralmente, cioè causalmente, dall’oggetto stesso, sicchè la sua capacità di rappresentare l'oggetto non è altro che questa sua connessione causale con esso (Quodi., IV, q. 3). Ockham si avvale poi per illustrare la funzione logica del segno di quel concetto della suppositio che era stato elaborato dalla logica del ’200 (v. SEGNO; SUPPOSIZIONE). Nel sec. xv i capisaldi di questa dottrina venivano riprodotti da Hobbes: per il quale la sensazione, che è il fondamento di ogni C., è il manifestarsi della cosa attraverso il movimento da essa impresso all’organo di senso (Leviath., I, 1; De Corp., 25,82). Alla causalità della cosa esterna, cui questi filosofi attribuiscono la C., Berkeley sostituiva la causalità di Dio: la teoria che le cose conosciute sono segni mediante i quali Dio parla ai sensi o all’intelli- genza dell’uomo per istruirlo su ciò che deve fare (Principles of Knowledge, $ 108-09) è una trascrizione teologica di questa dottrina della conoscenza. Nel frattempo, con il cartesianesimo e specialmente con Locke, si era venuto formando il concetto della C. come operazione unificatrice: unificatrice di idee, cioè di stati che cadono dentro la coscienza, ma ilcui collegamento corrisponde o deve corrispondere a quello delie cose [v. 1° B)]. Eliminata da Berkeley la sostanza materiale e da Hume ogni specie di sostanza, il collegamento tra le idee veniva ad esaurire la funzione dell’attività conoscitiva. Così Hume ritiene che ogni operazione conoscitiva sia un'operazione di connessione fra le idee: operazione di connessione è il ragionamento per il quale si mostra il legame che le idee hanno tra loro, indipen- dentemente dalla loro esistenza reale; operazione di connessione tra le idee è la C. della realtà di fatto. Nel primo caso la connessione è certa perchè non dipende da nessuna condizione di fatto; nel secondo caso si fonda sulla relazione di causalità. Ma questa stessa relazione non ha altro fondamento che la ripetizione di una certa successione di eventi e l'abitudine che tale ripetizione determina nel- l’uomo (/ng. Conc. Underst., IV, 1). Questo concetto della C. come operazione di connessione o di collegamento, che non ha più niente a che fare con l’identificazione o l’assimila- zione con l'oggetto, è detta da Kant operazione di sintesi. La sintesi è in generale « l’atto di riunire diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità in una C.» (Crit. R. Pura, $ 10). Ma la sintesi conoscitiva non è solo, per Kant, una operazione di collegamento tra rappresentazioni: è anche un’operazione di collegamento con l’og- getto di queste rappresentazioni per il tramite del- l’intuizione. «Se una C. deve avere una realtà oggettiva, dice Kant, cioè riferirsi a un oggetto e avere in esso significato e senso, l’oggetto deve, in un modo qualsiasi, poter essere dato. Senza di questo, i concetti sono vuoti, e se anche con essi si pensa, in fatto questo pensiero non conosce nulla ma soltanto gioca con le rappresentazioni. Dare un oggetto, se questo a sua volta non deve essere opinato indirettamente ma rappresentato immediatamente nell’intuizione, non è altro che connettere la sua rappresentazione con l’esperienza (sia questa reale o possibile) » (Ibid, Analitica dei princìpi, cap. II, sez. ID. Pensare un oggetto e conoscere un oggetto non sono dunque la stessa cosa. «La C. comprende due punti: in primo luogo un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria) e in secondo luogo l’in- tuizione con cui esso è dato +» (/bid., $ 22). L’in- tuizione ha questo privilegio: che essa si riferisce immediatamente all’oggetto e che per mezzo di essa l'oggetto è dato (/bid., $ 1). Sicchè non c’è dubbio che l’operazione del conoscere ténda a rendere pre- sente l’oggetto nella sua realtà: un oggetto, s'intende, che è fenomeno, giacchè la « cosa in sè » è, per de- finizione, estranea a ogni rapporto conoscitivo. Senza questa limitazione relativistica, che a Kant, come a tutta la filosofia illuministica, era suggerita dall’impostazione cartesiano-lockiana della analisi della C., il concetto della C. come dell’operazione del riferirsi o del rapportarsi con l’oggetto e perciò pure del processo per cui l’oggetto si offre o si presenta in persona, diventa, nella filosofia con- temporanea, proprio della fenomenologia e delle correnti che ad essa fanno capo. « Ad ogni scienza, dice Husserl, corrisponde un campo oggettivo come dominio delle sue indagini e a tutte le sue C., cioè ai suoi corretti enunciati, corrispondono determi- nate intuizioni che ne costituiscono il fondamento di legittimità; in quanto in esse gli oggetti del campo si presentano in datità personale e, almeno par- zialmente, in datità originaria » (/Zdeen, I, $ 1). Così l’esperienza, che abbraccia tutta la C. naturale, è un'operazione intuitiva attraverso la quale unoggetto specifico, la cosa, è data nella sua realtà originaria. L’esperienza è in questo senso un atto fondante, non sostituibile da un semplice immagi- nare. Dall’altro lato, la C. geometrica, che non CONOSCENZA ricerca realtà ma possibilità ideali, ha come suo atto fondante la visione dell’essenza: tale visione, esattamente come la percezione empirica, rende at- tuale e presenta in persona un oggetto: che però non è la cosa dell’esperienza ma l’essenza (/bid., $ 8). Considerando la C. da un punto di vista più generale si può dire che «ogni specie di essere ha per essenza i suoi modi di darsi e quindi il suo metodo di C. » (/bid., $ 79); e la ricerca fenomeno- logica è, nel progetto di Husserl, l’analisi di questi modi d’essere come « modi di datità ». In modo ana- logo, per N. Hartmann la conoscenza è un processo di trascendenza che ha il suo termine nell’essere «in sé » (Metaphysik der Erkenntnis, 1921, 48 ediz., 1949, pag. 43 sgg.). In questa impostazione la contrapposi- zionetraartività e passività nellaconoscenza (contrap- posizione che, nata da Kant, era stata assunta come motivo polemico dal Romanticismo a cominciare da Fichte) ha perduto ogni significato. Non è più que- stione di distinguere nel conoscere l’aspetto attivo, che Kant chiamava « spontaneità intellettuale » dal- l'aspetto passivo che per Kant era quello della sen- sibilità. Non si tratta neppure di ridurre l’intera C. alla attività dell'io come ha fatto Fichte e con lui la intera filosofia romantica, che ha considerato come « infinita » cioè senza limiti e quindi creatrice questa attività e come tale l’ha esaltata. La prospettiva storica, che lo stesso Romanticismo ha fatto pre- valere, del contrasto fra la concezione « classica » cioè antica e medievale per la quale l’operazione del conoscere sarebbe dominata dall’oggetto, di fronte a cui l’oggetto è passivo; e la concezione moderna o romantica per la quale la C. sarebbe attività del soggetto e manifestazione del suo potere creatore, questa prospettiva stessa appare ora fitti- zia. Si tratta infatti di una prospettiva interna al Ro- manticismo e di un contrasto che esso ha teorizzato come motivo polemico. Nè la filosofia antica nè le moderne concezioni oggettivistiche pretendono stabilire o presuppongono la « passività » del sog- getto conoscente. Al soggetto conoscente appar- tiene certamente l'iniziativa del conoscere, anzi questa iniziativa definisce per l’appunto la sua soggettività. Ma questo non implica nè attività nè passività nel senso stabilito da Fichte. L'iniziativa del soggetto è invece diretta proprio a rendere presente o manifesto l’oggetto, a rendere evidente la realtà stessa, a far parlare i fatti. Ciò che si chiama, con termine abbreviativo, conoscere, è un insieme di operazioni, talora molto diverse tra loro, che, in campi diversi mirano a far emergere, nelle loro caratteristiche proprie, certi oggetti specifici. Da questo punto di vista lo stesso « problema della C. + come sl è venuto configurando nella seconda metà dell’800, sulla base dell’impostazione romantica o della polemica contro di essa, come problema CONOSCENZA dell’attività o della passività dello spirito o dei caratteri di quella sua «categoria eterna» che sa- rebbe l’attività teoretica, è un problema che si è dissolto sotto l’azione della fenomenologia da un lato e della filosofia della scienza e del pragma- tismo dall'altro lato. Nell’àmbito della fenomeno- logia, Heidegger parla infatti di un annullamento del problema della conoscenza. Il conoscere non può essere inteso come ciò per cui l’Esserci (cioè l’uomo) « va da un dentro a un fuori della sua sfera interiore, sfera in cui sarebbe in un primo tempo incapsulato: al contrario l’Esserci, conformemente al suo modo d'essere fondamentale è già sempre fuori, presso l’ente che gli viene incontro in un mondo già sempre scoperto » (Sein und Zeit, $ 13). Secondo Heidegger, il conoscere è un modo d’es- sere dell’essere-nel-mondo cioè del trascendere del soggetto verso il mondo. Esso non è mai soltanto un vedere o un contemplare. Dice Heidegger: «L'essere nel mondo, in quanto prendersi cura, è penetrato e stordito dal mondo di cui si prende cura » (/bid., $ 13). Il conoscere è in primo luogo la sospensione del prendersi cura cioè delle atti- vità comuni della vita di ogni giorno come il ma- nipolare, il commerciare, ecc. Questa sospensione rende possibile il semplice « osservare che è di volta in volta il soffermarsi presso un ente, il cui essere è caratterizzato dal fatto che è presente, che è qui». In questo fermarsi di ogni commercio e utilizzazione, si realizza la percezione della sem- plice presenza. Il percepire si concretizza nelle forme dell’interpellare e del discutere intorno a qualcosa in quanto qualcosa. Sul fondamento di questo interpretare in senso larghissimo, il perce- pire si fa un determinare. Il percepito o il determi- nato può essere espresso in proposizioni, nonchè ritenuto e conservato in quanto asserito. Questo ri- tenimento percettivo d’una asserzione intorno a... è una aniera di essere nel mondo e non può es- sere considerato come un procedimento in virtù del quale un soggetto riceverebbe immagini da qualche cosa, immagini che sarebbero di con- seguenza sperimentate come «interne» sì da far sorgere il problema della loro concordanza con la realtà «esterna » (/bid., $ 13). Il « problema della C. » e il « problema della realtà » (v. REALTÀ) come formulati dalla filosofia dell'’800 sono quindi eli- minati da Heidegger. Tutte le manifestazioni o i gradi del conoscere: l’osservare, il percepire, il determinare, l’interpretare, il discutere, il negare e l’asserire, presuppongono il rapporto dell’uomo con il mondo e sono possibili solo sulla base di questo rapporto. Questa convinzione è oggi condivisa da filosofi di provenienza diversa, per quanto venga spesso rivestita da terminologie differenti. Il fondamento che la suggerisce è sempre lo stesso: l’abban- dono del presupposto che gli « stati interni » (idee, rappresentazioni, ecc.) siano gli oggetti primari di conoscenza e che solo a partire da essi possano essere (se mai) inferiti oggetti di altra natura. La rinuncia a questo presupposto è, per es., esplicita nel pragmatismo di Dewey, per il quale la C. è semplicemente il risultato di un’operazione di ri- cerca o più precisamente è l’asserzione valida cui tale operazione mette capo. Da questo punto di vista, l’oggetto della C. non è un’entità esterna da raggiungere o da inferire ma è «quel gruppo di distinzioni o caratteristiche connesse che emerge come costituente definito di una situazione risolta ed è confermato nella continuità dell’indagine » (Logic, cap. XXV, II; trad. ital., pag. 666). Poichè frequentemente vengono usati, in una certa inda- gine, oggetti costituiti in indagini precedenti, questi ultimi sono talora intesi come oggetti esistenti o reali indipendentemente dall’indagine stessa. In realtà sono indipendenti dall’indagine in cui ora entrano, ma sono oggetti solo in virtù di un’altra in- dagine di cui sono il risultato. Eppure, questo sem- plice equivoco è, secondo Dewey, la base della con- cezione «rappresentativa» della conoscenza. «L'atto di riferirsi a un oggetto, che è un oggetto conosciutosolo in virtù di operazioni affatto indipendenti dal- l’atto stesso di riferimento, è considerato ai fini di una teoria della C. come costituente per se medesimun caso di C. rappresentativa » (Logic, pag. 667). Queste idee hanno agito e continuano ad agire potentemente nella filosofia contemporanea e sono alla base di quella dissoluzione del problema della C. che è una delle sue caratteristiche. La dissoluzione di questo problema si è operata in favore da un lato della logica, dall’altro della metodologia delle scienze. Quest'ultima specialmente è l’erede, nella filosofia contemporanea, di quanto rimane di va- lido in problemi che venivano solitamente trattati dalla teoria della conoscenza. Il tratto fondamentale che forma l’oggetto della metodologia delle scienze è oggi il carattere operativo e anticipatorio dei pro- cedimenti della scienza. Accenneremo qui soltanto ai primi riconoscimenti storici di questi caratteri rinviando la loro trattazione più dettagliata alla voce MeroDoLOGIA. Essi sono riconosciuti dalla scienza solo nella misura in cui si riconosce che lo scopo fondamentale di essa non è la descrizione ma la previsione. Questo fine aveva riconosciuto alla scienza già Francesco Bacone; e nella filo- sofia moderna esso viene riaffermato da Augusto Comte. Tuttavia solo più tardi gli scienziati stessi lo riconoscono ed assumono esplicitamente. Ciò cominciò a verificarsi quando Mach riprese la tesi che l’oggetto della C. è un gruppo di sensa- zioni. « Un colore, dice Mach, è un oggetto fisico fintanto che noi consideriamo, per es., la sua di- pendenza dalle fonti luminose (altri colori, calore, spazio, ecc.); ma se lo consideriamo nella sua di- pendenza dalla retina, esso è un oggetto psicologico, una sensazione. Non la sostanza, ma la direzione della ricerca è diversa nei due campi» (Analyse der Empfindungen, 1900; 9° ed. 1922, pag. 14). Da questo punto di vista non sono i corpi che gene- rano le sensazioni ma piuttosto i complessi di sensazioni che formano i corpi: questi infatti non sono che simboli per indicare tali complessi. Con questo sembrerebbe che Mach inclini verso una teoria rappresentativa della conoscenza. Ma in realtà, nella sua teoria del concetto, il carattere operativo della C. viene chiaramente riconosciuto. Il concetto scientifico è difatti, secondo Mach, un segno riassuntivo delle reazioni possibili dell’orga- nismo umano a un complesso di fatti. Una legge naturale è, per es., una restrizione delle possibilità di aspettazione cioè una determinazione della pre- visione (Erkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XXIII. Gli stessi concetti erano stati presentati da Hertz nei suoi Principi della meccanica (1894), pur senza l’abbandono totale della concezione pittorica della conoscenza. « Il più diretto e in un certo sensoil più importante problema che la nostra C. della natura deve renderci capace di risolvere, diceva Hertz, è l’anticipazione degli eventi futuri in modo che possiamo disporre le nostre faccende presenti in accordo con questa anticipazione. Come base per la soluzione di questo problema, noi facciamo uso della nostra C. degli eventi già accaduti, ot- tenuta attraverso l’osservazione causale e l’esperi- mento preordinato. Nell’effettuare così inferenze dal passato al futuro adottiamo costantemente il procedimento seguente: ci formiamo imagini o simboli degli oggetti esterni e la forma che diamo a tali simboli è che le necessarie conseguenze della immagine pensata sono sempre le immagini delle necessarie conseguenze nella natura delle cose rap- presentate » (Prinzipien der Mechanik, Intr.). Lo sviluppo ulteriore della scienza ha eliminato il residuo di concezione rappresentativa che ancora rimaneva nelle dottrine di Mach e di Hertz. Già nel 1930 uno dei fondatori della meccanica quan- tistica, Dirac, poteva affermare: «Il solo oggetto della fisica teorica è di calcolare risultati che pos- sono essere messi a confronto con l’esperimento ed è affatto inutile che sia data una descrizione sod- disfacente dell’intero sviluppo del fenomeno +» (7he Principles of Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). A questo punto la teoria della C. si è completa- mente risolta nella metodologia delle scienze. Questo significa che, mentre il problema della C. come problema di un oggetto « esterno » da raggiungere a partire da un qualche dato « interno » si è andato dissolvendo, si è proposto in sua vece il problema della validità delle procedure effettive dirette al- l’accertamento e al controllo degli oggetti nei campi diversi di indagine. CONOSCENZA DI SÈ. Il sapere obiettivo, cioè non immediato nè privilegiato, che l’uomo può acquisire intorno a se stesso. Il termine ha

quindi un significato diverso da autocoscienza (v.) che è la coscienza assoluta o infinita, e anche da coscienza (v.) che implica sempre un rapporto imme- diato e privilegiato dell’uomo con se stesso, perciò una C. diretta e infallibile, per quanto incomunica- bile, di sè. Come invito a una tale C. di sè (e non alla coscienza) Platone interpreta il socratico motto «Conosci te stesso +: nel Carmide difatti, esso è interpretato come invito al «saper di sapere +, cioè alla determinazione e all’inventario di ciò che si sa. « Nè noi stessi ci mettiamo a fare quello che non sappiamo, ma cerchiamo le persone competenti e ci affidiamo ad esse; nè permettiamo a quelli che dipendono da noi di far altro da quello che possono far bene e di cui abbiano scienza + (Carm., 171 c). Kant affermò che noi possiamo conoscere noi stessi solo allo stesso titolo in cui conosciamo le altre cose, cioè solo come fenomeni; difatti la C. di sè richiede, secondo Kant, come ogni altra specie di C., due condizioni e cioè: 1° un elemento unificatore a priori che in questo caso è l’io penso o appercezione pura (v.); 2° un molteplice empirico dato che è quello del senso interno (Crif. R. Pura, $ 24). Coloro che negano la realtà della coscienza riconoscono che la C. di sè non si diversifica per modalità e certezza dalla C. degli altri o delle altre cose (RyLE, Concept of Mind, cap. VI).

CONOSCENZA, TEORIA DELLA (inglese Epistemology, rar. Gnoseology; franc. Gnoséologie, rar. Épistémologie; ted. Erkenntnistheorie, rar. Gno- seologie). La teoria della C. è detta pure, in italiano, gnoseologia o, più raramente, epistemologia. In tedesco il termine Groseologie, coniato dal wolf- fiano Baumgarten ha avuto poca fortuna mentre il termine Erkenntnistheorie usato dal kantiano Reinhold (Versuch einer neuen Theorie des mensch- lichen Vorstellungsvermògens, 1789) fu comunemente accettato. In inglese il termine Epistemology fu intro- dotto da J. F. Ferrier (/nstitutes of Metaphysics, 1854) ed è il solo comunemente adoperato; Gnoseology è assai raro. In francese, si adopera comunemente Gno- séologie, più raramente Épistémologie. Tutti questi nomi hanno lo stesso significato: non indicano, come spesso ingenuamente si crede, una disciplina filosofica generale, come la logica o l’etica o l’este- tica, ma piuttosto la trattazione di un problema che nasce da un presupposto filosofico specifico cioè nell’àmbito di un determinato indirizzo filoso- fico. Tale indirizzo è quello dell’idealismo (nel senso 1°, v. IpeALISMO); e il problema la cui tratta- zione è il tema specifico della teoria della C. è quello della realtà delle cose o in generale del «mondo esterno ». La teoria della C. poggia su due presupposti: 1° che la C. sia una « categoria » dello spirito, una « forma » dell’attività umana o del «soggetto », che possa essere indagata in univer- sale e in astratto cioè prescindendo dai partico- lari procedimenti conoscitivi di cui l'uomo dispone fuori e dentro la scienza; 2° che l’oggetto im- mediato del conoscere sia, come aveva ritenuto Cartesio, soltanto l’idea o rappresentazione; e che l’idea sia un’entità mentale, esista cioè solo « dentro » la coscienza o il soggetto che la pensa. Si tratta quindi di vedere: 1° se a questa idea corrisponde una qualsiasi cosa o entità «esterna» cioè esi- stente « al di fuori » della coscienza; 2° se, nel caso che a tale domanda si risponda negativamente, ci sia una differenza, e quale, tra idee irreali o fantastiche e idee reali. Sono i problemi che aveva già dibattuto Berkeley, che sono ripresi da Fichte nella Dottrina della scienza (1794) e che costitui- scono il tema dominante di una ricca letteratura filosofica, specialmente tedesca, dalla seconda metà dell’800 ai primi decenni del ’900. Per la sua stessa origine e impostazione, la teoria della C. è ideali- stica. Anche le soluzioni cosiddette « realistiche » sono in realtà forme di idealismo in quanto le en- tità che esse riconoscono come « reali » sono, assai spesso, coscienze o contenuti di coscienze. La cosid- detta Scuola di Marburgo (Ermanno Cohen, 1842- 1918; Paolo Natorp, 1854-1924) identificava la teoria della C. con la logica e riduceva a tre le discipline filosofiche fondamentali: logica, etica, ed estetica. Il Problema della C. nella filosofia e nella scienza del- l’epoca moderna (4 voll., 1906-50) di Ernesto Cassirer (1874-1945) è la più importante opera dedicata al problema della C. in questo significato tradizionale. La teoria della C. ha perduto il suo primato e anche il suo significato dacchè si è cominciato a dubitare della validità di uno dei suoi presupposti: cioè che il dato primitivo della C. sia « interno » alla coscienza o al soggetto e che pertanto la co- scienza o il soggetto debbano saltar fuori di sè (il che è per principio impossibile) per afferrare l'oggetto. Di questo presupposto Kant, nella « Con- futazione dell’idealismo » aggiunta alla seconda edi- zione della Critica della Ragion Pura (1787) aveva già mostrato l'infondatezza. Gli analisti contem- poranei, rigettano anche il primo presupposto della teoria della C. e cioè che la C. sia una forma o categoria universale che possa essere indagata come tale: essi infatti assumono come oggetto d’inda- gine i procedimenti effettivi o il linguaggio della scienza, non già la «C.» in generale. Pertanto la teoria della C. è venuta a perdere il suo signi-ficato nella filosofia contemporanea ed è stata so- stituita da un’altra disciplina, la metodologia (v.), che è l’analisi delle condizioni e dei limiti di validità dei procedimenti di indagine e degli strumenti linguistici del sapere scientifico. CONSAPEVOLEZZA (ingl. Awareness). In generale, la possibilità di fare attenzione ai propri modi d'essere e alle proprie operazioni e di esprimerli col linguaggio. Tale possibilità è la sola base di fatto su cui è stata edificata la nozione filosofica di co- scienza. Nell’antichità Platone e Aristotele, che non ebbero il concetto di coscienza, conobbero e de- scrissero la C. (v. COSCIENZA). CONSEGUENTE (ingl. Consequent; francese Conséquent; ted. Konsequent). In Logica, il secondo termine di una conseguenza (v.). CONSEGUENZA (gr. dxo)ovdla; lat. Corse- quentia; ingl. Consequence; franc. Conséquence; ted. Konsequenz). Per quanto Aristotele si avvalga del verbo corrispondente a questo sostantivo per significare che la conclusione segue dalle premesse del sillogismo (v.), il termine stesso fu introdotto dagli Stoici per indicare la proposizione condizio- nale (v. ConpizionaLe). Il latino conseguentia fu introdotto da Boezio come sinonimo di « proposi- zione ipotetica » (condizionale). La C. può essere, secondo Boezio o accidentale come quando si dice «Quando il fuoco è caldo, il cielo è rotondo »; o naturale, come quando si dice « Quando c’è un uomo, c'è un animale» o «Se la Terra sarà dal lato opposto, ci sarà l’eclisse di Luna». In que- st’ultimo esempio, la C. poggia sulla « posizione dei termini » nel senso che l’essere la Terra all’op- posizione è la causa dell’eclissi di Luna (De Syllo- gismis Hypotheticis, P. L., 64°, 835 B). Abelardo riserva il termine C. alle connessioni necessarie che sono vere ab aeterno come « Se è uomo, è animale » (Dialectica, ed. De Rijk, 19707, pag. 160). Ockham distinse dalla C. intesa in questo senso, che egli chiamava formale e che esprime una connessione necessaria o intrinseca dalla C. materiale che con- nette estrinsecamente due proposizioni, come quando si dice « Un uomo corre, dunque Dio esiste », che è valida perchè il conseguente è necessario; o « Un uomo è un asino, quindi Dio non esiste», che è valida perchè l’antecedente è impossibile (Sum. Log., III, HI, 1). Il termine venne usato in significati simili o analoghi a questi nei trattati dei logici nei secoli successivi; ma la sua trattazione è stata spesso intrecciata (o confusa) con quella di proposizione ipotetica (v.) o di condizionale (v.). Nella logica contemporanea l’ha usato Carnap (Logical Syntax of Language, $ 14) per indicare una relazione più estesa di quella di derivabilità, della quale, in un secondo momento, l’ha considerato sinonimo (/n- troduction to Semantics, $ 37). Ma, come « condi- zionale », il termine è oggi confluito in quello di implicazione (v.).

CONSENSO UNIVERSALE (lat. Consensus gentium). Aristotele fa nella sua opera spesso ri- ferimento all’* opinione di tutti» come prova o controprova della verità; e nell’Etica Nicomachea (X, 2, 1172b 36) esplicitamente dice «Ciò a cui tutti consentono, noi diciamo che è così: giacchè ri- gettare una credenza siffatta significa rinunziare a ciò che è più degno di fede ». Gli Stoici a loro volta insistettero sul valore del C. universale: onde l’im- portanza che ebbero per loro le « nozioni comuni » appunto per il fatto che si formano ugualmente in tutti gli uomini, o naturalmente o per effetto del- l'educazione (Diog. L., VII, 51). Tuttavia solo gli Eclettici fecero del C. comune il criterio della ve- rità; e Cicerone esprimeva appunto il loro punto di vista quando affermava: «In ogni argomento, il C. di tutte le genti è da ritenersi come legge di natura » (Tuscu/., I, 13, 30). La filosofia moderna che prende le mosse da Cartesio ha inteso instau- rare una critica radicale del sapere comune ed ha perciò smesso di vedere, nel comune C. che sor- regge questo sapere, una garanzia o un valore di verità. Solo raramente pertanto essa fa appello al consensus gentium. Un appello ad esso, è tuttavia la scuola scozzese del Senso Comune che fa capo a Tommaso Reid (1710-96). Essa è soprattutto in polemica contro lo scetticismo di Hume, e per superarlo ricorre al C. universale che appoggerebbe le idee, criticate da Hume, di sostanza, causa, ecc. (Ricerca sullo spirito umano secondo i principi del senso comune, 1764) (v. Senso COMUNE). L'appello al consenso comune ha spesso costituito una prova del- l’esistenza di Dio (v. Dro, Prove DI). Dall'altro lato esso è servito anche da fondamento alla nozione di diritto naturale (v. Diritto). Ma questi e altri usi eventuali non modificano la sostanza della nozione,che è il tentativo di mettere al riparo dalla critica conoscenze o pregiudizi che si ritengono assoluta- mente validi ma di cui sarebbe sempre oltremodo difficile provare l'effettiva universalità. CONSEQUENTIS (FALLACIA). È la fa/- lacia (v.), consistente nel supporre indebitamente che una consequentia (v.) o implicazione sia recipro- cabile, il che normalmente non accade: «se da A segue 2, allora da 2 segue A». (ARISTOTELE, E/. Sof., 5, 167 b 1; Prerro Ispano, Summul. Log., 7. 58; ecc.). G. P. CONSERVAZIONE. V. Conato. CONSIGNIFICANTE (lat. Consignificans). Lo stesso che sincategorematico (v.). CONSPECIE (ingl. Conspecies). Termine ado- perato da Hamilton per indicare le specie coordi- nate dello stesso genere che sono differenti ma non CONSENSO UNIVERSALE contraddittorie e quindi costituiscono nozioni di- screte o disgiunte talvolta dette anche disparate (v.) (Lectures on Logic, I, pag. 209). CONSUETUDINE (ingl. Custom; franc. Cou- tume; ted. Gewohnheit). 1. Lo stesso che abitudine (v.). 2. Nel senso sociologico, qualsiasi atteggiamento o schema o progetto di comportamento che sia partecipato da più membri di un gruppo. In questo senso adoperava la parola Vico: « È un detto degno di considerazione quello di Dion Cassio: che la C. è simile al re e la legge al tiranno; che deesi inten- dere della consuetudine ragionevole e della legge non animata da ragion naturale » (Scienza Nuova, 1744, degnità, 104). Nel linguaggio contemporaneo si intendono per C. le usanze (folkways), le con- venzioni e i costumi (mores) che si differenziano tra di loro per la diversa intensità delle sanzioni che li rafforzano. CONSUSTANZIAZIONE (lat. Consubstan- tiatio; ingl. Consubstantiation; franc. Consubstantia- tion; ted. Konsubstantiation). L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nell’ammettere che la sostanza del pane e del vino rimane insieme con quella del corpo e del sangue di Cristo, come soggetto dei suoi accidenti. Tale dottrina, che fu sempre combattuta dalla Chiesa, fu difesa ai prin- cìpi del sec. xrv da Ockham in due scritti intitolati De Sacramento Altaris e De Corpore Christi e ve- niva accettata da Lutero. CONTEMPLATIVA, VITA (gr. Bewpnrwds Bloc; lat. Vira contemplativa; ingl. Theoretical life; franc. Vie théorétique; ted. Theoretisches Leben). L’ideale di una vita dedicata esclusivamente alla conoscenza. W. Jaeger (Genesi e ricorso dell’ideale filosofico della vita, 1928, in Aristotele, trad. ital., pag. 363 sgg.) ha sostenuto che l’attribuzione di una vita puramente C. ai filosofi presocratici mediante aneddoti e fatterelli (come quello di Ta- lete che camminando con gli occhi alle stelle cade nel pozzo mentre la servetta di Tracia ride di lui) è la proiezione nel passato del punto di vista pla- tonico-aristotelico che esaltò la vita C. al disopra di quella pratica e la riconobbe come sola degna del filosofo, e in generale dell’uomo. Si può dubi- tare dell’esattezza di questa tesi per ciò che con- cerne la filosofia platonica: che--difficilmente po- trebbe dirsi una filosofia contemplativa, avendo un dichiarato intento politico. Ma essa è certamente esatta per ciò che riguarda Aristotele (v. FILOSOFIA; SAPIENZA). Una conseguenza dell’ideale contem- plativo della vita fu il disprezzo per la banausia (v.), cioè per il lavoro manuale; un’altra conseguenza fu la riconosciuta superiorità delle scienze cosiddette teoretiche su quelle cosiddette pratiche e in generale dell’attività teoretica. « Quest’attività, dice Aristo- tele, è di per se stessa la più alta: giacchè l’intelli- CONTESTO genza è la cosa più alta che è in noi; e, fra le cose conoscibili, le più alte sono quelle di cui l’intelli- genza si occupa ». Pertanto la vita teoretica è una vita superiore all’umana. « L’uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto è possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c’è in lui di più alto: se pure ciò è poco di quantità, supera per potenza e valore tutte le altre cose» (Er. Nic., X, 7, 1177 b 31). Aristotele esplicitamente contrap- poneva nel capitolo citato dell’Erica la vita teo- retica e quella del politico e del guerriero che, tuttavia, secondo gli antichi, erano le più alte. Su questa nozione doveva imperniarsi l’intera filosofia post-aristotelica, dagli Epicurei ai Neo-platonici, intenta ad esaltare la figura del «saggio?, cioè appunto dell'uomo la cui vita si compendia o si esaurisce nella contemplazione. La filosofia medie- vale continua questa tradizione. Se il Misticismo (v.) vede nella vita C. il fine dell’uomo e nella via per arrivarci l’unica attività che abbia un valore, l’in- tera Scolastica ritiene, con S. Tommaso (S. 7h., II, 1, q. 3, a. 5), che la vita C. è non solo la beati- tudine ultima e perfetta che si otterrà nell’altra vita, ma anche la minore e imperfetta beatitudine che si può attingere in questa. Una delle caratteristiche dell’Umanesimo e del Rinascimento è la rottura di questa tradizione e il riconoscimento del valore della vita pratica o attiva, del lavoro e dell’attività mondana. E la Riforma, almeno su questo punto, coincide col Rinascimento. Bacone affermava, su questa linea, il carattere pratico e attivo della stessa conoscenza (scire est posse, Nov. org., I, 3) nel senso che essa è diretta a stabilire il dominio dell’uomo sulla natura. Le analisi degli Empiristi inglesi nel *6-700 mostravano la connessione tra la conoscenza e l’esperienza vissuta dell’uomo e, con Hume, la subordinazione della prima alla se- conda. Il "700, secolo dell’Illuminismo vede nella conoscenza essenzialmente uno strumento d’azione, un mezzo per agire sul mondo e per migliorarlo: l’ideale della vita C. sembra abbandonato. Esso tuttavia ritorna a prevalere nel Romanticismo; per il quale la conoscenza è il punto finale di arrivo; e la vita C. è perciò il culmine del processo co- smico, quello nel quale tale processo raggiunge, con la consapevolezza, la sua realtà ultima. Hegel chiudeva la sua Enciclopedia delle scienze filosofiche con la frase: « L’Idea, eterna in sè e per sè, si attua, si produce e gode se stessa eternamente, come Spi- rito assoluto »; e aggiungeva, come suggello alla sua opera, il passo di Aristotele (Mer., XI, 7) in cui si parla della vita divina come « pensiero del pensiero ». Questa rinascita dello spirito C., che si è manifestato in tutte le direzioni in cui il Roman- ticismo ha agito, ha trovato tuttavia, dalla metà dell’800 ad oggi, dure smentite. Marx ha contrap- posto alla filosofia C., la non-filosofia della prassi, impegnata a trasformare, più che a conoscere, la realtà stessa (Tesi su Feuerbach, 1845, $ 3, 11). Nietzsche ha insistito sul carattere di rinunzia e di indebolimento vitale della vita C. e del disinteresse teoretico (Die froeliche Wissenschaft, $ 345). Le filo- sofie dell’azione e il pragmatismo hanno insistito su la subordinazione della conoscenza stessa all’azione e alle sue esigenze. Infine l’esistenzialismo ha visto nelle stesse situazioni dette conoscitive, modi d’es- sere dell’uomo nel mondo, rendendo priva di senso la stessa distinzione tra vita C. e vita pratica. Il riconoscimento dell’illegittimità di questa distin- zione è forse il tratto più caratteristico della filo- sofia contemporanea. Da un lato infatti il conoscere, in tutti i suoi gradi e forme, implica la messa in opera di metodi, tecniche o strumenti che sono inerenti alla situazione umana nel mondo e pos- sono perciò dirsi di natura pratica. Dall'altro, la stessa vita C. non è che una delimitazione dei propri interessi alla sfera di certi problemi anzicchè a certi altri; ed è perciò un pratico, scelto e deliberato, indirizzo di vita. Da questo punto di vista, l’esal- tazione della vita teoretica appare piuttosto come una deformazione professionale del filosofo, che privilegia la propria attività come più alta fra tutte. CONTENUTO. V. COMPRENSIONE. CONTESTO (ingl. Context; franc. Contexte; ted. Kontext). L'insieme degli elementi che condi- zionano, in un modo qualsiasi, il significato di un enunciato. Il C. è definito nel modo seguente da Ogden e Richards: « Un C. è l’insieme di entità (cose od eventi) correlate in un certo modo; queste entità hanno ciascuna un carattere tale che altri insiemi di entità possono avere gli stessi caratteri ed essere connessi dalla stessa relazione; ricorrono quasi uniformemente » (The Meaning of Meaning, 108 ediz., 1952, pag. 58). Questa definizione sembra alquanto macchinosa ma è resa più chiara dalla spiegazione che segue: « Un C. /etterario è un gruppo di parole, incidenti, idee, ecc., che in una data oc- casione accompagna o circonda ciò che si dice che abbia un C., laddove un C. determinante è un gruppo di questa specie che non solo ricorre ma è tale che uno almeno dei suoi membri è de- terminato, dati gli altri » (/bid., pag. 58, n. 1). Da altri autori C. è chiamato Kinsieme delle presup- posizioni che rendono possibile afferrare il senso di un enunciato. Dice S. K. Langer: « Il nome di una persona, come tutti sappiamo, porta alla mente un certo numero di eventi nei quali essa figura. In altri termini, una parola mnemonica stabilisce un C. nel quale essa si presenta a noi; e in uno stato di innocenza noi la usiamo aspettandoci che sarà compresa con il suo C.» (Philosophy in a New Key, ed. Penguin Books, cap. V, pag. 110). In ogni caso, esso è l'insieme linguistico di cui l’enun- ciato fa parte e che condiziona (in modi e gradi che no essere diversissimi) il suo significato. CONTESTUALISMO (ingl. Contextualism). La corrente del pragmatismo che accentua la mo- bilità temporale degli eventi e li considera perciò in stretto rapporto con gli altri eventi che insieme appar- tengono allo stesso contesto. (Cfr. S. C. PEPPER, Aes- thetic Quality: A Contextualistic Theory of Beauty, New York, 1938; L.E. HAHN, A Contextualistic Theory of Perception, Berkeley and Los Angeles, 1942). CONTIGUITÀ, ASSOCIAZIONE PER (in- glese Association by Contiguity; franc. Association par contiguité; ted. Berùhrungs-Association). Una delle forme dell’associazione delle idee, note già ad Aristotele (De memoria, 2, 451 b 20) (v. Associa- ZIONE DELLE IDEE). CONTINGENTE (lat. Contingens; ingl. Con- tingent; franc. Contingent; ted. Kontingent). 1. Gli Scolastici latini tradussero con questo termine il termine aristotelico èvSey6pevov (De int., 12, 20 b 35). Boezio, al quale si deve la determinazione di buona parte della terminologia filosofica latina, già osservava che possibile e contingens significano la stessa cosa salvo forse per il fatto che non esiste il privativo di contingens, che dovrebbe essere incon- tingens, come invece esiste il privativo di possibile che è impossibile (De interpretatione, {II}, V; P. L., 64°, col. 582-83). Tuttavia nella tradizione scolastica, e soprattutto per influsso della filosofia araba, il ter- mine C. è venuto ad assumere un significato spe- cifico, diverso da ciò che si intende sotto possibile; e precisamente è venuto a significare ciò che pur essendo possibile «in sè», cioè nel suo concetto, può invece esser necessario rispetto ad altro, vale a dire a ciò che lo fa essere. Per es., un evento qualsiasi del mondo è C. nel senso che: 1° con- siderato di per sè, potrebbe verificarsi o non veri- ficarsi; 2° si verifica necessariamente per la sua causa. Da questo punto di vista, mentre il possibile, non solo non è necessario in sè, ma neppure è ne- cessariamente determinato ad essere, il C. è invece il possibile che può essere necessariamente deter- minato e perciò può essere necessario. La nozione di C. è pertanto ambigua e poco coerente: tuttavia l’uso di essa nella filosofia antica e moderna è abbastanza esteso. Questo uso è stato introdotto dal necessitarismo arabo e specialmente da Avi- cenna. « Se una cosa non è necessaria in rapporto a se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possi- bile in rapporto a se stessa ma necessaria in rapporto a una cosa diversa » (Mer., II, 1, 2). Ciò che è pos- sibile rimane sempre possibile in rapporto a se stesso, ma gli può accadere di essere in modo necessario in virtù di una cosa diversa da sè (/bid., II, 2, 3). In tal modo tutto ciò che è o esiste, da Dio all’in- fima cosa naturale, esiste necessariamente, secondo Avicenna. Ma mentre Dio e le realtà prime sono necessarie in sè, le cose finite sono necessarie « per altro », giacchè in se stesse sono possibili; e in questo senso sono contingenti. Questa nozione è rimasta sostanzialmente immutata in tutta la filosofia Sco- lastica e anche nella filosofia moderna che però si avvale di essa molto più limitatamente. S. Tom- maso che definisce il C. come possibile, vale a dire come «ciò che può essere o non essere + riconosce che già in esso si possono trovare elementi di ne- cessità (S. 74., I, q. 86, a. 3). Duns Scoto riproduce la nozione di Avicenna del C. difendendola dalla accusa di contraddizione (Op. Ox., 1, d. 8, q. 5, a. 2, n. 7). L’intera nozione ricompare con tutta la chiarezza desiderabile nella dottrina di Spinoza: secondo il quale una cosa non può dirsi C. se non per un difetto della nostra conoscenza (Er., I, 33, scol. 1) giacchè in realtà non c’è nulla di C. e ogni cosa è determinata dalla natura divina ad essere e ad operare in un certo modo (/bid., I, 29). La Scolastica parlava anche di «verità C.+ che sono quelle che si riferiscono a eventi C. (per es., OckHam, In Sent., prol., q. 1, Z). Di tali verità C. Leibniz diceva che esse si distinguono dalle verità necessarie come i numeri incommensurabili dai com- mensurabili: cioè nel senso che come nei numeri incommensurabili si può ottenere la loro risolu- zione alla comune misura, così nelle verità necessarie si può ottenere la loro riduzione a verità identiche. La cosa invece richiederebbe un progresso infinito per le verità C. (o di fatto), progresso che può essere solo effettuato da Dio (Op., ed. Erdmann, pag. 83). In un senso analogo si parla oggi di « contingenza logica +, nel senso che le proposizioni empiriche non possono essere certificate vere o false da un qualsiasi carattere logico di esse: così fa C. I. Lewis (Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 340). Nello stesso senso usa il termine Carnap (Meaning and Necessity, $ 39) (v. MODALITÀ; POSSIBILE). 2. Nella filosofia contemporanea, soprattutto in quella francese a partire dall'opera di Boutroux, La contingenza delle leggi di natura (1874), il ter- mine C. è diventato sinonimo di « non-determinato » cioè di libero e imprevedibile; e designa special- mente ciò che di libero in questo senso si trova o agisce nel mondo naturale. In questo senso

adopera il termine Bergson. «La parte della con- tingenza, egli dice, è grande nell’evoluzione. C., il più delle volte, sono le forme adottate, o piuttosto inventate. C., relativamente ad ostacoli incontrati in tal luogo e in tal momento, la dissociazione della tendenza primordiale in diverse tendenze comple- mentari che producono linee divergenti di evolu- zione. C. gli arresti e i ritorni » (Év. créatr., 115 edi- zione, 1911, pag. 277). In questo senso contingenza si identifica con libertà ed entrambe si oppongono a necessità; mentre la possibilità è secondo Bergson soltanto l’immagine che la realtà, nella sua auto- creazione C. cioè «imprevedibile e nuova, proietta di se stessa nel suo proprio passato » (La Pensée et le Mouvant, pag. 128). L'uso del termine « con- tingenza » in questo significato caratterizza le cor- renti del cosiddetto indererminismo (v.) contempo- raneo: le dottrine filosofiche che interpretano la natura in termini di libertà e di finalità cioè in ter- mini di spirito. A questo significato si riconduce anche l’uso che del termine ha fatto Sartre, inten- dendo per contingenza il fatto che la libertà « non può non esistere ». La contingenza è perciò la li- bertà nel rapporto dell’uomo con il mondo (L’érre et le néant, pag. 567). CONTINGENTISMO. La parola non ha rife- rimento al significato tradizionale o classico di con- tingenza, ma al significato contemporaneo di questo termine in quanto è sinonimo di libertà (in senso infi- nito o incondizionato). Pertanto il termine si riferisce soprattutto alle varie forme dello spiritualismo (v.) che affermano la presenza e l’azione, nello stesso mondo della natura, di un Principio libero (divino). CONTINGENZA (lat. Contingentia). Una delle prove dell’esistenza di Dio è quella detta a con- tingentia mundi (v. Dio, PROVE DI). CONTINUO (gr. ouveyés; lat. Continuum; ingl. Continuous; franc. Continu; ted. Sterig). La nozione di C. è di natura schiettamente matema- tica, per quanto i filosofi abbiano contribuito ad elaborarla e se ne siano spesso serviti. La prima definizione esplicita del C. è quella data da Ari- stotele (che forse riprende un concetto di Anassa- gora, Fr. 3, Diels) secondo il quale esso è «ciò che è divisibile in parti sempre divisibili » (Fis., VI, 2, 232b 24) e che perciò non può risultare di elementi indivisibili, cioè di atomi (/bid., VI, 1, 231 a 24). Con questo concetto si alterna però in Aristotele l’altro, più intuitivo e meno mate- matico, secondo il quale il C. è una specie del «contiguo », nel senso che sono continue le cose i cui limiti si toccano e dal cui contatto scaturisce una certa unità (Mer., XI, 12, 1069 a 5 sgg.). Quest’ul- timo concetto si trovava in Parmenide (Fr., 8, 24, Diels): e non viene utilizzato dal pensiero moderno. L'unico a richiamarlo è Peirce che esplicitamente si rifà ad Aristotele dichiarando non del tutto soddisfa- cente la definizione del C. data da Cantor (Chance, Love and Logic, II, 3; Coll. Pap. 4, 121 sgg.). La prima definizione è quella che ha dominato la tradizione della matematica sino a Leibniz. Leibniz ha sottolineato per primo l’importanza filosofica della «legge di continuità » e ha di nuovo definito il continuo. Secondo la legge di continuità, il ri- poso può essere considerato come un movimento che svanisce dopo essere stato continuamente di- minuito. Analogamente l’eguaglianza come una ineguaglianza che svanisce, come accadrebbe nel caso di una diminuzione continua del maggiore di due corpi disuguali, di cui il minore conservasse la sua grandezza (7héod., II, $ 348). La legge di continuità consiglia inoltre di ammettere infiniti gradi nella costituzione e nell’azione delle sostanze che compongono l’universo. « Ciascuna di queste sostanze, dice Leibniz, contiene nella sua natura una legge di continuità della serie delle sue ope- razioni » (Op., ed. Erdmann, pag. 107). La legge di continuità vale ugualmente nel mondo delle rappresentazioni, nel quale « le percezioni notevoli vengono per gradi da quelle che sono troppo pic- cole per essere notate» (Nouv. Ess., Introduzione). Quanto al C. stesso, Leibniz lo definì nel senso che in esso «la differenza di due casi può essere diminuita al di sotto di ogni grandezza data» (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pa- gina 129). È questo il concetto a cui si rifà Kant: «La proprietà delle quantità, per la quale in esse non c’è parte che sia la più piccola possibile (cioè una parte semplice) si dice la continuità di esse » (Crit. R. Pura, Anticipazioni della percezio- ne). Nella matematica moderna due tappe impor- tanti nella definizione del C. sono quelle costituite dai postulati di Dedekind (Conrinuità e numeri razionali, 1872) e di Cantor (nei Mathematische Annalen, dal 1878 al 1883). Il postulato di De- dekind suona così: « Divisi tutti i punti di una retta in due classi, in modo tale che ogni punto della prima preceda ogni punto della seconda, esiste un punto e un punto solo che segna la divi- sione di tutti i punti in due classi e della retta in due segmenti». Il postulato di Cantor è invece più ristretto: « Date su una retta r due classi C e C’ di punti tali che: 1° ogni punto di C sia a sinistra di ogni punto di C‘; 2° preso un qualsiasi segmento y, si possa trovare un segmento minore di y di cui un estremo sia un punto di C e l’altro un punto di C°; esiste allora sulla retta r un punto di separazione delle due classi ». Russell ha espresso lo stesso concetto nei riguardi del movimento, af- fermando: « L'intervallo tra due istanti qualsiasi o due posizioni qualsiasi è sempre finito, ma la continuità del movimento nasce dal fatto che, per quanto vicine siano le due posizioni considerate, o i due istanti, c’è un’infinità di posizioni ancora | più vicine, occupate a istanti che sono egualmente ' più vicini » (Scientific Method in Philosophy, 1926, V; trad. franc., pag. 111). Queste definizioni del C. hanno tuttavia un carattere paradossale in quanto sembra che vogliano far nascere il C. dall’imagine stessa del discontinuo, cioè da un insieme di istanti o di punti o di posizioni. Negli ultimi tempi esso ha fatto nascere accese discussioni tra i matematici, alcuni dei quali sono propensi a ritornare ad una nozione « intuitiva» del C., assunto talora come concetto originario. Il Brouwer (1954), vede il C. in una « approssimazione che procede più o meno liberamente » (cfr. From Frege to Gòdel, ed. by J. van Heijenoort, 1967, pag. 342). L’uso filosofico della nozione di C. ha tuttavia poco o nulla a che fare con queste speculazioni matematiche. Tra i pensatori moderni, uno di quelli che più utilizza la nozione è Mach che la chiarisce nel modo seguente: «Se un intelletto investigante si è abituato a collegare nel pensiero due fatti, a e b, cercherà, per quanto è possibile, di tener ferma questa abitudine anche in circostanze al- quanto diverse: in generale ogni volta che si pre- senti a, verrà pensato anche 5. Questo principio che ha la sua radice nella tendenza all’economia e che si presenta particolarmente chiaro ai grandi pensatori, noi lo chiamiamo principio della conti- nuità » (Analyse der Empfindungen, IV, $ 1; trad. ital., pag. 71). Come si vede, la continuità è qui ricon- dotta al principio humiano dell’abitudine, non chia- rita concettualmente. Dall’altro lato Dewey, che considera la legge di continuità come « il postulato fondamentale di una teoria naturalistica della lo- gica » determina la nozione di continuità più ne- gativamente e per immagini che in modo rigoroso. Dice infatti che essa «significa comunque esclu- sione della completa rottura da un lato e della sem- plice ripetizione o identità dall’altro; nega la riducibilità del ‘più alto’ al ‘più basso”, come nega le separazioni e gli spacchi netti. Il crescere e svilupparsi di una natura vivente dal seme alla maturità, illustra bene il significato della parola » (Logic., cap. Il; trad. ital., pag. 59). Qui, come si vede, oltre al ricorso all’imagine dell’organismo vivente, non ci sono che due determinazioni nega- tive, cioè l’esclusione: 1° della divisione; 2° del- l’unità, tra le parti del continuo. In senso ancora più impreciso la parola è usata quando si parla della continuità dell’evoluzione, dello sviluppo, del progresso, o della storia. A proposito di quest’ul- tima, in particolare, la continuità sembra assunta, il più delle volte, a significare la permanenza di certi elementi o motivi o fattori, e quindi una certa unità o somiglianza tra le varie fasi di essa. La «continuità della storia della filosofia », per es., viene intesa, il più delle volte, come la permanenza, attraverso di essa, di certe nozioni, o direttive, o princìpi generali. Dall'altro lato, se si riflette che quello che Dewey chiama «il postulato naturali- stico della continuità » tra biologia e logica è l’azione condizionatrice che le situazioni biologiche eser- citano sull’impostazione e lo sviluppo delle inda- gini, si vede sùbito come la nozione di permanenza non sia adatta a definire un concetto sufficiente- mente generalizzato della continuità. Sotto questo rispetto, e limitatamente all’uso che la parola ha nel linguaggio filosofico e comune odierno, si può dire che in generale sì parla di continuità tra due cose ogni qualvolta è possibile riconoscere tra queste due cose una relazione qualsiasi. Pertanto relazioni di causalità o di condizionamento, di contiguità o di so- miglianza possono essere assunte come segni o prove o manifestazioni di continuità; come dall’altro lato possono essere assunte come tali anche relazioni di opposizione o di contrarietà o di contrasto o di lotta, dal momento che neanche tali forme di relazione implicano un taglio netto tra le cose che oppongono, e cioè la mancanza di una relazione qualsiasi. CONTRADDIZIONE (gr. &vripaas; lat. Con- tradictio; ingl. Contradiction; franc. Contradiction; ted. Widerspruch). Aristotele (Anal. Post., I, 2, 72 a 12-14) la definisce come un" opposizione che di per sè esclude una via di mezzo +»; in Anal. Pr., I, 5, 27a 29, detto rapporto è precisato come rapporto tra proposizione universale negativa e particolare affermativa, universale affermativa e par- ticolare negativa. Queste infatti (40, E/) sono le coppie delle propositiones contradictoriae nel cosid- detto «quadrato di Psello » dei testi medievali di Lo- gica. Essenziale alle coppie di contraddittorie è che non possono essere nè entrambe vere ( principio di C.) nè entrambe false (principio di terzo escluso). G.P. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI (gr. dElwpa tic dviiphoewe; lat. Principium con- tradictionis; ingl. Principle of Contradiction; francese Principe de contradiction; ted. Satz der Wider- spruchs). Nato come principio ontologico, il prin- cipio di C. passò nel campo della logica solo nel sec. XVIII, per divenire, in questo stesso secolo, una delle « leggi fondamentali del pensiero ». Come principio ontologico, esso fu esplicitamente ammesso per la prima volta da Aristotele che lo assunse a fondamento della « filosofia prima » o metafisica. Secondo Aristotele, tale principio serve in primo luogo a delimitare il dominio proprio di questa scienza, permettendo di astrarre il suo oggetto, l’essere come tale, da tutte le determinazioni con le quali è congiunto, in modo analogo a quello in cui gli assiomi della matematica e della fisica consentono di astrarre i loro oggetti (rispettiva- mente la quantità e il movimento) dalle altre de- terminazioni con cui vanno congiunti (Mer., IV, 3). Aristotele tuttavia dà costantemente del principio una duplice formulazione. Una è quella strettamente ‘ontologica che egli esprime dicendo: « Niente si- multaneamente può essere e non essere + (/bid., III, 2, 996 b 30; IV, 2, 1005 b 24); l’altro è quello CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI che si potrebbe chiamare logica e che si esprime dicendo: « È impossibile per la stessa cosa e nello stesso tempo inerire e non inerire ad una stessa cosa nello stesso rispetto » (/bid., IV, 2, 1005 b 20); oppure dicendo: « È necessario che ogni asserzione sia o affermativa o negativa » (/bid., III, 2, 996 b 29). Aristotele ritiene che il principio sia indimo- strabile, ma che esso possa essere difeso polemi- camente contro i suoi negatori, tra i quali considera i Megarici, i Cinici, i Sofisti e gli Eraclitei, mo- strando che, se essi affermano qualcosa di deter- minato, negano la negazione di questo qualcosa e così si avvalgono del principio (/bid., IV, 4). Il valore del principio pertanto è da Aristotele stabilito nei confronti di ciò che è determinato (réde ti). « Se la verità, dice Aristotele, ha un signi- ficato, necessariamente chi dice uomo dice animale bipede: giacchè questo significa uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che l’uomo non sia animale bipede: la necessità significa in- fatti proprio questo, che è impossibile che l’essere non sia » (/bid., IV, 4, 1006 b 28). Così il principio di C., riferendosi all’essere determinato, consente di astrarre da questo essere ciò che c’è di necessario: la sostanza o l'essenza sostanziale: nell’esempio dell’uomo, l’animale bipede che è appunto la so- stanza o l’essenza sostanziale o la definizione del- l’uomo stesso. In tal modo, il principio di C. porta a fare della filosofia prima, che è la scienza del- l'essere in quanto essere, la teoria della sostanza Dice Aristotele: « Ciò che da tempo e anche ora, e sempre abbiamo cercato, ciò che sempre sarà un problema per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che cosa è la sostanza?» (/bid., VII, 1, 1028 b 2). Il significato che il principio di C. ha nella metafisica di Aristotele è perciò realizzato nelle nozioni fondamentali di questa metafisica, che sono quelle di sostanza (v.), di essenza neces- saria (v. ESssENZA) e di causa (v. CAUSALITÀ). Ma il principio possiede anche, per lo stesso Aristotele una portata logica. Aristotele dice che, per quanto il principio di C. non sia assunto espressamente da nessuna dimostrazione, esso è a fondamento del sillogismo in quanto, sia che si ponga la no- zione di uomo, sia che si ponga la nozione di non-uomo, purchè si ammetta che l'uomo è animale, risulterà sempre vero affermare che Callia è animale e non non-animale; e afferma pure che esso è a fon- damento della riduzione all’assurdo (An. Post., I, 1I, 77 a 10). La struttura sillogistica è così sorretta, sia nella sua forma positiva sia in quella negativa, dal principio di C.: il che non fa meraviglia, dato che per Aristotele la struttura sillogistica riproduce la struttura sostanziale dell’essere (v. SILLOGISMO). Nella forma datagli da Aristotele, il principio è rimasto lungamente a fondamento della metafisica classica. Le discussioni del sec. xi intorno al modo di esprimerlo più semplice ed economico portarono alla formulazione della massima che in séguito si chiamò principio di identità (v.) ma non scossero la supremazia del principio di contraddi- zione. Cartesio (Princ. Philos., I, 49) e Locke (Saggio, I, 1, 4) ancora lo ammettevano come ve- rità indubitabile; ma già ignoravano completamente il suo valore ontologico, che per Aristotele era primario. Ma colui che fa passare definitivamente il principio di C. nella sfera della logica è Leibniz: che lo considerò esclusivamente come il fondamento delle verità di ragione, mentre riteneva che le ve- rità di fatto fossero fondate sul principio di ragion sufficiente (Monad., $$ 31-32). Questi due princìpi erano, secondo Leibniz, a fondamento di tutte le verità e quindi di tutto l’edificio della conoscenza umana (Nouv. Ess., IV, 2, 1). Wolff ancora inclu- deva il principio di C. nell’ontologia; ma lo con- siderava tuttavia come un principio naturale della mente umana (Onr., 8 27). E Baumgarten trovava per esso la formula classica: A + non-A = O e lo chiamava il principio assolutamente primo, ponen- dolo a capo della sua ontologia (Mer., 8 7). Kant preferiva esprimerlo, in uno dei suoi primi scritti, con la formula: «Ciò di cui l’opposto è falso, è vero » (Principiorum Primorum Cognitionis Meta- physicae Nova Dilucidatio, 1755, I, prop. II, scol.). Più tardi nella Critica della Ragion Pura lo espri- meva dicendo: « A_ nessuna cosa conviene un pre- dicato che la contraddica » e lo considerava come « principio generale pienamente sufficiente di ogni conoscenza analitica », eliminando tuttavia da esso la determinazione temporale che era contenuta nel- l’espressione aristotelica; perchè, egli diceva, «in quanto principio semplicemente logico non deve limitare le sue espressioni ai rapporti di tempo » (Crit. R. Pura, Analitica dei Princìpi, cap. II, sez. I). Questo era sostanzialmente lo stesso punto di vista di Leibniz. Dopo di Kant il principio di C. fu con- siderato come una delle «leggi fondamentali del pensiero» (KRuG, Logik, 1832, pag. 45; FRIES, System der Logik, 1837, pag. 121; HAMILTON, Lectures on Logic, I, pag. 72): una qualifica onorifica, con la quale i principi logici sono stati a lungo contrasse- gnati e che ancora viene talvolta adoperata. Un ritorno all’uso metafisico del principio di C. fu dovuto a Fichte e a Hegel. Si trattava, ora, della metafisica soggettivistica dell’idealismo, per la quale nulla c’è fuori dell’Autocoscienza razionale. Fichte chiamava il principio di C. « principio dell’opposi- zione »; lo esprimeva con la formula «—P A non= A+ (che si legge « non-A non uguale ad 4 ») e riteneva che esprimesse l’atto con cui l’Io oppone a se stesso un non-Io cioè una realtà o una cosa (Wissen- schaftslehre, 1794, $ 2). Hegel considerava il prin- cipio di C., con quello di identità, «la legge del- l’intelletto astratto » (Enc., $ 115). E contrapponeva ad esso la legge della «ragione speculativa » che sarebbe «Ogni cosa si contraddice in se stessa ». Questa legge sarebbe la radice di ogni movimento e di ogni vita e il fondamento stesso della dialet- tica (Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, I, pag. 545-46). Ma dall’altro lato la dialettica (v.) è l'identità degli opposti: sicchè la C., se è la radice della dialettica (cioè del movimento e della vita) non è tutta la dialettica la quale anzi procede con- tinuamente conciliando e risolvendo le C. e sta- bilendo al di là di esse ciò che Hegel stesso chiama identità o unità (cfr. Wissenschaft der Logik, I, pag. 100). Nello stesso senso Gentile parlava del principio di identità come della « legge fondamen- tale del pensiero» nel campo della «logica del- l’astratto » (Sistema di logica, 1922, II, ,$89; mentre parlava della unità dello Spirito con se stesso o con la realtà. Queste e simili critiche del principio di C. (come degli altri princìpi logici) sono inconcludenti. Da un lato esse mirano a un uso assai più dogmatico e metafisico dei princìpi stessi, di quello che criticano: giacchè tendono ad avvalersi di essi per spiegare «il movimento e la vita » della realtà intera. Dall'altro, esse prendono a bersaglio mulini a vento; giacchè quando Leibniz e Kant affermavano che il principio di C. è il fonda- mento delle verità identiche o analitiche non intende- vano dire che esso è il fondamento di verità del ge- nere « un pianeta è un pianeta », « il magnetismo è il magnetismo », « lo spirito è lo spirito », come Hegel riteneva (Enc., $ 115), ma alludevano alle verità ma- tematiche e logiche in quanto riducibili a tautologie. La rinuncia a considerare i principi logici come princìpi della logica o addirittura come « leggi fon- damentali del pensiero» si ha invece veramente nella logica matematica moderna. Già nell’opera di G. Boole (Laws of Thought, 1854), i princìpi logici sono spariti come assiomi della logica e sostituiti, in questa loro funzione, dalla definizione delle operazioni logiche fondamentali, modellate sulle operazioni dell’aritmetica. Lo stesso prin- cipio di C. era considerato da Boole come un teo- rema derivato da una più fondamentale espressione logica (/bid., cap. III, prop. IV, ed. Dover, pag. 49). Da Boole in poi i princìpi che si assumono a fon- damento della logica sono semplicemente le defi- nizioni delle funzioni, delle costanti e variabili logiche, dei connettivi e degli operatori. I cosid- detti princìpi logici che ancora sono onorati tal- volta del nome di « leggi» sono ridotti o a tauto- logie nel calcolo delle proposizioni (cfr., per es., REICHENBACH, The Theory of Probability, $ 4), o a teoremi dello stesso calcolo (cfr., per es., A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 26. 13). CONTRAPPASSO Questo non vuol dire che la consistenza formale di un discorso, la compatibilità reciproca delle as- serzioni che lo costituiscono, è diventata meno importante. Ma vuol dire soltanto che tale compa- tibilità è definita, per ogni sistema linguistico, dalle regole di trasformazione o di inferenza, di implicazione o di sinonimia che sono esplicitamente assunte nel sistema stesso o a cui esso fa tacito riferimento. Il principio di rolleranza (v.) nella forma che gli ha dato Carnap afferma: « Non è affar nostro stabilire proibizioni ma solo arrivare a conven- zioni ». Questo significa che «in logica non c'è morale e che ognuno è libero di costruirsi la sua propria logica, cioè la sua forma di linguaggio, come desidera. Tutto ciò che deve fare, se egli vuol discuterne, è dichiarare chiaramente i suoi me- todi e dare, invece di argomenti filosofici, le regole sintattiche del suo discorso » (CARNAP, The Logical Syntax of Language, $ 17). CONTRAPPASSO. V. TAGLIONE. CONTRAPPOSIZIONE (gr. dvri0eow; la- tino Contrapositio; ingl. Contraposition; franc. Con- traposition; ted. Kontraposition)i. Una delle forme della conversione (v.) delle proposizioni e preci- samente quella che consiste nel negare il contrario della proposizione convertita sì da avere, ad es., da «ogni uomo è animale », « ogni non-animale è non-uomo » (cfr. ARIST., Top., II, 8, 113 b sgg.). CONTRARIETÀ (gr. èvavriétns; lat. Contra- rietas; ingl. Contrariety; franc. Contrariété; tedesco Kontrarietàt). 1. Una delle quattro forme dell'oppo- sizione (v.) e precisamente quella che intercede tra «quei termini che dentro lo stesso genere distano massimamente tra loro » (ARIST., Car., 6, 6a 17). Sono in opposizione contraria il vero e il falso, il bene e il male, il caldo e il freddo, ecc. Aristo- tele osserva che i contrari si escludono assoluta- mente e che non esiste tra essi nozione intermedia, quando almeno uno di essi deve appartenere al- l’oggetto: per es., non c’è termine intermedio tra malattia o sanità perchè l’organismo animale deve essere necessariamente o sano o malato. C'è in- vece termine intermedio tra il bianco e il nero tra ciò che eccelle e ciò che è dappoco, ecc., perchè nessuno di tali caratteri deve necessariamente ap- partenere ad un oggetto (/bid., 10, 11 b 32 sgg.). Cfr. Pietro Ispano, Summul. Logic., 3.32. 2. In quanto distinta dalla sub-contrarietà (v.), la C. è la relazione tra la proposizione universale affermativa (s ogni uomo corre +) e la proposizione universale negativa (« nessun uomo corre +). Con- fronta ARISTOTELE, De Int., 7, 17b 4; Pierro Ispano, Sumunul. Logic., 1.13. CONTRATTUALISMO (ingl. Contractualism; franc. Contractualisme; ted. Kontraktualismus). La dottrina che riconosce come origine o fondamento CONTRATTUALISMO dello Stato (o in generale della comunità civile) una convenzione o stipulazione (contratto) fra i suoi membri. Questa dottrina è assai antica, e, molto probabilmente, i suoi primi sostenitori fu- rono i Sofisti. Aristotele attribuisce al Sofista Li- cofrone (scolaro di Gorgia) la dottrina che «la legge è una mera convenzione (synsheke) e una garanzia dei mutui diritti »: alla quale dottrina Ari- stotele oppone che in questo caso essa «non sa- rebbe in grado di rendere buoni e giusti i cittadini » (Pol., III, 9, 1280b 12). Questa dottrina fu ri- presa da Epicuro, secondo il quale lo Stato e la legge sono risultato di un contratto che ha il solo scopo di facilitare i rapporti fra gli uomini. « Tutto ciò che nella convenzione della legge si dimostra vantaggioso rispetto alle necessità che derivano dai rapporti reciproci, è giusto per sua natura, sia o non sia per tutto lo stesso. Nel caso che sia fatta una legge che si dimostri non rispondente ai bisogni dei rapporti reciproci, essa allora non è giusta » (Mass. cap., 37). Ad una concezione simile si rifaceva Carneade nel famoso discorso sulla giu- stizia che tenne a Roma. «Per qual ragione si sarebbero costituiti svariati e differenti diritti se- condo ogni popolo, se non per il fatto che ciascuna nazione sancì per se stessa ciò che ritenne vantag- gioso per sè?» (Cicer., Rep., III, 20). Eclissato nell’età medievale dalla dottrina della origine divina dello Stato e in generale della comu- nità civile, il C. risorge nell’età moderna e diventa, insieme col giusnaturalismo, un potente strumento di lotta per la rivendicazione dei diritti umani. Le Vindiciae contra tyrannos pubblicate dai Cal- vinisti a Ginevra nel 1579 riprendono la dottrina del contratto per rivendicare il diritto del popolo di ribellarsi al re, quando egli venga meno ali impegni del contratto originario. Nello stesso spi- rito Giovanni Altusio generalizzò la dottrina del contratto adoprandola a spiegare ogni forma di associazione umana. Il contratto non è soltanto contratto di governo che regola le relazioni fra un reggitore e il suo popolo, ma è anche contratto so- ciale in senso più ampio come tacito accordo che è a fondamento di ogni comunità (consociatio) e che fa che gli individui diventino conviventi, cioè partecipi dei beni, dei servizi, e delle leggi valide nella comunità (Politica methodice digesta, 1603). Alla difesa del potere assoluto fecero servire la dottrina del contratto Hobbes e Spinoza. Così Hobbes enunciava la formula base del contratto: «Io trasmetto il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo o a quest’assemblea, solo a patto che tu ceda il tuo diritto alla stessa maniera» (Leviath., II, 17). Questa, dice Hobbes, è « l’origine di quel grande Leviathano o, per usare maggior rispetto, di quel Dio mortale al quale dobbiamo, dopo che al Dio immortale, la nostra pace e difesa: poichè, per quest’autorità conferitagli dai singoli componenti lo Stato ha tanta forza e potere, che può disciplinare la volontà di tutti per la conquista della pace interna e per l’aiuto scambievole contro i ne- mici esterni» (/bid., II, 17). A sua volta Spinoza ritiene che lo Stato costituito dal consenso comune abbia un diritto che è limitato soltanto dalla sua forza, la quale è la stessa « potenza della moltitu- dine » (Tractatus politicus, 2, 17). Più frequentemente, tuttavia, il C. viene adope- rato a dimostrare la tesi che il potere politico è necessariamente limitato. In questo senso l’intesero Grozio e Pufendorf, e specialmente Locke che l'usòa difendere la rivoluzione liberale inglese del 1688. Diceva Pufendorf: «Se prendiamo a considerare una moltitudine di individui che godono di libertà e di uguaglianza naturale e vogliono procedere alla istituzione di uno Stato, è necessario prima di tutto che questi futuri cittadini contraggano tra loro singolarmente un patto col quale manifestino la volontà di unirsi in associazione perpetua e di provvedere con deliberazioni e ordini comuni alla propria salvezza e sicurezza. Questo patto può essere o semplice o condizionato: il primo si ha quando uno si obbliga a partecipare all’associazione qualunque sia la forma di governo approvata dalla maggioranza; il secondo quando aggiunge la con- dizione che la forma di governo sia da lui stesso approvata » (De iure naturae, 1672, VII, 2, 6. A sua volta Locke parla del contratto come dell’ac- cordo degli uomini « di unirsi in una società poli- tica » e perciò lo definisce come « il patto che esiste o deve necessariamente esistere tra individui che si associano o fondano uno Stato»(Two Treatises of Go- vernment, 1690,1I,899). Criticato da Hume il C.trovò in Rousseau un’interpretazione che equivalse so- stanzialmente alla sua negazione. Difatti il C. pre- suppone che gli individui come tali abbiano « diritti naturali » a cui rinunziano, per acquistarne altri, col contratto sociale. Rousseau ritiene che gli indi- vidui come tali siano assolutamente privi di diritti e che essi abbiano diritti solo come cittadini di uno Stato. Gli uomini, dice Rousseau, diventano uguali « per convenzione e diritto legale +; perciò « il diritto di ciascun individuo al suo stato particolare è sempre subordinato al diritto supremo della comu- nità » (Contrat social, 1762 I, 9). Già a Rousseau il contratto originario appariva più come un mezzo per rendere « legittimo » il vincolo sociale che come una realtà (/bid., I, 1); la stessa cosa venne chia- ramente affermata da Kant: «L’atto col quale il popolo stesso si costituisce in uno Stato o piuttosto la semplice idea di questo atto che sola permette di concepirne la legittimità è il contratto originario, secondo il quale tutti (omnes ef singuli) nel popolo depongono la loro libertà esterna per riprenderla di nuovo sùbito come membri di un corpo comune » (Met. der Sitten, I, $ 47). Difficilmente, oggi l’idea fondamentale del C., così com'è stata elabo- rata dagli scrittori del ’700, può essere assunta come un valido strumento per comprendere il fon- damento dello Stato e in generale della comunità civile. Tuttavia, tra il xvi e il xvin secolo l’idea contrattualistica ha avuto una forza di liberazione notevole nei confronti della consuetudine e della tradizione, nel campo politico. Solamente oggi, con l’uso che le scienze e la filosofia fanno di concetti come convenzione, stipulazione e impegno, la no- zione di contratto potrebbe forse essere ripresa per un’analisi della struttura delle comunità umane imperniata sulla nozione delle reciprocità degli im- pegni e del carattere condizionale delle stipulazioni da cui traggono origine diritti e doveri. CONTRAZIONE (lat. Contractio; ingl. Con- traction; franc. Contraction; ted. Kontraction). Ter- mine adoperato da Duns Scoto per indicare il determinarsi e il restringersi della « natura co- mune » (per es., la natura umana) a un individuo determinato, ad esse hanc rem (Op. Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1). Utilizzando nello stesso senso (cfr. De docta ignor., II, 4: «La C. si dice rispetto a qualcosa, per es., ad essere questo o quello +) l’espressione scolastica, Cusano ha chiamato il mondo un « Dio contratto » nel senso che esso è, come Dio, il mas-simo, l’unità, l’infinità, ma contratte cioè deter- minate e individualizzate in un molteplice di cose singole (/bid., II, 4). Nella tarda Scolastica, certo per influenza dello scotismo, la parola fu talora adoperata ad indicare il determinarsi del genere nelle specie e della specie negli individui. CONVENIENZA. V. Accorpo.CONVENZIONALISMO (ingl. Conventiona- lism; franc. Conventionalisme; ted. Konventiona- lismus). Ogni dottrina secondo la quale la verità di alcune proposizioni valide in uno o più campi è dovuta all’accordo comune o alla stipulazione (ta- cita o espressa) di coloro che si servono delle proposizioni stesse. L’antitesi tra ciò che è valido «per convenzione » e ciò che è valido « per na- tura» fu familiare ai Greci. Democrito dice: «Il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, il colore, sono tali per convenzione; solo gli atomi e il vuoto sono tali in verità » (Fr. 125, Diels). E il contrasto stesso, limitato al campo politico, fu uno dei temi soliti dei Sofisti, soprattutto di quelli dell’ultima gene- razione, che trovano la loro voce nei Dialoghi di Platone. Polo nel Gorgia, Trasimaco nella Repub- blica, sostengono che le leggi umane sono pure convenzioni dirette a impedire ai più forti di avva- lersi del diritto naturale che è connesso alla loro forza. È secondo natura che il più forte domini CONTRAZIONE il più debole; e questo accade di fatto quando un uomo dotato di natura idonea spezza le ca- tene della convenzione e da servo diventa padrone (Gorg., 484 A). Che la legge morale e giuridica fosse convenzione, fu dottrina sostenuta dagli Scet- tici (Sesto E., /pot. Pirr., I, 146). Il contrattualismo del xv e xviu secolo ha resa familiare l’idea che lo Stato, e in generale la comunità civile, come pure le norme e i valori che da essa traggono ori- gine, sono i prodotti di una convenzione o stipula- zione originaria. Accennando appunto a questa dottrina, Hume notava che la convenzione in questo senso deve essere intesa, non come una promessa formale, ma come «un sentimento dell’interesse comune, che ognuno trova nel suo cuore » (/ng. Conc. Morals, App. 3); e aggiungeva « Così due uomini muovono le vele di una barca con co- mune accordo per il comune interesse, senza al- cuna promessa o contratto; così l'oro e l'argento sono fatti misure dello scambio; così il discorso, le parole, la lingua sono fissati dalle convenzioni e dall’accordo umano » (/bid., App. 3). Con queste parole, forse per la prima volta, il concetto di convenzione veniva adoperato fuori del campo politico. Ma un'estensione del C. al dominio conoscitivo si verifica solo nella seconda metà dell’800 quando, con la scoperta delle geometrie non euclidee, il carattere di verità evidente degli assiomi geometrici è venuto a cadere. Dice Poincaré: « Gli assiomi geometrici non sono nè giudizi sintetici @ priori nè fatti sperimentali. Sono convenzioni. La nostra scelta fra tutte le convenzioni possibili è guidata da fatti sperimentali; ma resta libera ed è limitata soltanto dalla necessità di evitare la contraddi- zione » (La science et l’hypothèse, II, cap. III). Lo stesso Poincaré si rifiutava tuttavia di riconoscere a tutta la scienza il carattere convenzionale e di- fese polemicamente, contro Le Roy, tale esten- sionedel C. (La valeur de la science, 1905). Lo sviluppo ulteriore della matematica ha tut- tavia consentito di estendere il punto di vista di Poincaré a tutta la matematica. L'opera di Hilbert portava a vedere nelle matematiche sistemi ipo- tetico-deduttivi nei quali si deducono le conseguenze implicite in certe proposizioni originarie o assiomi, secondo regole che gli assiomi stessi implicitamente o esplicitamente definiscono. Poteva così essere for- mulata la tesi fondamentale del C. moderno: le proposizioni originarie, da cui muove qualsiasi si- stema deduttivo, sono convenzioni. Il che vuol dire: 1° non possono dirsi nè vere nè false; 2° pos- sono essere scelte in base a determinati criteri che lasciano tuttavia una certa latitudine alla scelta stessa. Per opera del Circolo di Vienna (v.) e del- l’empirismo logico, il C. assumeva la forma, che COPERNICANA, RIVOLUZIONE ha attualmente, di una tesi generale sulla struttura logica del linguaggio. La Costruzione logica del mondo (1928) di Rudolf Carnap costituisce la prima presentazione di questa tesi che era stata tuttavia preparata dal Tractatus logico-philosophicus di Witt- genstein. «La logica, dice Carnap, compresa in essa la matematica, consiste di stipulazioni conven- zionali sull’uso dei segni e di tautologie che si fondano su queste stipulazioni » (Logische Aufbau der Welt, $ 107). A questa tesi Carnap ha dato successivamente il nome di « principio di tolleranza delle sintassi » perchè si tratta di un principio che, mentre rende inoperanti tutti i divieti, consiglia di stabilire distinzioni convenzionali. «In logica, dice Carnap, non c'è morale. Ciascuno può costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi deve solo indicare come lo vuol fare, dare determinazioni sintattiche invece di argomenti filosofici » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 17). Questa tesi si può dire oggi largamente accettata, anche fuori del- l’empirismo logico. La seconda opera di Witt- genstein, /nvestigazioni filosofiche (1953) l’ha por- tato all’estremo, affermando che ogni linguaggio è una specie di « giuoco » che parte da determinati presupposti di natura convenzionale; e riconoscendo la fondamentale equivalenza dei giochi linguistici. Prescindendo da quest’ultima tesi e assumendo il C. nella limitazione in cui viene solitamente mantenuto, cioè relativa al campo della struttura logica del linguaggio, occorre sottolineare il fatto che esso non implica per niente, come talora si crede, la perfetta arbitrarietà delle convenzioni linguistiche. Si possono riassumere come segue i capisaldi del C. contemporaneo: 1° la scelta delle proposizioni iniziali di un sistema deduttivo (assiomi [v.] o postulati [v.]) deve ubbidire a criteri limitativi, che hanno lo scopo di garantire la riproponibilità della scelta stessa ai fini dello sviluppo deduttivo; 2° la determinazione delle regole di deduzione, delle operazioni, delle procedure è egualmente sog- getta ad una scelta limitata, sempre in vista della riproponibilità di tali regole, procedure od ope- razioni; 3° le scelte di cui ai n. 1° e 2° costituiscono: a) oggettivamente, il campo d’indagine comune su cui i ricercatori si possono muovere; b) soggetti- vamente, l'impegno comune degli stessi ricercatori. CONVENZIONE. V. CoNVENZIONALISMO. CONVERGENZA, LEGGE DI (ingl. Con- vergency law). Così Whitehead ha chiamato il cri- terio usato dal senso comune e dalla scienza per ottenere generalizzazioni fondate sull’osservazione. «Se A e B sono due eventi ed A’ è parte di A, B' è parte di 8, allora sotto molti aspetti le relazioni tra le parti A’ e 8’ saranno più semplici che le relazioni fra A e 8. Questo principio regola tutti gli sforzi per raggiungere un’esatta osser- vazione » (Organization of Thought, 1917, pag. 146 seguenti; The Concept of Nature, 1920; trad. ital., pag. 73). CONVERSIONE (gr. dvriotpopi; lat. Con- versio; ingl. Conversion; franc. Conversion; tedesco Umkehriing). In Aristotele (Anal. Pr., I, 1, 2) e nei trattati successivi di Logica classica (aristote- lica), è l’operazione con la quale da un enunciato se ne ricava un altro (considerato equivalente, ma la cosa è assai problematica) mediante scambio delle posizioni rispettive dei termini (soggetto e predicato). Naturalmente ciò non è sempre pos- sibile, e a volte si può fare solo introducendo un mutamento nel quantificatore (« tutto » e « qualche »). Precisamente: la proposizione universale afferma- tiva (per es., «tutti gli uomini sono mortali +) si converte, per accidens, in una particolare afferma- tiva («qualche mortale è uomo +); la particolare affermativa e l’universale negativa si convertono simpliciter, ossia mediante semplice scambio dei termini; la particolare negativa non può conver- tirsi. O. P. CONVINZIONE (ingl. Conviction; francese Conviction; ted. Ueberzeugung). Termine di ori- gine giuridica che designa un insieme di prove sufficiente a «convincere» il reo, cioè a farlo ri-conoscere come tale. Nell’uso comune il termine significa una credenza che ha sufficiente base og- gettiva per essere ammessa da chiunque. In questo senso è definita da Kant: «Quando una credenza è valida per ognuno, solo a patto che sia dotato di ragione, il fondamento di questa credenza è oggettivamente sufficiente ed essa si chiama C.» (Crit. R. Pura, Canone della R. Pura, sez. III). Il carattere oggettivo della C. contrasta col ca- rattere soggettivo della persuasione (v.). Cfr. PE- RELMANN e OLBRECHTS-TYTECA, Traité de l’argu- mentation, 1958, $ 6. COORDINAZIONE (ingl. Coordination; fran- cese Coordination; ted. Koordination). Il rapporto tra oggetti che sono situati nello stesso ordine o rango in un sistema di classificazione; per es., due generi o due specie sono tra loro coordinati ma non sono coordinati un genere e una specie. Coordinate si dicono gli insiemi ordinati di nu- meri che servono a designare entità geometriche (punti, linee, ecc.): oppure le caratteristiche che si utilizzano per distinguere od ordinare varie classi di oggetti. COPERNICANA, RIVOLUZIONE (inglese Copernican Revolution; franc. Révolution coperni- cienne; ted. Kopernikanische Revolution). Si suole chiamare con questo nome il mutamento di pro- spettiva realizzato da Kant: il quale invece di sup- porre che le strutture mentali dell’uomo si modellinosulla natura, suppose che l’ordine della natura si modella sulle strutture mentali. Il riferimento a Copernico fu fatto da Kant stesso nella Prefazione alla seconda edizione (1787) della Critica della Ragion Pura. Dewey ha osservato a questo propo- sito che quella di Kant è stata piuttosto una rivo- luzione tolemaica perchè ha fatto della conoscenza umana la misura della realtà. La rivoluzione C. dovrebbe consistere nel riconoscere che lo scopo della filosofia non è quello di essere o di descrivere la totalità del reale, ma quello più modesto di ri- cercare i valori che possono essere assicurati e divisi da tutti, perchè connessi con i fondamenti della vita sociale (The Quest for Certainty, 1930, pag. 295). COPULA (ingl. Copula; franc. Copule; ted. Ko- pula). L’uso predicativo dell’essere (v.). CORAGGIO (gr. avBpsta; lat. Fortitudo; in- glese Courage; franc. Courage; ted. Muth). Una delle quattro virtù enumerate da Platone e che furono poi dette cardinali (v.) e una delle virtù etiche (v.) di Aristotele. Platone la definisce come «l’opinione retta e conforme alla legge su ciò che si deve e su ciò che non si deve temere» (Rep., IV, 430 b). Aristotele la definisce come il giusto mezzo tra la paura e la temerarietà (Et. Nic., III, 6, 1115a 4). Ma come virtù che costituisce la saldezza della deliberazione, il C. viene in qualche modo privilegiato e considerato una delle virtù principali. Così fece Aristotele (/bid., III, 7). Cice- rone affermava: « Virtù deriva da vir (uomo) ed è soprattutto virile, cioè proprio dell’uomo, il co- raggio, di cui due sono i principali attributi: di- sprezzo della morte e disprezzo del dolore » (Tusc., II, 18, 43). La stessa cosa è ripetuta da S. Tommaso (S. 7A., II, II, q. 123, a. 2). In senso biologico- filosofico il coraggio è stato definito da K. Gold- stein: «Il C., nella sua forma più profonda è unsì detto alla lacerazione dell’esistenza accettata come una necessità affinchè si possa portare a compi- mento la realizzazione dell’essere che ci è proprio ». In questo senso il C. è il contrario déll’angoscia (v.) ed è un atteggiamento orientato verso il possibile non ancora realizzato nel presente (Der Aufbau des Organismus, 1934, pag. 198). CORNUTO, ARGOMENTO (gr. xeparivng; lat. Cornutus). Così è chiamato il sofisma di Eu- bulide: «Ciò che non hai perduto, lo hai: manon hai perduto le corna, dunque le hai» (Diog. L., VII, 187). COROLLARIO (gr. nspwopa; lat. Corollarium; ingl. Corollary; franc. Corollaire; ted. Korollar).Ciò che si deduce da una dimostrazione precedente, come una specie di sovrappiù o guadagno extra (EucLIDE, E/., III, 1); oppure una specie di propo-sizione intermediaria tra il teorema e il problema (PaPPO, 648, 18 sgg.; ProcLo, /n Eucl., pag. 301 F). Il termine fu esteso al linguaggio filosofico da Boezio (Phil. Cons., III, 10). Nel primo senso il C. fu talora chiamato consectarium (JuNGIUS, Logica ham- burgensis, IV, 11, 13). La differenza tra teorema e C. è trascurata dalla logica contemporanea. CORPO (gr. oòua; lat. Corpus; ingl. Body; franc. Corps; ted. Kòrper). L’oggetto naturale in generale, cioè: qualsiasi oggetto possibile della scienza naturale. Come già notava Aristotele (De cael., I, 1, 268 a 1) tutto ciò che appartiene alla natura è costituito da C. e grandezze o da cose che hanno C. e grandezza o dai princìpi delle cose che li hanno. La più antica e famosa definizione di C. è quella data dallo stesso Aristotele: « C. è ciò che ha estensione in ogni direzione» (Fis., III, 5, 204 b 20); e che «in ogni direzione è divi- sibile » (De cael., I, 1, 268a 7). Per «ogni dire- zione » Aristotele intende l’altezza, la larghezza e la profondità: il C. che possiede tutte e tre queste dimensioni è perfetto nell’ordine delle grandezze (Ibid., I, 1, 268a 20). Questa definizione è rimasta costante per molti secoli. Essa venne accettata dagli Stoici (Diog. L., VII, 1, 135) che aggiungevano ad essa la solidità; e da Epicuro che aggiungeva ad essa l’impenetra-bilità (Sesto E., /por. Pirr., III, 39 sgg.). La tradi. zione scolastica la riproduce egualmente (per es., S. Tommaso, S. Th., I, q. 18, a. 2). E Cartesio non fa che riassumere questa tradizione con la sua de- finizione del C. come sostanza estesa. Egli dice: «La natura della materia o del C. in generale non consiste nell’essere dura o pesante o colorata o qualsiasi altra cosa che affetti i nostri sensi ma soltanto nell’essere una sostanza estesa in lun- ghezza, larghezza e profondità» (Princ. Phil., II, 4). Questa definizione non contiene nulla di nuovo rispetto a quella tradizionale; e non con- tengono nulla di nuovo la definizione spinoziana che la riproduce (Spinoza, £r., I, 15, schol.), nè quella di Hobbes (De Corp., VIII, $ 1). Un’innovazione al concetto di C. è apportata solo da Leibniz. Questi distingue il « C. matema- tico » che è lo spazio e che contiene solo le tre dimensioni, dal « C. fisico » che è la materia e che contiene, oltre l’estensione, « la resistenza, la den- sità, la capacità di riempire lo spazio e l’impene- trabilità: la quale ultima consiste in ciò che un C. è costretto, da un altro C. sopravveniente, a cedere o a fermarsi» (Op., ed. Erdmann, pag. 53). Da questa nozione di C. Leibniz è portato a negare che il C. sia «sostanza»: ciò che in esso c’è di reale è soltanto la capacità (vis) di agire e di subire un’azione (/bid., ed. Erdmann, pag. 445). Que- st’ultima è forse la ripresa di una vecchia defini- CORPO zione (Sesto Empirico l’attribuisce a Pitagora, Adv. Math., IX, 366). Ma, nel significato che Leibniz le conferisce, essa aprì la via all'elaborazione del concetto scientifico di C. come «massa», quale si ebbe nella fisica newtoniana: la massa essendo il rapporto tra la forza e l’accelerazione impressa, è interamente esprimibile in termini di « capacità di agire e di subire un’azione +, secondo la defi- nizione di Leibniz. Lungo questa linea di sviluppo che da Leibniz muove alla fisica classica e dalla fisica classica alla fisica della relatività, la nozione di C., attraverso quella di massa, conduce alla nozione di campo (v.). Per la fisica contemporanea un C. è soltanto una « certa intensità del campo» (EinsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III; tra- duzione ital., pag. 253). La filosofia, tuttavia, non ha seguito da vicino questo sviluppo che la nozione ha subito nel do- minio della fisica. Nel mondo moderno e contem- poraneo, essa ci offre, a proposito della nozione di C., le alternative seguenti: 1° L'alternativa idea- listica per la quale i C. sono « rappresentazioni », O « percezioni +, o «idee +, o complessi di tali cose. Quest’alternativa introdotta da Berkeley e accet- tata da Hume, è stata la più diffusa nella filosofia moderna e domina tuttora la filosofia contempo- ranea. Per quanto grande sia la sua importanza in tali filosofie, quest’alternativa non è importante dal punto di vista della nozione di C. perchè essa implica, semplicemente, che i C. non esistono e perciò ne elimina il problema. 2° L’alternativa che consiste nel ritenere i C. come utensili o stru- menti o mezzi di cui si avvale l’uomo nel mondo e perciò nel caratterizzarli mediante le possibilità di azione e reazione che essi offrono all’uomo. Quest'alternativa è propria della filosofia contem- poranea, nella quale essa è stata introdotta dal- l’esistenzialismo e dallo strumentalismo americano. In questo significato però la nozione di C. si iden- tifica con quella di cosa, sotto il qual termine essa viene più comunemente designata. Per esso si può quindi vedere la voce Cosa. CORPO (gr. oiwsua; lat. Corpus; ingl. Body; franc. Corps; ted. Leib). La più antica e diffusa concezione del C. è quella che lo considera lo strumento dell’anima. Ora, ogni strumento può essere o positivamente apprezzato per la funzione che compie e perciò elogiato od esaltato; o criti- cato perchè non risponde bene al suo scopo o perchè implica limitazioni e condizioni. L’una e l’altra vicenda è toccata al C. nella storia della filosofia; la quale ci offre sia la condanna totale del C. come tomba o prigione dell’anima, secondo la dottrina degli Orfici e di Platone (Fed., 66 b seguenti), sia l’esaltazione del C. fatta da Nietzsche (« Colui che è desto e cosciente, dice: sono tutto C. 12 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 177 e nulla all’infuori di esso», A/so sprach Zarathustra, I, Gli odiatori del C.). Nella prima direzione, il mito, esposto nel Fedro platonico, della caduta dell'anima nel C., viene ripreso dalla Patristica orientale e specialmente da Origene (De princ., II, 9, 2). Scoto Eriugena, ai princìpi della Scolastica, lo riprodu- ceva (De divis. nat., II, 25). Anche questa concezione presuppone la nozione della strumentalità del C.: nello stato di caduta, dovuto al peccato, l’anima ha bisogno del C. e le è indispensabile valersi dei suoi servizi. Ma ovviamente la più compiuta e tipica formulazione della dottrina della strumen- talità è quella di Aristotele, per il quale il C. è «un certo strumento naturale» dell'anima come la scure lo è del tagliare; sebbene il C. non sia si- mile alla scure in quanto « ha in se stesso il prin- cipio del movimento e della quiete» (De an., II, 1, 412 b 16). Il materialismo, come non implica ne- cessariamente la negazione della sostanzialità del- l’anima (v.), così non implica neppure la negazione della strumentalità del C.; anche se l’anima è corporea, il C. può avere, rispetto ad essa, una funzione strumentale. Così riteneva Epicuro che attribuiva al C. la funzione di preparare l’anima ad esser causa della sensazione (Ep. a Erod., 63 seguenti); e così ritenevano gli Stoici per i quali l'anima è ciò che domina o in vari modi utilizza l'organismo corporeo (AEzio, Plac., IV, 21). Nè è diversa la concezione del C. nel materialismo di Hobbes, il quale affermando che «lo spirito non è altro che un movimento in certe parti del C. organico » (Z7/ Objections contre les Méd. carté- siennes, 4) riconosce con ciò stesso la strumentalità del C. rispetto a quel « movimento » che è l’anima. Nè il più grossolano materialismo dell’800 per cui l'anima sarebbe un prodotto del cervello come la bile del fegato o l’urina dei reni, obbedisce a uno schema interpretativo diverso: il cervello, come il fegato e i reni, è pur sempre uno strumento per la produzione di qualcosa. Dall'altro lato lo spiritua- lismo, quello, per es., dei Neoplatonici, ammette ugualmente la dottrina della strumentalità: «Se l’anima è sostanza, dice Plotino, essa sarà una forma separata dal C. o, come meglio si direbbe, ciò che si serve del C.» (Enn., I, 1, 4). La dottrina «della strumentalità domina l’intera filosofia medie- vale. Dice S. Tommaso: «Il fine prossimo del C. umano è l’anima razionale e le operazioni di essa. Ma la materia c’è in vista della forma e gli strumenti ci sono in vista delle azioni dell’agente + (S. 7h., I, q. 91, a. 3). Un’eccezione a questa dot- trina è costituita dalla teoria della « forma di cor- poreità » che fu propria dell’agostinismo (v.) me- dievale e che consisteva nel riconoscere al C. organico una sua forma o sostanza indipendente. Ma l’ab- bandono definitivo del concetto della strumentalità 178 del C. si ha soltanto con il dualismo cartesiano. Si crede comunemente che la separazione istituita da Cartesio tra anima e C. come tra due sostanze diverse abbia avuto come conseguenza di stabilire l'indipendenza dell’anima rispetto al corpo. In realtà, la sua prima conseguenza è stata quella di stabilire l'indipendenza del C. rispetto all’anima: un punto di vista che, prima di Cartesio, non si era mai presentato. Difatti la strumentalità del C. suppone che il C. non possa far nulla senza l’anima, al modo in cui la scure non serve a nulla se non è impugnata da qualcuno. Ma il riconoscimento che l’anima e il C. sono due sostanze indipendenti, implica, come dice Cartesio, che «tutto il calore e tutti i movimenti che sono in noi appartengono solo al C., in quanto non dipendono dal pensiero affatto » (Passions de l’éme, I, 4). Da questo nuovo punto di vista, il C. appare come una macchina, una macchina che cammina da sè. «Il C. di un uomo vivente, dice Cartesio, differisce da quello di un morto proprio come un orologio o un altro automa (per es., una macchina che si muove da sè) quando è caricato e contiene in se stesso il prin- cipio corporeo dei movimenti per i quali è stato progettato insieme con tutti i requisiti per agire, differisce dallo stesso orologio o dalla stessa macchina quando è rotta o quando il principio del suo movimento cessa di agire» (/bid., $ 6). Quest’affermazione della realtà indipendente del C. come automa non è tanto una tesi metafisica, quanto una tesi metodologica che prescrive la di- rezione e gli strumenti delle indagini dirette alla realtà del «C.». E proprio in questo senso ha agito storicamente la tesi cartesiana, che ha for- nito per lungo tempo il presupposto teorico delle indagini scientifiche sui corpi viventi. Dal puntodi vista filosofico, tuttavia, il dualismo cartesiano aveva lo svantaggio di dar luogo ad un problema che era sconosciuto alla classica concezione del C. come strumento: cioè al problema del rapporto tra anima e corpo. La concezione classica, infatti, già con la definizione del C. come strumento del- l’anima e dell'anima come forma o ragion d’essere del corpo, risolveva a suo modo tale problema giacchè in realtà queste definizioni non sono che soluzioni postulate del problema stesso. Ma col dualismo di anima e C. il problema emergeva alla luce in tutta la sua crudezza. Come e perchè le due sostanze indipendenti si combinano a for- mare l’uomo? E come l’uomo che è, sotto un certo aspetto, una realtà unica, può risultare dalla com- binazione di due realtà indipendenti? La filosofia moderna e contemporanea ha apprestato quattro soluzioni di questo problema. 18 La prima di esse consiste nel negare la di- versità delle sostanze e nel ridurre la sostanza cor-

CORPO porea alla sostanza spirituale. Così ha fatto Leibniz che ha concepito il C. vivente come un insieme di monadi, cioè di sostanze spirituali, raggruppate intorno ad una «entelechia dominante» che è l’anima dell’animale (Monad., $ 70). Da questo punto di vista «Il C. è un aggregato di sostanze e non è una sostanza esso stesso » (Op., ed. Erdmann, pag. 107). Sostanza è soltanto l’anima. Questa soluzione di Leibniz è il modello di numerose altre che sono state date nel corso della filosofia moderna e contemporanea, soprattutto dalle cor- renti dello spiritualismo (v.). L'espressione classica di questo punto di vista si può trovare nel Mfi- crocosmo di Lotze. Varianti di questa stessa soluzione possono essere considerate le dottrine di Schopenhauer e Bergson. Schopenhauer identifica il C. con la volontà cioè con quella che egli ritiene il noumeno o la sostanza del mondo, di cui la rappresentazione è il feno- meno. Egli dice: «Il mio C. e la mia volontà sono tutt'uno. Oppure: ciò che io chiamo mio C. come rappresentazione intuitiva, lo chiamo mia volontà in quanto ne sono conscio in maniera del tutto di- versa, non paragonabile ad alcun’altra. Oppure: il mio C. è l’oggettività della mia volontà. Op- pure: prescindendo dal fatto che il mio C. è rap- presentazione, esso non è altro che volontà» (Die Welt, I, $ 18). A sua volta Bergson, ripren- dendo parzialmente la vecchia tesi, afferma che «il nostro C. è uno strumento d’azione e di azione solamente +». Esso non contribuisce diretta- mente alla rappresentazione e in generale alla vita della coscienza: serve solo a selezionare imagini in vista dell’azione, cioè a rendere possibile la percezione che consiste appunto in tale selezione. Ma la coscienza, che è memoria, è indipendente da esso (Matiére et Mémoire, spec. Résumé et Conclusion; ed. di Genève, pag. 232 sgg.). Ovvia- mente l’ultimo risultato di quest’analisi di Bergson è la riduzione del C. alla percezione (come della coscienza alla memoria): cioè la negazione di ogni realtà propria del C. stesso. 2 La seconda soluzione, assai prossima alla prima, considera il C. come un segno dell’anima. Questa è veramente dottrina assai antica che Pla- tone (Crat., 400 b) attribuisce agli Orfici: ma la sua prevalenza si ha nel Romanticismo. Dice Hegel: «L’anima nella sua corporalità, del tutto formata e resa sua propria, sta come soggetto singolo per sè; e la corporalità è per tal modo l’esteriorità in quanto predicato nel quale il soggetto si riconosce solo a sè. Questa esteriorità non rappresenta sè ma l’anima; ed è il segno di questa » (Enc., $ 411). Da questo punto di vista il C. è la « manifestazione esterna » o la «realizzazione esterna » dell’anima: esprime cioè l’anima nella forma di un'esteriorità che non è come tale reale ma soltanto « simbolica ». Residui di questa concezione si possono trovare in tutte le dottrine le quali vedono nel C. un com- plesso di fenomeni espressivi. 3% La terza soluzione consiste nel negare la diversità delle sostanze ma non quella tra anima e C. e perciò nel considerare l’anima e il C. come due manifestazioni di una stessa sostanza. Spinoza ha dato a questa soluzione la sua forma tipica considerando l’anima e il C. come modi o mani- festazioni dei due attributi fondamentali dell’unica Sostanza divina, il pensiero e l’estensione. «In- tendo per C., egli ha detto, un modo che in una certa, determinata guisa esprime l’essenza di Dio in quanto è considerato come cosa estesa +? (£r., II, def. 1). Pertanto «l’idea del C. e il C., ossia la mente e il C., formano un solo e medesimo individuo che viene concepito ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto l’attributo dell’estensione » (Ibid., \I, 21, schol.). Questa dottrina ovviamente implica che l’ordine e la connessione dei fenomeni corporei corrispondano perfettamente all’ordine e alla connessione dei fenomeni mentali e che per- tanto si possa, ricostruendo l’ordine e la connes- sione degli uni, rendersi conto dell’ordine e della connessione degli altri. Per questo vantaggio che l’ipotesi spinoziana sembra offrire nonchè per il fatto che essa esclude la possibilità di mescolare e confondere le due serie di fenomeni assumendo per es., come causa di un fenomeno corporeo un fenomeno mentale o viceversa, la dottrina di Spi- noza ha fornito il modello di quella dottrina del parallelismo psico-fisico (v.) che ha presieduto alla formazione della psicologia scientifica moderna cd è servita come ipotesi di lavoro per la psicologia stessa sino ad alcuni decenni fa. 48 La quarta soluzione consiste nel conside- rare il C. come una forma di esperienza o come un modo d’essere vissuto, che abbia tuttavia un carattere specifico accanto ad altre esperienze o modi d’essere. I precedenti di questa soluzione sono le dottrine, cui si è accennato a proposito della soluzione 18, di Schopenhauer e Bergson. Ma mentre tali dottrine hanno ancora risonanze idea- listiche e implicano la riduzione del C. a spirito, l’ipotesi di cui ora ci occupiamo non ha signifi cato idealistico ed evita tale riduzione. Questa soluzione ha trovato la sua forma tipica nella fenomenologia di Husserl; secondo il quale il C. è l’esperienza che viene isolata o individuata dopo successivi atti di riduzione fenomenologica. « Nella sfera di ciò che mi appartiene (dalla quale si è eli- minato tutto ciò che rinvia ad una soggettività estranea) ciò che chiamiamo natura pura e semplice, non possiede più il carattere di essere oggettivo e perciò non dev’essere confuso con uno strato astratto dal mondo stesso o dal suo significato immanente. Fra i C. di questa natura ridotta a ‘ ciò che mi appartiene * io trovo il mio proprio C. che si distingue da tutti gli altri per una particola- rità unica: è il solo C. che non è soltanto un C. ma il mio C.; è il solo C. all’interno dello strato astratto, ritagliato da me nel mondo al quale, conformemente all’esperienza, io coordino, in modi diversi, campi di sensazione; è il solo C. di cui dispongo in modo immediato come dispongo dei suoi organi » (Méd. Cart., $ 44). In tal modo il C. viene considerato come un’esperienza vivente, con- nesso con possibilità umane ben determinate. In modo analogo il fisiologo Kurt Goldstein ha di- stinto spirito, anima e C. come processi diversi ma connessi, i quali prendono significato e rilievo solo nella loro connessione. Tali processi sono in realtà comportamenti diversi dell’organismo vi- vente. In particolare il C. è « un’imagine fisica de- terminata e multiforme » che si può descrivere come un fenomeno di espressione o come un insieme di atteggiamenti o come fenomeni che fanno capo a tutti gli organi possibili. Se lo spirito è l’essere dell’organismo e precisamente il suo essere nel mondo, il complesso degli atteggiamenti vissuti, l’anima è il suo avere, cioè la sua capacità cono- scitiva; e il C. è il divenire, che non abbiamo e non siamo, ma che accade in noi. Questo divenire è sostanzialmente un «dibattito col mondo» at- traverso il quale l’uomo accumula le sue espe- rienze e forma le sue capacità (Der Aufbau des Organismus, 1927, pag. 206 sgg.). Da questo punto di vista il C. non è che un comportamento o me- glio un elemento o una condizione del compor- tamento umano. Affine a questa concezione è la dottrina di Sartre per la quale il C. è l’esperienza di ciò che è « oltrepassato » e « passato ». « In ciascun progetto del Per-sè [cioè della coscienza], in cia- scuna percezione, il C. è là: esso è il passato imme- diato in quanto affiora ancora nel presente che lo fugge. Questo significa che esso è, ad un tempo, punto di vista e punto di partenza: un punto di vista, un punto di partenza che io sono e che in- sieme oltrepasso verso ciò che ho da essere » (L’étre et le néant, 1945, pag. 391-92). Merleau-Ponty ha messo in luce con tutta chiarezza le tesi implicite in questo punto di vista. Il C. non è un oggetto, una cosa. « Sia che si tratti del C. altrui, sia che si tratti del mio, non ho altro modo di conoscere il C. umano che viverlo, cioè assumere sul mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi con esso ». Ma quest'esperienza vissuta dal proprio C. non ha nulla a che fare col « pensiero del C.» o con «l’idea del C.» che ci formiamo per rifles- sione attraverso la distinzione del soggetto e del- l'oggetto. Quell’esperienza ci rivela un modo di esistenza «ambiguo»: se cerchiamo di pensare il C. come un fascio di processi in terza persona (per es., come «visione», «mobilità », « sessua- lità ») ci accorgiamo che queste funzioni non sono legate fra loro e col mondo esterno da un rapporto di causalità, ma sono tutte fuse e confuse in un unico dramma. Descartes, d’altronde, nota Merleau- Ponty, aveva già distinto il C. quale è concepito per gli usi della vita dal C. che è concepito dall’in- telletto (Phénoménologie de la perception, pag. 231; cfr. CARTESIO, Opera, III, pag. 690). È da osservare che questa riduzione, così caratteristica della filo- sofia contemporanea, del C. a un comportamento, o a un modo d'essere vissuto, non ha alcun signi- ficato idealistico: non implica la negazione della realtà oggettiva del C. stesso o la sua riduzione a spirito, o a idea, o a rappresentazione. Al con- trario, questa interpretazione della nozione di C. ba accentuato l’oggettività della sfera di feno- meni in cui il C. consiste: sfera di fenomeni che essa ha cercato di definire in termini di pos- sibilità di esperienza o di accertamento, secondo un orientamento fondamentale della filosofia con- temporanea nei confronti della realtà in generale (v. REALTÀ). CORPOREITÀ, FORMA DI (lat. Forma corporeitatis). Secondo la tradizione agostiniana della Scolastica (v. AGOSTINISMO), è quella realtà che il corpo possiede come corpo organico, indi- pendentemente dalla sua unione con l’anima e che lo predispone a tale unione. Così la nozione è definita da Duns Scoto (Op. Ox., IV, d. 11, q. 3; Rep. Par., IV, d. 11, q. 3). Si tratta di una nozione caratteristica dell’agostinismo e usata come arma polemica contro l’aristotelismo per il quale il corpo, come materia, è potenza e pertanto non ha sostan- zialità o forma. CORRELAZIONE (gr. tà rmpéc ti dvrelgeva; lat. Korrelatio; ingl. Correlation; franc. Corrélation; ted. Correlationi. Una delle quattro forme di op- posizione enumerate da Aristotele e precisamente quella che intercorre tra termini correlativi, come la metà e il doppio. Gli opposti correlativi non si escludono a vicenda perchè anzi si richiamano l’uno con l’altro nel senso che il doppio si dice della metà e la metà del doppio. Sono termini correlativi anche lo scibile e la scienza che si di- cono l’uno in rapporto all’altro (Car., 10, l1lb 23 sgg.). Nella logica scolastica questo rapporto fu espresso dicendo che in esso il soggetto e il ter- mine possono scambiarsi: sicchè, ad es., Davide è il soggetto della relazione di paternità mentre è il termine della relazione di filiazione, che ha in Salomone il suo soggetto; e reciprocamente Salo- mone è il termine della paternità che è in Davide (cfr., ad es., JunGIUS, Logica, I, 8, 6). Hamelin, intendeva sostituire, nella dialettica hegeliana, la C. alla contraddizione: gli opposti di questa dialet- tica sono per lui opposti correlativi, non opposti contraddittori (Essai sur les Éléments principaux de la Représentation, 1907, pag. 35). CORRETTIVA, GIUSTIZIA. V. ComMuta- CORRISPONDENZA (lat. Adaeguatio; inglese Correspondence; franc. Correspondance; ted. Ùber- einstimmung o Korrespondenz). La dottrina secondo la quale la verità consiste nell’adeguazione o nel- l'accordo o nella C. di termine a termine, tra il pensiero o la conoscenza o le proposizioni lingui- stiche da un lato, la realtà o i fatti dall'altra. È questo il criterio di verità presupposto dalla filo- sofia classica ed espresso dalla definizione scola- stica di verità come adeguazione dell’intelletto e della cosa (v. VERITÀ). CORRUZIONE (gr. pBopà; lat. Corruptrio; ingl. Corruption; franc. Corruption; ted. Vergehen). Secondo Aristotele costituisce, insieme col suo op- posto, la generazione, l'attualità di una delle quattro specie di movimento e precisamente del movimento sostanziale, in virtù del quale la sostanza si genera o si distrugge. «La corruzione, dice Aristotele, è un mutamento che va da qualcosa al non essere di questo qualcosa, ed è assoluta quando va dalla sostanza al non essere della sostanza, specifica quando va verso la specificazione opposta + (Fis., V, 1, 225a 17). Per la dottrina della C. dell’uomo v. CADUTA; PECCATO ORIGINALE. CORSO DELLE NAZIONI. Così chiamò Vico la «costante uniformità » dimostrata, pur nella varietà dei costumi, dalla storia dei diversi popoli in quanto si lascia dividere nelle «tre età che dicevano gli Egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini» (Scienza nuova, IV) (v. RICORSI). COSA (gr. mpéyua; lat. Res; ingl. Thing; fran- cese Chose; ted. Ding). Questo termine ha, nel di- scorso comune, come in quello filosofico, due si- gnificati fondamentali: 1° quello generico per cui designa qualsiasi oggetto o termine, reale o irreale, mentale o fisico, ecc., con cui, in un modo qual- siasi, si abbia a che fare; 2° quello specifico per cui denota gli oggetti naturali in quanto tali. 1° Nel primo significato, la parola è uno dei termini più frequenti del linguaggio comune e viene anche abbondantemente adoperata dai filo- sofi. « C. » può essere il termine di un atto di pen- siero o di conoscenza oppure d’imaginazione o di volontà; di costruzione o di distruzione, ecc. Si può parlare di una C. che è nella realtà come pure di una C. che è nell’imaginazione, o nel cuore, o nei sensi, ecc. Sicchè si può dire che in questo significato C. significa un termine qual- siasi di un qualsiasi atto umano o, più esattamente, un qualsiasi oggetto con cui in un modo qualun- que si abbia a che fare. Questo è il significato racchiuso nella parola greca pragma. 2° Nel suo più ristretto significato, la C. è l'oggetto naturale che è detto anche «corpo» o «sostanza corporea ». L’uso del termine in questo secondo significato è piuttosto recente. Si può forse far risalire a Cartesio che però accanto all’espres- sione « C. corporee» (choses corporelles) adopera anche « C. che pensa » (chose qui pense) mostrando così d'intendere la parola nel significato che è tra- dizionalmente proprio di sostanza (Méd., II, passim). Locke preferì la parola « sostanza » (« Le idee delle sostanze sono quelle combinazioni di idee semplici di cui si assume che rappresentino C. particolari e distinte, sussistenti di per se stesse », Saggio, II, 12, $ 6). E solo con Berkeley si può dire che il termine C. ha soppiantato definitivamente quello di sostanza: « Le idee impresse nei sensi dall’autore della natura, egli dice, sono chiamate C. reali e quelle eccitate dall’imaginazione, essendo meno regolari, vivide e costanti, sono più propriamente chiamate idee o imagini delle C. che esse copiano o rappresentano » (Principles, I, $ 33). Da questo punto in poi il termine C. diviene assai frequente per indicare il corpo o l'oggetto naturale in gene- rale. Kant lo estende ancora di più, distinguendo le cose quali appariscono a noi, cioè sottoposte alle condizioni della nostra sensibilità (spazio e tempo), e le C. in generale o C. in sé (v.) (Critica R. Pura, $ 8). Ma egli fissa anche il significato del termine nella sua trattazione dello schematismo trascendentale, dove fa della cosalità o realtà (Sach- heit, Realitàt) lo schema fondamentale della cate- goria di qualità, nel senso che «C. in generale è ciò che corrisponde ad una sensazione in generale » {Ibid., Schematismo dei concetti puri). Da questo punto in poi, la storia della nozione di C. si può dividere in due filoni fondamentali a seconda che. a tale nozione venga riconosciuto o negato un suo significato specifico. Possiamo perciò distinguere: a) L'indirizzo per il quale l’essere della C. viene risolto nell’essere in generale. Così, per l’idea- lismo empirico per il quale l’essere è rappresenta- zione o idea, la C. è rappresentazione o idea o un complesso di rappresentazioni o di idee. Questa dottrina, che è quella di Berkeley, è stata innume- revoli volte riprodotta nella filosofia moderna e contemporanea. Per l’idealismo assoluto o roman- tico, per il quale la realtà è la ragione stes- sa, la C. è un concetto della ragione; e infatti Hegel la considera come una categoria logica (Enc., $ 125 sgg.; Wissenschaft der Logik, ed. Glock- ner, I, pag. 602 sgg.). Il significato autonomo della nozione non è salvato dalla modificazione, proposta da Stuart Mill, della tesi dell’empirismo classico. Secondo Stuart Mill, le C. sono « possi- bilità di sensazioni» (Examination of Hamilton’s Phil., pag. 190 sgg.); ma ciò non delimita speci- ficamente il modo d'essere delle cose. Nè lo deli- mità la concezione di Mach, che definisce le C. come complessi di sensazioni (Analyse der Emp- findungen, 9* ediz., 1922, pag. 14); anche se le « sensazioni » di cui parla Mach non sono deter- minazioni soggettive, ma elementi neutri che en- trano a comporre sia le C. sia la mente. Questo punto di vista è stato riprodotto da Russell secondo il quale « una C. è un séguito determinato di appa- renze, in un legame continuo le une con le altre secondo certe leggi causali» (Scientific Method in Phil., 1926, IV; trad. franc. pag. 86). La connessione del modo d°’essere delle C. con l’azione umana, connessione sulla quale, come ve- dremo sùbito, si fonda la nozione positiva di C., è messa in luce da Bergson, ma è utilizzata da lui solo allo scopo di negare la realtà delle cose. « Non ci sono C., ci sono soltanto azioni », egli ha detto (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 270). Le C. sono creazioni dell’intelligenza in quanto funzione pra- tica, che solidifica il divenire sostituendo la stabi- lità fittizia di « C.» o di «stati» alla continuità e fluidità della coscienza (/bid., pag. 269 sgg.; 296). In questa dottrina le C. si riducono ad azioni e l’azione alla durata reale della coscienza; si ha cioè, sia pure con una certa consapevolezza dei problemi inerenti, la solita riduzione della C. ad uno stato soggettivo. E il significato di tale riduzione della C. a elementi soggettivi comunque qualificati (sensazioni, rappresentazioni, idee, azioni, ecc.) è semplicemente questo: che non esistono cose. b) L’indirizzo per il quale l’essere della C. ha un significato specifico. Su tale significato ha in- sistito, dal punto di vista fenomenologico, Husserl affermando che esiste « una diversità fondamentale tra l’essere come esperienza vissuta e l’essere come C. »; e che pertanto « una C. non può essere data in nessuna possibile percezione o altra modalità di coscienza in generale » (/deen, I, $ 42). Il modo d'es- sere specifico della C., consiste nel fatto che essa è data in un numero indefinito di apparizioni ma rimane trascendente come un’unità che è al di là di queste apparizioni, e che tuttavia si manifesta in un nòcciolo di elementi ben determinati, circon- dati da un orizzonte di altri elementi più indeter- minati (/bid., $ 44). L’essere della C. si contrappone così a quello delle esperienze vissute o della co- scienza (v.). Questa contrapposizione è presupposta da tutti i tentativi della filosofia contemporanea di determinare in modo specifico l’essere della cosa. Fd è significativo che tali tentativi siano partitda due punti di vista indipendenti e apparentemente contrastanti, quello del naturalismo strumentali- stico da un lato, e quello della filosofia esistenziale dall'altro. Mead ha mostrato il collegamento della nozione di C. col « mondo dell’azione ». Le C. s’inseriscono in una fase ben determinata di tale mondo cioè in quella che intercede tra l’inizio di un’azione e la sua consumazione finale. In altri termini è nella fase della manipolazione che compare o si costi- tuisce la C. fisica; la quale tuttavia è universale nel senso che appartiene all’esperienza di tutti (Mind, Self and Society, pag. 184-85). Dewey a sua volta ha mostrato la stretta connessione del modo d’essere delle C. con l'indagine. « Le C., egli ha detto, esistono come oggetti per noi soltanto in quanto siano state preliminarmente determinate quali risultati d’indagini. Quando vengono usate nell’avviare nuove ricerche su muove situazioni problematiche, esse sono conosciute come oggetti solo in virtù di indagini anteriori che giustificano la loro asseribilità. Nella nuova situazione gli oggetti sono mezzi per attingere la conoscenza di qualche altra C.» (Logic, VI; trad. ital., pag. 175). Dewey ha affermato recisamente il carattere strumentale delle C. ed in generale di tutti gli oggetti di cono- scenza. Sia le « C. immediate » sia gli oggetti della scienza fisica « costituiti da un ordine matematico- meccanico » sono «mezzi per assicurarci o per evitare determinati oggetti immediati » (Experience and Nature, pag. 141). Queste determinazioni di Mead e Dewey sono presentate come risultati di ana- lisi empiriche. Heidegger presenta le sue determina- zioni come risultati di un'analisi esistenziale: la nozione di C. viene da lui chiarita come un ele- che la scoperta della natura». Si può certamente cercare di vedere che C. sia la natura a prescindere dall’utilizzabilità delle cose. Ma in questo caso la natura rimane incomprensibile « come COSA IN SÈ ciò che muove e ténde, ciò che ci assale e ci im- prigiona » (Sein und Zeit, $ 15). Indubbiamente Heidegger è riuscito a determinare anche meglio dello strumentalismo americano il modo d’essere strumentale delle cose, la categoria dell’utilizzabi- lità che lo definisce. A sua volta Lewis ha messo in luce le implicazioni logiche che un simile con- cetto della C. porta con sè. « Ascrivere una qualità oggettiva a una C., egli ha detto, significa impli- citamente la predizione che se agisco in certi modi, una certa esperienza specificabile avrà luogo: se io addento questa mela, il suo gusto sarà dolce; se la mangio, sarà digerita e non mi avvelenerà, ecc. Queste e altrettali proposizioni ipotetiche costitui- scono la mia conoscenza della mela che ho in mano » (Mind and the World-Order, cap. V, ed. Dover, pag. 140). Le espressioni della forma Se... allora si riferiscono a possibilità che trascendono l’esperienza attuale e che sono proprie dell’uomo come essere attivo. e Il significato della conoscenza, ha detto ancora Lewis a questo proposito, dipende dal significato di una possibilità che non è attuale. Possibilità e impossibilità, quindi necessità e con- tingenza, compatibilità e incompatibilità, e varie altre nozioni fondamentali, richiedono che vi de- vono essere proposizioni ‘Se... allora ’, proposi- zioni la cui verità o falsità è indipendente dalla condizione affermata nella loro clausola antece- dente » (/bid., pag. 142 n) (v. IMPLICAZIONE). L’oriz- zonte logico del concetto di C. elaborato dalla filosofia contemporanea è pertanto quello della possibilità, che è espresso dalle proposizioni con- dizionali. Ciò è confermato dai risultati delle ri- cerche sperimentali effettuate dalla psicologia tran- sazionale, che conducono a vedere nella C. una certa « classe di possibilità » che costituisce una pro- gnosi generalizzata, sulla base dell’esperienza pas- sata, degli usi o dei comportamenti possibili di un oggetto (Exp/orations in Transactional Psychology, a cura di F. P. Kilpatrick, 1961, cap. 21; trad. ital., pag. 495-96). COSA IN SÈ (ingl. Thing in itself; franc. Chose en soi; ted. Ding an sich). Ciò che la C. è indipen- dentemente dal suo rapporto con l’uomo, per il quale è un oggetto di conoscenza. Nè l’espressione nè la nozione sono proprie ed originarie di Kant come comunemente si crede; ma rappresentano «la convinzione dominante di tutta la filosofia del sec. xvIm+ (CassiRER, Erkennrnissproblem, VII, 3; trad. ital., II, pag. 470 sgg.). L’origine della no- zione può tuttavia esser fatta risalire a Cartesio che nei Principi di filosofia (II, 3) così si esprime: «Sarà sufficiente osservare che le percezioni dei sensi si riferiscono soltanto all’unione del corpo umano con lo spirito e che mentre ordinariamente ci mostrano quello che dei corpi esterni ci possa nuocere o giovare, non ci insegnano affatto, se non occasionalmente e accidentalmente, che C. tali corpi siano in se stessi ». Questa distinzione tra le «C. in se stesse» e le «C. rispetto a noi?, cioè come oggetti delle nostre facoltà sensibili, diventa un luogo comune nella filosofia dell'Illuminismo. D’Alembert (É/ém. de Phil., $ 19), Condillac (Lo- gique, 5), Bonnet (Essai analytique, $ 242), la ri- petono quasi con le stesse parole, e Maupertuis (Lettres, IV) la esprime in termini che a Scho- penhauer dettero l’idea che Kant lo avesse pla- giato. « Una volta che si è convinti, dice Mau- pertuis, che tra le nostre percezioni e gli oggetti esterni non sussiste alcuna somiglianza nè alcuna relazione necessaria, si dovrà concedere anche che tali percezioni non sono altro che semplice appa- renza. L'estensione, che siamo soliti considerare come il fondamento di tutte le altre proprietà, ec che pare costituire la loro intima verità, è in se stessa null’altro che fenomeno ». (Cfr. SCHOPEN- HAUER, Die Welt, II, pag. 57). Su questo punto, come su molti altri, Kant non ha fatto che ispirarsi all’indirizzo generale dell’Il- luminismo. Tuttavia il suo concetto della C. in sè non rimane nella sua dottrina, com’è nel resto dell’Illuminismo, un semplice memento della limi- tazione della conoscenza umana e un monito per distogliere l’uomo dalle indagini metafisiche. Si chiarisce invece, più precisamente, come uno stru- mento tecnico per circoscrivere i limiti della cono- scenza umana. Da un capo all’altro della Critica della Ragion Pura Kant ripete che la conoscenza umana è conoscenza di fenomeni, non di C. in sè, giacchè essa si fonda non già su di una intuizione intellettuale (per la quale aver presenti le C. signi- ficherebbe crearfe) ma su una inzuizione sensibile, alla quale le C. sono date sotto certe condizioni (spazio e tempo). In accordo con questo indirizzo fondamentale, Kant, dopo aver stabilito la possi- bilità del concetto di C. in sè (o noumeno), passa a distinguere una dottrina positiva e una dottrina negativa dei noumeni. « Il concetto di un noumeno, egli dice, cioè di una C. che dev’essere pensata non come oggetto dei sensi ma come cosa in sè (unicamente per l’intelletto puro), non è per niente contraddittorio; giacchè non si può, della sensibi- lità, asserire che sia l’unico modo di intuizione ». Posto ciò, se s'intende per noumeno « l’oggetto di una intuizione non sensibile », cioè creatrice o di- vina, si ha il concetto di noumeno in senso posi- tivo. Ma in realtà questo concetto rimane vuoto; perchè il nostro intelletto non può estendersi al di là dell’esperienza se non problematicamente, cioè non con l’intuizione nè col concetto di una intuizione possibile. Pertanto, «il concetto di nou- meno è solo un concetto limite (Grenzbegriff) per circoscrivere le pretese della sensibilità e di uso perciò puramente negativo » (Crif. R. Pura, Ana- litica dei principi, cap. III). Questa funzione pu- ramente negativa della C. in sè è rimasta un capo- saldo della dottrina kantiana della conoscenza: perchè è rimasta a garantire, in tale dottrina, il carattere finito (cioè non creativo) della conoscenza umana. Tuttavia la filosofia post-kantiana segna una ra- pida liquidazione di questo concetto. Già le Lerzere sulla filosofia kantiana (1786-87) di Reinhold, che davano del criticismo un’esposizione sulla quale si è per lungo tempo modellata l’interpretazione del criticismo stesso, riducendo il fenomeno a rap- presentazione, rendevano dubbia o problematica la funzione della C. in sè; la quale veniva poi recisa- mente negata, in base alla sua inconoscibilità, da Schulze e Maimon. Ma colui che cominciò a trarre le conseguenze di questa negazione fu Fichte: il quale vide che, eliminata la condizione limitativa costituita dalla C. in sè, la conoscenza umana di- veniva creatrice non solo della forma ma anche del contenuto della realtà che ne costituisce l'oggetto; e si trasformava in quella « intuizione intellettuale » che Kant attribuiva solamente a Dio, facendo del soggetto di essa, cioè dell’Io, un principio infinito (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4). Queste tra- sformazioni segnano il passaggio dal criticismo, che è filosofia di stampo illuministico, al roman- ticismo (v.) che è una filosofia dell’infinito. Il ro- manticismo segnava il tramonto definitivo della dottrina della C. in sè, che era stata l’insegna del- l’illuminismo perchè ad esso era servita ad esprimere la limitazione fondamentale della conoscenza umana. La nozione di /nconoscibile (v.) che il positivismo evoluzionistico paragonò talvolta alla C. in sè, è in realtà completamente diversa. In primo luogo, difatti, ha una funzione opposta a quella della C. in sè: serve a offrire alla metafisica e alla reli- gione un loro dominio di competenza specifica piuttosto che a restringere le pretese della cono- scenza scientifica. In secondo luogo, conseguente- mente, l’Inconoscibile viene definito positivamente dalla sfera di quei problemi che la scienza lascia insoluti, più che negativamente dai limiti intrinseci della scienza stessa. Quanto alla filosofia contem- poranea che ha ripristinato o viene ripristinando la dottrina del limite della conoscenza, questo li- mite è inteso da essa come garantito dalla portata dei metodi o dei criteri che presiedono alla validità della conoscenza; essa perciò non ha più bisogno dell’illuministica « C. in sè» per imporre modera- zione alle pretese conoscitive dell’uomo. COSALE, ENUNCIATO (ingl. 7hing-sen- tence). Nella semiotica contemporanea, un enun- ciato che non designa segni ma cose. Lingua C.: una lingua costituita interamente di enunciati C. (Morris, Foundations of the Theory of Signs, 1938, $ 5). Predicati C.: termini che designano proprietà osservabili cioè tali che possono essere determinate dalla osservazione diretta (CarNAP, Testability and Meaning, 1936-37, in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 69 sgg.). COSCIENTE (lat. Conscius; ingl. Conscious; franc. Conscient; ted. Bewusst). Questo aggettivo viene comunemente adoperato nel senso della con- sapevolezza (v.); l’uso filosofico di esso corrisponde tuttavia a quello del termine « coscienza »: onde, per es., «spirito cosciente» significherà l’atteggia- mento dell’autoriflessione o della ricerca interiore. COSCIENZA (gr. cuveldnow; lat. Conscientia; ingl. Conscioussness = C. teorica, Conscience = C. morale; franc. Conscience; ted. Bewusstsein = C. teorica, Gewissen = C. morale). L’uso filosofico di questo termine ha poco o nulla a che fare col si- gnificato comune di esso come consapevolezza (v.) che l’uomo ha dei propri stati, percezioni, idee, sentimenti, volizioni, ecc., consapevolezza per la quale diciamo che un uomo  che designa il rapporto tra una classe e un’altra classe; e si distinguono queste specie di copule dall’operatore (o quantificatore) esistenziale (v. OPERATORE). Comunque, la carat- teristica fondamentale di questa concezione dell’E. predicativo è la sua massima generalità: le altreinterpretazioni della copula possono infatti essere considerate come casi speciali di relazione e come tali analizzati. Altri casi possono inoltre sempre essere presi in considerazione. Proprio questa dot- trina della copula rende possibile la dottrina della proposizione come funzione: per essa infatti il pre- dicato diventa la funzione e il soggetto la variabile della funzione stessa (v. FUNZIONE). 2° Il significato esistenziale. — Il secondo signifi- cato fondamentale di E., cioè quello esistenziale va a sua volta distinto in due significati subordinati e cioè: I, come esistenza in generale; II, come esi- stenza privilegiata. I. L’E. può significare in primo luogo l’esi- stenza nel significato 1° cioè nel significato generale e indeterminato ma specificabile o definibile in base a un criterio qualsiasi. Proprio in questo senso Aristotele dice che «l’E. si dice in molti modi » (Mer., VI, 2, 1026a 32) e che si può per- fino dire che il non E. è (/bid., VII, 4, 1030 a 23). Ma assunto in questo senso il significato di E. coin- cide con quello di esistenza (nel senso 1°): e la sua trattazione si troverà sotto questa voce. II. In secondo luogo l’E. può significare la esistenza privilegiata o primaria: cioè l’esistenza nella sua modalità primaria e fondamentale, dalla quale dipendono tutte le sue manifestazioni deter- minabili. Il precedente significato di E. (2°, I) è assunto il più delle volte come preparazione ed annuncio di questo secondo significato. L’E. si dice in molti modi, ma uno solo è il suo significato primario e fondamentale. Questo è il punto di vista di Aristotele (Mer., VII, 4, 1030 a 21). E appunto dal rapporto tra i significati molteplici di cui l’E. appare a prima vista rivestito e il significato unico e fondamentale a cui essi devono essere ricondotti nasce il cosiddetto « problema dell’E.». Questo è il problema del significato primario dell’E.: cioè di quel significato unico e semplice che si presume VE. abbia ma che rimane più o meno nascosto nella molteplicità dei suoi aspetti apparenti. La ricerca metafisica, nella sua impostazione classica, s’impernia intorno a questo problema. Si tratta di vedere se c’è un significato primario dell’E.: pri- mario in primo luogo nel senso che esprima meglio degli altri l’esistenzialità dell’E. e in secondo luogo nel senso che gli altri significati possano essere ricondotti ad esso come al loro fondamento o principio. L’indagine sul problema dell’E. muove verso la determinazione di un significato che risponda a questi due requisiti. Ma la disputa cui essa dà luogo non è paragonabile alla « battaglia di giganti » di cui parlava Platone (Sof., 246); nella quale di fronte ai giganti, o « figli della terra » che affermano che ogni realtà è corpo, stanno gli dèi, che affer- mano l’incorporeità dell’E. e lo riducono alle forme ideali. Un significato dell’E. non è difatti sufficien- temente stabilito dal carattere di corporeità o dalla negazione di questo carattere: giacchè un essere che si ritenga corporeo può avere gli stessi caratteri ESSERE formali di un E. che si ritenga incorporeo: come era appunto il caso dell’E. di cui parlavano le due schiere protagoniste della «battaglia dei giganti». È ben vero che i caratteri formali dell’E., quelli che si mettono in evidenza come soluzione del problema dell’E. cioè come determinazione del si-

gnificato primario dell’E., sono costantemente rica- vati dalla considerazione di una sfera particolare dell’E. o almeno di un gruppo di enti o di un ente che in qualche modo si privilegia e si pone come esemplare. Ma è pur vero che in ogni caso si può ottenere una risposta al problema dell’E. solo se tra i caratteri della sfera o del gruppo o dell’ente considerato, si sceglie quello suscettibile di generaliz- zazione cioè adatto ad essere riferito anche alle altre sfere o gruppi o enti. In questo senso Platone obiettava ai materialisti che essi devono dire che cosa c’è di comune fra le cose corporee e quelle incorporee, posto che si dica che entrambe sono (Ibid., 247 d). Ma se nel problema dell’E. si scorge la ricerca di un significato primario formale — cioè generalizzabile — dell’E. stesso, si può dire che ogni soluzione del problema non fa che privilegiare, cioè assumere come primaria e fondamentale, una modalità determinata dell’essere. Ora poichè le mo- dalità con cui Il’E. può essere enunciato o asserito sono tre cioè la necessità, la possibilità e l’asserto- rietà tre pure sono in teoria le possibili soluzioni del problema dell’essere. Ma poichè (come ve- dremo) l’assertorietà si riduce alla necessità, si pos- sono storicamente riscontrare due soluzioni fonda- mentali che risultano abbastanza evidenti dietro la apparente molteplicità e disparità delle soluzioni proposte. Per la prima di queste soluzioni, che in- dicheremo con « l’E. primario è la necessità; per la seconda, che indicheremo con f l°E. primario è la possibilità. La soluzione a corrisponde a quella che nel significato predicativo è l’interpretazione A; la soluzione f corrisponde alle interpretazioni B e C. Un ulteriore carattere distintivo delle due soluzioni, che però dev'essere considerato secon- dario, perchè non sempre è presente, è il seguente. La prima di esse non prende in considerazione, nella ricerca del significato dell’E., il fatto stesso di questa ricerca. La seconda di essa può prendere in considerazione questo fatto e ritenerlo importante per la determinazione del significato dell’essere. Così fanno Platone e gli esistenzialisti. a) L’interpretazione dell’E. secondo la moda- lità della necessità è quella prevalente nella meta- fisica classica. La tesi famosa di Parmenide « L’E. è e non può non essere» (Fr. 4, Diels) stabilisce come significato fondamentale dell’E. la necessità, il non poter non essere: la quale rispetto al tempo è eternità (cioè contemporaneità, fotum simul), ri- spetto al molteplice è unità, rispetto al divenire(cioè al nascere e perire) è immutabilità (Fr. 8, 2-4, Diels). Di questi caratteri, anche Aristotele privilegia quello della necessità. Il principio di con- traddizione, da lui posto a fondamento della « filo- sofia prima » cioè della scienza dell’E. in quanto E., è da lui inteso come il principio che postula la ne- cessità dell’E., che si realizza nella sostanza. Dice Aristotele: « Se la verità ha un significato, neces- sariamente chi dice uomo dice animale bipede: giacchè questo significa uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che l’uomo non sia ani- male bipede: la necessità significa infatti proprio questo che è impossibile che l’E. non sia» (Mer., IV, 4, 1006 b 30). L’aspetto per cui è necessario che un E. sia (che è il solo aspetto per cui l’E. è oggetto di scienza giacchè dell’E. accidentale non c'è scienza, /bid., VI, 2, 1027 a) è la sostanza del- l’essere. « Uno solo, dice Aristotele, è il significato dell’E. e questo è la sostanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa non è altro che indicare l’E. proprio di essa » (/bid., IV, 4, 1007 a 26). La sostanza è pertanto, secondo Aristotele, il senso primario dell’E.; ed è pure il senso fondamentale, quello a cui gli altri significati dell'E. possono essere ricondotti; giacchè appunto come aspetto o manifestazione della sostanza Aristotele considera ogni distinta o distinguibile determinazione dell’E. (4bid., VII, 17) (v. SOSTANZA). Questo punto di vista aristotelico è rimasto deci- sivo per lo sviluppo ulteriore del problema dell’es- sere. Il significato primario e fondamentale dell’E. è rimasto, e ancora rimane per una larga zona della filosofia, quello della necessità, con gli attri- buti, che reca seco, della immutabilità, eternità, unità, ecc. Anche quando questi attributi sono stati riferiti (come dal neoplatonismo antico e arabo e dall’aristotelismo medievale) non più alla struttura formale dell'’E. ma ad un ente privile- giato, e cioè non a tutte le sostanze ma alla sostanza più alta cioè a Dio, la derivazione delle altre so- stanze da questa o la loro partecipazione ad essa è stata intesa come derivazione e partecipazione della necessità e dei suoi attributi. Così, secondo S. Tommaso, la partecipazione delle cose create all'E. di Dio è partecipazione alla perfezione e al- l’immutabilità di Lui (S. 7h., I, q. 65, a. 1). Ma il concetto che ha dominato la metafisica medievale e, attraverso di essa, quella moderna e contemporanea, è quello esposto da Avicenna nel sec. xi: la neces- sità dell’E. come tale. Tutto l’E. in quanto tale è necessario. « Se una cosa non è necessaria in rap- porto a se stessa, diceva Avicenna, bisogna che sia possibile in rapporto a se stessa, ma necessaria rispetto a una cosa diversa » (Mer., II, 1, 2). La proprietà essenziale di ciò che è possibile è proprio questa: aver bisogno di un’altra cosa che lo faccia esistere in atto. Ma appunto per questo ciò che esiste in atto, esiste sempre necessariamente: sol- tanto che la necessità gli deriva talvolta da altro (4bid., II, 2, 3). Gli stessi concetti venivano espressi da Algazel (Mer., I, I, 8) e divennero la base della scolastica giudaica e cristiana. Nel mondo moderno, il concetto dell’E. come necessità ha trovato le sue riaffermazioni principali in Spinoza e Hegel. Spinoza ha visto l’E. di Dio nella necessità e lE. delle cose nella necessità con cui derivano dalla sostanza divina (Er., I, 8, scol. II). Ed Hegel ha espresso lo stesso concetto nel suo aforisma famoso che è la base dell’intera sua filosofia: « Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale ». La razionalità del reale è la sua necessità per la quale esso, nelle sue deter- minazioni fondamentali, non può essere che quello che è. Perciò Hegel dice che « intendere ciò che è, è il còmpito della filosofia poichè ciò che è, è la ragione » (Fil. del dir., Pref.). Perciò, ancora, nonc’è un dover E., un ideale, una perfezione che sia diversa dall’E. e nel cui nome si sia autorizzati a criticare o a dar lezioni all’E. stesso. « Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente e la ragione come realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa e in questa non lascia tro- vare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astra- zione, che non si è liberata e non si è fatta con- cetto » (Zbid., Pref.). In altre parole solo per una falsa astrazione si distingue ciò che dovrebbe es- sere da ciò che è, la razionalità dall’E. reale: il che vuol dire che l’E. reale è tutto quel che deve essere e che la sua modalità, il suo senso primario, è questa necessità. D'altronde l’intera filosofia di Hegel è diretta appunto a mostrare la necessità delle determinazioni dell’E.: cioè a mostrare come l’E. è, nella sua realtà, tutto ciò che dev'essere (Enc., $ 1). La necessità rimane il carattere primario dell’E. in concezioni filosofiche disparate. Quando Fichte dice che l’E. e l’attività dell’io sono la me- desima cosa, egli riconosce come carattere essen- ziale di questa attività la necessità con cui essa pone se stessa e il non io (Wissenschaftslehre, 1798, $ 1). Che l’E. si concepisca come «Co- scienza » o come « Materia », non fa differenza: le determinazioni qualitative non influiscono sulla sua determinazione formale primaria. L’Assoluto degli idealisti (Green, Bradley, ecc.) come la materia dei materialisti sono, l’uno e l’altro, E. necessari. Ne- cessaria è la Storia di cui parla Croce, come ne- cessario è l’Atto puro di cui parla Gentile. «La necessità dell’E. coincide con la libertà dello spi- rito » (Teoria generale, XII, $ 20), diceva Gentile. Lo stesso Rosmini che aveva posto l’idea dell’E., intesa come «E. possibile», a fondamento della, conoscenza umana, vede nella necessità e nell’uni- versalità i caratteri primari dell’E. (Nuovo saggio $ 428-29). E Husserl afferma con molta energia la

necessità di quell’E. che egli riconosce come pri- mario cioè dell’E. della coscienza: « Alla tesi del mondo, che è accidentale, si contrappone la tesi del mio puro io e del vivere dell’io, che è necessaria e indubitabile. Ogni data cosa, anche se è presente in carne ed ossa, può non essere; ma un’espe- rienza vissuta data in carne ed ossa non può non essere. Questa è la legge essenziale che de- finisce questa necessità e quella accidentalità » (Ideen, I, $ 46). Una caratteristica tipica di questa concezione dell’E. o, come meglio si direbbe un suo teorema fondamentale, è quella identificazione di E. e ra- zionalità che è assunta da Hegel come principio della sua filosofia. Talvolta questa identificazione è stata intesa come immanentismo (v.) intendendosi con questa parola l’immanenza dell’E. nella co- scienza. Per quanto anche questa sia una tesi he- geliana, non ha tuttavia nulla a che fare con l’altra. Quella fu espressa per la prima volta da Parmenide che, appunto in questo senso, identificò 1’E. con il pensare (Fr. 5; Fr. 8, 34-36, Diels). Certamente la tesi di Parmenide non aveva nulla a che fare con l’immanentismo perchè la nozione di coscienza non era neppur nata (v. CosciENZA): esprimeva soltanto il carattere razionale della necessità on- tologica. Questo stesso carattere veniva espresso da Aristotele con la dottrina che la determinazione

fondamentale della sostanza è l’essenza necessaria, che è la ragion d'essere (/ogos) della cosa (De part. an., I, 1, 639 b 15). E Rosmini considerava lE. possibile come la forma stessa della ragione (Nuovo saggio, $ 396). Il teorema in questione mentre esprime la necessità dell’E. postula, dall’altro lato, un corrispondente concetto della ragione in gene- rale (v. RAGIONE). Sembra che si sottragga a questa tradizione la ontologia di Nicolai Hartmann che assume come significato primario dell’E. non la necessità ma l’effettualità (Wirklichkeit) alla quale sarebbero ri- ducibili possibilità e necessità. L’effettualità è la terza alternativa della modalità dell’E., quella del- l’assertorietà. L'E. al quale il dover essere e il poter essere si riducono è, secondo Hartmann, l’E. semplicemente esistente, nella sua pura effet- tualità o attualità, 1’E. che nel dominio della realtà di fatto si presenta «così e non altrimenti» cioè come esistenza analoga alla materia. Ma gli enun- ciati in cui si esprime, secondo Hartmann, la ridu- zione del necessario e del possibile all’attuale fanno vedere come in realtà l’effettualità non sia che ancora e sempre necessità. Quegli enunciati sono infatti i seguenti; 1° ciò che è realmente possibile è anche realmente effettuale; 2° ciò che è realmente ESSERE effettuale è anche realmente necessario; 3° ciò che è realmente possibile è anche realmente necessario. E negativamente: 4° ciò il cui E. è realmente im- possibile è anche realmente ineffettuale; 5° ciò che è realmente ineffettuale è anche realmente impossi- bile; 6° ciò il cui non E. è realmente possibile è anche realmente impossibile (Mboglichkeit und Wirk- lichkeit, 1938, pag. 126). Così il primato dell’asser- torietà non ha un significato diverso dal primato della necessità. L’ontologia di Hartmann ha vo- luto prospettare la terza soluzione teoricamente possibile del problema dell’E.; ma questa soluzione si dimostra identica, nella sua stessa enunciazione, con l’interpretazione, propria della vecchia meta- fisica, dell’E. come necessità. R) La concezione dell’E. primario come pos- sibilità è stata per la prima volta formulata da Platone. Essa è presentata da Platone come rispon- dente a due esigenze fondamentali: in primo luogo a quella che si renda conto perchè si dice che «sono » sia le cose corporee sia quelle incorporee (Sof., 247 d); e in secondo luogo che si tenga conto del fatto che l’E. è o può essere conosciuto (/bid., 248 e). La prima esigenza esclude che la materialità o l’immaterialità possano entrare nella definizione dell’E. La seconda esclude che possano entrare nella definizione dell’E. determinazioni necessarie; per es., che l’E. sia necessariamente immobile (cioè che «tutto sia immobile »), o che l’E. sia

necessariamente in movimento (cioè che « tutto sia in movimento +), ecc. (/bid., 249 d). Posto ciò, Pla- tone afferma che l’essere non è altro che possi- bilità (Sivauu) e che pertanto si deve dire che è qualsiasi cosa si trovi in possesso di una qualsiasi possibilità o di fare o di subire, da parte di qualche altra cosa, anche insignificante, una azione anche minima e anche per una sola volta (/bid., 247 e). La possibilità in questo senso non ha nulla a che fare con la potenza di Aristotele. La potenza in- fatti è tale solo nei confronti di una attualità che, essa sola, è l’E. primario (v. ATTO). Ma per Pla- tone per l’appunto l’E. primario è possibilità. E possibilità sono i rapporti reali tra gli enti: questi non si mescolano tutti insieme, nè evitano assolutamente di mescolarsi ma presentano deter- minate possibilità di rapporti. Come avviene per le lettere dell’alfabeto e per i suoni, che alcuni possono mescolarsi e altri no, così avviene anche per tutte le cose: sicchè è còmpito della filosofia non già enunciare la tesi universale della necessità o dell’impossibilità della comunicazione, ma stu- diare in particolare quali sono le cose che possono (#0£Xew) unirsi tra loro e quali no (/bid., 252-53). Questa concezione non dà luogo ad una metafisica simmetrica e opposta a quella che interpreta l’E. come necessità: non dà luogo ad alcuna metafisica. ESSERE 345 Questo è il suo tratto caratteristico. Difatti, se l’E. è possibilità, esso non ha determinazioni univoche necessitanti: non è necessario che esso sia uno e non molti, immutabile e non mutevole, immobile e non in movimento, eterno e non temporale, ecc. Di due determinazioni opposte o contraddittorie, non è necessario che una gli appartenga e l’altra no: entrambe possono appartenergli in determinate ma diverse condizioni. Non è possibile quindi elen- care, una volta per sempre, le determinazioni uni- voche dell’essere. Platone aveva raggiunto questa conclusione nel Parmenide; in questo dialogo si mostra che l’E. non è uno o molti, ma uno e molti assieme, nel senso che può esser uno come esser molti (144 e); e che lo stesso vale per le altre sue determinazioni eventuali. La sconcertante chiusa di questo dialogo è che « l’uno, sia o non sia, esso stesso e le altre cose, rispetto a se stesso e tra loro, tutte, e in tutto, sono e non sono, appaiono e non appa- iono » (166 c): le quali parole riconoscono la pos- sibilità di determinazioni opposte dell’E. ed esclu- dono che esso possa dirsi «uno» o «molti» o anche semplicemente «E.» in un senso unico ed assoluto. Da questo punto di vista, una metafisica che sia l'elenco sistematico delle determinazioni univoche ed assolute dell’E. è manifestamente un non senso. Nell’àmbito della concezione in esame pertanto non possiamo aspettarci di trovare formulazioni si- stematiche, analoghe o corrispondenti alla filosofia prima di Aristotele cioè alla metafisica classica. Al contrario possiamo dire che questa concezione tènde ad affacciarsi ogniqualvolta la determinazione delle caratteristiche universali e necessarie dell’E. tènde a cedere il posto alla ricerca empirica: quest’ultima è ricerca di possibilità, non di determinazioni ne- cessarie. Da questo punto di vista può dirsi che la tradizione empiristica della filosofia è l’erede e la rappresentante maggiore di quella concezione del- l’E. che ha trovato la sua prima formulazione nel Sofista platonico. Una possibilità può essere deter- minata unicamente sulla base dell'esperienza cioè dell’osservazione dei fatti, mai per via puramente razionale o a priori. Attribuire all’E. il significato della possibilità significa aprire la via a indagini specifiche, dirette a determinare, in ogni caso, di quale possibilità si tratti. Sul fondamento della concezione a, le determinazioni dell’E., anche se mutano, è necessario che mutino, sicchè il muta- mento è sin da principio determinato e assoluta- mente prevedibile. Per la concezione f, invece, ogni determinazione, in quanto determinazione possibile, può essere accertata soltanto da un’in- dagine ad hoc. Sappiamo che gli Stoici vedevano il significato del- l’E. nella possibilità di agire o di subire un’azione e perciò chiamavano enti solamente i corpi (PLUTARCO, Comm. Not., 30, 2, 1073; Diog. L., VII, 56); ma questo principio, se li indirizzò verso il materialismo, non costituì per essi la base di un empirismo coe- rente. L’empirismo invece si affaccia tutte le volte che compare la negazione del teorema fondamentale della concezione opposta cioè la negazione della riducibilità dell’E. a predicato. Questa negazione si può assumere come teorema tipico di questa con- cezione, com’è teorema tipico dell’altra l’identifi- cazione di E. e razionalità. Sul finire della scola- stica, Ockham formulava la tesi che l’E. o il non E. di una cosa si può attingere solo con una « cono- scenza intuitiva » che è la stessa esperienza (/n Sent., II, q. 15 H; /bid., Prol., q.1Z); e in tal modo poteva affermare l’irriducibilità dell’E. a una determinazione concettuale e il suo significato di possibilità. « Alla questione se /a cosa esista, egli dice, si può rispondere solo quando si conosca se la cosa esiste: il che accade se si conosce una proposizione nella quale l’E. esistenziale sia pre- dicato del soggetto. Ora una tale proposizione dubitabile... in nessun modo si può conoscere con evidenza, se la cosa significata dal soggetto non si conosce intuitivamente ed in sè: per es., se essa non è percepita da un senso particolare o se non è un intelligibile nonsensibile che sia visto dall’in- telletto in modo analogo a quello in cui la facoltà visiva esterna vede l’oggetto visibile. Sicchè nessuno può conoscere con evidenza che il bianco è o può essere se non ha visto un qualche oggetto bianco; e sebbene io possa credere a coloro che mi raccon- tano che c’è il leone o il leopardo e così via, non conosco tuttavia con evidenza queste cose » (Summa Log., III, 2). Qui il senso primario dell’E. è posto nella possibilità dell’esperienza. Conseguentemente Ockham riconosce la necessità solo alle proposi- zioni condizionali (« Se l’uomo è, l’uomo è un animale ragionevole +), mentre nega che una qual- siasi proposizione affermativa possa essere  neces- saria. Tutte le proposizioni affermative sono contin- genti giacchè la proposizione « L'uomo è animale ragionevole» sarebbe falsa per falsa implicazione, se l’uomo non ci fosse (Quodl., V, q. 15). Queste nota- zioni implicano due tesi fondamentali: 1° l’E. non è riducibile a un predicato; 2° l’E. è una possibi- lità che può essere espressa solo da una proposizione contingente. Quest'ultima tesi rivela la modalità primaria che le notazioni di Ockham attribuiscono all’E.: questa modalità è la possibilità. L'em- pirismo classico del Sei-Settecento si attiene a questa stessa modalità. Locke contrappone la cer- tezza delle proposizioni universali, che però non

riguardano la realtà, alla contingenza delle propo- sizioni particolari che concernono l’esistenza. « Le proposizioni universali, della cui verità o falsità possiamo avere una conoscenza certa, non riguar- 346 dano l’esistenza; le affermazioni o negazioni parti- colari, che non sarebbero certe se venissero rese generali, si riferiscono soltanto all’esistenza, di- chiarando esse soltanto l’accidentale unione o se- parazione delle idee in cose esistenti, idee che, nella loro natura astratta, non hanno tra loro nes- suna unione o ripugnanza conosciuta» (Saggio, IV, 9, 1). Pertanto, con la sola eccezione dell’esi- stenza di Dio, conosciuta attraverso la dimostrazione cioè attraverso il rapporto che essa ha con altre esistenze, l’esistenza è conosciuta secondo Locke in modo contingente e immediato, attraverso un rapporto diretto con l’oggetto: rapporto che è in- tuizione nel caso dell’esistenza del proprio io, sen- sazione nel caso dell’esistenza delle cose. Ciò esclude che l’esistenza sia un predicato o che comunque possa essere ridotta a una determinazione concet- tuale. « Non essendovi, dice Locke, nessuna con- nessione necessaria di qualsiasi altra esistenza, tranne quella di Dio, con l’esistenza di alcun uomo particolare, ne consegue che nessuno in par- ticolare può conoscere l’esistenza di un altro essere se non quando, operando questo su di lui, fa in

modo di essere da lui percepito. Il fatto che si abbia l’idea di una cosa nella nostra mente non dimostra l’esistenza di quella cosa più che il ritratto di un uomo faccia testimonianza dell’essere egli nel mondo o che le visioni di un sogno costituiscano di per sè una storia veridica » (/bid., IV, 11, 1). Questo con- cetto della sensazione come organo di conoscenza di ciò che esiste non è altro che il vecchio concetto stoico della rappresentazione catalettica: che è quella che « deriva da un ente sussistente ed è impressa e marcata da esso in modo da essere conforme con esso » (Diog. L., VII, 46; Sesto EMPIRICO, Ad. Math., VII, 248). La dottrina equivale a definire l’E. delle cose come possibilità del manifestarsi di esse alla percezione o della percezione medesima. La definizione dell’E. come possibilità viene espli- citamente ripresa dalla filosofia tedesca del ’700 e in particolare da Wolff. Dice Wolff: « Ente è ciò che può esistere e conseguentemente la cui esi- stenza non ripugna» (Ontol., $ 134). Ma poichè ciò che può esistere è possibile, ciò che è possibile è l’ente (Ibid., $ 135). Ma in questa definizione tutto dipende ovviamente dal significato di possi- bile. E Wolff riprende a questo proposito un con- cetto che rimonta forse a Duns Scoto (In Sent., I, d. 2, q. 7) e si trova già formulato in Leibniz (Théod., II, $ 224): « possibile è ciò che non implica contraddizione, vale a dire ciò che non è impossi- bile » (Onrol., $ 85). Da questo punto di vista, la possibilità era definita come semplice assenza della impossibilità, cioè come necessità negativa. La con- cezione dell’E. in termini di possibilità era pertanto, in questa dottrina, una semplice apparenza. Kant ESSERE ha, con molta fermezza, visto che cosa si nascon- deva dietro questa apparenza. «Il gioco di pre- stigio, egli ha detto, per cui la possibilità logica del concetto (che non si contraddice) si scambia con la possibilità trascendentale delle cose (per cui al concetto corrisponde un oggetto) può gabbare e contentare soltanto gli inesperti ». La « possibilità reale » è quella data da una intuizione sensibile cioè dall’esperienza attuale o possibile (Critica R. Pura, Analitica dei princìpi, cap. III). Per con- seguenza «E. non è un predicato reale cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa... Se io dico Dio è o c’è un Dio, non affermo un predicato nuovo del con- cetto di Dio, ma soltanto il concetto in sè con tutti i suoi predicati e l’oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi devono avere esattamente lo stesso contenuto e però nulla si può aggiungere di più al concetto che esprime semplicemente la possibilità quando ne penso l’oggetto come dato (con l’espressione: ‘ Egli è ”)» (/bid., L'ideale della

ragion pura, sez. IV). Da questo punto di vista risulta chiaro il carattere limitato e condizionale di ogni possibilità od E. e pertanto il carattere fittizio o fantastico di una « possibilità assoluta » cioè di una possibilità che valga sotto ogni aspetto (Ibid., Analitica dei principi, Confutazione dell’idea- lismo). Nella filosofia contemporanea fanno rife- rimento a questa interpretazione del significato del- l’E. le seguenti dottrine: a) le teorie che nella matematica, nella fisica e in generale nella scienza definiscono l’esistenza come modo d°E. particolare, per es., come « as- senza di contraddizione» o « possibilità di costru- zione » o « possibilità di verificazione ». La modalità non necessaria dell’E. che risulta così definita è evidente (v. ESISTENZA); b) le forme dell’empirismo che riconoscono l’E. soltanto agli oggetti di esperienza possibile. La possibilità della sperimentazione e dell’osserva- zione definisce in questo caso il significato dell’E. (v. ESPERIENZA); c) le teorie filosofiche che affermano il primato della possibilità. Tali teorie trovano il loro prece- dente nella filosofia di Kierkegaard che per primo ha proposto una interpretazione dell’esistenza umana in termini di possibilità (v. ESISTENZA, 3). Dall’altro lato lo stesso punto di vista si può riconoscere in qualche aspetto della fenomenologia di Husserl e nelle dottrine che si rifanno ad essa. Per quanto Husserl privilegi l'E. della coscienza e lo ritenga, a differenza della realtà delle cose, necessario, l’ana- lisi fenomenologica è per lui un’analisi di possibi- lità: per essa, come ha detto Heidegger (Sein und Zeit, $ TO): «la possibilità sta più in alto della realtà ». Dice Husserl: « Il fatto che una natura, ESTASI che un mondo della cultura e degli uomini, con le loro forme sociali, ecc., esistano per me significa che le esperienze corrispondenti mi sono possibili, cioè che, indipendentemente dalla mia esperienza reale di questi oggetti, io posso a ogni istante rea- lizzarli e svilupparli in un certo stile sintetico. Questo significa poi che altri modi di coscienza che corrispondono a queste esperienze come atti di pensiero indistinto, ecc., sono possibili per me e che la possibilità di essere confermate o invalidate per mezzo di esperienza di un tipo che è stabilito in anticipo è inerente a questi atti» (Cart. Med., $ 37). Come risulta da questo significativo passo l’analisi fenomenologica è un’analisi in termini di possibilità: il che vuol dire: la possibilità è il signi- ficato primario che essa attribuisce all’essere. Lo stesso accade nell’esistenzialismo. Heidegger ha detto: « L’esserci, in quanto comprensione, progetta il suo E. in possibilità » (Sein und Zeit, $ 32); e in realtà tutte le analisi di Heidegger hanno per loro tema le possibilità dell’Esserci le quali costi- tuiscono il tema dell’analitica esistenziale. Allo stesso modo, per Jaspers, le possibilità oggettive costituiscono l’esistenza stessa (Phil., $ 18); e Sartre afferma che « il possibile è una struttura del per-sè cioè della coscienza » (L’étre et le néant, pag. 34). È vero che per Sartre da questa struttura si distin- guerebbe l’E. in sè cioè l’E. del fenomeno che non sarebbe nè possibile nè necessario, ma semplice- mente esistente. Senonchè Sartre attribuisce a questo stesso E. il carattere della contingenza e non ri- tiene possibile una analisi dell’E. in sè se non a partire dall’E. per sè cioè dalla coscienza: il primato della possibilità è quindi evidente in questa dottrina. È tuttavia da osservare che uno dei caratteri della concezione in esame è il rifiuto esplicito o l'abbandono del tentativo di una soluzione sem- plice e globale del problema dell’E. e pertanto della trattazione « metafisica » di questo problema. Il riconoscimento del significato dell’E. come pos- sibilità esige infatti che si passi immediatamente alla considerazione e allo studio delle possibilità stesse, nei campi specifici nei quali esse trovano il loro condizionamento e quindi la loro «realtà ». Non è pertanto possibile svolgere una metafisica della possibilità, sul modello o in sostituzione della metafisica classica della necessità. Un tentativo di questo genere non avrebbe come risultato che il ritorno puro e semplice alla metafisica della neces- sità: come è stato mostrato dallo stesso Heidegger che, una volta abbandonato il terreno dell’analisi esistenziale per l’elaborazione del « problema del- l’E. in generale » è ritornato alle tesi classiche della metafisica tradizionale col riconoscimento della ne- cessità dell’E. (EinfUhrung in die Metaphysik, Tù- bingen, 1953). 347 ESSERE GETTATO. V. DeIEzIONE; EFFET- TIVITÀ. ESSERE, GRANDE (franc. Grand Étre). Così Comte ha chiamato l’umanità come prima per- sona della trinità positivistica, della quale il Grande Feticcio, cioè la Terra, e il Grande Mezzo, cioè lo Spazio, sarebbero la seconda e la terza persona (Synthèse subjective ou système universel des con- ceptions propres è l’humanité, 1856). ESSERE PER SÈ. V. Per sè. ESSOTERICO. V. EsotERICO. ESTASI (gr. txotaow; lat. Exrasis; inglese Ecstasy; franc. Extase; ted. Ekstase). 1. La fase ultraintellettuale dell’ascesa mistica verso Dio: cioè la fase nella quale la ricerca intellettuale di Dio cede il posto al sentimento di una stretta comu- nione con lui o addirittura di una identificazione. La parola (che nel linguaggio comune significa, oltrecchè spostamento, intontimento o agitazione) fu adoperata nel senso sopra enunciato dagli indi- rizzi religiosi della filosofia alessandrina e special- mente dai neoplatonici. Filone caratterizzava lE. come « trasformazione dell’intelligenza » e precisa- mente come trasformazione operata non già dalla intelligenza stessa ma direttamente da Dio (All. leg., II, 31-32). Plotino caratterizza l’E. come l’aboli- zione dell’alterità tra colui che vede e la cosa vista e come l’identificazione totale ed entusiastica del- l’anima umana con Dio. « Questo non è più una visione, egli dice, ma un modo diverso di vedere: estasi e semplificazione e dedizione di se stesso e desiderio di contatto e quiete e comprensione di congiunzione » (Enr., VI, 9, 11). Il linguaggio del- l’amore e specialmente dell’amore inteso come unità (v. AMORE) è spesso adoperato dai Mistici per de- scrivere lo stato di estasi. Così fa Plotino frequen- temente (per es., Enz., VI, 7, 34). Così faranno i Mistici medievali, ai quali la nozione arriva so- prattutto attraverso le opere del falso Dionigi l’Areopagita. Questi vede il grado più alto della ascesa mistica nella deificazione (v.) cioè nella tra- sformazione dell’uomo in Dio (De mystica theol., I, 1). A questo modo intende l’E. anche Bernardo di Chiaravalle (sec. x1) che la chiama anche excessus mentis e la considera come il supremo grado della contemplazione: quello nel quale l’anima si unisce con Dio come una goccia d’acqua caduta nel vino si dissolve in esso ed assume il sapore ed il colore

del vino (De diligendo Deo, 11, 28). Allo stesso modo considerano l’E. i Mistici di S. Vittore. Se- condo Ricardo, essa è il culmine dell’ultimo grado dell’ascesa a Dio cioè della alienazione della mente da se stessa (De praeparatione ad contemplationem, V, 2). E S. Bonaventura a sua volta vede nell’estasi l’elevazione di sè al di sopra di sè, sino alla fonte dell'amore superintellettuale. Essa è uno stato di 348 ignoranza dotta, nel quale l’oscurità dei poteri conoscitivi diventa luce soprannaturale (2revilo- quium, V, 6). La nozione passava senza mutamenti ai Mistici tedeschi del xrv secolo (Eckhart, Su- sone, Tauler). Giordano Bruno usava la termi- nologia mistica dell’E. (raptus mentis, excessus mentis) nel suo dialogo Degli eroici furori per in- dicare il congiungimento dell’intelletto «eroico » con «il proprio oggetto che è il primo vero o la verità assoluta » (I, 4): la quale è poi la natura stessa. Nell’età moderna l’E. in questo senso ha attratto soprattutto l'attenzione degli psicologi e degli psi- chiatri; i quali non hanno saputo scorgere nessuna differenza, tranne che nel contenuto intellettuale, tra l’E. religiosa e l’E. determinata da condizioni anor- mali della vita psichica o da droghe (cfr. J. H. LEUBA, The Psychology of Religious Mysticism, 1925, spe- cialmente cap. IX). Secondo Pierre Janet, l’E. è in ogni caso caratterizzata da tre cose: 1° dalla soppressione quasi completa della attività motrice e da una disposizione all’immobilità; 2° da un’at- tività più o meno grande del pensiero interno; 3° da un grande sentimento di gioia (De /° Angoisse à l’Extase, 1928, pag. 497). 2. Da Heidegger e Sartre sono state chiamate E. (nel senso letterale del termine, come « esser fuori » o «uscir fuori») le tre determinazioni del tempo cioè il passato, il presente o il futuro in quanto ognuna di esse muove o va verso l’altra, il pre- sente verso il passato, il presente verso il futuro, il futuro verso il presente. Dice Heidegger: « La temporalità è l’originario fuori di sè in sè e per sè. Noi chiamiamo i fenomeni caratterizzati come av- venire, passato e presente, le E. della temporalità » (Sein und Zeit, $ 65). In séguito Heidegger ha visto nelle E. temporali le manifestazioni dell’Essere (Was ist Metaphysik?, 6* ediz., 1951, pag. 14). Ana- logamente Sartre parla del « rapporto estatico in- terno» come della «sorgente della temporalità » (L’étre et le néant, pag. 256) (v. TEMPO, 3). ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA (in- glese Thesis of Extensionality; franc. Thèse d'exten- sionalité). Così è stata chiamata da Russell (Principia Mathematica, 1°, pag. XIV, 659 sgg.) e da Carnap (Logische Syntax der Sprache, 1937, $ 67; tradu- zione ingl., pag. 245 sgg.) la tesi che « per ogni sistema non estensionale vi è un sistema estensio- nale nel quale il primo può esser tradotto ». Poichè i più importanti enunciati intensionali sono quelli modali, la tesi in questione afferma la traducibilità degli enunciati modali in enunciati non modali. Per es., gli enunciati « A è possibile », « A = non — A è impossibile», «A o non A è necessario», «A è contingente» equivarrebbero rispettivamente ai seguenti enunciati: «‘A’ non è contraddittorio», ESTENSIONALITÀ, TESI DELLA «"A= non A°' è contraddittorio», «‘A o non A* è analitico », «‘A’ è sintetico» (Logische Syntax der Sprache, $ 69; trad. ingl., pag. 250 sgg.). Lo stesso Carnap tuttavia presentava la tesi dell’E. come una semplice supposizione, per quanto plau- sibile, e la esprimeva paradossalmente, con un enunciato modale: « Un linguaggio universale della scienza può essere estensionale» (/bid., $ 67; tra- duzione ingl., pag. 245). Anche in sèguito Carnap non si è pronunciato sulla validità della tesi (Mean- ing and Necessity, 1957, $ 32). ESTENSIONE (gr. Suotaoi; lat. Exfensio; ingl. Extension; franc. Extension; ted. Ausdehnung). Il carattere fondamentale dei corpi fisici, in quanto dotati delle tre dimensioni dello spazio. In base a tale carattere Aristotele definiva il corpo (Phys., III, 5, 204b 20). Cartesio non fece che espri- mere questo stesso concetto quando vide nell’E. «la natura della sostanza materiale, come il pen- siero costituisce la natura della sostanza pensante + (Princ. Phil., I, 53). Spinoza fece dell’E. uno degli attributi fondamentali di Dio cioè della Natura (Er., II, 2). Ma già Ockham nel xiv secolo aveva messo in luce il carattere fondamentale dell’E. come attributo dei corpi. « È impossibile, egli scriveva, che la materia sia senza E.: non c’è materia che non abbia parte distante da parte, onde sebbene le parti della materia possano unirsi tra loro come, per es., quelle dell’acqua o dell’aria, tuttavia mai possono esistere nel medesimo luogo. Ora la di- stanza reciproca delle parti della materia è l'E.» (Summulae Physicorum, I, 19). Appunto come carat- teristica del corpo, l’E. è, secondo Hobbes, lo spazio reale cioè la grandezza stessa del corpo, distinta dallo spazio imaginario che è lo spazio puro e semplice o spazio vuoto (De corp., 8, 4). Le nota- zioni di Leibniz non sono molto diverse. L'E. è insieme con l’antitipia (v.), uno dei caratteri fonda- mentali della materia. Essa è la continuità nello spazio per cui le sue modificazioni costituiscono la varietà delle grandezze e delle figure (Op., ed. Erdmann, pag. 463). Locke identificava, come già Cartesio, l’E. con lo spazio (Saggio, II, 13, 3). Con Berkeley l’E. comincia ad essere ridotta a un fenomeno soggettivo. L'E. è dichiarata da Ber- keley un'idea, la quale esiste in quanto è percepita (Principles of Knowledge, I, $ 9): un'affermazione che Hume ribadì dicendo che l’E. non è altro che una copia di qualche impressione (7rearise, I, 2, 3). Questa soggettivazione dell’E., che l’empirismo set- tecentesco fa dal punto di vista della intuizione sensibile, è operata dall’idealismo romantico dal punto di vista della ragione speculativa. Schelling pretende di dimostrare a priori perchè «la materia debba necessariamente considerarsi come estesa se- condo tre dimensioni »: ed effettua questa sedicente ESTERIORITÀ, dimostrazione deducendo le tre dimensioni dello spazio dal modo di operare della forza di attrazione e di repulsione (System des transzendentale Idea- lismus, 1800, III, 2, Deduzione della materia, Cor.). In modo analogo Maine de Biran riteneva di poter dedurre « necessariamente» l’idea di E. dall’idea dello sforzo e della resistenza che esso implica, nel senso che l’E. sarebbe una « continuità di resi- stenza » (Fond. de la Psychologie, CEuvres, ed. Na- ville, II, pag. 272). E un tentativo simile è quello di Bergson, che cerca di intendere l’E. come il movimento opposto a quello della vita cioè come il movimento per il quale l’io, abbandonandosi alla fantasticheria, si sparpaglia in una molteplicità di sensazioni esterne l’una all’altra. L’E. sarebbe la distensione dello sforzo dell'io (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 220). Concetti simili a quelli esposti da Schelling, Maine de Biran e Bergson sono assai comuni nella filosofia della seconda metà dell'800 e dei primi decenni del nostro se- colo. Ma questo tipo di speculazione ha perduto ogni interesse filosofico o scientifico negli ultimi decenni, per i mutamenti che sono sopravvenuti, ad opera della fisica relativistica, nella nozione di corpo (v.). La nozione di corpo come particolare intensità di un campo di energia non ha più bi- sogno di essere definita in termini di E.; o, se si preferisce, l’E. può essere intesa soltanto come la possibilità della misura dell’intensità di energia in un dato campo. ESTENSIONE ED INTENSIONE. Vedi INTENSIONE ED ESTENSIONE. ESTENSIVO ED INTENSIVO (ingl. Exten- sive and Intensive; franc. Extensif et intensif; te- desco Extensiv und intensiv). La distinzione fra grandezza E. e grandezza intensiva è stata fatta da Kant. Secondo Kant è E. « quella quantità nella quale la rappresentazione delle parti rende possi- bile la rappresentazione del tutto (e perciò neces- sariamente la precede)»; per es., le parti dello spazio o del tempo sono quantità E. in questo senso perchè le quantità spaziali o temporali sono sempre intuite come aggregati o molteplicità di parti precedentemente date. La quantità intensiva invece è quella « che è appresa soltanto come unità e in cui la molteplicità può essere rappresentata solo per approssimazione alla negazione = 0». Cioè la quantità intensiva è quella che ha sempre gradi; per es., il rosso ha un grado che per quanto piccolo non è mai minimo e così il calore, la pesan- tezza, ecc. Queste sono le qualità continue 0, come Kant dice con termine newtoniano, fiuenti (Critica R. Pura, II, 2, sez. 3, Assiomi dell’intuizione). ESTERIORITÀ, INTERIORITÀ (inglese Exterlority, Interiority; franc. Extériorité, Intério- rité; ted. Aeusserlichkeit, Innerlichkeit). Il tema filo- INTERIORITÀ 349 sofico del contrasto tra interiorità ed E. nasce con- temporaneamente con la nozione di coscienza (v.) ed esprime il contrasto tra ciò che è estraneo alla coscienza e ciò che le è proprio. La predicazione popolare stoica ha per la prima volta sfruttato ampiamente questo tema: il quale ricorre continua- mente nelle pagine di Epitteto, Marco Aurelio e Seneca. Dice Epitteto: « Stato e contrassegno del- l’uomo comune si è nè benificio nè danno aspet- tarsi mai da se stesso, ma sì dalle cose di fuori. Stato e contrassegno del filosofo, ogni qualsivoglia utilità o nocumento sperare o temere da sè mede- simo » (Manuale, 48). E Marco Aurelio: « Le cose per se stesse non arrivano a toccar l’anima, nè vi banno alcun accesso, nè possono mutarla o ri- muoverla. È invece l’anima che da sè sola si muta e si muove; e quali sono i giudizi che essa stima degna di sè fare intorno alle cose esterne, tali essa fa che siano per lei le dette cose » (Ricordî, V, 19). Se- neca contrappone «la gioia che nasce dall’interno » a quella che deriva dalle cose esterne (Ep., 23). Neoplatonismo e Cristianesimo operarono l’iden- tificazione dell’interiorità con la sfera della coscienza e dell’E. con la sfera del mondo cui appartengono le cose naturali e gli altri esseri. Il tema del con- trasto tra interiorità ed E. divenne così il tema classico di ogni filosofia che facesse appello alla coscienza come a una sfera di realtà privilegiata sia per la sua certezza sia per il suo valore. Il lin- guaggio comune ha accolto i significati filosofici delle due parole che significano in esso proprio la contrapposizione da ciò che è coscienza e ciò che non lo è. La metafisica dello spiritualismo (v.) e il metodo dell’introspezione (v.) utilizzano ugual- mente questo tema tradizionale. Sarebbe molto fa- cile mostrare il carattere puramente metaforico, e perciò l’assenza di significato preciso, delle espres- sioni in cui ricorrono i termini in questione o i corrispondenti aggettivi. « Realtà interna » e « realtà esterna », « mondo interno » e «mondo esterno », «oggetti interni» e «oggetti esterni» sono espres- sioni, che propriamente parlando, non hanno senso sia perchè non vien fatto riferimento all'àmbito

chiuso rispetto al quale un «esterno» e un « in- terno » si può determinare, sia perchè tale àmbito chiuso, quando viene determinato, non è spaziale perchè è la coscienza stessa. Hegel ha fatto un uso abbondante di questi termini che, attraverso la sua opera appunto, sono penetrati nella terminologia filosofica. Egli identificava l'interno con la « ragion d’essere» e l’esterno con la sua manifestazione (Enc., $ 138-39). Ma aveva il buon senso di ag- giungere: « L’uomo, com'è esteriormente cioè nelle sue azioni (di certo non nella sua E. soltanto cor- porea) è interno; e quand’egli è solo interno — cioè virtuoso, morale, solo in intenzioni, disposi- 350 zioni, ecc. — e il suo esterno non è con ciò identico, allora l’uno è così vuoto come l’altro » (Ibid., $ 140). ESTETICA (ingl. Aesthetics; franc. Esthétique; ted. Aesthetik). Con questo termine si designa la scienza (filosofica) dell’arte e del bello. Il nome è stato introdotto da Baumgarten verso il 1750 in un libro (Aesthetica) nel quale si sosteneva la tesi che oggetto dell’arte sono le rappresentazioni con- fuse ma chiare, cioè sensibili ma « perfette », mentre oggetto della conoscenza razionale sono le rappre- sentazioni distinte (i concetti). Il nome significa propriamente « dottrina della conoscenza sensibile +; e Kant, che pure parla (nella Critica del giudizio) di un giudizio estetico che è per l'appunto il giudizio sull’arte e sul bello, chiama «E. trascendentale » (nella Critica della Ragion Pura) la dottrina delle forme a priori della conoscenza sensibile. Già per Kant il nome E,, riferito all’arte e al bello, ha tuttavia cessato di aver riferimento alla dottrina di Baumgarten; ed oggi il nome designa qualsiasi analisi, indagine, speculazione che abbia per og- getto l’arte ed il bello, a prescindere da ogni dot- trina o indirizzo specifico. Si è detto «l’arte e il bello» perchè le indagini dirette all’uno e all’altro di questi due oggetti coin- cidono o almeno sono strettamente intrecciate nella filosofia moderna e contemporanea. Non così ac- cadeva invece nella filosofia antica, dove le nozioni di arte e di bello erano ritenute diverse e reciproca- mente indipendenti. La dottrina dell’arte era chia- mata dagli antichi, col nome del suo stesso oggetto, poetica cioè arte produttiva, e produttiva di ima- gini (PLAT., Sof., 265 a; ARIST., Ret., I, 11, 1371 b 7); mentre il bello (in quanto non incluso nel novero degli oggetti producibili) cadeva fuori della poetica e veniva considerato a parte (v. BeLLO). Così per Platone il bello è la manifestazione evidente delle Idee (cioè dei valori) ed è perciò la più facile e ovvia via d’accesso a tali valori (Fedr., 250 e); mentre l’arte è imitazione delle cose sensibili o degli eventi che si svolgono nel mondo sensibile e costituisce

piuttosto un rifiuto di muovere al di là dell’appa- renza sensibile verso la realtà e i valori (Rep., X, 598 c). Aristotele, a sua volta ritiene che il bello consiste nell’ordine, nella simmetria e in una gran- dezza che si presti ad essere facilmente abbracciata dalla vista nel suo complesso (Poet., 7, 1450b 35 sgg.; Met., XIII, 3, 1078 b 1); mentre riprende e fa sua la teoria dell’arte come imitazione, pur sottraendola, con la nozione della catarsi, a quella specie di confinamento alla sfera sensibile cui Pla- tone l’aveva condannata (v. oltre). A partire dal *700 le due nozioni dell’arte e del bello appaiono connesse come oggetti di un’unica investigazione; e la connessione fu operata mediante ESTETICA il concetto del gusto inteso come facoltà di di- scernere il bello, sia dentro che fuori dell’arte. La ricerca di Hume sulla Regola del gusto (1741) suppone già questa identificazione come la suppone quella di Burke, Sull’origine delle idee del sublime e del bello (1756; cfr. V, 1), e il saggio di G. SPAL- LETTI, Sopra la bellezza (1765; cfr. $ 19-20). Ma fu soprattutto Kant a stabilire l'identità dell’artistico e del bello affermando che « la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte »; e che «l’arte non può essere detta bella se non quando noi, pur essendo coscienti che è arte, la consideriamo come na- tura » (Crit. del Giud., $ 45). Finalmente Schelling

invertiva il rapporto tradizionale tra arte e natura, facendo dell’arte la regola della natura invece che della natura la regola dell’arte. L’arte è difatti per Schelling la necessaria e perfetta realizzazione di quella bellezza che la natura attinge solo in modo parziale e casuale (System des transzendentalen Idea- lismus, 1800, VI, $ 2; cfr. lo scritto « Le arti figu- rative e la natura», 1807, in Werke, VII, pag. 289 e seguenti). Tuttavia un tentativo di separare la scienza del- l’arte dalla dottrina del bello è stato fatto più recentemente in Germania, allo scopo di istituire su basi positive una «scienza generale dell’arte » (E. UTITZ, Grundlegung der allgemeinen Kunstwissen- schaft, 2 voll., Stuttgart, 1914 e 1920; M. Dessorr, Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft, Stutt- gart, 1923). Tale scienza avrebbe dovuto avere come oggetto l’arte nei suoi aspetti tecnici, psico- logici, morali e sociali, lasciando invece all’E. la considerazione, per essa tradizionale, del bello: con- siderazione peraltro ritenuta insufficiente a dar conto di tutti i fenomeni artistici, in quanto l’arte dei primitivi, per es., e buona parte dell’arte mo- derna sembrano sfuggire alla categoria del bello. Queste considerazioni tuttavia non sono apparse decisive. La nozione di « bello » è abbastanza estesa nell’uso comune e anche in quello colto (proprio dei critici d’arte e dei filosofi) per qualificare qual- siasi opera d’arte riuscita, anche se rappresenta cose o persone che, per se stesse, non potrebbero dirsi « belle » in base ai canoni correnti. Non si è ravvisato pertanto l’opportunità di una separazione tra l’E. come scienza filosofica del bello e la scienza dell’arte come tale (cfr. B. C. HevL, New Bearines in Esthetics and Art Criticism, 1943, pag. 20 sgg.). D'altronde, problemi di ordine psicologico, sociale, morale, ecc., sono sempre più largamente dibattuti nel dominio stesso dell’E. e non pare che esigano una sede a parte per la loro trattazione. La pro- posta in questione perciò è servita soltanto a sotto- lineare l’esigenza che l’E. includa sempre più am- piamente tali problemi nella sua considerazione. Più fortuna ha avuto la proposta di Paul Valéry ESTETICA di distinguere dall’E. una poetica che dovrebbe consistere, secondo le sue parole, « nell’analisi com- parata del meccanismo dell'atto dello scrittore e delle altre condizioni meno definite che quest’atto sembra esigere» (Variéré, 1944, V, pag. 292). Col nome di poetica si indica oggi spesso l’insieme delle riflessioni che un artista fa sulla propria atti- vità o sull'arte in generale; e se con l’uso di questa parola non s'intende alludere a una forma di E. minore, depotenziata o provvisoria, l’uso stesso non suscita obiezioni. La storia dell’E. presenta una grande varietà di definizioni dell’arte e del bello. Sebbene ognuna di queste definizioni abbia di regola la pretesa di esprimere in modo assoluto l’essenza dell’arte, si va facendo oggi strada l’idea che la maggior parte di esse esprimano tale essenza solo dal punto di vista di un particolare problema o gruppo di pro- blemi. È, per es., abbastanza chiaro che la defini- zione dell’arte come imitazione è la soluzione di un problema totalmente diverso da quello di cui la definizione dell’arte come piacere si presenta come soluzione: difatti, la prima concerne il rap- porto tra l’arte e la natura, la seconda il rapporto tra l’arte e l’uomo. Le teorie E. non possono perciò essere presentate se non in riferimento ai problemi fondamentali di cui sono (0 pretendono essere) la soluzione; e occorre preliminarmente prospettare quali sono tali problemi per poter accennare, a proposito di ciascuno di essi, alle soluzioni più importanti che sono state o sono attualmente pro- poste. Ora i problemi fondamentali intorno ai quali si possono raggruppare tutti quelli che si dibattono nel dominio dell’E. e che pertanto consentono di orientarsi nella varietà degli indirizzi di questa scienza sono tre e precisamente: 1° il rapporto tra l’arte e la natura; 2° il rapporto tra l’arte e l’uomo; 3° il compito dell’arte. 1° Molte definizioni dell'arte sono determina- zioni del rapporto tra l’arte e la natura (o in ge- nerale la realtà). Poichè si può intendere l’arte come dipendente dalla natura, o indipendente da essa o condizionata da essa, si possono distinguere tre diverse concezioni dell’arte sotto questo profilo e cioè: a) l’arte come imitazione; b) l’arte come creazione; c) l’arte come costruzione. a) La più antica definizione dell’arte nella filosofia occidentale, quella di imitazione, è intesa a subordinare l’arte alla natura o alla realtà in ge- nerale. Platone insiste sulla passività dell’imitazione artistica: il pittore non fa che riprodurre l’apparenza dell’oggetto costruito dall’artigiano (Rep., 598 b); il poeta non fa che copiare l’apparenza degli uo- mini e delle loro attività senza intendersi veramente delle cose che imita e senza la capacità di effet- tuarle (/bid., 599 b). Per Aristotele, il valore del- 351 l’arte deriva dal valore dell’oggetto imitato: per es., devono essere propri dell'oggetto che la tragedia imita, cioè del mito, i caratteri che garantiscono alla tragedia la sua riuscita. « Come i corpi degli esseri viventi devono, per essere belli, avere una grandezza che possa facilmente nel suo insieme essere abbracciata dallo sguardo, così il mito deve avere un’estensione che possa facilmente essere ab- bracciato nel suo insieme dalla mente» (Poer., VII, 1451 a 2). All’artista appartiene tutt’al più, da questo punto di vista, il merito dell’opportuna scelta dell’oggetto imitato; ma, scelto l’oggetto, egli altro non può che riprodurlo nelle sue carat- teristiche proprie. Non fa differenza che l’oggetto imitato sia una cosa naturale o un'entità trascen- dente o intelligibile: la passività dell’imitazione ri- mane. Così Seneca dice che quando l’artista tiene rivolto lo sguardo a un esemplare da lui stesso concepito, quest’esemplare è in realtà contenuto nella mente divina (Zp., 65): cioè non è creato. Allo stesso modo Plotino osserva: «Se qualcuno disprezza le arti perchè non fanno che imitare le cose naturali, bisogna dire in primo luogo che le stesse cose naturali imitano altre cose e in secondo luogo bisogna sapere che le arti non imitano di- rettamente gli oggetti visibili ma si rivolgono alle regioni dalle quali essi dipendono e così sono in grado di far molte cose per conto loro e di aggiun- gere ciò che manca alle cose naturali» (Enn., V, 8, 2). Così, secondo Plotino ciò che l’arte aggiunge alla natura è da essa attinto alla realtà superiore (intelligibile) cui tiene rivolto lo sguardo. La teoria dell’imitazione si trova ancora oggi difesa e seguita dai sostenitori del realismo dell’arte, soprattutto nei paesi comunisti o tra coloro che si ispirano all’ideologia comunista. Ma spesso l’interpreta- zione che si dà dell’imitazione le toglie proprio quel carattere di passività che la caratterizzava nella sua formulazione classica. Così Lukacs, che definisce l’arte come « rispecchiamento della realtà », intende poi questa realtà come il risultato del rap- porto reciproco tra la natura e l’uomo: rapporto che è mediato dal lavoro e dalla società in ogni suo momento storico. Perciò vede nell'arte «il modo di espressione più adeguato e più alto del- l’autocoscienza dell’umanità» (Astherik I, 1963, cap. VII, $ III; trad. it. pag. 575). È, da questo punto, di vista l’imitazione non si distingue dalla creazione. b) Il concetto dell’arte come creazione è proprio del Romanticismo e fu fatto valere in tutta la sua forza da Schelling. « In che cosa il pro- dotto E., egli diceva, si distingua dal comune prodotto artigiano è facile giudicare perchè ogni creazione E. è nel suo principio assolutamente /i- bera, in quanto l’artista può essere spinto ad essa 352 solo da una contraddizione che si trovi nella parte più alta della sua natura, mentre ogni altra crea- zione è occasionata da una contraddizione che è esterna a chi crea e ha perciò il suo scopo fuori di sè » (System, cit., VI, $ 2). Per Schelling l’arte è la stessa attività creatrice dell’Assoluto perchè il mondo è un « poema » (/bid., VI, $ 3) e l’arte umana è una continuazione, specialmente attraverso il genio, dell’attività creatrice di Dio. Questo concetto ve- niva ripreso da Fichte negli scritti del secondo pe- riodo e cioè nei Caratteri del tempo presente (1806), nell’Essenza del dotto (1805) e nella Destinazione del dotto (1811) (cfr. PAREYSON, L'E. dell’idealismo tedesco, 1950, pag. 388 sgg.). Come si vede, la tesi romantica dell’arte come creazione si com- pone di due tesi diverse: I, l’arte è originalità assoluta e i suoi prodotti non si lasciano ricondurre alla realtà naturale; II, come originalità assoluta, l'arte è parte (o continuazione o manifestazione) dell’attività creativa di Dio. Sono queste le tesi fondamentali che Hegel illustrò nelle sue Lezioni di Estetica. « Si potrebbe imaginare, egli disse, che l’artista debba raccogliere nel mondo esterno le forme migliori e riunirle o debba fare una scelta delle fisionomie, delle situazioni, ecc., per trovare le forme più adatte al suo contenuto. Ma quando egli abbia così raccolto e trascelto, non ha ancora fatto nulla: giacchè l’artista dev'essere creatore e nella sua propria fantasia, con la conoscenza delle forme vere e con un senso profondo e una viva sensibilità, deve spontaneamente e di un sol getto formare ed esprimere il significato che lo ispira» (Vorlesungen iîiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 240). Dall’altro lato, proprio per questo suo carattere di creazione, l’arte appartiene alla sfera dello Spirito assoluto ed è, con la religione e la filosofia, una delle manifestazioni o realizzazioni di esso nel mondo. «L'arte, dice Hegel, in quanto si occupa del vero come dell’assoluto oggetto della coscienza appartiene alla sfera assoluta dello spi- rito e si colloca perciò, in base al suo contenuto. sullo stesso piano della religione e della filosofia, Giacchè anche la filosofia non ha altro oggetto che Dio ed è così essenzialmente una teologia razionale e un perpetuo culto divino al servizio della verità » (Ibid., I, pag. 147-48). Croce non fece, su questo punto, che ripetere, quasi alla lettera, la dottrina di Hegel. « Come posizione e risoluzione di pro- blemi (fantastici o estetici) l’arte non riproduce alcunchè di esistente, ma produce sempre alcunchè di nuovo, forma una nuova situazione spirituale, e perciò non è imitazione ma creazione. Del pari creazione è il pensiero il quale anch’esso non con- siste in altro che in posizione e risoluzione di problemi (logici o filosofici o speculativi che si dicano); e non mai in riproduzione di oggetti o di ESTETICA idee » (Nuovi Saggi di E., 1920, DB: 156). Nello stesso senso Gentile ha scritto: « E difficile rinun- ziare a vedere nell’artista un libero spirito creatore. Ci saranno pure difficoltà, pel pensiero comune, a rendersi chiaro conto di questa creatività dell’uomo; ma, ancorchè oscura, quest'idea dell’artista che crea un mondo suo, è fitta profondamente in ogni uomo che si accosta all’opera d’arte» (Fil. del- l’arte, 1931, II, $ 4). Nell’àmbito della concezione

romantica dell’arte, il principio che l’arte è crea- zione appare come una verità evidente. Il corollario principale di questa concezione è la scarsa importanza attribuita ai mezzi tecnici della espressione e l’insistenza sulla natura « spirituale » cioè coscienziale dell’arte. Diceva a questo propo- sito Hegel: «L’opera d’arte raggiunge solo alla superficie l’apparenza della vita giacchè nel suo fondo essa è pietra, legno, tela, 0, nel caso della poesia, lettere e parole. Ma questo aspetto della esistenza esterna non è quello che costituisce l’opera d’arte; l’opera d’arte si origina dallo spirito, appar- tiene al dominio dello spirito, ha ricevuto il bat- tesimo dello spirito ed esprime soltanto ciò che si è formato sotto l’ispirazione dello spirito » (Vor/e- sungen ilber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 55). Croce a sua volta ha confinato nel dominio della « pratica » e considerato come semplice espediente di comunicazione la tecnica espressiva dell’arte: «L'artista, che abbiamo lasciato vibrante di im- magini espresse che prorompono per infiniti canali da tutto l’esser suo, è uomo intero e perciò anche uomo pratico; e, come tale, avvisa ai mezzi di non lasciar disperdere il risultato del suo lavorio spi- rituale e di rendere possibile e agevole, per sè e per gli altri, la riproduzione delle sue imagini; onde promuove atti pratici, che servono a quel- l’opera di riproduzione. Questi atti pratici sono guidati, come ogni atto pratico, da conoscenze e perciò si dicono tecnici; e, come pratici, distin- guendosi dalla intuizione che è teorica, paiono esterni a questa e perciò si dicono fisici; e tanto più facilmente prendono questo nome, in quanto vengono dall’intelletto fissati ed astratti » (Breviario di E., in Nuovi Saggi di E., II, pag. 39-40). E Gentile ribadiva: « Posto che l’elemento estetico consista nella soggettività sentimentale che informa di sè un pensiero, la rappresentazione in cui questo pensiero si sviluppa e attua, riguarda unicamente i mezzi tecnici dell’espressione. Alfieri è lo stesso poeta nei sonetti e nelle tragedie, ecc.» (Fil. del- l’arte, VII, $ 8). c) Il concetto dell’arte come costruzione si ha quando non si considera l'attività E. nè come pura ricettività nè come pura creatività ma come un incontro tra la natura e l’uomo o come un prodotto complesso in cui l’opera dell’uomo si ESTETICA aggiunge, senza distruggerla, a quella della natura. Questo fu propriamente il concetto che dell’arte ebbe Kant: che concepì l’attività E. come una forma del giudizio riffettente: cioè della facoltà che fa scorgere la subordinazione delle leggi naturali alla libertà umana o il finalismo della natura rispetto all'uomo. Il finalismo della natura non è secondo Kant nè «un concetto della natura» nè « un con- cetto della libertà »: cioè non appartiene propria- mente nè soltanto alla natura nè soltanto all’uomo, ma all'incontro tra la natura e l’uomo dovuto al fatto che l’uomo deve realizzare proprio nella na- tura i suoi fini e perciò prova un sentimento di piacere (cioè di liberazione da un bisogno) quando questa realizzazione gli appare possibile: quando cioè la natura gli si dimostra adatta a servire i fini umani (Cri. del Giud., Intr., V). Nello stesso concetto dell'attività E., Kant includeva così quello di un incontro tra il meccanismo naturale e la libertà umana: incontro per il quale l’arte non prescinde dalla natura ma la subordina a sè e l’uomo gode di questa subordinazione come di un bisogno appagato. Il concetto col quale Kant più frequentemente espresse il carattere costruttivo (nè imitativo nè creativo) dell’arte fu quello di giuoco. Come attività liberale o non mercenaria, l’arte è « un semplice giuoco cioè un’occupazione di per se stessa piacevole che non abbisogna di altro scopo » (/bid., $ 43). E la nozione di giuoco fu poi adoperata per definire alcune singole arti, specialmente l’eloquenza, la poesia e la musica (Ibid., $ 51). Lo stesso significato ha il concetto di giuoco nella dottrina di Schiller. L'uomo, essendo insieme natura e ragione, è dominato da due ten- denze contrastanti, la tendenza materiale e la ten- denza formale: e queste tendenze sono conciliate dalla tendenza al giuoco, che mira a realizzare la forma vivente cioè la bellezza (Uber die aesthetische Erziehung des Menschen, 1793-95, XV; trad. ital., pag. 71). La tendenza al giuoco armonizza la li- bertà umana con la necessità naturale. « Con libertà illimitata, dice Schiller, l’uomo può congiungere le cose che la natura separò e può separare quelle che la natura congiunse... Ma possiede tale diritto di sovranità solo nel mondo dell’apparenza, nel- l’irreale regno dell’imaginazione e solo finchè si astiene scrupolosamente, nel campo della teoria, dall’affermarne l’esistenza e, nella pratica, dal voler produrre da esso un’effettiva esistenza» (/bid., XXVI, pag. 134). L'apparenza E. (o sfera del giuoco) è pertanto il dominio in cui l'uomo e la natura collaborano insieme, la natura limitando e condizionando la libertà umana e la libertà umana, dal canto suo, procedendo a comporre e unificare i dati naturali. Questo è proprio il concetto della costruzione che, 23 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 353 non mancò di fare qualche apparizione nella stessa E. romantica del sec. xx. Il più grosso (se non il più grande) monumento di questa E., l’E. 0 Scienza del bello (1846-57) di F. T. Vischer, pur assumendo come principio proprio del mondo dell’arte l’Idea hegeliana, cioè la Ragione autocosciente, conside- rava l’Idea stessa in lotta incessante con ostacoli e influenze che Vischer complessivamente chiamava il «regno del caso». Tutta la vita dello spirito è secondo Vischer « la storia dell’'annullamento e del- l'assimilazione del caso » (Aesthetik oder Wissen- schaft des Schbnen, $ 41): ma soltanto nella bellezza, il caso non è distrutto ma assimilato e organizzato. Ciò equivaleva a vedere nell’arte un’opera, non di creazione, come Hegel l'aveva concepita, ma di costruzione condizionata. Nell’E. contemporanea il concetto dell’arte come costruzione domina il campo. Esso è stato esplici- tamente difeso da Valéry che, sul fondamento di esso, ha affermato l’eccellenza dell'architettura su tutte le altre arti. « Colui che costruisce o crea, ha scritto Valéry, impegnato com°’è con il resto del mondo e con il movimento della natura che tendono perpetuamente a dissolvere, a corrompere o a rovesciare quel che egli fa, deve ravvisare un terzo principio che egli tenta di comunicare alle proprie opere e che esprime la resistenza che vuole sia da questi opposta al proprio destino di perituro. Crea insomma la solidità e la durata » (Eupalinos; trad. ital., pag. 142). Lo stesso concetto si trova variamente ripetuto nelle considerazioni estetiche di molti poeti contemporanei (v. POESIA) e Dewey lo esprime nella forma più propria di collaborazione o contrasto tra il fare e il subire: « L'arte nella sua forma accomuna in una stessa relazione il fare e il subire, l'energia che esce ed entra, che fa sì che un’esperienza sia esperienza. Il prodotto è un’opera d’arte E. a causa dell’eliminazione di tutto ciò che non contribuisce alla mutua organizzazione dei fat- tori sia dell’azione che della ricezione reciproca e a causa della selezione propria di quegli aspetti e tratti che contribuiscono alla loro interpretazione + (Art as Experience, 1934, cap. III; trad. ital., pa- gina 60). L. Pareyson nello studiare la formazione dell’opera d’arte e nel darne la teoria ha delineato i caratteri della costruzione artistica. « Fare inven- tando insieme il modo di fare; considerare la riu- scita come criterio a se stessa; produrre l’opera inventandone la regola individuale; far coincidere l’invenzione con la produzione; l’ideazione con la realizzazione, il concepimento con l’esecuzione; ope- rare in modo che l’opera d’arte sia insieme la legge e il risultato della propria formazione: ecco tante espressioni equivalenti a designare il processo for- mativo dell’arte e a indicare la coincidenza di tentativo e organizzazione nel procedimento arti- 354 stico» (E., 1954, pag. 126). Il teorema fonda- mentale di questa concezione dell’arte è l’identità della produzione artistica con la sua tecnica: al modo in cui la distinzione radicale tra tecnica e produzione è il teorema caratteristico della conce- zione dell’arte come creazione. La cosiddetta arte astratta che più delle altre insiste sull’identità di tecnica e produzione è, nel suo complesso, una manifestazione di questo modo d’intendere l’arte. 2° Il secondo problema fondamentale dell’E. è quello del rapporto tra l’arte e l’uomo cioè della situazione o posizione dell’arte nel sistema delle facoltà o delle categorie spirituali. Si possono distinguere a questo proposito tre concezioni fon- damentali: 4) quella che considera l’arte come co- noscenza; 8) quella che la considera come attività pratica; C) quella che la considera come sensibilità. A) Che l’arte appartenga alla sfera della co- noscenza sembra suggerito dalla dottrina aristote- lica per quanto (come si vedrà) Aristotele abbia esplicitamente attribuito l’arte alla sfera dell’atti- vità pratica. Ma egli osserva che l’arte ha origine da quella tendenza all’imitazione che è un aspetto del desiderio di conoscere (Poet., IV, 1448 b 5); e a proposito della poesia, in un luogo famoso, afferma che essa è più filosofica della storia (/bid., 9, 1451 b 5): il che sembra voler dire che essa ha maggior valore teoretico della storia in quanto è più vicina alla prima scienza teoretica. Ma fu so- prattutto il Romanticismo a insistere sul valore conoscitivo dell’arte, scorgendo in essa addirittura con Schelling, «l’organo generale della filosofia » in quanto l’arte fa cogliere quell’« Identità della attività cosciente e dell’inconscia +, che è Dio stesso o l'Assoluto (System, cit., VI, 1). Hegel faceva ar- retrare l’arte di un passo, ponendola al di sotto della filosofia e della religione; ma ne riconfermava il valore teoretico attribuendola alla sfera di quello « Spirito assoluto » che è la più alta conoscenza (o « autocoscienza +) che l’Assoluto può attingere di sè (Enc., $ 556). L’E. di Croce e tutte quelle che su di essa si modellano seguono questa attribuzione. Fin dalla prima formulazione della sua dottrina, Croce insistette sulla definizione dell’arte come primo grado del conoscere cioè « conoscenza intuitiva o del particolare » (E., 1902, cap. I). E ha sempre insistito sulla tesi che l’arte è «una teoresi, un conoscere », che riannoda il particolare all’universale e perciò ha sempre un’impronta di universalità e totalità (La poesia, 1936). Questa stessa tesi è anche il presup- posto dell’E. di Gentile: nella quale la definizione dell’arte come sentimento significa soltanto la ridu- zione dell’arte a pensiero « inattuale » cioè che non ancora si è realizzato in un oggetto (La filosofia del- l’arte, 1931, cap. IV). La stessa dottrina bergso- niana dell’arte, formulata a proposito della funzionedel comico, riduce l’arte all’intuizione che è l’or- gano della conoscenza filosofica (Le rire, 1908, pag. 160). Infine quell’indirizzo di critica delle arti figurative che è stato chiamato della « visibilità pura » perchè vede nelle forme e nei gradi di quelle arti forme e gradi del vedere ha condiviso talora questa nozione dell’arte come conoscenza. Così ha detto, ad es., K. Fiedler: « Solo verità e conoscenza appaiono l’unica occupazione degna dell’uomo e se si vuole assegnare all’arte un posto fra le più alte tendenze dello spirito occorre indicarle come fine solo lo slancio alla verità, la spinta al conoscere » (Aphorismen, in Schriften Uber Kunst, 1914, II, 8, pag. 147 sgg.). B) L'attribuzione dell’arte alla sfera dell’at- tività pratica è la tesi esplicita di Aristotele. Data la grande divisione tra scienze feoretiche o conosci- tive, che hanno per oggetto il necessario, e scienze pratiche che hanno per oggetto il possibile, l’arte appartiene, secondo Aristotele, al dominio pratico e costituisce l’oggetto della poetica cioè della scienza della produzione, mentre l’altra suddivisione della pratica è la scienza dell’azione (Et. Nic., VI, 4, 1140a 1). Nonostante la potente suggestione di Aristotele (o forse perchè tale suggestione è stata annullata dall’altra di cui si è detto), la concezione dell’arte come attività pratica è ritornata solo ra- ramente nella storia dell’estetica. Può essere com- presa in questa rubrica la concezione dell’arte come giuoco. Questa fu esposta per la prima volta da H. Spencer che considerò l’arte come un giuoco che si è svincolato dal suo scopo di addestramento biologico ed è diventato fine a se stesso (Principles of Psychology, 1855, $ 535-36). Con alcune varianti la teoria fu ripresa da K. Groos che riportò l’arte alla «esperienza sensoria del giuoco » (Spiele des Menschen, 1889). Ma è stato soprattutto Nietzsche a insistere sul carattere pratico dell’arte, vedendo in essa una manifestazione della volontà di potenza. L’arte è condizionata secondo Nietzsche, da un sentimento di forza e di pienezza, quale si verifica nell’ebrezza. La bellezza è l’espressione di una vo- lontà vittoriosa, di una coordinazione più intensa, di un’armonia di tutti i voleri violenti, di un equi- librio perpendicolare infallibile. « L'arte, dice Nietz- sche, corrisponde agli stati di vigore animale. È da una parte l’eccesso di una costituzione florida che trabocca nel mondo delle imagini e dei desideri; dall’altra, l’eccitamento delle funzioni animali, me- diante le imagini e i desideri di una vita intensi- ficata; è una esaltazione del sentimento della vita e uno stimolante della vita» (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 361). Essenziale all’arte è la perfezione dell’essere, l'avviamento dell’essere alla pienezza; l’arte è essenzialmente l’affermazione, la divinizza- zione dell’esistenza. Lo stesso stato apollineo (v.) non è che la risultanza estrema dell’ebrezza dio- nisiaca: è il riposo di certe sensazioni estreme di ebrezza. C) L'attribuzione dell’arte alla sfera della sensibilità è una tesi platonica, che ricompare nel 700 con segno di valore mutato. Platone aveva confinata l'arte nella sfera dell’apparenza sensibile e l’aveva caratterizzata con il rifiuto ad uscire da questa sfera mediante l’uso del calcolo e della mi- sura (Resp., X, 602c-d). Ma nel 700 la nozione dell’arte come sensibilità non è più diminuzione o condanna: l’arte appare come la perfezione della sensibilità stessa. La nascita e l’elaborazione del concetto di gusto (v.), parallela alla nascita e alla elaborazione della categoria del sentimento (v.) con- diziona il nuovo apprezzamento della sfera sensi- bile, che è proprio della filosofia del 700, e la assegnazione, a tale sfera, del mondo dell’arte. Baumgarten riteneva che «il fine dell’E. è la per- fezione della conoscenza sensibile in quanto tale» e che questa perfezione è la bellezza (Aesthetica, 1750-58, $ 14). È ben vero che egli considerava le rappresentazioni E. come rappresentazioni chiarema confuse e così poneva una differenza solo di grado tra esse e le rappresentazioni razionali (che sono chiare e distinte): il che, come Kant ebbe spesso ad osservare, non è una distinzione suffi- ciente tra sensibilità e intelligenza (Cri. R. Pura, $ 8; cfr. Crit. del Giud., Intr., $ III. Ma è pur vero

che, sia pure con concetti imperfetti, Baumgarten aveva di mira proprio la rivendicazione dell’auto- nomia della sfera sensibile. Alla stessa sfera ridu- ceva Vico la poesia, in polemica con quanto « del- l'origine della poesia si è detto prima da Platone, poi da Aristotele, infin a’ nostri Patrizi, Scaligeri, Castelvetri » (Sc. Nuova, 1744, II, Della metafisica poetica). La tesi di questi autori era, secondo Vico, che la poesia fosse «sapienza riposta » cioè « me- tafisica ragionata ed astratta»; mentre la tesi di Vico è che la poesia fu metafisica «sentita ed im- maginata » quale poteva essere propria di uomini «ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie » (/bid., 1744, II, Della me-tafisica poetica). Ora, secondo Vico metafisica (cioè conoscenza) e poesia sono tra loro totalmente op- poste: quella purga la mente dei pregiudizi della fanciullezza, questa tutta ve l’immerge e rovescia dentro; quella resiste al giudizio dei sensi, questa ne fa principale sua regola; quella infievolisce la fantasia, questa la richiede robusta; infine quella non dà che pensieri astratti e scevri d’ogni pas- sione; questa invece non dà che pensieri concreti e corpulenti, che muovono con straordinaria vio- lenza gli animi umani (Sc. Nuova Prima, 1725, IIl, 26, in Opere, ed. Ferrari, IV, pag. 227). La fantasia, che è l’organo della poesia, è definita da Vico come la facoltà che « altera e contraffà» le cose (Sc. Nuova, 1744, III, Dell’inarrivabile facultà poetica d’Omero); e in generale la fantasia è tanto più robusta quanto è più debole il raziocinio (Ibid., I, Elementi, 36). Kant infine segnava l’atto ufficiale di nascita della «facoltà del sentimento » e a tale facoltà attribuiva il giudizio E. cercando di deter- minarne conseguentemente i caratteri (Crir. del Giud., Intr., $ IID. E a tale facoltà l’arte è stata più comunemente assegnata nell’E. contemporanea. Secondo Santayana «la bellezza è un piacere con- siderato come la qualità di una cosa » ed è perciò sempre « un’emozione, un’affezione della nostra na- tura volitiva e valutativa » (The Sense of Beauty, 1896, $ 11). Per Dewey ugualmente l’arte è « una forma di sentimento» (Art as Experience, 1934, cap. IV). 3° Il terzo punto di vista dal quale possono essere considerate le teorie estetiche è quello del còmpito che attribuiscono all’arte. Tutte le teorie cadono in due gruppi fondamentali che rispetti- vamente considerano l’arte: «) come educazione; 8) come espressione. Come educazione, l’arte è strumentale; come espressione, è finale. a) La teoria dell’arte come educazione è di gran lunga la più antica e la più diffusa. Platone condannò l’arte imitativa perchè la ritenne non educativa ed anzi anti-educativa (Rep., X, 605 a-c); ma accettò e difese quelle forme artistiche in cui vide utili strumenti d’educazione (/bid., III, 395 c). Aristotele affermava che «la musica non va pra- ticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare ma per usi molteplici, poichè può ser- vire per l’educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il sollevamento del- l’anima e la sospensione delle fatiche » (Polir., VIII, 7, 1341 b, 35). Ciò che egli dice per la musica vale, ovviamente, per tutte le arti; ed altrettanto ovviamente la catarsi (v.) e il divertimento sono anch’essi procedimenti educativi. Il concetto del- l’arte come educazione è durato per tutto il Me- dioevo e non è stato sensibilmente mutato o innovato dalle discussioni estetiche del Rinascimento. La accentuazione del carattere catartico dell’arte non è che l’accentuazione della sua strumentalità edu- cativa. Di questa non dubitava neppure Vico che insisteva sui «tre lavori che deve fare la poesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi al- l’eccesso, per conseguire il fine, ch’ella si ha pro- posto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare com’essi [i poeti] l’insegnarono a sè medesimi » (Sc. Nuova, II, Della metafisica poetica). Questo è ancora il punto di vista tradizionale che fa dell’arte uno strumento di perfezionamento morale. Ma la stessa teoria dell’arte come conoscenza appartienall’àmbito di una concezione strumentale o educa- tiva dell’arte. Hegel ha espresso la cosa con tutta la chiarezza desiderabile. Cercando di determinare lo scopo dell’arte nella introduzione delle sue Le- zioni di E. egli elimina le teorie che lo scopo del- l’arte sia l’imitazione o l’espressione (nel qual caso sarebbe vera la formula dell’arte per l’arte) o il perfezionamento morale, per insistere sul punto che scopo dell’arte è l’educazione alla verità at- traverso la forma sensibile di cui l’arte riveste la verità stessa: e che il perfezionamento morale è una conseguenza inevitabile dell’educazione teo- retica. « Bisogna ammettere, dice Hegel, che l’arte debba rivelare la verità nella forma della rappre- sentazione sensibile, che debba rappresentare la opposizione riconciliata [tra forma sensibile e con- tenuto di verità] e che pertanto abbia il suo scopo finale in se stessa, in questa rappresentazione e manifestazione » (Vorlesungen ilber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 89). Ma l’educazione allaverità non è meno educazione dell’educazione mo- rale; e il compito dell’arte è secondo Hegel quello di produrre la morte dell’arte cioè il passaggio a quelle forme superiori di rivelazione della Verità assoluta che sono la religione e la filosofia (/bid., III, pag. 579 sgg.). Con qualche attenuazione o confusione questo punto di vista è stato ripetuto da Croce il quale riconosce che la conoscenza E. si conserva nella conoscenza filosofica come si con- serva nell’arte l’esigenza morale o la coscienza del dovere (Breviario di E., III). Alle teorie che vedono nell’arte uno strumento educativo ai fini della mo- rale e della conoscenza si sono aggiunte ora quelle che vedono in essa uno strumento di educazione politica. Sono queste le dottrine che parlano del- l'impegno (engagement) politico dell’arte e che esi- gono che l’artista assuma una precisa direttiva politica, che coordini la sua opera con le classi 0 i gruppi sociali più estesi e meno privilegiati (o con i partiti che li rappresentano o pretendono rap- presentarli) e le aiuti nello sforzo di liberazione e perciò di conquista e di conservazione del potere politico. Questa tesi che è propria delle dottrine estetiche che si ispirano all’ideologia comunista non è, filosoficamente parlando, più scandalosa delle dottrine tradizionali, che pongono come còmpito dell’arte l'educazione morale o conoscitiva. Vero è che la politica ha esigenze più mutevoli e più ar- bitrarie della morale o della conoscenza: sicchè l’engagement politico rischia di limitare in modo assai più drastico dell’engagement morale o cono- scitivo le direzioni in cui si possono compiere o sviluppare i tentativi artistici e perciò di bloccare in anticipo tentativi che potrebbero riuscire fe- condi. Ma l’autonomia, cioè il carattere finale, non strumentale dell’arte, non è garantita neppure dalldottrina che vede nell’arte un impegno conoscitivo o morale. 8) La teoria dell’espressione consiste nel vedere nell’arte una forma finale delle esperienze, delle attività o in generale degli atteggiamenti umani (v. EsprESSIONE). Il proprio dell’atteggia- mento espressivo è che esso prospetta come fine ciò che per altri atteggiamenti vale come mezzo. Per es., il vedere, che è un mezzo per orientarsi nel mondo e per servirsi delle cose, diventa un fine nell’arte sicchè il pittore non vuol altro che vedere e far vedere. Perciò anche si dice che l’espressione chiarifica e trasporta su un altro piano il mondo comune della vita: le emozioni, i bisogni e anche le idee o i concetti che dirigono l’esistenza umana. Ha detto Dewey: «L'emozione che fu elaborata in ultimo da Tennyson nella composizione In Me- moriam non era identica col sentimento di dolore che si manifesta con il pianto e con un aspetto abbattuto: la prima è un atto di espressione, la seconda di sfogo. Tuttavia è evidente la continuità delle due nozioni, cioè il fatto che l’emozione E. è l’emozione originaria, trasformata attraverso il materiale oggettivo al quale è stato affidato il suo sviluppo e il suo compimento » (Art as Experience, 1934, cap. IV; trad. ital., pag. 94-95). Da questo punto di vista l’arte non è natura ma, come dice Dewey «natura trasformata dalla sua entrata in nuove relazioni + (/bid., 1934, cap. IV; trad. ital., pag. 94-95); o, come anche si potrebbe dire, ritorno alla natura. E non fa meraviglia che spesso, dal Rinascimento all’Impressionismo, il ritorno alla na- tura sia servito a rinnovare profondamente e con successo lo stile e il gusto dell'arte. La concezione dell’arte come espressione è forse adombrata nelle affermazioni di coloro che insi- stono sul carattere teoretico o contemplativo del- l’arte. Ma è malamente adombrata quando (come fa Croce, Breviario di E., III) nello stesso tempo si ironizza sulla formula dell’arte per l’arte che è la migliore definizione del carattere espressivo del- l’arte. Su questa formula hanno insistito poeti ed artisti moderni, che si sono avvalsi di essa per difendere l’arte da ogni tentativo di asservimento o manipolazione a fini che esigerebbero la sua completa subordinazione e le toglierebbero ogni li- bertà di movimento. I testi relativi sono riportati nella voce Poesia. La formula che essi difendono dev'essere a tutt'oggi considerata come la migliore, cioè più efficace, difesa dell’attività E. e delle con- dizioni della sua fecondità. Infatti poichè questa attività, come ogni altra, procede per tentativi e ben poco si può dire in anticipo sul valore di un tentativo, il prescriverne alcuni e bandirne altri, in nome di una funzione morale o conoscitiva o po- litica dell’arte, significherebbe aumentare enorme- ETÀ mente il rischio di un insuccesso totale, giacchè nulla garantisce che il tentativo più promettente non sia fra quelli eliminati o condannati in anti- cipo. Il carattere espressivo dell’arte significa pure che le possibilità di vedere, di contemplare, di go- dere, che l’arte realizza, le nuove aperture sul mondo che essa dischiude, quando riescono espresse nell’opera, rimangono a disposizione di chiunque sia in condizione di intendere l’opera stessa. L’espres- sione è per natura sua comunicazione. La capacità di giudicare le opere d’arte di un certo stile si chiama gusto; e il gusto tènde a diffondersi e a divenire uni- forme in periodi di tempo determinati o in deter- minati gruppi d’individui. Ma indubbiamente le possibilità comunicative di un’opera d’arte riuscita sono praticamente illimitate e sono anche relativa- mente indipendenti dal gusto dominante. Questo significa che non tutti devono necessariamente ve- dere in un’opera d’arte la stessa cosa o goderla allo stesso modo. Le risposte individuali di fronte ad essa possono essere innumerevoli e presentare o meno tra loro uniformità di gusti. Ma l’importante non è quest’uniformità, ma la possibilità lasciata aperta a nuove interpretazioni, a nuovi modi di fruire dell’opera stessa. Quelli che godono di una stessa opera d’arte (per es., gli ascoltatori di un pezzo di Beethoven) non sono come i membri di una setta o gli adepti di una stessa credenza. Costituiscono tuttavia una comunità legata insieme da un interesse comune, e aperta nel tempo e nello spazio. ESTETISMO (ingl. Aestheticism; franc. Esthé- tisme; ted. Asthetizismus). Ogni dottrina o atteg- giamento che ritenga fondamentale e primari i valori estetici e riduca o subordini ad essi tutti gli altri (anche e soprattutto quelli morali). In tal senso si può chiamare E. sia una dottrina come quella di Novalis o di Schelling che vede nell’arte la rivelazione dell’Assoluto; sia un atteggiamento come quello di Oscar Wilde o di D'Annunzio, che dia la prevalenza ai valori estetici nella let- teratura e nella vita. L'E. fu caratterizzato da Kierkegaard come l’at- teggiamento di chi vive nell’istante, cioè vive per cogliere ciò che vi è d’interessante nella vita tra- scurando tutto ciò che è banale, insignificante e meschino. L’uomo estetizzante perciò evita la ri- petizione, che implica sempre monotonia e toglie l'interessante alle vicende più promettenti. Il sim-bolo o l’incarnazione dell’E. è perciò Don Giovanni il seduttore. Lo sbocco finale della vita estetizzante è, secondo Kierkegaard, la noia e quindi la dispe- razione (Werke, II, pag. 162). ESTRAPOLAZIONE (ingl. Extrapolation; franc. Extrapolation; ted. Extrapolation). 1. Il cal- colo dei valori di una funzione per argomenti che 357 sono al di là di quelli per i quali i valori della funzione sono già conosciuti. 2. Le stesso che analogia (v.). ESTREMO (gr. tè toyarov; lat. Extremum; ingl. Extreme; franc. Extréme; ted. Aeusserste). Ciò che è primo o ultimo in una qualsiasi serie. Così il termine fu inteso da Aristotele il quale notò che gli E. non sono sostanze ma limiti (Mer., XIV, 3, 1090 b 9). In questo senso si dice che il punto è l’E. della linea, la linea del piano e il piano del solido. Nello stesso senso si parla di una specie E. (ultima) che è quella più vicina all’individuo (/bid., III, 3, 998b 15). E. (ultimo) è anche il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti (Fis., VIII, 2, 244 b 4). E. sono pure i due termini del sillogismo che compaiono nella conclusione e il cui rapporto viene stabilito ad opera del termine medio (An. pr., I, 4, 25b 30). La parola si può dire abbia conservato a tutt'oggi lo stesso signi- ficato (v. ULTIMO). ESTRINSECO, INTRINSECO (ingl. Extrin- sical, Intrinsical; franc. Extrinsèque, Intrinséque; ted. Aeusserlich, Innerlich). In generale si dice in- trinseco ciò che appartiene all’essenza o alla natura di una cosa, E. ciò che le è estraneo. Secondo la logica tradizionale, è intrinseco ad un oggetto il carattere che entra nella definizione dell’oggetto stesso; per es., la razionalità, se l’uomo viene de- finito «animale ragionevole ». Dal punto di vista di una logica che non si fondi sulla nozione di essenza necessaria o di sostanza (v.), le determina- zioni E. od intrinseco hanno un significato molto più elastico perchè diventano relative ai vari signi- ficati di un oggetto qualsiasi (v. SIGNIFICATO). , ETÀ (gr. yévoc; lat. Aetas; ingl. Age; franc. Age; ted. Zeitalter). La nozione della successione di E. diverse nella storia degli uomini sulla Terra è stata spesso utilizzata dai filosofi. Il suo primo documento letterario, nel mondo occidentale, è probabilmente quello lasciatoci da Esiodo nelle Opere e giorni. Esiodo distingueva cinque E. del mondo: 1° L’E. dell’oro, nella quale gli uomini vivevano come di- vinità, privi di inquietudini, al riparo dalla fatica e dalla miseria e nell’abbondanza di tutti i beni; 2° lE. dell'argento, inferiore alla prima nella quale gli uomini difettavano soprattutto di saggezza e sirifiutavano di onorare gli dèi; 3° l’E. de/ bronzo, nella quale gli uomini furono soprattutto guerrieri, violenti e brutali; 4° l’E. degli eroi, che furono invece saggi e forti e perciò furono chiamati se- midei; e infine 5° lE. degli uomini, soggetti a ogni sorta di mali e inquietudini, ma che godono anche di beni (Op., 109-79). Queste cinque E. furono ridotte a tre da Platone. Nel Critia, facendo la storia della guerra tra l’Atlantide e l’Attica, Pla- tone narra che gli dèi un tempo si divisero a sorte 358 tutta la terra e colonizzarono così le diverse regioni, allevando gli uomini come i pastori allevano oggi le greggi. Ma Efesto ed Atena che avevano avuto da governare l’Attica, cioè la regione « natural- mente adatta alla virtù e al pensiero» vi fecero nascere, quali autoctoni, uomini eccellenti nei quali istillarono la nozione di una ordinata costituzione politica. Di questi uomini si sono serbati solo i nomi mentre i fatti « per l’estinzione di quelli che ne avevano ereditato il ricordo e per la lunghezza dei tempi, caddero nell’oblio ». E fra questi nomi Platone enumera quelli di Cecrope, Eretteo, Erit- tonio, Erisittone, come degli eroi che si ricordano anteriori a Teseo. Quando a questa E. degli eroi è successa l’E. degli uomini, di quella non è rimasta che un’oscura tradizione; giacchè gli uomini, ri- masti sprovvisti per molte generazioni delle cose necessarie alla vita, sono stati per molto tempo dominati dalla cura dei bisogni e hanno trascurato gli eventi anteriori e remoti (Crifia, 109 b sgg.). In questo racconto le tre E. degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini sono chiaramente distinte. Vico riprendendo nel sec. xvm questa divisione delle E. umane, l’attribuirà (Sc. Nuova, Idea dell’opera) all’erudito romano Marco Terenzio Varrone che l’avrebbe esposta nella sua grande opera Rerum divinarum et humanarum libri andata perduta; ma ricavava probabilmente la notizia da Diodoro Si- culo (Bibliotheca Historica, I, 44). La dottrina delle E. costituisce, nell’antichità greca, un'autentica interpretazione della storia nella sua totalità e precisamente un’interpretazione della storia come decadenza (v. STORIA). Quando, nella filosofia moderna, viene ripresa da Vico, essa perde il suo carattere pessimistico per assumere un ca- rattere ottimistico e progressivo. Inoltre il fonda- mento della divisione delle E. muta: non è più storico-mitico, come ancora nel racconto platonico, ma antropologico: ciascuna E. segnerebbe il pre- valere di una particolare facoltà umana sulle altre. Secondo Vico, infatti, la successione delle E. è determinata dal fatto che «gli uomini prima sen- tono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflet- tono con mente pura » (Sc. Nuova, 1744, degn. 53). In base a questo principio si differenziano e si suc- cedono le varie età. Ognuna di esse è contrassegnata da una specifica natura umana: quella divina è robusta di sensi e debole di raziocismo; quella eroica è nobile e saggia; quella umana intelligente e modesta, benigna e ragionevole, «la quale rico- nosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere ». A queste tre specie di natura corrispondono poi tre specie di costumi, di diritti naturali, di go- verni, di lingue, ecc. (v. STORIA, 3 d). Nel Ro- manticismo, Fichte ha ripreso la concezione delle ETÀ E. del mondo. Nello scritto intitolato Caratteri fondamentali dell’E. contemporanea (1806), Fichte distinse cinque E. della storia umana. La prima sarebbe quella dell’istinto, in cui la ragione governa la vita senza la partecipazione della volontà. La seconda è l’E. dell’autorità (o degli eroi) in cui l’istinto della ragione si esprime in personalità potenti che impongono la ragione con la forza. La terza è la liberazione dall’istinto e la rivolta contro l’autorità. La quarta è quella in cui la ra- gione riconosce la propria legge nel libero arbitrio e accetta una disciplina universale. La quinta è quella in cui la legge della ragione cessa di essere un semplice ideale per diventare pienamente reale nel mondo giustificato e santo, nell’autentico regno di Dio (Werke, VII, pag. 7 sgg.). Più semplice- mente Hegel distingueva tre E. corrispondenti al progressivo svegliarsi dello spirito alla consapevo- lezza del suo potere creativo. Nella prima E. lo spirito «è ancora tuffato nella naturalità » per cui «uno solo è libero ». È questa l’E. rappresentata dal mondo orientale. La seconda E. è quella in cui lo spirito viene a conoscenza, ma solo imperfetta- mente e parzialmente, della sua libertà per cui in essa «alcuni sono liberi». Questa seconda E. è rappresentata dal mondo greco-romano. Nella terza E. lo spirito si eleva « dalla libertà particolare alla pura universalità (l’uomo come tale è libero) al- l’autocoscienza e all’autosentimento dell’essenza della spiritualità » Questa E. è rappresentata dal mondo cristiano-germanico (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 136-37). Una divisione delle E. si può vedere anche nella «legge dei tre stati» enunciata da Augusto Comte nel Corso di filosofia positiva (1830): legge secondo la quale « ciascuna delle nostre concezioni principali, ciascuna branca delle nostre conoscenze, passa successivamente per tre stati teorici differenti: lo stato teologico o fittizio; lo stato metafisico o astratto; lo stato scientifico 0 positivo ». Questi stati ricorrerebbero, ugualmente, secondo Comte, nello sviluppo dell’in- dividuo; il quale sarebbe « teologo nell’infanzia, me- tafisico nella giovinezza e fisico nella virilità » (Phil. pos., I, Jez. I, $ 2). Con il progredire della conoscenza storica nel mondo moderno e contem- poraneo la nozione di E. caratterizzabili con pochi tratti mitici o antropologici e succedentisi secondo una regola costante è caduta in disuso: essa infatti contrasta con l’indirizzo individuante della moderna indagine storica. Si fa invece frequente riferimento alla nozione di epoca (v.) che è quella di un periodo storico caratterizzato da un avvenimento imma- nente e fondamentale. Nella nozione di E., quello che importa è la legge secondo cui le E. si succe- dono. Nella nozione di epoca, quello che importa è l'avvenimento che dà il carattere al periodo. Le due nozioni andrebbero tenute distinte. Non sempre tuttavia lo sono nell’uso corrente; e si parla di «E.» della tecnica mentre si dovrebbe parlare di «epoca » della tecnica. ETERE (gr. al0n6; lat. Aether; ingl. Ether; franc. Éther; ted. Ether). Il termine, che Empe- docle usò (Fr., 100.5, Diels) come equivalente di aria e Anassagora (Fr., 15, Diels) come equivalente di fuoco, fu adoperato da Aristotele a indicare la sostanza che compone i cieli, in quanto si diffe- renzia, per la sua ingenerabilità, incorruttibilità e inalterabilità, dai quattro elementi che costituiscono le cose sublunari. Aristotele attribuisce l’uso di questo termine, che ritiene il più adatto ad indicare i cieli come sedi della divinità, ad una tradizione assai antica. « Gli uomini, egli scrive, volendo in- dicare che il primo corpo è alcunchè di diverso dalla terra, dal fuoco, dall’aria e dall’acqua, chia- marono il più alto luogo con il nome di E., derivato dal fatto che esso ‘corre sempre’ per un’eternità di tempo. Anassagora tuttavia, fraintese malamente il nome, scambiando l’E. per il fuoco » (De Cuel., I, 3, 270b 20). L’E. fu poi chiamato, ma non da Aristotele « quinto corpo » o « quinta sostanza » o «quinto elemento» (P/acit., I, 3, 22; 2, 25, 7; 2, 6, 2). Dell'E. fa menzione nello stesso senso di Aristotele l’Epinomide attribuito a Platone (981 c, 984 b). Gli Stoici a loro volta identificarono l’E. con il fuoco di Eraclito, attribuendogli però la stessa funzione e la stessa dignità che Aristotele. « Più in alto di tutti c’è il fuoco, che chiamano E., dal quale è costituita sia la prima sfera immobile dei cieli sia le altre sfere mobili » (Dio. L., VII, 137). Cicerone così illustrava questa teoria stoica: 4 Dall’E. sorgono innumerevoli astri fiammeggianti di cui primo è il Sole che tutto illumina con la sua luce splendente ed è molte volte più grande e più esteso dell'intera Terra, poi gli altri astri di smisu- rata grandezza » (De nat. deor., II, 36, 92; Acad., I, 7, 25). La nozione rimane fissata nella tradizione medievale in questi termini, finchè si credette alla differenza di natura tra sostanza celeste e sostanza sublunare: differenza che fu per la prima volta negata da Cusano (De docta ignor., II, 12). Il nome fu riesumato da Fresnel (nei primi de- cenni dell’800) per designare un ipotetico mezzo elastico che facesse da supporto alle onde luminose. L’ipotesi dell’E. è stata mantenuta nella fisica sino a che la teoria della relatività generale di Einstein l’ha resa inutile. ETERNITÀ (gr. didiémne, alby; lat. Aeter- nitas; ingl. Eternity; franc. Éternité; ted. Ewigkeit). Il termine ha due significati fondamentali: 1° du- rata indefinita nel tempo; 2° intemporalità come contemporaneità. La filosofia greca ha conosciuto entrambi questi significati. Eraclito ha espresso primo, affermando che il mondo «era da sempre, è e sarà fuoco sempre vivo che si accende a inter- valli e a intervalli si spegne » (Fr., 30, Diels). Par- menide invece ha espresso il secondo: « L’essere non era nè sarà ma è nel presente tutto insieme, uno, continuo » (Fr., 8, Diels). Platone ha espli- citamente contrapposto i due significati: « Della sostanza eterna, egli dice, noi diciamo a torto che era, che è, e che sarà, mentre ad essa in verità non compete che l’è ed invece l’era ed il sarà si devono predicare solo della generazione che pro- cede nel tempo» (Tim., 37 e). Aristotele ha utiliz- zato entrambi i concetti. Da un lato infatti il mondo fuori del quale non c’è nè spazio nè vuoto nè tempo abbraccia l’intera estensione del tempo ed è eterno (De Caelo, I, 9, 279 a 25). L’E. in questo senso è durata (x\&v). Dall'altro lato, le sostanze immobili, i motori dei cieli, sono eterni in un altro senso: nel senso di essere fuori del tempo. « Gli enti eterni (tà «el &vra) in quanto eterni, dice Aristotele, non sono nel tempo: infatti non sono abbracciati dal tempo nè il loro essere è misurato dal tempo; il segno di questo è che essi non subiscono affatto l’azione del tempo, non essendo nel tempo » (Fis., IV, 12, 221b 3). Questa distinzione aristotelica è rimasta classica. Plotino identificò l’E. («lwv) col modo d'essere proprio del mondo intellegibile cioè con «ciò che persiste nella sua identità, che è sempre presente a se stesso nella sua totalità, che non è ora questo e poi quello ma è, tutto insieme, perfezione indivi- sibile, come quella di un punto in cui s’uniscano tutte le linee senza che si spandano al di fuori: un punto che persista in se stesso nella sua identità e non subisca modificazioni, che esista sempre nel presente, senza passato nè futuro, ma sia ciò che è e lo sia sempre » (Enn., III, 7, 3). Plotino ripete a questo proposito la notazione parmenidea e pla- tonica: eterno è ciò che non era nè sarà ma soltanto è. S. Agostino impostava la sua analisi del tempo sulla contrapposizione tra il tempo e l’E. (Conf., XI, 11; De civ. dei, XI, 4, 6). E Boezio esprimeva correttamente la distinzione tra i due concetti di E.: «Ciò che subisce la condizione del tempo, egli diceva, anche se, come Aristotele credette del mondo, non ha nè principio nè fine, e anche se la sua vita si prolunga nell’infinità del tempo, non ancora tuttavia si può legittimamente credere eterno. Infatti la sua vita pur essendo infinita non comprende nè abbraccia la propria intera durata giacchè non comprende e non abbraccia ancora il futuro e non abbraccia più il passato. Pertanto solo ciò che abbraccia e possiede ugualmente nella sua totalità la pienezza di una vita senza limiti, sicchè non gli manchi nulla dell’avvenire e nulla gli sia sfuggito del passato, solo questo è l’essere che si deve rite- nere eterno: necessariamente esso si possiede in- teramente nel presente e possiede nel presente l’infinità del tempo » (Phil. Cons., V, 6, 6-8). Dopo Boezio la distinzione è diventata un luogo comune della filosofia. S. Tommaso fissava con accuratezza la relativa terminologia. L’E. come «totale simul- taneo e perfetto possesso di una vita senza limiti » è caratterizzata: 1° dall'assenza del principio e della fine; 2° dall’assenza di successione in quanto è un eterno presente. La durata (aevum) invece è propria delle cose che sono soggette al movimento locale e per il resto sono immutabili, come è il cielo; ed è perciò qualcosa di intermedio fra l’E. e il tempo (S. 7A., I, q. 10, a. 1, 5). Questo concetto dell’E. è rimasto proprio anche del razionalismo moderno. Spinoza identifica l’E. con l’esistenza stessa della Sostanza in quanto implicita nell’es- senza di essa e quindi necessaria. E chiarisce: « Una tal esistenza in quanto verità eterna è con- cepita come l’essenza della cosa; e però essa non può essere spiegata per mezzo della durata o del tempo, anche se la durata si concepisca senza prin- cipio e senza fine » (£r., I, def. 8, chiar.). Pertanto concepire le cose sotto l’aspetto dell’E. (sub specie aeternitatis) significa concepirle come manifesta- zioni dell’essenza divina e derivate necessariamente dalla sua natura (/bid., V, 30). Leibniz afferma, contro Locke, la precedenza di una «idea dell’as- soluto » che sarebbe a fondamento della nozione dell’E. (Nouv. Ess., II, 14, 27). E l’intera filosofia hegeliana è concepita dal punto di vista di un’E. così intesa. Hegel nega che l’E. possa essere intesa negativamente come astrazione o negazione del tempo o come se venisse dopo il tempo (Enc., $ 258). L'E. è per lui il forum simul delle determina- zioni dell’Idea. « L’Idea, eterna in sè e per sè, si attua, si produce e gode se stessa eternamente come spirito assoluto » (/bid., $ 577). « Intemporalità » e «presente eterno» sono le espressioni che più frequentemente ricorrono, anche nella filosofia contemporanea, quando si avvale della nozione di eternità. L’ultima espressione è quella che ricorre, per es., nell'opera di Lavelle, Il tempo e l’E. (1945) come in molti altri idealisti e spiritualisti contemporanei. Già però McTaggart aveva osservato che concepire l’E. come « eterno presente » è una metafora non del tutto appro- priata perchè significa fare pur sempre riferimento al tempo, dato che il presente è una parte del tempo e suppone passato e futuro. E aveva per suo conto proposto di considerare l’eterno come situato nel futuro, alla fine o alla consumazione dei tempi (in Mind, 1909, pag. 355). Ed è infatti oggi abbastanza chiaro che la concezione 2 dell’E., quale è stata espressa, con impressionante unifor- mità, da Parmenide a noi, non è altro che un’ima- gine ridotta del tempo: è il tempo stesso ridotto ad una delle sue determinazioni e precisamente alla contemporaneità (il totum simul) che, come oggi tutti sanno, è non solo temporalità ma temporalità misurabile. Quanto alla concezione dell’E. come aevum, cioè come durata temporale indefinita, essa va incontro a quelle obiezioni che già Kant esponeva nella sua critica alla cosmologia razionale del xviri secolo (v. COSMOLOGIA). ETEROGENEITÀ, LEGGE DI. V. Omo- GENEITÀ. ETEROGENESI DEI FINI (ted. Herero- gonie der Zwecke). Wundt ha chiamato col nome solenne di «legge dell’E. dei fini» l'osservazione non molto peregrina che i fini che la storia realizza non sono quelli che gli individui o le comunità si propongono, ma sono piuttosto la risultante della combinazione, del rapporto e del contrasto delle volontà umane tra loro e con le condizioni oggettive (Ethik, 1886, pag. 266; System der Phil., 1889, I, pag. 326; II, pag. 221 sgg.). Si può ricordare che Vico aveva espresso lo stesso concetto in una pa- gina famosa: « Perchè pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni (che fu il primo principio incontrastato di questa Scienza, dappoichè disperammo di ritruovarla da filosofi e da filologi); ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta con- traria e sempre superiore ad essi fini particolari ch’essi uomini si avevan proposti; quali fini ristretti, fatti mezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adoperati per conservare l’umana generazione in questa Terra » (Sc. Nuova, 1744, Concl. dell’opera). ETEROLOGICO. V. AuroLocico. ETERONOMIA. V. AUTONOMIA. ETEROZETESI (lat. Heterozetesis). Lo stesso che /gnoratio Elenchi (v.). ETICA (gr. tà }0wd; lat. Erhica; ingl. Ethics; franc. Éthique; ted. Erhik). In generale, la scienza della condotta. Esistono due concezioni fondamen- tali di questa scienza e cioè: 1 quella che la con- sidera come scienza del fine cui la condotta degli uomini dev’essere indirizzata e dei mezzi per rag- giungere tale fine; e deduce sia il fine che i mezzi dalla natura dell’uomo; 2* quella che la considera come la scienza del movente della condotta umana e cerca di determinare tale movente in vista di di- rigere o disciplinare la condotta stessa. Queste due concezioni, che si sono variamente intrecciate nel- l’antichità e nel mondo moderno, sono profonda- mente diverse e parlano due linguaggi diversi. La prima parla infatti il linguaggio dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e per con- seguenza della « natura » o «essenza » 0 « sostanza » dell’uomo. La seconda parla invece dei « motivi + o delle «cause» della condotta umana o delle ‘ forze » che la determinano e pretende di attenersi al riconoscimento dei fatti. La confusione tra questi due punti di vista eterogenei è stata resa possibile dal fatto che entrambi si presentano abitualmente nella forma apparentemente identica di una defini- zione del bene. Ma l’analisi della nozione di bene (v.) mostra sùbito l’ambiguità che essa cela: giacchèbene può significare o ciò che è (per il fatto che è) o ciò che è oggetto di desiderio, di aspirazione, ecc.: e questi due significati corrispondono esattamente alle due concezioni dell’E. sopra distinte. Difatti è propria della concezione 18 la nozione del bene come realtà perfetta o perfezione reale, mentre è propria della concezione 23 la nozione del bene come oggetto di appetizione. Sicchè quando si af- ferma «Il bene è la felicità», la parola «bene» ha un significato completamente diverso da quello che essa trova nell’affermazione «Il bene è il piacere ». La prima asserzione (nel senso in cui essa è fatta, per es., da Aristotele e da S. Tom- maso) significa: «La felicità è il fine della con- dotta umana, deducibile dalla natura razionale del- l’uomo »j mentre la seconda asserzione significa: «Il piacere è il movente abituale e costante della condotta umana ». Poichè il significato e la portata delle due asserzioni sono pertanto completamente diversi, la distinzione tra etiche del fine ed etiche del movente deve essere tenuta continuamente pre- sente nelle discussioni sull’etica. Tale distinzione, mentre spacca in due la storia dell’E., consente di riconoscere come irrilevanti molte delle  discus- sioni di cui essa è tessuta e che non hanno altra base se non la confusione fra i due significati 1° Entrambe le dottrine etiche elaborate da Platone, cioè sia quella che trova la sua migliore espressione nella Repubblica sia quella che trova la sua migliore espressione nel Filebo, si inscrivono nella prima delle concezioni che abbiamo distinto. L'E. esposta nella Repubblica è infatti un’E. delle virtù; e le virtù sono funzioni dell'anima (Rep. I, 353b) le quali sono determinate dalla natura dell'anima e dalla divisione delle sue parti (/bid., IV, 434 e). Il parallelismo tra le parti dello Stato e le parti dell'anima consente a Platone di deter- minare e definire le virtù particolari nonchè quella che le comprende tutte: la giustizia come rispon- denza di ogni parte alla sua funzione (/bid., 443 d). Analogamente, l’E. del Filebo procede in primo luogo a definire il bene come forma di vita mista di intelligenza e di piacere; e consiste nel determi- nare la misura di questa mescolanza (Fil., 27 d). L'E. di Aristotele è poi il prototipo stesso di questa concezione. Aristotele procede a determinare il fine della condotta umana (la felicità) ricavandolo dalla natura razionale dell’uomo (Er. Nic., I, 7); e pro- cede poi a determinare le virtù che sono la con- dizione della felicità. A sua volta l’E. degli Stoici, con la sua massima fondamentale del « vivere se- condo ragione» intende dedurre le regole della condotta dalla natura razionale e perfetta della realtà (StoBEO, Ec/., II, 76, 3; Dios. L., VII, 87). Il misticismo neoplatonico pose come fine della condotta umana il ritorno dell’uomo al suo prin- cipio creatore e l’immedesimarsi con esso. Secondo Plotino, questo ritorno è «la fine del viaggio» dell’uomo; è un allontanamento da tutte le cose esterne, «la fuga di uno solo verso uno solo» cioè dell’uomo nel suo isolamento verso l'Unità divina (Enn., VI, 9, 11). Per quanto diverse siano le dottrine cui si è fatto cenno, nelle loro interne articolazioni, la loro im- postazione formale è identica. Esse procedono: a) a determinare la natura necessaria dell’uomo; b) a dedurre da tale natura il fine cui dev'essere indirizzata la sua condotta. Tutta l’E. medievale

si mantiene fedele a questo schema. Così, ad es., l’intera E. di S. Tommaso è dedotta dal principio « Dio è l’ultimo fine dell’uomo» (S. 7h., II 2, q. 1, a. 8): principio dal quale si deduce la dottrina della felicità e quella della virtù. Si può scorgere una istanza critica contro questa impostazione nel punto di vista di Duns Scoto e molti Scolastici del ’300: che le norme morali sono fondate sul puro e sem- plice comando divino, tranne appunto la norma che impone di ubbidire a Dio, che sarebbe la sola « naturale » (Op. Ox., III, d. 37, q. 1; cfr. OCKHAM, In Sent., II, q. SH). E difatti questo appello al- l’arbitrio divino è il risultato della riconosciuta impossibilità di dedurre dalla natura dell’uomo il fine ultimo della sua condotta (Op. Ox., IV, d. 43, q. 2, n. 27, 32). Ma con ciò non è tuttavia aperta alla ricerca etica un’alternativa diversa. Nella filosofia moderna i Neoplatonici di Cam- bridge riprendono la concezione stoica di un or- dine dell’universo che vale anche a dirigere la condotta dell’uomo; e pertanto insistono sull'inna- tezza delle idee morali come in generale di tutte le idee generali o direttive di cui l’uomo è in possesso (CupwortH, The True Intell. System, 1678, I, 4; MORE, Enchiridion, 1679, III). E la filosofia roman- tica ha dato la forma più radicale a questa con- cezione dell’etica. Fichte esige che l’intera dottrina morale sia dedotta dalla « autodeterminazione del- 1’Io » (Sitrenlehre, Intr., $ 9). Il fine della morale è perciò da lui posto nell’adeguamento dell’io empi- rico all’Io infinito, adeguamento che non è mai completo e perciò provoca un progresso all’infinito, la progressiva liberazione dell’io empirico dai suoi limiti (/bid., in Werke, II, pag. 149). Secondo Hegel, il fine della condotta umana, che è nello stesso tempo la realtà nella quale tale condotta trova la 362 sua integrazione e la sua perfezione, è lo Stato. Perciò l’E. è per Hegel una filosofia del diritto. Lo Stato è «la totalità etica », Dio che si è realiz- zato nel mondo (Fil. del Dir., $ 258, Zusatz). Lo Stato è il culmine di quella che Hegel chiama « eti- cità » (Siftlichkeit) cioè la moralità che trova corpo e sostanza in istituzioni storiche che la garantiscono; mentre la « moralità » (Moralitàt) di per se stessa è semplicemente intenzione o volontà soggettiva del bene. Ma a sua volta il bene non è altro che « l’es- senza della volontà nella sua sostanzialità e uni- versalità » ovvero «la libertà realizzata, l’assoluto scopo finale del mondo » (/bid., $ 139-42): cioè lo Stato stesso. Sicchè si può dire che per Hegel la moralità non è che l’intenzione o la volontà sog- gettiva di realizzare ciò che si trova realizzato nello Stato. Il concetto dello Stato è il punto di partenza e il punto di arrivo dell’E. di Hegel. Conforme all’E. tradizionale del fine è l’E. di Ro- smini, secondo la quale il bene si identifica con l’essere, sicchè la massima fondamentale della con- dotta si può formulare così: « Volere o amare l’essere ovunque lo si conosca, secondo l’ordine che esso presenta all’intelligenza » (Princ. della scienza morale, ed. naz., pag. 78). Ma sia che la realtà si definisca come Essere sia che si definisca come Spirito o Coscienza, la struttura delle dottrine morali che pretendono dedurre la morale dal fine mostrano una grande uniformità di procedimenti e di conclusioni. Si considerino, per es., nella filo- sofia contemporanea, l’E. di Green e quella di Croce. Secondo Green, la Coscienza infinita, cioè Dio, è ab aeterno tutto ciò l’uomo ha la possibilità di diventare: e cioè il Bene o Fine supremo che è l’oggetto della buona volontà umana: bene che la ragione ha il compito di concepire e di porre come a fondamento della sua legge (Prolegomena to Ethics, 3* ediz., 1890, pag. 198, 214). Volere il bene significa perciò volere la Coscienza assoluta, cercare di realizzare quello che è presente in essa. Allo stesso modo per Croce l’attività etica è « vo- lizione dell’universale »; ma l’universale «è lo Spi- rito, è la Realtà in quanto è veramente reale, cioè in quanto unità di pensiero e volere; è la Vita in quanto è còlta nella sua profondità come unità stessa; è la Libertà, se una realtà così concepita è perpetuo svolgimento, creazione, progresso » (Filo- sofia della pratica, 1909, pag. 310). Agire moralmente significa perciò volere lo Spirito infinito, assumerlo come Fine: un'impostazione dell’E. che (come quella di Fichte, Hegel, Green) non si distingue dall’E. tra- dizionale che (come quella di Platone, Aristotele, S. Tommaso e Rosmini) fa appello alla Realtà o all’Essere. Una forma più complessa e moderna della stessa E. del fine si può scorgere nella dottrina di Bergson. ETICA Bergson ha distinto una morale chiusa e una mo- rale aperta. La morale chiusa è ciò che s’intende comunemente con questo termine. Essa corrisponde nel mondo umano a ciò che è l’istinto in certe società animali: tènde cioè al fine di conservare le società stesse. « Supponiamo un istante, dice Bergson, che la natura abbia voluto all’altra estremità della linea [cioè all’estremità della linea evolutiva del- l’intelligenza in quanto diversa da quella dell’istinto] ottenere società in cui una certa latitudine fosse lasciata alla scelta individuale: essa avrà fatto sì che l’intelligenza ottenga qui risultati paragona- bili, quanto alla loro regolarità, a quelli dell’istinto nell’altra: avrà fatto ricorso ad abitudini. Ciascuna di queste abitudini, che si potranno chiamare ‘mo- rali” sarà contingente; ma il loro insieme, cioè l’abitudine di contrarre abitudini, essendo alla base stessa delle società, avrà una forza paragonabile a quella dell’istinto sia come intensità che come regolarità » (Deux Sources, I; trad. ital., pag. 23). Dall’altro lato però c’è la morale dei profeti e degli innovatori, dei mistici e dei santi. Questa è la mo- rale in movimento, fondata sull’emozione, sul- l’istinto, sull’entusiasmo: una morale che è un impulso di rinnovamento coincidente con lo stesso slancio creatore della vita. Questa dualità di forze è a fondamento di ogni morale secondo Bergson. « Pressione sociale e slancio di amore non sono che due manifestazioni complementari della vita, normalmente applicate a conservare all’ingrosso la forma sociale che fu caratteristica della specie umana fin dall’origine, ma eccezionalmente capaci di trasfigurarla grazie a individui di cui ognuno rappresenta, come avrebbe fatto l'apparizione di una nuova specie, uno sforzo di evoluzione crea- trice » (/bid., pag. 101). Bergson ha così dedotto dall’ideale del rinnovamento morale l’esistenza di una forza destinata a promuovere tale rinnova- mento; come ha dedotto dal concetto di una « so- cietà chiusa » la sua nozione della morale corrente. La sua E. pertanto obbedisce alla classica impo- stazione dell’E. del fine. Quando nella filosofia contemporanea la nozione di valore (v.) ha cominciato a sostituire quella di bene, la vecchia alternativa tra l’E. del fine e l’E. della motivazione ha assunto una forma nuova. Il valore infatti si sottrae all’alternativa propria della nozione di bene che può essere interpretata in senso oggettivo (come realtà) o in senso sogget- tivo (come termine di appetizione). Il valore possiede un modo d'essere oggettivo nel senso di poter essere inteso o appreso indipendentemente dall’appeti- zione; ma è nello stesso tempo dato in una qualche forma di esperienza specifica. Il valore viene per- tanto costantemente riconosciuto dotato di tre ca- ratteri: @) l’oggettività; 5) la semplicità, per cui e indefinibile e indescrivibile nel senso in cui lo è una qualità sensibile elementare; c) la necessità 0 la problematicità. Quest’ultima è per l’appunto l’alternativa che sostituisce nell'àmbito della no- zione di valore quella tra soggettività e oggettività propria della nozione di bene. Ora le dottrine che riconoscono la necessità del valore cioè la sua as- solutezza, eternità, ecc., hanno una stretta parentela con le dottrine etiche tradizionali del fine; mentre le dottrine che riconoscono la problematicità del valore sono strettamente imparentate con le dot- trine etiche della motivazione. Le dottrine di Scheler e Hartmann sono tra quelle che affermano la ne- cessità del valore. Scheler ha elaborato la sua «E. materiale dei valori» proprio allo scopo di rendere l’E. immune da quel relativismo cui con- duce un’E. materiale del bene cioè un’E. che vede nel bene il semplice oggetto dell’appetizione. Se- condo Scheler, le appetizioni (o aspirazioni o im- pulsi o desideri) hanno i loro fini in se stesse cioè «in un contemporaneo o precedente sentimento dei loro componenti axiologici ». I fini dell’appetizione possono diventare scopi della volontà, quando ven- gono rappresentati e scelti e così divengono un dover essere reale, cioè i termini di un’esperienza oggettiva. Ma i valori sono dati anteriormente e indipendentemente sia dai fini che dagli scopi e anche sono date indipendentemente da tali fini e scopi le preferenze dei valori, cioè la loro gerarchia. « Possiamo infatti, dice Scheler, sentire i valori, anche morali, nella comprensione degli altri, senza che essi vengano fatti oggetto di aspirazione o siano immanenti ad una aspirazione. Similmente possiamo preferire o posporre un valore ad un altro, senza con ciò scegliere tra le aspirazioni che si dirigono a tali valori. Tutti i valori possono es- sere dati e preferiti senza alcuna aspirazione 1 (For- malismus, pag. 32). In altri termini, l’E. non è fondata nè sulla nozione del bene nè su fini imme- diatamente presenti alla aspirazione e su scopi deliberatamente voluti ma sull’intuizione emotiva, immediata e infallibile dei valori e dei loro rapporti gerarchici; intuizione che è alla base di ogni aspi- razione, desiderio e deliberazione volontaria. Hart- mann ha espresso in modo più scolasticamente chiaro ed efficace la stessa concezione dell'etica. «C’è, egli dice, un regno di valori sussistente in sè, un autentico ‘ mondo intellegibile * che sta al di là della realtà come al di là della coscienza, una sfera ideale etica, non costruita, inventata o sognata, ma effettivamente esistente e afferrabile nel feno- meno del sentimento axiologico, la quale sussiste accanto a quella ontica reale e a quella gnoseolo- gica attuale (Erhik, 1926, pag. 156). L’«essere in sè » dei valori sottolinea la loro indipendenza dalla stessa intuizione axiologica in cui sono dati e perciò la loro necessità e assolutezza che, nell’in- tenzione di Hartmann, dovrebbe sbarrare la strada al «relativismo axiologico di Nietzsche» (/bid., pag. 139). Tuttavia il « relativismo axiologico di Nietzsche » ha la stessa struttura formale, cioè la stessa impo- stazione, dell’E. di Hartmann e in generale del- l’E. tradizionale del fine, perchè si fonda anch’esso su una gerarchia assoluta di valori. Scheler e Hart- mann ritengono che tale gerarchia, come i valori stessi, sia completamente indipendente dalla scelta umana, e che ogni scelta anzi la presupponga, sia o no ad essa conforme. Ma questa è precisamente anche la credenza di Nietzsche. Soltanto che, per Nietzsche, tale gerarchia è diversa: è una gerarchia dei valori vitali, dei valori in cui s’incarna la Vo- lontà di Potenza. «I valori morali, dice Nietzsche, hanno occupato fino ad oggi il rango superiore; chi potrebbe dubitare di essi? Ma togliamo a questi valori il loro posto e muteremo tutti i valori: ca- povolgeremo il principio della loro gerarchia pre- cedente» (Wille zur Macht; trad. franc. Bianquis, III, 503). L’immoralismo di Nietzsche, il suo « relati- vismo axiologico», per il quale egli si fa critico della morale corrente e vede in essa forme camuffate di egoismo ed ipocrisia, è semplicemente la proposta di una nuova tavola dei valori fondata sul prin- cipio dell’accettazione entusiastica della vita, sulla preminenza dello spirito dionisiaco. È proprio per questo che Nietzsche intende sostituire alle virtù della morale tradizionale le nuove virtù în cui si esprime la volontà di potenza. È virtù ogni passione che dice sì alla vita ed al mondo: «la fierezza, la gioia e la salute, l’amore sessuale, l’inimicizia e la guerra, la venerazione, le belle attitudini, le buone maniere, la volontà forte, la disciplina dell’intel- lettualità superiore, la volontà di potenza, la rico- noscenza verso la terra e verso la vita; tutto ciò che è ricco e vuol dare, vuol gratificare la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla » (/bid., $ 479). Nietzsche ha dedotto così da quella che egli ha ritenuta la narradell’uomo, cioè dalla volontà di potenza, la tavola dei valori morali, che dovreb- bero indirizzare alla realizzazione della stessa vo- lontà di potenza in un mondo di superuomini. La struttura della sua dottrina non è perciò diversa da quella di molte altre che, utilizzando lo stesso procedimento, tendono a conservare e giustificare le tavole dei valori tradizionali, deducendole dalla natura dell’uomo o dalla struttura dell'essere. 2° La seconda concezione fondamentale dell’E. è quella che si configura come una dottrina del movente della condotta. La caratteristica di questa concezione è che in essa il bene non viene definito in base alla sua realtà o perfezione ma solo come oggetto della volontà umana o delle regole che la dirigono. Sicchè mentre nella prima concezione le norme sono derivate dall’ideale che si assume come proprio dell’uomo (la perfezione della vita razio- nale secondo Aristotele, lo Stato secondo Hegel, la società chiusa o aperta secondo Bergson, ecc.); nella seconda concezione si mira anzitutto a deter- minare il movente dell’uomo, cioè la regola alla quale egli ubbidisce in linea di fatto; e conseguen- temente si definisce come bene ciò a cui si tènde in virtù di quel movente o che è conforme alla regola in cui esso si esprime. Così quando Prodico formulava la sua morale nella forma di proposizioni condizionali o imperativi ipotetici, dava luogo a un’E. del movente che è tra le prime che siano state proposte. Egli diceva: «Se vuoi che gli dèi ti siano benevoli, devi venerare gli dèi. Se vuoi essere amato dagli amici, devi beneficare gli amici. Se desideri essere onorato da una città, devi essere utile alla città. Se aspiri ad essere ammirato da tutta la Grecia, devi sforzarti di far bene alla Grecia, ecc.» (Senor., Memor., II, i, 28). Allo stesso modo un’E. del movente è quella a cui mira Protagora quando riconosce che il rispetto reci- proco e la giustizia sono le condizioni per la so- pravvivenza dell’uomo. Questo è il senso del mito di Prometeo, che Platone fa esporre a Protagora nel dialogo omonimo (Pror., 322 c). E lo scritto sofistico che va sotto il nome di Anonimo di Giam- blico ribadisce questo punto di vista. « Se anche ci fosse, come non c’è, un uomo invulnerabile, insen- sibile, con un corpo e un’anima d’acciaio, solo alleandosi alle leggi e al diritto e rafforzandole e usando la sua forza per esse e per ciò che le favorisce, egli potrebbe salvarsi, giacchè altrimenti non po- trebbe resistere » (Anon. Jambl., 6, 3). In queste formulazioni, ciò che si ténde a mettere in luce è il meccanismo dei moventi che sono a fondamento delle regole del diritto e della morale: per soprav- vivere, l'uomo si conforma a tali regole e non può agire altrimenti. In tali formulazioni il movente della condotta umana è il desiderio o la volontà di sopravvivere. In altre formulazioni del genere, questo movente è il piacere. Aristippo affermava che solo il piacere è desiderato di per se stesso; e vedeva la conferma di questo nel fatto che sin da bambini gli uomini, senza deliberata volontà, cercano il piacere e quando lo hanno raggiunto non cercano altro, mentre fuggono il dolore che ne è l’opposto (Diog. L., II, 88). Lo stesso signi- ficato di semplice riconoscimento di quello che è, in linea di fatto, il movente della condotta umana ha il principio dell’E. di Epicuro: « Piacere e do- lore sono le due affezioni che si ritrovano in ogni animale, l’una favorevole l’altra contraria, attra- verso le quali si giudica ciò che si deve scegliere e ciò che si deve fuggire » (Diog. L., X, 34).Questa concezione dell’E. è rimasta assente per tutto il Medioevo e viene ripresa soltanto nel Ri- nascimento. Lorenzo Valla la ripresentò per primo nel De voluptate, affermando che il piacere è l’unico fine dell’attività umana e che la virtù non consiste in altro che nella scelta del piacere (De vol., II, 40). E Telesio ripresentava l’altra alternativa tradizio- nale della stessa concezione, derivando le norme dell’E. dal desiderio, che è in ogni essere, della propria conservazione (De rer. nat., IX, 2). In modo rigoroso e sistematico Hobbes poneva questo stesso principio a fondamento della morale e del diritto. «Il primo dei beni, egli scrive, è la conservazione di sè. La natura infatti ha provveduto perchè tutti desiderino il proprio bene; ma affinchè possano essere capaci di questo, bisogna che desiderino la vita, la salute e la maggiore sicurezza possibile di queste cose per il futuro. Di tutti i mali invece il primo è la morte, specialmente se si accompagna con il tormento; giacchè i mali della vita possono essere tanti che, se non si prevede vicina la loro fine, fanno annoverare la morte tra i beni» (De hom., XI, 6). In questa tendenza alla propria con- servazione e in generale al conseguimento di tutto ciò che giova, Spinoza vide la stessa azione ne- cessitante della Sostanza divina. «La ragione, egli dice, non richiede nulla contro la natura, ma ri- chiede di per sè, innanzi tutto, che ognuno ami se stesso, ricerchi l’utile che sia veramente tale per lui e desideri tutto quello che conduce l’uomo a una perfezione maggiore; e in modo assoluto che ciascuno si sforzi, per quanto è in lui, di conservare il proprio essere. Il che è, di necessità così vero, quanto è vero che il tutto è maggiore della parte + (Et., IV, 18, scol.). Locke e Leibniz erano d’ac- cordo sullo stesso fondamento dell’etica. Diceva Locke: « Poichè Dio ha messo un legame indisso- lubile fra la virtù e la pubblica felicità, e ha reso la pratica dellavirtù necessaria alla conservazione della società umana e visibilmente vantaggiosa per tutti coloro con cui hanno a che fare le persone dabbene, non bisogna meravigliarsi se ciascuno vuole non solamente approvare queste regole, ma altresì raccomandarle agli altri, essendo persuaso che, se le osserveranno, ne verranno vantaggi a lui stesso » (Saggio, I, 2, 6). E Leibniz a sua volta riconosceva come fondamento della morale il prin- cipio «Seguire la gioia ed evitare la tristezza », ritenendolo tuttavia affidato più all’istinto che alla ragione (Nouv. Ess., I, 2, 1). Come si vede, l’E. del ’600 e del *700 manifesta un alto grado di uniformità: non solo essa è una dottrina del mo- vente ma anche la sua oscillazione fra la «ten- denza alla conservazione» e la «tendenza al pia- cere» come base della morale non implica una diversità radicale giacchè il piacere stesso non è che l’indice emotivo d’una situazione favorevole alla conservazione (v. EMozioNE). Ciò con cui una E. siffatta è in opposizione radicale, è l’E. del fine, cioè l'’E. nella sua impostazione tradizionale pla- tonico-aristotelico-scolastica. La caratteristica fon- damentale della filosofia morale inglese del °700, la quale ha un’importanza tutta particolare nella storia dell’E., consiste nell’aver portato alla luce e nell'aver assunto come tema principale di discus- sione per l'appunto il contrasto tra l’R. del movente e l’E. del fine: un contrasto che apparve come quello tra ragione e sentimento. Dice Hume: « C°è una controversia nata da poco, molto più degna di esame, intorno ai fondamenti generali della morale: se essi cioè siano derivati dalla ragione o dal senti mento: se giungiamo alla loro conoscenza per via di un séguito di argomenti e di induzioni o per via di un sentimento immediato e di un fine senso in- teriore » (Ing. Conc. Morals, I). Hume afferma che il primo ad accorgersi di questa distinzione è stato Lord Shaftesbury; e in realtà Shaftesbury parlò di un senso morale che è una specie di istinto naturale o divino, specificazione nell’uomo del prin- cipio d’armonia che regola l’universo (Caratteri stiche di uomini, maniere, opinioni e tempi, 1711). Già Hutchinson interpretava il senso morale come tendenza diretta a realizzare «la massima felicità del maggior numero possibile di uomini » (Ricerca sulle idee di bellezza e di virtà, 1725, III, 8): una formula che sarà fatta propria da Beccaria e da Bentham. E fu Hume a trovare la parola che espri- meva questo nuovo indirizzo: il fondamento della morale è l’urilità. In altri termini l’azione buona è quella che procura « felicità e soddisfazione» alla società; e l’utilità piace perchè risponde a un bi- sogno o tendenza naturale: quello che inclina l’uomo a promuovere la felicità dei suoi simili (7g. Conc. Morals, V, 2). La ragione e il sentimento entrano perciò egualmente nella morale, secondo Hume: «La ragione ci istruisce sulle diverse direzioni del- l’azione, l’umanità ci fa stabilire la distinzione a favore di quelle che sono utili e benefiche » (/bid., App. I. Il sentimento di umanità, cioè la tendenza a godere della felicità del prossimo, è perciò, se- condo Hume, il fondamento della morale cioè il movente fondamentale della condotta umana. Alcuni anni più tardi Adamo Smith chiamerà simpatia questo stesso sentimento in quanto è proprio di uno spettatore imparziale che guardi e giudichi la propria e altrui condotta (The Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1). Che la dottrina morale di Kant abbia voluto inserirsi proprio in questa tradizione ed essere una dottrina del movente, non del fine, risulta chiaro dal fatto che essa risponde alle caratteristiche fon- damentali di una dottrina del movente. Difatti in primo luogo Kant ritiene che «il concetto del bene e del male non dev'essere determinato prima della legge morale (di cui apparentemente dovrebbe es- sere il fondamento) ma soltanto dopo di essa e attraverso di essa » (Crit. R. Prat., I, 1, 3). Questo vuol dire che Kant condivide la concezione 2 del bene, che corrisponde a un’E. del movente. In se- condo luogo è appunto in base ai moventi (Bestim- mungsgriinde) che Kant classifica le diverse conce- zioni fondamentali del principio della moralità (Ibid., I, 1, $ 8, nota 2). In terzo luogo, la legge morale è considerata da Kant come un fatto (Factum) perchè «non si può dedurre da precedenti dati della ragione, per es., dalla coscienza della libertà » ma s'impone per se stessa come un sic volo, sic iubeo (Ibid., $ 7). In tal modo Kant ha trasferito dal «sentimento » alla « ragione » il movente della condotta, utilizzando l’altro corno del dilemma proposto dai moralisti inglesi. Con questo ha vo- luto garantire la categoricità della norma morale cioè quell’assolutezza del comando per cui essa si distingue dagli imperativi ipotetici delle tecniche e della prudenza. Per questa esigenza l’E. kantiana condivide indubbiamente con la concezione 1 del- l’E., la preoccupazione fondamentale di ancorare la regola della condotta alla sostanza razionale dell’uomo. Ma se si prescinde da questa preoccu- pazione assolutistica (che va messa sul conto del «rigorismo » kantiano), l'E. di Kant si presenta assai affine a quella dei moralisti inglesi del '700 (verso i quali d'altronde Kant, negli scritti precri- tici, non ha celato le sue simpatie) non solo nella sua impostazione fondamentale ma anche nei suoi risultati. Se il sentimento, cui si appellavano i mo- ralisti inglesi era la tendenza alla felicità altrui, la ragione cui si appella Kant è l’esigenza di agire secondo una massima che gli altri possono far propria. Per quanto questa formula possa apparire più rigorosa, e nello stesso tempo più astratta, di quelle adoperate dai filosofi inglesi, il suo signi- ficato è lo stesso. Ciò che l’una e le altre intendono suggerire come principio o movente della condotta è il riconoscimento dell’esistenza di a/ri uomini (o come voleva Kant di altri «esseri razionali +) e l’esigenza di comportarsi nei loro confronti sulla base di questo riconoscimento. La formula kan- tiana dell’imperativo per la quale si deve trattare l'umanità, nella propria persona come nell’altrui, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo, non è che un’altra espressione di questa stessa esigenza, che i moralisti inglesi chiamavan « senso morale » o «senso di umanità +». Sfortunatamente, gli sviluppi che la filosofia morale di Kant ha su- bito da Fichte in poi hanno fatto leva più frequen- temente sul suo armamentario dogmatico e asso- lutistico anzichè sulla sua impostazione fondamentale e sulla sostanza dei suoi insegnamenti morali. Tali insegnamenti, come l’impostazione da cui dipen- dono, sono in accordo con l’E. settecentesca, cioè con l’indirizzo morale dell’Illuminismo; ma non è in accordo con tale indirizzo la contrapposizione stabilita da Kant fra il mondo morale e il mondo naturale e perciò tra l’E. e la scienza della natura. Questo contrasto deriva alla dottrina di Kant proprio dall’armamentario assolutistico della sua E. cioè da quell’aspetto per cui essa divenne la crea- tura prediletta dei metafisici moralisti dell’800 e il pretesto per innumerevoli (e inoperanti) disquisi- zioni intorno all’assolutezza del dovere e all’accesso, che esso consentirebbe, a una Realtà superiore in- condizionata (quella del « noumeno +) senza nessun rapporto con quella fenomenica e condizionata della natura. Ancora oggi, nell’E. di Kant, amici e avversari vedono, il più delle volte, esclusivamente questo aspetto: i primi per esaltarla come l’anco- raggio sicuro di tutte le certezze concernenti la vita morale, i secondi per condannarla come il ba- luardo delle illusioni metafisiche nel campo morale. Ma una considerazione di quest’E. che si sottragga a tali alternative e la scorga nel quadro dell’E. set- tecentesca, di cui condivise l’impostazione e che pretese fondare con necessità rigorosa, consente forse una più adeguata valutazione di essa. Può infatti aprire la via ad una utilizzazione delle ana- lisi kantiane in vista di una impostazione dell’E. come tecnica della condotta, indipendente da pre- supposti metafisici. Nel frattempo, l’E. del movente assumeva, nel clima positivistico, la pretesa di valere come scienza esatta della condotta. Già Helvétius diceva: « Ho creduto che si deve trattare la morale come tutte le altre scienze e fare una morale come una fisica sperimentale » (De l’esprit, 1758, I, pag. 4). Ma questa pretesa caratterizza soprattutto l’utilitarismo dell’800 che ha il suo caposcuola in Bentham. Secondo Bentham, i soli fatti su cui si possa far leva nel dominio morale sono i piaceri e i dolori. La condotta dell’uomo è determinata dall’attesa del piacere o del dolore; e questo è l’unico possibile motivo di azione. Su questi fondamenti la scienza della morale diventa esatta come la matematica, sebbene sia assai più intricata ed estesa (/ntroduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789, in Works, I, pag. V). Da questo punto di vista, coscienza, senso morale, obbligazione morale sono concetti fittizi o «non entità». La realtà che tali concetti celano è il calcolo dei piaceri e dei dolori sul quale riposa il comportamento morale del- l’uomo: calcolo di cui Bentham volle stabilire i princìpi, fornendo la tavola completa dei moventi di azione, tavola che doveva servire come guida per ogni futura legislazione. In realtà l’opera di Bentham ispirò l’azione riformatrice del liberalismo inglese e ancor oggi i suoi principi rimangono in- corporati nella dottrina del liberalismo politico. L’utilitarisjmo di Giacomo Mill e di Giovanni Stuart Mill non è che la difesa, l’illustrazione delle tesi fondamentali di Bentham. Il positivismo si ispirò allo stesso punto di vista: la morale dell’al- truismo, di cui si fece banditore Comte e che ha il suo principio nella massima «Vivere per gli altri », è affidata anch'essa, quanto alla sua realiz- zazione, a istinti simpatici che, secondo Comte, l’educazione può sviluppare gradualmente sino a renderli predominanti sugli istinti egoisti (Caté- chisme positiviste, 1852, pag. 48). L’E. biologica di Spencer fa proprie queste tesi. Spencer vede nella morale l’adattamento progressivo dell’uomo alle sue condizioni di vita. Ciò che all'uomo sin- golo appare come dovere od obbligazione morale è il risultato delle esperienze ripetute e accumulate attraverso il succedersi di innumerevoli generazioni: è l’insegnamento che tali esperienze hanno fornito all'uomo nel suo tentativo di adattarsi sempre meglio alle sue condizioni vitali. Spencer prevede anche una fase in cui le azioni più elevate, richieste per lo svolgimento armonico della vita, saranno fatti così comuni come lo sono ora le azioni infe- riori cui ci spinge il semplice desiderio; in quella fase, perciò, l’antitesi tra egoismo e altruismo sarà priva di senso (Data of Ethics, $ 46). Si può dire che l’E. dell’evoluzionismo non è che l’espressione, nei termini dell’ottimismo positivistico, di quell’E. fon- data sul principio dell’autoconservazione che Telesio e Hobbes avevano reintrodotta nel mondo moderno. Nella filosofia contemporanea questa concezione dell’E. non ha realizzato mutamenti o progressi sostanziali. Bertrand Russell si è limitato a ripro- porla nella forma più semplice e rozza, affermando che «l’E. non contiene affermazioni vere o false, ma consiste di desideri di una certa specie generale » (Religion and Science, 1936). Dire che qualcosa è un bene o un valore positivo è un altro modo di dire « Mi piace »; e dire che qualcosa è cattivo significa esprimere ugualmente un atteggiamento personale e soggettivo. Russell ritiene tuttavia possibile in- fluire sui propri desideri rafforzandone alcuni e deprimendone o distruggendone altri. E ritiene pure che ciò va fatto se si vuol mirare alla felicità o al- l'equilibrio della vita. Ma è chiaro che questa po- sizione è contraddittoria: se l’E. non ha a che fare che con desideri, manca ogni motivo o criterio per agata o per far prevalere sugli altri uno di essi. andato perduto, nell’E. di Russell, uno degli aspetti fondamentali dell’E. inglese tradizionale: l’esigenza di un calcolo di tipo benthamiano cioè di una disciplina delle scelte fra i desideri o per meglio dire fra le alternative possibili di condotta. Eppure proprio a questo punto di vista così muti- lato si è agganciata la concezione dell’E. prevalente nel positivismo logico, secondo la quale i giudizi etici non fanno che esprimere «i sentimenti di chi parla ed è perciò impossibile trovare un criterio per determinare la loro validità » (Aver, Language, Truth and Logic, pag. 108; cfr. STEVENSON, Ethics and Language, pag. 20). Questo non è altro ovvia- mente che lo stesso punto di vista di Russell, se- condo il quale l’E. ha da fare con desideri e non con asserzioni vere o false; è un punto di vista che segna la rinuncia alla comprensione dei feno- meni morali piuttosto che un passo qualsiasi verso questa comprensione. Più fecondo si presenta il punto di vista di Dewey la cui E. si collega con la nozione di valore. Dewey condivide con buona parte della filosofia del valore (v.) la credenza che i valori siano, non solo oggettivi ma anche semplici e perciò indefinibili; ma non condivide con essa la credenza che siano assoluti o necessari. I valorisono, secondo Dewey, qualità immediate su cui perciò non c’è nulla da dire; solo in virtù di un procedimento critico e riflessivo possono essere preferiti o posposti (Theory of Valuation, 1939, pag. 13). Ma essi sono fuggitivi e precari, negativi e positivi e anche infinitamente diversi nelle loro qualità. Di qui l’importanza della filosofia che, come una « critica delle critiche +, ha in primo luogo lo scopo di interpretare gli eventi per farne stru- menti e mezzi della realizzazione dei valori; ed in secondo luogo quello di rinnovare il significato dei valori stessi (Experience and Nature, pag. 349 sgg.). Questo còmpito della filosofia è condizionato dalla rinuncia alla credenza nella realtà necessaria e nel valore assoluto. « Abbandonare la ricerca della realtà e del valore assoluto e immutabile può sem- brare un sacrificio. Ma questa rinuncia è la condi- zione per impegnarsi in una vocazione più vitale La ricerca dei valori che possono essere assicurati e condivisi da tutti, perchè connessi ai fondamenti della vita sociale, è una ricerca in cui la filosofia troverà non rivali ma coadiutori gli uomini di buona volontà » (The Quest for Certainty, pag. 295). Queste considerazioni di Dewey circoscrivono certamente il quadro in cui deve muoversi la ricerca etica con- temporanea, ma non offrono ancora a questa ricerca strumenti efficaci. Manca ancora, nell’E. contem- poranea una teoria generale della morale che cor- risponda alla teoria generale del diritto (v.) cioè una teoria che consideri la morale come una tecnica della condotta e si applichi a considerare le carat- teristiche di questa tecnica e le modalità con cui essa si realizza in gruppi sociali diversi. Ovviamente, una teoria generale della morale non partirebbe da un impegno preventivo nei confronti di una deter- minata tavola dei valori: il suo impegno sarebbesemplicemente quello di considerare la costituzione delle tavole dei valori che si offrono allo studio storico e sociologico della vita morale e di scoprire, se è possibile, le condizioni formali o generali di tale costituzione. Ma essa potrebbe (e dovrebbe) ampiamente utilizzare l’E. del °700 e in generale l’E. della motivazione e presentarsi come la con- tinuazione di tale concezione. A proposito dei rapporti tra morale e diritto, va qui riaffermato ciò che si dice a proposito del diritto e cioè che tali rapporti possono essere di- versamente configurati, ma mai specificati come rapporti di eterogeneità o indipendenza reciproca. L’E., come tecnica della condotta, sembra a prima vista più estesa del diritto come tecnica della coe- sistenza. Ma se si riflette che ogni specie o forma della condotta è una forma o specie della coesi- stenza, o reciprocamente, si vede sùbito come la distinzione dei due campi sia pura materia di opportunità per delimitare particolari problemi o gruppi di problemi o campi specifici di considera- zione o di competenza. ETICHE, VIRTÙ (gr. Oral dpetal; lat. Vir- tutes morales; ingl. Ethical Virtues; franc. Vertus morales; ted. Ethische Tugenden). Sono, secondo Aristotele, le virtù che corrispondono alla parte appetitiva dell'anima, in quanto è moderata o guidata dalla ragione (Zf. Nic., I, 13, 1102b 16) e che consistono nel giusto mezzo (v. MEDIETÀ) tra due estremi di cui uno è vizioso per eccesso, l’altro per difetto (/bid., II, 6, 1107 a 1). Le virtù E. sono il coraggio, la temperanza, la liberalità, la magna- nimità, la mansuetudine, la franchezza, e infine la giustizia che è la maggiore di tutte (/bid., III-V). Cfr. le singole voci. i ETICITÀ (ted. Sitrlichkeit). Hegel ha distinto dalla moralità, che è la volontà soggettiva cioè individuale o privata del bene, l’E. che è la realiz- zazione del bene stesso in realtà storiche o istitu- zionali, che sono la famiglia, la società civile e lo Stato. L’E., dice Hegel, «è il concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura dell’autoco- scienza + (Fil. del dir., $ 142). Le istituzioni etiche hanno una realtà superiore a quella della natura perchè si tratta di una realtà « necessaria e interna » (Ibid., $ 146). La più alta manifestazione dell’E., lo Stato, è Dio stesso che è entrato nel mondo, un « Dio reale » (/bid., $ 258, Zusatz). Questa di- stinzione tra moralità ed E. è stata ripetuta soltanto nell’àmbito della scuola hegeliana. ETICO-RELIGIOSE, ANTINOMIE (te- desco Ethisch-religiose Antinomien). Le antitesi in cui si esprime il conflitto tra il punto di vista etico e il punto di vista religioso. Esse sono state enun- ciate da Nicolaj Hartmann nel modo seguente: x 1° l’etica è radicata nell’al di qua, la religione 368 tènde a un’esistenza che è al di là di questa; 2° l’etica si rivolge all’uomo, la religione a Dio; 3° l’etica af- ferma l’autonomia dei valori, la religione li subor- dina alla volontà di Dio; 4° l’etica si fonda sulla li- bertà umana, la religione trasferisce ogni iniziativa a Dio (Erhik, 1926; 3* ediz., 1949, pag. 811-17). ETIOLOGIA (ingl. Etiology; franc. Étiologie; ted. Aetiologie). La ricerca 0 determinazione delle cause di un fenomeno. Il termine è usato quasi esclusivamente in medicina. ETNOGRAFIA (ingl. Ethnography; francese Ethnographie; ted. Ethnographie). Lo stesso che EtnoLOgiA. Talvolta, il primo stadio della ricerca antropologica: l’osservazione e la descrizione, il la- voro sul campo (Lévi-STrAUSS, Anthropologie structu- rale, 1958, cap. XVII). ETNOLOGIA (ingl. Ethnology; franc. Ethno- logie; ted. Ethnologie). Una delle discipline del ceppo sociologico. Essa ha per oggetto i modi di vita di gruppi sociali ancora esistenti o dei quali comunque si conservi un’abbondante documenta- zione. L’E. si dirige soprattutto a studiare la cul- tura dei popoli « primitivi ». Essa non si distingue dalla sociologia se non per l’accentuata tendenza dei suoi cultori a insistere sui caratteri individuali dei gruppi sociali studiati e pertanto a prescindere dai problemi sociologici generali. Lévi-Strauss con- sidera l’E. come il primo passo, dopo la descrizione etnografica, verso la sintesi antropologica: la sintesi etnologica può essere geografica, storica o sistema- tica (Anthropologie structurale, 1958, cap. XVID. ETOLOGIA (dal gr. 606; ingl. Ethology; fran- cese Éthologie; ted. Ethologie). Termine coniato da Wundt per designare lo studio storico descrittivo dei costumi e delle rappresentazioni morali (Logik, Il, 2, 369). E. comparata è lo studio comparativo dei comportamenti animali sia nel loro aspetto ontogenetico che in quello filogenetico (K. LORENZ, in Phisiological Mechanism in Animal Behaviour, 1950; N. TinBERGEN, The Study of Istinct, 1951). ETOLOGIA (dal gr. $00g; ingl. Etho/ogy; fran- cese Éthologie; ted. Ethologie). Termine coniato da Stuart Mill per designare la scienza che studia le leggi della formazione del carattere. Tali leggi de- riverebbero da quelle generali della psicologia, ap- plicate però alle influenze che le circostanze am- bientali hanno sulla formazione del carattere. L’E. si distinguerebbe dalla sociologia in quanto la prima sarebbe la scienza del carattere individuale, la seconda la scienza del carattere sociale o collettivo (Logic, VI, 5, $ 3). La parola non ha avuto fortuna, mentre è stata quasi universalmente accettata, per designare la stessa scienza, la parola caratterologia (v.). EUBULIA (gr. ebfovMa; lat. Eubulia). È, se- condo Aristotele, la buona deliberazione cioè il corretto giudizio sulla rispondenza dei mezzi al fine. Il deliberare bene è proprio dei saggi e la sag- gezza costituisce appunto il giudizio vero intorno alla rispondenza dei mezzi al fine (Er. Nic., VI, 9, 1142 b 5). Nello stesso senso la definisce S. Tom- maso (S. 7h., I, II, q. 57, a. 6). EUCOSMIA (gr. eòxoo pla). Comportamento ordi- nato, buona condotta (cfr. ARIST., Po/.,IV,1299b 16). EUCRASIA (gr. eòxpuota). Temperamento. Pro- priamente, giusta mescolanza degli elementi che compongono il corpo (ARIST., De part. an., 673 b 25; GALENO, VI, 31, ecc.). EUDEMONIA. V. FELICITÀ. EUDEMONISMO (ingl. Eudemonism; fran- cese Eudémonisme; ted. Eudamonismus). Ogni dot- trina che assume la felicità come principio e fon- damento della vita morale. Sono eudemonistiche in questo senso l’etica di Aristotele, l’etica degli Stoici e dei Neoplatonici, l’etica dell’empirismo inglese e dell’Illuminismo. Kant ritiene che l’E. sia il punto di vista dell’egoismo (v.) morale, cioè della dottrina « di chi restringe tutti i fini a se stesso e non vede nessun utile fuori di ciò che giova a lui » (Antr., I, $ 2). Ma questo concetto dell’E. è troppo ristretto perchè nel mondo moderno, a partire da Hume, la nozione di felicità ha un significato sociale, quindi non coincide con egoismo od egocentrismo (v. FELICITÀ). EUNOMIA (gr. ebvopia). Il «buon ordine umano » contrapposto alla Aybris cioè all’atteggia- mento di chi disconosce i limiti degli uomini e il posto subordinato che essi hanno nel mondo (PLAT., Sof., 216 b). EUPRASSIA (gr. eòrpabla). Il comportarsi bene cioè ordinatamente o secondo le leggi. Senofonte designa con questa parola l’ideale morale di So- crate (Mem., III, 9, 14). Aristotele adopera la stessa parola in opposizione a disprassia che indica la con- dotta disordinata (Et. Nic., VI, 5, 1140 b 7). EURISTICA. Parola moderna coniata dal verbo greco ebploxw = trovo: ricerca o arte della ri- cerca. Diversa da Eristica (v.). EUTASSIA (gr. eòvatta). La condotta bene or- dinata o conforme all’ordine cosmico. È un concetto stoico (Stoicorum Fragmenta, III, 64), che Cicerone si è fermato ad illustrare (De Officis, I, 40, 142). EUTIMIA (gr. eòtvula; lat. Tranquillitas). Era il titolo di una delle opere di Democrito e signifi- cava la soddisfazione tranquilla, diversa dal piacere, che consiste nell’assenza di timori, di superstizioni e di emozioni (Dio. L., IX, 45). I latini tradussero il termine con tranquillitas (SENECA, De tranquilli- tate animi, II, 3). EVANGELO ETERNO (lat. Evangelium aeternum). Origene adoperò questa espressione per designare la rivelazione delle verità più alte che Dio fa ai sapienti in tutte le epoche del mondo e che è in grado di integrare e correggere la rivelazione conte- nuta nell’E. storico (De princ., IV, 1; InJohann., 1,7). EVEMERISMO (ingl. Euhemerism; francese Evhémérisme; ted. Evhemerismus). La dottrina di Euevemero o Evemero di Messina (sec. rv-II1 a. C.), autore di una Sacra Scrittura tradotta in latino da Ennio, nella quale si voleva dimostrare che gli dèi sono uomini coraggiosi o illustri o potenti diviniz- zati dopo la morte (CiceR., De nat. deor., I, 119). EVENTO (ingl. Event; franc. Événement; te- desco Geschehen). Nella fisica contemporanea, una porzione del continuo spazio-temporale. In questo senso, una cosa, per es., un corpo, è un evento. Il concetto fu chiarito da Einstein nel 1916 (Teoria spec. e gen. della relatività, $ 27). Da allora è apparso come un concetto fondamentale della fisica: l’E. è, propriamente parlando, l’oggetto specifico della fi- sica, quello a cui si riferiscono i suoi mezzi di os- servazione: esso è caratterizzato dalle tre coordinate spaziali e dalla coordinata temporale. « Il mondo degli E. può venir descritto dinamicamente mediante una imagine che muti col tempo, prospettata sullo sfondo dello spazio tridimensionale. Ma può anche venir descritto mediante un’imagine statica, pro- iettata sullo sfondo del continuo spazio temporale a quattro dimensioni. Dal punto di vista della fisica classica, le due imagini, la dinamica e la statica, sono equivalenti. Ma dal punto di vista della rela- tività, l’imagine statica è più conveniente e più obiettiva » (EINSTEIN-INFELD, Evolution of Physics, III; trad. ital., pag. 218). Generalizzando il concetto di Einstein, Whitehead ha parlato di «E. punti- formi» che sono quelli che possiedono una posi- zione l’uno rispetto all’altro. Tali E. entrerebbero a costituire i punti di un sistema spazio-temporale. Ogni sistema avrebbe un particolare gruppo di punti propri cioè una propria definizione della « posizione assoluta » (Concept of Nature, 1920, cap. 5). Queste notazioni si riferiscono al tentativo di Whitehead di tradurre la fisica contemporanea in una metafisica evoluzionistica. Dal suo canto P. W. Bridgmann ha messo in dubbio l’importanza della nozione di E., non ritenendo che tutti i ri- sultati delle misure fisiche possano essere espressi in termini di coincidenze spazio-temporali. Per es., egli nota, la differenza fra un elettrone negativo e uno positivo non è contemplata nella specificazione delle coordinate (Logic of Modern Physics, 1927, cap. III; trad. ital., pag. 153). Ma nonostante queste riserve, il concetto di evento continua ad avere un’importanza fondamentale nella fisica contempo- ranea ed essere considerato dai fisici come la mi- gliore caratterizzazione dell’oggetto proprio di essa. EVIDENZA (gr. &vépyew; lat. Evidentia; in- glese Evidence; franc. Évidence; ted. Evidenz). Il presentarsi o manifestarsi di un oggetto qualsiasi 24 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 369 come tale. Così intendevano l’E. gli antichi, e spe- cialmente gli Epicurei e gli Stoici che l’assumevano come criterio di verità. Gli Epicurei identificavano l’E. con l’azione stessa degli oggetti sugli organi di senso (Dioc. L., X, 52). Gli Stoici intendevano per E. il presentarsi o darsi delle cose ai sensi o all’intelligenza, in modo che esse risultino s com- prese » (Sesto E., /p. Pirr., II, 7). La rappresenta- zione catalettica (v.) è appunto la rappresentazione evidente. Da questo punto di vista l’E. non è un fatto soggettivo ma oggettivo: non è legata alla chiarezza e distinzione delle idee, ma al presentarsi e manifestarsi dell’oggetto (quale che sia). Sicchè gli stessi Scettici non rifiutano ciò che si presenta come evidente, per quanto evitino l’asserzione re- lativa (Sesto E., /pot. Pirr., II, 10). Cartesio ha invece dato luogo al concetto sog- gettivo dell’evidenza. La «regola dell’E.», che egli espone nel Discorso prescrive «di non accettare mai alcuna cosa per vera a meno che non la si riconosca evidentemente per tale; cioè di evitare diligentemente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei propri giudizi se non ciò che si presenta così chiaramente e distintamente al proprio spirito, da non aver alcuna occasione di metterlo in dubbio» (Disc., II). In questa regola l’E. è stata ridotta alla chiarezza e distinzione (v.) delle idee e i problemi relativi si sono spostati dal dominio dell’oggetto al dominio dell'idea, ripre- sentandosi però in quest’ultimo come problemi og- gettivi. Cartesio stesso aveva (soprattutto nelle Re- gole per la direzione dello spirito) collegato l’E. con la facoltà dell’intuizione: con la quale parola aveva inteso, non già la testimonianza dei sensi o il giu- dizio dell’imaginazione, ma «la concezione ferma di uno spirito puro e attento, che nasce dalla sola luce della ragione e che, essendo più semplice, è anche più sicura della deduzione » (Regulae ad di- rectionem ingenii, III). L’E. sarebbe così il carattere dell’intuizione e costituirebbe la certezza propria di quest’ultima; allo stesso modo che la necessità razionale costituisce la certezza della deduzione. Questi concetti hanno dominato buona parte della filosofia moderna; anche perchè sono stati accet- tati sia da Locke, che fa dipendere dall’intuizione dell'accordo o del disaccordo tra le idee « tutta la certezza e l’E. della nostra conoscenza » (Saggio, IV, 2, 1); sia da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 11, 10). Il carattere soggettivo dell’E. e la sua connessione con una facoltà umana più o meno misteriosa e miracolosa detta intuizione, sono rimasti in tutta la filosofia moderna; e soltanto la filosofia con- temporanea ha mostrato di ritornare all’antico con- cetto dell’E. oggettiva. La critica dell’E. come «una mistica voce che da un mondo migliore ci gridi: qui è la verità!» 370 è stata fatta da Husserl; il quale ha trovato per l’E. la definizione di « riempimento dell’intenzione ». Questa significa che l’E. si ha quando l’intenzione della coscienza, diretta ad un oggetto, viene riem- pita dalle determinazioni per cui l’oggetto stesso si individua, si definisce e da ultimo appare presente alla coscienza stessa in carne ed ossa (Logische Untersuchungen, II, $ 39; Ideen, I, $ 145; Erfahrung und Urteil, pag. 12). Di conseguenza per tutta la filosofia contemporanea che si ispira alla fenomeno- logia, l’E. ha riacquistato il suo carattere oggetti- vistico, tornando a designare il presentarsi o manifestarsi di un oggetto come tale, qualunque sia l’oggetto e quali che siano i metodi con cui s'intende certificare o garantire la sua presenza o manifestazione. In questo senso Scheler ha parlato di «E. preferenziale» per indicare quei rapporti gerarchici oggettivi dei valori che guidano e sugge- riscono le scelte umane (Formalismus, pag. 87). Nello stesso senso si dicono talvolta evidenti pro- posizioni analitiche o tautologiche la cui verità risulta dai loro stessi termini, come, ad es., «Il triangolo ha tre lati ». EVOLUZIONE (ingl. Evolution; franc. Évo- lution; ted. Evolution). La parola conserva ancora il suo senso generico di sviluppo (v.); ma più spesso è adoperata a designare una particolare dottrina che si chiama «teoria dell’E.». Ora con questa espressione si possono intendere due cose diverse: 1° la teoria biologica della trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra: che è l’ipotesi fonda- mentale delle discipline biologiche da un secolo a questa parte; 2° la teoria metafisica dello sviluppo progressivo dell’universo nella sua totalità: che è un’ipotesi ammessa o presupposta da molte dot- trine filosofiche moderne e contemporanee. Per quanto questi due significati abbiano storicamente agito l’uno sull’altro, è opportuno tenerli distinti. Per il secondo, v. la voce EVOLUZIONISMO. Il termine E. è stato probabilmente introdotto da Spencer nel suo saggio sul Progresso del 1857; ma la parola stessa, come il concetto, non avrebbero avuto la fortuna che hanno avuto senza i successi del tras- formismo biologico, che si iniziarono con l’Origine delle specie di Carlo Darwin (1859). L’opera di Darwin (come è anche dimostrato dal suo successo senza precedenti) era, da un certo punto di vista, piuttosto una conclusione che un principio: la con- clusione di un lungo lavoro di ricerche e di vari tentativi di generalizzazione. La dottrina tradizionale dell’immutabilità (o fissità) delle specie viventi era stata il riflesso, nel dominio biologico, della dot- trina della sostanza (v.) cioè della dottrina della necessità della struttura ontologica del mondo. Questa dottrina fu fatta prevalere da Aristotele nel mondo della filosofia e della scienza antica e EVOLUZIONE medievale; e si spiega così perchè l’ipotesi di una trasformazione della specie, affacciata, sia pure in forma fantastica, da Anassimandro (Ps. PLUT., Strom., 2) e da Empedocle (Fr., 56-61, Diels) non abbia lasciato traccia. Tutte le forme sostanziali sono, secondo la metafisica aristotelica, immutabili perchè necessarie: il che vuol dire che non possono essere nè create nè distrutte. Come forme sostan- ziali, le specie viventi condividono tali caratteri- stiche. Questo principio aristotelico, con la sola correzione della creazione da parte di Dio, ha co- stituito per molti secoli l’impalcatura generale della ricerca filosofica e scientifica. Soltanto a partire dagli inizi del sec. xvi alcuni naturalisti comin- ciarono a considerare la possibilità della trasfor- mazione delle specie biologiche. Ipoteticamente ammetteva questa possibilità Buffon, che pur si di- chiarava esplicitamente partigiano della fissità della specie (Histoire naturelle, 1749-1804). Dallo stesso Buffon, Kant trasse probabilmente l’ispirazione per l’ipotesi, da lui prospettata (nel 1790) nella Critica del giudizio ($ 80), di una «reale parentela » delle forme viventi e di una loro derivazione da una « madre comune », nonchè di uno sviluppo continuo della natura dalla nebulosità primitiva agli uomini. Queste tuttavia erano solo intuizioni generiche, non suffragate da un sistema coordinato di osservazioni. Il primo a prospettare in forma scientifica la dot- trina del trasformismo biologico fu Gian Battista Lamarck nella sua Philosophie zoologique (1809): egli tuttavia fondava l’E. degli organismi sulle dif- ferenze prodotte in questi dall’uso maggiore o mi- nore degli organi: differenze che si sarebbero poi fissate con l’eredità. Si sa oggi che i mutamenti che nascono dalle abitudini non possono essere eredi- tati; pertanto il merito di Lamarck non è quello di aver scoperto il principio dell’E. ma quello di aver insistito sulla dottrina generale e su qualche aspetto importante di essa, come quello dell’adat- tamento all’ambiente. Soltanto l’Origine delle specie (1859) di Carlo Darwin ha fondato la moderna teoria dell’E. biologica. La teoria di Darwin ammette due ordini di fatti: 1° l’esistenza di piccole variazioni organiche che si verificano negli esseri viventi a intervalli irregolari di tempo; variazioni che in parte, per la legge della probabilità, sono vantag- giose agli individui che le presentano; 2° la lotta per la vita che si verifica tra gli individui viventi, per la tendenza di ogni specie a moltiplicarsi se- condo una progressione geometrica. Quest'ultimo presupposto era suggerito a Darwin dalla dot- trina di Malthus (Essay on Population, 1798). Da questi due ordini di fatti segue che gli individui presso i quali si manifestino mutamenti organici vantaggiosi hanno maggiori probabilità di soprav- vivere nella lotta per la vita; e in virtù del principio EVOLUZIONE 371 di eredità ci sarà in essi un’accentuata tendenza a lasciare in eredità ai loro discendenti i caratteri accidentali. Questa è la /egge della selezione naturale che Darwin ritenne come la principale molla del- l’E. (Or. delle specie, IV, 18). Mentre la teoria di Darwin da un lato subiva gli attacchi dei partigiani della vecchia metafisica, dall’altro veniva estesa e generalizzata in una teoria dell’E. cosmica, nuove ipotesi, in contrasto col principio della selezione naturale, venivano pre- sentate circa il come l’E. avrebbe luogo. Da un lato i neo-lamarkiani (fra i quali specialmente il francese Giard [1846-1908] e l’americano Cope [1840-97] insistettero sulla relazione dell’organismo all'ambiente, attribuendo a questa relazione la ca- pacità di produrre le novità organiche che sareb- bero poi trasmesse con l’eredità. Dall'altro lato i neo-darwiniani, che si raccolsero specialmente in- torno al biologo tedesco Weissmann (1834-1914), insistettero sull’importanza della selezione naturale come unico principio dell’evoluzione. Entrambi questi indirizzi, nello sforzo di dimostrare la loro tesi, produssero fatti e osservazioni nuove in favore della teoria generale dell’E.; ma nessuno di essi riuscì, si può dire, a dimostrare la falsità della tesi dell’altro. Che l’adattamento all’ambiente (tesi dei lamarkiani) e la selezione naturale (tesi dei dar- winiani) abbiano funzioni importantissime nell’E. della vita, risulta ormai certo; ciò che non risulta è che l’uno porti alla esclusione dell’altra. In questa incertezza, si sono inserite le nuove forme del vitalismo (v.) cioè della dottrina che, ritenendo la vita non spiegabile in linea di principio con fattori fisico-chimici, riconosce a fondamento di essa un principio spirituale che agisca finalisticamente. Il vitalismo insiste su quello che sembra un carattere fondamentale dell’E. biologica: il finalismo. Il fina- lismo, che è strettamente collegato con la dottrina della struttura sostanziale del mondo cioè con la metafisica aristotelica, è la parte più dura a morire di questa metafisica. Il suo campo privilegiato è, come già notava Kant, proprio quello dei fenomeni vitali. Questi fenomeni non sembrano verificarsi a caso. Anche quando De Vries osservò la subitanea e casuale apparenza di nuove varietà di piante e assunse questo fatto come la base reale dell’E. (Teoria delle mutazioni, 1901), il carattere casuale e arbitrario dell’intero processo evolutivo sembrò difficile a difendersi. Da questa difficoltà hanno attinto la loro forza le teorie vitalistiche. La più famosa fra tali teorie nel mondo contemporaneo è quella di Bergson, che attribuisce l’E. allo slancio vitale cioè ad una grande corrente di coscienza che è lanciata nella materia e ténde a dominarla, riuscendovi meglio in una direzione, peggio in un’altra, e progredendo soprattutto nelle due dire- zioni fondamentali dell’istinto degli artropodi e dell’intelligenza dell’uomo (Év. créatrice, 1907). Ma la teoria bergsoniana dell’E., per quanto rigetti l’idea di un piano totale predisposto o predeter- minato (che sarebbe, dice Bergson, «un mecca- nismo rovesciato +) è ancora finalistica e soggiace alla stessa obiezione che Bergson stesso fa al vita- lismo: di assumere a principio di spiegazione la ignoranza della spiegazione. Come ha notato Huxley, attribuire l’E. a un é/an vital non spiega la storia della vita più che attribuire il movimento di una macchina a vapore ad un é/an locomotifnon spieghi il funzionamento della macchina stessa. Il ricorso a un termine metafisico, che non fa che coprire una zona di ignoranza mascherandola come sapere e quindi distogliendo o scoraggiando la ricerca positiva diretta a diminuirla, è anche evidente nelle altre forme del vitalismo contemporaneo. Così Driesch ricorre all’entelechia, un vecchio concetto aristotelico, cui attribuisce la funzione direttiva nella costruzione del- l'organismo (Philosophie des Organischen, 1908-09). Gli studi di genetica (v.) hanno avviato la teoria dell’E. su un terreno positivo di ricerche. La teoria stessa è diventata il quadro complessivo degli stru- menti e delle direzioni possibili della ricerca biolo- gica, evitando la dogmatizzazione di princìpi par- zialmente provati, che era stata la caratteristica della fase precedente. I capisaldi della odierna teoria dell’E. possono essere così ricapitolati: 1° La separazione dell’idea dell’E. dall’idea di progresso. L’E. non è necessariamente progresso, tanto meno progresso unilineare, necessario e co- stante. Quale che sia il criterio che si scelga per giudicare il corso dell’E., si troverà che la storia della vita fornisce esempi non solo di progressi, rispetto a questo criterio, ma anche di regressi e di degenerazioni. Huxley ha suggerito come criterio obiettivo di progresso quello della dominazione successiva di un gruppo biologico: criterio che por- terebbe a costituire una successione di età: « Età degli invertebrati +, « Età dei pesci +, « Età degli an- fibi », « Età dei rettili», « Età dei mammiferi», ed «Età dell’uomo » (E., The Modern Synthesis, 1942). Ma anche questa successione di età non è del tutto oggettiva perchè è ovviamente suggerita dal cri- terio dell’approssimazione all’uomo. Altre linee di progresso possono essere definite in base all’espan- sione vitale o all’'adattamento all’ambiente: criteri che suggeriscono l’ordinamento delle specie animali secondo la misura in cui esse realizzano meglio l’una o l’altra di queste due cose. Un altro criterio che i biologi adoperano spesso è la cosiddetta legge di Willinston secondo la quale « le parti di un organismo tendono a ridursi nel loro numero e a specializzarsi nella loro funzione» cioè tendono verso la semplificazione più che verso la compli- 372 cazione. Altri indicano come criterio l’energia generale dell’organismo o il livello del processo vitale (SEWERTZOFF, Morphologische Gesetzmdssig- keiten der E., 1931). Ognuno di questi criteri porta a costruire un ordine determinato delle specie vi- venti, o dei loro maggiori gruppi, ordine coincidente solo parzialmente e occasionalmente con quelli ri- sultanti dagli altri criteri. 2° L'esigenza che i fattori invocati a spiegare l’E. spieghino non solo ciò che avviene a disegno nell’organizzazione della vita ma anche ciò che avviene a caso, non solo l’adattamento ma anche la mancanza di adattamento e in generale non solo gli aspetti favorevoli e progressivi delle trasforma- zioni vitali ma anche quelli sfavorevoli e negativi. La prima conseguenza di questo punto di vista è il riconoscimento che è inutile e scientificamente illegittimo privilegiare un fattore evolutivo, per es., la selezione naturale e considerarlo come l’unico e fondamentale secondo quanto hanno fatto i neo- darwinisti. La seconda conseguenza è l’abbandono completo del punto di vista finalistico, che esige la presenza di uno scopo finale nell’E. (cfr., per es., J. B. S. HALDANE, The Causes of E., 1932). 3° L'eliminazione di ogni pregiudizio necessi- taristico nella considerazione del ciclo vitale delle specie biologiche: la loro nascita, sviluppo e morte non obbedisce a schemi prestabiliti e tanto meno si modella sul ciclo dell'organismo singolo. Nor- malmente, un tipo di organizzazione persiste fino a quando i suoi rapporti di adattamento all’am- biente continuano ad essere possibili. Talvolta, la stessa specificità dell'adattamento produce l’estin- zione, giacchè rende l’organismo inadatto ad af- frontare i mutamenti dell’ambiente di portata mag- giore dell’usuale. In questo caso, ovviamente, la estinzione del gruppo è provocata dalla stessa ten- denza all’adattamento, che è un fattore di soprav- vivenza. 4° Finalente — ed è la caratteristica più importante della teoria generale dell'’E. — l’uso della nozione di possibilità consente di evitare le dogmatizzazioni presentate dalle alternative: ordine- disordine, fine-caso e così via. La vita tende a sfruttare le possibilità che le sono offerte. Qualche scienziato ha considerato l’incremento della somma totale della materia vivente nel mondo come la principale legge dell’E. (A. J. Lorka, in Human Biology, 1945, pag. 167 sgg.). Ciò vuol dire che la vita sembra appigliarsi a tutte le possibilità di- sponibili. Simpson parla a questo proposito della « natura essenzialmente opportunistica del processo dell’E. » (The Meaning of Evolution, 1949, cap. 12). Tuttavia neanche nello sfruttamento delle opportu- nità che gli si offrono, tale processo appare perfet- tamente sistematico. Opportunità evidenti non sonostate sfruttate e gli intervalli fra le specie viventi non sempre sono stati riempiti. « La regola che tutte le opportunità della vita tendono a essere utilizzate non è senza eccezioni. L’estinzione dei dinosauri precedette di molto la rioccupazione di molti dei loro modi di vita da parte dei mammiferi e non pare che tutti siano stati ancora rioccupati. Gli ittiosauri furono estinti per molti milioni di anni prima che i delfini e i loro parenti abbiano affer- rato questa opportunità. Non vi è ragione evidente per la quale il modo di vita degli ammoniti, untempo così numerosi, non possa essere ora seguito da gruppi ugualmente abbondanti ma che invano si cercherebbero oggi nel mare. Si sono estinti molti tipi che hanno lasciato aperto un modo di vita, un'opportunità che nonèstataimmediata- mente afferrata perchè nessun altro gruppo ha una base strutturale o una riserva di mutazioni ap- propriate al cambiamento» (/bid., pag. 185-86). Tuttavia il numero altissimo delle possibilità uti- lizzate spiega i prodotti più riusciti e complessi dell’E.: per es., fra le innumerevoli risoluzioni del problema della fotoricezione due soluzioni riusci- rono meglio: l’occhio dell’octopus (che è un mol- lusco) e quello dell'uomo. Ma anche gli altri fun- zionano benissimo al loro proprio livello. Questo dimostra che la complessità di un organo non è stata progettata in anticipo come un piano da rea- lizzare ma è il prodotto dello sfruttamento di possi- bilità favorevoli che si sono presentate. S° Le caratteristiche specifiche dei fenomeni vitali non vengono ignorate o trascurate dalla teoria dell’E.; ma tuttavia non vengono assunte come fon-damento per affermare la tesi della « irriducibilità » o della «originalità» della vita. Tale tesi infatti sconsiglierebbe dal continuare a sottoporre i fe- nomeni della vita agli strumenti oggettivi di inda- gine di cui la scienza dispone e per conseguenza fermerebbe la ricerca biologica. Questa pertanto utilizza gli strumenti a sua disposizione e ritiene «spiegato » solo ciò che può essere raggiunto con l’aiuto di tali strumenti. È questo un materia- lismo metodico che ha poco o nulla a che fare colmaterialismo dottrinale dell’800 (v. GENETICA; VITA; VITALISMO). EVOLUZIONISMO (ingl. Evolutionism; fran- cese Évolutionnisme; ted. Evolutionismus). Con questo termine bisogna intendere non già la teoria generale dell'evoluzione come quadro fondamentale delle ri- cerche biologiche (per la quale v. EVOLUZIONE), ma il complesso delle dottrine filosofiche che vedono nell’evoluzione il tratto fondamentale di ogni tipo o forma di realtà e perciò il principio adatto a spiegare la realtà nel suo complesso. L’E. è in altri termini una dottrina metafisica, concernente la realtà come un tutto; e per quanto si avvalga dello ipotesi e dei risultati della teoria biologica del- l'evoluzione, la sua tesi va molto al di là di tutto ciò che ogni possibile teoria scientifica può legitti- mamente convalidare. In questo senso, l’E. è stato assunto come schema fondamentale di molte me- tafisiche, sia materialistiche sia spiritualistiche. Il tratto fondamentale che queste metafisiche scorgono nell'evoluzione è il progresso. Per esse, evoluzione significa essenzialmente progresso. Così fu certa- mente per Spencer che iniziò la serie delle meta- fisiche evoluzionistiche con un saggio pubblicato nel 1857 col titolo Progresso. Il progresso investe, secondo Spencer tutti gli aspetti della realtà. « Sia che si tratti, egli dice nel saggio citato, dello svi- luppo della Terra, sia che si tratti dello sviluppo della vita alla sua superficie o dello sviluppo della società o del governo o dell’industria o del com- mercio o del linguaggio o della letteratura o della scienza o dell’arte, sempre in fondo ad ogni pro- gresso è la stessa evoluzione che va dal semplice al complesso attraverso differenziazioni succes- sive». Nei Primi principi Spencer dava dell’evo- luzione questa definizione: «L'evoluzione è una integrazione di materia e una concomitante dissi- pazione di movimento; durante la quale la materia passa da una omogeneità indefinita e incoerente ad una eterogeneità definita e coerente; e durante la quale il movimento conservato soggiace ad una trasformazione parallela » (First Principles, $ 145). Questa determinazione dell’evoluzione come pas- saggio dall'omogeneo indifferenziato all’eterogeneo differenziato era indubbiamente suggerita a Spencer dall’evoluzione biologica, che sembra andare dal- l’ameba agli organismi superiori. Il senso generale dell’evoluzione è ottimistico, secondo Spencer. La evoluzione è un progresso e per di più un progresso necessario che, per ciò che riguarda l’uomo, ter- minerà soltanto con «la più grande perfezione e la più completa felicità » (/bid., $ 176). A differenza di ciò che è accaduto nella teoria dell’evoluzione biologica, la quale ha ben presto svincolato la nozione di evoluzione da quella di progresso, nel- l’E. filosofico il senso ottimistico e necessaristico della nozione di progresso continua per molto tempo a costituire il tratto fondamentale dell’evo- luzione. Sia l’E. materialistico sia lE. spiritualistico condividono questo tratto. Nessuno di questi indirizzi riesce ad una riela- borazione del concetto in questione. Quando Ar- digò definisce l'evoluzione come « il passaggio dal- l’indistinto al distinto » (Opere, 1884, II, pag. 350) assumendo perciò come modello evolutivo lo svi- luppo psichico anzichè quello biologico, i tratti formali dell'evoluzione non sono mutati: essa è sempre, e soltanto, progresso universale necessario. L’E. materialistico trovò nel biologo tedesco Er- nesto Haeckel il suo maggiore rappresentante. Gli Enigmi del mondo (1899) costituirono per i primi decenni del nostro secolo il catechismo di questo materialismo, che vedeva in tutte le forme della realtà gradi di evoluzione, progressivamente ordi- nati, della materia. Dall’altro canto, l’E. spiritua- listico, che vede nelle varie forme della realtà gradi di sviluppo di un principio spirituale, si iniziò con Guglielmo Wundt, che riconobbe questo principio spirituale nella volontà (System der Phil., 1889). Un pensiero analogo ispirava l’opera del francese Alfredo Fouillée il quale vedeva nell’idea-forza il substrato dell’evoluzione (L’E. des idées-forces, 1890). Ma indubbiamente la più notevole manife- stazione dell’E. spiritualistico è la dottrina di Bergsoe ha visto nell’evoluzione il prodotto di uno slancio vitale che è coscienza, libertà e crea- zione (Évolution créatrice, 1907). In un senso ana- logo C. Lloyd Morgan parlò di Evoluzione emergente (1923): intendendo che ogni fase dell'evoluzione non è la semplice risultante meccanica delle fasi precedenti, ma contiene un elemento nuovo che denuncia il carattere progressivo e creativo della evoluzione stessa. Ma il concetto dell’evoluzione come progresso costituisce anche lo sfondo o il presupposto di altre dottrine che tuttavia non assumono l’evoluzione come tema fondamentale delle loro elaborazioni. Così la nozione di evoluzione emergente è assunta da Alexander nel suo libro Spazio, Tempo e Deità (1920) per spiegare lo sviluppo complessivo della realtà di cui spazio e tempo (che stanno tra loro come materia e spirito) sarebbero la sostanza. E il concetto di processo assunto come fondamentale da Whitehead (Process and Reality, 1929) non è che lo stesso concetto di evoluzione, contaminato col concetto hegeliano di divenire; mentre l’evoluzione in senso naturalistico è lo sfondo di tutta l’opera di Santayana (cfr. specialmente il Realm of Mind, 1940). Questi richiami devono essere considerati solo come esemplificativi della vastissima diffusione che l’E. ha avuto nel dominio della filosofia mo- derna e contemporanea, e quindi in tutte le forme della vita intellettuale. La credenza che la realtà è un processo unico, continuativo, e necessaria- mente progressivo si legge fra le righe di dottrine filosofiche disparatissime ed ha potentemente in- fluenzato l’impostazione di ricerche storiche, so- ciologiche, morali, ecc. Questa credenza tuttavia non è suffragata da nulla; e nell'unico dominio in cui una teoria dell'evoluzione è suffragata da prove di fatto, cioè nel dominio biologico, l’evolu- zione ha perso proprio i caratteri che i filosofi hanno dimostrato di apprezzare maggiormente in essa: l’unità, la continuità, la necessità e il pro- gresso. Nessuno di tali caratteri viene oggi assunto 374 nel contesto dell'evoluzione biologica. Pertanto l’ipo- tesi che la realtà costituisca un processo fornito di tali caratteri non trova riscontro nel sapere scienti- fico ed è da considerarsi come una pura ipotesi metafisica, al di là di ogni possibile, sia pure indi- retta, verifica. Quest'ipotesi tuttavia continua a ri- scuotere un certo successo presso scienziati-filosofi. Così Teilhard de Chardin ha riconosciuto nell’evo- luzione il postulato generale al quale ogni teoria o ipotesi o sistema deve adeguarsi; e conseguente- mente ha considerato l’evoluzione della sostanza vivente sparsa sulla terra come quella di un solo gigantesco organismo. Il termine finale dell’evo- luzione sarebbe allora un « Punto Omega?» e cioè una « Super Coscienza universale » formata da una pluralità unificata di pensieri individuali che si combinano e si rafforzano nell’atto di un Pensiero EX PRAECOGNITIS ET PRAECONCESSIS unanime (Le phenomène humaine, 1955). Il carattere metafisico dell'evoluzione è evidente in questa e simili speculazioni. EX PRAECOGNITIS ET PRAECON- CESSIS. Formula con cui s’abbrevia il principio esposto da Aristotele agli inizi degli Analitici po- steriori: « Ogni dottrina e ogni disciplina discorsiva nasce da una conoscenza preesistente » (An. Post., I, 1, 7la 1). Boezio sottolineava l’importanza di questa massima (P. L., 64°, col. 741) che diveniva un luogo comune della scolastica. Locke riteneva fallace la massima, convinto com’era che il fondamento della conoscenza sia la conoscenza intuitiva (Saggio, IV, 2, 8). Ma Leibniz rivendicava, contro Locke la va- lidità della massima, in quanto esprime il pro- cedimento delle matematiche (Nouv. Ess., IV, 2, 8). EXTRAPOLAZIONE. V. ESTRAPOLAZIONE. F F. Nella Logica medievale, i sillogismi i cui nomi mnemonici cominciano con questa lettera, sono riducibili al quarto modo della prima figura (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 4.20).FABBRICAZIONE (franc. Fabrication). L’at- tività propria dell’intelligenza, secondo Bergson. Questa è infatti «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in particolare utensili per fare altri uten- sili, e di variarne indefinitamente la F. +». Da questo punto di vista, la vera definizione dell’uomo non è Homo sapiens ma Homo faber (Év. créatr., 118 ediz., 1911, pag. 151; Pensée et Mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 97). FABULAZIONE (franc. Fabulation). Bergson ha così chiamata la facoltà o l’atto creatore di finzioni o superstizioni, nel quale consiste essen- zialmente la religione statica: che cerca, appunto mediante finzioni più o meno consolanti, di difen- dere la vita contro il potere disgregatore dell’intel- ligenza (Deux Sources, cap. Il). FACOLTÀ (gr. duyîic eidoc o pépiov; lat. Fa- cultas; ingl. Faculty; franc. Faculté; ted. Vermògen). 1. S'intendono con questo nome i poteri dell’anima cioè le specie o parti in cui si possono classificare e dividere le sue attività o i princìpi cui tali atti- vità sono attribuite. La distinzione fra i poteri del- l’anima, c pertanto la nozione stessa di potere in quanto riferita all'anima, nascono dall’ovvia con- siderazione della diversità delle operazioni che si attribuiscono all’anima stessa e dal fatto che tali operazioni possono venire in contrasto fra loro.Proprio su questo fondamento Platone distinse tre poteri, che egli chiamava specie (et3n, Rep., IV, 440 e) dell’anima: il potere razionale che è quello per cui l’anima ragiona e domina gl’impulsi cor- porei; il potere concupiscibile o irrazionale che è quello appunto che presiede agli impulsi, ai desideri, ai bisogni e concerne il corpo; e il potere irascibile che è un ausiliario del principio razionale e si sdegna e lotta per ciò che la ragione ritiene giusto (Rep., IV, 439-40). Aristotele distinse invece: a) la parte (uéprov) vegetativa che è la potenza nutritiva e riproduttiva propria di tutti gli esseri viventi a cominciare dall’uomo; 5) la parte sensitiva che comprende la sensibilità e il movimento ed è propria dell’animale; c) la parte intellettiva (dianoetica), che è propria dell’uomo. Il principio più elevato può far le veci di quelli inferiori, ma non viceversa. Così nell’uomo l’anima intellettiva compie anche le funzioni che negli animali sono compiute dal- l’anima sensitiva e nelle piante da quella vegetativa (De an., II, 2, 413 a 30 sgg.). A sua volta il prin- cipio dianoetico o anima intellettiva si divide in due parti che sono rispettivamente la parte appe- titiva o pratica (la volontà) e la parte intellettiva o contemplativa (l’intelletto) (/bid., III, X, 433a 14; Et. Nic., VI, 1, 1139a 3; Pol., 1133 a).Questa partizione aristotelica doveva rimanere, per lunghi secoli, la più accettata e diffusa. Gli Stoici tuttavia ne avevano proposta un’altra, consistente di quattro princìpi: a) il principio direttivo o ege- monico che è la ragione; 5) i sensi; c) il seme o principio spermatico; d) il linguaggio (Dio. L., VII, 157; Sesro E., Adv. Math., IX, 102). Nella filosofia medievale la partizione aristotelica, che finisce col prevalere sul finire della Scolastica, e che è ripetuta da molti pensatori (per es., da Al- berto Magno, S. Tommaso, Duns Scoto, Ockham) s’intreccia con quel tipo di partizione che era stato inaugurato da S. Agostino e che consiste nel rite- nere le parti dell'anima modellate sulla Trinità di- vina. S. Agostino aveva infatti distinto tre facoltà dell’anima, memoria, intelligenza e volontà, cor- rispondenti alle tre persone della Trinità definite 376 rispettivamente come Essere, Verità e Amore (De trin., X, 18). Questa partizione o partizioni analoghe, s'incontrano frequentemente nella Scolastica (è ri- petuta, per es., da S. AnseLMO, Monol., 67). Da Cartesio in poi la sola partizione ammessa fu quella che Aristotele aveva riconosciuta propria dell'anima intellettiva o dianoetica, tra volontà (o appetizione o desiderio) ed intelletto vero e proprio: cioè la partizione fondata sull’uso pratico e sull’uso teo- retico della ragione. Per Cartesio infatti l’anima è soltanto l’anima «razionale » giacchè le funzioni vegetativa e sensitiva non appartengono nè al- l’anima razionale nè ad altra specie di anima in quanto sono funzioni meccaniche, che vengono esplicate dal meccanismo corporeo (Discours, V). La partizione tra intelletto e volontà viene enunciata da Cartesio (Passions de l’dme, I, 17) come quella tra le azioni dell'anima, che comprendono tutti i desideri, tra i quali Cartesio fa rientrare la volontà (Ibid., 18), e le passioni che comprendono « tutte le specie di percezioni o forme di conoscenza ». partizione viene meglio chiarita dall’uso che Cartesio ne fa nella sua teoria dell’errore. Questo dipende dal concorso di due cause, dell’intelletto e della volontà. Con l'intelletto l’uomo non afferma nè nega nulla, ma concepisce soltanto le idee che può affermare o negare. L’atto dell’affermazione o della negazione è proprio della volontà. Ora, la volontà è libera: come tale è assai più estesa del- l’intelletto e può quindi affermare o negare anche ciò che l’intelletto non riesce a percepire chiara- mente e distintamente (Méd., IV; Princ. Phil., I, 34). Con ciò la distinzione fra intelletto e volontà veniva stabilita e rimaneva sino a Kant un dato comune- mente accettato. Spinoza nega bensì che esistano nell’anima F. separate adducendo che esse « o sono fittizie o sono entità metafisiche o sono universali che noi formiamo dalle cose particolari» (Et., II, 48). Ma questo significa per lui che « volontà e intelletto sono la medesima cosa» (/bid., 49,

coroll.): col che la distinzione viene polemicamente presupposta. Locke stesso la riconosce quando, a proposito dell’idea di forza, afferma che la volontà e l'intelletto sono le due forze che spiegano i mu- tamenti che avvengono nel nostro spirito (Saggio, II, 21, $ 5-6). Leibniz dice che i due princìpi agenti nella monade sono la percezione e l’appetizione (Monad., $ 14-15). Cristiano Wolff a sua volta riconosceva nella conoscenza e nell’appetizione le due funzioni fondamentali dello spirito umano e sulla base di questa partizione modellava quella della filosofia nelle due branche fondamentali, filo- sofia teoretica o metafisica e filosofia pratica (Log., Disc. Prael., $ 60-62). Kant, traendo le somme dalle analisi degli em- piristi inglesi interponeva tra l’intelletto e la volontà FALANSTERIO una terza F. che chiamava « sentimento di piacere e dispiacere». Con ciò le F. dell'anima venivano portate a tre (F. di conoscere, F. del sentimento, F. di desiderare) (Crif. del Giud., Introd., IX) e questa partizione diventava classica e venne spesso appoggiata da una presunta testimonianza della co- scienza (v. EMOZIONE, SENTIMENTO). Nessuna tuttavia di queste dottrine implicava che le F. dell'anima fossero poteri distinti ed indipen- denti. Come già gli antichi, sia Cartesio (Regulae, XII, 79) sia Locke (Saggio, II, 21, 6); sia Leibniz (Nouv. Ess., II, 21, 6) riconoscono esplicitamente che la divisione delle F. è un’astrazione che non distrugge l’unità dell’attività mentale. Sicchè non rappresenta una grande novità la critica di Herbart alla dottrina delle F. e la sua tesi che le F. stesse (intelletto, sentimento e volontà) sono semplici «concetti di classe» mediante i quali si ordinano i fenomeni psichici (Einleitung in die Phil., $ 159). La psicologia associazionistica condivideva questo punto di vista ma manteneva la stessa tripartizione (per es., Barn, Mental and Moral Science, 1868, pag. 2; Logic, II, 275) e il Neo-criticismo della Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp) riconosceva soltanto tre scienze filosofiche, la logica, l’estetica e l’etica, corrispondenti appunto alle tre attività dello spirito. Soltanto nella psicologia e nella filosofia contem- poranea, specialmente per influenza del comporta- mentismo e della teoria della forma, la dottrina delle parti dell'anima, comunque intesa, ha perso la sua importanza e non costituisce più tema di indagine e di dibattiti. Come oggetto d’indagine, infatti, il comportamento implica la messa in opera simultanea e la fusione di tutti i principi o parti di- stinti o distinguibili nell'attività dell'anima o della coscienza o dell’organismo, sicchè tali distinzioni di- ventano prive d’interesse e si parla di « comporta- mento razionale + o « comportamento emotivo + in

un senso in cui la distinzione stessa non ha più nulla da fare (v. COMPORTAMENTISMO; COMPOR- TAMENTO). 2. Nel significato più generale, lo stesso che Potere (v.). FALANSTERIO (ingl. Phalanstery; francese Phalanstère). Termine adoperato da Carlo Fourier per designare l’organizzazione sociale utopistica da lui preveduta: un gruppo di circa 1600 persone vi- venti a regime comunistico, con libertà di rapporti sessuali e regolamentazione della produzione e del consumo dei beni (Trattato di associazione dome- stica e agricola o teoria dell'unità universale, 1822). FALLACIA (gr. o6piopa; lat. Fallacia; ingl. Fal- lacy; franc. Sophisme; ted. Fallacie). Termine con cui gli Scolastici indicarono il «sillogismo sofi- stico » di Aristotele. F., disse Pietro Ispano, è la FANATISMO idoneità a far credere che sia ciò che non è me- diante qualche fantastica visione; cioè, l’apparenza senza esistenza (Summul. log., 7.03). Aristotele aveva diviso i ragionamenti sofistici in due grandi classi cioè in quelli attinenti al modo di esprimersi o come dicono gli Scolastici, in dictione e in quelli indipendenti dal modo di esprimersi o extra dic- tionem. I primi sono sei e cioè: l’equivocazione, l’anfibologia, la composizione, la divisione, l’accen- tuazione, la figura dictionis. I secondi sono sette e precisamente: l’accidente, il secundum quid, l’igno- rantia elenchi, la petizione di principio, la non causa pro causa, il conseguente, l'interrogazione multipla (EI. Sof., 4). La dottrina delle F. fu una delle parti meglio coltivate della logica medievale ma ha perso quasi ogni importanza nella logica moderna. Una buona metà delle Sumunulae logicales (sec. xm) di Pietro Ispano è dedicata alla confutazione delle fallacie. Ma già nella Logica di Portoreale si de- dica ad essa un solo capitolo (il XIX della parte III) che è la ventesima parte circa dell’intera trattazione. Nella logica contemporanea questa parte della trat- tazione è completamente sparita: giacchè non pos- sono essere ridotti a sofismi le antinomie (v.) di cui essa tratta. Sotto i nomi dei singoli sofismi si troverà ciò che la logica antica e medievale inten- deva per essi. G. P.-N. A. FALLIBILISMO (ingl. Fallibilism). Termine creato dal Peirce per indicare l'atteggiamento del ricercatore che ritiene possibile l’errore a ogni istante della sua ricerca e perciò cerca di migliorare i suoi strumenti di indagine e di controllo (Coll. Pap., 1.13; 1.141-52). Dewey ha sottolineato l’impor- tanza di questo atteggiamento (Logic, cap. II; trad. ital., pag. 79). E. Popper l’ha fatto proprio, contrapponendolo a quello del « verificazionismo + e definendolo come il procedimento che consiste nel formulare conget- ture e sottoporle a confutazioni, anche in base aosservazioni empiriche, con la rinuncia ad ogni pretesa di certezza nel campo della scienza (Co- njectures and Refutations, 1965, pag. 228 sgg.). FALSIFICABILITÀ (ingl. Falsifiability; fran- cese Falsificabilité; ted. Falschungsmòglichkeit). È il criterio suggerito da Karl Popper per l’accogli- mento delle generalizzazioni empiriche. Il metodo empirico, secondo Popper, è quello che « esclude quei modi di evadere la falsificazione che sono logi- camente ammissibili ». Da questo punto di vista, le asserzioni empiriche sono decidibili solo in un senso cioè nel senso della falsificazione, e possono essere sottoposte a prova solo da tentativi sistematici di coglierle in fallo. In tal modo l’intero problema del- l’induzione e della validità delle leggi di natura sparisce (Logic of Scientific Discovery, $ 6). Cfr. ESPERIENZA; VERIFICAZIONE. 377 FALSO (gr. veu8nc; lat. Falsum; ingl. False; franc. Faux; ted. Falsch). V. FALLIBILISMO; VERITÀ. FAMIGLIA (ingl. Family; franc. Famille; te- desco Familie). Interessa qui registrare soltanto l’uso logico e metodologico di questo concetto, che è recentissimo. Una «F. di concetti» è un in- sieme di concetti fra i quali intercorrono relazioni diverse, non riducibili tuttavia a un unico concetto o principio. È precisamente quello che si verifica tra i membri di una F. umana, i quali non sempre hanno un’unica proprietà in comune; e anche quando l’hanno, essa non assomma o esaurisce l’intera somiglianza familiare. L’uso di questa no- zione implica perciò l'impegno a cercare sempre nuovi rapporti fra i concetti, senza che sia neces- sario ridurre tali rapporti ad un unico tipo. Il primo a proporre e adoperare la nozione in questione è stato WITTGENSTEIN, Philosophical Investigations, $ 110. Quest'opera è stata pubblicata soltanto nel 1953; ma già da alcuni anni i suoi concetti fondamentali erano noti e del concetto di F. si era avvalso Waismann nella sua /ntroduzione al pensiero matematico (Einfihrune in das mathema- tische Denken, 1936; trad. ital., 1939). Cfr. sullo stesso concetto: ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, passim. FANATISMO (ingl. Fanaticism; franc. Fana- tisme; ted. Fanatismus). Questa parola (da fanum = = tempio) fu adoperata a partire dal 700 scambie- volmente con entusiasmo (v.) per indicare lo stato di esaltazione di chi si crede invasato da Dio e quindi immune dall’errore e dal male. Nell'uso moderno e contemporaneo, «F.» ha finito per soppiantare « entusiasmo » per indicare la certezza di chi parla in nome di un principio assoluto e pertanto pretende per le sue parole questa stessa assolutezza. Già Shaftesbury diceva: « Ed è questo [l'entusiasmo] che ha fatto nascere la denomina- zione di F. nel senso originale in cui l’usavano gli antichi, di apparizione che rapisce la mente» (Letter on Enthusiasm, 7; trad. ital, Garin, pa- gina 78-79). In realtà già Cicerone parlava di « filo- sofi superstiziosi e quasi fanatici» (De div., 2, 57, 118). Leibniz chiamava fanatica la filosofia che at- tribuisce tutti i fenomeni a Dio «immediatamente per miracolo» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 204). Ma certo la migliore defì- nizione filosofica del F. fu data da Kant. Nel senso più generale, F. «è una trasgressione, intrapresa secondo princìpi, dei limiti della ragione umana ». C'è poi il F. morale che è «l’oltrepassare i limiti che la ragione pura pratica pone all'umanità, vie- tando di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al dovere, cioè il movente mo- rale di esse, in qualche altra cosa che non sia la legge stessa ». Il F. morale consiste nella pretesa di 378 fare il bene per ispirazione, per entusiasmo, per un impulso naturalmente benefico della propria natura; e perciò nel sostituire alla virtù, che è « l'intenzione morale in lotta», «la santità del creduto possesso della purezza perfetta delle intenzioni della volontà » (Crit. R. Prat., I, 1, 3). Il fanatismo in questo senso è stato sempre l'oggetto polemico dell’opera di Kant che ne ha individuate e combattute le ma- nifestazioni principali, nel suo sforzo di determinare i limiti dei poteri umani e la validità di tali poteri nei loro limiti. In uno scritto del 1786 Che cosa significa orientarsi nel pensare, Kant poneva in guardia contro la pretesa di superare i limiti della ragione appellandosi a facoltà o poteri che si pre- tendono «superiori ». I suoi riferimenti polemici andavano a Jacobi e Mendelssohn; ma egli vedeva la stessa pretesa nello spinozismo e contro spino- zismo e fanatismo, ribadiva l’esigenza di determi-nare con precisione i limiti della ragione. Queste osservazioni di Kant appaiono, a chi le consideri oggi, come una critica anticipata del Romanticismo che fu, sotto questo rispetto, il grande ritorno dello spinozismo. Tuttavia Hegel stesso parlò di F., limitandolo però al campo politico e religioso. Nel campo politico « il F. vuole una cosa astratta non un’organizzazione »: il suo esempio è la Rivo- luzione francese (Fil. del Dir., $ 5, Zusatz). Nel campo religioso, il F. consiste nella subordinazione dello Stato alla religione sicchè il suo motto è in questo campo: « Ai religiosi non sia data alcuna legge » (/bid., $ 270, Zusatz). Ma Hegel non si accorge che la stessa onnipotenza dello Stato, da lui teorizzata, è un fanatismo. La parola F. ha conservato oggi il significato di atteggiamento o punto di vista o dottrina che, in qualsiasi campo o dominio, trascuri o ignori i limiti dell’uomo. L’età contemporanea ha cono-

sciuto un’altra più sinistra forma di F.: il F. poli- tico che pur non essendo una novità dal punto di vista dottrinale ha operato nel dominio politico l’abolizione dei limiti umani con la conseguente esaltazione o divinizzazione di punti di vista poli- tici e di individui che li incarnavano. La parola stessa F. ha perduto, nel dizionario di alcuni movi- menti politici, la connotazione negativa che aveva fin dall’antichità, per significare il pregio di una fedeltà a tutta prova, incurante di obiezioni come di limiti. L'esperienza ha mostrato come questa fe- deltà è la più fragile di tutte e si capovolge, alla prima occasione, nel suo contrario. Come già di- ceva Kant, la ragionevolezza, col riconoscimento dei limiti che essa implica, è la sola garanzia di ogni autentico impegno teoretico o pratico. FANTASIA (ingl. Fancy; franc. Fantaisie; te- desco Phantasie). 1. Lo stesso che immagina- zione. FANTASIA 2. A partire dal sec. xvm l’uso contemporaneo dei due termini F. e immaginazione favoriva una distinzione di significati secondo la quale « F.» co- minciò a indicare un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Già nella Logica di Portoreale si dice che l’immaginazione è «la maniera di concepire le cose mediante l’applicazione del nostro spirito alle immagini che sono dipinte nel nostro cervello » (che è un concetto cartesiano esposto nella Re- gula XII), e si distinguono queste immagini, che sono le idee delle cose dalle immagini « dipinte nella fan- tasia » (I, 1). Si contrappongono, in altri termini le immagini che sono idee, proprie dell'immagina- zione, alle immagini fittizie, proprie della fantasia. Analogamente Kant diceva che la F. è « l’immagina- zione in quanto produce immagini senza volerlo +; onde è «un fantastico » colui che è abituato a ri- tenere tali immagini per esperienze interne o esterne (Antr., I, $ 28). E osservava: « Noi giochiamo spesso e volentieri con l'immaginazione; ma l'immagina- zione, in quanto è F., gioca altrettanto spesso, e talvolta male a proposito, con noi » [/bid., $ 31, a)]. In questo senso la F. è un’immaginazione sregolata o sbrigliata. Questo è uno dei significati che la parola ha conservato a tutt'oggi soprattutto nel linguaggio comune, per il quale la F. è «la pazza di casa». 3. Accanto a questo significato, il Romanticismo ne ha elaborato un altro per il quale la F. viene intesa come immaginazione creatrice, diversa di qualità più che di grado dalla comune immagina- zione riproduttiva. In tal senso Hegel vedeva nella F. «l'immaginazione simboleggiante, allegorizzante e poetante» quindi «creatrice» (Enc., $ 456-57). I Romantici esaltarono la F. così intesa. Per No- valis essa è «il massimo bene» (Fragmente, 535). «La F., egli diceva, è il senso meraviglioso che può sostituire per noi tutti i sensi. Se i sensi esterni sembra che sottostiano a leggi meccaniche, la F. evidente- mente non è legata al presente nè al contatto di sti- moli anteriori » (/bid., 537). In tal modo, il carattere disordinato o ribelle dell’immaginazione fantastica che faceva apparire questa forma dell’immagina- zione inferiore alle altre durante il sec. xvm, diventa nel xrx un elemento positivo, un pregio, il contras- segno di una libertà creatrice. L'estetica romantica si è attenuta a questa valutazione della fantasia. Dice Croce: « L'estetica del sec. xx foggiò la di- stinzione, che si ritrova in non pochi dei suoi filo- sofi, tra F. (che sarebbe ìa peculiare facoltà arti- stica) e immaginazione (che sarebbe facoltà extra artistica). Ammucchiare immagini, trasceglierle, ta- gliuzzarle, combinarle, presuppone nello spirito la produzione e il possesso delle singole immagini; e la F. è produttrice laddove l’immaginazione è sterile e adatta a combinazioni estrinseche e non FATTO a generare l’organismo e la vita » (Breviario di este- tica, 1913, pag. 35-36). In un senso analogo Gentile chiamava F. l’attività artistica come puro senti- mento o «inattuale forma subiettiva » dello spirito (Fil. dell’arte, $ 5). Ma in questo significato roman- tico la F. cessa di essere un'attività o un’operazione umana, definibile o descrivibile nelle sue possibilità e nei suoi limiti per diventare, come manifestazione di un’attività infinita, essa stessa infinita, e situarsi perciò al di là di ogni possibilità di analisi e di accertamento. Si tratta, in altri termini, di un con- cetto magico-metafisico che non può essere utiliz- zato fuori del clima romantico che lo creò o pre- dilesse. FANTASMA. V. IMMAGINE. FAPESMO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare l’ottavo dei nove modi del sillo- gismo di prima figura e precisamente quello che ha per premesse una proposizione universale afferma- tiva e una proposizione universale negativa e per conclusione una particolare negativa come nel- l'esempio: « Ogni animale è sostanza, Nessuna pietra è animale, Dunque qualche sostanza non è pietra + (Pietro Ispano, Summul. logic., 4.09; ARNAULD, Logique, III, 8). FATALISMO (ingl. Fatalism; franc. Fatalisme; ted. Fatalismus). Già Leibniz aveva distinto dal fato stoico e cristiano il «fato maomettano +? o «destino alla turca» secondo il quale «gli effetti accadrebbero anche se se ne evitasse la causa, essendo dotati di necessità assoluta » (Op., ed. Erd- mann, pag. 660, 764). Wolff adoperava, per indicare questa dottrina, che egli attribuì a Spinoza, il ter- mine F. nello scritto De differentia nexus rerum sapientis et fatalis necessitatis (1723) che è per l'appunto diretto contro Spinoza. In realtà però tutte leconcezioni del fato (o destino), elaborate dai filosofi ammettono che di esso fanno parte, come cause che determinano bensì altre cause ma sono a loro volta determinate dalle antecedenti, le stesse azioni umane dirette ad evitare o a rag-giungere certi risultati. F. è perciò un termine po-lemico col quale i filosofi abitualmente designano quella forma di necessitarismo che non condividono. Più esattamente, il termine può essere adoperato a designare, non una dottrina filosofica, ma un at-teggiamento: l'atteggiamento di chi si abbandona al corso degli eventi senza cercare di modificarlo e senza reagire. FATO (ingl. Fate; franc. Fatalité; ted. Fatum). Il destino nel significato 1° del termine, come ne- cessità sconosciuta, perciò cieca, che domina gli esseri del mondo in quanto parti dell’ordine totale. La nozione di fato venne a distinguersi da quella di destino quando si volle accentuare l’inclusione, fra le cause che costituiscono quest’ultimo, dellavolontà e dell’azione umana. Leibniz contrappose, in questo senso al fato maomettano (fatum maho-metanum), che considera gli eventi futuri indipen- denti da ciò che l’uomo può volere e fare, la nozione di destino (o di provvidenza) per la quale ciò che avverrà nel futuro è anche, almeno in parte, deter- minato dall’azione umana (7héod., I, $ 55). In un senso analogo Kant contrappone il F. alla neces- sità condizionale, quindi intelligibile della natura (Crit. R. Pura, Postulati del pensiero empirico). La nozione di F. è nella filosofia moderna una nozione polemica, che non viene ritenuta valida da coloro che l’adoperano: perciò è alquanto bastarda in filosofia. Essa non ha questo significato deteriore nell’espressione amor fati, che è la definizione mo- derna del destino (v.). E al suo significato deteriore ha anche cercato di sottrarla Peirce: «Il F., egli ha detto, significa semplicemente ciò che siamo sicuri si avvererà e che non può essere in nessun modo evitato. È una superstizione supporre che una certa specie di eventi sia sottoposta al F. e lo è anche supporre che la parola F. non possa mai essere liberata dal suo carattere superstizioso. È il F. di noi tutti di morire» (Chance, Love and Logic, I, cap. 2, $ 4, nota; trad. ital., pag. 41). FATTICITÀ (ingl. Factuality; ted. Tatsachlich- keit). Husserl ha chiamato con questo termine il modo d’essere del fatto, in quanto essenzialmente «casuale» cioè in quanto può essere diverso da ciò che è (Zdeen, I, $ 2). Heidegger ha distinto « la F. del factum bru- tum di una semplice presenza» cioè di una cosa dalla effettività (v.) dell’esistenza (Sein und Zeit, $ 29). FATTIZIO (ingl. Factitious; franc. Factice; te- desco Gemacht). Termine che si adopera quasi esclusivamente in riferimento alla classificazione car- tesiana delle idee in innate, avventizie e fattizie: queste ultime sono le idee «fatte e inventate» da noi (Med., III). FATTO (ingl. Fact; franc. Fait; ted. Tatsache). In generale, una possibilità oggettiva di verifica- zione, di accertamento o di controllo e perciò pure di descrizione o di previsione: oggettiva nel senso che ognuno può farla propria nelle condizioni adatte. « È un F. che x» significa che x può essere verificato o accertato da chiunque sia in possesso dei mezzi adatti o può essere descritto o previsto in modo controllabile. La nozione di F. è una no- zione moderna, più ristretta e specifica che non quella di realtà; ed è nata soprattutto per indicare gli oggetti della ricerca scientifica, che devono poter essere riconosciuti da qualsiasi ricercatore capace. Il F. si presenta perciò, quanto alla sua validità, indipendente da opinioni e pregiudizi e anche da giudizi e valutazioni che non siano quelli inerenti all'uso degli strumenti adatti per accertarlo. Esso si presenta così fornito di due caratteristiche fon-damentali: a) il riferimento a un metodo appro- priato di accertamento o di controllo; 5) l’indipen- denza dalle credenze soggettive o personali di chi adopera il metodo stesso. Per l’appunto in vista di queste due caratteristiche, la «capacità di guar- dare i fatti» o «di tener conto dei fatti» o «di accettare i fatti per quello che sono » è oggi con- siderata come uno dei requisiti fondamentali non soltanto dello scienziato e in generale del ricerca- tore, ma di ogni cittadino. Nonostante l’importanza che la nozione ha as- sunto nella cultura moderna, l’attenzione dei filo- sofi si è solo raramente portata su di esso. La storia delle analisi di questa nozione è assai magra. Si può dire che s’inizi nel 1600, quando, con la distinzione tra « verità di ragione» e « verità di F.» si comincia anche a distinguere, almeno implicita- mente, la sfera propria del fatto. Questa distinzione è stata fatta per la prima volta da Hobbes: « Vi sono, egli diceva, due specie di conoscenza, di cui una è la conoscenza di F., l’altra la conoscenza della conseguenza di un'affermazione dall’altra. La prima non è altro che senso e memoria ed è cono- scenza assoluta, come quando vediamo un F. ac- cadere o lo ricordiamo; e questa è la conoscenza richiesta in una testimonianza. L’altra è chiamata scienza ed è condizionale... » (Leviath., I, 9). Come Hobbes, Leibniz e Hume sono d’accordo nel ri- tenere che tale sfera è l’esperienza. Secondo Leibniz, le verità di F. sono contingenti mentre quelle di ragione sono necessarie perchè fondate sul principio di contraddizione sicchè il loro contrario è impos- sibile (Nouv. Ess., IV, 2, 1). Secondo Hume, delle verità di F. «è possibile sempre il contrario, poichè non implica mai contraddizione ed è concepito dallo spirito con la stessa facilità e chiarezza che se fosse conforme alla realtà » (Zng. Conc. Underst., IV, 1). Sia Leibniz che Hume sono infine d’accordo nel ritenere che il fondamento della verità di F. è il principio di causalità. Da questa analisi risulta perciò che il fatto è: a) una realtà contingente, attinta o testimoniata dall’esperienza; è) una realtà fondata su una certa connessione causale. Una no- zione di fatto così configurata è quella che pro- priamente oggi si direbbe la nozione di avvenimento cioè di una realtà contingente, appartenente al- l'ordine della natura. Quest'ultima qualifica è quella che viene espressa dal ritenere la verità di F. fon- data sul principio causale. Pertanto questa non è ancora una nozione di F. sufficientemente estesa, cioè tale da poter valere nei confronti dell’intera estensione della ricerca scientifica: per essa le ve- rità matematiche non sarebbero verità di fatto. L’estensione della nozione fu realizzata da Kant. Secondo Kant, «i fatti sono gli oggetti dei concetti di cui si può provare la realtà oggettiva, sia me- FATTO diante la ragione, sia mediante l’esperienza: nel primo caso, in base a dati teoretici o pratici, in ogni caso per mezzo di una intuizione corrispon- dente » (Crit. Giud., $ 91). Sono fatti in questo senso, secondo Kant, le proprietà geometriche delle gran- dezze in quanto possono essere dimostrate a priori; le cose o le qualità delle cose che possono essere provate mediante l’esperienza o mediante testimo- nianze; ed anche l’idea della libertà, la cui realtà come una specie particolare di causalità si può mostrare a partire dall’esperienza morale (/bid., $ 91). Questa analisi di Kant è importante perchè: a) consente di distinguere nettamente la nozione di F. da quella di avvenimento come nozione più gene- rale, corrispettiva della possibilità d’uso di qual- siasi strumento di accertamento. Da questo punto di vista l'avvenimento è una specie particolare di F., precisamente è un F. naturale; b) consente di rico- noscere il carattere empirico del F. come alcunchè di diverso dal suo confinamento alla sfera della sensibilità: la ragione stessa ha a che fare con fatti che non le sono esterni e imposti dall'esterno, ma che trova in se stessa, come condizioni del suo fun- zionamento. Da questo punto in poi, la nozione di F. viene talora avvicinata a quella di fenomeno, talaltra a un elemento o condizione della ragione. Si avvicina il F. al fenomeno quando si parla di « F. bruto » o «grezzo» o di «mero F.», giacchè si allude in tal caso al dato immediato, alla semplice o grosso- lana apparenza così come si presenta prima facie. Ma è chiaro che non si può procedere molto oltre sulla via di questa identificazione. Il F. non è il fenomeno: per es., la spezzatura di un bastone nell'acqua è un fenomeno ma non un fatto. È pure un fenomeno il moto apparente dei cieli che sin dagli inizi l'astronomia cercò in vari modi di ridurre a « F.». Il F. implica una sistemazione o interpretazione del fenomeno per la quale il fenomeno stesso cambia faccia, diventa suscettibile di essere descritto, previsto e controllato. Lo stesso Comte che adopera il più delle volte scambievol- mente le due parole sembra talora accennare ad una distinzione come nel passo seguente: « Questo F. generale (cioè la gravitazione) ci è presentato come una semplice estensione di un fenomeno che ci è eminentemente familiare e che perciò conside- riamo come perfettamente conosciuto, la pesantezza dei corpi alla superficie della terra » (Phil. Pos., I, $ 4). Ma nell’ambito stesso del positivismo, Claude Bernard accentuò la subordinazione dei fatti alla ragione. « Senza dubbio, egli scrisse, io ammetto che i fatti sono le sole realtà che possano dare la formula all’idea sperimentale e nello stesso tempo servirle di controllo; ma ciò alla condizione che la ragione li accetti... Nel metodo sperimentale,come dappertutto, il solo criterio reale è la ragione. Un F. non è niente di per se stesso, vale soltanto per l’idea che gli si connette o per la prova che fornisce » (Intr. à l’étude de la médecine expérimental, I, 2, 7). Questa interpretazione del fatto sembrò confermata quando si vide la parte preponderante che nella costruzione del «F. scientifico» ha la teoria (P. DUHEM, La théorie physique: son objet et sa structure, 1906). La stretta connessione del F. con l'attività ra- zionale, espressa in vari modi, viene in generale riconosciuta nella filosofia contemporanea. La fe- nomenologia ha elaborato la nozione di stato di cose (Sachverhalt) come l’oggetto corrispondente di ogni giudizio valido e ha considerato come un fatto lo stato di cose in cui è coinvolta un’esistenza indi- viduale. In questo senso una cosa non è un F.: ma è un F. che questa cosa esista che abbia questo o quel carattere, ecc. (HussERL, /deen, I, $ 6). La no- zione di stato di cose è stata ripresa da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus che però ha con- cepito in diversa maniera il rapporto di esso col fatto perchè ha visto nello « stato di cose» l’ele- mento semplice che entra a comporre il fatto. Lo stato di cose sarebbe perciò il « F. atomico » il com- ponente elementare dei fatti (Tracr., 2). Quel che c’è di caratteristico in queste notazioni è la definizione del fatto (o dei suoi componenti) come oggetto del giudizio o della proposizione valida. Lo stato di cose o F. atomico non è, secondo Wittgenstein che l’oggetto di una proposizione elementare (/bid., 4, 21). S’intende perciò come, sulla linea di sviluppo di questa concezione, i fatti siano stati addirittura identificati con le proposizioni. L’identificazione è stata proposta da Ducasse (in «Journal of Philo- sophy +, 1940, pag. 701-11) e accettata da Carnap,nel senso che un F. sarebbe una proposizione che sia: 1° vera; 2° contingente; 3° dotata di un certo grado di completezza cioè di determinazione (Mean- ing and Necessity, $ 6, 1). Bisogna avvertire che, per Carnap, il termine proposizione non signi- fica nè un’espressione linguistica, nè un avveni- mento mentale o soggettivo ma qualcosa di ogget- tivo che può o meno trovare esempi in natura ed è pertanto paragonabile a « proprietà » (/bid., $ 6). La « proposizione vera + che Carnap identifica col F. significa perciò semplicemente un « oggetto valido » o un reale « stato di F. ». Il chiarimento che deriva da queste riduzioni linguistiche è puramente ver- bale; e, se può riuscire di qualche utilità in una trattazione logica, poco o nulla dice intorno alla natura e ai caratteri del fatto. Denuncia, al più la tendenza a ricondurre il F. stesso a condizioni concettuali o linguistiche. Dall’altro lato, il pragma- tismo con Dewey ha insistito sul carattere « opera- zionale » del F.: nel senso che i F. «sono soltanto risultati di operazioni e di osservazioni compiute con l’aiuto degli organi sensoriali e di strumenti ausiliari prodotti dalla tecnica, e perciò vengono scelti e ordinati nell’espresso intento di farli servire come dati per una ricerca ordinata (Logic, VI, 5, $ 4). L’analisi contemporanea della nozione ignora pertanto l’antitesi tra fatti e ragione. L'eliminazione di questa antitesi si fa indubbiamente sentire anche nell’elaborazione del concetto di ragione (v.). Per ciò che riguarda la nozione di F., esso, nei con- fronti della ragione, si viene a configurare come una condizione limitativa delle scelte razionali. In un campo determinato, per es., nella fisica, un F. è ogni possibile oggetto di osservazione cioè ogni stato o situazione che può essere accertata e con- trollata con gli strumenti di cui dispone la fisica. Ma i fatti fisici in questo senso sono i limiti o le condizioni dell’attività razionale nel campo della fisica cioè di ogni costruzione teoretica o ipotesi. Allo stesso modo, nel campo della logica, le im- plicazioni analitiche o tautologiche valgono come fatti, cioè come condizioni o limiti della ricerca logica (AsBAGNANO, Possibilità e libertà, VI, 7). In generale si può dire che mentre il F. è una « pos- sibilità di accertamento » che in ogni campo assume l’aspetto specifico dovuto agli strumenti d’indagine disponibili nel campo stesso, esso è pure, nei con- fronti della ragione, la condizione di altre possi- bilità cioè di scelte o di operazioni che a loro volta si determinano o specificano secondo la natura dei singoli campi d’indagine. FAUSTISMO (ted. Faustismus). Secondo Spen- gler, il carattere della cultura occidentale, in quanto si contrappone all’apollinismo della cultura antica. L’anima faustiana ha come suo simbolo lo spazio puro illimitato. Faustiane sono, secondo Spengler, la dinamica di Galilei, la dogmatica cattolica e protestante, le grandi dinastie con la loro politica di gabinetto, il destino di Lear e l’ideale della Madonna dalla Beatrice di Dante alla fine del se- condo Faust di Goethe (Untergang des Abendlandes, I, 3, 2, $ 6). Ovviamente si tratta di una caratteriz- zazionearbitrariaefantastica. FAVOLA (lat. Fabula; ingl. Fable; franc. Fable; ted. Fabel). Dal Rinascimento in poi la convinzione che le « F. antiche » avessero un valore di sintomo o di rivelazione indiretta della verità condusse a una reinterpretazione degli antichi miti che furono talora piegati (come si vede nelle opere di Bruno) a significati filosofici particolari. Sul valore delle F. stesse Bacone e Vico segnano gli atteggiamenti fon- damentali. Bacone pensava che le F. sono qual- cosa di intermedio tra il silenzio e l’oblio delle età perdute e la memoria e l'evidenza delle età più vicine di cui possediamo testimonianze scritte. « Le F., egli scrisse, non sono nè un prodotto delle 382 loro età nè frutto dell’invenzione poetica ma quasi sacre reliquie e tenui aure di tempi migliori, che dalla tradizione delle nazioni più antiche sono ar- rivate fino alle trombe e ai flauti dei Greci» (De sapientia veterum, 1609, Pref.). Bacone propendeva pertanto a scorgere nelle F. un significato allegorico che vi sarebbe stato intenzionalmente racchiuso. Che è per l’appunto la tesi negata e combattuta, il secolo dopo, da Vico: secondo il quale le F. sono tali soltanto dal punto di vista dei dotti, mentre per i popoli primitivi che le crearono erano nar- razioni vere. «I filosofi, dice Vico, diedero alle F. interpretazioni fisiche o morali o metafisiche o di altre scienze, come l’oro o l’impegno o il capriccio ne riscaldasse le fantasie; sicchè essi piuttosto con le loro allegorie erudite le finsero favole. I quali sensi dotti i primi autori di quelle F. non intesero, nè per la loro rozza ed ignorante natura potevano intendere: anzi per questa stessa loro natura con- cepirono le F. per narrazioni vere... delle loro divine ed umane cose» (Sc. Nuova, II, Della metafisica poetica). Questa idea di Vico è rimasta a fonda- mento della moderna filosofia delle forme simbo- liche (v. MITO). FEDE (gr. riot; lat. Fides; ingl. Faith; fran- cese Foi; ted. G/aube). La credenza religiosa, cioè la fiducia nella parola rivelata. Se la credenza in generale è l'impegno nei confronti di una nozione qualsiasi, la F. è l’impegno nei confronti di una nozione che si ritiene rivelata o testimoniata dalla divinità. In questo senso usava già la parola Sesto Empirico parlando di quei ragionamenti che sem- brano dipendere « dalla F. e dalla memoria » come il seguente: « Se un Dio ti ha detto che costui di- venterà ricco, costui diventerà ricco. Ma questo Dio qui (e indico, supponiamo, Zeus) t’ha detto che costui diventerà ricco. Dunque diventerà ricco ». In questi casi, nota Sesto, assentiamo alla conclu- sione non per la necessità delle premesse ma in quanto abbiamo F. nella dichiarazione della divi- nità (Ip. Pirr., II, 141). S. Paolo ha riassunto le caratteristiche fondamentali della F. religiosa nelle celebri parole: « F. è sostanza delle cose sperate e argomento delle non parventi» (Mebr., 11, 1). S. Tommaso ha chiarito nel modo seguente le pa- role di S. Paolo: « In quanto si parla di argomento, si distingue la F. dall’opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali cose manca la ferma adesione dell’intelletto al suo oggetto. In quanto si parla di cose non parventi, si distingue la fede dalla scienza e dall’intelletto, nei quali qualcosa diventa appa- rente. E in quanto si dice sostanza delle cose sperate si distingue la virtù della F. dalla F. nel comune significato [cioè dalla credenza in generale] la quale non è diretta alla beatitudine sperata » (S. 7H., Il, 2, q. 4, a. 1). Gli Scolastici si attennero, con poche

FEDE varianti, a questa descrizione della fede. Col misti- cismo tedesco del xrv secolo cominciò ad affac- ciarsi la dottrina del carattere privilegiato della F. come via d’accesso originale, diretta e immediata alle realtà supreme e specialmente a Dio. Maestro Eckhart vede nella F. il mezzo attraverso il quale l’uomo raggiunge la realtà ultima di sè e di Dio: la F., egli dice è la nascita di Dio nell’uomo. Questo tema ritornava nella cosiddetta « filosofia della F. + del sec. xvi: Hamann e Jacobi attribuiscono alla F. lo stesso sfarus privilegiato, la stessa capacità di mettere l’uomo direttamente a contatto, scavalcando i limiti e le incertezze della ragione, con le realtà ultime e specialmente con Dio. Per quanto Jacobi includa nella F. religiosa anche la parte che pro- priamente spetta alla credenza («Noi crediamo, egli dice, di avere un corpo; crediamo all’esistenza delle cose sensibili », Werke, IV, 211; III, 411), è sul carattere religioso della F. che egli fonda la certezza privilegiata di essa: ogni F., egli dice, è necessariamente F. della rivelazione e questa è necessariamente F. in Dio, cioè religione (Ibid., Il, 274, 284 sgg.). I Romantici spesso riconfer- marono questo status privilegiato della fede. Così fece Fichte che esaltò la F. nelle opere popolari del secondo periodo, per es., nella Missione del- l’uomo (1800) dove afferma che «la F., dando realtà alle cose, impedisce ad esse di essere vane illusioni: è la sanzione della scienza» e ripete la parola di Jacobi: « Tutti nasciamo nella F. » (Werke, II, pag. 254-55). Accenti analoghi risuonano ta- lora negli scritti di Schelling (Werke, I, 10, 183) e Novalis dice che la scienza è soltanto una delle metà e la F. è l’altra metà (Fragmente, 391). Verso la fine della Scolastica si era cominciato ad accentuare un altro aspetto della F.: il suo ca- rattere pratico che non consiste nella sua dipendenza dalla volontà ma nella sua capacità di dirigere l’azione. Duns Scoto fu il primo ad insistere su questo carattere: « La F., egli dice, non è un abito speculativo nè il credere è un atto speculativo, nè la visione che segue al credere è una visione spe- culativa, ma pratica » (Op. Ox., prol., q. 3). Per « pratico» Duns Scoto intende ciò che serve a di- rigere la condotta e perciò egli chiama pratica l’intera teologia in quanto le verità che essa in- segna non sono teoretiche cioè necessarie e dimo- strabili ma servono unicamente a dirigere l’uomo verso la beatitudine eterna (/bid., prol., q. 4, n. 42). La stessa antitesi tra l’hkabitus della F. e quello della scienza era ammessa da Ockham che riteneva i due abiti incompatibili tra di loro e osservava che chi crede a qualcosa di cui ha dimenticato la dimostrazione non si può dire veramente che ha «F.» perchè l’oggetto della sua credenza è pur sempre la dimostrazione (/r Sent., III, q. 8 R). FEDE ANIMALE Nel mondo moderno il carattere pratico della F. veniva difeso da Spinoza. «La F., egli dice, con- siste nell’avere, nei confronti di Dio, quei senti- menti tolti i quali viene tolta l’obbedienza a Dio, e che sono posti necessariamente quando è posta tale obbedienza » (7ract. Theol.-Pol., 14). La F. è perciò l’insieme delle credenze che condizionano l'obbedienza alla divinità, secondo Spinoza. Ed è questo un concetto che doveva essere ripreso da Kant, per il quale la credenza teoricamente insuffi- ciente può, soprattutto nel suo aspetto pratico, esser detta fede. Kant generalizza il concetto pratico della F., riconoscendo in essa l’atteggiamento im- pegnativo che può dirigere sia l’abilità, cioè l’atti- vità che ha in vista fini arbitrari e accidentali, sia la moralità che ha in vista fini assolutamente ne- cessari. La F. che dirige l’abilità è la F. prammatica la quale difficilmente spinge il suo impegno sino alla scommessa. C’è invece una F. dortrinale che è più impegnativa ma che neppure arriva alla cer- tezza della F. morale. Quest'ultima specie di F., dà una certezza che non si può comunicare e non è quindi di natura logica ma è una « certezza mo- rale» che poggia su fondamenti soggettivi. « Così io non devo dir mai: è moralmente certo che c’è un Dio, ecc., ma: io sono moralmente certo, ecc. Cioè: la F. in Dio e in un altro mondo è talmente intrecciata col mio sentimento morale che, come non corro rischio di perdere questo, così non temo che quella possa essermi tolta» (Crit. R. Pura, Canone della Ragion Pura, sez. 3). La F. religiosa può essere secondo Kant o «F. religiosa pura » che è la stessa F. morale o «F. storica» che è F. nelle leggi statutarie cioè nelle leggi che indicano il modo in cui Dio vuol essere onorato ed obbedito (Religion, III, I, $ 6). Ciò che gli Scolastici chiamavano il carattere pratico della F. è diventato per Kant (e per i mo- derni) il carattere impegnativo della F. stessa cioè il carattere per il quale la F. è innanzi tutto un atto esistenziale, una direzione impressa alla vita dell’individuo, capace di trasformarla e non priva di rischio. Questi tratti appaiono chiari nell'ultima grande teoria della F. che la filosofia ha elaborato: quella di Kierkegaard. Kierkegaard ritiene che il cristianesimo ha invertito il rapporto tra F. e scienza. Nell’antichità classica la F. è qualcosa di inferiore alla scienza perchè si rapporta al verosi- mile; nel cristianesimo la F. è superiore alla scienza perchè indica la certezza più alta, una certezza che si rapporta al paradosso, quindi all’inverosimile: essa è «la coscienza dell’eternità, la certezza più appassionata che spinge l’uomo a sacrificare tutto, anche la vita» (Diario, X*, A 635). Il carattere im- pegnativo della F. consiste nel suo legame con l’esistenza: aver F. significa esistere in un certo 383 modo. « Per aver F., dice Kierkegaard, è necessaria una situazione e questa situazione dev’essere pro- dotta con un passo esistenziale dell’individuo » (Ibid., X*, A 114). Questo passo segna la rottura col mondo e col suo ideale di intelligibilità. Che cosa è credere? È volere (ciò che si deve e perchè si deve) in obbedienza riverente e assoluta, difen- dersi contro i pensieri vani di voler comprendere e contro le vane immaginazioni di poter compren- dere » (/bid., X!, A 368). Da questo punto di vista la F. non è fatta di certezze, ma di decisione e di rischio. La F., dice Kierkegaard in Timore e tre- more, è la certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sè e di un nascosto rapporto con Dio. L’uomo può pregare Dio che gli conceda la F.; ma la possibilità di pregare non è in se stessa un dono divino? Così c’è nella F. una contraddizione ineliminabile che la rende paradossale. L'uomo è posto di fronte al bivio: credere e non credere. Da un lato è lui che deve scegliere e dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perchè Dio è tutto e da Lui deriva anche la fede. Questo concetto è stato so- stanzialmente ripreso da Karl Barth che ha inter- pretato la F. come l’inserzione della Eternità nel tempo, della Trascendenza nell’esistenza (Commento all’Epistola ai Romani, 1919). All’iniziativa divina attribuisce la F. anche Rudolf Bultmann che, tut- tavia ha affermato l’esigenza di liberare la F. stessa, e in particolare quella cristiana, dai miti cosmo- logici con i quali essa tradizionalmente si presenta unita e di procedere alla sua demitizzazione (v.). E andando oltre su questa strada, Dietrich Bon- hoeffer ha addirittura contrapposto la F. alla religione (v.), considerata come un’espressione mi- tica o contingente della F. e divenuta inaccetta- bile nell’età contemporanea dominata dal razio- nalismo, dalla scienza e dalla tecnologia. Da questo punto di vista si accentua il carattere pratico della F. che diventa una morale naturale ed umana, che si fonda sull’unità del mondo e di Dio, dell’umanità e di Cristo (£tica, 1949; Resistenza e Resa, 1951). A questo concetto della F., intesa come azione rinnovatrice del mondo umano, si ispira il panteismo umanistico dei co- siddetti « nuovi teologi » (v. Dio e Dio, MORTE DI). Da un punto di vista filosofico ha insistito sul- l’identità di esistenza e fede Karl Jaspers che tuttavia ha continuato a riconoscere nella F., sulle orme di Kierkegaard, un rapporto diretto con la Trascendenza (Der Philosophische Glaube, 1948). FEDE ANIMALE (ingl. Animal Faith). Così Santayana chiamò la credenza nella realtà in quanto prodotta nell’uomo da esperienze animali: fame, sesso, lotta, ecc. (Scepricism and Animal Faith, 1923) (v. CREDENZA). 384 FEDE, FILOSOFIA DELLA (ted. G/aubens- philosophie). Con questo nome o con quello di « filosofia del sapere immediato » si indica la filo- sofia di un gruppo di filosofi tedeschi della seconda metà del 700 che fecero parte dello Sturm und Drang (v.). Le principali figure di questa filosofia furono G. G. Hamann (1730-88), detto «il mago del Nord +»; G. G. Herder (1744-1803) e F. E. Ja- cobi (1743-1819) al quale si deve l’espressione « filosofia della F.». Questa filosofia accettava da Kant la dottrina dei limiti della ragione solo per affermare la superiorità della F. sulla ragione. Essa considerava la F. come un rapporto immediato, quindi non soggetto a incertezze o a dubbi, con le realtà supreme e specialmente con Dio. Jacobi espresse queste idee nelle Lerrere sulla dottrina di Spinoza a Mosé Mendelssohn (1785), e nello scritto David Hume e la F. (1787). Hegel nella logica del- l’Enciclopedia considerò la dottrina di Jacobi come «Terza posizione del pensiero rispetto all’oggetti- vità » e criticò l'immediatezza nella quale vide il carattere fondamentale della F. di cui parlava Jacobi (Enc., $ 61-74). FEDE E SCIENZA. V. SCOLASTICA. FEDELTÀ (ingl. Loyalty). La volontaria, pra- tica, completa devozione di una persona ad una causa. Così definì la F. Royce nel suo libro Filo- sofia della F. (1908) assumendola come principio generale dell’etica. La F. include infatti la solida- rietà con gli altri individui o meglio con una co- munità di individui e contiene il criterio per giudicare del valore delle cause giacchè consente di ricono- scere come cattiva una causa che renda impossibile o neghi la F. altrui. La F. alla F. fu quindi ritenuta da Royce il criterio della vita morale. FELAPTO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il secondo dei sei modi del sil- logismo di terza figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una premessa universale affermativa e di una con- clusione particolare negativa come nell’esempio: « Nessun uomo è pietra, Ogni uomo è animale, Dunque qualche animale non è pietra» (Pretro Ispano, Summul. logic., 4.14). FELICITÀ (gr. evdaruovia; lat. Felicitas; inglese Happiness; franc. Bonheur; ted. Glickseligkeit). In generale uno stato di soddisfazione dovuto alla propria situazione nel mondo. Per questo rapporto con la situazione, la nozione di F. si differenzia da quella di beatitudine (v.) la quale è l'ideale di una soddisfazione indipendente dal rapporto dell’uomo col mondo e perciò ristretta alla sfera contempla- tiva o religiosa. Il concetto di F. è umano e mon- dano. Così è nato nella Grecia antica, dove Talete riteneva felice « colui che ha un corpo sano, buona fortuna e un’anima bene educata» (Dioc. L., I, FEDE, FILOSOFIA DELLA 1, 37). La buona salute, la fortunata riuscita della vita e il successo della propria formazione, che co- stituiscono gli elementi della F., sono inerenti alla situazione dell’uomo nel mondo e fra gli altri uomini. Democrito, in modo pressocchè analogo, definiva la F. come «la misura del piacere e la proporzione della vita», cioè come il tenersi lontani da ogni difetto e da ogni eccesso (F7., 191, Diels). Comunque, F. e infelicità appartengono all’anima (Fr., 170, Diels) giacchè solo l’anima «è la dimora della nostra sorte » (Fr., 171, Diels). La connessione che è stata spesso stabilita tra F. e piacere ha lo stesso significato, cioè è connessione tra lo stato definito come F. e il rapporto col proprio corpo, con le cose e con gli uomini. La tesi che la F. sia il sistema dei piaceri, fu espressa con tutta chiarezza da Aristippo che distinse anche il piacere dalla felicità. Solo il piacere è il bene perchè solo esso viene desiderato di per se stesso e quindi è il fine in sè. « Il fine è il piacere particolare, la F. è il sistema dei piaceri particolari, in cui si sommano anche i passati e i futuri » (Diog. L., II, 8, 87). Egesia che negava la possibilità della F., la negava proprio per il fatto che i piaceri sono troppo rari e labili (Ibid., II, 8, 94). Dall’altro lato, Platone negava che la F. consistesse nel piacere e la riteneva in- vece connessa con la virtù. «I felici sono felici per il possesso della giustizia e della temperanza e gli infelici, infelici per il possesso della cattiveria », egli dice nel Gorgia (508 b) e nel Convito (202 c) sono detti felici «coloro che posseggono bontà e bellezza ». Ma giustizia e temperanza sono virtù; « possedere bontà e bellezza » significa ancora es- sere virtuosi; e la virtù non è altro, secondo Pla- tone, se non la capacità dell'anima di adempiere al proprio compito, cioè di dirigere l’uomo nel modo migliore (Rep., I, 353 d sgg.). Sicchè anche la nozione platonica della F. è relativa alla situa- zione dell'uomo nel mondo, e ai compiti che qui lo attendono. Quanto ad Aristotele, egli ha bensì insistito sul carattere contemplativo della F. nel suo grado eminente, cioè della beatitudine (v.), ma ha dato della F. una nozione più estesa defi- nendola come « una certa attività dell’anima svolta conformemente a virtù » (Er. Nic., I, 13, 1102 b); la quale non esclude, ma include la soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni mondane. Le per- sone felici, secondo Aristotele, devono possedere tutte e tre le specie di beni che si possono distinguere, cioè quelli esterni, quelli del corpo e quelli del- l’anima (/bid., 1153 b 17 sgg.; Pol., VII, 1, 1323 a 22). È vero tuttavia che «i beni esteriori, come ogni strumento, hanno un limite entro il quale adem- piono la loro funzione di essere utili, come mezzi, ma oltre il quale diventano dannosi o inutili per chi li possiede. E che i beni spirituali invece, FELICITÀ 385 tanto più sono abbondanti tanto più sono utili ». Ma in generale si può dire che « Ciascuno merita tanta F., per quanto virtù, senno e capacità di agire in conformità egli possiede e si può chiamare a testimonio la divinità che è felice e beata non per beni esteriori ma di per se stessa, per quello che è per natura » (Po/., VII, 1, 1323 b 8). La F. è perciò più accessibile al saggio che più facilmente basta a se stesso (Er. Nic., X, 7, 1177 a 25) ma è ciò a cui in realtà devono tendere tutti gli uomini e le città. L'etica post-aristotelica si occupa invece esclu- sivamente della F. del saggio; la netta divisione degli Stoici tra saggi e pazzi rende infatti ovvia- mente inutile occuparsi di questi ultimi. Il saggio è colui che basta a se stesso e che perciò trova in sè esclusivamente la sua F. che meglio si direbbe beatitudine. Plotino rimprovera alla nozione ari- stotelica di F. che, consistendo essa per ogni essere nel compiere la sua funzione e nel raggiungere il proprio fine, può applicarsi benissimo non solo agli uomini ma anche agli animali e alle piante (Enn., I, 4, 1 sgg.). E agli Stoici Plotino rimpro- vera l’incoerenza di porre la F. nell'indipendenza dalle cose esterne e nello stesso tempo di additare come oggetto della ragione proprio queste cose stesse. Per Plotino, la F. è la vita stessa; perciò mentre appartiene a tutti gli esseri viventi, appar- tiene nel grado più eminente alla vita più completa e perfetta che è quella dell’intelligenza pura. Il saggio, in cui tale vita si realizza, è bene a se stesso: non ha bisogno che di se stesso per essere felice e non cerca le altre cose o almeno le cerca solo perchè sono indispensabili alle cose che gli appar- tengono (per es., al corpo) e non a lui stesso. La F. del saggio non può essere distrutta nè dalla cat- tiva fortuna nè dalle malattie fisiche e mentali nè da alcuna circostanza sfavorevole, come non può essere aumentata dalle circostanze favorevoli (/bid., I, 4, 5 sgg.): è perciò la stessa beatitudine di cui godono gli Dei. La filosofia medievale ha ribadito e fatto propri questi concetti, talora adattando ad essi (come ha fatto S. Tommaso) la stessa dottrina aristotelica: e solo estendendoli alla generalità degli uomini. Dali’ Umanesimo in poi la nozione di F. comincia a essere strettamente legata — com'era già stata per Cirenaici ed Epicurei — con quella di piacere. Il De voluptate di Lorenzo Valla è imperniato su questa connessione; e tale connessione si accentua nel mondo moderno. Essa trova concordi Locke e Leibniz. Locke dice che la F. «è il massimo pia- cere di cui siamo capaci e l’infelicità è la massima pena; e l’infimo grado di ciò che può essere chia- mato F. è di essere tanto liberi da ogni pena e di aver tanto piacere presente da non poter essere 25 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. contenti con meno » (Saggio, II, 21, 43). E Leibniz: «Io credo che la F. sia un piacere durevole, ciò che non potrebbe accadere senza un progresso con- tinuo verso nuovi piaceri » (Nouv. Ess., II, 21, 42). La nozione della F. come piacere o come somma o meglio come «sistema» di piaceri, secondo la espressione del vecchio Aristippo, comincia con Hume ad acquistare un significato sociale: la F. diventa piacere diffusibile, il piacere del maggior numero e in questa forma la nozione di F. diventa la base del movimento riformatore inglese dell’800. Nel frattempo Kant, che riteneva impossibile porre la F. a fondamento della vita morale, ne chiariva tuttavia efficacemente la nozione senza ricorrere a quella di piacere. « La F., dice Kant, è la condizione di un essere razionale nel mondo al quale, nel- l’intero corso della sua vita, tutto avvenga secondo il suo desiderio e la sua volontà » (Crif. R. Pratica, Dialettica, Sez. 5). Si tratta perciò di un concetto che l’uomo non trae dagli istinti e non deriva da ciò che in lui è animalità, ma che egli si forma in modi diversi e che cambia spesso e spesso arbitra- riamente (Crit. del giud., $ 83). Kant ritiene che la F. faccia parte integrante del sommo bene, il quale è per l’uomo la sintesi di virtù e felicità. Ma come tale il sommo bene non è realizzabile nel mondo naturale; e non è realizzabile sia perchè nulla garantisce in questo mondo la perfetta pro- porzione tra moralità e F. in cui il sommo bene consiste; sia perchè nulla garantisce quel soddisfa- cimento pieno di tutti i desideri e tendenze del- l’essere razionale in cui la F. consiste. Nel mondo naturale pertanto la F. è dichiarata da Kant impos- sibile e rinviata in un mondo intelligibile che è «il regno della grazia » (Crif. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. II, sez. 2). Kant ha avuto il merito, in primo luogo, di enunciare in modo rigoroso la nozione di F. e in secondo luogo quello di mo- strare che tale nozione è empiricamente impossibile, cioè irrealizzabile. Non è possibile infatti che siano soddisfatte rutte le tendenze, inclinazioni, volizioni dell’uomo perchè da un lato la natura non si preoc- cupa di venire incontro all’uomo in vista di tale soddisfazione totale e dall’altro perchè gli stessi bisogni e inclinazioni non rimangono mai fermi nella quiete dell’appagamento (Crir. del giud., $ 83). Ricondotta al concetto di soddisfazione assoluta e totale — sul quale insiste anche Hegel (Enc., $ 479- 480) — la F. diviene l’ideale di uno stato o condizione inattingibile, salvo che in un mondo soprannaturale e per intervento di un principio onnipotente. Non fa quindi meraviglia che tutta quella parte della filosofia moderna che è passata attraverso il filtro del kantismo abbia trascurato la nozione di F. e non se ne sia avvalsa per l’analisi di ciò che l’esistenza umana è e deve essere. Tut- 386 tavia l’empirismo inglese aveva iniziato con Hume (come già si è detto) un nuovo sviluppo in senso sociale della nozione, sviluppo che è proprio del- l’utilitarismo. Hume aveva osservato che « nel far le lodi di qualche persona benefica e umana » non si manca mai di mettere in luce « la F. e la soddisfa- zione che derivano alla società umana dalla sua azione e dai suoi buoni uffici » (/ng. Conc. Morals, II, 2). E pertanto aveva identificato ciò che è mo- ralmente buono con ciò che è utile e benefico. Dopo di lui Bentham riprendeva, come fondamento della morale, la formula di Beccaria: « La massima F. possibile del maggior numero possibile di per- sone + formula a cui si ispirarono anche James Mill e Stuart Mill, accentuandone sempre più il carat- tere sociale. Non si trova in questi autori un con- cetto rigoroso di F.; ma non si trova neppure in essi quell’irrigidimento e assolutizzazione della no- zione che essa aveva subito in Kant e che l’aveva resa inservibile. Essi sanno anche che la F., di- pendente com'è da condizioni e circostanze ogget- tive oltrecchè dagli atteggiamenti dell’uomo, non può appartenere all'uomo nella sua singolarità, ma all'uomo in quanto è membro di un mondo sociale. E se collegano la F. col piacere, distinguono pia- cere da piacere, ammettendo l’identificazione solo per l’ambito di quei piaceri che sono socialmente partecipabili. Nella tradizione culturale inglese e americana, la nozione di F. è rimasta viva in questa forma e ha ispirato oltrecchè il pensiero filosofico, il pensiero sociale e politico. Il principio della mas- sima felicità è rimasto per lungo tempo la base del liberalismo moderno di stampo anglosassone. La Costituzione americana ha incluso fra i diritti na- turali e inalienabili dell’uomo « la ricerca della F. ». A questa tradizione si collega Bertrand Russell, che è stato uno dei pochi a difendere oggi la nozione di F., sia pure in un libro a carattere popolare (La Conquista della F., 1930). Ciò che Russell ag- giunge di nuovo alla nozione tradizionale di F. (oltre alla persuasiva analisi che egli fa delle odierne situazioni di «infelicità »), è una condizione che ritiene indispensabile, cioè la molteplicità degli in- teressi, dei rapporti dell’uomo con le cose e con gli altri uomini, perciò l’eliminazione dell’ ego- centrismo », della chiusura in se stessi e nelle proprie passioni. Si tratta di una condizione che pone la F. al polo opposto di quella autosufficienza del saggio in cui gli antichi ponevano il grado più alto di essa. Dall’altro lato i filosofi, non riuscendo più a uti- lizzare la nozione di F. come fondamento o prin- cipio della vita morale, si sono, di regola, disinte- ressati della nozione stessa. A questo disinteresse ha contribuito anche la tendenza, nata dal Roman- ticismo e per lungo tempo dominante, ad esaltare l’infelicità, il dolore, gli stati di turbamento e di FENOMENICO, FENOMENOLOGICO insoddisfazione come esperienze positive e intrin- secamente gioiose. La F. difatti, nei gradi e nelle forme in cui si può ritenere realizzabile, è uno stato di calma, una condizione di equilibrio almeno re- lativo, di soddisfazione parziale e tuttavia effettiva, che è direttamente l’opposto della irrequietudine romantica. La filosofia contemporanea non si è finora fermata ad analizzare la nozione di F. nei limiti in cui essa può servire a descrivere situazioni umane effettive e ad orientarle. E tuttavia che si tratti di una nozione importante è dimostrato dalla importanza che alcune nozioni negative come « fru- strazione », «insoddisfazione +, ecc., hanno nella psicologia individuale e sociale, normale e pato- logica. Queste nozioni e altre analoghe indicano infatti l'assenza più o meno grave di quella con- dizione di almeno relativo soddisfacimento che la parola F. tradizionalmente designa. E l’importanza di esse per l’analisi di stati o condizioni più o meno patologici denuncia l'importanza che la corrispon- dente nozione positiva ha per le condizioni normali della vita umana. FENOMENICO, FENOMENOLOGICO (ingl. Phenomenal, Phenomenological; franc. Phéno- ménal, Phénoménologique; ted. Phinomenal, Phano- menologisch). La distinzione fra i due aggettivi, che non vanno confusi, è stata bene espressa da Hei- degger: « Per fenomenico s’intende ciò che è dato ed esplicabile nel processo con cui il fenomeno viene incontro, per cui si parla di ‘strutture feno- meniche ’. Fenomenologico è invece tutto ciò che è inerente al modo del mostrare e dell’esplicare e tutto ciò che esprime la concettualità implicita in questa ricerca » (Sein und Zeit, $ 7). In altri termini si può parlare di « oggetto fenomenico » o « realtà fenomenica +», ma si deve parlare di « ricerca feno- menologica » di «epoché fenomenologica?, ecc. L’aggettivo F. qualifica l’oggetto che si rivela nel fenomeno, l’aggettivo fenomenologico qualifica il manifestarsi dell’oggetto nella sua « essenza » nonchè la ricerca che rende possibile questo manifestarsi. FENOMENISMO (ingl. Phenomenalism; fran- cese Phénoménisme; ted. Phinomenalismus). La dot- trina che la conoscenza umana è limitata ai fenomeni, nel significato 2° del termine. La parola designa sia le filosofie che tuttavia ammettono l’esistenza di una realtà diversa del fenomeno (come quelle di Kant o di Spencer) sia le filosofie che negano ogni realtà che non sia il fenomeno (Renouvier, Hodgson). Il termine è stato coniato nell’800. Ma la filosofia fenomenistica è nata nel ’700 ed è la filosofia del- l’Hluminismo. FENOMENO (gr. tà pawéueva; ingl. Pheno- menon; franc. Phénomène; ted. Phanomen). 1. Lo stesso che apparenza (v.). In questo senso il F. è l'apparenza sensibile, che si contrappone alla realtà, FENOMENOLOGIA della quale per altro può essere assunto come la manifestazione; o al fatto col quale per altro può essere considerato identico (v. FATTO). È questo il significato solitamente assunto dalla parola nel linguaggio comune (anche quando questo allude a un’apparenza paradossale e insolita, per es., mo- struosa) ed è anche il significato che ricorre in Bacone (nel De /nterpretatione naturae proemium, 1603), in Cartesio (Princ. Phil., III, 4), in Hobbes (De Corp., 25, $ 1) e in Wolff (Cosm., $ 225). 2. A partire dal sec. xvni e in connessione con la rivalutazione dell’apparenza come manifestazione della realtà ai sensi e all’intelletto dell’uomo, la parola F. comincia a designare l’oggetto specifico della conoscenza umana in quanto appunto appare

sotto particolari condizioni, caratteristiche della struttura conoscitiva dell’uomo. In questo senso la nozione di F. è correlativa con quella di cosa in sè (v.) e la richiama per opposizione contraria. A misura che si riconosce che gli oggetti della co- noscenza si rivelano nei modi e nelle forme proprie della struttura conoscitiva dell’uomo e che perciò essi non sono le «cose in se stesse» cioè le cose quali sono o potrebbero essere al di fuori del rap- porto conoscitivo con l’uomo, l’oggetto della co- noscenza umana si configura come F. cioè come cosa apparente in quelle condizioni: il che ovvia- mente non vuol dire cosa ingannevole o illusoria. È la filosofia del ’700 che fa questo passo. Hobbes che ha in linea di principio rivalutato il F. come apparenza in generale (De Corp., 25, $ 1; v. Ap- PARENZA) non conferisce alcun significato limita- tivo o correttivo alla parola F. con cui designa ogni oggetto possibile della conoscenza umana. Maupertuis che nelle Lettere del 1752 afferma che l’estensione è un F. come tutte le cose corporee (CEuvres, 1756, II, 198 sgg.) esprime invece la convinzione, assai comune al suo tempo, di una limitazione della conoscenza umana; ed è da questa convinzione che ha preso le mosse Kant per la sua distinzione tra F. e noumeno. Secondo Kant, il F. è in generale l’oggetto della conoscenza in quanto condizionato dalle forme dell’intuizione (spazio e tempo) e dalle categorie dell’intelletto. « F. dice Kant è ciò che non appartiene all’oggetto in se stesso ma si trova sempre nel rapporto di esso col soggetto ed è inseparabile dalla rappresentazione che questo ne ha. Giustamente perciò i predicati dello spazio e del tempo sono attribuiti agli oggetti dei sensi come tali, e in ciò non c’è illusione. AI contrario, se attribuisco alla rosa in sè il color rosso, a Saturno gli anelli o a tutti gli oggetti esterni in sè l’estensione, senza considerare il rap- porto di questi oggetti con il soggetto e senza li- mitare il mio giudizio a questo rapporto, allora nasce l’illusione » (Crif. R. Pura, Estetica trascen- 387 dentale, $ 8, Osserv. gen., nota). Tale significato nel quale veniva fissato un diffuso filosofema del sec. XVI è rimasto come uno dei significati fonda- mentali del termine e precisamente quello in rap- porto al quale si parla di fenomenismo. Questo significato è contrassegnato dalla limitazione di va- lidità che importa nella conoscenza umana. F. è in questo senso non l’oggetto che si manifesta ma l’oggetto che si manifesta all’uomo nelle particolari condizioni limitative che questo rapporto con l’uomo implica. 3. Tuttavia nella filosofia contemporanea, a par- tire dalle Ricerche logiche (1900-01) di Husserl, F. ha cominciato a indicare non solo ciò che ap- pare o si manifesta all’uomo in particolari condi- zioni, ma ciò che appare o si manifesta in se stesso, cioè com'è in sè, nella sua essenza. Vero è che per Husserl il fenomeno in questo senso non è una manifestazione naturale o spontanea della cosa: esige altre condizioni che sono quelle poste dalla ricerca filosofica come fenomenologia (v.). Il senso fenomenologico di F. come «rivelazione di essenza » (HusseRL, /deen, I, Intr.) si aggiunge perciò al signi- ficato critico di F., senza eliminarlo. Su esso ha insistito Heidegger considerando il F. come puro e semplice apparire dell'essere in sè e distinguen- dolo pertanto dalla semplice apparenza (Erscheinung o blosse Erscheinung): che è l’indizio o l’annunzio dell’essere (il quale però rimane nascosto) e che perciò è il non manifestarsi o il nascondersi del- l’essere stesso (Sein und Zeit, $ 7, A). Ovviamente in questo senso la nozione di F. non si contrappone più a quella di cosa in sè: il F. è l’in sè della cosa nel suo manifestarsi: il quale pertanto non costi- tuisce un’apparenza della cosa stessa ma si iden- tifica col suo essere. Possiamo allora ricapitolare nel modo seguente i tre significati tuttora in uso della parola F.: 1° l’apparenza grezza (o il fatto bruto) sia che la si consideri o meno come manifestante la realtà o il fatto reale; 2° l’oggetto della conoscenza umana, qualificato e delimitato dal rapporto con l’uomo;

3° il rivelarsi dell’oggetto in sè. FENOMENOLOGIA (ingl. Phenomenology; franc. Phénoménologie; ted. Phanomenologie). La descrizione di ciò che appare o la scienza che ha come suo compito o progetto questa descrizione. Il termine è stato probabilmente coniato nella scuola wolfiana. Lambert lo adopera come titolo della quarta parte del suo Nuovo organo (1764) ed intende per esso lo studio delle fonti di errore. Qui l’apparenza, di cui la F. è la descrizione, è intesa come apparenza illusoria. Da Kant invece il termine viene adoperato per indicare quella parte della teoria del movimento che considera il movi- mento o la quiete della materia solamente in rap- 388 porto con le modalità in cui essi appaiono al senso esterno (Meraphysische Anfangsgriinde der Natur- wissenschaft, 1786, Pref.). A sua volta Hegel chiamò «F. dello spirito» la storia romanzata della co- scienza che, dalle sue prime apparenze sensibili, giunge ad apparire a se stessa nella sua vera natura cioè come Coscienza infinita o universale. In questo senso la F. dello spirito è da lui identificata col «divenire della scienza o del sapere»; ed Hegel scorge in essa la via attraverso la quale il singolo individuo ripercorre i gradi di formazione dello Spirito universale, come figure già deposte o tappe di una via già tracciata e spianata (Phénomen. des Geistes, Pref., ed. Glockner, pag. 31). Ancora un altro significato dette al termine Hamilton inten- dendo con esso (Lectures on Logic, 1859-60, I, pag. 17) la psicologia descrittiva e in questo signi- ficato cioè come pura descrizione dell’apparenza psichica, preparatoria per la spiegazione dei fatti psichici, il termine è stato frequentemente adope- rato nella cultura filosofica tedesca della seconda metà del sec. xx e dei primi anni del ‘900. Eduardo Hartmann intitolò F. della coscienza morale (Phà- nomenologie des sittliche Bewusstseins, 1879) la rac- colta dei dati empirici della coscienza morale, in- dipendente dalla loro interpretazione speculativa. Ma l’unica nozione oggi viva di F. è quella (correlativa al significato 3° di fenomeno) annun- ziata da Husserl nelle Ricerche logiche (1900-01, II, pag. 3 sgg.) e poi da lui stesso sviluppata nelle opere successive. Husserl medesimo si è preoc- cupato di eliminare la confusione tra psicologia e fenomenologia. La psicologia, egli ha detto, è una scienza di dati di fatto; i fenomeni che essa con- sidera sono accadimenti reali e si inseriscono, in- sieme con i soggetti a cui appartengono, nel mondo spazio-temporale. La F. invece (che egli chiama 4 pura » o «trascendentale ») è una scienza di es- senze (perciò «eidetica +) e non di dati di fatto; ed è resa possibile solamente dalla riduzione eide- tica che per l'appunto ha il compito di purificare i fenomeni psicologici dalle loro caratteristiche reali o empiriche e di portarli sul piano della generalità essenziale. La riduzione eidetica, cioè la trasforma- zione dei fenomeni in essenze, è anche riduzione fenomenologica in senso stretto perchè trasforma tali fenomeni in irrealtà (Ideen, I, Intr.). In questo significato, la F. costituisce un indirizzo filosofico particolare che pratica la filosofia come ricerca fe- nomenologica cioè avvalendosi della riduzione fe- nomenologica e della epoché (v.). I risultati fon- damentali cui questa ricerca ha condotto per opera di Husserl possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° il riconoscimento del carattere intenzionale della coscienza (v.), per il quale la coscienza è un movimento di trascendenza verso FENOMENOLOGIA l'oggetto e per il quale l’oggetto stesso si dà o si presenta alla coscienza «in carne e ossa? o «in persona +; 2° l’evidenza della visione (intuizione) dell’oggetto dovuta alla presenza effettiva dell’og- getto stesso; 3° la generalizzazione della nozione di oggetto, che comprende non solo le cose mate- riali ma anche le forme categoriali, le essenze e in generale gli «oggetti ideali » (/deen, I, $ 15); 4° il carattere privilegiato della « percezione immanente » cioè della coscienza che l'io ha delle proprie espe- rienze, in quanto apparire ed essere coincidono perfettamente in questa percezione, mentre non coincidono nella intuizione dell’oggetto esterno il quale non si identifica mai con le sue apparizioni alla coscienza ma rimane al di là di esse (/bid., $ 38). Non tutti questi capisaldi sono accettati dai pen- satori contemporanei che si avvalgono della ricerca fenomenologica: soltanto il primo di essi cioè il riconoscimento del carattere intenzionale della co- scienza per cui l’oggetto è trascendente rispetto ad essa € tuttavia presente «in carne e ossa? trova credito non solo presso questi pensatori ma in una ampia cerchia di filosofi contemporanei. Della ri- cerca fenomenologica si è avvalso Nicolai Hart- mann per la fondazione del suo realismo (v.) meta- fisico; Scheler per la sua analisi delle emozioni (v.) e Heidegger come metodo per la sua ontologia. Quest'ultimo esprime con tutta chiarezza il carat- tere proprio della F. quando afferma: « L’espres- sione ‘ F.’ significa prima di tutto un concetto di metodo. Essa non caratterizza la consistenza di fatto dell'oggetto dell’indagine filosofica, bensì il suo come... Il termine esprime un motto che po- trebbe venir formulato così: alle cose stesse! E ciò in contrapposizione alle costruzioni campate in aria e ai trovamenti causali; in contrapposizione all’accettazione di concetti solo apparentemente giustificati ed ai problemi apparenti che si impon- gono da una generazione all’altra come veri pro- blemi » (Sein und Zeit, $ 7). Pertanto ciò che la F. mostra è ciò che innanzitutto e per lo più mon si manifesta, ciò che è nascosto; ma che tuttavia è tale da esprimere il senso e il fondamento di ciò che innanzitutto e per lo più si manifesta. E in questo senso la F. è la sola possibile ontologia (Ibid., $ 7 C). In modo analogo la F. viene intesa da Sartre (L’étre et le néant, Intr., $ 1-2) e da Merleau-Ponty (Phénoménologie de la perception, Pref.). L'impostazione fenomenologica della filo- sofia non implica pertanto la riduzione dell'esi- stenza all’apparenza e non si può a nessun titolo scambiare per fenomenismo (v.). Il concetto stesso di fenomeno cui si fa riferimento è in questo caso diverso. Essa d’altronde non implica neppure la eliminazione della differenza tra l’apparire e l’es- sere, sebbene venga senz’altro eliminato il vecchio FIDEISMO dualismo. Dice, per es., Sartre: « Il fenomeno d’es- sere esige la transfenomenalità dell’essere. Ciò non vuol dire che l’essere si trovi nascosto dietro i fe- nomeni (abbiamo visto che il fenomeno non può mascherare l'essere), nè che il fenomeno sia una apparenza che rinvia a un essere distinto (solo in quanto apparenza il fenomeno è, esso cioè si indica sul fondamento dell’essere). Ma l’essere del feno- meno, per quanto coestensivo col fenomeno, deve sfuggire alla condizione fenomenica — che è quella per cui si esiste solo in quanto ci si manifesta — e per conseguenza trascende e fonda la conoscenza che se ne ha» (L’érre et le néant, Intr., $ 2). Il rapporto tra l’apparenza e l’essere, nell’ontologia fenomenologica, può essere variamente definito o analizzato, ma tuttavia non si modella sul rapporto tradizionale di apparenza e realtà. FENOMENO ORIGINARIO. V. UrpHANo- MENON. FERIO. Parola mnemonica usata dagli Scola- stici per indicare il quarto modo della prima figura del sillogismo, precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una premessa particolare affermativa e di una conclusione partico- lare negativa come nell’esempio: « Nessun animale è pietra, Alcuni uomini sono animali, Dunque al- cuni uomini non sono pietra» (Pretro IsPano, Summul. logic., 4.07). FERISON. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il sesto dei sei modi del sillogismo di terza figura e precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una pre- messa particolare affermativa e di una conclusione particolare negativa come nell'esempio: « Nessun uomo è pietra, Qualche uomo è animale, Dunque qualche animale non è pietra» (Pietro IsPaNO, Summa. logic., 4.15). FESPAMO. Parola mnemonica usata dalla Lo- gica di Portoreale per indicare l’ottavo modo del sillogismo di prima figura (cioè il Fapesmo) con la modificazione di assumere per premessa mag- giore la proposizione in cui entra il predicato della conclusione. L'esempio è il seguente: « Nessuna virtù è una qualità naturale, Ogni qualità naturale ha Dio come primo autore, Dunque ci sono qua- lità che hanno Dio per autore, che non sono virtù » (ARNAULD, Logique, III, 8). FESTINO. Parola mnemonica usata dagli Sco- lastici per indicare il terzo dei quattro modi della seconda figura del sillogismo e precisamente quello che consiste di una premessa universale negativa, di una premessa particolare affermativa e di una conclusione particolare negativa, come nell’esempio: Nessuna pietra è animale, Qualche uomo è ani- male, Dunque qualche uomo non è pietra » (Pietro Ispano, Sunmul. logic., 4.11). 389 FETICISMO (ingl. Ferishism; franc. Fétichisme; ted. Fetichismus). Propriamente la credenza nel po- tere soprannaturale o magico di particolari oggetti materiali (fericci dal portoghese fetico = artificiale). Più generalmente, l’atteggiamento di chi consideri animati gli oggetti materiali, e i tipi di religione o di filosofia fondati su questa credenza. In questo secondo significato il termine è ora caduto in disuso perchè sostituito da animismo (v.). I filosofi adoperano la parola più spesso in senso dispregia- tivo; per es., Mach chiamò F. la credenza nei con- cetti di causa e di volontà (Popularwissenschaftliche Vorlesungen, 1896, pag. 269). Comte aveva esaltato il F. considerandolo in qualche modo affine al positivismo: in quanto entrambi vedono in tutti gli esseri una attività che è analoga o simile a quella umana e così stabiliscono quell’unità fondamentale del mondo che è espressa nella teoria del Grande Essere (Politique Positive, III, pag. 87; IV, pag. 44). Kant, dall’altro lato, chiamò F. la religione magica cioè la religione di chi si serve di certe azioni, che di per sè non contengono nulla di gradito a Dio cioè di morale, come mezzi per acquistare il favore divino e per soddisfare i propri desideri. In questo senso il sacerdozio è « la costituzione di una chiesa in cui regna un culto feticista, il quale si incontra là dove, non già principi di moralità, ma coman- damenti statutari, regole di fede e osservanze co- stituiscono il fondamento e l’essenza del culto» (Religion, IV, sez. 2, $ 3). FICHTISMO. V. ROMANTICISMO. FIDEISMO (ingl. Fideism; franc. Fidéisme; ted. Fideismus). Si chiamò con questo termine l’indirizzo filosofico-religioso sostenuto, nei primi decenni del sec. xrx, dall’abate Bautain, da Huet, da Lamennais e da quest’ultimo specialmente nell'opera Essais sur l’indifférence en matière de religion (1817-23): indirizzo che consiste nel contrap- porre alla ragione « individuale » una ragione « co- mune » che sarebbe una specie di intuizione delle verità fondamentali comuni a tutti gli uomini. Questa intuizione troverebbe la sua origine in una rivela- zione primitiva e si trasmetterebbe mediante la tradizione ecclesiastica; essa sarebbe perciò a fon- damento della fede cattolica. La dottrina era diretta a giustificare il primato della tradizione ecclesia- stica. In realtà negava alla chiesa la prerogativa di essere l’unica depositaria della tradizione au- tentica e negava alla tradizione l’appoggio della ragione. Dopo la condanna della chiesa (1834), il termine assunse, presso gli scrittori cattolici, un significato peggiorativo. Si continuò tuttavia e si continua a usare, per indicare in generale ogni atteggiamento che veda nella fede uno strumento di conoscenza superiore alla ragione e indipendente dalla ragione stessa. 390 FIGURA (gr. oyfpua; lat. Figura; ingl. Figure; franc. Figure; ted. Figur, Gestalt). 1. Con questo termine sono tradizionalmente chiamate le forme fondamentali del sillogismo, distinte dai modi (v.) che sono specificazioni di tali forme. Aristotele di- stinse le varie figure del sillogismo a seconda della funzione del termine medio che è quello che serve a dimostrare l’inerenza del predicato al soggetto della conclusione. Nella prima F., il termine medio fa da soggetto nella premessa maggiore e da pre- dicato nella premessa minore. Nella seconda F., fa da predicato in entrambe le premesse, una delle quali è negativa, e la conclusione è anche negativa. Nella rerza F., fa da oggetto in entrambe le premesse e la conclusione è particolare. La tradizione at- tribuisce a Galeno, il famoso medico e filosofo aristotelico del rr secolo d. C., la distinzione di una quarta F., cioè quella nella quale il termine medio funge da predicato nella premessa maggiore e da soggetto nella premessa minore: i modi di questa F. erano stati compresi da Aristotele tra quelli della prima. La separazione fu fatta perchè si definì come premessa maggiore quella che comprende il predi- cato della conclusione e come premessa minore quella che comprende il soggetto della conclusione stessa (PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 570 sgg.). Ogni F. si distingue a sua volta in un certo numero di modi a seconda della qualità e della quantità delle proposizioni costituenti le premesse e la conclusione: cioè a seconda che le premesse e la conclusione sono, ciascuna, universale o partico- lare, affermativa o negativa. Poichè nella Scolastica si adoperò la lettera A per indicare la proposizione universale affermativa, la lettera E per indicare quella universale negativa, la lettera Z per indicare la proposizione particolare affermativa e la let- tera O per indicare laproposizione particolare ne- gativa (donde i versi: A affirmat, negat E, sed uni- versaliter ambae, I firmat, negat O, sed particulariter ambae), si formarono parole mnemoniche per in- dicare i vari modi del sillogismo cioè parole, nelle quali le prime due vocali indicano le premesse e la terza la conclusione. Così i nove modi della prima F. furono indicati con le parole: Barbara, Celarent, Darii, Ferio, Baralipton, Celantes, Debitis, Fapesmo, Frisemorum. I quattro modi della seconda F. furono indicati con le parole: Cesare, Camestres, Festino, Baroco. I sei modi della terza F. furono indicati con le parole: Darapti, Felapto, Disamis, Datisi, Bocardo, Ferison. Gli ultimi quattro modi della prima F. sono quelli che si attribuiscono alla quarta F., quando viene distinta. Le iniziali delle parole mnemoniche hanno anche un signifi- cato. Tutti i modi indicati da una parola che co- mincia con 8 sono riducibili al primo modo della prima F.; quelli indicati da una parola che co- FIGURA mincia con C sono riducibili al secondo modo della prima F.; quelli indicati da una parola che comincia con D al terzo e quelli indicati con una parola che comincia con F al quarto modo della prima F. (cfr. sull’uso delle parole mnemoniche Pietro Ispano, Summ. Log., 4.18 sgg.). Per i sin- goli modi, v. le relative parole. 2. Con lo stesso termine, che traduce il tedesco

Gestalt, si indicano le determinazioni della feno- menologia dello spirito di Hegel. Queste determina- zioni sono « figure della coscienza » (Phdnomen. des Geistes, pref., ed. Glockner, pag. 36 e passim) o « gradi della via già tracciata e spianata » dallo Spi- rito universale; cioè tappe attraverso le quali la coscienza è giunta alla coscienza di sè come Co- scienza infinita o assoluta. Come è noto, tra le F. della fenomenologia Hegel include anche crea- zioni fantastiche: il che stabilisce una differenza fra tali F. e le caregorie che costituiscono l’oggetto dell’Enciclopedia. Le categorie sono infatti deter- minazioni necessarie e necessariamente reali. FIGURAE DICTIONIS (FALLACIA). Pa- ralogismo in dictione (v. FALLACIA), consistente in un erroneo uso grammaticale nelle premesse, che genera conseguenze paradossali o conseguenze gram- maticalmente impossibili (a Omnis homo est albus, mulier est homo, ergo mulier est albus»). Cfr. ARI- STOTELE, Soph. El., 4, 166b 10; Pietro IsPano, Summ. Log., 7.34 sgg.; JunGIUs, Logica Hamb., VI, 7; ecc. G. P. FILANTROPIA (gr. puav9porta; lat. Philan- thropia; ingl. Philanthropy; franc. Philanthropie; ted. Philanthropie). L'amicizia dell’uomo verso l’altro uomo. Così la intesero Aristotele (Et. Nic., VIII, 1, 1155, a. 20) e gli Stoici, i quali la attribui- rono al legame naturale per cui tutta l'umanità costituisce un solo organismo. «Ne deriva, dice Cicerone, che è naturale anche la reciproca solida- rietà degli uomini tra loro, per cui necessariamente un uomo non può risultare un estraneo per un altro uomo, per il fatto stesso che è uomo» (De fin., III, 63). Diogene Laerzio ne attribuisce il con- cetto anche a Platone, che l’avrebbe diviso in tre aspetti: il saluto, l’aiuto, l’ospitalità (Diog. L., III, 98). Nel linguaggio moderno, il significato del termine si è ristretto al secondo degli aspetti di- stinti da Platone. L'atteggiamento generale di be- nevolenza verso gli uomini è spesso oggi chiamato altruismo (v.). FILAUTIA. V. AMOR DI sè. FILODOSSIA (gr. quodotta; lat. Philodoxy; franc. Philodoxie; ted. Philodoxie). La parola (che propriamente significa «amore di gloria +) fu ado- perata da Platone per indicare gli «amanti della opinione » in contrapposizione agli « amanti della scienza » che sono i filosofi. Gli amanti dell’opi- FILOSOFIA nione sono quelli a cui piace ascoltare belle voci, guardare bei colori, ecc., ma che sono alieni dal considerare il bello come un essere a sè (Rep., V, 480 a). Kant ha chiamato F. l’atteggiamento di coloro che rigettano non solo il metodo della cri- tica, da lui proposto, ma anche il metodo della fondazione di Wolff, che consiste nel procedere stabilendo i princìpi, definendo i concetti e cercando il rigore nelle dimostrazioni (Crift. R. Pura, Pre- fazione alla 28 ediz.). FILOGENESI. V. BiogENETICA, LEGGE. FILOLOGIA (gr. quoroyla; lat. Philologie; ingl. Philology; franc. Philologie; ted. Philologie). Amore dei discorsi, intendeva Platone (Teer., 161 a) con questa parola che, nell’età moderna, è passata a designare la scienza della parola o meglio lo studio storico del linguaggio. Vico contrappose filo- sofia e F.: « La filosofia contempla la ragione onde viene la scienza del vero; la F. osserva l’autorità dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo + (Scienza Nuova, degn. 10). Compito dei filo- logi sarebbe « la cognizione delle lingue e dei fatti dei popoli ». F. e filosofia si completano nel senso che i filosofi dovrebbero « accertare » le loro ragioni con l'autorità dei filologi e i filologi dovrebbero «avverare » le loro autorità con la ragione dei filo- sofi. Nel concetto moderno, la F. è la scienza che ha per fine la ricostruzione storica della vita del passato attraverso il linguaggio e quindi i docu- menti letterari di esso. I progetti e i risultati di questa scienza, così come si è venuta formando soprattutto nel sec. xIx, vanno perciò molto al di là del modesto compito, al quale avrebbero vo- luto confinarla i filosofi dell’idealismo romantico. Già Hegel polemizzava contro «i filologi » cioè gli storici che facevano il loro mestiere, in nome della storia filosofica, la sola capace di scoprire a priori il piano provvidenziale del mondo (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 8 sgg.). Croce nello stesso senso chiamava storia filologica la storia degli storici alla quale contrapponeva la storia « specu- lativa » che identificava con la filosofia (CROCE, Teoria e storia della storiografia, 1917; La storia come pensiero e come azione, 1938). In realtà, la storia filologica è la storia degli storici, mentre la storia speculativa non è che la concezione provvidenzialistica del mondo storico, che non ha nulla a che fare con la storiografia scien- tifica (v. STORIOGRAFIA). L'aggettivo filologico non può neppure essere applicato a designare forme piatte e mal riuscite di storiografia giacchè la F. non è per nulla responsabile di esse. E anche quella funzione di conservazione e di ripristino del ma- teriale documentario e delle fonti che Nietzsche chiamò storia archeologica (v.) non è un tipo infe- riore di storia, perchè è possibile solo sul fonda- 391 mento di un interesse intelligente che guidi le scelte opportune e le faccia servire all’opera della critica e della ricostruzione storica. FILOSOFEMA (gr. quootpnua; lat. Philoso- phema; ingl. Philosopheme; franc. Philosophème; ted. Philosophem). In generale, discorso filosofico. Nella logica di Aristotele (Top., VIII, 11, 162 a 15) è il «ragionamento dimostrativo». Fuori della logica: concetto o luogo comune filosofico. In questo secondo senso è usato da Aristotele stesso (De caelo, II, 13, 294a 19) e dalla tradizione po- steriore. G. P.-N. A. FILOSOFIA (gr. quocopla; lat. Philosophia; ingl. Philosophy; franc. Philosophie; ted. Philoso- phie). La disparità delle F. si riflette ovviamente nella disparità dei significati di « F. » senza tuttavia impedire di riconoscere in essi alcune costanti. Fra esse, meglio si presta a connettere e articolare i significati diversi del termine la definizione illu- strata nell’Eutidemo platonico: la F. è l’uso del sapere a vantaggio dell’uomo. Platone osserva che a nulla servirebbe possedere la scienza di conver- tire le pietre in oro se non si sapesse servirsi del- l'oro; a nulla servirebbe la scienza che rendesse immortale se non si sapesse servirsi dell’immorta- lità; e via dicendo. Occorre dunque una scienza nella quale coincidono il fare e il sapersi servire di ciò che si fa; e questa scienza è la F. (Eurid., 288 e-290 d). Secondo questo concetto, la F. im- plica: 1° il possesso o l'acquisto di una conoscenza che sia nel contempo la più valida e la più estesa possibile; 2° l’uso di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo. Questi due elementi ricorrono frequen- temente nelle definizioni che sono state date della F. in epoche diverse e da diversi punti di vista. Essi

si riscontrano, per es., nella definizione di Cartesio, secondo la quale «questa parola F. significa lo studio della saggezza e per saggezza non s’intende soltanto la prudenza negli affari ma una perfetta conoscenza di tutte le cose che l’uomo può cono- scere sia per la condotta della sua vita sia per la conservazione della sua salute e l’invenzione di tutte le arti» (Princ. Phil., Pref.). Si ritrovano ugualmente nella definizione di Hobbes, per la quale la F. è da un lato conoscenza causale, dal- l'altro utilizzazione di questa conoscenza a vantaggio dell’uomo (De Corp., 1, $ 2, 6); e in quella di Kant che definisce il concetto cosmico della F. (cioè il concetto di essa che interessa necessariamente ogni uomo) come quello di « una scienza della re- lazione di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana» (Crift. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III). Questo fine essenziale è la « feli- cità universale»: la F. pertanto «riferisce tutto alla saggezza, ma per la via della scienza» (/bid., in fine). Non diverso significato ha la definizione 392 della F. data da Dewey come «critica dei valori » cioè « critica delle credenze, delle istituzioni, dei co- stumi, delle politiche, rispetto alla loro portata sui beni» (Experience and Nature, pag. 407). Queste definizioni (che si adducono qui solo come esempi) si lasciano tutte ricondurre alla formula platonica che

abbiamo citato in principio. Quella formula ha il vantaggio di non assumere nulla circa la natura e i limiti del sapere accessibile all'uomo o circa gli scopi cui l’uso può essere indirizzato. Si può per- tanto intendere quel sapere sia come rivelazione o possesso sia come acquisto o ricerca; e l’uso di esso può essere inteso come diretto alla salvezza ultra- mondana o terrena dell’uomo come all’acquisto di beni spirituali o materiali o alla realizzazione di rettifiche o mutamenti nel mondo. Pertanto quella formula appare adatta ugualmente ad esprimere i compiti disparati che la F. si è di volta in volta assunti. E, per es., essa esprime egualmente bene sia il compito delle F. positive o dogmatiche sia quello delle F. negative o scettiche. Quando lo scetticismo antico si propone di realizzare, mediante la sospensione dell’assenso, l’imperturbabilità del- l’anima (Sesto E., /p. Pirr., I, 25-27) non fa che intendere la F. come l’uso di un certo sapere per conseguire un vantaggio. Analogamente quando, nella F. contemporanea, Wittgenstein afferma che lo scopo della F. è quello di far sparire gli stessi problemi filosofici e di eliminare la F. stessa o di « guarire» da essa (Philosophical Investigations, $ 133) non fa appello ad un concetto diverso di F.: la liberazione dalla F. è il vantaggio che l’uso del sapere (che è in questo caso la rettificazione lin- guistica di esso) può procurare. I due elementi riconoscibili della definizione della F., che si è ritenuta adatta ad apprestare il quadro delle articolazioni principali del significato del termine, costituiscono già di per se stessi la prima di tali articolazioni. Si possono in altri ter- mini distinguere i significati storicamente dati del termine: 1° rispetto alla natura o alla validità del sapere cui la filosofia fa riferimento; 2° rispetto alla natura dello scopo cui la F. intende indiriz- zare l’uso di questo sapere. Infine, 3° si possono distinguere i significati del termine rispetto alla natura del procedimento che si ritiene proprio della filosofia. I. La filosofia e il sapere. — L’uso del sapere al quale l'uomo, a qualsiasi titolo, accede, è, in primo luogo, un giudizio sull’origine o la validità di tale sapere. E a proposito del giudizio sulla va- lidità del sapere, si offrono subito due alternative fondamentali che stabiliscono la distinzione fra due tipi diversi ed opposti di filosofia. La prima alter- nativa stabilisce l’origine divina del sapere: esso è per l’uomo una rivelazione o un dono. La seconda FILOSOFIA alternativa stabilisce l’origine umana del sapere: esso è un acquisto o una produzione dell’uomo. La prima alternativa è la più antica e la più fre- quente nel mondo, dal momento che è quella di gran lunga prevalente nelle F. orientali. La seconda alternativa è quella sorta in Grecia e di cui il mondo occidentale moderno è l’erede. A) Secondo la prima alternativa, il sapere è una rivelazione o illuminazione divina di cui sono stati privilegiati uno o più uomini e che si tra- smette per tradizione in un gruppo altrettanto pri- vilegiato di uomini (casta, setta o chiesa). Esso non è quindi accessibile ai comuni mortali se non per il tramite di coloro che ne sono i depositari; nè è possibile, ai comuni e non comuni mortali, incre- mentarne il patrimonio o giudicarne la validità. Fa parte integrante di questa interpretazione dell’ori- gine del sapere la credenza che anche l’uso di esso a vantaggio dell'uomo — vantaggio che in questo caso è la «salvezza» — sia dettato o prescritto dalla rivelazione o illuminazione divina. Sembra dunque che questa interpretazione elimini o renda superfluo il «lavoro » filosofico che verte appunto su quest’uso. Ma in realtà ciò accade di rado. L'esigenza di avvicinare la verità rivelata alla co- mune comprensione umana, di adattarla alle cir- costanze e far sì che essa risponda ai problemi nuovi o mutati che gli uomini si pongono, di di- fenderla contro negazioni, deviazioni, incredulità dichiarate o nascoste, fa sì che il lavoro filosofico trovi, in questa concezione del sapere, un vasto campo per esplicarsi e compiti molteplici cui far fronte. Tale lavoro rimane però subordinato e ancillare: non è e non può essere decisivo, quando si tratta delle interpretazioni fondamentali e delle istanze ultime. Trova nella rivelazione e nella tra- dizione limiti insuperabili che gli vietano ogni pos- sibilità di sviluppo in direzioni diverse da quelle che esse determinano. Non può combattere e di- struggere le credenze stabilite, opporsi radicalmente alla tradizione, promuovere o progettare rinnova- menti radicali. La sua funzione è quella di con- servare le credenze stabilite, non di rinnovarle o rettificarle: è perciò una funzione subordinata e strumentale, priva della autonomia e della dignità di una forza direttiva. Si è già detto che quasi tutte le F. orientali sono di questa natura: il che ha fatto talora dubitare che possano chiamarsi filosofie. Ma in realtà lo stesso mondo occidentale offre frequentemente esempi di F. di questo genere, per quanto nes- suna di esse presenti in tutto il loro rigore i ca- ratteri ora esposti. Dal nome del più importante di questi esempi, le forme che questo tipo di F. ha assunto nel mondo occidentale si possono chia- mare scolastiche. Una scolastica, a differenza di una FILOSOFIA F. di schietto tipo orientale, presuppone una F. au- tonoma e si avvale di essa; ma se ne avvale per la difesa e l'illustrazione di una verità religiosa cioè per confermare o difendere credenze la cui validità si ritiene stabilita in anticipo e indipendentemente da ogni conferma o difesa. Una scolastica, come dice la parola stessa, è essenzialmente uno stru- mento di educazione: serve ad avvicinare l’uomo, per quanto è possibile, a un sapere ritenuto immu- tabile nelle sue linee fondamentali, perciò non su- scettibile di essere rettificato o rinnovato. Tra i compiti, d’altronde molteplici come sono molte- plici le vie di accesso dell'uomo alla verità e gli ostacoli che si incontrano su queste vie, che una F. scolastica riconosce a se stessa, non c’è l’eventuale abbandono delle credenze di cui essa è l’interprete. Le sètte filosofico-religiose del n secolo a. C. (per es., gli Esseni), le dottrine di Filone di Alessandria (1 secolo d. C.) e di molti Neoplatonici, la F. isla- mica e giudaica, la Patristica e la Scolastica nonchè, nel mondo moderno, l’occasionalismo, l’immate- rialismo, la Destra hegeliana e buona parte dello spiritualismo contemporaneo, sono scolastiche nel senso ora chiarito: cioè F. che consistono nell’uti- lizzare una determinata dottrina (il platonismo, l’aristotelismo, il cartesianesimo, l’empirismo, l’idea- lismo, ecc.) per la difesa e l’interpretazione di cre- denze che non possono, attraverso questo lavoro, essere revocate in dubbio, rettificate o negate. Cer- tamente queste diverse scolastiche posseggono gradi di libertà diversi e tali gradi variano talvolta, per ciascuna di esse, da un periodo all’altro. S. Tom- maso, per es., mentre conferisce alla « F. umana» una certa autonomia in quanto riconosce propria di essa la considerazione e lo studio delle cose create in quanto tali cioè la loro natura e le loro proprie cause (Contra Gent., II, 4), ritiene tuttavia impossibile che essa possa contraddire le afferma- zioni della fede cristiana la quale dev’essere assunta come regola del corretto procedere della ragione (Ibid., 1, 7). Per quanto F. di questo genere pos- sano conseguire risultati importanti, che entrano a far parte del patrimonio filosofico comune, il loro ambito è strettamente delimitato dal problema su cui sono impostate, della difesa delle credenze tradizionali: le loro possibilità non si estendono alla rettificazione e al rinnovamento di tali cre- denze. B) Per la seconda alternativa, il sapere è un acquisto o una produzione dell’uomo. Il fonda- mento di questa concezione è che l’uomo è un « ani- male ragionevole » e che perciò « tutti gli uomini, come dice Aristotele all’inizio della Metafisica (980 a 21), tendono per natura al sapere»: ten- dono vuol dire qui che non solo lo desiderano ma possono conseguirlo. Il sapere, da questo punto di 393 vista, non è privilegio o patrimonio riservato di pochi; ognuno può contribuire al suo acquisto e al suo incremento e ha perciò voce in capitolo per giudicarlo: cioè per approvarlo o rigettarlo. La ricerca e l’organizzazione del sapere è, da questo punto di vista, il compito fondamentale della filo- sofia. Quando Tucidide (II, 40) fa dire a Pericle: «Noi amiamo il bello con moderazione e filoso- fiamo senza timidezza» esprime certamente l’at- teggiamento dello spirito greco dal quale è nata la F. in questo secondo significato del termine. Pericle non alludeva a una disciplina specifica ma alla ricerca del sapere condotta senza impegni pre- giudiziali o con l’unico impegno di saggiare e mettere a prova ogni credenza possibile. In questo senso la F. è una creazione originale dello spirito greco e una condizione permanente della cultura occidentale. Essa è l’impegno che ogni ricerca, in qualsiasi campo condotta, obbedisca soltanto alle limitazioni o alle regole che essa stessa riconosca valide in vista della propria possibilità e della propria efficacia discopritrice o confermatrice. La F. in questo senso si contrappone alla tradizione, al pregiudizio, al mito, e in generale alla credenza infondata o non giustificata che i Greci chiamavano opinione. Il contrasto tra l’opinione e la scienza, tra l’amore dell’opinione e l’amore della sapienza, è quello su cui più frequentemente insiste Platone nel chiarire il concetto di F. (Rep., V, 480 a). La F. come ricerca è da Platone contrapposta da un lato all’ignoranza dall’altro alla sapienza. L'ignoranza è l’illusione della sapienza e distrugge l'incentivo della ricerca (Conv., 204 a). Dall’altro lato la sa- pienza, che è il possesso della scienza rende inutile la ricerca: gli Dei non filosofano (/bid., 204 a; Teet., 278 d). La ricerca definisce lo status proprio della filosofia. Già Eraclito aveva detto: « È neces- sario che gli uomini filosofi siano buoni indagatori di molte cose» (Fr. 35, Diels). In quanto ricerca, la F. è «acquisto», come diceva Platone (Eutid., 288 d), o « sforzo », come dicevano gli Stoici (SESTO EMPIRICO, Adv. Math., IX, 13) o «attività », come dicevano gli Epicurei (/bid., XI, 169). Ma se la F. è l’impegno che fa del sapere una ricerca, essa condiziona il sapere effettivo, che è «conoscenza » o «scienza ». Nel giudizio che la F. stessa dà su di esso, questo condizionamento può assumere tre forme che definiscono tre conce- zioni fondamentali della F., quella metafisica, quella positivistica e quella critica. 1° Per la prima di esse, la F. è l’unico sapere possibile e le altre scienze, in quanto tali, coincidono con essa o sono parti o preparazione di essa; 2° per la seconda di esse, la conoscenza è propria delle scienze particolari e la F. ha il compito di coordinare o unificare i loro risultati; 3° per la terza di essa, la F. è giudizio 394 sul sapere cioè valutazione delle sue possibilità e dei suoi limiti, in vista del suo uso umano. 1° La prima concezione della F. è quella me- tafisica, dominante nell’antichità e nel Medioevo e che ancora oggi è propria di molti indirizzi filosofici. La sua caratteristica principale è la negazione di ogni possibilità di ricerca autonoma fuori della filo- sofia. Una conoscenza o è conoscenza filosofica o non è conoscenza affatto. Si ammette spesso che esista, fuori della F., un sapere imperfetto, provvi- sorio o preparatorio; ma si nega che tale sapere possegga, per suo conto, validità conoscitiva. Così Platone da un lato chiama « F.» la geometria e le altre scienze specialmente in riferimento alla loro funzione educativa (Teer., 143 d; Tim., 88 c); dall'altro considera tali scienze (aritmetica e geo- metria, astronomia e musica) come semplicemente propedeutiche alla F. vera e propria cioè alla dia- lettica, la quale avrebbe fra l’altro il compito di «scoprire la comunanza e la parentela reciproca delle scienze e dimostrare le ragioni per cui sono connesse l’una con l’altra » (Rep., VII, 531 d). Ari- stotele definisce la F. come la «scienza della ve- rità » (Mer., II, 1, 993b 20) nel senso che essa comprende tutte le scienze teoretiche cioè la F. prima, la matematica e la fisica e lascia fuori di sè soltanto l’attività pratica: ma anche questa deve ricorrere alla F. per essere in chiaro della propria natura e dei propri fondamenti. Sia Platone che Aristotele ammettono come scienza prima una di-

sciplina determinata, che per Platone è la dialettica, per Aristotele è la F. prima o teologia; ma questa disciplina determinata è per essi anche la più ge- nerale. La dialettica infatti, come si è visto, con- sente di intendere il collegamento e la natura comune delle scienze; e la F. prima, come scienza dell’es- sere in quanto essere, ha per oggetto specifico quell’essenza necessaria o sostanza, che è compito di ogni scienza indagare nel suo campo particolare (De part. anim., I, 5, 645 a 1). Altre volte, invece, la F. viene risolta nelle discipline particolari senza che nessuna di esse risulti privilegiata. Così facevano gli Epicurei che la dividevano in canonica, fisica ed etica (Dio. L., X, 29-30); e gli Stoici che la di- videvano in logica, fisica ed etica (AEZIO, Plac., I, 2) considerando queste tre parti unite fra loro come le membra di un animale (Dios. L., VII, 40). Questa concezione, che identifica l’intero sapere con la F. e si rifiuta di riconoscere che ci sia o possa esserci un sapere autentico fuori di essa, è sopravvissuta anche alla costituzione delle scienze particolari in discipline autonome e s’è conservata sostanzialmente immutata, in certe correnti filoso- fiche, sino ai giorni nostri. La definizione che Fichte dette della F. come di una «scienza della scienza in generale» (Uber den Begriff der Wissenschafts- FILOSOFIA lehre oder der sogenannten Philosophie, 1794, $ 1) non lascia alcuna autonomia alle scienze particolari perchè, secondo quella definizione, la dottrina della scienza « deve dare la sua forma non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre scienze possibili » e costituire così, il « sistema compiuto ed unico nello spirito umano » (/bid., $ 2). Questa pretesa si è mantenuta inalterata in tutte le definizioni che l’idealismo romantico ha dato della filosofia. Non altro significato hanno le notazioni di Schelling, secondo il quale il compito della F. è di chiarire l'accordo (che è poi identità) dell’oggettivo e del soggettivo cioè della natura e dello spirito, e nel portare così a compimento la « tendenza necessaria di tutte le scienze naturali » (System des transzenden- talen Idealismus, 1800, Intr., $ 1). Esplicitamente Hegel affermava che «le scienze particolari si oc- cupano degli oggetti finiti e del mondo dei feno- meni » (Geschichte der Philosophie, Intr., A, $ 2; trad. ital., I, pag. 69); e che «altra cosa è il pro- cesso di origine e i lavori preparatori di una scienza, altra cosa la scienza stessa» nella quale quelli scompaiono per essere sostituiti dalla « necessità del concetto » (Enc., $ 246). Questo vuol dire che sola la F. è scienza perchè solo essa dimostra «la necessità del concetto », utilizzando e manipolando a suo modo (come Hegel in realtà fece) il ma- teriale apprestato dalle cosiddette scienze empi- riche. Pertanto Hegel riservava alla F. il privi- legio di essere «la considerazione pensante degli oggetti » (/bid., $ 2). La conoscenza preliminare o preparatoria è quella che si appoggia su rap- presentazioni; la conoscenza vera e propria si ha quando, con la F., «lo spirito pensante, attra- verso le rappresentazioni e lavorando sopra di esse, progredisce alla conoscenza pensante e al concetto » (Zbid., $ 1). È chiaro che, espresso in questa forma, il concetto della F. come totalità del sapere è una professione di superbia filosofica, che era estranea a questo stesso concetto nell’età clas- sica. In questa età, infatti, quel concetto agiva come lo specifico impegno delle discipline scientifiche che da esso venivano immesse nella sfera della ricerca disinteressata e incoraggiate e sorrette nel loro costituirsi concettuale. Ma nella concezione del- l’idealismo romantico, le scienze particolari ven- gono abbassate alla funzione di una mera mano- valanza, priva di qualsiasi validità intrinseca. A questa stessa funzione riducono la scienza sia l’idea- lismo, sia lo spiritualismo. La definizione della F. come «teoria generale dello spirito » porta Gentile a considerarla come la coscienza che l'Io assoluto ha di se stesso: coscienza di cui le conoscenze em- piriche, fondate sulla distinzione dell’oggetto dal soggetto e degli oggetti tra di loro, è una falsa astrazione (Teoria generale dello spirito, 1916, ca- FILOSOFIA pitolo 15, $ 2). E nonostante la meno appariscente formulazione, la definizione data da Croce della F. come « metodologia della storiografia », implica la stessa superbia filosofica. Per Croce la conoscenza storica è l’unica conoscenza possibile, dato che la storia è l’unica realtà: pertanto la riduzione della F. a metodologia di tale conoscenza equivale a negare che sia conoscenza il sapere scientifico: che, infatti, è, per Croce, non un sapere ma un insieme di espe- dienti pratici (La storia, 1938, pag. 144; Logica, 1908, I, cap. 2). Dall'altro lato, lo spiritualismo contemporaneo segue prevalentemente la stessa strada. Bergson fa dell’intuizione l’organo della F. perchè vede nell’intuizione « la visione diretta dello spirito da parte dello spirito» (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 51) cioè lo strumento per attingere, immediatamente e infallibilmente, quella « durata reale » che è la realtà assoluta. Il suo riconoscimento della scienza come conoscenza adeguata del mondo materiale o delle «cose» è puramente fittizio: nè la materia nè le cose hanno per Bergson realtà come tali perchè non sono che coscienza e la coscienza può essere autenticamente conosciuta soltanto dalla coscienza stessa: « Son- dando la sua propria profondità la coscienza non penetra pure nell’interno della materia, della vita, della realtà in generale? Si potrebbe contestarlo solo se la coscienza si aggiungesse alla materia come un accidente, ma noi crediamo d’aver mostrato che una simile ipotesi è assurda o falsa, secondo il lato per cui la si prende, contraddittoria in se stessa o contraddetta dai fatti » (/bid., pag. 156-57). Il concetto della F. come conoscenza privilegiata (su qualsiasi titolo poi si appoggi il privilegio) non è che una delle tante espressioni del vecchio concetto della F. come sapere unico ed assoluto. Le tendenze che si sogliono chiamare « metafi- siche+ del pensiero moderno sono appunto ca- ratterizzate da questo concetto della filosofia. Hus- serl così espone l’ideale cartesiano della F. che egli dichiara di far proprio: « Ricordiamo l’idea diret- tiva delle Meditazioni di Cartesio. Essa mira a una riforma totale della F. per fare di questa una scienza a fondamenti assoluti. Questo implica, per Car- tesio, una riforma parallela di tutte le scienze giacchè queste non sono che membri di una scienza univer- sale che non è altro che la filosofia. Solo nell’unità sistematica di questa, esse possono diventare ve- ramente scienze» (Carr. Med., 1931, $ 1). Nella sua ultima opera Husserl poneva, come prima con- dizione della filosofia: « un’epoché da qualsiasi as- sunzione delle nozioni delle scienze oggettive, da qualsiasi presa di posizione critica intorno alla ve- rità o falsità della scienza, un’epoché persino dal- l’idea direttiva della scienza, dall’idea di una cono- scenza oggettiva del mondo» (Krisis, $ 35). 395 Alla stessa negazione della scienza mettono capo, nonostante l’ampio riconoscimento della validità del metodo scientifico, le considerazioni di Jaspers sulla natura della F., giacchè negano autonomia di strut- tura e di validità alle scienze particolari (Phil., I, pag. 53 sgg.; Existenzphil., 1938, Intr.). Una svalu- tazione ancora più radicale delle scienze particolari è effettuata da Heidegger, per il quale i presupposti della scienza moderna sono l'oblio dell'essere, la ri- duzione dell’uomo a soggetto e del mondo a rap- presentazione (Brief Qber den « Humanismus», in Platos Lehre von der Wahrheit, 1947, pag. 88). 2° La seconda concezione della F. come giu- dizio sul sapere è quella che tende a risolverla nelle scienze particolari, affidandole talvolta la fun- zione specifica di unificare le scienze stesse o di raccoglierne i risultati in una « visione del mondo ». L’origine di questa concezione si può vedere in Bacone; il quale concepì la F. come una scienza che in primo luogo dividesse e classificasse le scienze particolari e poi mettesse tali scienze in possesso del loro metodo, del materiale di cui disporre e delle tecniche con cui utilizzare questo materiale a

vantaggio dell’uomo. Nel De Dignitate et augmentis scientiarum (1623), abbozzando il piano di una en- ciclopedia delle scienze su base sperimentale, Bacone affidava alla « F. prima» da lui considerata come «scienza universale e madre delle altre scienze » il compito di raccogliere « gli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma comuni a più scienze (De Augm. Scient., III, 1). Hobbes a sua volta identificava la F. con la conoscenza scienti- fica. «La F., egli dice, è la conoscenza acquisita, attraverso il corretto ragionamento, degli effetti o fenomeni a partire dai concetti delle loro cause o generazioni; o reciprocamente la conoscenza acqui- sita delle generazioni possibili a partire dagli effetti conosciuti » (De Corp., 1, $ 2). Da questo concetto della F. come coincidente con la conoscenza scien- tifica e come impegno di chiarirla ed estenderla derivò quell’uso inglese del termine sul quale già Hegel richiamava l’attenzione (Enc., $ 7 e nota; Geschichte der Phil., Intr., A, 2; trad. ital., I, pag. 70) secondo il quale il termine si applicava non solo alla scienza della natura ma anche a certi strumenti come termometri, barometri, ecc., nonchè ai prin- cìpi generali della politica: un uso, quest’ultimo, che si è conservato nei paesi anglosassoni. Per io stesso Cartesio, la F. comprendeva « tutto ciò che lo spirito umano può sapere » e così veniva in larga misura a coincidere con le ricerche scientifiche, che d'altronde Cartesio voleva tutte ricondotte a certi principi fondamentali (Princ. Phil, Pref.). L'intero Illuminismo condivise il concetto della F. come conoscenza scientifica. « Filosofo, amatore della saggezza cioè della verità», diceva Voltaire 396 (Dicr. Phil., art. Philosophe). E lo stesso Wolff ammetteva, accanto alle scienze « razionali » in cui divideva la F., corrispondenti scienze empiriche, dotate di un metodo autonomo, che è quello spe- rimentale. Per es., accanto alla cosmologia generale o scientifica, Wolff ammette una cosmologia spe- rimentale « che trae dalle osservazioni la teoria che è stabilita o è da stabilirsi nella cosmologia scienti- fica » (Cosm., $ 4); e riconosce che è possibile, seb- bene non facile che l’intera teoria della cosmologia generale sia derivata dalle osservazioni (Zbid., $ 5). Nell'ambito di questo significato, il positivismo sottolineò la funzione propria della filosofia di riu- nire e coordinare i risultati delle scienze singole, in modo da realizzare una conoscenza unificata e generalissima. Questo fu il compito che alla F. as- segnarono Comte e Spencer. Comte vuole che accanto alle scienze particolari ci sia uno « studio delle generalità scientifiche », che egli fa corrispon- dere alla «F. prima» di Bacone. Questo studio dovrebbe « determinare esattamente lo spirito di ciascuna scienza, scoprire le relazioni e il concate- namento fra le scienze, riassumere, possibilmente, tutti i loro princìpi propri nel minimo numero di princìpi comuni, conformandosi incessantemente alle massime fondamentali del metodo positivo » (Cours de phil. positive, lez. 1, $ 7; lez. 22, $ 3). Il concetto della F. come scienza generalizzatrice e unificatrice dei risultati delle altre scienze è stato ed è largamente diffuso nella F. moderna e contem- poranea. È stato infatti accettato non solo dalle cor- renti positivistiche ma anche da dottrine spirituali- stiche; le quali ultime talora hanno aggiunto ad esso una determinazione o condizione limitatrice: quella generalizzazione e unificazione deve costi- tuire un'immagine del mondo che soddisfi i bisogni del cuore. Questa è la definizione appunto che della F. dette Wundt: che riconobbe la sua fun- zione nella « ricapitolazione delle conoscenze parti- colari in una intuizione del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell’intelletto e i bisogni del cuore » (Syst. der Phil., 4* ediz., 1919, I, pag. l; Einleitung in die Phil., 3* ediz., 1904, pag. 5). Da questo punto di vista la F. «è la scienza universale che deve unificare in un sistema coerente le cono- scenze universali fornite dalle scienze particolari »: un concetto che ricorre molto frequentemente nella letteratura filosofica degli ultimi decenni del se- colo xrx e nei primi del sec. xx in quanto permette alla F. di utilizzare ampiamente i risultati che la ricerca positiva consegue sia nel campo delle scienze naturali sia in quello delle scienze dello spirito. Talvolta si tende ad accentuare, in questa direzione, il carattere unitario e totalitario di questa scienza universale; in tal caso, come nella definizione di Wundt, la si considera come una intuizione o FILOSOFIA visione del mondo. Questo concetto è una deter- minazione ulteriore del concetto della F. come «scienza universale » cioè unificatrice e generaliz- zatrice. Dice Mach: « Il filosofo cerca di orientarsi nell’insieme dei fatti in un modo universale, il più completo possibile... Solo la fusione delle scienze speciali apporterà la concezione del mondo verso la quale tendono tutte le specialità » (£r- kenntniss und Irrtum, cap. 1; trad. franc., pag. 14-15). Dilthey mostrò bene questa connessione tra la F. e le scienze speciali quando scrisse: « La storia della F. trasmette al lavoro filosofico sistematico i tre problemi della fondazione, della giustificazione e della connessione delle scienze particolari, insieme al compito di affrontare il bisogno inesauribile della riflessione ultima sull’essere, sul fondamento, sul valore, sullo scopo e sulla loro connessione nella intuizione del mondo, quali che siano la forma e la direzione incui tale compito viene eseguito » (Das Wesen der Philosophie, in fine; trad. ital., in Critica della ragione storica, pag. 487). Il rapporto tra la fondazione e l’unificazione delle scienze e l’intuizione del mondo (in cui propriamente con- siste la metafisica) è da Simmel configurato come la distinzione tra i due limiti che definiscono il campo della ricerca filosofica. «L'uno comprende le condizioni, i concetti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare i quali non possono in questa trovare soddisfacimento poichè stanno piut- tosto già alla sua base; nell’altro questa ricerca particolare viene condotta a completamento e a connessione e messa in rapporto con questioni e concetti che non hanno nessun posto entro l’espe- rienza e il sapere oggettivo immediato. Quella è la teoria della conoscenza, questa è la metafisica del campo particolare in questione» (Soziologie, 1910, pag. 25; cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956, pag. 242 sgg.). Ora il primo di questi compiti è quello che la F. critica aveva riconosciuto proprio della F. (v. oltre); il secondo di essi è invece quello che aveva attribuito alla F. l’indirizzo positivistico che fa capo a Bacone. L’ultima manifestazione di questo concetto della F. nel pensiero contemporaneo è la nozione di « scienza unificata », propria del neo-empirismo, alla quale è dedicata l’Enciclopedia internazionale della scienza unificata (dal 1938 in poi). In quest'opera tuttavia il concetto stesso di unificazione è incerto ed è inteso in modo diverso dai suoi diversi sostenitori. Neurath la intende come la combinazione dei risul- tati delle varie scienze e l’assiomatizzazione di essi in un sistema unico; Dewey come esigenza di esten- dere il posto e la funzione della scienza nella vita umana; Russell come unità di metodo; Carnap come unità formale o linguistica; e Morris come dottrina generale dei segni (Intern. Encycl. of Unified Science, FILOSOFIA I, 1, pag. 20, 33, 61, 70). Il concetto della filosofia come unificazione o generalizzazione del sapere scientifico continua tuttavia a ripresentarsi nel mondo contemporaneo; Whitehead, ad es., lo sostiene (Adventures of Ideas, 1933, IX, $ 2). 3° La terza concezione della F. come giudizio sul sapere è quella che si può chiamare critica e che consiste nel ridurre la F., sotto questo rispetto, a dottrina della conoscenza o a metodologia. Se- condo questa concezione la F. non accresce la quantità del sapere stesso: essa perciò, non può propriamente chiamarsi « conoscenza ». Il suo com- pito è piuttosto di saggiare la validità del sapere, determinando i limiti e le condizioni di esso: le sue possibilità effettive. L’iniziatore di questo con- cetto della F. è Locke. Già l’intero Saggio è nato,

come egli avverte nella « Epistola al lettore» che vi è premessa, dal bisogno di « esaminare la capacità della mente umana e vedere quali oggetti siano alla sua portata e quali invece superiori alla sua comprensione ». Più esattamente ancora la F. tende a scoprire «quali sono le possibilità dell’intelli- genza, quale sia l’estensione di queste possibilità, a quali cose esse siano in certa misura proporzio- nate e dove il loro soccorso ci viene a mancare » (Saggio, Intr., $ 4). I limiti delle capacità umane sono da Locke chiaramente riassunti nel terzo capitolo del libro IV del Saggio. Ma ancora più chiaramente, per ciò che riguarda la F., tali limiti risultano dall’ultimo capitolo dell’opera dedicato alla divisione delle scienze. Si distinguono in esso tre scienze principali: la F. naturale o fisica il cui compito è «la conoscenza delle cose, quali sono nel loro essere proprio, e la loro costituzione, le loro proprietà e operazioni »; la F. pratica o etica che è «l'arte di ben dirigere i nostri poteri e i nostri atti al raggiungimento di cose buone e utili »; e la dottrina dei segni o semiotica o /ogica il cui compito è di «considerare la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l’intendimento delle cose o per tra- smettere ad altri la sua conoscenza» (/bid., IV, 21, $ 2-4). In questa divisione delle scienze manca la F.: il che vuol dire che la F. per Locke non è una scienza nel senso in cui la fisica, l’etica o la logica lo sono, cioè come conoscenza di oggetti, ma è giudizio sulla scienza stessa cioè critica. Questo punto di vista costituisce uno dei filoni principali della F. moderna e contemporanea. Hume riconosceva il compito della F. accademica o scet- tica, da lui professata, nella «limitazione delle nostre ricerche a quelle materie che meglio si adat- tano alla ristretta capacità dell’intelligenza umana » (Ing. Conc. Underst., XII, 3). Da Kant la limi. tazione della conoscenza è assunta come fondamento della validità della conoscenza stessa, secondo un concetto che già Locke aveva utilizzato. Per Kant 397 infatti sia le condizioni a priori della conoscenza (intuizioni pure, categorie), sia le condizioni @ po- steriori di essa (il dato empirico o intuizione) de- terminano e limitano le possibilità conoscitive nel senso che non solo escludono certi campi di indagine ma anche fondano la validità o l’effettività delle possibilità stesse. Kant esprimeva l’intero campo della F. con le seguenti domande: 1° che cosa posso sapere?; 2° che cosa devo fare?; 3° che cosa posso sperare?; 4° che cosa è l'uomo? « La metafisica, aggiungeva Kant, risponde alla prima questione, la morale alla seconda, la religione alla terza, e l'antropologia alla quarta; ma in fondo si potrebbe tutto ricondurre all’antropologia, perchè le tre prime questioni si riportano all’ultima. Il filosofo deve per conseguenza poter determinare: 1° la sor- gente del sapere umano; 2° l’ambito dell’uso pos- sibile e utile di tutto il sapere; e infine 3° i limiti della ragione » (Logik, Intr., IIl). L’obiezione di Hegel contro questo punto di vista, che « voler conoscere prima che si conosca è assurdo non meno del saggio proposito di quel tale scolastico di imparare a nuotare prima di arrischiarsi nel- l’acqua » (Enc., $ 10), è una pura boutade. Giacchè la F. come critica suppone che si sappia già nuo- tare, che ci sia già un sapere costituito (quello della scienza), a partire dal quale si possono inda- gare le possibilità di conoscere e determinare i loro limiti. Della dottrina kantiana, il neocriticismo contemporaneo ha modificato il punto concernente la religione; e, mantenendo fermo il concetto della F. come critica del sapere, ha riconosciuto tre di- scipline filosofiche e precisamente la logica, l’etica e l’estetica; per logica intendendo, il più delle volte, la teoria della conoscenza. Questa dottrina veniva difesa dalla cosiddetta scuola di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer) nonchè dal criticismo francese (Renouvier, Brunschvicg). Il primato che la gno- seologia o teoria della conoscenza ha tenuto nella F. contemporanea (e non solo presso le correnti neocriticistiche) è una conseguenza del concetto della F. come critica del sapere. La gnoseologia o teoria della conoscenza (v.) è tuttavia caratterizzata da particolari presupposti e problemi; pertanto il concetto della F. come critica del sapere non im- plica l’identificazione della F. con la dottrina della conoscenza o gnoseologia. Quel concetto rimane infatti, anche dopo la crisi e l’abbandono della gnoseologia ottocentesca, nella forma di analisi dei procedimenti effettivi della conoscenza scientifica e determinazione dei loro limiti e della loro validità. Questa analisi è il tema proprio della merodo- logia (v.). La metodologia si può pertanto consi- derare l’ultima incarnazione della F. come critica del sapere. Come parte della metodologia o come ulteriore restrizione del suo compito, si può in- 398 tendere la definizione della F., come «analisi del linguaggio » che è stata proposta per la prima volta da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922). Wittgenstein, attribuendo «la totalità delle proposizioni vere» alla scienza naturale, nega che la F. sia una scienza naturale: questa parola, egli dice « deve significare qualcosa che sta al di sopra o al di sotto delle scienze della natura, non a fianco di esse » (7racr., 4. 111). Compito della F. diventa allora la chiarificazione logica del linguaggio. «La F. non è una dottrina ma un'attività. Un'opera filosofica consiste essenzialmente in delucidazioni. Frutto della F. non sono ‘ proposizioni filosofiche * bensì il chiarificarsi delle proposizioni. La F. deve rendere chiare e delimitare con precisione le idee che altrimenti sarebbero, per così dire, torbide e confuse » (/bid., 4. 112). II. La filosofia e l’uso del sapere. — Il secondo punto di vista dal quale possono essere cercate costanti nei significati storicamente attribuiti alla F. e quindi effettuare divisioni o articolazioni di tali significati è quello espresso nella seconda parte della definizione che è stata assunta come punto di partenza di questo articolo: cioè quello per il quale la F. è l’uso umano del sapere. Due interpre- tazioni fondamentali sono state storicamente date di questo aspetto della F., e precisamente: a) quella per cui la F. è contemplativa e costituisce una forma di vita che è fine a se stessa; 5) quella per cui la F. è attiva e costituisce lo strumento di modificazione o di correzione del mondo naturale od umano. Secondo la prima interpretazione, la F. si esaurisce nell’individuo che filosofa; per la seconda inter- pretazione, la F. trascende l’individuo e concerne propriamente i rapporti con la natura o con gli uomini, quindi la vita umana associata. Per servirsi di un termine di chiaro significato storico, si può chiamare « illuministica » questa seconda interpre- tazione della filosofia. a) Il concetto della F. come contemplazione è proprio, in primo luogo, delle F. di tipo orientale che pongono come scopo della F. la salvezza del- l’uomo. La salvezza è difatti la liberazione da ogni rapporto con il mondo e pertanto la realiz- zazione di uno stato in cui ogni attività è impos- sibile o priva di senso. In Occidente, il concetto della F. come contemplazione non è stata la prima forma che il lavoro filosofico ha assunto (e che è stata invece quella della «saggezza» cioè della F. attiva e militante) ma è stata la prima carat- terizzazione esplicita di questo lavoro. Il fondamento di tale caratterizzazione è la natura « disinteressata » della ricerca filosofica. Quando Erodoto (I, 30) fa dire da re Creso a Solone: «Ho udito parlare dei viaggi che filosofando hai intrapreso per ve- dere molti paesi» allude ovviamente al carattere FILOSOFIA disinteressato di questi viaggi che non sono stati intrapresi per scopi di lucro o di politica ma solo a scopo di conoscenza. Platone stesso contrappo- neva lo spirito scientifico dei Greci all'amore del guadagno proprio degli Egiziani e dei Fenici (Rep., IV, 435 e). E che la ricerca del sapere non possa essere subordinata o piegata a fini estranei è cosa che risulta dalla stessa nozione di questa ricerca, quale appunto si è venuta configurando nella Grecia antica (cfr. I, B). Ma già nel racconto riferito a Pitagora che deriva da uno scritto di Eraclide Pontico (Diog. L., Proemium, 12) col quale si intende giustificare il nome di F., c’è qualcosa in più della semplice esigenza del disin- teresse della ricerca. Secondo quella tradizione, riportata da Cicerone nelle Tusculane (V, 9), Pita- gora paragonava la vita alle grandi feste di Olimpia dove alcuni convengono per affari, altri per parte- cipare alle gare, altri per divertirsi e alfine alcuni soltanto per vedere ciò che avviene: questi ultimi sono i filosofi. Qui è sottolineato il distacco tra il filosofo, interessato solo a vedere, cioè a contem- plare disinteressatamente, e la comune umanità de- dita alle sue faccende. La superiorità della contem- plazione sull’azione è pertanto implicita in questo racconto; che probabilmente aveva lo scopo di nobilitare, col richiamo a Pitagora, il concetto della F. che si andava formando nella scuola di Aristo- tele. Il carattere contemplativo della F. (che non ha nulla a che fare con il carattere disinteressato della ricerca in generale), come una delle risposte possibili al problema dell’uso umano del sapere, è stato per la prima volta affermato e giustificato da Aristotele. Quel carattere è infatti fondato sulla natura necessaria dell’oggetto della F., che è ciò che « non può essere altrimenti da quello che è» (Et. Nic., VI, 3, 1139b 19). Da questo punto di vista la F. è sapienza, non saggezza: giacchè la saggezza consiste nel deliberar bene, ma nulla c’è da deliberare intorno alle cose che non possono essere altrimenti (/bid., VI, 5, 1140 a 30). Su questa base Aristotele stabilisce un contrasto tra saggezza e sapienza (v.). Uomini come Anassagora e Talete sono sapienti e non saggi: essi non indagano sui beni umani, non conoscono ciò che giova a loro stessi ma solo cose eccezionali, meravigliose, diffi- cili e divine. « Nessuno, dice Aristotele, delibera intorno a ciò che non può essere altrimenti o in- torno alle cose che non hanno un fine o il cui fine non è un bene realizzabile » (/bid., VI, 7, 1041 b 10). Ma qual è, da questo punto di vista, l’uso possibile del sapere? Uno solo: la realizzazione di una vita contemplativa cioè dedita alla conoscenza del ne- cessario. L'attività contemplativa è pertanto con- siderata da Aristotele come la più alta e beatifica: essa fa dell’uomo qualcosa di superiore all’uomo FILOSOFIA stesso perchè è conforme a ciò che di divino c’è in lui (/bid., X, 7, 1177 b 26). La dottrina di Ari- stotele ha così fissato i punti seguenti intorno all’uso umano del sapere: 1° la F., in quanto ha per og- getto il necessario, non offre all’uomo nulla da fare ed è perciò contemplazione; 2° la contempla- zione è una forma di vita individuale privilegiata perchè è la beatitudine stessa. Le due tesi sono ti- piche di questa concezione della F., che ricorre frequentemente nella storia del pensiero occidentale. Intanto essa domina tutta la F. greca postaristote- lica; la quale coltiva l’ideale del «sapiente» cioè di colui nel quale si realizza la vita contemplativa. Epicurei, Stoici, Scettici e Neoplatonici concordano nel ritenere che il sapiente solo può esser felice perchè egli soltanto, come puro contemplante, è autosufficiente. Il fine che questi filosofi attribuiscono alla F. è individuale e privato: la realizzazione di una forma di vita che chiude il sapiente in se stesso e nella sua contemplazione solitaria. Anche da questo punto di vista, ovviamente, la F. è uno sforzo di trasformazione o di rettificazione della vita umana; perciò non è vera alla lettera l’afferma- zione di Aristotele che essa non dà nulla da fare. Questa affermazione significa solo che essa non mo- difica la struttura del mondo, della conoscenza che concerne il mondo e delle forme di vita associata; mentre può modificare la vita dell’individuo ren- dendolo sapiente e beato. È facile riconoscere da questi tratti l’atteggia- mento contemplativo in filosofia. Quando Spinoza dice: «L'uomo forte considera principalmente che tutte le cose seguono dalla necessità della natura divina e che quindi tutto ciò che crede molesto e cattivo e tutto ciò che inoltre appare empio, or- rendo, ingiusto e turpe nasce dal fatto che egli concepisce le cose stesse torbidamente, parzial- mente e confusamente » (Er., IV, 73, scol.) esprime, nella sua forma classica, il concetto contemplativo della filosofia. E quando Hegel afferma che la F., come la nottola di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, giunge sempre a cose fatte e quindi troppo tardi per dire come deve essere il mondo, esprime lo stesso concetto (Fil. del Dir., Pref.). Difatti per Hegel, come per Aristotele e Spinoza, l’oggetto della F. è il necessario; il suo compito è precisamente quello di mostrare la ne- cessità di ciò che esiste, cioè la razionalità del reale (Enc., $ 12). Da questo punto di vista la F. è la giustificazione razionale della realtà: per realtà intendendosi non solo quella della natura ma anche quella delle istituzioni storico-sociali cioè del mondo umano. Non molto diverso, era da questo punto di vista il concetto che della F. aveva Schopenhauer. « Rispecchiare astrattamente, universalmente e limpi- damente in concetti l’intera essenza del mondo, egli 399 diceva, e così, quale immagine riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti della ragione: questa e non altro è F.» (Die Welt, I, $ 68). Nella F. contemporanea il concetto della F. come contemplazione rimane nella fenomenologia e nello spiritualismo. La fenomenologia è lo sforzo di rea- lizzare, mediante l’epoché, il punto di vista di uno « spettatore disinteressato » cioè di un soggetto che non sia a sua volta sottoposto alle stesse condizioni limitative che egli prende a considerare. Dice Hus- serl: «L'io della meditazione fenomenologica può divenire lo spettatore imparziale di se stesso, non soltanto nei casi particolari ma in generale; e questo ‘se stesso’ comprende ogni oggettività che esista per lui, tale quale esiste per lui » (Cart. Med., $ 15). E nell’ultima opera Husserl vede nella filosofia « il movimento storico della rivelazione della ragione universale, innata come tale nell’umanità » (Krisis, $ 6) e le attribuisce il compito di portare la ra- gione « alla propria autocomprensione, a una ra- gione che comprenda concretamente se stessa, che comprenda di essere un mondo, un mondo che è nella propria verità universale » (/bid., $ 73). Dal- l’altro lato Bergson, distinguendo la F. come in- tuizione o coscienza della durata temporale (cioè del divenire della coscienza) dalla scienza come conoscenza dei fatti, vede nella scienza «l’ausi- liare dell’azione » e nella F. un’attività contempla- tiva. «La regola della scienza, egli dice, è quella che è stata posta da Bacone: obbedire per coman- dare. Il filosofo non obbedisce nè comanda: cerca di simpatizzare » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 158). L’idoleggiamento del «sapiente » come di una condizione umana privilegiata o per- fetta o della F. come della forma finale e conclusiva

dell’essere sono due dei tratti caratteristici da cui si può riconoscere la concezione della F. come contemplazione. A questa concezione appartengono le forme dello scetticismo antico e moderno. Quando Sesto Empirico addita come fine della F. scettica l’imperturbabilità che essa consente di realizzare (Ip. Pirr., 1, 25); o quando Hume riduce il motivo del suo filosofare, che ritiene incapace di agire sulle credenze più radicate dell’uomo, al piacere che ne ricava (7reatise, I, 4, 7; Ing. Conc. Underst., XII, 3); entrambi attribuiscono alla F. una fun- zione contemplativa che si esaurisce nell’ambito della vita individuale. E nello stesso ambito si esau- risce la funzione della F. come « terapia » della F., cioè come liberazione dai dubbi filosofici, della quale parlano Wittgenstein (Philosophical Investiga- tions, $ 133) e alcuni filosofi inglesi suoi seguaci (cfr. Revolution in Phil., 1956, pag. 106, 112 sgg.). Non sembra infatti che questi filosofi attribuiscano alla terapia filosofica altra funzione se non quella di liberare l’individuo dai dubbi filosofici e così 400 permettergli di « sentirsi meglio » al modo in cui Hume si sentiva meglio coi suoi dubbi scettici. 5) Il concetto della F. come attività direttiva o trasformatrice è già presente nella leggenda dei Sette Savi che è stata per la prima volta riportata da Platone (Prot., 343 a). I Sette Savi furono mo- ralisti e politici e i loro motti si riferiscono alla con- dotta della vita e ai rapporti con gli uomini (v. SAVI). Ma il primo grande esempio di una F. esplicita- mente concepita allo scopo di trasformare il mondo umano è quella di Platone, la quale è diretta interamente a modificare la forma della vita associata e a fondarla sulla giustizia. L'educazione del filosofo culmina, non già nella visione del bene ma nel «ritorno nella caverna »: giacchè il filosofo deve porre a disposizione della comunità i risultati della sua speculazione e utilizzarli per la guida e la direzione di essa. « Ciascuno di voi, dice Platone, deve a sua volta discendere nella dimora comune e abituarsi a contemplare gli oggetti nelle tenebre: perchè abituandosi a queste, vedrà assai meglio di quelli che sono rimasti sempre laggiù e riconoscerà i caratteri e l'oggetto di ciascuna immagine, perchè ha visto i veri esemplari della bellezza, della giu- stizia e del bene. Così noi e voi costituiremo e governeremo la città da svegli e non già sognando, come avviene ora nella maggior parte delle città per colpa di coloro che si combattono a causa di ombre e si contendono il potere come se fosse un bene » (Rep., VII, 520c). La F. platonica è intera- mente dominata da questo impegno educativo e politico: còmpito della F. non è, per Platone, quello di dare a un certo numero di uomini la beatitudine della contemplazione, ma quello di dare a tutti la possibilità di vivere secondo giustizia (Ibid., 519 e). Questa concezione attiva della F. è rimasta per lungo tempo inoperante. Solo nel Ri- nascimento essa fu ripresa dagli Umanisti che in- tesero la F. come saggezza. Nel De Nobilitate Legum et Medicinae Coluccio Salutati (1331-1406) diceva: « Molto mi stupisco che tu sostenga che la sapienza consista nella contemplazione a cui sarebbe serva la prudenza, che starebbe con essa nel rapporto di un amministratore con il padrone; e che tu dica che la sapienza è la maggiore delle virtù, propria della parte migliore dell'anima, cioè dell’intelletto; e che la felicità consiste nell’operare secondo sapienza. E soggiungi che, essendo la me- tafisica la sola scienza libera, il filosofo vuole che la speculazione preceda in tutto l'azione... Ma la vera sapienza non consiste, come tu credi, nella pura speculazione. Se togli la prudenza non tro- verai nè il sapiente nè la sapienza... Chiameresti infatti sapiente chi abbia conosciuto cose celesti e divine ma non abbia provveduto a se stesso, gio- vato agli amici, alla famiglia, ai congiunti e alla FILOSOFIA patria? ». Nello stesso spirito Leonardo Bruni nel- l’Isagogicon Moralis disciplinae (1424) affermava la superiorità della F. morale su quella teoretica. Il successivo affermarsi di questa concezione at- tiva della F. caratterizza l’inizio dell’età moderna. Gli umanisti credevano che solo la F. morale fosse attiva; per Bacone è attiva anche la F. che ha per oggetto la natura perchè è diretta a dominare la natura. E Bacone non esita a chiamare « pasto- rale » la stessa F. di Telesio, che molto apprezzava e in parte seguiva, perchè gli sembrava che essa « contemplasse il mondo placidamente e quasi per ozio» (Works, III, pag. 118). Hobbes insisteva sulla stessa funzione della F. (De Corp., I, $ 6). Cartesio a sua volta la riteneva diretta a conseguire la saggezza e la scienza di tutto ciò che riesce utile o vantaggioso per l’uomo (Princ. Phil, Pref.). Lo stesso scopo direttivo e correttivo attribuirono alla F. Locke e gli Illuministi. Con Locke, la F. diventa critica della conoscenza e sforzo di libera- zione dell’uomo da ignoranze e pregiudizi. E tale si mantiene per l’Illuminismo del sec. xvi, che vede nella F. lo sforzo della ragione di investire il mondo umano, liberarlo dagli errori e di farlo progredire. D’Alembert così descriveva l’azione che la F. esercitava nel suo tempo: « Dai princìpi delle scienze profane sino ai fondamenti della rivelazione, dalla metafisica sino alle materie di gusto, dalla musica sino alla morale, dalle dispute scolastiche dei teologi sino agli oggetti del commercio, dai di- ritti dei princìpi sino a quello dei popoli, dalla legge naturale sino alle leggi arbitrarie delle nazioni, in una parola dalle questioni che ci toccano di più a quelle che ci interessano di meno, tutto è stato discusso e analizzato o almeno agitato. Una nuova luce su alcuni oggetti, una nuova oscurità su molti altri, sono stati il frutto o la conseguenza di questa effervescenza generale degli spiriti, come l’effetto del flusso e riflusso dell'oceano è quello di portare sulla riva qualcosa e di allontanarne qualche altra » (CEuvres, ed. Condorcet, pag. 218). Il concetto il- luministico della F. era partecipato da Kant secondo il quale la F., determinando le possibilità effettive dell’uomo in tutti i campi, deve illuminare e diri- gere il genere umano nel suo doveroso progresso verso la felicità universale (Recensione alle « Idee sulla F. della storia » di Herder, 1784-85; cfr. Critica R. Pura, Dottrina trascendentale del metodo, ca- pitolo III, in fine). Il Romanticismo, insistendo sul carattere ne- cessario, perchè razionale, dell’essere, ha costituito, nel suo complesso, un ritorno alla concezione con- templativa della filosofia. Lo stesso positivismo che intendeva esplicitamente rifarsi alla dottrina baco- niana del sapere come possibilità di dominio sulla natura, non sempre rimane fedele al riconoscimento FILOSOFIA del carattere attivo della filosofia. Se per il posifi- vismo (v.) di stampo sociale (St.-Simon, Proudhon, Comte, Stuart Mill) la F. è prevalentemente uno strumento di trasformazione della società umana, per il positivismo evoluzionistico la F. ha più ca- rattere contemplativo che attivo. La difesa del mistero che Spencer pone tra i compiti della F., cioè il riconoscimento dell’insolubilità dei cosid- detti problemi ultimi, porta la F. sullo stesso piano contemplativo della religione. La discussione in- torno alla solubilità o insolubilità dei cosiddetti « enigmi del mondo + cade interamente sul piano della F. contemplativa. Il positivismo di Ardigò come il monismo materialistico (Haeckel) e l’evo- luzionismo spiritualistico (Wundt, Morgan, ecc.) sono ugualmente contemplativi. In realtà il clima romantico è presente nel positivismo come nell’idea- lismo e indirizza quello come questo verso il con- cetto della F. come contemplazione di una realtà necessaria. Contro tale concetto costituisce una protesta il « nuovo materialismo » di cui si fece partigiano Marx, polemizzando, dall’altro lato, contro il materialismo teoretico di Feuerbach. «I filosofi, egli diceva, hanno finora soltanto diver- samente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo » (Tesi su Feuerbach, 11). Ma per quanto Marx insista sull’impegno di trasformazione che deve caratterizzare la F. come tale, il fonda- mento stesso della F. come contemplazione rimane saldo nella sua dottrina. Quel fondamento è in-

fatti la necessità del reale; e per Marx la trasfor- mazione della società, cioè il passaggio dalla società capitalistica a quella senza classi, avverrà « con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura» (Capit., I, 24, $ 7). Su questa base, il compito della F. appare quello di una profetica Cassandra anzichè quello di promuovere e orientare la trasformazione stessa. Sotto questo rispetto, si sottrae talvolta al clima romantico il neocriticismo. Nella Ucronia Renouvier si propose di eliminare « l'illusione della necessità preliminare per la quale il fatto compiuto sarebbe il solo, fra tutti gli altri immaginabili, che avrebbe potuto realmente accadere» (Uchronie, 2* ediz., 1901, pag. 411). La «F. analitica della storia » ha, secondo Renouvier, il compito di de- terminare le concatenazioni generali dei fatti storici per dirigere lo sviluppo della storia stessa (/nir. d la phil. analytique de l’histoire, 1864, pag. 551-52). Dall'altro lato la determinazione della F. come «visione del mondo», determinazione che la F. subì, nella seconda metà del sec. xxx, ad opera di pensa- tori di provenienza neocriticistica o positivistica, ha un chiaro significato contemplativo. Contro l’inter- pretazione contemplativa della F. si è invece schie- rato polemicamente il pragmatismo sin dalla sua origine, che si può vedere nel saggio Come render 26 — ABBAGNANO, Dirionario di filosofia. 401 chiare le nostre idee (1878) di C. S. Peirce. In questo saggio Peirce affermava che l’intera funzione del pensiero è di produrre abitudini d'azione (o credenze) e che pertanto il significato di un concetto consiste esclusivamente nelle possibilità d’azione che esso definisce. Ma queste affermazioni di Peirce sono importanti anche da un altro punto di vista. Peirce negava esplicitamente il presupposto stesso della F. come contemplazione, cioè il carattere necessario del reale. Peirce mostrava difatti come la regola- rità e l’ordine degli eventi nonchè i legami condi- zionali tra gli eventi stessi non hanno niente a che fare con la necessità, che implicherebbe la possibilità della previsione infallibile (Chance, Love and Logic, II, cap. 2). La definizione data da Dewey della F. come « critica dei valori » (Experience and Nature, pag. 407) esprime, proprio sui presupposti stabiliti da Peirce, la funzione direttiva della filosofia. Se- condo Dewey, il compito della F. è quello antico, iscritto nel significato etimologico della parola: ri- cerca della saggezza; dove la saggezza differisce dalla conoscenza per essere « l'applicazione di ciò che è conosciuto alla condotta intelligente delle faccende della vita umana » (Problems of Man, 1946, pag. 7). Non diverso significato ha la definizione data da Morris: « Una F. è un’organizzazione sistematica che comprende le credenze fondamentali: credenze sulla natura del mondo e dell’uomo, su ciò che è bene, sui metodi da seguire nella conoscenza, sul modo in cui la vita dev'essere vissuta» (Signs, Language and Behavior, 1946, VIII, $ 6; tradu- zione ital, pag. 314). Per Morris, infatti, come per tutto il pragmatismo, la credenza non è che una regola di comportamento: e la F., come or- ganizzazione delle credenze fondamentali, costituisce perciò quello che Sartre ha chiamato «il progetto fondamentale di vita ». Nell'opera stessa di Sartre si può scorgere il passaggio dalla concezione con- templativa della F., espressa ne L’éfre er le néant (1943) a quella attiva o illuministica espressa nella Critique de la raison dialectique (1960). Nel primo scritto, Sartre progettava una ricerca detta « psica- nalisi esistenziale » il cui scopo era quello « di met- tere in luce, in una forma rigorosamente oggettiva, la scelta soggettiva per la quale ciascuna persona si fa persona cioè si fa annunziare a se stessa ciò che essa è» (L’étre et le néant, pag. 662). Il risultato di una ricerca di questo genere avrebbe dovuto essere, secondo Sartre, la classificazione e il con- fronto dei vari tipi di condotta possibili, quindi il chiarimento definitivo della realtà umana come tale (/bid., pag. 663). Il carattere contemplativo di una disciplina siffatta è evidente. Ma nella sua se- conda opera Sartre intende la F. come « totalizza- zione del sapere, metodo, Idea regolatrice, arma offensiva e comunità di linguaggio » nonchè come 402 uno strumento che agisce, per trasformarle, sulle società in decadenza e che può costituire la cultura o addirittura la natura di un'intera classe (Critique de la raison dialectique, pag. 17). Nel primo caso la F. non dava nulla da fare agli uomini giacchè l’uomo nulla poteva fare: Sartre definiva l’uomo come « passione inutile» cioè come passione im- possibile di essere Dio (L’éfre et le néant, pag. 708). Nel secondo caso, la F. s’inserisce come forza umana finita ma efficace, nel mondo, e tende a trasformarlo. Sottratta al destino del fallimento e a quello del successo, la nozione di progetto si presta ad esprimere il carattere direttivo e operativo che alla F. attribuiscono gli indirizzi neoilluministici contemporanei. Un progetto difatti fa leva sulle conoscenze disponibili e ne determina l’uso possi- bile al fine di garantire l'esistenza e la coesistenza degli uomini. Una F. che progetti in questo senso (che è poi quello già chiarito da Platone) l’uso umano del sapere è ovviamente la determinazione di tecniche di vita che possono essere messe a prova, rettificate o rigettate. III La filosofia e î suoi procedimenti. — Il terzo punto di vista dal quale si possono individuare costanti di significato che consentano di ricono- scere articolazioni fondamentali nelle interpreta- zioni storicamente date del concetto di F., è quello del procedimento o metodo che si ritiene proprio della filosofia. Da questo punto di vista le F. si possono distinguere in «) F. sintetiche o creative che procedono producendo concettualmente il loro oggetto, senza riconoscere limiti o condizioni a questo lavoro di costruzione; e 8) F. analitiche che riconoscono l’esistenza di defi e procedono a descrivere o analizzare questi dati stessi. Il carat- tere proprio delle F. analitiche è la limitazione cui si ritengono sottoposte da parte del dato, comunque poi intendano la natura di esso. Il carattere proprio delle F. sintetiche sta invece nel non riconoscere questa limitazione e nel pretendere che il proprio metodo è interamente costruttivo cioè capace di esaurire senza residui l’intero oggetto della filosofia. a) Il procedimento sintetico non può far ap- pello al controllo di situazioni, fatti o elementi che siano indipendenti da sè; la sua caratteristica è pertanto quella di valere come controllo a se stesso. Ogni qualvolta una F. assume che la validità dei propri risultati dipende esclusivamente dalla organizzazione interna della stessa F. e può essere perciò riconosciuta e stabilita una volta per tutte, senza bisogno che i risultati stessi siano messi a prova e convalidati da tecniche o procedure indi- pendenti da essa, il suo metodo può essere ritenuto sintetico. La sua procedura infatti equivale in questo caso alla creazione o composizione ex novo del suo oggetto, in una forma che non esige FILOSOFIA conferme nè teme smentite. La F. di Hegel costi- tuisce l’incarnazione più pura di questo tipo di filosofia. Quando Hegel dice: « La F. non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter presupporre i suoi oggetti come immedia- tamente dati dalla rappresentazione, e come già ammesso, nel punto di partenza e nel procedere successivo, il metodo del suo conoscere » (Enc., $ 1), egli afferma per l’appunto l’esigenza che la F. co- struisca da sè, interamente, il suo oggetto e il suo metodo. Ma producendo da sè sia l’oggetto che il metodo, essa non ha neppure da render conto ad altre scienze o ad altri eventuali punti di vista dei suoi risultati quali che siano. Hegel insiste sul ca- rattere assolutamente indipendente o incondizionato del suo metodo. «Il metodo (egli dice, per es.) così come nella scienza il concetto, si svolge da se stesso ed è soltanto una progressione immanente e una produzione delle sue determinazioni » (Fil. del Dir., $ 31). E ancora: «La più alta dialettica del concetto è produrre e intendere la determinazione, non semplicemente come limite o posizione, ma traendo da essa il contenuto e il risultato posi- tivi; in quanto unicamente con ciò essa è sviluppo e progresso immanente. Questa dialettica non è un fare esterno di un pensiero oggettivo ma l’anima propria del contenuto, la quale fa germogliare i suoi rami e i suoi frutti organicamente » (/did., $ 31). La differenza tra questo metodo produttivo o, come meglio si direbbe, creativo del suo oggetto e il metodo analitico, che Hegel riconosce proprio delle scienze dopo Cartesio, è espressa da Hegel stesso nel modo seguente: « Il metodo iniziato da Cartesio rifiuta tutti i metodi rivolti a conoscere ciò che per il suo contenuto è infinito; si abbandona perciò allo sfrenato arbitrio delle immaginazioni e asserzioni, ad una presunzione di moralità e or- goglio di sentimento o ad uno smisurato opinare e raziocinare il quale si dichiara nel modo più ener- gico contro la F. e i filosofemi » (Enc., $ 77). Questa concezione attribuisce al procedimento filosofico la produzione del suo oggetto e fa del- l’oggetto, l’infinito stesso cioè l'Assoluto o Dio, che risolve o annulla in sè ogni fatto o cosa finita. Prima di trovare in Hegel la sua forma tipica, tale concezione era stata esposta da Fichte come esi- genza che la F., quale dottrina della scienza, dia forma sistematica non soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre scienze possibili e garantisca per tutte la validità di questa forma (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Fichte ri- teneva infatti che, insieme alla sua forma, la dot- trina della scienza dovesse produrre anche il conte- nuto; e che il contenuto della dottrina della scienza racchiudesse in sè ogni possibile contenuto e fosse perciò «il contenuto assoluto » (/bid., $ 1). Risa- FILOSOFIA lendo ancora più in là, la concezione del metodo sintetico si può vedere in Spinoza: secondo il quale il procedimento filosofico (che egli chiama conoscenza intuitiva o terzo genere di conoscenza o amore intellettuale di Dio) è quello che ha per oggetto la necessità con cui tutte le cose derivano dalla natura divina. L’amore intellettuale di Dio è lo stesso amore con cui Dio ama se stesso (£t., V, 36): ciò vuol dire che la conoscenza della neces- sità con cui le cose derivano da Dio è la conoscenza stessa che Dio ha di sè. Il procedimento matema- tico dell’Erica acquista, da questo punto di vista, un rilievo fondamentale nella filosofia di Spinoza: esso non è un artificio espositivo ma l’adeguazione del metodo della F. al procedimento necessario con cui le cose derivano da Dio. Considerato in questa prospettiva, il metodo sintetico si rivela nella sua caratteristica più appariscente: nella sua pretesa di valere come un colpo d'occhio divino gettato sul mondo, come la conoscenza stessa che Dio ha di sè e dei suoi effetti creati. Èfacileallora vedere come questa pretesa sia stata spesso avan- zata dalla filosofia. « Questa scienza soltanto, di- ceva Aristotele, è divina e lo è in un duplice senso: perchè propria di Dio e perchè concerne il divino. Essa sola ebbe in sorte entrambi questi privilegi: Dio infatti appare come la causa e il principio di tutte le cose e solo o principalmente una scienza siffatta può essere propria di Dio» (Met., I, 2, 983a 5). Aristotele chiamava pertanto seologia la F. prima. Vero è che la F. prima è tale per la sua universalità e che essa è universale solo in quanto è scienza dell’essere in quanto essere (/bid., VI, 1, 1026 a 30). Ma la stessa scienza dell’essere in quanto essere è teologia perchè è la scienza della causa o ragion d’essere e questa causa o ragion d’essere è Dio. La F. aristotelica ha perciò dichiaratamente carat- tere sintetico e può anzi essere considerata come il primo e classico esempio del procedimento sin- tetico. Ovviamente, essa non lo è soltanto perchè ha Dio come oggetto della sua investigazione; ma anche perchè si considera coincidente con la cono- scenza che Dio ha di sè. E da questo tratto può essere agevolmente riconosciuta ogni F. sintetica come tale. $) Il procedimento analitico della F. si rico- nosce negativamente dalla mancanza della pretesa di valere come conoscenza divina del mondo e positivamente dal riconoscimento di un limite delle sue possibilità e di un controllo dei suoi risultati. Il procedimento analitico non è, di conseguenza, la costruzione ex novo del suo oggetto, ma la ri- soluzione di esso negli elementi che lo lasciano intendere cioè nelle sue condizioni. In questi ter- mini, la determinazione del procedimento filosofico è stata fatta da Kant dapprima in uno scritto 403 precritico del 1764 Sulla distinzione dei principi della teologia naturale e della morale poi nella seconda parte principale della Critica della Ragion Pura. Nel primo di questi scritti Kant contrapponeva il me- todo analitico della F. al metodo sintetico della matematica. « Ad ogni concetto generale, egli di- ceva, si può pervenire per due strade: o attraverso un collegamento arbitrario dei concetti oppure iso- lando quelle conoscenze che sono state chiarite per suddivisione. La matematica arriva sempre alle sue definizioni seguendo la prima strada... Le definizioni filosofiche invece sono del tutto diverse. Qui il concetto delle cose è già dato ma in modo confuso e non sufficientemente determinato. Bi- sogna suddividerlo, confrontare nei vari casi le note che si sono separate con il concetto dato, per poi determinare e render compiuta questa idea astratta » (Untersuchung Uber die Deutlichkeit der Grundsatze der natilrlichen Theologie und der Moral, 1, I, $ 1). Nella Critica della Ragion Pura, Kant distinse la conoscenza filosofica come conoscenza per concetti dalla conoscenza matematica che consiste nella co- struzione di concetti. La matematica, dice Kant, può costruire concetti perchè dispone di una intuizione pura che è quella dello spazio-tempo. Ma la F. non dispone di una intuizione pura ma soltanto di una intuizione sensibile: gli oggetti della F. devono quindi essere dati e possono pertanto solo essere analizzati, non costruiti, dal procedimento filosofico (Critica R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. I). Kant mette pertanto in guardia i filosofi contro la pretesa di voler organizzare la loro scienza secondo il mo- dello matematico. In F., non ci sono propriamente definizioni (che siano costruzioni di concetti) nè as- siomi, cioè verità evidenti, nè dimostrazioni, cioè prove apodittiche. Dice Kant a proposito di queste ultime: « L'esperienza ci insegna ciò che c'è, ma non che non può essere altrimenti. Princìpi empirici di prova non possono darci nessuna prova apodit- tica. Da concetti a priori (nella conoscenza discor- siva) non può nascere mai una certezza intuitiva cioè un’evidenza, per quanto il giudizio possa es- sere apoditticamente certo + (/bid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I). Da questo punto di vista, il procedimento della F. è ben lontano dal poter dare all’uomo una conoscenza paragonabile a quella posseduta da Dio. «La determinazione dei limiti della nostra ragione non può farsi se non su prin- clpi a priori; ma la limitatezza della ragione, che viene ad essere la conoscenza, sia pure indetermi- nata, di un’ignoranza mai completamente elimina- bile, può anche essere conosciuta a posteriori vale a dire da questo che, in ogni sapere, ci resta sempre ancora da sapere » (/bid., Della impossibilità di un appagamento scettico). La F. non è mai una scienza perfetta, che si possa insegnare od apprendere. 404 4 Si può imparare soltanto a filosofare cioè ad eser- citare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi princìpi universali a determinate ricerche, ma sempre con la riserva del diritto della ragione stessa a indagare quei principi alle loro sorgenti e a con- fermarli o rifiutarli» (/bid., Dottrina del me- todo, cap. III). Queste notazioni di Kant costituiscono un con- cetto relativamente compiuto o maturo del proce- dimento analitico in filosofia. Il precedente imme- diato di esso è Locke. « Non è affar nostro, in questo mondo, aveva detto Locke, conoscere tutte le cose, bensì quelle che riguardano la condotta della nostra vita. Se dunque possiamo trovare le regole mediante le quali, una creatura ragionevole, qual è l’uomo, considerato nello stato in cui si trova in questo mondo, può e deve condurre le sue opinioni e le azioni che ne dipendono; se, dico, possiamo giungere a tanto, non dobbiamo farci un cruccio se altre cose sfuggono alla nostra cono- scenza » (Saggio, Intr., $ 6). Il concetto della F. come procedimento analitico cioè diretto a deter- minare le condizioni e perciò i limiti delle attività umane, ispirò l’intero Illuminismo settecentesco. Ma sotto questo rispetto e con la diversità dovuta alla differenza dei mezzi culturali disponibili, l’Il- luminismo settecentesco riprendeva l’ideale dell’Il- luminismo antico, quello dei Sofisti e di Socrate, che intesero la F. come diretta alla formazione dell’uomo nella comunità. Di questo Illuminismo, secondo il quale la F. è uno strumento per l’uomo, si può ritenere una manifestazione lo stesso con- cetto platonico della filosofia. Platone infatti ne- gava che la F. potesse essere propria della divinità. Essa, come l’amore, è mancanza perchè è desiderio di saggezza da parte di chi la saggezza non possiede per propria natura. L’uomo è filosofo perchè «sta in mezzo tra il sapiente e l’ignorante » mentre la divinità che possiede già la sapienza, non ha bi- sogno di filosofare (Conv., 204 a-b). Dall'altro lato, la dialettica, che è il metodo della F., è concepita da Platone come analisi, cioè come un procedimento che consente di distinguere il discorso vero dal di- scorso falso, mostrando le cose che possono com- binarsi tra loro e quelle che non possono combinarsi (Sof., 252 d-e). Per mostrare quali sono le cose che possono e quelle che non possono combinarsi, la dialettica procede componendo varie determina- zioni in un unico concetto e poi dividendo questo concetto stesso nelle sue articolazioni, come fa un abile scalco (Fedro, 265 e). Essa quindi suppone a ogni passo la scelta opportuna delle determinazioni da comporre in un concetto solo e dei punti in cui far cadere la divisione del concetto stesso: scelta che suppone, come ogni altra scelta, un’uti- lizzazione di dati: onde il metodo platonico è FILOSOFIA stato giustamente considerato come un metodo em- pirico (TavLor, Pilato, 4* ediz., 1937, pag. 377). Che la F. sia un'attività umana cioè limitata nella sua portata e nella sua validità; che essa consista nell’effettuare scelte e non già nel costruire in toto il suo oggetto, sono le caratteristiche fonda- mentali della concezione analitica della filosofia. Da questi due caratteri deriva il terzo, che è forse il più ovvio e appariscente: quello per cui questo metodo è, tra l’altro e in primo luogo, riconosci- mento ed utilizzazione di dari cioè di fatti, elementi o condizioni che non sono prodotti dal metodo stesso. La scelta dei dati e la loro elaborazione in vista di una soluzione possibile costituisce il pro- blema (v.). Le F. analitiche sono in genere contras- segnate dal fatto che in esse la nozione di problema è fondamentale, mentre non esiste o è considerata secondaria e trascurabile nelle F. sintetiche (come accade in quelle di Aristotele e Hegel). Un’ulte- riore determinazione di questa concezione (una de- terminazione che essa acquista solo nel mondo con- temporaneo) è quella concernente il campo dal quale la F. può o deve trarre i suoi dati e col quale l’in- terpretazione di questi dati può o deve essere messa a confronto. È solo un’idea recente che i risultati della F., come quelli di ogni altra indagine, non sono definitivi ma hanno bisogno di essere messi a prova e saggiati. Dewey ha chiamato a questo proposito la F. critica delle critiche. « Può sembrare ad alcuni un tradimento, egli ha detto, concepire la F. come il metodo critico per sviluppare i metodi della critica. Ma anche questo concetto della F. attende di essere messo alla prova, e la prova che lo confermerà o lo condannerà consiste nella riuscita eventuale. L'importanza della conoscenza che ab- biamo acquistato e dell’esperienza che è stata ravvi- vata dal pensiero consiste nell’evocare e nel giusti- ficare la prova » (Experience and Nature, pag. 437). Tuttavia questa esigenza diventa operante solo quando si determini il campo dal quale la F. tragga i suoi dati e nel quale trovi le sue possibilità di conferma. La determinazione di questo campo co- stituisce la caratteristica propria della F. analitica dei tempi nostri. Ora i campi a cui si può fare riferimento sono soltanto due: 1° l’esistenza sin- gola; 2° l’esistenza associata. 1° Le F. che fanno appello all’esistenza singola per la ricerca dei dati e per la eventuale messa a prova delle soluzioni considerano abitualmente l’esi- stenza singola come coscienza e vedono nella co- scienza il dominio proprio della filosofia. Nel mondo contemporaneo, la più conosciuta e tipica F. di questa specie è quella di Bergson, che esplicitamente si organizza come ricerca dei « dati immediati della coscienza » e che utilizza questi dati per soluzioni che possono a loro volta essere messe a prova FINALISMO soltanto nell’ambito della coscienza. A questo tipo di F. si riconnette anche la fenomenologia concepita da Husserl come « un ritorno radicale all’ego cogito puro, per far rivivere i valori eterni che ne deri- vano + (Cart. Med., $ 2). Il difetto metodologico di questo tipo di F. consiste nel fatto che in esse il dato, che deve servire come limitazione o con- trollo del procedimento analitico, non è veramente indipendente da questo procedimento, perchè può essere scoperto o assunto solo sulla base dei pre- supposti che lo ispirano. 2° Le F. che fanno appello all’esistenza asso- ciata hanno il loro capostipite nella F. di Platone, che per l’appunto intendeva mettere a prova i ri- sultati della F. nella vita associata. Allo stesso genere appartiene la F. di Kant, secondo la quale i risultati della F. devono essere messi a prova nel dominio morale e politico cioè nel campo dei rapporti umani in generale e costituire uno stru- mento di progresso in tale campo [cfr. lo scritto Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, del 1798, nonchè quello Sull’illuminismo, 1784, e quelli precedentemente citati in questo ar- ticolo, II, b)]. L'esperienza inter-umana è anche quella cui fa riferimento Dewey per la messa a prova dei risultati della F. cioè delle proposte che essa formula per la condotta intelligente della vita (Experience and Nature, cap. X). Dall'altro lato, l’esistenzialismo di Heidegger, per quanto non pro- getti di mettere a prova i risultati delle sue analisi, assume i dati di questa analisi dall’esistenza comune quotidiana, da ciò che accade fra gli uomini « in- nanzi tutto e per lo più » (Sein und Zeit, $ 9). Infine a questo stesso orizzonte si può ricondurre la F. in- tesa come analisi del linguaggio in quanto scorge nel linguaggio il fatto inter-soggettivo fondamentale e quindi nel chiarimento e nella rettificazione di esso lo strumento più adatto per l’eliminazione degli equivoci e la rettificazione dei rapporti inter- soggettivi. Questa almeno sembrerebbe il significato più importante di una siffatta filosofia. Ma non è il caso di questo significato, se essa viene intesa semplicemente (come alcuni l’intendono) quale una «terapia» diretta a liberare dai dubbi, ritenuti fit- tizi, prodotti dalla filosofia. In questo caso, poichè nessuno, tranne l’interessato, può giudicare se si senta o meno sufficientemente « guarito +, la messa a prova della F. avrebbe per suo campo proprio la vita privata dell’individuo. FILOSOFIA PRIMA (gr. rpém puocopla; lat. Prima philosophia; ingl. First Philosophy; fran- cese Philosophie première; ted. Ersten Philosophie). Così Aristotele chiamò talvolta la F. come scienza dell’essere (o teologia) per distinguerla dalla fisica (F. seconda) e dalla matematica (Fis., I, 9, 191 a 36; Met., VI, 1, 1026a 16; ecc.). Bacone adoperò il 405 termine per indicare la «scienza universale + che è come l’albero da cui si dipartono, come tanti rami, le scienze particolari e ha per oggetto i princìpi co- muni delle scienze (De Augm. Scient., III, 1): (v. Frrosoria). Nel significato aristotelico il termine è stato sostituito da quello di metafisica (v.). FINALISMO (ingl. Finalism; franc. Finalisme; ted. Finalismus). La dottrina che ammette la cau- salità del fine, nel senso che il fine sia la causa totale dell’organizzazione del mondo e la causa dei singoli eventi. La dottrina implica due tesi: 18 il mondo è organizzato in vista di un fine; 23 la spiegazione di ogni evento del mondo consiste nell’addurre il fine cui l'evento è diretto. Queste due tesi si trovano spesso congiunte o confuse in- sieme; ma talvolta sono distinte e si cerca di am- mettere l'una senza ammettere l'altra. Secondo la testimonianza di Platone e di Aristotele, Anassa- gora fu il primo degli antichi ad ammettere la causalità del fine (PLAT., Fed., 97 c; ARIST., Met., I, 3, 984b 18). Platone presenta la sua propria dottrina come una conseguenza del principio di Anassagora che l'intelligenza è la causa ordinatrice del mondo. « Se l'intelligenza ordina tutte le cose e ciascuna cosa dispone nel modo migliore, egli dice, trovare la causa per la quale ciascuna cosa si ge- nera, si distrugge O esiste, significa trovare qual è per essa il modo migliore di esistere o di modifi- carsi o di agire + (Fed., 97 c). Ciò che è « meglio » o «eccellente » è, da questo punto di vista la « vera » causa delle cose mentre sono cause secondarie o concause quelle di natura fisica che solitamente si adducono (Tim., 46 d; Fil., 54c). Ma la dottrina che ha fatto prevalere la concezione finalistica nella metafisica antica e recente è quella aristotelica. Le due tesi proprie del F. sono parti integranti della metafisica aristotelica. Da un lato Aristotele af- ferma che « tutto ciò che è per natura esiste per un fine » (De an., III, 12, 434 a 31) e identifica il fine con la stessa sostanza «0 forma o ragion d'essere della cosa» (Mef., VIII, 4, 1044a 31). Dall’altro lato, ritiene che l’intero universo è subordinato ad un unico fine che è Dio stesso, dal quale dipende l’ordine e il movimento dell’universo stesso (/bid., XII, 7, 1072 b). Su queste basi, Aristotele difende la causalità del fine contro la tesi che egli chiama della « necessità »: la quale consiste nell’ammettere che le cose non avvengono in vista del loro risultato migliore, ma che il risultato migliore è, talvolta, l’effetto accidentale della necessità. Difatti come si dice che di necessità, date certe cause, è piovuto e che la pioggia ha accidentalmente prodotto la perdita del raccolto, senza che questa fosse il fine della pioggia, così si potrebbe tentare di spiegare allo stesso modo la forma degli organismi animali (Fis., II, 8, 198 b 17). Contro questo modo di ra- 406 gionare Aristotele osserva che ciò che accade sempre o per lo più non si può spiegare col caso, ma suppone la necessità d’azione del fine (/bid., II, 9, 200a 5). Non si trova però in Aristotele quella forma popo- lare della teleologia che s’inizia con gli Stoici e che consiste nel mostrare che le cose del mondo son fatte dalla natura a vantaggio dell’uomo. Il fondamento di questa teleologia è espresso da Ci- cerone: « Per chi dunque si potrebbe dire che è stato realizzato il mondo? Evidentemente per gli esseri viventi dotati di ragione cioè per gli dèi e per gli uomini; non vi è nulla infatti che sia più eccellente di essi, dato che la ragione è superiore a tutto: diviene così credibile che il mondo e tutto ciò che nel mondo esiste è stato fatto per gli dèi e per gli uomini» (De nar. deor., II, 133). Data la sua stretta connessione con la teologia, si intende perchè il F. è stato sempre assunto a fondamento dalla metafisica teologica. Gli Scolastici insistono sulla superiorità causale del fine che chiamano «causa delle cause ». S. Tommaso, sulle orme di Aristotele, risolve nella causalità del fine la neces- sità propria dei movimenti naturali. « La necessità naturale che inerisce alle cose e le dirige, egli scrive, viene alle cose stesse impressa da Dio in quanto le dirige ad un fine: al modo stesso in cui la ne- cessità con cui si muove la freccia e per cui è di- retta verso il bersaglio è stata impressa ad essa da chi l’ha lanciata e non appartiene alla freccia » (S. Th., I, q. 103, a. 1). Questo è proprio il pensiero fondamentale che domina e rende straordinaria- mente uniformi tutte le teorie finalistiche di cui è ricca la storia della F. fino ai nostri giorni. Sembrò a Hegel una grande novità la sua propria dottrina del fine come del «concetto stesso nella sua esi- stenza » e della finalità come una determinazione immanente alla natura stessa; ed egli infatti con- trappose questa dottrina a quella, che riteneva propria della tradizione, di un intelletto «extra- mondano » che dall’esterno imponga i suoi fini alla natura (Wissenschaft der Logik, III, sez. II, cap. III; trad. ital, pag. 216 sgg.).. Ma in realtà, come provano i testi finora citati, non esiste, nella storia della F., la dottrina di una finalità estrinseca e imposta da un intelletto extra mondano; giacchè per finalità del mondo Aristotele, come gli Stoici e come S. Tommaso, intendono la ragion d’essere propria del mondo, la sua necessità immanente: e S. Tommaso esplicitamente identifica l’impressio di Dio sulla natura con la « necessità inerente alle cose». Una finalità se è tale è sempre immanente alla totalità di cui costituisce l'organizzazione. E come già notava Aristotele, il F. sotto questo aspetto non muta, sia che si tratti di totalità naturali sia che si tratti di totalità artificiali; nella costruzione di una casa il fine pervade il materiale di cui ci si FINALISMO serve e inerisce ad esso in maniera non diversa da come inerisce alle parti di un organismo (Zis., II, 9, 200a 34). In tutti i casi il F. è, per adoperare l’espressione hegeliana, il concetto stesso nella sua esistenza: la realizzazione di un concetto che sin da principio dirige e governa questa stessa realiz- zazione. Pertanto la polemica contro « l’intelletto extra-mondano » di Hegel è una polemica teolo- gica: la contrapposizione di una tesi panteistica ad una tesi teistica; ma non concerne il finalismo. Diverso significato ha la distinzione tra finalità interna e finalità esterna fatta da Schopenhauer, il quale tuttavia mantiene immutato il concetto tradizionale di F., nonostante la sua tesi del ca- rattere irrazionale e disordinato della forza che regge il mondo. La finalità interna è per Schopenhauer «l’armonia di tutte le parti di un organismo sin- golo, in modo tale che la conservazione di esso e della sua specie si presenti come lo scopo di questa stessa armonia ». La finalità esterna è invece la «relazione della natura inorganica con l’organica o di parti della natura organica tra loro, che rende possibile la conservazione dell’intera natura orga- nica o delle singole specie» (Die Welt, I, $ 28). Dall'altro lato non costituisce una innovazione del F. tradizionale la dottrina di Bergson al ri- guardo. Bergson si è pronunciato, a proposito della finalità organica, sia contro il « meccanismo radicale » sia contro il « F. radicale », in entrambi i quali ha riconosciuto la negazione del carattere «imprevedibile » o «creativo» dell'evoluzione vi- tale. L'armonia, egli dice, deve trovarsi all’indietro piuttosto che in avanti di questa evoluzione. « L’av- venire non è contenuto nel presente sotto la forma di un fine rappresentato. Tuttavia una volta realiz- zato, esso spiegherà il presente come il presente lo spiegava, e ancora meglio; dovrà essere considerato come un fine altrettanto e più che come un risul- tato. La nostra intelligenza ha il diritto di conside- rarlo astrattamente dal suo punto di vista abituale, giacchè essa stessa è un’astrazione operata sulla causa da cui emana » (Évol. créatr., 8 ediz., 1911, cap. 1, pag. 57). Ma anche questa determinazione bergsoniana non innova gran cosa nel concetto classico del F.; la cui natura non consiste, come Bergson ritiene, nel negare i caratteri imprevedibili o nuovi che emergono nel corso della realizzazione del fine, ma unicamente nell’ammettere la causa- lità del fine stesso e nel ritenere questa causalità come principio di spiegazione. La dottrina di Bergson non porta nessuna innovazione a questi due punti. Essa si lascia pertanto ricondurre interamente alla concezione classica del F.; come alla stessa conce- zione si riconducono le dottrine, che pur ammet- tendo il meccanismo, lo ritengono incluso e su- bordinato al F. generale della natura, come fanno FINALISMO Leibniz (Op., ed. Gerhardt, III, pag. 607; IV, pag. 284), Lotze (Mikrokosmus, 1856, I) e con loro molti spiritualisti contemporanei. Una innovazione significativa del F. si ha sol- tanto con l’interpretazione kantiana. Questa in- terpretazione infatti nega la tesi 2* del F. stesso cioè quella per la quale spiegare un fenomeno si- gnifica addurre lo scopo. Per Kant, la spiegazione dei fenomeni può essere soltanto causale; ed il giudizio teleologico è riflettente non determinante cioè coglie, non un elemento costitutivo delle cose, ma un modo soggettivo, per quanto inevitabile per l’uomo, di rappresentarsele. « V'è un’assoluta dif- ferenza tra il dire che la produzione di certe cose della natura, o anche di tutta la natura, non è pos- sibile se non mediante una causa che si determina ad agire secondo fini, e il dire che, secondo la par- ticolare natura della mia facoltà conoscitiva, io non posso giudicare della possibilità delle cose e della loro produzione se non concependo una causa che agisca secondo fini e quindi un essere che produca analogamente alla causalità di un intelletto. Nel primo caso voglio affermare qualcosa dell’oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva del concetto che ammetto; nel secondo caso la ragione non fa che determinare l’uso delle mie facoltà co- noscitive, conformemente alla loro natura e alle condizioni essenziali della loro portata e dei loro limiti » (Crif. del Giud., $ 75). Dal secondo punto di vista, che è quello proposto da Kant, il F. non è che un concetto regolarivo dell’uso dell'intelletto umano: uso opportuno e necessario per il fatto che l'intelletto umano incontra limiti ben precisi nella spiegazione meccanica del mondo ed è perciò portato a ricorrere ad una considerazione comple- mentare. Questa tuttavia non può mai valere come una spiegazione; e la sua sola funzione è quella di aiutare a ricercare le leggi particolari della natura (Ibid., $ 78). Questo punto di vista kantiano (che recentemente è stato rinnovato da N. HARTMANN, Philosophie der Natur, 1950), mentre nega al F. ogni valore conoscitivo e scientifico gli riconosce una specie di validità soggettiva, tra estetica e mo- rale, validità dovuta alla limitazione inevitabile della conoscenza umana. Ovviamente l’interpretazione kantiana del F. poggia sulla tesi propria degli avversari del F. cioè sulla negazione del potere esplicativo del F. stesso. Soltanto questa negazione costituisce in realtà l'abbandono del F. e solo le ragioni che l'appoggiano costituiscono un'autentica critica di esso. Il F. difatti non è una generalizzazione empi- rica a partire dalla considerazione di un certo nu- mero di esempi teleologici; e pertanto neppure una « disteleologia » cioè un’elencazione di casi con- trari al F. è una critica decisiva del F. stesso. La 407 dottrina di Platone e di Aristotele al riguardo, e specialmente quella di quest'ultimo, mostra chiara- mente quale sia il fondamento del F.: la credenza che l’unica spiegazione possibile degli eventi è quella che adduce lo scopo per cui avvengono. Lo scopo infatti, per Platone e per Aristotele, è la forma o ragion d’essere della cosa; e la deter- minazione dello scopo è la spiegazione causale della cosa stessa. Ora di questo principio si è co- minciato a dubitare solo nell’età moderna. L'’epi- cureismo che, con Lucrezio, negava il F. adducendo che esso mette prima quel che viene dopo, per es., la vista prima dell’occhio (LucREZIO, De rer. nat., IV, 829 sgg.) non costituisce la negazione di quel principio. La prima critica di esso si può invece trovare nella scolastica del ’300 ed è opera di Gu- glielmo Ockham. Ockham in primo luogo fa vedere che l’azione del fine non può consistere se non nel muovere ad agire la stessa causa efficiente; in se- condo luogo fa vedere che quest’azione è pura- mente metaforica (/n Sent., II, q. 3 G). Ockham osserva che l’azione del fine non potrebbe con- sistere se non nell’essere desiderato od amato; e che questo appunto dimostra il carattere metafo- rico di tale azione. Nelle azioni naturali, che si verificano con uniformità, non ha senso chiedersi la causa finale; per es., non ha senso chiedersi per qual fine il fuoco si genera: infatti non si richiede l’esistenza del fine affinchè l’effetto si produca (Quodl., IV, q. 1). Questa è, probabilmente, la prima critica che sia stata rivolta al valore esplica- tivo del finalismo. Qualche secolo dopo, la causa finale veniva completamente trascurata nella spie- gazione che Telesio tentava del mondo naturale (De rerum natura, 1565). E Bacone eliminava esplicita- mente la considerazione del fine dalla ricerca spe- rimentale (Nov. Org., II, 2). « La ricerca delle cause finali, egli diceva, è sterile: come una vergine con- sacrata a Dio, non partorisce nulla» (De augm. scient., III, 5). A loro volta Galilei (Op., VII, pag. 80) e Cartesio (Princ. Phil., III, 3) eliminavano dalla scienza la considerazione della causa finale. E Spi- noza contrappose la necessità con cui le cose deri- vano dalla natura divina al F. da lui considerato come un pregiudizio contrario all'ordine del mondo e alla perfezione di Dio (Er., I, 36, App.). Da questa epoca in poi, cioè dalle origini della scienza mo- derna, il F. ha cessato di valere come procedimento di spiegazione scientifica. È ben vero che esso si è sempre insinuato nelle crepe della spiegazione meccanica del mondo ed è stato spesso considerato come un completamento di questa spiegazione al di là dei limiti da essa raggiungibili. Ciò è accaduto soprattutto nel do- minio delle scienze biologiche o nella speculazione filosofica sui risultati di queste scienze. Nonostante 408 i successi ottenuti in questo campo dalla conside- razione fisico-chimica dei fenomeni biologici, il mancato raggiungimento o addirittura l’irraggiun- gibilità di una riduzione meccanica di tali fenomeni è stata frequentemente riconosciuta. Le varie forme del vitalismo (v.), sono per l’appunto contrasse- gnate da questo riconoscimento e pertanto dal ri- corso ad una spiegazione teleologica dei fenomeni vitali. Questo ricorso tuttavia è apparso inevitabile solo nella misura in cui scienziati e filosofi hanno formulato ipotesi globali sull’origine e la natura della vita; giacchè il lavoro propriamente scientifico, quello a cui sono dovuti i successi della biologia e della medicina contemporanea, non ha adoperato altri strumenti, materiali o concettuali, che quelli propri delle scienze naturali. Questo lavoro pertanto non ha mai avuto bisogno dell’ipotesi finalistica. Dall'altro lato, la situazione odierna è caratteriz- zata: 1° dal riconoscimento dell’originalità dei fe- nomeni organici rispetto a quelli fisico-chimici, senza che tale originalità si faccia consistere nel carattere finalistico di essi (v. EVOLUZIONE; VITA- LisMo); 2° dall'abbandono dell’ideale della spiega- zione meccanica, sicchè la differenza radicale che si era venuta stabilendo, in base alla riuscita di questa spiegazione, tra fenomeni fisici da un lato e fenomeni biologici e antropologici dall’altro lato è venuta a cadere (v. CausALITÀ; SPIEGAZIONE). In virtù di questa situazione, da un lato si è espunta la causalità del fine dal dominio dell’evoluzione organica, dall'altro l’azione stessa di questa cau- salità, quale si ammette nell'uomo, può non esser considerata diversa da quella dalla causalità na- turale. Sul primo punto, Simpson afferma: « Lo scopo e il piano non sono le caratteristiche della evoluzione organica e non sono la chiave per nes- suna delle sue operazioni. Ma lo scopo e il piano sono caratteristiche della nuova evoluzione [cioè dell'evoluzione sociale o storica] perchè l’uomo ha scopi e fa piani. Qui scopo e piano entrano defini- tivamente nell’evoluzione, come un risultato e non come causa dei processi che la lunga storia della vita ci mostra. Gli scopi e i piani sono nostri, non dell’universo, il quale mostra indizi convincenti della loro assenza» (7he Meaning of Evolution, 1952, pag. 292). Ma dall’altro lato gli scopi e i piani non costituiscono una forma di causalità a parte, che faccia del mondo in cui essi si verificano un dominio privilegiato o speciale dell’essere. Nel mondo umano, la causalità del fine o è stata ricondotta alla moti- vazione (v.) che non differisce formalmente dalla spiegazione causale (C. G. HeMPEL-P. OPPENHEIM, «The Logic of Explanation», in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag. 327-28); oppure è stata descritta in termini di comportamento che implicano ancora meno il riferimento a un tipo di FINALITÀ spiegazione specifica (ROSEBLUETH-WIENER-BIGELOW, in « Philosophy of Science», 1943, pag. 18 sgg.). In conclusione, il F., riconosciuto oggi inutile in tutti i campi della spiegazione scientifica, rimane la caratteristica di quegli indirizzi metafisici che ritengono troppo modesto per la filosofia il còmpito di criticare i valori per rettificarli o renderne possi- bile la conservazione e si propongono invece quello di dimostrare che i valori sono garantiti dalla stessa struttura del mondo in cui l’uomo vive e costitui- scono il fine di essa. Il F. ha perduto completamente il carattere scientifico che aveva alle sue origini nella Grecia antica e rimane solo come una delle tante speranze o illusioni cui l’uomo fa appello in mancanza di procedimenti efficaci o in sostituzione di essi. FINALITÀ (ingl. Purposiveness, Finality; fran- cese Finalité; ted. Zweckmdssigkeit). La rispondenza di un complesso di cose o di eventi ad un fine. Così, per es., la F. di un piano o progetto è la rispondenza o l’adeguazione di esso al fine cui è diretto. La F. della natura è la rispondenza della natura a quelli che si presumono suoi fini; ecc. La parola non si applica quindi esclusivamente alla causalità dei fini della natura (cui si applica la parola finalismo), ma designa in generale una certa forma di organizzazione o di ordine. FINE (gr. 606, où évexa; lat. Finis; inglese End, Purpose; franc. Fin, But; ted. Zweck). La parola ha i seguenti significati principali: 1° termine, nel senso in cui Aristotele dice: «la natura cerca sempre il F.» cioè « fugge l’infi- nito » (De gen. anim., I, 1, 715b, 16 15). Nello stesso senso ha usato la parola Dewey: « Possiamo concepire il F. come dovuto al compimento, al raggiungimento perfetto, alla sazietà, all’esauri- mento, alla dissoluzione, a qualcosa che è venuto meno o ha ceduto»; e in altri termini i F. sono solo «termini o conclusioni di episodi temporali » favorevoli o sfavorevoli, buoni o cattivi che siano (Experience and Nature, pag. 97 sgg.); 2° compimento o perfezione, nel senso che ha frequentemente la parola greca ié/os. In questo senso si dice « giunta al F. + o « giunta a buon F.» di una cosa che è stata portata a compimento; 3° scopo o causa finale, nel senso della quarta delle quattro cause aristoteliche (v. CAuSALITÀ). In questo significato la parola italiana scopo, quella francese but e quella inglese purpose sono meglio adoperate. Lo scopo ha carattere oggettivo, sia che s’intenda come immanente alla natura sia che si intenda come F. di un comportamento umano: è il termine del progetto o piano cui si riferisce; 4° intento 0 mira, cioè lo scopo nel suo aspetto soggettivo, come ciò che è il termine di una certa FINITO intenzione ma che può essere anche diverso dal termine cui questa intenzione mette capo in realtà. FINI, REGNO DEI (ted. Reich der Zwecke). È, secondo Kant, la comunità ideale degli esseri ragionevoli in quanto obbediscono unicamente alla legge della ragione. Il regno dei F., dice Kant è «il concetto in virtù del quale ogni essere ragione- vole deve considerarsi come fondatore di una le- gislazione universale per mezzo di tutte le massime della sua volontà, in modo da poter giudicare se stesso e le sue azioni da questo punto di vista + (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II). In tale regno, inteso come «l’unione sistematica di vari esseri ragionevoli sotto leggi comuni +, ogni membro è nello stesso tempo legislatore e suddito e vale pertanto come « fine in se stesso » (Zbid., II). Vedi DIGNITÀ. FINITISMO (ingl. Finitism; franc. Finitisme; ted. Finitisnus). Con questo termine, usato molto raramente, s'intende ogni dottrina che affermi la finità del mondo cioè che faccia sue le resi delle antinomie cosmologiche esposte nella Critica della Ragion Pura di Kant. FINITO (gr. rnenepacpévov; lat. Finitus; inglese Finite; franc. Fini; ted. Endlich). Il termine ha i seguenti significati principali, i primi tre dei quali corrispondono ai significati di infinito: 1° come disposizione o qualità di una gran- dezza, cioè in senso matematico, il F. è: a) ciò che è completo o esauribile, cioè non ha parti fuori di sè: il contrario dell’infinito potenziale; 5) l’in- sieme non auto-riflessivo cioè non equipotente ad una sua propria parte o sottoinsieme (nel senso stabilito nella teoria degli insiemi di Cantor e Dedekind). 2° Ciò che è stato condotto a termine, quindi è compiuto e perfetto. In questo senso si parla comunemente di « lavoro F. » o di « opera d’arte F. » per significare un lavoro accurato, che si è condotto sino in fondo, o un'opera d’arte portata alla sua forma perfetta. Questo significato corrisponde al- l’uso greco del termine. Platone considera F. ciò che ha ordine, misura e armonia (Fil., 23c sgg.). Aristotele afferma a sua volta: «La cosa che non ha niente al di là di sè è finita ed intera perchè noi definiamo l’intero come ciò che non manca di niente... Ora intero e perfetto hanno la stessa natura, o pressapoco. Ma niente è perfetto che non ha termine, e il termine è limite» (Fis., III, 6, 207 a 7). 3° Nel senso teologico, ciò che incontra limiti od ostacoli alla sua possibilità di essere cioè alla sua potenza. Questo concetto del F. si può far risalire a Plotino, il quale è il primo che ha inteso l'infinito come illimitatezza della potenza (Enn., IV, 3, 8; VI, 6, 18). Ma questo è soprattutto il 409 concetto di F. sul quale ha fatto leva il Romanti- cismo per affermare la realtà dell’infinito. Per Hegel, l’infinito è la realtà stessa in quanto illi- mitata potenza di realizzazione cioè in quanto Assoluto. Il F. è ciò che non ha abbastanza potere per realizzarsi, l’ideale, il dover essere (Enc., $ 95; Wissenschaft der Logik, cap. II, sez. I; trad. ital., I, pag. 163). Da questo punto di vista il F. è « ir- reale » e trova la sua realtà soltanto nell’infinito e come infinito. 4° Ciò che può essere o agire solo in deter- minate condizioni. Questo è il senso in cui la parola è stata intesa da Kant. Egli chiama l’uomo un « essere pensante F.+, in quanto le sue possibilità conoscitive sono limitate dall’intuizione sensibile cioè da un’intuizione che dipende da oggetti dati (Crit. R. Pura, $ 8, rv). Dal punto di vista morale l’uomo è un essere F. in quanto la sua volontà non si identifica con la ragione e la legge di questa vale per essa solo come un imperativo (Crif. R. Pra- tica, $ 1, scol.). Infine, l’intera facoltà del giudizio estetico e teleologico è fondata sulla natura F. del- l'uomo cioè sulla limitazione delle sue possibilità conoscitive in quanto non determinano interamente il loro oggetto ma solo la forma di esso (Crit. del giud., $ 77). Questo significato della parola è ri- masto in espressioni come «intelletto F.», «es- sere F.», « natura F.», ecc.: nelle quali il F. non esprime una limitazione spaziale o temporale ma il carattere condizionale di certe possibilità, che non sono tali da garantire l’onniscienza, l’onnipo- tenza e l’infallibilità. Nello stesso significato, il termine è assunto dall’esistenzialismo contempo- raneo. Heidegger vede il carattere F. dell’uomo

nel fatto che ogni suo progetto del mondo è già dominato dal mondo stesso, che limita le possibi- lità progettabili. Dice Heidegger: «Il progetto di possibilità, conformemente alla sua essenza, è via via più ricco del possesso in cui il progettante si trovava anteriormente. Ma un possesso siffatto può appartenere all’Esserci solo perchè esso, in quanto progettante, si sente immerso nel mezzo dell’ente. Ma con ciò sono già sortratte all’Esserci determinate altre possibilità e lo sono in conse- guenza della sua effettività... Che il concreto progetto del mondo acquisti forza e divenga un possesso solo nella sottrazione, è un documento trascenden- tale della finitudine della libertà dell’Esserci. Non si annuncia qui forse proprio l’essenza F. della libertà in generale? (Vom Wesen des Grundes, Ill; trad. ital., pag. 68-69). In questo senso, «F.+ è qualità propria solo dell’uomo o delle possibilità umane; e finitudine è il termine astratto corrispon- dente. Ogni filosofia dell’esistenza è una filosofia del F. perchè è l’interpretazione dell'esistenza in termini di possibilità condizionate (v. ESISTENZA, 3°). 410 FINZIONE (ingl. Fiction; franc. Fiction; te- desco Fiktion). Una filosofia della F. o finzionismo (Fiktionalismus) è la « Filosofia del come se » (1911) di Vaihinger, la quale si propone di dimostrare che tutti i concetti, le categorie, i princìpi e le ipotesi

di cui si avvalgono il sapere comune, le scienze e la filosofia sono F. prive di qualsiasi validità teo- retica, spesso intimamente contraddittorie, che sono accettate e mantenute solo in quanto utili. Vaihingre ritiene che questa non sia una situazione patologica ma normale e che l’unica alternativa che essa pro- spetti è quella di un uso consapevole e scaltrito delle F. come tali. Ovviamente in questo senso la F. non è un’ipotesi perchè non esige di essere verifi- cata; si avvicina di più al concetto di mito (v.). La filosofia della F. è uno degli sviluppi che ha avuto il concetto kantiano nella filosofia contem- poranea del come se (v.). FISICA (gr. quow; lat. Physica; ingl. Physics; franc. Physique; ted. Physik). La disciplina che ha per oggetto lo studio della natura, le cui caratteri- stiche e i cui metodi sono pertanto in relazione con ciò che s’intende per narura (v.). Come disci- plina specifica, essa si può dire nata con Aristotele che la considerò come la «filosofia seconda» di- stinguendola, nel gruppo delle scienze teoretiche, da un lato dalla feologia dall’altro dalla matematica (Met., XI, 7, 1064b 1). Si possono distinguere tre concetti fondamentali di questa scienza, che si sono succeduti storicamente: 1° il concetto della F. come teoria del movimento; 2° il concetto della F. come teoria dell’ordine necessario; 3° il concetto della F. come previsione dell’osservabile. 1° Alla sua nascita, con Aristotele, la F. è la teoria del movimento e tale si è mantenuta sino alle origini della scienza moderna. Aristotele ri- tiene infatti che la F. ha per oggetto «quella so- stanza che ha in se stessa la causa del suo movi- mento » (Mer., VI, 1, 1025b 18); e che pertanto il modo in cui la F. considera le sostanze dipende dalla natura dei movimenti di cui sono dotate. Ora dei quattro movimenti distinti da Aristotele (sostanziale, cioè generazione e corruzione; quali- tativo, cioè mutamento; quantitativo, cioè aumento o diminuzione; /ocale, cioè traslazione; Fis., VIII, 7, 261 a 26), il movimento di traslazione è il primo e fondamentale: tutti gli altri possono infatti essere spiegati con la traslazione dei corpi (/bid., VIII, 7. 260 a-b). La determinazione delle varie sostanze fisiche deve perciò essere fatta in base al movimento di traslazione che è proprio di ciascuna di esse. Ora il movimento di traslazione è di tre specie: dall’alto verso il centro del mondo, dal centro verso l’alto, intorno al centro o circolare. I primi due movimenti sono contrari tra loro e (poichè la ge- nerazione e la corruzione consistono nel passaggio FINZIONE da un contrario all’altro) sono propri dei corpi soggetti alla generazione e alla corruzione cioè dei corpi terrestri o sublunari, che risultano composti di quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco. Il movimento circolare invece non ha contrari perchè muoversi da destra a sinistra o da sinistra a destra circolarmente non modifica la circolarità del movi- mento stesso (De cael., I, 4). Esso sarà allora proprio della sostanza che compone i corpi ingenerabili e incorruttibili cioè i corpi celesti, e questa sostanza è l’etere. Dei quattro elementi che compongono il mondo sublunare due, aria e fuoco, si muovono dal basso in alto; due, acqua e terra, dall’alto in basso. La F. aristotelica è pertanto una F. qua- litativa nel senso che ritiene un determinato movi- mento proprio di un determinato elemento e sta- bilisce così una netta divisione qualitativa degli elementi tra loro e di tutti gli elementi dall’etere. Da questa impostazione segue il principio generale della F. aristotelica che è: « Ogni elemento si muove verso la sua sfera, se non è impedito » (Fis., IV, 1, 208 b 10); principio il quale implica o stabilisce l’esistenza di luoghi assoluti che sono le sedi na- turali degli elementi e ai quali pertanto gli elementi stessi ritornano quando ne sono allontanati. Questi luoghi sono, secondo Aristotele, determinati dal peso degli elementi. Al centro del mondo c’è la terra che è l’elemento più pesante (come risulta, per es., dal fatto che la pietra cade o affonda nel- l’acqua). Attorno alla terra c'è la sfera dell’acqua; e attorno alla sfera dell’acqua quella dell’aria che è ancora più leggera, come dimostra il fatto che una bolla d’aria rotta nell’acqua sale alla superficie. Attorno alla sfera dell’aria c’è quella del fuoco, che è l’elemento più leggero, come dimostra il fatto che le fiamme accese sulla superficie della terra tendono verso l’alto cioè alla sfera che è al di sopra dell’aria. Su questa base Aristotele determina i caratteri del mondo: che è unico perchè gli ele- menti si addensano ognuno nella sua sfera; finito perchè compiuto e perfetto; e come tale anche ordinato ad un unico fine, che è Dio stesso. Questa dottrina, fondata su poche ma comuni esperienze, e ammirevole per la sua eleganza e semplicità, è stata la maggiore espressione, nel pensiero antico, di una sintesi delle conoscenze naturali. Di fronte ad essa, la F. atomistica degli Epicurei e la F. pan- teistica degli Stoici hanno più carattere di specula- zione che di conoscenza scientifica. Tale infatti è il giudizio che ne fecero gli scienziati antichi, i quali le trascurarono completamente, per rifarsi invece costantemente alla F. aristotelica: sulla quale To- lomeo stesso (I1 secolo) innestò la sua astronomia. La F. aristotelica ha dominato incontrastata per molti secoli; e nonostante i dubbi che alcuni sco- lastici del sec. xiv avanzarono su di essa, il suo FISICA abbandono si ha soltanto con Leonardo, Copernico, Keplero e Galilei, ai quali è dovuta la prima orga- nizzazione della scienza moderna. 2° Il secondo concetto fondamentale della F. è quello che la considera come lo studio dell’ordine sperimentabile della natura. A questo concetto hanno contribuito gli Aristotelici del Rinascimento con la difesa della necessità dell’ordine naturale; i Platonici dello stesso Rinascimento, e specialmente Cusano, con l’affermazione del carattere matema- tico dell'ordine naturale; infine la magia con la sua pretesa di attingere ed esercitare un dominio effettivo sulla natura. Il concetto della natura, che è già chiaro in Galilei, è quello di un ordine ogget- tivo, scritto in caratteri matematici, necessario e privo di finalità, attingibile mediante l’esperimento. Su questo concetto di ordine si fondava la nozione di armonia che Keplero poneva a base della scienza della natura (Hermonices mundi, 1619, IV, 1). L’opera di Newton portava alla sua maturità il corrispondente concetto della fisica. Còmpito della F. diveniva esplicitamente e unicamente la descri- zione dell'ordine naturale. La F. aristotelica, come teoria del movimento, era diretta allo studio delle cause del movimento: le quali cause coincidevano con le sostanze (forme o cause finali) delle cose. Newton chiariva il senso nel quale la determina- zione dell’ordine naturale deve essere oggetto della scienza, proprio negando, in polemica con la scienza aristotelica, che la F. fosse scienza delle cause (Optice, 1740, III, q. 31). Nel 1764 Kant così de- scriveva il concetto newtoniano della scienza: « Con esperienze sicure e nel caso anche con l’ausilio della geometria, si devono ricercare le regole se- condo le quali si svolgono certi fenomeni della natura » (Untersuchung ilber die Deutlichkeit de Grundsdtze der natiirlichen Theologie und der Moral, 1763, II). Queste regole sono le leggi naturali: leggi che delineano l’ordine dei fenomeni naturali cioè il modo necessario, perciò uniforme e costante, in cui essi si connettono l’uno con l’altro. De- scrivere questa connessione è il compito della fisica. L’illuminismo e il positivismo fecero pre- valere questo concetto della F.: sul quale insi- steva D'Alembert (É/ements de phil., 1759, $ 4) e che è alla base della nozione della scienza espressa da Comte. « Il carattere fondamentale della F. po- sitiva, diceva quest’ultimo, è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a /eggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al mi- nimo numero possibile sono gli scopi di tutti i nostri sforzi, considerando come assolutamente inaccessi- bile e priva di senso la ricerca di quelle che si chia- mano cause, sia primarie sia finali » (Cours de Phil. Positive, lez. I, $ 4). Le leggi non sono infatti altro che le espressioni dell’ordine necessario della natura. 411 Il concetto della F. come teoria dell’ordine na- turale si contrappone al concetto della F. come teoria del movimento per la sua pretesa di limitarsi a descrivere la natura nel suo ordine invece che a spiegarla nelle sue cause. Da Newton in poi la descrizione viene opposta alla spiegazione, come còmpito proprio della fisica. Oppure, il che ha lo stesso significato, si considera la spiegazione cui la F. deve legittimamente aspirare come la determina- zione di un rapporto tra due fenomeni in confor- mità di una legge: il che è per l’appunto ciò che, sotto un altro aspetto, è una semplice descrizione. Questo concetto della F. ha pertanto, come sua caratteristica propria, il riconoscimento delle con- nessioni necessarie tra i fenomeni, nelle quali si concreta o prende corpo l’ordine naturale, nonchè la credenza nella sperimentabilità, cioè accertabi- lità empirica, di tale connessione. Il concetto del- l’ordine naturale coincide con quello della causalità necessaria (v. CAUSALITÀ) e pertanto con quello della prevedibilità infallibile dei fenomeni naturali. Se la natura è l’ordine necessario, la F. come studio di quest’ordine può stabilire regole che consentono la previsione infallibile dei fenomeni. Questa è la credenza che ha costituito la base della F. classica sino ai primi decenni del sec. xx e che ha sorretto altresì l'ipotesi fondamentale sulla quale essa si reggeva: il meccanicismo (v.). Questa ipotesi aveva fra l’altro il vantaggio di rendere possibile una descrizione visuale del corso dei fenomeni: una descrizione cioè che faceva appello a immagini vi- sive e pretendeva di rappresentare con tali imma- gini (cioè mediante particelle in movimento) la struttura effettiva dei fenomeni. Ma proprio da questa pretesa cominciarono a sorgere le prime difficoltà, quando, con la F. relativistica, il concetto di campo (v.) cominciò a sostituire la rappresenta- zione visiva delle particelle in movimento. « Oc- correva una coraggiosa immaginazione scientifica, notano Einstein e Infeld, per riconoscere che l’es- senziale per l'ordinamento e la comprensione degli eventi può essere non già il comportamento dei corpi bensì il comportamento di qualcosa che si interpone fra di essi, vale a dire del campo » (The Evolution of Physics, IV; trad. ital., pag. 302). La F. quantistica costituiva un passo ulteriore nella distruzione della possibilità di una descrizione vi- sualizzante. Notava Bohr: « Nell’adattamento del- l’esigenza relativistica al postulato del quantum dobbiamo prepararci ad andare incontro a una rinuncia alla visualizzazione (nel senso ordinario del termine) ancora più radicale di quella incontrata nella formulazione delle leggi quantiche considerate finora. Noi ci troviamo qui sul cammino intrapreso

da Einstein nell’adattare i nostri modi di percezione, desunti dalle sensazioni. alla conoscenza gradual- 412 mente più approfondita delle leggi di natura» (Atomic Theory and the Description of Nature, 1934, pag. 90). La rinuncia alla visualizzazione era in realtà anche la rinuncia alla descrizione; giacchè l'impossibilità di visualizzare l’intero corso dei fe- nomeni non è che l’impossibilità di descrivere il loro ordine necessario nella sua interezza. Difatti questa impossibilità fu riconosciuta nella F. con l'introduzione del cosiddetto « principio di inde- terminazione » di Heisenberg (1927) con il quale la causalità rigorosa dei fenomeni fisici veniva per la prima volta negata, stante l’impossibilità di pre- vedere con esattezza il comportamento della parti- celle atomiche singole (v. CAUSALITÀ; INDETERMI- NAZIONE). Caduta la pretesa della causalità rigorosa e per conseguenza quella della descrizione dell’or- dine totale dei fenomeni, la F. non poteva più essere intesa come una teoria dell’ordine necessario della natura. 3° Il terzo concetto della F., che si è venuto delineando a partire dal 1930, fa leva su di una determinazione che era già ritenuta fondamentale dalla nozione della F. che l’ha preceduta. Già Comte infatti sulle orme di Bacone, aveva insistito sulla esigenza della scienza di stabilire previsioni che consentano il dominio sulla natura. « Scienza, donde previsione; previsione, donde azione +, aveva detto (Cours de Phil. Positive, lez. II, $ 3). Nel 1894 Hertz nei suoi Principi di meccanica insisteva sullo stesso concetto: « Il più diretto e in un certo senso il più importante problema che la nostra consapevole conoscenza della natura deve renderci capaci di risolvere è l’anticipazione degli eventi futuri, per la quale possiamo organizzare le nostre faccende presenti sulla base di tale anticipazione ». A_ misura che il còmpito della descrizione totale dell’ordine degli eventi veniva considerato fuori delle possibi- lità effettive della F., il còmpito della previsione acquistava un sempre maggiore rilievo. Il limitarsi a questo compito ha accresciuto enormemente il potere d’azione o di trasformazione della fisica. Il principio di complementarità espresso da Bohr nel 1927 segna l’abbandono definitivo, da parte della F., della sua pretesa di valere come teoria dell’ordine necessario. Quel principio infatti dice che: « Una descrizione spazio-temporale rigorosa e una con- nessione causale rigorosa dei processi individuali non possono essere realizzati simultaneamente: o l'una o l’altra dev'essere sacrificata ». Questo vuol dire che la catena delle cause e degli effetti potrebbe essere quantitativamente verificata solo se l'intero universo fosse considerato con un unico sistema; ma in questo caso la F. sarebbe svanita e rimarrebbe solo uno schema matematico (HEISENBERG, Die phy- sikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Da questo punto di vista, mentre non può FISICALISMO essere descritto l’intero corso di un fenomeno, si può calcolare con esattezza il risultato di una os- servazione futura. « Ad un certo istante, dice Hei- senberg, si misurino certe grandezze fisiche tanto esattamente quanto è possibile in linea di principio; si hanno allora in ogni istante successivo grandezze il cui valore può essere calcolato esattamente, cioè per le quali il risultato di una misura può essere predetto con esattezza, purchè il sistema da osser- varsi non sia sottoposto ad alcuna perturbazione tranne la misura stessa » (7bid., IV, $ 1). Dirac ha espresso lo stesso concetto della F. dicendo: «Il solo oggetto della F. teorica è di calcolare risultati che possono essere paragonati con l’esperimento ed è del tutto inutile che sia data una descrizione soddisfacente dell’intero sviluppo del fenomeno» (Principles of Quantum Mechanics, 1930, pag. 7). La F. si è così trasformata interamente in una teoria della previsione degli eventi osservabili e ha abbandonato le esigenze descrittive della sua se- conda fase, oltre che quelle esplicative della sua fase anteriore. Dal punto di vista filosofico, questo carattere fondamentale della F. contemporanea è stato perfettamente espresso dallo stesso Heisenberg quando ha detto che la F. del nostro tempo non ci fornisce più « una immagine della natura, ma una immagine dei nostri rapporti con la natura » (Das Naturbild der heutigen Physik, 1955, pag. 21). FISICALISMO (ingl. Physicalism; franc. Phy- sicalisme; ted. Physikalismus). Nome proposto da Neurath (in « Erkenntnis», 1931, pag. 393) come denominazione del Circolo di Vienna, che vedeva nel linguaggio il campo d°’indagine della filosofia, per sottolineare il carattere fisico del linguaggio. Il termine fu accettato da Carnap per indicare il primato del linguaggio fisico e la sua capacità di valere come il linguaggio universale: « Il linguaggio della fisica, dice Carnap, è un linguaggio universale, che comprende i contenuti di tutti gli altri linguaggi scientifici. In altri termini, ogni proposizione di una branca del linguaggio scientifico è equipollente ad alcune proposizioni della lingua fisicalistica e può essere pertanto tradotta in essa senza mutare il suo contenuto» (Philosophy and Logical Syntax, 1935, pag. 89). Questa traducibilità di ogni propo- sizione significante in una proposizione della fisica è ciò che si è chiamato F.: il quale ha costituito l’idea direttiva della Enciclopedia della scienza uni- ficata (v. EMPIRISMO LOGICO; ENCICLOPEDIA). Carnap ha tuttavia, in un secondo momento, interpretato il F. come la riducibilità di tutte le espressioni lin- guistiche significative al linguaggio cosale (v.), piut- tosto che a quella particolare forma del linguaggio cosale che è il linguaggio fisico (« Testability and Meaning *, in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag. 69-70). FONDAMENTO FISICA SOCIALE (ingl. Socia/ Physics; fran- cese Physique sociale; ted. Sozial Physik). Con questo nome Comte indicò lo studio dei fenomeni sociali, cioè la sociologia; della quale egli per primo affermò l'autonomia scientifica (Cours de Phil. Positive, lez. 46) (v. SOCIOLOGIA). FISICO-TEOLOGICA, PROVA. V. Dio, PROVE DI. FISIOCRAZIA. V. ECONOMIA POLITICA. FISIOGNOMICA (gr. queroyvopla; ingl. Phy- siognomonics; franc. Physiognomonie; ted. Physiogno- mik). È l’arte di giudicare dall’apparenza visibile di un uomo e specialmente dai tratti del viso, il suo ca- rattere, cioè il suo modo di sentire e di pensare. Ari- stotele (seguito da molti scrittori antichi e medievali) aveva già ammessa la possibilità di giudicare la natura di una cosa sulla base della sua forma cor- porea (An. Pr., II, 27, 70b 7). Cicerone parlava di un fisionomista Zopiro che si vantava di cono- scere la natura e il carattere di un uomo con l’esame del suo corpo, cioè dei suoi occhi del suo volto e della sua fronte (De Fato, V, 10). Ma fu soprat- tutto nel Rinascimento che quest'arte fu coltivata in particolare, a cominciare da Giambattista della Porta che nel 1580 pubblicava un libro Sulla F. umana. A quest’arte fu data grande diffusione nel *700 da Lavater (Frammenti F., 1775-78). Kant stesso riconosce il valore della F. (Antr., II, cap. III). Hegel la distingue con lode dalle cattive arti e dai vani studi perchè essa afferma l’unità dell’interno e dell’esterno (Phanomen. des Geistes, I, parte I, cap. V; trad. ital., pag. 281). Ed anche in tempi mo- derni la F. trova sostenitori non solo tra psicologi e caratteriologi ma anche tra filosofi. Spengler ha detto: «La morfologia di ciò che è meccanico ed esteso, una scienza che scopre e ordina rapporti causali, si chiama sistematica. La morfologia di ciò che è organico, della storia e della vita, di tutto ciò che reca in sè direzione e destino, si chiama F.» (Untergang des Abendlandes, 1, pag. 134). R. Kassner ha addirittura affermata l’identità della psicologia con la F., sul fondamento che la vecchia distinzione tra essere e apparire non ha valore: «La psicologia deve quindi essere F., e qualsiasi altra è tediosa e banale, giacchè, tutto consistendo nella visione, nulla ha più bisogno di venir sondato oppure sco- perto togliendo uno strato dopo l’altro di parvenze » (Das physiognomische Weltbild, Intr.; trad. ital., in Gli elementi dell’umana grandezza, 1942, pag. 61 e seguenti). FISIOGNOSI (ingl. Physiognosy). Termine ado- perato da Peirce per indicare il complesso delle scienze fisiche (Coll. Pap., 1.242). FISIOLOGIA (ingl. Physiology; franc. Physio- logie; ted. Physiologie). Nel senso in cui Aristotele e altri scrittori antichi usano la parola, studio della 413 natura: lo stesso che fisica. In questo senso ha anche usato talvolta la parola Kant (Cri. R. Pura, Dottr. trasc. del met., cap. III). FISIOLOGIA PSICOLOGICA o PSICO- FISIOLOGIA. V. PsicoLOGIA, B). FISSISMO. Termine che non trova riscontro nelle altre lingue, col quale si indica la dottrina dell’immutabilità delle specie viventi, in contrap- posto con evoluzionismo (v. EVOLUZIONE). FOLLIA. V. PAZZzia. FONDAMENTO (gr. altia, x6y0g; lat. Ratio; ingl. Foundation; franc. Fondement; ted. Grund). La causa nel senso di ragion d’essere. Questo è uno dei significati principali del termine « causa » e pre- cisamente quello per il quale essa contiene la spie- gazione e giustificazione razionale della cosa di cui è causa. Dice Aristotele: « Noi crediamo di conoscere un oggetto singolo assolutamente — cioè non accidentalmente o in modo sofistico — quando crediamo di conoscere la causa per la quale la cosa è, e di conoscere che essa è causa della cosa e che questa non può essere altrimenti» (Ana/. post., I, 2, 71b 8). In questo senso la causa è ragione, logos (De part. an., 1, 1, 639 b 15): giacchè fa com- prendere non soltanto l’accadere di fatto della cosa ma il suo « non poter essere altrimenti » cioè la sua necessità razionale. Nella dottrina aristotelica per- tanto, come in tutte quelle che dipendono da essa, la causa-ragione è un concetto ontologico che esprime la necessità propria dell'essere in quanto sostanza. In questo stesso senso adopera Hegel il concetto: « Il F., egli dice, è l’essenza che è in sè e questa è essenzialmente F.; e F. è soltanto in quanto fondamento di qualcosa, di un altro» (Enc., $ 121). Difatti in questo senso il F. è « l’es- senza posta come totalità» (/bid., $ 121) cioè la ragione della necessità di una cosa, come riteneva Aristotele. Per opera di Leibniz, tuttavia, la nozione aveva acquistato un significato diverso e specifico per il quale si distingue nettamente da quella di causa essenziale o sostanza necessaria. Passa cioè a de- signare una connessione priva di necessità e tuttavia tale da fare intendere o giustificare la cosa; e il principio di questa connessione viene chiamato principio di ragion sufficiente (Principium rationis sufficientis, Satz vom zureichenden Grunde). Leibniz giunge alla formulazione di questo principio at- traverso la contrapposizione tra la connessione li- bera ma determinante e la connessione necessitante. Egli dice: « La connessione o concatenazione è di due specie: l’una è assolutamente necessaria, tale cioè che il suo contrario implica contraddizione, e tale connessione si verifica nelle verità eterne come sono quelle della geometria; la seconda non è ne- cessaria che ex Aypothesi e per così dire per acci- 414 dente ed è contingente in se stessa, giacchè il suo contrario non implica contraddizione ». Questa se- conda connessione si verifica nel rapporto tra una sostanza individuale e le sue azioni: per es., il fondamento del fatto che Cesare passò il Rubicone si trova indubbiamente nella stessa natura di Ce- sare, ma ciò non dice che quel fatto sia necessario in se stesso o che il suo contrario implichi contrad- dizione. Allo stesso modo Dio sceglie sempre il meglio, ma lo sceglie liberamente e il contrario di ciò che sceglie non implica contraddizione. « Ogni verità fondata su questi tipi di decreti è contingente, per quanto sia certa, perchè questi decreti non mutano affatto la possibilità delle cose; e per quanto Dio, come ho già detto, scelga sempre in- dubbiamente il meglio, ciò non impedisce che ciò che è meno perfetto non sia e non rimanga possi- bile in se stesso, benchè non accadrà, dato che non è la sua impossibilità che lo fa respingere ma la sua imperfezione. Ora, nulla è necessario il cui opposto sia possibile » (Discours de Métaphysique, 1686, $ 13). Come appar chiaro da questi testi di Leibniz, il F. o ragion sufficiente ha una capacità esplicativa diversa dalla causa o ragion d’essere di Aristotele. Quest'ultima infatti spiega la necessità delle cose, il perchè la cosa non possa essere altri- menti da com'è. Il fondamento o ragion sufficiente spiega la possibilità della cosa, cioè spiega perchè la cosa può esser o comportarsi in un certo modo. Proprio per questo Leibniz destinò il principio di ragion sufficiente a fondamento delle verità contin- genti, continuando ad ammettere, come aveva fatto Aristotele, il principio di contraddizione come base delle verità necessarie (De scientia universali, in Opera, ed. Erdmann, pag. 83). Tuttavia, soltanto Cristiano Wolff riconobbe al principio del F. (o principio di ragion sufficiente) il rango di principio della intera filosofia e del metodo di essa. Proprio sulla base di esso Wolff infatti definiva la filosofia come «scienza delle cose possibili in quanto pos- sono esistere » (Lop., Disc. prael., $ 29) e vide il còmpito fondamentale di essa nel dare la « ragione per cui le cose possibili possono conseguire l’es- sere » (/bid., $ 31). Da questo punto di vista, tutta l’attività filosofica consiste nella determinazione del F. (ratio, Grund), intendendosi per F. «la ra- gione per cui qualcosa è o accade» (Zbid., $ 4). Woiff tuttavia riconduceva il principio di ragion sufficiente ad un significato necessaristico. Egli di- stingueva difatti il principium essendi che contiene la ragione della possibilità della cosa dal principium fiendi (o dell'accadere) che contiene la ragione della realtà (Ont., $ 874). E distingueva dall’altro lato il principium cognoscendi con il quale intendeva «la proposizione mediante la quale si intende la verità di un’altra proposizione » (/bid., $ 876). Ora FONDAMENTO è chiaro che sia il principium fiendi (che è poi il principio di causalità) sia il principium cognoscendi (che è poi la dimostrazione) hanno un carattere necessitante. Lo stesso carattere il principio as- sume nell’opera di Baumgarten, che tende a ri- condurlo a quello di contraddizione (Mer., $ 20). Questa tendenza prevaleva all'interno della scuola wolffiana (cfr. Cassirer, Erkenntnissproblem, VII, cap. 3; trad. ital., II, pag. 596 sgg.) e fu soltanto contrastata da Crusius, che insisteva sulla distin- zione del principio di ragion sufficiente dal prin- cipio di causalità, proprio per escludere dal primo il carattere necessitante (De usu et limitibus principii rationis determinantis, 1743, $ 4): una correzione che Kant accettava in uno dei suoi primi scritti (Principiorum Primorum Cognitionis Metaphysicae Nova Dilucidatio, 1755). Dopo di Crusius tuttavia il carattere non necessitante del principio di ragion sufficiente, cioè quel carattere che aveva convinto Leibniz ad ammetterlo come un principio a sè, andò del tutto smarrito. La stessa distinzione sta- bilita da Crusius tra principio di ragion sufficiente e principio di causalità servì a considerare i due princìpi come due espressioni del principio di ne- cessità. Questa fu appunto la via tenuta da Scho- penhauer nel suo scritto Die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (1813). Schopen- hauer enumerava quattro forme del principio di ragion sufficiente; cioè, accanto alle due distinte da Crusius, poneva il principio di ragion sufficiente del- l'essere, che regola i rapporti fra gli enti matematici e il principio di ragion sufficiente dell’agire, che regola i rapporti fra le azioni e i loro motivi. Il carattere non necessitante del F. è tuttavia oscura- mente riconosciuto nelle utilizzazioni metafisiche che sono state fatte di esso. Schelling nelle Unter- suchungen liber das Wesen der menschlichen Freiheit (1809) intese per F. la brama o volontà di vivere da cui dipende l’esistenza sia dell’uomo che di Dio. Il F. in questo senso non è, ovviamente, una causa necessitante. In un senso analogo Heidegger ha detto: «la libertà è il F. del F.». «La libertà, egli spiega, in quanto è il fondo di questo F. è anche l’abisso (senza fondo) dell’Esserci. Non che sia infondato il singolo libero rapportamento, ma nel senso che la libertà, nella sua essenziale natura di trascendenza, pone l’Esserci, come poter essere, in possibilità le quali si distendono innanzi alla sua scelta finita, cioè nel suo destino » (Vom Wesen des Grundes, 1928, IIl; trad. ital., pag. 77-78). In altri termini, il F. è per l’esistenza umana quel radi- carsi nel mondo per cui le possibilità progettate sono limitate e comandate dal mondo stesso. Il F. esprime il condizionamento che il mondo esercita sull’uomo in virtù del radicarsi stesso dell’uomo nel mondo. FORMA Affiora chiaramente da questi testi il tratto ca- ratteristico della nozione in esame, che è quello di esprimere un condizionamento non necessitante. Questo è infatti il significato più comune e gene- rale del termine sia nel linguaggio comune che in quello filosofico. Il F. è ciò che dà ragione di una preferenza, di una scelta, della realizzazione di una alternativa piuttosto che un’altra. Si parla di F. ogni qualvolta la preferenza o la scelta è giustifi- cata o la realizzazione dell’alternativa è spiegabile. Similmente un principio « fondamentale » è un prin- cipio che stabilisce la condizione prima e più ge- nerale perchè qualcosa possa esserci; e una scienza fondamentale è quella che contiene le condizioni che rendono possibili le altre scienze (e in questo senso Wolff chiamava Grundwissenschaft l’onto- logia). Si può dire pertanto che nell’uso moderno la parola ha un significato non diverso da con- dizione (v.). L’illuminismo tedesco del *700, che ha elaborato il concetto di F., ha anche elaborato la nozione del metodo del F. (ted. Grundlichkeit) di cui lo stesso Wolff ha dato le regole nel IV capitolo del Discorso preliminare della Philosophia rationalis e che Kant così riassumeva nella prefazione alla se- conda edizione della Critica della Ragion Pura: «Ci toccherà un giorno, nel sistema futuro della metafisica, di seguire il metodo del celebre Wolff, il più grande dei filosofi dogmatici il quale per primo diede l’esempio (e per questo esempio di- venne in Germania il creatore di quello spirito di Grundlichkeit che non si è ancora smarrito) di come si possa prendere il sicuro cammino della scienza stabilendo regolarmente i princìpi, deter- minando chiaramente i concetti, cercando il rigore delle dimostrazioni e rifiutandosi ai salti nel trarre le conseguenze +». Il metodo della fondazione con- siste nell’addurre il F., cioè la ragione giustificativa, di ogni passo del filosofare; ed è il metodo dal quale ancora la filosofia può attendersi una salva- guardia dall’arbitrio. FORMA (gr. uoppf, el8oc; lat. Forma; inglese Form; franc. Forme; ted. Form). Il termine ha i seguenti significati principali: 1° L’essenza necessaria o sostanza delle cose che hanno materia. In questo senso che è quello aristotelico la F. non soltanto si oppone alla ma- teria, ma la richiama. Aristotele adopera pertanto questo termine in riferimento alle cose naturali che sono composte di materia e F.; e osserva che la F. è «natura » più della materia giacchè di una cosa si dice che è ciò che essa è in atto (la F.), piuttosto che ciò che è in potenza (Fis., Il, 1, 193b 28; Met., IV, 1015 a 11). Da questo punto di vista non possono dirsi F. le sostanze immobili (Dio e le in- telligenze motrici) che sono prive di materia; ma 415 sono F. le sostanze naturali in movimento. Di qui la polemica condotta da Aristotele contro il plato- nismo, allo scopo di affermare l’inseparabilità della F. della materia. Gli Scolastici non si sono attenuti rigorosamente a questa terminologia aristotelica e hanno esteso il termine F. a ogni sostanza, parlando di « F. separate » per indicare le idee esistenti nella mente di Dio (ALBERTO Magno, S. 7h., I, q. 6; S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 15, a. 1) e di «F. sussi- stenti » per indicare gli angeli che sono privi di corpo e così di materia (S. Tommaso, .S. 7h., I, q. 50, a. 2). Essi inoltre parlavano di « F. sostan- ziali o di F. accidentali» (/bid., I, q. 76, a. 1) la quale ultima espressione è, da un punto di vista aristotelico, poco meno che contraddittoria. Gil- berto Porretano (sec. xn) aveva distinto nel De sex principiis le F. inerenti, corrispondenti alle quattro prime categorie aristoteliche (sostanza, qua- lità, quantità, relazione) e le F. assistenti che cor- rispondono alle altre categorie aristoteliche e co- stituiscono caratteri non costituenti la sostanza delle cose. In ogni caso, la F. conserva i caratteri che Aristotele le aveva riconosciuti: è la causa 0 ragion d’essere della cosa, ciò per cui una cosa è quello che essa è; è l’atto o l’attualità della cosa stessa, perciò il principio e il fine del suo divenire. Il concetto di F. così inteso è stato ed è adope- rato anche fuori dell’aristotelismo e dei suoi deri- vati. Non possiede determinazioni diverse da quelle accennate, la F. di cui parla Bacone come oggetto proprio della scienza naturale: questa F. è atto e causa efficiente, proprio come la F. aristotelica (Nov. Organ., II, 17) e si distingue da questa sol- tanto perchè non si lascia afferrare, come riteneva Aristotele, dal procedimento deduttivo o dall’in- telletto intuitivo ma solo dall’induzione sperimen- tale. Al significato tradizionale della parola fa riferimento Cartesio quando nega che esistano «quelle F. o qualità di cui si disputa nelle scuole » (Discours, V). E nello stesso significato è assunta da Bergson quando afferma che «la F. è un’istantanea presa su di una transizione » cioè una specie di immagine media cui si avvicinano le immagini reali nel loro mutamento e che viene assunta come «l’essenza della cosa o la cosa stessa » (Évol. Créatr., IV ed., 1911, pag. 327). A questo concetto di F. si avvicina il senso in cui la parola è usata da Hegel, come «totalità delle determinazioni », che è poi l’essenza nel suo manifestarsi come fenomeno (Enc., $ 129). La F. in questo senso è il modo di manifestarsi dell’essenza o sostanza di una cosa in quanto quel modo di manifestarsi coincide con l’essenza stessa. Questo è il senso in cui Hegel usava la parola abitualmente, per es., quando diceva: « Il contenuto umano della 416 coscienza, prodotto dal pensiero, appare dapprima non in F. di pensiero, ma come sentimento, intui- zione, rappresentazione, F. che sono da distinguere dal pensiero come F.» (Enc., $ 2). Questo è preci- samente il senso nel quale Croce e Gentile hanno parlato di « forme dello spirito », sia per stabilirne sia per negarne la diversità. 2° Una relazione o un complesso di relazioni (ordine) che può mantenersi costante col variare dei termini tra i quali intercorre. Per es., la relazione « Se p, allora g + può essere assunta come la F. del- l’inferenza, perchè rimane costante quali che siano le proposizioni p e q tra le quali intercorre. Simil- mente si dice di solito che la matematica è una scienza formale nel senso che ciò che essa insegna non vale soltanto per certi insiemi di cose, ma per tutti gli insiemi possibili, vertendo appunto su certe relazioni generali che costituiscono l’aspetto for- male delle cose. In questo senso, la parola F. è stata per la prima volta usata da Tetens che intese per essa le relazioni che il pensiero stabilisce tra le rappresentazioni sensibili che costituirebbero, dal canto loro, ia « materia » del conoscere (Philoso- phische Versuche iber die menschliche Natur, 1776, I, pag. 336). Analoga distinzione Kant faceva nella dissertazione del 1770: « Alla rappresenta- zione appartiene, in primo luogo, qualcosa che si può chiamare materia e che è la sensazione e, in secondo luogo, ciò che si può chiamare F. o specie delle cose sensibili, la quale serve a coordinare, mediante una certa legge naturale del- l’anima, le varie cose che colpiscono i sensi + (De mundi sensibilis et intelligibilis forma et ratione, $ 4). Questa distinzione fra materia e F. divenne il punto di partenza dell’intera filosofia kantiana; ma Kant mantenne sempre fisso il significato di F. come relazione o complesso di relazioni cioè ordine. « L'elemento formale della natura, egli scrisse, per es., nei Prolegomeni ($ 17) è la regolarità di tutti gli oggetti dell’esperienza ». Analogamente la F. dei principi morali è il semplice rapporto in cui una legge si trova con gli esseri ragionevoli cioè la sua validità per tutti questi esseri, la sua univer- salità (Crir. R. Pratica, $ 4). Da Kant in poi il senso della parola è rimasto pertanto fissato in quello di relazione generalizzabile, ordine, coordinazione o, più semplicemente, universalità. In tal senso, Kant distingueva materia e F. nel concetto: «La materia del concetto è l’oggetto; la F. di esso è l’universalità » (Logik, Elementarlehre, $ 2). Questo è il senso in cui i logici si avvalgono oggi della parola per caratterizzare l'oggetto della loro scienza. Ad esso faceva riferimento Peirce (Coll. Pap., 4.611); e ad esso più recentemente fanno riferimento Strawson (/nir. to Logical Theory, 1952, pag. 4l), Prior (Formal Logic, 1955, $ 1) e Church (/ntro- FORMA duction to Mathematical Logic, 1956, $ 00). Carnap ha detto: « Una teoria, una regola, una definizione o simili dev'essere chiamata formale quando non fa alcun riferimento al significato dei simboli (per es., delle parole) o al senso delle espressioni (per es., degli enunciati) ma unicamente alle specie e all'or- dine dei simboli con le quali le espressioni sono costruite » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 1). Allo stesso significato di ordine o relazione si riconnette l’uso della parola F. (Gestalt) da parte della psicologia contemporanea quando intende sot- tolineare il fatto sperimentale che impressioni si- multanee non sono indipendenti l’una dall'altra come fossero pezzi di un mosaico, ma costituiscono un’unità che ha un ordine definibile (v. PSICOLOGIA). Nello stesso senso, Born ha proposto che siano con- siderate come «F. delle cose fisiche le invarianti delle equazioni, che hanno la stessa realtà oggettiva delle cose che ci sono familiari » (Experiments and Theory in Physics, 1943, pag. 12-13). Nell’estetica stessa c’è almeno un significato nel quale la pa- rola F. può essere ricondotta a quello di ordine od organizzazione delle parti; ed è il significato chiarito da Dewey: « Solo quando le parti costitutive di un tutto hanno l’unico fine di contribuire alla perfe- zione di un’esperienza cosciente, disegno e figura perdono il carattere sovrapposto e diventano F.+ (Art as Experience, cap. VI; trad. ital., pag. 140). Allo stesso significato si avvicina l’uso che della parola ha fatto Focillon: «Le relazioni formali in un’opera e tra le varie opere costituiscono un ordine, una metafora dell’universo + (Vie des Formes, 1934; trad. ital., pag. 53). In generale si può dire che, nell’ambito di questo significato, si passa alla considerazione della F. ogni qualvolta una certa relazione viene generalizzata cioè ritenuta valida per un certo numero di termini o di casi possibili; oppure quando si prescinde dai termini tra i quali un ordine intercorre per ritenere importante o si- gnificativo solo quest’ordine. 3° Una regola di procedura. In questo senso si parla di F. nel diritto, per il quale una « que- stione di F. » concerne il rapporto del caso in esame con le regole della procedura e non già il problema che costituisce la sostanza o il contenuto del caso. In modo analogo si dice «rispettare le F.» per indicare il rispetto delle regole delle buone maniere o simili. Talvolta il ricorso o l’appello alla « F.» esprime l’esigenza dell'autonomia di una proce- dura o di una tecnica determinata. Questo è, spesso, il significato dell’insistenza sul carattere formale dell’arte. Quando, nell’arte, l’appello alla F. non esprime l’esigenza della organizzazione e dell’or- dine (che è un ricorso al significato 2°) esprime l’esigenza che i procedimenti o le tecniche dell’arte siano indipendenti dai procedimenti o dalle tecniche FORMULA di altre attività come la conoscenza, la morale, ecc. (cfr. Croce, Breviario di Estetica, pag. 53). In questo senso, il passaggio alla considerazione for- male, in un certo campo, si ha quando si riconosce l'indipendenza delle tecniche adoperabili in questo campo da quelle proprie di altri campi. FORMA, PSICOLOGIA DELLA. V. Psi- COLOGIA. FORMALE (ingl. Formal; franc. Formel; te- desco Formal). 1. Corrispondentemente al significato 1° di forma: ciò che appartiene all’essenza o so- stanza della cosa, perciò: essenziale, sostanziale, at- tuale. In questo senso adoperano la parola gli Sco- lastici, nonchè Cartesio (Méd., III; ZI Réponses, def. IV) e Spinoza (Er., II, 8). A questo significato si riferisce anche l’uso che fa del termine Duns Scoto nelle espressioni « distinzione F.» o «ragione F.». La distinzione F. è infatti una distinzione di essenza o natura che però non implica una separazione numerica: essa intercede, per es., tra la natura comune e l’individualità delle cose o tra le varie perfezioni di Dio (Op. Ox., I, d. 8, q. 4, n. 17). 2. Corrispondentemente al significato 2° di forma: ciò che appartiene a una relazione genera- lizzabile o all'ordine o alla coordinazione delle parti. In questo senso la parola è adoperata nella logica, nella matematica moderna e in estetica. In logica questo termine è stato ampiamente usato, con un senso intuitivamente abbastanza chiaro ma non mai del tutto determinato. Nella Logica medievale formalis ha il significato fon- damentale di «inerente alla forma», quindi «es- senziale »; ma anche, di conseguenza, « universale ?, «valido per ogni contenuto empirico relativo ad una certa forma +; perciò, come ultimo significato, anche « indipendente dalla natura empirica dei con- tenuti ». È in questo senso che il termine è passato nella Logica moderna e contemporanea, in cui, a partire da Leibniz, i termini «forma» (per es., gli arguments en forme nella terminologia leibniziana) e « F. » stanno ad indicare certi schemi, formule, ecc., in cui i termini descrittivi sono sostituiti da simboli (« variabili ») e pertanto le proprietà, relazioni, con- seguenze, ecc., dello schema o formula vigono indipendentemente da ogni possibile designazione dei termini significativi in essa presenti. 3. Corrispondentemente al significato 3° della parola « forma »: ciò che appartiene alla procedura, sia essa quella legale o del galateo, ecc. G.P.-N. A. FORMALI, SCIENZE. V. Scienze, CLASSI- FICAZIONE DELLE. FORMALISMO (ingl. Formalism; franc. For- malisme; ted. Formalismus). Ogni dottrina che faccia appello alla forma, in uno qualsiasi dei significati del termine. Verso la fine del sec. xv si chiamarono « formalisti» i seguaci della metafisica di Duns 27 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 417 Scoto, i quali si opponevano ai « terministi », se- guaci di Ockham (GERson, De conceptibus, pag. 806). F. è stato chiamato il punto di vista kantiano nell’etica perchè fa appello alla forma generale delle massime, prescindendo dai fini cui sono di- rette. F. è stato chiamato in matematica il procedi- mento che intende prescindere da qualsiasi signifi- cato dei simboli matematici e perciò specialmente l’indirizzo di Hilbert. F. si chiama pure l’accentua- zione dell'importanza della procedura nel diritto o di certe regole di comportamento nei rapporti tra gli uomini. FORMALIZZATO, LINGUAGGIO. V. Sr STEMA LOGISTICO. FORMALIZZAZIONE (ingl. Formalisation; franc. Formalisation; ted. Formalisation). Questo termine è caratteristico della logica e della filosofia della scienza contemporanea. Con «F. di una teoria » si intende il procedimento con il quale viene costruito un sistema meramente sintattico di simboli S, retto da alcuni assiomi (ed, eventual- mente, da regole operative di formazione e deriva- zione delle formule) dai quali, secondo le regole sintattiche del sistema stesso, si fanno derivare formule che risultino trasformazioni tautologiche del gruppo di assiomi. Questo sistema sintattico puro S costituisce una F. di una data teoria 7 (per es., dell’aritmetica dei numeri interi, o della teoria degli insiemi, o del calcolo logico elementare) quando 7 risulti essere una interpretazione vera, e possibilmente Z-vera, di S. In generale tutte le teorie fondamentali delle matematiche pure con- temporanee hanno ricevuto F.; rimane ancora non del tutto risolto il problema della F. della logica, e in genere dei metalinguaggi impiegati per la F. delle teorie matematiche stesse. Tra l’altro, una delle maggiori difficoltà di tale formalizzazione di secondo grado è data da un noto teorema (di Gédel) per cui una teoria formalizzata non può contenere la prova della propria non-contradditto- rietà (v. ASSIOMATIZZAZIONE; MATEMATICA). G. P. FORMAZIONE (ted. Bildung). Nel significato specifico che questa parola assume in filosofia e in pedagogia, in relazione con il termine tedesco cor- rispondente, essa indica il processo di educazione o di civilizzazione, che si esprime nei due significati di cultura; intesa da un lato come educazione, dall’altro come sistema di valori simbolici (vedi CULTURA). FORME, PLURALITÀ DELLE. V. Aco- STINISMO. FORMULA (ingl. Formula; franc. Formule; ted. Formel). 1. L’elemento di un calcolo (v.). In questo senso la F. si distingue dalla proposizione che è l’elemento di un sistema semantico (CARNAP, Foundations of Logic and Mathematics, $ 9). 418 2. Lo stesso che enunciato o proposizione. 3. Più in generale: una sequenza finita lineare di simboli primitivi. Così ha definito la formula A. Church, che ha chiamato «F. ben formata» quella che risponde a certe regole fondamentali di un linguaggio (/ntr. to Mathematical Logic, 1956, $ 7). FORMULA IDEALE. Così Gioberti chiamò «la proposizione che esprime l'/dea in modo chiaro, semplice e preciso » cioè la seguente: « L’Ente crea l'esistente, l’esistente ritorna all’Ente + (Zrnr. allo studio della filosofia, 1840, II, pag. 147, 174; III, pag. 3). La F. I. esprime il concetto neoplatonico della derivazione del mondo da Dio e del ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo. FORO INTERIORE (franc. For intérieur). L'espressione deriva dalla vecchia frase francese, tuttora in vigore, e significa il tribunale della coscienza (v.). FORONOMIA (ingl. Phoronomics; franc. Pho- ronomie; ted. Phoronomie). Parola coniata da Lam- bert per indicare la dottrina che studia le leggi del movimento (Neues Organon, 1764) e ripresa da Kant in un senso analogo (Meraphysische Anfangs- grilnde der Naturwissenschaft, 1786). FORTEZZA. V. Coragoro. FORTUITO. Ciò che è dovuto alla fortuna o al caso (v.). FORTUNA (gr. viyn; lat. Fortuna; ingl. For- tune; franc. Fortune; ted. Glick). Secondo Aristo- tele si distingue dal caso (v.) perchè si verifica nel dominio delle azioni umane e perciò non possono andare incontro a F. o a sfortuna gli esseri che non possono agire liberamente. « Gli esseri inani- mati, le bestie, i bambini, non fanno niente per F. perchè non hanno scelta; e la buona o la mala F. si attribuisce ad essi soltanto per similitudine, al modo in cui Protarco disse che le pietre di un altare sono fortunate perchè sono onorate mentre le loro com- pagne sono calpestate dai piedi» (Fis., II, 66,197 b 1). Questo significato si è mantenuto anche nell’uso moderno della parola. Il suo concetto filosofico è pertanto lo stesso di quello di caso (v.). FORZA (lat. Vis; ingl. Force; franc. Force; ted. Kraft). Propriamente l’azione causale, non in quanto esplicativa o giustificativa (come ragion d’essere) ma in quanto produce immancabilmente il suo effetto. Quindi, più in generale, ogni tecnica atta a garantire immancabilmente un effetto o che pretenda di garantirlo. In tal senso si dice «il di- ritto come F. » 0 «lo Stato come F. » per sottolineare l’immancabilità della realizzazione del diritto o della volontà dello Stato. In tal senso Kant diceva che ci sono quattro specie di combinazioni della F. con la libertà e la legge: a) legge e libertà senza F.: anarchia; b) legge e F. senza libertà: dispotismo; c) F. senza libertà e senza legge: barbarie; 4) F. con FORMULA IDEALE libertà e legge: repubblica (An:r., II, Delineazione del carattere del genere umano, 2). In senso analogo Hegel parlava di « F. dell’esistenza » nel dominio delle relazioni giuridiche fra gli Stati, alludendo alla frase di Napoleone: «La repubblica francese non ha bisogno di riconoscimento » (Fil. del Dir., 331, Zusatz). La nozione di F. dev’essere considerata sotto due aspetti fondamentali e cioè: 1° nell’uso che la scienza ha fatto di essa; 2° nella interpretazione che la filosofia ne ha dato. 1° Considereremo qui la nozione di F. esclu- sivamente quale si è venuta configurando agli inizi della scienza moderna escludendo cioè dal suo ambito le nozioni di potenza, di causa efficiente o formale, di qualità occulta, ecc., cioè tutte le no- zioni di carattere metafisico o teologico cui si può retrospettivamente (e grossolanamente) riferire il termine forza. Tutti questi termini hanno infatti una portata storica e problematica completamente diversa dal termine in questione e tale che non può addurre alcuna luce sul suo significato o sui pro- blemi ad esso attinenti. Intenderemo perciò con il termine F. l’azione causale infallibile in quanto: a) venga ritenuta diversa o indipendente da qual- siasi agente o forma metafisica; è) venga ritenuta diversa o indipendente da qualsiasi forma o agente psichico; c) venga ritenuta suscettibile di trattamento matematico. La nozione di F. dev'essere anche te- nuta distinta da quella di energia, nonostante che gli stessi scienziati abbiano talora confusi i due termini parlando (come fecero, per es., Mayer e Helmholtz) di conservazione della F., laddove si trattava della conservazione dell'energia. In questo senso la nascita della nozione di F. si può scorgere nelle osservazioni di Keplero che con- siderò la virtù (virtus) cui sono dovuti i movimenti gravitazionali come soggetta a tutte le « necessità matematiche » (Astronomia nova, III, pag. 241) e negò che essa potesse essere identificata con l'anima (Mysterium Cosmographicum, 1621, in Opera, edi- tore Frisch, I, pag. 176). Ma la nozione fu esatta- mente definita solo quando fu esattamente definito, come principio fondamentale della fisica, il prin- cipio d'inerzia: cioè con Cartesio. Galilei si serve frequentemente della nozione (per es., nei Disc. sulle nuove scienze, in Op., VIII, pag. 155, 344, 345, 442, 447, ecc.) ma non la definisce perchè non defi- nisce neppure la nozione d’inerzia di cui egualmente si serve. Direttamente in rapporto con quest’ultima, la F. è definita da Cartesio. Egli dice: «La F. con cui un corpo agisce contro un altro corpo o resiste alla sua azione, consiste in questo solo che ogni cosa persiste sin che può nel medesimo stato in cui si trova, conformemente alla prima legge che è stata esposta [cioè alla legge d’inerzia]. Sicchè un corpo FORZA che è congiunto ad un altro corpo possiede una F. per impedire che ne sia separato; e quando ne è separato c’è qualche F. per impedire che gli sia congiunto; e così, quando esso è in quiete, ha una F. per rimanere in quiete e per resistere a ciò che potrebbe farlo cambiare; e così, se si muove, ha una F. per continuare a muoversi con la stessa velocità e verso la medesima banda » (Princ. Phil., II, 43). Ma colui che generalizzò la nozione di di F. e le dette un’espressione matematica precisa fu Newton. Il secondo principio della dinamica newtoniana cioè la proporzionalità tra la F. e l’accelerazione impressa (F= m a) fa della F. una relazione fra due grandezze, che non ha alcun ri- ferimento alle essenze o qualità nascoste delle quali lo stesso Newton dichiarava l’inutilità per la fisica. «Io intendo, egli diceva, dare soltanto una nozione matematica delle forze, senza considerare le loro cause o le loro sedi fisiche (Philosophiae naturalis Principia mathematica, 1760, pag. 5). La genera- lizzazione newtoniana consentiva di parlare di F. di gravità, come di F. elettrica o forza magnetica; sicchè nella seconda metà del xvm secolo il con- cetto di F. divenne uno dei più popolari e dif- fusi. Ma contemporaneamente esso suscitava le diffidenze degli scienziati, che spesso si rifiutavano di vedere in esso qualcosa in più della semplice relazione causale. D’Alembert osservava che se la relazione tra causa ed effetto è considerata, non di natura logica, ma fondata solo sull’esperienza, la F. a distanza (cioè la gravità) non rappresenta un enigma maggiore della trasmissione del mo- vimento attraverso l’urto: essa infatti non fa che esprimere, precisamente come quest’ultima, una relazione testimoniata dall’esperienza (Elements de phil., 1759, $ 17). Per gli stessi motivi, Maupertuis voleva che il concetto di F. come «causa della accelerazione » fosse eliminato dalla meccanica e sostituito dalle semplici determinazioni della mi- sura dell’accelerazione (Examen philosophique de la preuve de l’existence de Dieu, 1756, II, $ 23, 26). Kant non fa che esprimere lo stesso concetto quando dice che «la F. non è altro che il rap- porto della sostanza A a qualch’altra cosa 8» e che tale rapporto può essere solo dato dall’esperienza (De mundi sensibilis et intelligibilis forma et prin- cipiis, $ 28); o che la F. non è che «la causalità della sostanza + cioè « il rapporto del soggetto della causa- lità con l’effetto » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. II, sez. III, Seconda analogia dell’esperienza). Già da questo punto di vista l’interpretazione della F. come un agente causale misterioso e inaccessibile, quale si ritrova, per es., in Spencer (First Prin- ciples, $ 26) cade interamente fuori della scienza. Ma anche nel suo specifico significato galileiano o newtoniano la nozione di F. non esercitò a lungo 419 nella scienza un compito predominante. Già Leibniz aveva scoperto e chiarito il concetto di F. viva, che è il prodotto della massa per il quadrato della velo- cità: concetto che è il punto di partenza della mo- derna nozione di energia (Mathematische Schriften, ed. Gerhardt, VI, pag. 218 sgg.). La sua dottrina della superiorità della F. sulla materia, che fa da termine medio per la risoluzione della materia stessa nell’energia spirituale (v. oltre), è per l’ap- punto fondata su questo concetto di energia. Ma nel secolo successivo, la scoperta della conserva- zione dell’energia (1842) dovuta a Roberto Mayer e l’opera di Helmholtz e di Hertz condussero alla formulazione di quello che si chiamò l’energetismo della meccanica (cfr. PorNcARÉ, La science et l’hy- pothèse, pag. 148). L’energetismo nega che la F. sia « causa » del movimento e che perciò sia presente prima del movimento; e considera l’idea della energia anteriore a quella di forza. Quest'ultima è introdotta da una semplice definizione e le sue proprietà vengono dedotte dalla definizione e dalle leggi fondamentali. Nell’energetismo pertanto l’idea di F. non implica più alcuna difficoltà; è un sem- plice concetto convenzionale. Sulla stessa linea sono i Principi di meccanica (1894) di Hertz, che con- siderano come fondamentali soltanto le idee di tempo, spazio e massa, considerando derivata non solo l’idea di F. ma anche quella di energia. Il concetto di energia tuttavia conservava la sua im- portanza nella fisica, soprattutto in riferimento al concetto di campo (v.); mentre il concetto di F. rimaneva quello che l’energetismo aveva mostrato che fosse: un nome per definire certe relazioni fra alcune grandezze fisiche. Ha detto Russell a questo proposito: « Si suppone che la F. sia causa del- l’accelerazione... Ma l’accelerazione è una semplice finzione matematica, un numero, non un fatto fisico... Quindi una F., se è causa, è causa di un effetto che non ha luogo » (Principles of Mathema- tics, 1903, pag. 474). 2° Le interpretazioni filosofiche del concetto di F. seguono molto alla lontana e poco fedelmente lo sviluppo scientifico dello stesso concetto. Esse obbediscono tutte ad uno schema uniforme; con- sistono nel ricondurre la nozione di F. ad una esperienza umana. Questa riduzione può tuttavia avere un duplice significato. Può: a) essere intesa a giustificare la nozione stessa e a farne un con- cetto metafisico; 5) essere intesa a criticare la no- zione e a mostrarne, col carattere antropomorfico, la mancanza di fondamento. Leibniz è il capostipite dei tentativi nel primo senso, Locke lo è dei tenta- tivi nel secondo senso. a) Nel Système nouveau de la nature (1695) Leibniz racconta che, dopo essersi affrancato dal giogo di Aristotele, aveva creduto nel vuoto e 420 negli atomi ma che dopo molte meditazioni si era accorto che le unità ultime non possono essere ma- teriali e perciò non possono essere atomi di materia ma di spirito. « Bisognava dunque, egli aggiunge, riabilitare le forme sostanziali così screditate oggi- giorno ma in un modo che le rendesse intelligibili e che separasse l’uso che se ne deve fare dall’abuso che se n’è fatto. Trovai dunque che la loro natura consiste nella F. e che da questo segue qualcosa d’analogo alla coscienza e all’appetito; e che così bisognava concepirle ad imitazione della nozione che abbiamo delle anime» (Systéme, ecc., $ 3). Questo mostra il fondamento del primato che Leibniz ha poi sempre concesso alla nozione di F. nelle sue interpretazioni fisiche e metafisiche: la F. è qualcosa d’analogo alla coscienza (sentiment) e all’appetito cioè ad esperienze interne dell’uomo. Vero è che Leibniz intendeva per F. la vis activa che, come si è detto, è piuttosto energia. Ma la cosa non fa differenza dal punto di vista della sua metafisica, che è una metafisica della F. spirituale (cfr. Nouv. Ess., II, 21, $ 1). Questa dottrina di- venta l’archetipo di tutto l’indirizzo filosofico che ha avuto come suo secondo fondatore, ai princìpi del sec. xrx, Maine De Biran. Maine de Biran infatti assume la percezione interna e immediata, cioè la coscienza che l’io ha di sè, come F. volente ed attiva, come la rivelazione dello stesso carattere originario della realtà, che perciò appunto sarebbe essa stessa F. « La percezione interna o immediata, eglidice, è la coscienza di una F. che è il mio stesso io e che serve di tipo esemplare a tutte le no- zioni generali e universali di causa e di F. (Nouveaux essais d’anthropologie, 1823-24, in (Euvres, ed. Na- ville, III, pag. 5). Quasi contemporaneamente Scho- penhauer effettuava lo stesso passaggio dalla psi- cologia alla metafisica, riconoscendo come unica F. costituente l’essenza del mondo quella che l’uomo percepisce immediatamente in se stesso, cioè la volontà (Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819). Ciò va inteso nel senso che all'uomo appare come volontà quella stessa potenza attiva che nelle altre parti della natura si manifesta come F.: «Se quindi dirò: la F. che fa cadere a terra la pietra, nella sua essenza, in sè, e fuori di ogni rap- presentazione, è volontà; non si attribuirà a questa affermazione l’insano significato che la pietra si muova secondo un motivo conosciuto per il fatto che nell'uomo la volontà si manifesta in questo modo » (Die Welt, I, $ 19). Questa identificazione della F. di cui l’uomo è conscio nell’esperienza in- teriore con la F. che agisce nel mondo è e rimane alla base delle filosofie spiritualistiche. La dottrina di Bergson secondo la quale uno s/ancio vitale, che alla coscienza umana si rivela come durata reale, dà origine alla vita penetrando la materia e orga- FORZA nizzandola (Évol. créatr., cap. I) obbedisce alla stessa impostazione fondamentale. Ma a questa im- postazione obbediscono d’altronde anche le dottrine materialistiche: ammettere, come faceva, per ces., Haceckel (Die Weltratsel, 1899), un’unica F. che spieghi tutto il divenire dell’universo e che sia ana- loga a quella che si rivela alla coscienza dell’uomo significa obbedire alla stessa interpretazione della nozione di forza. b) Dall'altro lato la riduzione di questa no- zione a una esperienza interna ha talora significato una critica della nozione stessa perchè è stata as- sunta come un segno del suo carattere arbitrario. Locke a questo proposito aveva messo in luce la derivazione dell’idea del potere (Power) dalla ri- flessione dello spirito sulle sue stesse operazioni (Saggio, II, 21, 4). Berkeley, allo scopo di difendere la sua concezione dell’universo come linguaggio o manifestazione di Dio, fu a sua volta portato a togliere ai concetti della scienza il loro carattere realistico: « La F., la gravità, l’attrazione e simili termini, egli diceva, sono comodi allo scopo di ragionare e di effettuare calcoli sul movimento e sui corpi che si muovono ma non allo scopo di comprendere la natura del movimento stesso » (De Motu, $ 17; Siris, $ 234). Hume a sua volta mostrò che nè dall’esperienza interna nè da alcuna altra fonte lo spirito può attingere una chiara e reale idea di forza. « Noi ignoriamo è vero, disse Hume, la maniera con la quale i corpi operano l’uno sul- l’altro, e la loro F. o energia ci è del tutto incom- prensibile; ma siamo egualmente ignoranti della maniera o F. con la quale una mente, anche la suprema, opera sia su se stessa che sui corpi. Da che cosa, domando, riusciamo a farcene una idea?... Che cosa è più difficile concepire, che il moto nasca da un urto o che nasca da un atto di volontà? Tutto quello che sappiamo è la nostra ignoranza profonda in entrambi i casi » (/ng. Conc. Underst., VII, 1). Questa critica di Hume è rimasta classica e, per un certo aspetto, definitiva. Mach considerava come un «feticismo» l’uso del con- cetto di F. come d'altronde di quello di causa che egli voleva sostituito dal concetto di funzione (Analyse der Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag. 74; Popularwissenschaftlichen Vorlesungen, 1896, pa- gina 259; trad. ingl., 1943, pag. 254). Dall’altro lato il fatto che questo concetto abbia perduto nella scienza ogni còmpito lo sottrae anche all’in- teresse della critica metodologica. Esso si presenta oggi pertanto come un concetto scientifico anti- quato, che serve di pretesto (ma ormai sempre più raramente) a speculazioni metafisiche (cfr. Max JAMMER, Concepts of Force, 1957: opera ricca di informazione per quanto incerta e confusa nel de- limitare la nozione che ne è l’oggetto). FUNZIONALE FRECCIA (gr. 8tox6q=epvq Df che si legge: «p implica g» equivale per defini- zione a «non-p 0 g»; dove pe q stanno rispetti- vamente, per l’antecedente e il conseguente e il ferro di cavallo > sta per il segno dell’I. materiale. Corrispondentemente, si è chiamata /. formale quella che, oltre a rispondere alla condizione di validità dell’I. materiale, esige, per esser valida, altre con- dizioni. Negli esempi numerati di sopra solo l’(8) è una pura I. materiale perchè può essere espressa dicendo «0 x non è un genio filosofico o io sono l’imperatore della Cina ». Le altre, pur rispettando questa condizione, ne esigono (come si è visto) altre che ne costituiscono il fondamento. Sicchè si può dire che tutte le I. formali sono materiali, ma non tutte le I. materiali sono formali. L’I. ma- teriale sarà perciò definita dalla seguente tavola di verità (nella quale p e 9g stanno per proposizioni qualsiasi e V e F per vero e falso): P q P29 V V V V F F F V V F F V (v. TAVOLE DI VERITÀ). 474 L’I. materiale può apparire paradossale dal punto di vista del senso comune e delle scienze empiriche. Essa, per es., consente di riconoscere come vera I’I. «Se 2 x 2= $, allora New York è una città piccola +; e come falsa quest’altra «Se 2x 2=4 allora New York è una città piccola » (cfr. TARSKI, Introduction to Logic, 1941, $ 8) nelle quali non appare alcuna connessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente: ma la prima significa «0 2 x 2 non è = 5 o New York è una città piccola » e la seconda significa o 2 x 2 non è = 4 o New York è una città piccola ». L’I. mate- riale è soprattutto usata nelle matematiche e Hilbert ha fondato su di essa gli assiomi della logica delle proposizioni (« Die Logischen Grundlagen der Ma- thematik », in Mathematische Annalen, 1923, pa- gine 151-65). In forma di assioma, I’I. materiale significa che «il vero segue da ogni cosa + perché se q è vero di per sé stesso segue a qualsiasi p, non importa se vero o falso; e che «ogni cosa segue dal falso » perché se p è falso, da esso può seguire qualsiasi g sia vero che falso. In realtà, l’I. materiale astrae completamente da ogni con- nessione causale o contestuale tra l’antecedente e il conseguente (che può avere fondamenti assai diversi) e costituisce soltanto la condizione minima sufficiente per la validità di rutte le implicazioni. Alcuni logici tuttavia hanno cercato di rendere meno astratto il concetto di I. avvicinandolo di più al significato che ha nell’uso comune. Così l'americano C. I. Lewis (cfr. Lewis and LANGFORD, Symbolic Logic, 1932, pag. 174 sgg., 248 sgg.) ha parlato di un'/. stretta secondo la quale «p im- plica g » sarebbe sinonimo di « q è deducibile da p » nel senso che sarebbe contraddittorio affermare l'antecedente p e negare il conseguente g. Questo concetto fa ricorso al concetto di possibilità logica e sarebbe perciò espresso dalla formula —M (pr> g), dove M sta per « possibile », e che si legge: «non è possibile che p sia vero e gq non lo sia». Una relazione analoga di I. è stata chiamata entailment da molti scrittori inglesi, a partire da Moore che l’ha illustrata dal modo seguente: « Sa- remo in grado di dire veramente che °p entails (involve) g” quando e solo quando siamo in grado di dire veramente che ‘9 segue da p’ o ‘è dedu- cibile da p° nel senso in cui la conclusione di un sillogismo in Barbara segue dalle due premesse prese come una proposizione congiuntiva » (Philo- sophical Studies, 1922, cap. IX; ed. 1960, pag. 291). Carnap a sua volta ha distinto la C-implicazione, o I. sintattica che è quella materiale di cui si è detto, dalla L-implicazione o I. semantica che corrisponde all’I. stretta di Lewis (Introduction to Semantics, 8 9, 14). Nella logica medievale il termine I. era usato soltanto per indicare una forma della restrizione (v.): IMPLICITO come nell’esempio « l’uomo, che è bianco, corre » nel quale l’I. è costituita dalla proposizione « che è bianco», che restringe ai bianchi gli uomini che corrono. Nei manuali di logica del sec. xvi la parola implicat fu adoperata come abbreviazione per implicat contradictionem e l’uso ricorre anche nel De Intellectus Emendatione (1662) e nei Cogitata Metaphysica (1663) di Spinoza (cfr. W. KNEALE and M. KNEALE, The Development of Logic, 1962, ag. 300). IMPLICITO (ingl. Implicit; franc. Implicite; ted. Verflechten). Questo aggettivo ha tre significati principali: 1° I., nel senso logico della implica- zione (v.) e in questo senso si riferisce esclusivamente a enunciati, proposizioni o asserzioni; 2° non espli- cito, cioè suggerito da un certo contesto di di- scorso, come quando si dice «x ha implicitamente ammesso che... »; 3° potenziale o virtuale. Questo ultimo uso è improprio. IMPOSIZIONE (lat. Impositio; ingl. Imposi- tion; franc. Imposition). Nella Logica medievale è l’atto per il quale un nome viene destinato a signi- ficare una cosa (cfr. Pietro Ispano, Summul. Logic., 6.03). IMPOSSIBILE. V. PossiBILE. IMPREDICATIVA, DEFINIZIONE (in- glese Zmpredicative Definition; franc. Definition im- prédicative). Poincaré indicò con questa espres- sione la definizione del membro di una classe che fa riferimento alla totalità dei membri della classe, e che pertanto contiene un circolo vizioso. Da tali definizioni sorgono le antinomie logiche che Poin- caré voleva evitare stabilendo il principio che non consente tali definizioni (PorNcARÉ, in « Revue de Métaphysique et de Morale», 1906, pag. 294-317; cfr. anche Dernières Pensées, 1913, IV) (v. ANTI- NOMIA). IMPRESSIONE (gr. tinwar; lat. Impressio; ingl. Impression; franc. Impression; ted. Eindruck). La teoria che la conoscenza consista in una impronta o impressione fatta dalle cose sull’anima nasce con gli Stoici. Essi infatti dicevano che: « l’imma- gine è un’impronta nell’anima », prendendo il nome dalla figura che il sigillo imprime sulla cera (Droa. L.,

VII, 45). Cicerone cercò di togliere all’I. il suo carattere fisico (7usc. Disp., I, 61). Il termine fu diffuso nella filosofia e nel linguaggio moderno da Hume che intese per I. « tutte le nostre sensazioni, passioni ed emozioni, alla loro prima apparenza nell’anima » (7reatise, I, 1, 1). E distinse le I dalle idee che sono copie sbiadite di esse (/bid., I, 1, 2). IMPROPRIO, SIMBOLO. V. SINCATEGORE- MATICO. IMPULSO (ingl. Impulse, Urge; franc. Impul- sion; ted. Impuls). Una spinta subitanea, tempo- INCONCEPIBILITÀ ranea, e difficilmente controllabile, ad un’azione determinata. «Impulsivo» dicesi chi è soggetto frequentemente a spinte di questo genere. Il termine non va confuso nè con istinto (v.) nè con «ten- denza +, che corrisponde al termine tradizionale appetizione (v.). IMPUTABILITÀ (gr. altia; lat. Imputatio; ingl. Imputability; franc. Imputabilité; ted. Zu-’ rechenbarkeit). La possibilità di riferire un’azione a un agente come a sua causa, in quanto diversa dalla responsabilità (v.). INAUTENTICO. V. AUTENTICO. INCARNAZIONE (lat. Incarnatio; ingl. In- carnation; franc. Incarnation; ted. Menschwerdung). L’unità della natura divina e della natura umana nella persona di Cristo. È questo uno dei due dogmi fondamentali del Cristianesimo, l’altro es- sendo quello della Trinità. Dopo le discussioni patristiche che portarono nel sec. v ad alcune interpretazioni che la Chiesa condannò come ere- tiche, questo dogma è stato nella Scolastica uno dei banchi di prova della capacità delle filosofie di servire all’interpretazione e alla difesa delle cre- denze religiose. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che la maggiore capacità in questo senso sia stata dimostrata dal tomismo che ha dato la più semplice ed elegante interpretazione del dogma. S. Tommaso prende lo spunto polemico appunto dalle due eresie simmetriche e opposte del sec. v. L’interpretazione di Eutichio, insistendo sull’unità della persona di Cristo, riduceva anche le due na- ture ad una sola e precisamente a quella divina, considerando semplicemente apparente la natura umana rivestita da Cristo. L’interpretazione di Ne- storio invece, insistendo sulla dualità delle nature ammetteva in Cristo anche due persone coesistenti insieme, la persona umana come strumento o ri- vestimento di quella divina. La distinzione reale tra l'essenza e l’esistenza nelle creature e la loro unità in Dio forniscono a S. Tommaso la chiave dell’interpretazione. L'essenza o natura divina è in Dio identica con l’essere; dunque Cristo, che ha natura divina, sussiste come Dio, cioè come per- sona divina ed è una sola persona, quella divina. Dall'altro lato, la separabilità della natura umana dall’esistenza fa sì che Cristo possa assumere la na- tura umana (che è anima razionale e corpo) senza essere persona umana (Contra Gent., IV, 49; S. Th., III, q. II, a. 6). Questa interpretazione tomistica co- stituisce la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica. INCETTIVA, PROPOSIZIONE (franc. Pro- position inceptive ou désistive). La Logica di Porto- reale chiamò così la proposizione che afferma che una cosa ha cominciato o ha cessato di essere tale; per es.: «La lingua latina ha cessato di essere volgare in Italia da molti secoli » (ARNAULD, Log., II, 10, 4). 475 INCLINAZIONE. V. TENDENZA. INCLUSIONE (ingl. Inelusion; franc. Inclu- sion; ted. Einschliessung). Nella Logica delle classi, il rapporto di I. tra due classi a e f (simbolo ta > 8») sussiste quando tutti gli elementi della classe « appartengono anche alla classe 8, ma non necessariamente viceversa (l’I. è riflessiva e transi- tiva, ma non simmetrica). Al rapporto di I. corri- sponde un rapporto di implicazione tra i concetti- classe corrispondenti. Per es., la classe uomo è inclusa nella classe mortale perchè tutti gli uomini sono mortali. G. P. INCOERENZA. V. CorrENZA. INCOMPATIBILITÀ. V. COMPATIBILITÀ. INCOMPLETO, SIMBOLO (ingl. Incomplete Symbol). In logica matematica si chiama così un simbolo che non ha significato per suo conto ma acquista significato solo in un contesto, al cui significato a sua volta contribuisce. INCOMPLEXUM. V. CompLesso. INCONCEPIBILITÀ (ingl. /nconceivability; franc. Inconcevabilité; ted. Unbegreiflichkeit). Il cri- terio cartesiano di accettare per vero tutto ciò che è evidente per la ragione ha, come suo correlativo negativo, il criterio di rigettare ciò che non appare tale o che, in generale, è incompatibile con la ra- gione. Questo è propriamente il criterio delle incon- cepibilità. Di esso si avvalse soprattutto Leibniz, che esplicitamente lo difese; «Io riconosco in ve- rità, egli scrisse, che non è permesso di negare ciò che non s’intende, ma aggiungo che si ha il diritto di negare (almeno nell’ordine naturale) ciò che non è assolutamente nè intellegibile nè espli- cabile.. La concezione delle creature non è la misura del potere di Dio ma la loro concepibilità o forza di concezione è la misura del potere della natura, giacchè tutto ciò che è conforme all’ordine naturale può essere concepito o inteso da qualche creatura» (Nouv. Ess., Avant-Propos., Op., ed. Erd- mann, pag. 202). In altri termini si può ammettere che sia reale in natura ciò che non s'intende (cioè che non si sa spiegare) ma non ciò che è inconcepi- bile, cioè « incompatibile con la ragione ». Ma che cosa poi debba intendersi per incompatibilità con la ragione, non fu spiegato da Leibniz; come non fu spiegato da coloro (e sono moltissimi), che hanno fatto riferimento allo stesso criterio. Una critica del quale si trova per la prima volta nella Logica di Stuart Mill, a proposito dell’uso che di esso avevano fatto Hamilton (Lectures on Metaphy- sics and Logic, 1859-60) e Spencer (Principles of Psy- chology, 1855). Stuart Mill notava come gli antipodi erano dichiarati impossibili dagli antichi che trova- vano inconcepibile che ci fossero persone che aves- sero la testa nella direzione dei nostri piedi; e che uno dei più diffusi argomenti contro il sistema 476 copernicano era stata l’I. dell'immenso spazio vuoto richiesto da quel sistema (Logic, V, 3, $ 3; cfr. II, 5,86; 7,8 1-3). In realtà, l’incompatibilità con la ragione, che è la definizione dell’I., non può avere altro signifi cato preciso se non quello di incompatibilità con il sistema di credenze cui si fa riferimento. Ovvia- mente una tale incompatibilità non può valere come criterio di giudizio per l’attendibilità di una nozione qualsiasi. Se poi per I. si intende la contraddit- torietà (come talora accade) bisogna ricordare che il giudizio sulla contraddittorietà o meno di due asserzioni deve fare riferimento a un campo de- terminato, nel quale siano implicitamente o espli- citamente definite le regole della coerenza o della compatibilità. Può darsi, ad es., che non sia con- traddittorio in fisica ciò che sarebbe contraddittorio in matematica o viceversa; e, per es., la fisica non ritiene contraddittorio concepire i fenomeni elettro- magnetici insieme come corpuscolari e come ondu- latori. Ma per questi significati ristretti e specifici della contraddittorietà, la parola I., con il suo si- gnificato assoluto, è completamente inadatta. Per- tanto la filosofia contemporanea l’ha messa in disparte, insistendo, non sull’antitesi razionale- inconcepibile, ma piuttosto su quella significanza- insignificanza (v. SIGNIFICATO). INCONDIZIONATO (ingl. Unconditioned; frane. Inconditionné; ted. Unbedingt). Hamilton (Discussions on Philosophy, 1852) e Mansel (7fe Philosophy of the Conditioned, 1866), hanno chia- mato I. l’Infinito o l’Assoluto, cioè Dio in quanto sfugge a tutte le limitazioni del pensiero umano ed è perciò inconcepibile. Per il significato generico del termine v. Con- DIZIONE. INCONOSCIBILE (ingl. Unknowable, Incogni- zable; franc. Inconnaissable; ted. Unerkennbar). Ter- mine adoperato da Hamilton per indicare l’ Assoluto o Infinito, in quanto ritenuto al di là di ogni possi- bilità di conoscenza e oggetto solo di fede. « Pen- sare è condizionare, diceva Hamilton (Discus- sions on Philosophy, 1852, pag. 13) e una limitazione condizionale è una legge fondamentale delle possi- bilità del pensiero... L’Assoluto non è concepibile che come una negazione della concepibilità ». Tut- tavia la sfera della credenza è più estesa di quella della conoscenza: sicchè l’Infinito per quanto non possa essere conosciuto, può e deve essere creduto (Lectures on Metaph., II, pag. 530-31). Questa no- zione fu ripresa da Spencer il quale anch’egli affermò l’inconoscibilità dell’Assoluto e nello stesso tempo la necessità di ammetterlo per rendere pos- sibile il relativo (First Principles, 1862, $ 26). La no- zione dell’I. divenne così correlativa con quella di agnosticismo (v.); e come quest’ultima fu estesa INCONDIZIONATO anche a designare la dottrina di Kant della cosa in sè e della inconoscibilità di essa. Kant tuttavia non ammetteva l’inconcepibilità della cosa in sè, come faceva Hamilton rispetto all’Assoluto; e non ammetteva quella specie di corrispondenza ipote- tica tra l’I. e il fenomeno che Spencer chiamava realismo trasfigurato (Ibid., $ 50). Il concetto di I. non ha mai superato i confini del positivismo evo- luzionistico di stampo spenceriano (v. Cosa IN SÉ). INCONSCIO (ingl. Unconscious; franc. Incon- scient; ted. Unbewusst). Il primo ingresso di questa nozione nella filosofia è dovuto a Leibniz che sot- tolineò l’importanza delle « percezioni insensibili + o «piccole percezioni» cioè delle percezioni non accompagnate dalla consapevolezza o riflessione. Sono tali percezioni che secondo Leibniz « formano quel non so che, quei gusti, quelle immagini delle qualità sensibili, chiare nell’insieme ma confuse nelle parti; quelle impressioni che i corpi che ci circondano fanno su di noi e che involgono l’in- finito; quel legame che ciascun essere ha con tutto il resto dell’universo » (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 197). L'esistenza di questa zona inconscia divenne un luogo comune nella scuola wolfiana (cfr. WoLFF, Psychol. rationalis, $ 58 sgg.) e fu ammessa da Kant: il quale rispon- deva all’obiezione di Locke che non si possono avere rappresentazioni di cui non si è coscienti perchè l’averle significa precisamente l’esserne co- scienti (Saggio, I, 1, 5) affermando che « possiamo essere coscienti mediatamente di una rappresenta- zione di cui non siamo coscienti immediatamente + (Antr., $ 5). Ma fu soltanto con Schelling che l’L divenne l'elemento fondamentale di una co- struzione metafisica cioè uno degli aspetti essenziali dell’Assoluto come Identità di natura e spirito (cioè per l’appunto di I. e coscienza). « Questo eterno I., diceva Schelling, che, come il sole eterno del regno degli spiriti, si nasconde nel suo proprio lume sereno e, benchè non divenga mai oggetto, imprime alle azioni libere la sua identità, è lo stesso per tutta l’intelligenza ed è insieme la radice in- visibile di cui tutte le intelligenze non sono che le

potenze; è l’eterno intermediario tra il soggettivo, che si autodetermina in noi, e l’oggettivo o intuente; ed è il fondamento dell’uniformità nella libertà e della libertà nell’uniformità oggettiva» (System der transzendentalen Idealismus, IV, F; trad. ital., pag. 280). Ancora più radicalmente Schopenhauer riteneva I. quella volontà di vivere che costituisce il noumeno del mondo. «La volontà, egli diceva, considerata in se stessa è I.: è un cieco, irresistibile impeto, quale noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, come anche nella parte vege- tativa della nostra vita» (Die Welt, I, $ 54). E come sintesi dello Spirito assoluto di Hegel, della INDETERMINAZIONE, RELAZIONI DI Volontà di Schopenhauer e dell’I. di Schelling, Eduardo Hartmann presentava il principio della sua filosofia: un principio che egli chiamava per l'appunto l’I. e del quale lo spirito e la materia sarebbero state due diverse manifestazioni (Philo- sophie des Unbewussten, 1869). Si può considerare appartenente a questa stessa linea di pensiero la filo- sofia di Bergson: il quale difendeva I’I. osservando che la ripugnanza a concepire stati psicologici in- consci viene dal fatto che si considera la coscienza come la proprietà essenziale degli stati psichici. « Ma, egli osservava, se la coscienza è soltanto il segno caratteristico del presente, di ciò che è attualmente vissuto, ovvero di ciò che agisce, allora ciò che non agisce potrà cessare d’appartenere alla co- scienza senza cessare necessariamente di esistere in qualche modo» (Matière et mémoire, cap. III, pag. 147). Con l’I. così inteso s’identifica per Bergson il ricordo puro cioè la corrente della co- scienza che è poi lo stesso slancio vitale. Ma mentre così l’I. veniva utilizzato nella me- tafisica e mentre, dall’altro lato, la psicologia lo ammetteva, sia pure malvolentieri, come un dato di fatto, esso riceveva un contenuto completamente nuovo ad opera di Freud. Lo stesso Freud così presentava le due tesi fondamentali della psicanalisi: «La prima di queste premesse è che i processi psichici sono in se stessi inconsci e che quelli co- scienti sono soltanto atti isolati, frazioni della vita psichica totale ». La seconda proposizione che la psicanalisi proclama come una delle sue scoperte è l’affermazione che tendenze le quali possono es- sere qualificate solo come sessuali, nel senso ri- stretto o largo della parola, agiscono come cause determinanti di malattie nervose o psichiche e che le stesse emozioni sessuali hanno una parte impor- tante nelle creazioni dello spirito umano nei campi della cultura, dell’arte e della vita sociale » (Einfi- rung in die Psychoanalyse, 1917, Intr.; trad. franc., pag. 32-33). In tal modo la psicanalisi toglieva all’I. il carattere indeterminato o amorfo che esso aveva sino a quel momento conservato nelle interpretazioni dei filosofi e degli psicologi per acquistare un conte- nuto preciso ed identificarsi con le tendenze sessuali inibite o negate o comunque camuffate o nascoste. Dapprima l’estesissima voga, poi l’importanza scien- tifica che la psicanalisi ha conservato e conserva nel mondo contemporaneo (v. PSICANALISI), hanno fatto passare in seconda linea la difficoltà teorica connessa con lo stesso riconoscimento dell’esistenza dell’in- conscio. Ovviamente, l’obiezione di Locke, tante volte ripetuta, che « esistere », per uno stato mentale significa «esser percepito » o «esser oggetto di co- scienza » e che pertanto uno stato mentale inco- sciente è una contraddizione nei termini, ha perduto tutto il suo valore. Uno stato mentale, per es., 477 un’emozione, una tendenza, una volizione, può «esistere », anche se non viene « percepita», nel senso che essa può essere opportunamente posta in luce e riconosciuta, con procedimenti appropriati (che sono quelli appunto adoperati dalla psicanalisi), come la condizione di una situazione psichica nor- male o patologica. Freud stesso ha insistito a questo proposito sulla nozione di sintomo: « Un sintomo, egli dice, si forma a titolo di sostituzione al posto di qualche cosa che non è riuscito a manifestarsi al di fuori. Certi processi psichici, non avendo potuto svilupparsi normalmente, in modo da arri- vare sino alla coscienza, hanno dato luogo a un sintomo nevrotico » (/bid., trad. franc., pag. 303). L’I. quindi esiste in primo luogo a titolo di sintomo. Si tratta della stessa soluzione teorica che Kant aveva visto dicendo che l’I., pur non essendo per- cepito immediatamente, può essere percepito me- diatamente; ma questa soluzione teorica è assai migliorata perchè in Freud l’I., come sintomo, non ha neppure bisogno di essere « percepito +: è un fatto che l’osservazione clinica può constatare. INCONSEGUENZA (ingl. Inconsistency; fran- cese Inconséquence; ted. Folgewidrigkeit). L'assenza di compatibilità (v.) delle proposizioni costituenti un sistema simbolico. Ad es., un insieme di propo- sizioni è inconseguente quando esso implica una contraddizione cioè quando da esso deriva formal- mente sia una certa proposizione p sia la nega- zione di p. In generale, si può dire che l’I. di un sistema qualsiasi è la possibilità di una contraddi- zione nel sistema stesso. INCONSISTENZA. V. COMPATIBILITÀ. INDAGINE. V. Ricerca. INDEFINITO (ingl. /ndefinite; franc. Indéfini; ted. Unbegrenzi). Ciò che non ha limiti nello spazio o nel tempo e che è quindi infinito nel senso nega- tivo del termine. Questo è almeno il significato della parola che fu stabilito da Cartesio, il quale pertanto distingueva l’indefinitezza delle cose dalla infinità di Dio il quale « non ha limiti nelle sue perfezioni » ed è perciò il solo essere infinito (Prince. Phil., I, 27; I Résp., X capoverso). La parola equi- vale pertanto a illimitato (v.). Non viene invece usata per dire « non definito » cioè non espresso da una definizione. INDETERMINATO. V. DETERMINAZIONE. INDETERMINAZIONE (ingl. Indetermina- tion; franc. Indétermination; ted. Unbestimmtheit). 1. L'assenza della determinazione logica (v. DETER- MINAZIONE). Talvolta lo stesso che vaghezza (vedi VAGO). 2. L’assenza della determinazione causale (vedi INDETERMINISMO). INDETERMINAZIONE, RELAZIONI DI (ingl. Uncertainty Relations; franc. Relations d’in- 478 détermination; ted. Unbestimmtheitsrelationen). Con questa espressione o con quella di « principio di I. + si indica, dal 1927, il riconoscimento, nella fisica subatomica, dell'azione reciproca tra l’oggetto e l’osservatore e pertanto la perturbazione che l’os- servazione produce sullo stesso oggetto osservato. Fu Heisenberg a mettere in luce per primo questo aspetto essenziale della fisica quantistica. Ecco come egli stesso lo esprime: « Nelle teorie classiche l’in- terazione tra l'oggetto e l’osservatore veniva con- siderata o come trascurabilmente piccola o come controllabile, in modo da poterne eliminare l’in- fluenza per mezzo di calcoli. Nella fisica atomica invece tale ammissione non si può fare perchè, a causa della discontinuità degli eventi atomici, ogni interazione può produrre variazioni parzialmente incontrollabili e relativamente grandi. Questa cir- costanza ha come conseguenza il fatto che, in generale, le esperienze eseguite per determinare una grandezza fisica rendono illusoria la conoscenza di altre grandezze ottenute precedentemente; esse in- fatti influenzano il sistema su cui si opera in modo incontrollabile, quindi i valori delle grandezze pre- cedentemente conosciute ne risultano alterati. Se si tratta questa perturbazione in modo quantitativo, si trova che in molti casi esiste, per la conoscenza contemporanea di diverse variabili, un limite di esattezza finito, che non può essere superato» (Die physikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, I, $ 1). Per l’influenza che la scoperta delle relazioni di I. ha avuto nel campo scientifico-filo- sofico v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE. INDETERMINISMO (ingl. /Indeterminism; franc. Indéterminisme; ted. Indeterminismus). Ter- mine introdotto nel linguaggio filosofico nella se- conda metà del sec. xvm per designare la dottrina che nega il determinismo dei motivi cioè la de- terminazione della volontà umana da parte dei motivi stessi (v. DETERMINISMO). Diceva Leibniz: «Quando si pretende che un avvenimento libero non può essere previsto, si confonde la libertà con l’indeterminazione o con l'indifferenza piena o di equilibrio; e quando si vuole che la mancanza della libertà impedirebbe all'uomo d’essere col- pevole si allude a una libertà priva, non di deter- minazione o di certezza, ma di necessità e di co- strizione » (77iéod., III, 369). Kant a sua volta affermava: «Non c’è alcuna difficoltà nel conci- liare il concetto della libertà con l’idea di Dio in quanto essere necessario: perchè la libertà non consiste nella contingenza dell’azione (nel fatto che l'azione non è determinata da alcun motivo cioè nell’I.) ma nell’assoluta spontaneità, la quale sol- tanto è in pericolo col predeterminismo, giacchè per esso il motivo determinante dell’azione è an- tecedente nel tempo, quindi l’azione non è più INDETERMINISMO attualmente in mio potere ma nella mano della natura ed io sono da tale motivo irresistibilmente determinato » (Religion, I, Osservazione generale, Nota). L’I. inteso in questo senso, cicè come nega- zione del determinismo dei motivi, è uno dei tratti salienti dello spiritualismo francese (Ravaisson, La- chelier, Boutroux, Hamelin, Bergson, ecc. Confronta A. LEvI, L'I. nella filosofia francese contemporanea, Firenze, 1904) (v. LIBERTÀ). INDICE (ingl. Index). Termine adoperato da Peirce per indicare la relazione oggettiva (non men- tale) tra il segno e il suo oggetto. Indici in questo senso sono tutti i segni naturali e i sintomi fisici. «Chiamo I. uno di tali segni, dice Peirce, perchè un I. puntato è il tipo della classe » (Co//. Pap., 3.361). INDIFFERENTI. V. ADIAFORÀ. INDIFFERENZA, LIBERTÀ DI. V. Li- BERTÀ. INDIFFERENZA, PRINCIPIO DI (inglese Principle of Indifference; franc. Principe d’indiffé- rence; ted. Indifferenzprinzip). Con questo nome o con quello di « principio di equiprobabilità » o di « principio di nessuna ragione in contrario » si indica l’enunciato che gli eventi hanno la stessa proba- bilità quando non c’è ragione di assumere che uno debba accadere a preferenza dell'altro. Questo principio fu esposto nell’Essai philosophique sur les probabilités (1814) di Laplace come secondo prin- cipio del calcolo delle probabilità (cap. 2); ed è a fondamento della teoria a priori della probabilità, cioè della teoria che cerca di definire la probabilità indipendentemente dalla frequenza degli eventi cui essa si riferisce. Il principio è stato pertanto abban- donato da alcune teorie moderne sulla probabilità (Lewis, Analysis of Knowledge, 1946, cap. X; REI- CHENBACH, Theory of Probability, 1949, $ 68) (v. PROBABILITÀ). INDIMOSTRABILE (ingl. Undemonstrable; franc. Indémontrable; ted. Unerweislich). 1. Ciò che non ha bisogno di dimostrazione perchè la sua verità è evidente. In questo senso sono I. i prin- cìpi primi della logica di Aristotele (v. ASssioMI) e gli anapodittici degli Stoici (v. ANAPODITTICO). 2. Le proposizioni primitive o in generale gli antecedenti di un qualsiasi sistema simbolico in quanto tali antecedenti sono a fondamento delle regole di dimostrazione proprie del sistema. In questo senso, sono indimostrabili gli assiomi, le definizioni e le regole di trasformazione di ogni sistema simbolico. 3. Le proposizioni indecidibili cioè le proposizioni che non possono essere dette vere o false nell’am- bito di un dato sistema simbolico ma possono essere decise in sistema più vasto, nel quale però rina- scono in altra forma. In questo senso, sono indi- mostrabili le proposizioni costituenti le antinomie INDIVIDUALITÀ logiche (v.); ed è I. la non contraddittorietà della matematica e in generale dei sistemi simbolici (vedi ANTINOMIE; MATEMATICA; SISTEMA). 4. Ogni credenza o pretesa che non possa essere suffragata da prove. Questo è il significato più generale e indeterminato col quale il termine viene adoperato frequentemente nel linguaggio comune. Così si chiamano I. certe credenze religiose; e si chiama I. la pretesa di un credito se non è appog- giata da documenti o testimonianze. Asserzioni concernenti fatti sono spesso dichiarate I. per la stessa ragione. INDIPENDENTE (ingl. Independent; fran- cese /Indépendant; ted. Unabhdngig). Ciò che non deriva da altro il suo essere, la sua validità o la sua capacità d’azione. Così un uomo o uno Stato si dice I. quando la sua vita o la sua condotta non dipende da quella di un altro uomo o di un altro Stato. Un evento si dice I. da un altro quando non dipende causalmente da quest’altro. E una proposizione qualsiasi è I. da un’altra proposizione o da un sistema di proposizioni se non è derivabile dall’una o dall'altro. Il requisito dell’indipendenza reciproca si richiede per la determinazione degli assiomi di un sistema simbolico. Difatti sarebbe inutile assumere come assioma una proposizione che si potesse derivare dagli altri assiomi del sistema (v. ASSIOMA). INDISCERNIBILI. V. IDENTITÀ DEGLI. INDISTINTO. Termine adoperato da Ardigò per definire l'evoluzione, in sostituzione dell’ omo- geneo » di Spencer. L’evoluzione sarebbe il pas- saggio dall’I. al distinto: termini che sono desunti dall’esperienza psichica, mentre quelli di Spencer erano desunti dalla biologia (ArRDIGÒ, Opere, II, pag. 189 e passim). INDIVIDUALE, PSICOLOGIA. V. Psico- LOGIA, E). INDIVIDUALISMO (ingl. Individualism; fran- cese Individualisme; ted. Individualismus). Ogni dot- trina morale o politica che riconosca all’individuo umano un prevalente valore di fine rispetto alle comunità di cui fa parte. L’estremo di questa dot- trina è ovviamente la tesi che l’individuo ha valore infinito e la comunità valore nullo. Tale è la tesi dell’anarchismo (v.). Ma l’I. è abitualmente assunto nell’accezione più moderata che si è proposta; e in tal senso è il fondamento teoretico che il libe- ralismo si è dato al suo primo affacciarsi nel mondo moderno. È difatti il presupposto comune del giusnaturalismo, del contrattualismo, del liberismo e della lotta contro lo Stato che costituiscono gli aspetti fondamentali della prima fase del liberalismo (v.). 1° Il giusnaturalismo consiste nel riconoscere all'individuo diritti originari e inalienabili che egli conserva, sia pure in forma diversa o limitata, in 479 tutti i corpi sociali che entra a comporre (v. GIUSNA- TURALISMO). 2° Il contrattualismo consiste nel considerare la società umana e lo Stato come risultato di una convenzione fra gli individui: dottrina che nell’età moderna cioè a cominciare dalle Vindiciae contra tyrannos (1579) dei Calvinisti di Ginevra è stata spesso adoperata come negazione dell’assolutismo statale o strumento per limitarlo (v. CONTRAT- TUALISMO). 3° Il liberismo economico, proprio dei fisio- cratici e della scuola classica dell'economia poli- tica, è la lotta contro l’ingerenza dello Stato negli affari economici e la rivendicazione all’individuo dell’iniziativa economica. Questo è un aspetto ca- ratteristico del liberalismo individualistico (v. Eco- NOMIA; LIBERALISMO). 4° La lotta contro lo Stato e la tendenza a stabilire limiti all’azione dello Stato è il carattere globale dell’individualismo. In questo senso uno dei più significativi documenti del liberalismo mo- derno è l’opera di SPENCER, L’uomo contro lo Stato (1884) nel quale viene combattuta l’ingerenza dello Stato (quindi anche del Parlamento) anche nel dominio dell’igiene e dell’istruzione pubblica, ol- trechè nel dominio economico. Il postulato soggiacente a tutti questi diversi aspetti dell’I. è la coincidenza dell'interesse dell’in- dividuo con l'interesse comune o collettivo. L'or- dine naturale che Adamo Smith riteneva nella Ricchezza delle Nazioni (1776) esser proprio dei fatti economici, serviva appunto a garantire quella coincidenza. In questa stessa coincidenza credevano Geremia Benthan e Giacomo Mill. Quando, con l’osservazione delle anomalie dell’ordine economico e con il riconoscimento che la semplice limitazione dei poteri dello Stato non elimina nè queste ano- malie nè il disordine o le disuguaglianze sociali, questa credenza cominciò a scuotersi, la fase in- dividualistica del liberalismo venne al termine e s’iniziò quella che si appellava all’azione dello Stato e tendeva perciò ad esaltare lo Stato stesso. Da questo nuovo punto di vista l’I. fu contrasse- gnato e criticato: come «atomismo» perchè pre- tendeva far nascere la società da un insieme di atomi sociali, gli individui; come «anarchismo» perchè pretendeva che l’individuo non sottostasse all’azione dello Stato; e come «egoismo» perchè voleva che le attività economiche si volgessero se- condo le direttive dell’interesse privato. In tal modo però venivano trascurati i motivi storici che avevano provocato l'indirizzo individualistico del liberalismo e veniva inconsapevolmente preparata la via a nuove vittorie dell’assolutismo statalista. INDIVIDUALITÀ (lat. Individualitas; ingl. In- dividuality; franc. Individualité; ted. Individualitàt). 480 Termine di origine medievale: il modo d’essere dell’individuo. INDIVIDUAZIONE (lat. Individuatio; inglese Individuation; franc. Individuation; ted. Individua- tion). Il problema dell’I. è il problema della costi- tuzione dell’individualità a partire da una sostanza o natura comune: per es., della costituzione di questo uomo o questo animale a partire dalla so- stanza «uomo»? o sostanza «animale». Il primo a formulare il problema fu Avicenna (v. ARABA, FiLosoria) dal quale fu trasmesso alla Scolastica cristiana. Il presupposto da cui esso nacque è il principio della necessità della sostanza, che Avi- cenna esprime dicendo: « Tutto ciò che è, ha una sostanza per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità e l’essere di ciò che è» (Logica, I, ed. Venezia, 1508, fol. 3 v.). In base a questo prin- cipio, «l’animale è in sè qualcosa ed è la stessa cosa, sia che sia percepito sia che sia appreso dal- l'intelletto; ed in sè non è nè universale nè singo- lare » (/bid., III, fol. 12 r.). Ma se è così, che cosa lo fa essere individuale, cioè che cosa fa della sostanza « animale» questo o quell’animale? Ecco, secondo Avicenna, il problema dell’individuazione. Ed Avicenna trovava nello stesso Aristotele la risposta al problema: l’individualità dipende dalla materia. Aristotele infatti aveva detto: « Tutte le cose che sono numericamente molte hanno ma- teria: giacchè il concetto di tali cose, per es., del- l’uomo, è uno e identico per tutte, mentre Socrate (che ha materia) è unico +» (Mer., XII, 8, 1074 a 33). Questa soluzione viene accettata da Avicenna (/n Met., XI, 1) e attraverso quest’ultimo da Alberto Magno (/n Mer., III, 3, 10) e da molti altri scolastici. S. Tommaso presentò una variante di questa so- luzione, affermando che il principio di I. non è la materia comune (giacchè tutti gli uomini hanno carne e ossa e quindi non si diversificano in questo); ma la materia signata o, come egli anche dice, «la materia considerata sotto determinate dimen- sioni» (De ente et essentia, 2). In altri termini, un uomo è diverso dall'altro perchè unito a un determinato corpo, diverso per le dimensioni, cioè per la sua situazione nello spazio e nel tempo, da quello degli altri uomini (S. 7A., III, q. 77, a. 2). Questo stesso tipo di soluzione si trova ri- prodotto nell’età moderna da Schopenhauer che, considerando la volontà come la sostanza unica e comune di tutti gli esseri, vide il principio d’I. nello spazio e nel tempo. « Infatti, egli disse, per mezzo dello spazio e del tempo, ciò che è tutt'uno nell’essenza e nel concetto apparisce invece diverso, come pluralità giustapposta e succedentesi» (Die Welt, I, $ 23). Dall’altro lato, la corrente agostiniana della scolastica fu portata a riconoscere il principio di I. INDIVIDUAZIONE nella forma, più che nella materia, delle cose. Bonaventura riteneva che la forma è l’essenza che restringe e definisce la materia ad un determinato essere; e poneva il principio d’I. nella comunica- zione (communicatio) tra la materia e la forma in quanto l’individuo è un hoc aliquid in cui l’hoc è costituito dalla materia, l’aliguid dalla forma (In Sent., III, d. 10, a. 1, q. 3). Allo stesso tipo di soluzione appartiene l’interpretazione che molti sco- lari di Duns Scoto dettero della haecceitas come di una forma finale che completa e integra una serie di forme costitutive dell’oggetto naturale (cfr. Herveus NATALIS, De pluralitate formarum, 5). Infine una terza soluzione del problema è quella autenticamente scotistica. Duns Scoto nega che la materia o la forma possano valere come principio d’individuazione. La materia, che è il soggetto indistinto, non può essere il principio della distin- zione e della diversità (Op. Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1). La forma è poi la stessa sostanza o natura comune che è antecedente (e indifferente) sia all’universalità che all’individualità. L’individualità consiste invece in una « ultima realtà dell’ente » la quale determina e contrae la natura comune all’individualità, ad esse hanc rem. Quest'ultima realtà, o come egli anche la chiama «entità positiva » (/bid., II, d. 3, q. 2), è la determinazione ultima e compiuta della materia, della forma e del loro composto. Da questo punto di vista l’individuo non è caratteriz- zato dalla semplicità della sua costituzione ma piut- tosto dalla complessità e ricchezza delle sue deter- minazioni. Come si è detto, il problema dell’I. nasce dal carattere privilegiato attribuito alla sostanza comune che esisterebbe in qualche modo prima e indipenden- temente dagli individui. Il problema pertanto sparisce quando viene negato il carattere privilegiato della sostanza comune: il che accade col nominalismo empiristico dell’ultima scolastica. Ockham riconosce nella sostanza comune una forma dell’universale e la coinvolge nella negazione recisa di ogni realtà universale: « Nessuna cosa fuori dell’anima, nè di per sè nè per alcunchè di reale o di mentale che le venga aggiunto, e comunque la si consideri o la s’intenda, è universale: giacchè tanta è l’impossi- bilità che una cosa fuori dell’anima sia in qualche modo universale (se non per convenzione arbitraria, al modo in cui la voce ‘uomo che è singolare diventa universale) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino» (In Sent., I, d. 2, q. 7, S-T). Da questo punto di vista il problema stesso dell’I. si dissolve. Dice ancora Ockham: « È da ritenersi indubitabilmente che qualsiasi cosa esistente immaginabile, di per sè, senza che nulla le venga aggiunto, è una cosa singolare ed una di INDIVIDUO numero: sicchè nessuna cosa immaginabile è sin- golare per qualcosa che le venga aggiunta, ma la singolarità è una proprietà che appartiene imme- diatamente a ogni cosa, perchè ogni cosa è di per sè o identica o diversa dall'altra » (Expositio aurea. Liber Predicabilium, Proemium). Quando Leibniz in uno dei suoi primi scritti affermava che « ogni individuo è individuato dalla sua totale entità » non faceva che esprimere in termini scotistici la stessa posizione di Ockham, come egli stesso riconosceva (De Principio Individui, 1663, $ 4): giacchè l’entità totale non è altro che la stessa cosa esistente in quanto tale. B la stessa implicita negazione del problema dell’individuazione si può scorgere nella soluzione apparente che a questo problema dà Wolff: « Il principio d’I. è la determinazione com- pleta di tutte le cose che sono inerenti a un ente in atto» (Ontolog., $ 229). D'altra parte Locke aveva detto: «Da ciò che si è detto è facile sco- prire cosa sia il principium individuationis intorno al quale tanto si è indagato: è chiaro che esso è l'esistenza stessa, la quale determina un essere, di qualunque specie, in un particolare tempo e in un particolare luogo, incomunicabili a due esseri della medesima specie » (Saggio, II, 27, 4). Queste sedicenti «soluzioni » in realtà sono ne- gazioni del problema: il quale sparisce completa- mente (salvo che in rare eccezioni) nella filosofia moderna per l’avvenuta dissoluzione del suo presup- posto: la priorità ontologica della sostanza comune. INDIVIDUO (gr. &topov; lat. Individuum; in- glese /ndividual; franc. Individu; ted. Individuum). In senso fisico: l’indivisibile, ciò che non può es- sere ulteriormente ridotto con un procedimento di analisi. In senso logico: l’impredicabile, ciò che non si può predicare di più cose. Per Aristotele VI. è, nel primo senso, la specie, in quanto, ri- sultando dalla divisione del genere, non può essere a sua volta divisa (Anal. Post., II, 13, 96b 15; Mer., V, 10, 1018 b 5). Alla determinazione della indivisibilità, i logici del v secolo aggiunsero, per caratterizzare l’I., quella della impredicabilità. Dice Boezio: «Si dice I. ciò che non si può dividere per nulla, come l’unità o la mente o ciò che non si può dividere per la sua solidità, come il dia- mante; o ciò che non si può predicare di altre cose simili, come Socrate » (Ad Isag., II, in P. L., 64, col. 97). Questa notazione divenne fonda- mentale per la logica medievale che l’utilizzò per definire I°I.: «I. è ciò che si predica di una sola cosa, come Socrate e Platone», dice Pietro Ispano (Summ. Log., 2.09). S. Tommaso parla di un I. vago (vagum), che corrisponde all’individualità della specie e di un I. singolo: «L’I. vago, per es., l’uomo, significa una natura comune con un de- terminato modo d'essere che compete alle cose 31 — ADDAGNANO, Dizionario di filosofia. 481 singole, cioè che sia sussistente per sè e distinto dagli altri. Ma l’I. singolo significa invece qualcosa di determinato e che distingue; così il nome So- crate significa questa carne e questo volto » (S. 7h., I, q. 30, a. 4). L’I. vago non è ovviamente che l’unità solo numericamente distinguibile da altre unità. E così infatti lo definiva Duns Scoto: « I., cioè uno di numero, si dice ciò che non è divisibile in molte cose e si distingue numericamente da ogni altra » (Ir Met., VII, q. 13, n. 17). Tuttavia nello stesso Duns Scoto ci sono le pre- messe di un concetto diverso dell’individuo. Questo è caratterizzato, nel suo modo d'essere cioè nella sua singolarità, da una determinazione ultima o « ultima realtà » della natura che lo costituisce (vedi INDIVIDUAZIONE): sicchè include un insieme illi- mitato di determinazioni, in virtù delle quali la natura comune si contrae sino a diventare questo determinato ente. Da questo punto di vista, l’I. non è caratterizzato dalla sua indivisibilità ma dalla infinità delle sue determinazioni. Questo concetto venne espresso chiaramente da Leibniz. « Per quanto possa sembrare paradossale, egli diceva, ci è im- possibile avere la conoscenza degli I. e trovare il mezzo di determinare esattamente l’individualità di una cosa, a meno di non considerarla in se stessa. Infatti, tutte le circostanze possono ritornare; le differenze minime ci sono insensibili; il luogo © il tempo ben lungi dall’essere determinanti, hanno bisogno essi stessi d’essere determinati dalle cose che contengono. Ciò che v'è di più considerevole in questo è che l’individualità involge l’infinito e che solo colui che è capace di comprenderlo può avere la conoscenza del principio di individuazione di questa o quella cosa: il che deriva, a compren- derlo sanamente, dall’influenza che tutte le cose dell'universo hanno l’una sull’altra. È vero che non sarebbe così, se ci fossero gli atomi di Demo- crito; ma allora non ci sarebbe neppure differenza tra due I. diversi della stessa figura e della stessa grandezza » (Nouv. Ess., III, 3, $ 6). Il presupposto di questa dottrina è che in natura esistono sol- tanto I. cioè cose singole: presupposto che, insieme con gli altri punti principali, fu espresso con tutta chiarezza da Wolff. Questi comincia con l’affer- mare che I’I. è «ciò che percepiamo col senso interno o col senso esterno o che possiamo im- maginare, in quanto è una cosa singola» (Log., $ 43), per procedere a definire l’I. come « l’ente che è determinato sotto tutti i rapporti (ens omni- mode determinatum) cioè nel quale sono determinate tutte le cose che ad esso ineriscono » (/bid., $ 74). Questa nozione dell’I. come di ciò che è assolu- tamente o infinitamente determinato è stata spesso utilizzata dalla metafisica moderna. È stata per l'appunto questa nozione che ha permesso ad 482 Hegel (e a molti altri dopo il suo esempio) di par- lare di «I. universale» senza avvolgersi in una contraddizione nei termini. « Il compito di accom- pagnare l’I. dal suo stato incolto fino al sapere, dice Hegel, era da intendersi nel suo senso generale e consisteva nel considerare l'I. universale, lo Spi- rito autocosciente, nel suo processo di formazione. Per ciò che concerne la relazione di quei due modi di individualità, nell’I. universale ogni momento si mostra nell’atto in cui guadagna la forma con- creta e la sua propria configurazione. L’I. partico- lare è lo spirito non compiuto: una figura concreta, in tutto il cui essere determinato domina una sola determinatezza e nella quale le altre sono presenti soltanto di scorcio» (Phanomen. des Geistes, Pref. II, $ 3; trad. ital., I, pag. 24). Dal punto di vista del concetto di I. come infinità di determinazioni, Hegel poteva certamente parlare di I. univer- sale: giacchè un'infinità di determinazioni può essere proprio solo di un I. assoluto o infinito. Di fronte ad esso, l’I. finito è, come dice Hegel, quello caratterizzato da una sola determinazione e a cui le altre sono presenti solo di scorcio. Allo stesso concetto dell’I. fa riferimento Bergson quando afferma che « l’individualità comporta una infinità di gradi e che in nessuna parte, neanche nell’uomo, essa è realizzata pienamente » (Évo/. Créatr., cap. I, ed. 1911, pag. 13). Ovviamente, questo concetto dell’I. porta o ad ipostatizzare l’individualità di un I. assoluto, come ha fatto Hegel o a dichiararla irraggiungibile, come ha fatto Bergson. Ma questo appunto dimostra che si tratta di un concetto in- servibile. Nella filosofia contemporanea pertanto l’I. (come la nozione analoga di elemento [v.]) viene definito rispetto alle esigenze prevalenti in questo o quel campo d'indagine, o meglio rispetto a questa o a quella esigenza analitica. Nel campo morale o politico l'’I. è la persona. Nel campo biologico, l’I. può essere per certi scopi l’organismo, per altri scopi la cellula. Ma è soprattutto nel campo delle scienze storiche che la nozione di I. è stata utilizzata dalla filosofia e dalla metodologia con- temporanea. Windelband (Praludien, II, pag. 145) e Rickert (Grenzen der naturwissenschaftlichen Be- griffsbildung, pag. 420) hanno messo in luce il carattere individualizzante delle scienze dello spi- rito, di fronte al carattere generalizzante delle scienze naturali. La conoscenza storica mira a rappresen- tare l'I. nel suo carattere singolare e irrepetibile, cioè non come il caso particolare di una legge, ma come irriducibile agli altri I. con cui è in connessione causale. L'I., che è in questo caso l'evento storico (fatto, persona, istituzione, ecc.) è ca- ratterizzato, da questo punto di vista, da due caratte- ristiche: la singolarità e la irrepetibilità (v. STORIA). INDUZIONE INDUZIONE (gr. trayovh; lat. Inductio; in- glese /nduction; franc. Induction; ted. Induktion). « L’I. è il procedimento che dai particolari porta all’universale »: questa definizione di Aristotele (Top., I, 12, 105a 11) ha trovato concordi tutti i filosofi. Aristotele stesso vede nell’I. una delle due vie attraverso le quali riusciamo a formare le nostre credenze; l’altra è la deduzione (sillogismo) (An. Pr., II, 23, 68 b 30). Egli inoltre attribuisce a Socrate il merito di aver scoperto i « ragionamenti induttivi » (Met., XIII, 4, 1078 b 28). Tra VI. e il sillogismo, Aristotele stabilisce tuttavia una grande differenza di valore. Nel sillogismo deduttivo (« Tutti gli uomini sono animali, Tutti gli animali sono mortali, Dunque tutti gli uomini sono mortali») il termine medio (ani- male) costituisce la sostanza o la ragion d'essere della connessione necessaria tra i due estremi: gli uomini sono mortali perchè sono sostanzialmente animali. Nel ragionamento induttivo invece (s L'uomo, il ca- vallo e il mulo sono longevi, L’uomo, il cavallo e il mulo sono animali senza fiele, Dunque gli animali senza fiele sono longevi »), il termine medio (l’es- sere senza fiele) compare nella conclusione: il che vuol dire che esso non è un perchè sostanziale ma un semplice fatto (An. Pr., II, 23, 68b 15). L’indu- zione è quindi priva di valore necessario o dimo- strativo, per quanto sia più chiara del sillogismo; e il suo ambito di validità rimane quello del fatto cioè della totalità dei casi in cui è stata effettiva- mente riscontrata valida. Essa può perciò essere usata a fini di esercizio, nella dialettica, o a fine di persuasione, nella retorica (Rher., I, 2, 1356b 13): ma non costituisce scienza, perchè la scienza è necessariamente dimostrativa (An. Post., I, 2, 71 b 19). Nella filosofia post-aristotelica gli Epicurei ritennero l'I. l'unico procedimento d’inferenza le- gittima, mentre gli Stoici ne negarono il valore. Il De Signis di Filodemo ci dà un preciso resoconto della polemica che ci fu a questo proposito tra le due scuole. Gli Stoici dicevano che non basta constatare che gli uomini che ci sono intorno sono mortali per dire che in ogni dove gli uomini sono mortali: bisognerebbe stabilire che gli uomini sono mortali proprio in quanto uomini, per dare a quell’inferenza la sua necessità (De Signis, III, 35; IV, 10; De Lacy, Philodemus on Methods of Inference, 1941, pag. 31). Il problema dell’I. si affacciava già in questa difficoltà proposta dagli Stoici. Ad essi gli Epicurei opponevano che, finchè niente si oppone alla conclusione, la generalizza- zione induttiva è valida (Z/bid., VI, 1-14; XIX, 25-36; De Lacy, pag. 34, 66). Sesto Empirico non faceva che ripresentare in forma più radicale la critica degli Stoici, partendo dalla distinzione tra I. completa e I. incompleta. « Poichè vogliono, egli diceva, confermare per via dell’I. l’universale INDUZIONE movendo dai particolari, faranno questo percor- rendo o tutti i particolari o soltanto alcuni. Se soltanto alcuni, l’I. sarà incerta, rimanendo possibile che all’universale contrasti qualcuno dei particolari tralasciati nell'induzione. Se tutti, intraprenderanno una fatica impossibile perchè i particolari sono in- finiti e illimitati » (Jp. Pirr., II, 204). Era stato Ari- stotele ad affermare che l’I. si facesse movendo da tutti i casi particolari possibili (Ar. Pr., II, 23, 68 b 29); mentre gli Epicurei avevano affermato il valore dell’I. incompleta. Bacone pertanto non fece che riprendere l'alternativa epicurea quando di- chiarò puerile l’I. completa o per enumerationem simplicem. «Questa I., dice Bacone, può essere rovesciata da una qualsiasi istanza contraria; inoltre considera sempre le stesse cose e non raggiunge il suo fine. Per le scienze occorre invece una forma d’I. che vagli le esperienze e concluda necessaria- mente, dopo le debite esclusioni ed eliminazioni » (Nov. Org., Distrib. Op.). Questa forma di I. che Bacone, sia pure dubitativamente, fa risalire a Platone (/bid., 105) deve invertire l’ordine della dimostrazione. « Finora, dice Bacone, si usava tra- passare di volo dai dati del senso e dalle cose particolari alle generalissime, come a poli fissi della disputa, facendo poi da queste derivare tutte le altre, per via delle cose intermedie. È questa una scorciatoia, ma troppo scoscesa, per la quale non si incontra mai la natura, ma soltanto questioni. Si devono invece estrarre gli assiomi per gradi successivi; e solo da ultimo giungere a quelli ge- neralissimi i quali non sono semplici nozioni ma fatti ben determinati e tali che la natura li riconosce veramente per suoi e inerenti all’essenza delle cose » (/bid., Distrib. Op.). In altri termini la cer- tezza dell’I. consiste, secondo Bacone, nel fatto che da ultimo l’I. mette capo alla determinazione della forma della cosa naturale, intendendosi per forma «la differenza vera o natura naturante o fonte di emanazione » che spieghi il processo latente e lo schematismo occulto dei corpi (2bid., II, 1). In tal senso, la forma non è che la stessa «so- stanza » aristotelica: il principio o ragion d’essere della cosa. Aristotele riteneva che tale sostanza si potesse cogliere col procedimento sillogistico cioè intuitivo-dimostrativo; Bacone ritiene che essa si può cogliere con un procedimento induttivo che sceveri e ordini le esperienze. La vera differenza pertanto tra Bacone e Aristotele è che Bacone crede che la nuova disciplina del procedimento induttivo da lui proposta (disciplina che consiste nella formazione di tavole che scelgano e classi- fichino gli esperimenti e nella istituzione di espe- rimenti di controllo) renda possibile attingere con certezza quella sostanza cui, secondo Aristotele, l’I. può solo avvicinare in modo incerto o appros- 483 simativo, e che può essere attinta nella sua necessità solo dal procedimento deduttivo. Per questa in- terpretazione del procedimento empiristico nei ter- mini della metafisica aristotelica, Bacone ha potuto riconoscere all’I. incompleta quella « necessità » che Aristotele riconosceva al procedimento sillogistico. Da questo punto di vista, il problema dell’I., nei termini in cui l’aveva prospettato la critica degli Stoici e di Sesto Empirico non sorgeva neppure. Dall’altro lato il cartesianesimo non era interessato a porsi il problema dell’I., riservando ad essa quella stessa funzione preparatoria e subordinata che Aristotele le aveva riconosciuto. « L’I. da sola, dice la Logica di Portoreale, non è mai un mezzo certo per acquistare una scienza perfetta perchè la considerazione delle cose singole è solo una occasione per il nostro spirito di fare attenzione alle sue idee naturali, secondo le quali giudica della verità delle cose in generale. Così è vero, per es., che io non avrei mai preso in considerazione la natura del triangolo se non avessi visto un trian- golo che mi ha dato occasione di pensarci; tuttavia non è stato l’esame particolare di questi triangoli a farmi concludere generalmente e certamente che l’area di tutti i triangoli è uguale al rettangolo co- struito sulla base diviso la metà dell’altezza (giacchè quest’esame è impossibile) ma la sola considera- zione di ciò che è incluso nell’idea del triangolo, che trovo nel mio spirito» (ARNAULD, Log., III, 19, $ 9). Pertanto, solo dopo che le scienze avevano incominciato ad usare ampiamente il pro- cedimento induttivo, come avvenne nella seconda metà del ’600, il problema dell’I. come problema della validità del procedimento induttivo e del di- ritto di usarlo, fu di nuovo posto ed affrontato. A porlo chiaramente fu, allora, il dubbio scettico di Hume. Diceva Hume: « Tutte le inferenze tratte dall’esperienza suppongono, come loro fondamento, che il futuro rassomiglierà al passato e che poteri simili saranno uniti a simili qualità sensibili. Se ci fosse qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il passato non servisse di regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna in- ferenza o conclusione. È impossibile perciò che argomenti tratti dall’esperienza possano provare la rassomiglianza del passato con il futuro: giacchè tutti gli argomenti siffatti sono fondati sulla suppo- sizione di quella rassomiglianza. Sia pure ammesso che il corso delle cose è stato sempre regolare: questo solo, senza alcun argomento o inferenza nuova, non prova che per il futuro continuerà così» (Ing. Conc. Underst., IV, 2). In questi termini il problema dell’I. è stato costantemente posto nel mondo moderno. Ad esso sono state date tre soluzioni fondamentali: 484 1° la soluzione oggettivistica; 2° la soluzione soggettivistica; 3° la soluzione pragmatica. Que- st’ultima soluzione segna il passaggio dalla con- cezione necessitaristica (presupposta dalle altre due) ad una concezione probabilistica dell’induzione. 1° La soluzione oggettivistica consiste nel ri- tenere che esiste un’uniformità della natura che consente la generalizzazione delle esperienze uni- formi. Questa soluzione è assai antica perchè si trova sostenuta da Filodemo nella sua polemica contro gli Stoici. « Dal fatto che tutti gli uomini della nostra esperienza, diceva Filodemo, sono si- mili anche rispetto alla mortalità, noi inferiamo che tutti gli uomini universalmente sono soggetti alla morte, dato che nulla si oppone a questa inferenza o ci mostra che gli uomini non siano suscettibili di morte. Facendo appello a questa simiglianza, dichiariamo che, nei rispetti della mor- talità, gli uomini fuori della nostra esperienza sono simili a quelli che si manifestano nella nostra esperienza » (De Signis, XVI, 16-29; De Lacy, /bid., pag. 58 sgg.). In questo passo ovviamente il diritto dell’inferenza induttiva viene fondato sulla unifor- mità rivelata dalle somiglianze. In modo analogo, alla fine della Scolastica, Duns Scoto e Ockham po- nevano a base dell’I. il principio di causalità. Duns Scoto diceva: « Delle cose conosciute per esperienza io dico che, sebbene l’esperienza non si abbia di tutte le cose singolari nè sempre ma solo per lo più, l’esperto tuttavia conosce infallibilmente che è così, sempre e in tutti i casi, sulla base di questa proposizione esistente nell'anima: tutto ciò che deriva per lo più da una causa non libera è l’ef- fetto naturale di questa causa » (Op. Ox., I, d. 3, q. 4, n. 9); nel qual passo, effetto narurale significa effetto uniforme perchè necessario. Ockham a sua volta poneva come fondamento dell’I. il principio « Cause della stessa natura (ratio) hanno effetti della stessa natura » (/n Sent., Prol., q. 2 G). E la mede- sima soluzione veniva riproposta nel sec. xrx da Stuart Mill. Il fondamento dell’I. è il principio delle uniformità delle leggi di natura e tale principio non è che lo stesso principio di causalità. Questo a sua volta, non potendo essere ridotto a un istinto infal- libile del genere umano o a un'intuizione imme- diata, non può essere che il prodotto di un’indu- zione. « Noi arriviamo a questa legge generale, dice Stuart Mill, mediante generalizzazione da molte leggi di generalità inferiore. Non avremmo mai avuto la nozione della causazione (nel significato filosofico del termine) come condizione di tutti i fenomeni, se molti casi di causazione o in altre parole molte parziali uniformità di successione non ci fossero diventate precedentemente familiari. La più ovvia delle uniformità particolari suggerisce e rende evi- dente l’uniformità generale e l’uniformità generale, INDUZIONE una volta stabilita, ci permette di dimostrare le altre uniformità particolari dalle quali risulta » (Logic, III, 21, $ 2). L’uniformità della natura non è quindi che una semplice I. per enumerationem simplicem. Il circolo vizioso è evidente. A questo circolo si riduce ogni analoga soluzione del pro- blema. 2° La seconda soluzione del problema dell’I. è quella soggettivistica o critica propria del kantismo. Essa fu prospettata dallo stesso Kant come risposta al dubbio di Hume sulla possibilità della generaliz- zazione scientifica; e consiste nell’ammettere l’uni- formità della struttura categoriale dell’intelletto e perciò della forma generale della natura che da esso dipende. Dice Kant: « Ogni percezione possi- bile, perciò tutto quello che può giungere alla coscienza empirica — cioè tutti i fenomeni della natura quanto alla loro unificazione — sottostanno alle categorie, dalle quali dipende la natura, con- siderata semplicemente come natura in generale, come dal principio originario della sua necessaria conformità a leggi (quale natura formaliter spectata). Ma neanche la facoltà pura dell’intelletto arriva a prescrivere, mediante le sole categorie, più leggi di quelle sulle quali riposa una natura in generale come regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo ». Le leggi particolari devono quindi essere desunte dall’esperienza (Crif. R. Pura, $ 26). Questo significa che la natura nella sua conformità alle leggi cioè nella sua uniformità, dipende dalle ca- tegorie cioè dalla struttura uniforme dell’intelletto; e che pertanto le uniformità o leggi che si possono ritrovare nell’esperienza sono garantite dall’uni- formità della forma comune (intelletto-natura). Questa dottrina è simmetrica e opposta a quella dell’uniformità naturale, ma il suo significato è lo stesso. Una trascrizione in termini spiritualistici della stessa tesi fondamentale è quella di Lachelier (Fon- damento dell’I., 1871), secondo la quale la possibilità dell’I. poggia sull'ordinamento finalistico dell’uni- verso cioè sul fatto che l’ordine della natura è stabilito dallo spirito (Fondement de l’induction, Paris, 1907, pag. 12). A questo tipo di soluzione si riducono tutte le giustificazioni spiritualistiche o idealistiche. 3° La giustificazione pragmatica è stata avan- zata, nella filosofia contemporanea quando si è riconosciuta l’impossibilità di una giustificazione teoretica ma non si è giunti a negare la legittimità del problema cioè della richiesta di una giustifica- zione. La giustificazione è stata, in questa direzione, cercata mediante un’interpretazione probabilistica dell’induzione. La più semplice espressione della regola dell’I. probabilistica è forse quella data da Kneale: « Quando abbiamo osservato un numero di cose « e trovato che la frequenza della cose B INDUZIONE fra esse è f, assumiamo che P (a, 8) = f, cioè che la probabilità che una cosa a sia 8 dev'essere fa» (Probability and Induction, Oxford, 1949, pag. 230). Espressioni più complicate della stessa regola sono state date da Lewis (Analysis of Knowledge, 1946, pag. 272) e da Reichenbach (Theory of Probability, 1949, pag. 446; cfr. pure Experience and Prediction, Chicago, 1938, pag. 339 sgg.). Ma tutte equivalgono a dire che, quando un determinato carattere ri- corre in una certa proporzione dei campioni esami- nati, si può assumere che questa proporzione valga per tutti gli altri esempi del caso, salvo prova in contrario. Quando la proporzione è uguale al cento per cento dei campioni esaminati, cioè quando il carattere in questione ricorre in tutti, si ha il caso della generalizzazione uniforme o completa. È questo il caso quando si afferma che «tutti gli uomini sono mortali » per il fatto che l’essere mortale si è sempre trovato costantemente congiunto con l’es- sere uomo. Dall'altro lato quando il valore nume- rico di quella proporzione si assume come misura della possibilità che il carattere in questione ricorra in un nuovo esempio, si ha un giudizio di proba- bilità (v.). Ovviamente la generalizzazione completa o il giudizio di probabilità sono aspetti della ge- neralizzazione statistica. Stando ciò, la giustifica- zione dell’I. da un punto di vista pragmatico può essere fatta asserendo: a) che l’I. è il solo mezzo di ottenere previsioni; 5) che essa è il solo metodo suscettibile di autocorrezione. a) Dice Kneale: « L’I. primaria è una diret- tiva razionale non perchè sia certo che essa conduce al successo ma perchè è il solo modo di tentare di fare ciò di cui abbiamo bisogno, cioè previsioni esatte» (Op. cif., pag. 235). Contro questo argo- mento, che è condiviso da molti (cfr., per es., REI- CHENBACH, Op. cif., pag. 475), Black osserva che, se l’I. è l’unico mezzo per ottenere previsioni, il successo delle previsioni stesse non la conferma, come non la confuta l’insuccesso di esse (Problems of Analysis, 1954, pag. 174 sgg.). L'argomento, come quello analogo che I’I. è il solo metodo per controllare gli altri metodi di previsione, ha la pretesa, osserva Black, di giustificare deduttivamente l’I. stessa cioè di giustificarla sulla base di argo- menti che hanno, come i loro stessi proponenti riconoscono (REICHENBACH, Op. cit., pag. 479; J. O. Wispom, Foundations of Inference in Natural Science, 1953, pag. 229) carattere analitico o tauto- logico. Gli argomenti genuinamente pratici, osserva ancora Black, non sono deduttivi. Nella vita quoti- diana, in una situazione che esige una decisione, gli indizi indicano, con qualche grado di sicurezza, quella che dovrebbe essere l’azione adatta; ma questa non è deducibile da quella indicazione nè la condotta contraria implica contraddizione (Pro- 485 blems of Analysis, pag. 185). Questo tipo di argo- mento non ha pertanto valore come giustificazione del procedimento induttivo. b) Il secondo argomento fondamentale per la giustificazione pratica dell’I. è la sua capacità di autocorrezione. Peirce per primo ha insistito su questo carattere, scorgendo in esso l’essenza stessa dell’I. (Coll. Pap., 2.729). E Reichenbach ha detto: «Il procedimento induttivo ha il carattere di un metodo di rrial and error così progettato che per le serie che abbiano un limite delle frequenze esso condurrà automaticamente al successo in un nu- mero finito di passi. Può essere chiamato un metodo autocorrettivo o asintotico » (Op. cit., pag. 446, $ 87; cfr. KNEALE, Op. cit., pag. 235). Contro questo argomento Black ha osservato che il termine auto- correttivo non è esatto, giacchè è vero che l’I. in- clude la possibilità costante della revisione ma per dire che le revisioni siano correzioni, sarebbe ne- cessario mostrare che esse sono progressive cioè dirette in un’unica direzione e in quella buona. Ma è proprio questa sicurezza che manca (Problems of Analysis, pag. 170). Ora si può concedere a Black che neanche questo argomento sia veramente una «giustificazione » dell’I. nel senso universale o deduttivo della parola « giustificazione ». Ma che l’autocorreggibilità sia il carattere del procedimento induttivo come di ogni procedimento scientifico è cosa che non può essere messa in dubbio; ed è d'altronde il carattere al quale lo stesso Black fa appello per caratterizzare il metodo scientifico (Op. cit., pag. 23). La revisione, che l’I. rende pos- sibile e a cui anzi l’intero suo procedimento è intrinsecamente subordinato, è una correzione nel senso preciso del termine, cioè come eliminazione di un errore rivelato dal procedimento stesso. Una modificazione che non fosse revisione o correzione in questo senso non sarebbe richiesta ed effettuata dall’induzione. Con tutto ciò, lo stato attuale del problema dell’I. sembra bene espresso dalla conclusione di Black che una giustificazione dell’I. non solo è impossibile, ma che il problema di essa è privo di senso, se per giustificazione s’intende la dimostra- zione della validità infallibile del procedimento in- duttivo. « Insistere che vi dev'essere una conclusione sarebbe come dire che, poichè un buon giocatore di scacchi conosce i movimenti da farsi in una partita di scacchi, egli dev’essere anche capace di sapere i movimenti da farsi in una scacchiera con un solo pezzo. Ma questo non è un problema di scacchi e non c’è niente che il giocatore di scacchi debba risolvere. Il problema di ciò che dobbiamo inferire quando conosciamo solo che alcuni A sono B non è un genuino problema induttivo e non c’è modo di risolverlo salvo che riconoscendo 486 che sarebbe inopportuno tentarlo » (Op. cit., pa- gine 188-89; cfr. Language and Philosophy, 1952, cap. IM. In altri termini, il problema dell’I. in generale come problema di inferire il futuro dal passato o i casi non osservati da quelli osservati, è un problema privo di senso per mancanza di dati. Se questi dati sono forniti, non esiste più un pro- blema dell'I. ma problemi appartenenti ai domini delle singole scienze. Si deve aggiungere tuttavia che l’eliminazione del problema dell’I. nella sua forma classica non esime il filosofo dall’analisi dei proce- dimenti induttivi adoperati dalle singole scienze, dal confronto di tali procedimenti e dalle genera- lizzazioni che da tale confronto possono nascere. È chiaro tuttavia che quest'ordine di ricerche, a tutt'oggi non ancora intraprese, non condurrà mai a una giustificazione dell’induzione. La giustifica- zione infatti, se fosse raggiunta, avrebbe per suo effetto immediato la eliminazione di ogni rischio dei procedimenti induttivi e la riduzione di questi procedimenti alla certezza e alla necessità di quelli deduttivi. In realtà i procedimenti scientifici e in

generale i comportamenti e le direttive razionali dell’uomo, consistono nel limitare il rischio cioè nel renderlo calcolabile: non nell’eliminarlo. I pro- blemi filosofici non possono quindi essere posti in modo che la loro soluzione significherebbe l’elimi- nazione del rischio. Il carattere chimerico di una simile impostazione fa vedere, meglio di ogni altra cosa, l’illegittimità del problema della giustificazione dell’induzione. In forma estrema questa tesi è stata espressa da Popper che ha considerato l’I. come un semplice mifo, che non è un fatto psicologico, nè un fatto della vita ordinaria nè una qualsiasi procedura scientifica; e ha ritenuto che la scienza procede col metodo del trial and error cioè salta di colpo, anche da una singola osservazione, a una congettura o a un’ipotesi che poi cerca di confutare e che viene mantenuta finchè la confutazione non è riuscita (Conjectures and Refutations, 1965, pa- gine Sl sgg.). INDUZIONE MATEMATICA (ingl. Ma- thematical Induction; franc. Induction mathématique; ted. Mathematische Induktion). Si indica con questo nome il principio che serve a stabilire la verità di un teorema matematico in un numero indefinito di casi. Si chiama anche principio di ricorrenza o ragionamento per ricorrenza (Porncaré, La science et l’hypothèse, I, $ 3). Peano ha così definito il principio: « Sia S una classe, supponiamo che O appartenga a questa classe e che tutte le volte che un individuo appartenga a questa classe, anche quello seguente vi appartenga; allora tutti i numeri appartengono a questa classe. Si chiama principio d’I. questa proposizione » (Formul. Mat., $ 10). Il principio non ha niente in comune con l’I. scientifica INDUZIONE MATEMATICA salvo il carattere di generalizzazione (cfr. MORRIS R. CoHen-ERNEST NagEL, The Nature of a Logical or Mathematical System, $ 6, in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 144). INERENZA. V. Essere, 1, A). INERZIA (ingl. Inertia; franc. Inertie; tedesco Tragheit). La storia di questo concetto fondamen- tale della meccanica moderna deve molto alla filo- sofia. Alla fisica di Aristotele questo concetto era estraneo perchè essa riteneva valido un teorema che lo esclude: il teorema che «tutto ciò che si muove è mosso necessariamente da qualche cosa » (Fis., VII, 1, 241b 24). È ovvio che, se questo principio è vero, un corpo non può persistere nel suo stato di movimento senza l’azione di un altro corpo. La teoria dell’imperus, esposta dagli Scola- stici del sec. xIv, costituisce la prima critica del principio aristotelico e il primo affacciarsi della nozione di inerzia. A] principio aristotelico, Ockham aveva opposto l’esempio della freccia, o di qual- siasi altro proiettile, a cui viene comunicato un impulso che il proiettile conserva senza che il corpo che glielo ha comunicato lo accompagni nella sua traiettoria (Zn Sent., II, q. 18, 26). Un discepolo di Ockham, Buridano (sec. xiv) riprende questa dottrina e l’applica al movimento dei cieli: questi possono benissimo essere mossi da un impeto loro comunicato dalla potenza divina, impeto che si conserva perchè non viene diminuito o distrutto da forze opposte (/n Phys., VIII, q. 12). Nicola di Oresme e Alberto di Sassonia che appartennero anch’essi alla corrente ockhamistica che fiorì nel sec. xIv nell’Università di Parigi riprendono e difen- dono questa teoria. Da questa tradizione scolastica la nozione di I. passò nei fondatori della scienza mo- derna, Leonardo e Galilei. Quest’ultimo si serve della nozione costantemente e la appoggia a una specie di esperimento mentale. Parlando del movimento di una palla perfetta su un piano assai liscio egli chiede: «Or ditemi quel che accadrebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non fosse nè acclive nè declive »; e risponde che «esso sarebbe perpetuo 1 (Op., VII, 273; cfr. VIII, pag. 243). Ma per quanto Galilei si servisse correttamente della nozione di I., egli non ne formulò esplicitamente il relativo prin- cipio; e il primo a formularlo fu in realtà Cartesio che stabili come «prima legge della natura» il principio « Ciascuna cosa particolare continua ad essere nel medesimo stato fintanto che può e non lo cambia se non per il suo incontro con altre cose » (Princ. Phil., II, $ 37). Alcuni decenni dopo, ac- colto da Newton come primo principio della dina- mica nei Principi matematici della filosofia naturale (1687), il principio d’I. faceva il suo definitivo ingresso nella scienza moderna, per la quale esso fu e rimane, più che una «legge di natura+?, nel INFINITO senso in cui Cartesio intendeva il termine, o una verità sperimentale, un postulato o principio stru- mentale che permette il calcolo della forza (v.) o dell’energia (v.). Sulla teoria dell’impetus, cfr. DUHEM, Études sur Léonard de Vinci, Parigi, 1909. INESPRIMIBILE (lat. Ineffabilis; ingl. Inex- pressible; franc. Inexprimable; ted. Unaussprechlich). Nella teologia mistica, a partire dalle antiche reli- gioni misteriosofiche, I. è ciò che si rivela nel punto culminante dell’esperienza mistica, cioè nell’entu- siasmo o nell’estasi (cfr. PLOTINO, Enn., VI, 9, 1l; Pseupo-DIONIGI, Myst. Theol., I, 1; S. BONAVEN- TURA, /tinerarium Mentis in Deum, VII, 5; ecc.) Nella filosofia contemporanea Wittgenstein, nella chiusa del Tractatus logico-philosophicus (1922) am- metteva l’esistenza dell’I.: « C'è veramente l’ine- sprimibile. Esso si mostra, è ciò che è mistico» (Tract., 6. 522). « Noi sentiamo, egli diceva, che

se tutte le possibili domande della scienza avessero una risposta, i problemi della nostra vita non sa- rebbero nemmeno sfiorati. Certo non rimarrebbe allora alcuna domanda; e questa è appunto la risposta » (/bid., 6, 52). E il Tractatus si chiudeva con l’affermazione: « Di ciò di cui non si può par- lare, si deve tacere» (/bid., 7). Dall'altra parte, Carnap parlava di una « mitologia dell’I.» e con- siderava questa parola particolarmente pericolosa perchè atta a produrre confusioni e incertezze. L'enunciato « Vi sono oggetti I. », tradotto in lin- guaggio formale, suona, per Carnap, semplicemente « Vi sono designazioni di oggetti che non sono de- signazioni di oggetti» o « Vi sono enunciati che non sono enunciati » (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 81; trad. ingl., pag. 314). INFERENZA (ingl. Inference; franc. Inférence; ted. Inferiren). Nel latino medievale si trova presso molti logici il termine inferre per indicare il fatto che, in una connessione (o consequentia) di due proposizioni, il primo (antecedente) implica (0 meglio contiene per « implicazione stretta ») il se- condo (conseguente). Nella filosofia moderna il termine «I.» (preferito dagli Anglosassoni) è di solito usato come sinonimo di « illazione » (prefe- rito dagli Italiani), peraltro in un senso molto sciolto, che va da quello di implicazione (v.), per es., in Jevons e in genere nei logici inglesi dell’800, a quello di processo mentale operativo mediante il quale, partendo da certi dati, si arriva per impli- cazione, o anche per induzione, ad una conclusione (Stebbing, Dewey). Dice, ad es., Stuart Mill: « In- ferire una proposizione da una o più proposizioni antecedenti; assentire o credere ad essa come con- clusione da qualche cosa d’altro, questo è ragionare nel più esteso significato del termine» (Logic, II, 1, 1). Nello stesso senso generalissimo la parola viene adoperata da Peirce (Chance, Love and Logic, 487 cap. VI) e da molti logici contemporanei, Lewis, Reichenbach, ecc. Dewey ha distinto l’I. come relazione tra segno e cosa significata dall’implica- zione che sarebbe la relazione tra i significati che costituiscono le proposizioni (Logic, Introduzione; trad. ital., pag. 96); ma questa proposta non ha avuto sèguito. a. P. INFINITESIMALE (lat. Infinitesimus; inglese Infinitesimal; franc. Infinitésimal; ted. Infinitesimal). Una grandezza che può essere resa più piccola di ogni grandezza assegnabile; o, come anche, meno propriamente, si dice, una grandezza tendente a zero. Questo concetto fu conosciuto dai Greci che l’utilizzarono spesso. Esso è presupposto dagli ar- gomenti di Zenone di Elea contro il movimento (v. ACHILLE; DicoroMia; FRECCIA; STADIO); e fu chiaramente espresso da Anassagora che disse: 4 Rispetto al piccolo non c'è un minimo ma c’è sempre un più piccolo perchè ciò che esiste non può venire annullato » (Fr. 3, Diels). Lo stesso concetto veniva espresso da Aristotele (Fis., III, 7, 207 b 35). Gli ultimi scolastici ripresero questi concetti (cfr. per tutti OCKHAM, /n Sent., I, d. 17, q. 8), che fu poi messo da Leibniz a fondamento del calcolo I., il cui primo documento importante è la memoria dello stesso Leibniz intitolata Nuovo metodo per î massimi e i minimi (1682). INFINITO (gr. &respov; lat. /nfinitum; ingl. In- finite; franc. Infini; ted. Unendlich). Il termine ha i seguenti significati principali che sono tra loro variamente imparentati: 1° l’I. matematico che è la disposizione o la qualità di una grandezza; 2° l’I. teologico che è l’illimitatezza di potenza; 3° I’I. metafisico che è l’assenza di compiutezza. 1° La concezione matematica dell’I. ha ela- borato due diversi concetti di esso e cioè: a) il concetto dell’I. potenziale come limite di certe ope- razioni sulle grandezze; 5) il concetto dell’I. attuale come una specie particolare di grandezza. a) Il concetto dell’I. potenziale è stato ela- borato da Aristotele. Aristotele negava che I'I. potesse essere arruale cioè reale sia come realtà a sè (sostanza) sia come attributo di una realtà (Fis., III, 5, 204a 7 sgg.). Questo vuol dire che l’I. non è sostanza nè proprietà o determinazione sostanziale ma «esiste soltanto in modo acciden- tale » (/bid., 204 a 28): cioè come disposizione delle grandezze. Quale disposizione? Aristotele dà due significati fondamentali dell’I.: per il primo, VI. è «ciò che per natura non può essere percorso » nel senso in cui la voce è ciò che non può essere visto. Nel secondo, l’I. è ciò che si può percorrere, ma non tutto, perchè è senza fine; e in questo senso è I. per composizione o per divisione o per entrambe le cose (/bid., III, 4, 204a 3). Ora VI. in senso matematico è soltanto quest’ultimo cioè l’I. che 488 si può percorrere ma mai esaurientemente o com- pletamente. In questo senso l’I. è tale «che si può prendere sempre qualcosa di nuovo, e ciò che si prende è sempre finito ma sempre diverso. Sicchè non bisogna prendere l’I. come un singolo essere, per es., un uomo o una cosa, ma nel senso in cui si parla di una giornata o di una lotta, il cui modo d’essere non è una sostanza ma un processo e che, se pure è finito, è incessantemente diverso » (/bid., III, 6, 206 a 27). Non è pertanto I. ciò al di fuori di cui non c’è nulla, come si ritiene comunemente, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa; per conseguenza l’I. rientra più nel concetto di parte che in quello di tutto (Zbid., IIl, 6, 206b 32; 207 a 27). Questo concetto aristotelico veniva uti- lizzato da Lucrezio per difendere la dottrina epi- curea dell’infinità dello spazio ed espresso con l'immagine di una freccia lanciata a partire dal- l'estremo confine dell’universo, ipoteticamente am- messo: sia che la freccia incontri un ostacolo, sia che proceda al di là, l’estremo confine dell’universo non è più tale perchè è solo il punto di partenza della freccia (De rer. nat., I, 967-982). Anche in quest'immagine l’I. è ciò di cui si può prendere sempre una parte, e ciò che si prende è sempre finito ma sempre diverso. Questo concetto dell’I. è es- senzialmente negativo: consiste nella non esauri- bilità di certe grandezze sottoposte a determinate operazioni che sono quelle della composizione, cioè dell’aggiunta di una parte sempre nuova, e della divisione in parti sempre nuove. La prima opera- zione tende all’infinitamente grande, la seconda all’infinitamente piccolo (cioè all'infinitesimo [v.])): entrambe definiscono il concetto dell’I. come ine- sauribilità di parti dentro parti. Ma così inteso il concetto è ovviamente negativo: caratterizza l’ine- sauribilità o incompletezza di una serie. Giusta- mente a questo proposito Plotino osservava che l’I. è ciò che non può essere esaurito nella sua grandezza o nel numero delle sue parti (Enn., VI, 9, 6). E Kant, dallo stesso punto di vista, di- ceva: « Il vero (trascendentale) concetto dell’infinità è che la sintesi successiva dell’unità nella misura- zione d'un quantum non può essere mai compiuta » (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. 2, sez. 2). Questa specie di I. è quella che i logici del Medioevo ave- vano chiamato I. sincategorematico (syncategore- maticum): che è l’I. inteso come disposizione (non qualità) di un soggetto e distinto dall’I. caregore- matico che sarebbe l’I. come qualità o come so- stanza (Pietro IsPanO, Sum. Log., 12.57; OCKHAM, In Sent., I, d. 17, q. 8). Era questo anche l’I. che nella matematica del "700 e della prima metà del- l’800 fu definito mediante il concetto di limite (cioè come il campo delle serie, delle successioni, ecc.) ma al quale i matematici di quel tempo non rico- INFINITO nobbero il rango di un tipo di grandezza a sè stante. Diceva Gauss in una lettera del 1831: « Protesto contro l’uso di una grandezza I. come qualcosa di completo, uso che non venne mai ammesso nella matematica. L’I. è soltanto una facon de parler; a voler essere rigorosi si parla in- vece di limiti cui alcuni rapporti vengono vicini quanto si vuole, mentre ad altri rapporti è per- messo crescere oltre ogni misura + (cfr. GEYMONAT, Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, 1947, pag. 174-75). I Paradossi dell’I. (1851) di Bernardo Bolzano segnano il primo avviamento decisivo verso un nuovo concetto dell’infinito. 6) Il secondo concetto dell’I. è quello del- l’I. categorico o (come meno propriamente si dice) attuale, cui solo la matematica moderna ha dato forma rigorosa. A questo concetto tuttavia essa stessa è stata avviata dalle discussioni tradizionali sui cosiddetti paradossi dell’infinito. Già Ruggero Bacone, per confutare l’infinità del mondo, faceva vedere che, se si ammette l’I., si deve concludere che la parte è maggiore del tutto cui appartiene (Opus tertium, ed. Brewer, 41, pag. 141-42). E argomenti simili furono ripetuti frequentemente nella Scolastica del ’300. Ma tale Scolastica ci offre anche, con Ockham, una risposta a tali ar- gomenti che indica la via la quale sarà poi seguita dalla matematica della seconda metà dell’800. Af- ferma infatti Ockham: « Non è incompatibile che la parte sia uguale o non minore del suo tutto perchè ciò accade ogni qualvolta una parte del tutto è I... Ciò accade anche nella quantità discreta o in una qualunque molteplicità, una parte della quale abbia unità non minori di quelle contenute nel tutto. Così in tutto l’universo non ci sono parti in numero maggiore che in una fava, perchè in una fava ci sono infinite parti. Sicchè il principio che il tutto è maggiore della parte vale soltanto per i tutti composti di parti integranti finite » (Cenr. Theol., 17 C; Quodl., I, q. 9). Questa coraggiosa limita- zione del valore di un assioma, che appariva allora evidente, non ebbe tuttavia séguito per molto tempo. Lo stesso Galilei, per evitare la possibilità di una eguaglianza tra la parte e il tutto (a proposito del rapporto fra i quadrati e la serie naturale dei nu- meri) affermò « gli attributi di ‘ eguale *, ‘ maggiore ’, e ‘ minore’ non aver luogo negli I. ma solo nelle quantità terminate» (Scienze nuove, Op., VIII, pag. 79) lasciando così inalterata la verità del pre- teso assioma. Esso veniva a cadere e dichiarato frutto di una generalizzazione fallace (cfr. RUSSELL, Principles of Mathematics, 1903, pag. 360) solo quando Giorgio Cantor (nei Mathematische Annalen, fra il 1878 e il 1883) e Dedekind (Continuità e nu- merì irrazionali, 1872; Che cosa sono e che cosa debbono essere i numeri, 1888) enunciarono un INFINITO nuovo concetto dell’infinito. Questo consiste nell’as- sumere come definizione dell’I. esattamente quello che era apparso sin allora come il « paradosso + dell’I. stesso: l'equivalenza della parte e del tutto. Si può illustrare questa concezione ricorrendo al- l’esempio fatto da Royce (The World and the Indivi- dual, 1900-01; cfr. il Saggio complementare « L’uno, i molti e l’I. » aggiunto al vol. I dell’opera). Suppo- niamo che ci sia una carta geografica idealmente perfetta, tale cioè che, se A è l’oggetto riprodotto ed A° la carta geografica, questa stia in corrispon- denza con A in modo tale che per ogni particolare elemento di A, cioè a, è, c, possa essere determinato in A’ qualche corrispondente elemento a’, bd’, c’, conformemente al sistema di proiezione prescelto. Poniamo inoltre che questa carta geografica sia disegnata entro e sopra una parte della superficie della regione riprodotta, per es., dell’Inghilterra. Se questa carta è, come dev'essere per ipotesi, idealmente perfetta, deve rappresentare tutto ciò che c’è sulla superficie dell’Inghilterra, quindi la stessa carta geografica. La rappresentazione di quest’ultima, essendo a sua volta perfetta, dovrà contenere come parte di sè la rappresentazione di sè; e così via senza limite. Un sistema simile è chiaramente I., non in quanto inesauribile, ma in quanto autorappresentativo, o come meglio si dice autoriflessivo. In termini matematici, un insieme autoriflessivo è quello che si può mettere in corri- spondenza biunivoca con qualche suo sotto-insieme. Questo è proprio il caso della serie naturale dei numeri che si può mettere in corrispondenza biuni- voca con i suoi sotto-insieme, per es., con i qua- drati, con i numeri primi, ecc. La potenza comune di due insiemi tra i quali esista una corrispondenza biunivoca è, secondo Cantor, il «numero cardinale» dei due insiemi. Questo numero si dirà transfinito quando l’insieme risulta equipotente ad una sua propria parte o sottoinsieme. In tal modo, il concetto di numero cardinale I. che era stato sempre negato come contraddittorio faceva il suo ingresso nella mate- matica. Esso doveva rivelarsi ben presto fonte di nuove difficoltà e problemi: difficoltà e problemi che costituiscono i « paradossi » della logica moderna, per quanto anch’essi non fossero del tutto scono- sciuti allo logica antica (v. ANTINOMIE). Ma il concetto dell’I. matematico non è stato modifi- cato dalla trattazione di questi paradossi e dalle soluzioni per essi proposte. 2° Il secondo concetto di I. è di natura teologica ed è sorto nell’ultimo periodo della filosofia greca con Filone e Plotino. Quest’ultimo aveva distinto l’infinità del numero che è « inesauribilità » (Enn., VI, 6, 17) dall’infinità dell’Uno che è invece « l’il- limitatezza della potenza» (/bid., VI, 9, 6). Con 489 minor precisione di linguaggio, questo concetto viene espresso frequentemente nella Scolastica me- dievale. S. Tommaso, dopo aver osservato che i primi filosofi ebbero ragione a ritenere I. il prin- cipio delle cose « considerando che le cose derivano dal primo principio all’I. », distingue l’I. della ma- teria che è imperfezione perchè la materia senza forma è incompiuta, e l’I. della forma che invece è perfezione perchè è proprio di quella forma che non riceve l’essere da altro ma da se stesso, cioè di Dio (S. 7A., I, q. 7, a. 1). Chiamare I. la forma di per sè sussistente sembra voler significare che

l’I. è ciò che, per essere, non ha bisogno di altro, ed è perciò illimitata potenza di essere. Non molto diverso è il senso che sembra avere la tesi di Duns Scoto sull’infinità come modo d’essere proprio di Dio. Duns osserva che se si dice che Dio è sommo, gli si dà una determinazione che gli compete ri- spetto alle cose che sono diverse da lui: è sommo fra tutte le cose esistenti. Ma se si dice che è I., si intende che è sommo nella sua natura intrinseca, cioè che trascende ogni grado possibile di perfezione (Op. Ox., I, d. 2, q. 2, n. 17). L’infinità sembra esprimere qui il «quo maius cogitari nequit» di S. Anselmo, cioè l’essere le perfezioni di Dio al di là di ogni grado raggiungibile dalle perfezioni finite. La distinzione cartesiana tra I. e indefinito (v.) che riserva soltanto a Dio l’attributo dell’infinità, sembra coincidere anche meglio con la distinzione fra II. teologico e l’I. matematico: distinzione che si trova anche in Locke (Saggio, II, 17, 1) e Leibniz (Nouv. Ess., II, 17, 2). Ma nella filosofia moderna il concetto dell’I. come illimitatezza della potenza fa veramente il suo ingresso con Fichte. Per Fichte, l’Io è I. in quanto «è posto dalla sua propria as- soluta attività » cioè in quanto la sua attività non trova limiti od ostacoli. Ponendo, nel contempo, un non-Io, l’Io si limita e diventa finito. Ma da ultimo « la finità deve essere annullata: tutti i limiti

devono sparire e deve restare solo l'Io I., come Uno e come Tutto» (Wissenschafislehre, 1794, II, $ 4, D). La contrapposizione hegeliana tra « cat- tivo I.» e «vero I. + costituisce la migliore illustra- zione di questa nozione di I. nella filosofia moderna. La falsa infinità è l’infinità matematica del progresso all’I.; giacchè questo « si arresta alla dichiarazione della contraddizione contenuta nel finito, che questo, cioè, è tanto qualcosa, quanto l’altra cosa » (Enc., $ 94). Il progresso all'I. rinvia a/ di /è del finito ma non raggiunge mai questo al di là; perciò la sua negazione del finito è un « dover essere? che non è mai un «essere». Il vero I. scioglie questa contraddizione: nega la realtà del finito come tale e lo risolve in sè. Il vero I. in altri termini è ciò che è, è la realtà. Esso «è ed è determinatamente, c’è, è presente. Solo il cattivo I. è l’al di là, essendo 490 soltanto la negazione del finito come tale... La vera infinità presa così in generale, quale un esserci che è posto come affermativo contro l’astratta negazione, è la realtà in un senso più elevato che non quella che dapprima si era determinata quale semplice realtà. La realtà ha acquistato qui un con- tenuto concreto. Non il finito è reale, ma IL» (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. II, C; trad. ital., pag. 161-62). In questo senso l’I. è, per usare una frase dello stesso Hegel, la « forza dell’e-

sistenza + (Fil. del Dir., $ 331, Zusatz), cioè la forza per la quale la ragione abita il mondo e lo domina ed è pertanto illimitatezza di potenza (Enc., $ ©). È ben noto l'uso che Hegel stesso e tutta la filo- sofia romantica dell’800 hanno fatto di questo concetto dell’I.: esso è servito a giustificare la realtà in quanto tale, il fatto, e a respingere la pre- tesa dell’intelletto « astratto » di giudicare la realtà stessa, di opporsi ad essa e di inserirsi in essa con un impegno di trasformazione. La nozione della infinità di potenza infatti è quella per la quale la realtà, ogni realtà è, in qualsiasi momento, tutto ciò che dev'essere: dato che il principio che la regge non difetta della potenza necessaria alla propria integrale realizzazione. 3° Il terzo concetto dell’I. è il corrispettivo metafisico del concetto matematico tradizionale dell’I. stesso. Si è già visto che per Aristotele l’I. non può mai essere compiuto, quindi non può mai essere un fuffo; esso è parte, cioè incompiu- tezza e inesauribilità. Aristotele dava pertanto torto a Melisso che aveva chiamato I. il tutto e ragione a Parmenide che l’aveva ritenuto finito (Fis., 6, 207 a 15). Ma tali determinazioni sono quelle che già Platone aveva riconosciuto proprie dell’I.: I. è ciò che è privo di numero o di misura, che è suscettibile del più e del meno e perciò esclude l'ordine e la determinazione (Fil, 24a-25b). È questo il concetto metafisico dell’I. che fu proprio dei Greci perchè fu strettamente connesso col loro ideale morale dell’ordine e della misura. Storica- mente parlando, questo concetto non ha superato i confini della Grecia dell’età classica. INFINITO, GIUDIZIO (ted. Unendlich Ur- tei). Kant chiamò così le proposizioni in cui il predicato è costituito da una negazione, per es., « l’anima è non-mortale » (Logik, $ 22; Crir. R. Pura, $ 9). Il termine I. era già adoperato dalla logica medievale per indicare i nomi negativi, per es., non-uomo (cfr. Preto Ispano, Summ. Log., 1.04). INFLUSSO (lat. /nfluxus, Influentia; ingl. In- flux; franc. Influence; ted. Einfluss). L’azione eser- citata da ciò che è incorporeo su ciò che è corporeo. Cardano distingueva l’I. in questo senso dal mu- tamento che è l’azione di un corpo su un altro corpo e dall’afffaro che è l’azione dell’incorporeo INFINITO, GIUDIZIO sull’incorporeo e si svolge esclusivamente nell’anima (De Subrilitate, XXI, in Opera, 1663, III, pag. 669 b- 670 a). Il termine è stato adoperato per indicare: 1° l’azione determinante degli astri sul destino e le vicende degli uomini, come mediatrice del- l’azione divina (cfr., ad es.: Cusano, De Docta Ignor., II, 12; PICO DELLA MIRANDOLA, Adv. Astro- logiam, VI, 2 e passim); 2° l’azione di governo di Dio sul mondo. In questo senso Campanella parla dei tre « grandi I.» in cui si concreta l’azione di Dio e che sono la necessità, il fato e l’armonia (Mer., IX, 1; Theol., I, 17, a. 1); 3° l’azione dell'anima sul corpo. In questo senso la parola fu adoperata nei sec. XVII e xvIn. Dice Leibniz: « Volendo sostenere questa opinione volgare dell’I. dell'anima sul corpo con l’esempio di Dio che opera fuori di lui, si fa rassomigliare troppo Dio all’anima del mondo» (IV Lettre è Clarke, $ 34). « Sistema dell’I. fisico » chiama questa dottrina Baumgarten (Mer., $ 761). E alla stessa «opinione volgare » fa cenno, per rigettarla, anche Kant (De mundi sensibilis, etc., IV, $ 17). INFORMAZIONE. V. CIBERNETICA. INGEGNO (lat. /ngenium; Ingl. Ingenuity, Wit; franc. Genie; ted. Witz). Riprendendo uno dei si- gnificati tradizionali del termine, Giambattista Vico chiamò I. la facoltà inventiva della mente umana. Egli contrappose pertanto l’I. alla ragione car- tesiana; e analogamente contrappose all’arte car- tesiana della critica fondata sulla ragione, la topica come l’arte che disciplina e dirige il procedi- mento inventivo dell’ingegno. L’I. ha tanta più forza produttiva rispetto alla ragione, quanto meno ha, nei suoi confronti, di capacità dimostrativa (De nostri temporis studiorum ratione, $ 5). Kant a sua volta intendeva per I. il talento cioè «la superiorità del potere conoscitivo che dipende dalla disposizione naturale del soggetto e non dall’inse- gnamento » e lo distingueva in I. comparativo e in I. logicizzante (Antr., I, $ 54). V. ToPICA. INGENUITÀ (ingl. Naivete; franc. Nalveté; ted. Naivetàt). Nel sec. xvi questo termine cominciò ad essere adoperato per indicare un certo modo di espressione estetica. « L’I., diceva Kant, è l’espres- sione dell’originaria sincerità naturale dell'umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda na- tura » (Crit. del Giud., $ 54). L’I. non va scambiata con la franca semplicità che non dissimula la na- tura solo perchè non comprende che cosa sia l’arte di vivere in società. È piuttosto una natura che si affaccia o si rivela nell’arte stessa (Z/bid., $ 54). A questi concetti si ispirò Schiller nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795-96). « L’ingenuo, diceva Schiller, è Ia rappresentazione della nostra infanzia perduta, che rimane per noi ciò che c’è INQUIETUDINE di più caro e perciò ci riempie di una certa tristezza ed è insieme quella della suprema perfezione del- l’ideale che perciò ci eccita in una sublime emo- zione » (Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 108). Alla poesia ingenua in questo senso si contrappone la poesia sentimentale: il poeta ingenuo è natura; il poeta sentimentale cerca la natura (/bid., pag. 125). Fuori del dominio dell’estetica, il termine è stato talora usato per caratterizzare le credenze filosofiche dell'uomo comune. « Realismo ingenuo» è stato detto e si dice la credenza comune nella realtà delle cose. E per quanto l’aggettivo abbia, in quest’uso, un certo tono dispregiativo, la critica più recente ha mostrato che non sempre le credenze ingenue sono le più deboli (v. REALISMO). ININTELLIGIBILE (lat. Znexplicabilis; ingl. Unintelligible; franc. Inintelligible; ted. Unver- stîindlich). 1. Propriamente, ciò di cui non si giunge ad afferrare il perchè nè il come; ossia ciò di cui la causa o condizione o significato è inafferrabile: l’inesplicabile (cfr. CicER., Acad., II, 29, 95). Il ter- mine ha pertanto un significato diverso e più pre- ciso che inconcepibile (v.) il quale indica soltanto una generica incompatibilità con la ragione. Leibniz stesso stabiliva la differenza tra ciò che non s’intende e ciò che è inconcepibile (Nouv. Ess., Avant propos, Op., ed. Erdmann, pag. 202). Una differenza ana- loga è stabilita fra i due termini da Peirce (Chance, Love and Logic, II, 2; trad. ital., pag. 137). 2. Detto di discorsi scritti o parlati: oscuro, confuso, non bene esposto ai fini della comunica- zione. INNATISMO (ingl. Inratism; franc. Innatisme; ted. Nativismus). La dottrina che esistono nell’uomo conoscenze o princìpi pratici innati, cioè non acqui- siti con l’esperienza o dall’esperienza, ed anteriori ad essa. Il modello di ogni I. è la dottrina platonica dell’anamnesi (v.): « Poichè l’anima è immortale ed è nata molte volte ed ha visto ogni cosa, sia qui che nell’Ade, non c’è niente che essa non abbia appreso: sicchè non fa meraviglia che possa ricor- dare, sia intorno alla virtù sia intorno ad altre cose, ciò che prima sapeva » (Men., 81 c). Ma la forma con cui l’I. è passato nella tradizione filosofica è stata data ad esso dagli Stoici. Essi ammettevano come criterio della verità, accanto alla rappresen- tazione catalettica, l’anticipazione che è «la nozione naturale dell’universale » (Dioc. L., VII, 54). Ci- cerone così esponeva il loro punto di vista: « La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben presto guastati da cattivi costumi e da false opi- nioni, le spegniamo in modo da far scomparire il lume della natura. E invero nella nostra indole sono innati i germi della virtù, e se fosse loro pos- sibile svilupparsi, la natura stessa ci guiderebbe ad una vita felice» (Tusc., III, 1, 2). Questa specie 491 di I. si ricollega alla teoria dell’istinto (v.) propria degli Stoici e viene ripresa da dottrine che hanno l’intento di mettere al riparo dal dubbio certe cre- denze fondamentali di natura teoretica o pratica. In questo senso l’I. fu ripreso dal platonismo rinascimentale di cui si può considerare una con- tinuazione il platonismo inglese del sec. xvi contro le cui tesi fondamentali è diretta la critica del primo libro del Saggio di Locke. LI. è poi ripreso in Inghilterra nel secolo successivo dalla scuola scoz- zese del senso comune (v.) e cioè da Reid e Dugald Stewart. Ma già Cartesio e Leibniz avevano dato all’I. un significato nuovo. Per Cartesio alcune idee sono innate come «capacità di pensare e di comprendere le essenze vere, immutabili ed eterne delle cose » (Méd., III; Lettre à Mersenne, 16-vi-1641, Cuvr., III, 383). E Leibniz similmente considerava innate le verità che si rivelano immediatamente tali al lume naturale, senza aver bisogno di altra ve- rifica (Nouv. Ess., I, 1, 21). In questo senso l’inna- tezza non era più una specie di scultura che l’anima porta con sè nascendo, secondo l’immagine che Cicerone aveva adoperato (De nat. deor., II, 4, 12). Al vecchio adagio scolastico: « Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu», Leibniz aggiungeva la limitazione « nisi ipse intellectus» in- tendendo dire con ciò che l’anima dispone per suo conto di categorie, come l’essere, la sostanza, l’uno, lo stesso, la causa, la percezione, il ragiona- mento, ecc.; che i sensi non potrebbero fornirle (Nouv. Ess., II, 1, $ 2). Non grande è la distanza tra questa forma di I. e la dottrina kantiana (che tuttavia si è soliti non designare con questo ter- mine) della non-derivazione dall’esperienza delle forme a priori della conoscenza. L’I. appartiene,

oggi, al novero di quelle dottrine che non si dibat- tono più perchè non si dibattono più i problemi di cui esse costituiscono le soluzioni. Nella filosofia moderna, quando si ammette che qualcosa precede l’esperienza (come fa, per es., l'idealismo hegeliano) questo qualcosa non è un complesso di idee o di virtualità, ma tutta la ragione o tutto lo spirito (cfr. A PRIORI). INQUIETUDINE (ingl. Uneasiness; francese Inquiétude; ted. Unruhe). Al termine ha dato un significato filosofico preciso Locke, intendendo per esso il disagio del bisogno inappagato (Saggio, II, 20, 6). Nella seconda edizione del Saggio Locke vide nell’I. così intesa il movente principale della volontà umana. « Dopo averci ripensato, diceva Locke, sono portato a ritenere che non sia, come generalmente si pensa, il maggior bene che si abbia in vista, bensì un qualche disagio (e per lo più quello più gravoso da cui l’uomo sia attualmente afflitto) ciò che determina la volontà... Questo di- sagio possiamo anche chiamarlo desiderio, che è 492 un disagio dello spirito per la mancanza di qualche bene» (/bid., II, 21, 31). Leibniz accoglieva con favore questa tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 20, $ 6); che fu accolta e utilizzata anche da Condillac (Traité des sensations, I, 3, $ 2). IN SÈ (gr. aùrs; lat. In se; ingl. In itself; fran- cese En soi; ted. An sich). Ciò che si considera senza riferimento ad altro e cioè: 1° indipendente- mente dalle relazioni con altri oggetti; 2° indipenden- temente dalla relazione col soggetto considerante. 1° Platone e Aristotele usano l’espressione nel primo senso. Platone parla del « bello stesso », della «somiglianza stessa», ecc. (espressioni che di solito sono state tradotte nelle lingue moderne come «bello in sè», «somiglianza in sè», ecc.) per indicare il bello, la somiglianza, ecc., fuori delle loro relazioni con le cose che ne partecipano (Fed., 65d, 75c; Parm., 130b, 150c, ecc.). Ari- stotele adopera l’espressione nello stesso senso per indicare una qualità o una sostanza, per es., « ani- male » che si consideri indipendentemente dalle relazioni con le sue specie (cfr., ad es., Mer., VII, 14, 1039 b 9). Questo significato è anche alla base del valore che Hegel dette all’espressione indicando con essa ciò che è astratto e immediato, privo di sviluppo, di riflessione, di relazione. «In sè» è pertanto il concetto nella sua immediatezza, quale è considerato dalla prima parte della logica cioè dalla Dottrina dell’essere (Enc., $ 83), nel senso che non è per sè (v.) cioè non è risolto nella co- scienza. In tal senso Hegel dice: « Le cose si dicono essere in sè in quanto si astrae da ogni esser per altro, il che in generale significa: in quanto sono pensate senza alcuna determinazione o come dei nulla » (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. II, B, a; trad. ital., pag. 124). In riferimento a questo significato Hegel usò l'espressione per indicare ciò che è in potenza, cioè che non si è ancora sviluppato e che solo perciò può essere considerato indipendentemente dalle relazioni con le altre cose. Il contrario del- l’iîn sè è in questo senso il per sè che è l’attualità o l’effettualità di una cosa per cui la cosa stessa, nel suo svolgimento si arricchisce mediante le sue relazioni con le altre. (Cfr. Geschichte der Philo- sophie, I, Intr., A, 2). 2° Nell’età moderna, a cominciare da Car- tesio, l’espressione assunse prevalentemente il signi- ficato di «indipendentemente dalla relazione col soggetto conoscente +, soprattutto nell'espressione Cosa in sè (v.). Analogamente Sartre ha inteso per « essere in sè » l'essere oggettivo, in quanto esterno e indi- pendente dalla coscienza; mentre ha chiamato la coscienza essere per sè (L’étre et le néant, pag. 30, 115 sgg.). In senso più ristretto, N. Hart- IN SÈ mann ha inteso l’essere in sè dei valori come la loro «indipendenza dall’opinare del soggetto » (Ethik, 2% ediz., 1935, pag. 149). Un significato, questo, abbastanza frequente nell’uso filosofico: Bolzano aveva parlato di una «proposizione in sè », della «rappresentazione in sè» e della «ve- rità in sè » intendendo per « in sè » in queste espres- sioni il puro significato logico-obiettivo della pro- posizione, della rappresentazione o della verità, indipendentemente dal loro esser pensate od espresse (Wissenschaftslehre, 1837, $ 19, 25, 48). INSIEME (ingl. Ser, Oggaegate; franc. Ensemble; ted. Menge). Georg Cantor il fondatore della teoria degli insiemi, defini l’I. come + l’aggregazione in un unico tutto di oggetti definiti e separati della nostra intuizione o del nostro pensiero: oggetti che sono detti elementi dell’I. » (Beitràge zur Be- grilndung der Transfinite Mengenlehre, 1895, $ 1). Questa nozione (già implicita nei precedenti lavori di Cantor, a partire dal 1878) attribuisce agli insiemi le seguenti caratteristiche: 1° L’I. esiste ogni volta che un molteplice si lascia pensare come uno cioè ogni volta che un molteplice può essere legato I. mediante una regola. 2° L’I. è internamente derer- minato, nel senso che, in virtù della regola che lo costituisce e del principio del terzo escluso, si può sempre decidere se un oggetto qualsiasi appartiene o no all’insieme stesso. 3° L’I. è una molteplicità coerente nel senso che gli elementi di esso possono stare insieme (zusammensein) senza contraddizione. In questo senso la «totalità di tutti gli oggetti pensabili» non è un I. perché è contraddittoria. 4° L'esistenza dell’I. è oggertiva cioè indipendente dal pensiero o dal linguaggio che lo esprime. 4° Come unità, l'I. può sempre costituire l'elemento di un altro insieme. In base a tali caratteri, Cantor paragonava VI. all’idea di Platone, che è anch'essa l’unità oggettiva di una molteplicità (v. IpeAa). Cantor utilizzò la teoria degli I. come fondamento del concetto dell’infinito attuale (v. INFINITO); e da Cantor in poi essa è stata adoperata per l’assiomatizzazione della matematica. Mentre i logici in generale non stabiliscono dif- ferenze tra I. e classe (v.), tranne che per sottoli- neare il carattere astratto della classe nei confronti del carattere concreto dell’I. (come fa per es. QuINE, From a Logical Point of View, VI, 3) alcuni indirizzi dell’assiomatica moderna (von Neumann, Gédel), ritengono che il concetto di I. è più ristretto di quello di classe, cioè che esistono classi che non sono insiemi. Da questo punto di vista, mentre gli insiemi sono entità logiche ben determinate, le classi sono estensioni di predicati, cioè totalità aperte che possono essere continuamente arricchite me- diante operazioni astrattive effettuate sul mondo INTELLETTO degli I. (Cfr. BetH, Les fondements logique des mathématiques, 1955, V). INSOLUBILIA. Con questo nome o con quello di Impossibilia si chiamarono nella logica medievale a partire dal sec. x1v, quelli che nella logica mega- rico-stoica erano chiamati ragionamenti ambigui o convertibili e furono anche chiamati dilemmi (v.) e più tardi antinomie (v.). INSTABILITÀ (ingl. Instability). Precarietà. Uno dei tratti fondamentali dell’esistenza secondo alcune correnti contemporanee. Dice, ad es., Dewey: «L’uomo si trova a vivere in un mondo aleatorio; la sua esistenza implica, per dirlo crudamente, un azzardo. Il mondo è la scena del rischio: e incerto, instabile, terribilmente instabile. I suoi pericoli sono irregolari, incostanti, non possono essere riportati a un tempo ed a una stagione determinata » (Expe- rience and Nature, cap. 2). INTEGRAZIONE (ingl. Integration; francese Intégration; ted. Integration). Questo termine ha significati specifici diversi in diverse branche del sapere. In matematica, è il processo al limite col quale si determina il valore di una grandezza come somma di parti infinitesimali assunte in numero sempre crescente. In biologia, significa il grado di unità o di solidarietà fra le varie parti di un or- ganismo cioè il grado nel quale tali parti sono di- pendenti l’una dall’altra. Analogamente, in psico- logia significa il grado di unità o di organizzazione della personalità; e in sociologia il grado di orga- nizzazione di un gruppo sociale. Spencer nei Primi Principi (1862) vedeva nell’I. una delle caratteristiche fondamentali dell’evolu- zione cosmica in quanto passaggio da uno stato indifferenziato, amorfo e indistinto a uno stato differenziato, formato e unificato (First Principles, $ 94). INTELLETTIBILE (lat. Intellectibilis). Ciò che non è sensibile e non ha rapporto con ciò che è sensibile; e in questo è diverso dall’inze/ligibile (v.) che può somigliare al sensibile o essere appreso in esso (In Porphirium I, P. L., 64, col. 11). La distin- zione, stabilita da Boezio, fu ripresa da Ugo di San Vittore. L’I. è il divino o ciò che di divino c’è nell'uomo, per es., l'anima (Didascalion, II, 3, 4). INTELLETTO (gr. vodc; lat. Intellectus; inglese Understanding; franc. Intelligence; ted. Verstand). Il termine è stato costantemente usato dai filosofi in un duplice significato e cioè: 1° in un signifi- cato generico come facoltà di pensare in genere e 2° in un significato specifico come una particolare attività o tecnica del pensare. In questo secondo significato il termine è stato inteso a sua volta in tre modi diversi e cioè: a) come I. intuitivo; b) come I. operativo; c) come I. comprendente o intelli- genza. 493 1° Platone e Aristotele definiscono in generale l’I. come facoltà di pensare. Platone infatti dà il nome di I. all’attività che pensa (Sof., 248 e-249 a) e che pertanto dà limiti, ordine e misura alle cose (Fil., 30c; Tim., 48 a) e chiama pensiero (vénoic) l’insieme della scienza e della dianoia cioè le atti- vità superiori dell'anima in quanto contrapposte alla congettura e alla credenza, raccolte insieme sotto il nome di opinione (Rep., VII, 534 a). A sua volta Aristotele dichiara di intendere per I. «ciò per cui l’anima ragiona e comprende » (De An., INI, 4, 429a 23). Questo significato generico era d’altronde già stato dato al termine da Parmenide (Fr. 16, Diels) e da Anassagora (Fr. 12, Diels). Ed è ovvio che tutti coloro che, come Anassagora, Platone e Aristotele, attribuirono all’I. la fun- zione di ordinatore dell’universo lo intesero, non come una specifica attività o tecnica, ma nel si- gnificato più generico di attività pensante cioè capace di scegliere, coordinare e subordinare. La stessa contrapposizione, così frequente negli an- tichi e già presente nella sua forma estrema in Parmenide (Fr. 8, Diels) tra l’I. ed i sensi, im- plica che all’I. si attribuisca il significato generico di facoltà di pensare. Analogamente la sostanzia- lizzazione che l’I. subisce ad opera del neoplato- nismo è quella della facoltà di pensare in genere, in tutte le sue molteplici forme (confronta, per es., PLOTINO, Enn., III, 8, 9-10). Questo significato generico si è conservato nella tradizione filosofica fino al Romanticismo. San Tom- maso lo esprimeva contrapponendo l’I. ai sensi, «Il nome di I., egli diceva, implica una certa co- noscenza intima; infelligere è quasi un leggere dentro (intus legere). Questo è evidente a chi con- sidera la differenza tra I°I. e i sensi: la conoscenza sensibile concerne le qualità sensibili esterne, la conoscenza intellettiva penetra sino all’essenza della cosa » (.S. 7A., II, 2, q. 8, a. 1). Dall'altro lato lo stesso significato generico si ha quando il ter- mine è contrapposto a volontà, come accade, per es., in Locke: «La capacità di pensare è ciò che si chiama I. e la capacità di volere è ciò che si chiama volontà: due capacità o disposizioni dell’anima alle quali si da il nome di facoltà» (Saggio, II, 6, 2). Leibniz a sua volta intendeva per I. «la percezione distinta unita alla facoltà di riflettere, che non c'è nell’anima delle bestie » (Nouv. Ess., II, 21, 5). Questa nozione fu poi assunta da Wolff (Psychol. empirica, $ 275). La de- finizione dell’I. come «facoltà di pensare» è un luogo comune nel *700; e Kant non fa che ripe- terlo. L’I. è per Kant «la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile », (Crit. R. Pura, Logica, Intr., I) o «il potere di conoscere in generale » (Antr., I, $ 6, 40). 494 Ma improvvisamente, con il Romanticismo, l’I. cessa di avere il valore di facoltà di conoscere in generale: si scopre la «immobilità » dell’intel- letto. Questa scoperta viene per la prima volta effettuata da Fichte. «L’I., egli dice, è I. solo in quanto qualcosa è fissato in esso; e tutto ciò che è fissato è fissato soltanto nell’intelletto. L’I. si può definire come l’immaginazione fissata dalla ragione o come la ragione provvista di oggetti

dall’immaginazione. L’I. è una facoltà spirituale in riposo, inattiva, è il puro ricettacolo di ciò che è stato prodotto dall’immaginazione ed è stato determinato o è ancora da determinare dalla ra- gione » (Wissenschaftslehre, 1794, II, Deduzione della rappresentazione, III; trad. ital., pag. 184). Ma colui che ha fatto prevalere nella filosofia la nozione di un I. « immobile », « rigido », « astratto » è stato Hegel: « Come I., egli dice, il pensiero si ferma alla determinazione rigida e alla differenza di essa verso altre: questo prodotto astratto e limitato vale per l’I. come per sè stante ed esi- stente » (Enc., $ 80). L’I. è caratterizzato dall’im- mobilità delle sue determinazioni: esso « determina e tiene ferme le determinazioni » (Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1 ediz.; trad. ital., pag. 5). Questa immobilizzazione è una falsificazione, come appare chiaro nel modo in cui l’I. intende il rapporto tra infinito e finito, dando luogo al « cattivo infinito ». « La falsificazione che l’I. intraprende con il finito e l’infinito consistente nel tener ferma come una diversità qualitativa la relazione dell’uno con l’altro, nell’affermarli nella loro determinazione come separati e precisamente come separati in maniera assoluta, si fonda sulla dimenticanza di quel che è per l’I. stesso il concetto di questi momenti » (/bid., I, I, sez. I, cap. 2, C, c.; tra- duzione ital., I, pag. 157). In tal modo il « fissare », « l’immobilizzare +, il «tener fermo», il « determi- nare assolutamente » divengono le operazioni con cui si descrive l’attività dell’I.: al quale viene contrapposta come attività autentica del pensiero la ragione, che toglie la fissità e la rigidezza delle determinazioni intellettuali e le fluidifica e relati- vizza. Questa contrapposizione diventa un luogo comune in buona parte della filosofia dell’800: l’I. pertanto decade dal suo rango di facoltà di pensare per assumere quello secondario o subor- dinato di facoltà del pensare astratto cioè del falso pensare. La persistenza di questo luogo co- mune, privo di qualsiasi seria giustificazione, si può vedere nel fatto che ai princìpi del ’900 Bergson riproponeva nell’Evoluzione creatrice (1907) la cri- tica dell’I., ritenuto, secondo lo schema hege- liano, come la facoltà che ha per oggetto spe- cifico ciò che è immobile, inerte, rigido e morto e che pertanto è radicalmente incapace di com- INTELLETTO prendere il movimento e la vita. In tal modo alla contrapposizione hegeliana I.-ragione veniva sosti- tuita la contrapposizione I.-vita o I.-coscienza, che ha ispirato e ancora ispira alcune manifestazioni della filosofia contemporanea. Tuttavia, anche al di fuori di queste antitesi stereotipate, la nozione dell’I. come facoltà di pensare in generale non ricorre più nella filosofia contemporanea nella quale essa è stata piuttosto sostituita dalla nozione di pensiero o ragione (v.). 2° Il riconoscimento del significato generico di I. è andato talora congiunto e talora no col rico- scimento di un significato specifico. Si possono distinguere tre interpretazioni fondamentali della funzione specifica dell’I. e cioè: a) l’/. intuitivo; b) 1°I. operativo; c) ’I. comprendente o intelligenza. a) La nozione dell’I. intuitivo fu elaborata da Aristotele. Per Aristotele l’I., oltre che essere in generale la facoltà « per cui l’anima ragiona e comprende », è anche una particolare virtù dia- noetica, cioè un abito razionale specifico. Come tale, è la facoltà di intuire i princìpi delle dimo- strazioni: princlpi che non possono essere appresi nè dalla scienza, che è soltanto un abito dimo- strativo nè dall’arte e dalla saggezza che concer- nono « le cose che possono essere altrimenti », cioè che sono prive di necessità (Er. Nic., VI, 6, 1140b 31 sgg.). Oltre che tali « definizioni prime », l’I. ha anche il compito di intuire «i termini ultimi» cioè i fini ai quali dev'essere subordinata l’azione (/bid., VI, 11, 1143 b). Ed insieme con la scienza, l’I. costi- tuisce la sapienza « che è insieme scienza e I. delle cose più eccelse per natura +» (/bid., VI, 7, 1151b 2) e che è perciò la più alta realizzazione dell’uomo. Questa funzione specifica dell’I., di intuire i princìpi comuni del ragionamento, fu ammessa da San Tommaso (S. 7%., I, q. 8, a. 1) e da molti altri scolastici, accanto a quella generica del « pen- sare». Kant a sua volta esplicitamente distingueva dall’I. nel senso generico un I. come facoltà spe- cifica che sta accanto al giudizio e alla ragione. «La parola I., egli diceva, viene intesa anche in un senso più particolare quando viene subordinato, come membro di una divisione, all’I. inteso in senso più generale cioè alla facoltà superiore di conoscere costituita da /, giudizio e ragione» (Antr., I, $ 40). In questo senso specifico, l’I. è la facoltà di giudicare; e il giudizio che gli com- pete è il giudizio determinante, cioè il giudizio le cui leggi entrano a costituire l’oggetto naturale in generale (e precisamente la forma di tale oggetto). Queste leggi sono all’I. « prescritte a priori +, cioè date nel suo stesso funzionamento (Crif. R. Pura, Analitica dei concetti, sez. I; Critica del Giudizio, Intr., $ IV). In questo senso specifico, come facoltà di giudicare, l’I. non è intuitivo nel senso di es- INTELLETTO ATTIVO sere in rapporto diretto con l’oggetto: esso anzi è in rapporto mediato con l’oggetto perchè, in quanto giudizio su una rappresentazione è, secondo l’espressione di Kant, «la rappresentazione di una rappresentazione ». Ma è intuitivo nello stesso senso in cui è intuitivo l’I. specifico di Aristotele: è in rapporto immediato con leggi o principi fondamen- tali che entrano a costituire l’organizzazione della scienza e la struttura dei suoi oggetti. La differenza tra il punto di vista aristotelico e il punto di vista kantiano si può esprimere nel modo seguente. Dal punto di vista aristotelico l’I. ha il compito di formulare i princìpi primi che vengono utilizzati dalla scienza dimostrativa, e di percepirne l’evi- denza. Dal punto di vista kantiano, l’I. nell’effet- tuare il suo compito, che è quello di giudicare, mette in opera i princìpi che lo costituiscono anche senza bisogno di formularli esplicitamente. Queste due alternative sono le sole che si sono storica- mente presentate nell’interpretazione dell’I. come facoltà intuitiva specifica. b) La concezione operativa dell’I. è stata presentata da Bergson, che l’ha innestata sul con- cetto romantico dell’I. inteso come facoltà del- l’immobile. Da questo punto di vista, l’I. è «la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in partico- lare utensili per fare utensili, e di variarne indefi- nitamente la fabbricazione » (Evol. créatr., 1911, 83 ediz., pag. 151). Essa è pertanto la soluzione di un problema che, su un altra linea evolutiva, ha portato all’istinto: inteso, quest’ultimo come la facoltà di utilizzare strumenti organizzati. Data la sua funzione operativa, l’intelligenza tende a co- gliere non le cose, ma i rapporti fra le cose, perciò non la materia di esse ma la loro forma; ha per oggetto principale il solido inorganico cioè immo- bile ed è caratterizzata da una incomprensione na- turale del movimento e della vita (/bid., pag. 179). Questa analisi di Bergson ha influenzato largamente la filosofia contemporanea, la quale, nelle sue cor- renti spiritualistiche e idealistiche, ha spesso utiliz- zato le conclusioni di essa per affermare che «1’I. astratto » è, tutt’al più, efficace nel dominio della scienza che è conoscenza anch'essa « astratta » ma che poco o nulla vale nel dominio della conoscenza effettiva, che sarebbe quella filosofica. Ma anche fuori di queste intenzioni denigratorie che involgono insieme l’I. e la scienza, la funzione operativa dell’I. cioè la funzione per cui esso è la capacità di affron- tare con successo le situazioni biologiche, sociali, ecc., in cui l’uomo viene a trovarsi è rimasta a caratteriz- zare l’I. stesso; nel quale pertanto difficilmente si può oggi scorgere un organo puramente teoretico. Il pragmatismo ha contribuito certamente alla for- mazione di questo punto di vista, che è diventato un luogo comune della filosofia contemporanea. 495 c) Il terzo significato specifico di I. è quello per cui esso significa comprensione e per il quale la parola intelligenza è più appropriata (com'è più appropriato in francese la parola entendement e in tedesco Verstehen). Questa accezione del ter- mine può a sua volta essere articolata in due significati. a) Un significato comune e generico per il quale intendere significa afferrare il significato di un simbolo, la forza di un argomento, il valore di un’azione, ecc. In tutti questi casi la parola esprime la possibilità di effettuare correttamente un'operazione determinata. Per es., l’intelligenza di un segno consiste nella possibilità di effettuare cor- rettamente, cioè in base all’uso stabilito o alla regola opportuna, il riferimento del segno al suo referente. L'intelligenza di un argomento consisterà nella possibilità di effettuare il collegamento tra le sue parti in modo tale che l’argomento risulti probante, ecc. L'intelligenza, in questi casi, ha si- gnificati tanto diversi fra loro come sono diversi gli oggetti o le situazioni cui si fa riferimento. In generale tutto ciò che può dirsi da questo punto di vista è che l’intelligenza designa una certa capa- cità di inserirsi nel contesto di tali situazioni e di orientarsi in esso. B) Un significato più ristretto e specifico per il quale l’intelligenza significa la comprensione di un certo tipo di oggetti, per es., di un uomo o di una situazione storica. Per tale significato del termine, v. COMPRENDERE. INTELLETTO ATTIVO (gr. vods romtiés; lat. Intellectus Agens; ingl. Active Intellect; francese Intellect Actif; ted. Active Intellekt). Nozione di origine aristotelica che ha dato luogo ad un pro- blema a lungo dibattuto dai commentatori antichi di Aristotele, dalla Scolastica araba, dalla Scola- stica cristiana e dall’Aristotelismo rinascimentale. Il problema nasce dalla distinzione aristotelica tra I. potenziale e I. attuale. « Come in tutta la na- tura, dice Aristotele, c'è qualcosa che fa da materia a ciascun genere e qualcosa invece che è causalità e attività, anche nell'anima devono necessariamente esserci queste due cose diverse. Difatti da un lato c'è I’I. che ha la potenzialità di essere tutti gli og- getti, dall’altro c’è l’I. che li produce, il quale ul- timo si comporta come la luce: anche questa infatti fa passare all’atto i colori che sono solo in potenza. Questo I. è separato e impassibile e senza mescolanza, perchè la sua sostanza è l’atto stesso + (De an., III, 5, 430a 10). Aristotele ag- giunge che soltanto questo I. attuale e attivo è «immortale ed eterno ». Di qui il problema: ap- partiene tale I. all'anima umana o fa parte, per la sua incorruttibilità, eternità e attualità perfetta, della stessa divinità? Tre sono state le soluzioni 496 principali di questo problema, e precisamente le seguenti: 1° La separazione dell’I. attivo dall’anima umana. È questa la soluzione difesa nell’antichità dal commentatore di Aristotele, Alessandro di Afro- disia (sec. m) che identificò l’I. attivo con la causa prima cioè con Dio; e ritenne proprio dell’anima umana: a) l’I. fisico o materiale (ilico) che è l’I. po- tenziale, simile all'uomo che è capace di apprendere un’arte ma non è ancora in possesso di essa; 5) l’I. acquisito (imiximitéo, adeptus) che è il perfeziona- mento o il compimento del precedente cioè l’insieme delle abilità proprie nell'uomo educato ed è simile all’artista che è giunto a possedere la sua arte (De an., I, ed. Bruns., pag. 138-39). Questa solu- zione, negando all’anima umana il solo I. immor- tale ed eterno che è quello attivo, da un lato nega l'immortalità dell’anima stessa, dall’altra accentua la dipendenza dell’attività intellettuale umana dai sensi. Essa ricorre frequentemente nella storia della filosofia. La riprende infatti il neoplatonismo arabo con Al Kindi (sec. rx), Al Farabi (sec. rx) e Avi- cenna (sec. x1): il quale ultimo tuttavia non riteneva questa soluzione contraria all’immortalità dell’anima giacchè ammetteva che la dipendenza dell’anima dall’I. attivo e quindi da Dio si conservasse anche dopo la separazione dell’anima dal corpo e bastasse a dare all’anima l’immortalità (De an., 10). Ammet- tevano egualmente questa dottrina Avempace (se- colo x) e Mosé Ben Maimon (sec. x) il più fa- moso dei filosofi giudaici del Medioevo (Guide des égarés, I, 50-52). L’ammetteva pure Ruggero Bacone (Opus Maius, ed. Bridges, pag. 143). Nel Rinascimento, la stessa soluzione veniva difesa da Pietro Pomponazzi: che insisteva sulle condizioni sensibili del funzionamento dell’I. umano e riteneva impossibile la dimostrazione dell’immortalità (De Immortalitate animae, 9). 2° La separazione dell’I. attivo e dell’I. pas- sivo dall’anima umana. Questa fu la soluzione proposta da Averroè. L’I. materiale o ilico, che i sostenitori della precedente soluzione attribuivano all’uomo, viene anch’esso ritenuto da Averroè se- parato dall’anima umana. Nell’anima umana, l’I. materiale non è che una semplice disposizione co- municata dall’I. attivo; e precisamente una dispo- sizione ad astrarre dalle immagini sensibili i concetti e le verità universali. All’uomo non rimane per- tanto, che l’I. acquisito, che Averroè chiama pure speculativo e consiste nella conoscenza delle verità universali (De an., fol. 165 a). Questa dottrina di- venne tipica dell’averroismo medievale: fu difesa da Sigieri di Brabante (sec. x11) nello scritto De anima intellectiva (edito in Mandonnet, Siger de Brabante et l’averrolsme latin au XIII‘ siècle, II, Lovanio, 1908). Numerpsi seguaci ebbe questa soluzione nel- INTELLETTUALISMO l’aristotelismo del Rinascimento (cfr. BRUNO NARDI, Sigierì di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, 1945). 3° L’unità dell’I. attivo e passivo con l’anima umana. Questa tesi fu sostenuta nel sec. Iv dal com- mentatore di Aristotele, Temistio (De an., 103, 6; trad. ital., pag. 233) in polemica con Alessandro e più tardi (sec. vi) dall’altro commentatore Sim- plicio, anch’egli neoplatonico. Essa fu ripresa nel sec. xi, durante la polemica contro l’averroismo che si svolse nella scolastica latina di quel tempo. Alberto Magno e S. Tommaso polemizzano contro la separazione averroistica e alessandristica dell’I. dall’anima umana. Essi ammettono bensì che c’è al di sopra dell'anima umana l’I. separato di Dio; ma ritengono che l’uomo partecipa di questo I. e che l’I. attivo fa parte della sua anima come unaluce che è accesa in questa dall’I. divino (ALBERTO, De intellectu et intelligibili, II, 1-2; S. Tommaso, S. Th., I,q.79,a. 4). Contro uno scritto di Sigieri era probabilmente diretto il De unitare intellectus contra Averroistas di S. Tommaso; al quale è a sua volta una risposta lo scritto De anima intellectiva di Sigieri. La principale obiezione di S. Tommaso è che, se l’I. fosse una sostanza separata, non sa- rebbe l’uomo stesso a intendere ma tale sostanza; al che Sigieri risponde che l’I. agisce nell’uomo, non come un motore ma operans in operando cioè come principio direttivo della sua attività. Nel Ri- nascimento, fu soprattutto Marsilio Ficino a di- fendere l’unità dell’I. con l’anima umana (7heologia platonica, XV, 14). Il problema dell’I. attivo è specifico dell’aristo- telismo e non ha senso fuori di esso. Pertanto, cessa di essere dibattuto quando l’aristotelismo cessa di fornire il quadro generale della filosofia. Già tra la fine del sec. xm e i principi del x1v ci sono filosofi che esplicitamente negano l’I. attivo ed evitano quindi di proporsi il problema relativo. Du- rando di S. Pourgain dice che, come non si pone un « senso attivo », così è inutile porre un I. attivo (In Sent., I, d. 3, q. 5, 26); e Ockham afferma che la funzione di astrarre, per la quale s’invoca l’I. at- tivo, si svolge naruraliter cioè come un effetto delle nozioni sensibili e non richiede l’I. attivo, la cui nozione rimane pertanto poggiata solo sull’autorità di santi e filosofi (Z Senr., II, q. 25). Questo punto di vista è senz'altro prevalso sin dai princìpi della filosofia moderna, che abbandona completamente la nozione in esame. INTELLETTUALISMO (ingl. Intellectua- lism; franc. Intellectualisme; ted. Intellektualismus). Con questo termine Hegel designava la filosofia di Plotino, interpretando l’estasi come uscita dalla coscienza sensibile e « puro pensare ». « L'idea della filosofia plotiniana, egli diceva, è dunque un I. o INTENSIONE E ESTENSIONE un superiore idealismo che certamente dal lato del concetto non è ancora idealismo perfetto» (Geschichte der Philosophie, I, sez. III, Plotino; trad. ital., III, pag. 41). Il termine è ora usato polemicamente dalle filosofie della vita e dell’azione per designare l’indirizzo ad esse contrario cioè quello per il quale l'intelletto (o il pensiero o la ragione) ha una funzione dominante nella conoscenza e nella condotta dell’uomo. Questo termine è stato fre- quentemente usato dall’intuizionismo bergsoniano, dalla filosofia dell’azione, dal modernismo, dal pragmatismo cioè da tutte quelle filosofie le quali tendono a svalutare il valore dell’intelletto come via d'accesso alla verità o come guida della con- dotta e a ritenere assai più importante l'intuizione, la simpatia, l'istinto, la vita, la volontà, ecc. Tal- volta il termine è stato contrapposto a vo/onta- rismo (v.) per indicare la prevalenza attribuita all’in- telletto sulla volontà; ed è stato in questo senso adoperato anche allo scopo di caratterizzare storica- mente certi punti di vista. Si è parlato così dell’I. di S. Tommaso e del volontarismo di Duns Scoto, allu- dendo al diverso peso che hanno, per questi filosofi, le due attività umane fondamentali. Si tratta tuttavia di significati e caratterizzazioni poco precisi. INTELLIGIBILE (gr. vontéc; lat. /ntelligi- bilis; ingl. Intelligible; franc. Intelligible; ted. Intelli- gibel). In generale, l'oggetto dell’intelletto. Aristo- tele aveva detto « tutti gli enti sono o sensibili o I. » (De An., III, 8, 431b 21). L'I. è l’oggetto dell’intel- letto come il sensibile è l'oggetto dei sensi. Questa simmetria viene mantenuta da tutti i filosofi che am- mettono la distinzione tra sensibilità e intelletto. Platone chiamò I. la sfera del conoscere che com- prende la dianoia e la scienza, in quanto distinta dalla sfera dell’opinione che comprende la conget- tura e la credenza (Rep., VII, 534 a). Per il neo- platonismo, il mondo I. comprende le tre prime ipostasi, cioè l’Uno, l’Intelletto e l’Anima del mondo (PLoTINO, Enn., II, 9, 1). Secondo Kant, il mondo I. è quel mondo di cui l’uomo fa parte come « attività pura » cioè in quanto non è influen- zato dalla sensibilità ma agisce in base alla spon- taneità della ragione. « Da una parte, dice Kant, l’uomo, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottomesso alle leggi della natura; dall’altra parte, come appartenente al mondo I. è sottomesso a leggi che sono indipendenti dalla natura, quindi non empiriche, ma fondate unicamente nella ragione» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, IID. In questo senso il mondo I. è il mondo morale. In senso più specifico, I. si dice ciò che può essere inteso o compreso, corrispondentemente ai significati 2°, c, di Intelletto (v.). INTENDIMENTO. Lo stesso che Intelli- genza Iv. INTELLETTO, 2°, c)]. 32 — Annaanano, Dizionario di filosofia. 497 INTENSIONE e ESTENSIONE (ingl. /n- tension and Extension; franc. Intension et extension; ted. Sinn und Bedeutung). Questa coppia di termini fu introdotta da Leibniz per esprimere la distinzione che la Logica di Portoreale aveva espresso con la coppia comprensione-estensione (v.)e la logica di Stuart Mill esprimerà con la coppia connotazione-denota- zione (v.). Dice Leibniz: « L'animale comprende più individui dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più forme; l’uno ha più esempi, l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più estensione l’altro ha più I.» (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9). L’uso di questi due termini fu adottato da Hamilton: « L’interna quantità di una nozione, la sua /. o comprensione è costituita dai differenti attributi di cui il concetto è la somma, cioè dai vari caratteri connessi dal concetto stesso in un singolo tutto pensato. La quantità esterna di una nozione o la sua estensione è costituita dal numero di oggetti che sono pen- sati mediatamente attraverso il concetto » (Lecrures on Logic, 2* ediz., 1866, I, pag. 142). L’uso di questi due termini prevale anche nella logica con- temporanea, che li ha riferiti alla distinzione sta- bilita da Frege tra senso e significato. « Pensando ad un segno, aveva detto Frege, dovremo collegare ad esso due cose distinte: e cioè non soltanto l’oggetto designato, che si chiamerà significato di quel segno, ma anche il senso del segno, che denota il modo in cui quell’oggetto ci viene dato » (4 Ùber Sinn und Bedeutung», 1892, $ 1; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag. 218). Ovviamente, l’oggetto è l’estensione, il senso è l’intensione. La distinzione viene ripetuta o presupposta da quasi tutta la lo- gica contemporanea. L’I. di un termine è definita da Lewis come «la congiunzione di tutti gli altri termini ciascuno dei quali deve essere applicabile a ciò cui il termine è correttamente applicabile ». In tal senso l’I. (o connotazione) è delimitata da ogni corretta defi- nizione del termine e rappresenta l’intenzione di chi lo usa, perciò il significato primo di « signifi- cato ». L'estensione, invece, o denotazione di un termine è la classe delle cose reali alle quali il ter- mine si applica (Lewis, Analysis of Knowledge and Valuation, 1950, pag. 39-41). Le stesse determina- zioni sono date da Quine: l’I. è il significato, la estensione è la classe delle entità alle quali il ter- mine può essere attribuito con verità (From a Logical Point of View, II, 1). Analogamente sono usati gli aggettivi inrersionale ed estensionale: quest’ultimo essendo applicato a punti di vista che prendono in considerazione la denotazione delle proposizioni e prescindono, per quanto è possibile, dai loro significati intensionali. D'altra parte, l’aggettivo intensionale, soprattutto applicato al calcolo delle proposizioni o delle fun- 498 zioni proposizionali (v.) significa che si prende in considerazione la modalità delle proposizioni da cui invece prescinde la considerazione estensionale che si limita a prendere in esame le funzioni di verità delle proposizioni stesse (CARNAP, Logica! Syntax of Language, $ 67; RUSSELL, Inquiry into Meaning and Truth, 1940, cap. 19) (v. ESTENSIONA- LITÀ, TESI DELLA). INTENZIONALITÀ (lat. Intentionalitas; in- glese /ntentionality; franc. Intentionnalité; ted. Inten- tionalitàt). Il riferimento di un qualsiasi atto umano a un oggetto diverso da sè: per es., di un’idea o rappresentazione alla cosa pensata o rappresentata, di un atto di volontà o di amore alla cosa voluta od amata, ecc. La nozione è stata dapprima ado- perata nei confronti dell’attività pratica: donde il significato, ancor oggi prevalente, della parola in- tenzione (v.) che designa appunto il riferirsi della attività pratica al suo oggetto. Il neoplatonismo arabo l’ha per la prima volta estesa a designare il rapporto tra la conoscenza e il suo oggetto, chia- mando intenzioni i concetti. Avicenna, nel deter- minare la differenza tra la logica e le scienze reali, affermò che mentre queste ultime hanno per og- getto le prime intenzioni (intensiones primo intel- lectae) cioè concetti che si riferiscono a cose reali, la logica ha per oggetto le seconde intenzioni (inten- tiones secundo intellectae) cioè concetti che si riferi- scono ad altri concetti (Mer., I, 2). Alberto Magno riproduceva questa distinzione (In Mer., I, 1, 1), che diveniva familiare ai filosofi del sec. xm. S. Tom- maso, a sua volta, considerava l’intenzione come «la similitudine della cosa pensata » (Contra Gent., IV, 11): talvolta distinguendola dalla specie intelli- gibile per la sua indifferenza all’assenza o alla presenza dell’oggetto e per il suo astrarre dalle condizioni materiali senza le quali quest’ultima non esiste in natura (/bid., I, 53); talvolta invece identi- ficandola con la stessa specie intelligibile (S. 77., I, q. 85, a. 1, ad 4°). Ma il concetto di I. non acquistò un rilievo proprio se non quando tra la fine del sec. xmi e il principio del sec. xIV si co- minciò a mettere in dubbio la dottrina della specie (v.) come intermediaria della conoscenza e si cessò di vedere nell’atto conoscitivo una « similitudine + cioè una copia o immagine della cosa. Durando di S. Pourgain affermava che l’oggetto stesso, e non la specie, è presente al senso e all’intelletto (Ir Sent., II, d. 3, q. 6, n. 10). E Pietro Aureolo osservava a questo proposito che, se la specie fosse l’og- getto del conoscere, questo sarebbe non la realtà ma solo l’immagine di essa. Aureolo perciò rite- neva che l’oggetto della conoscenza fosse la stessa cosa nel suo essere intenzionale od obiettivo, cioè assunta come termine dell’I. conoscitiva (In Sent., I, d. 23, a. 2). L’esse intentionale o esse apparens, INTENZIONALITÀ come anche Aureolo lo chiama, è il manifestarsi della cosa all’I. conoscitiva della mente (/bid., I, d. 9, a. 1). Questo sembrava ad Ockham ancora un inutile schermo tra l’intelletto e la cosa (/n Sent., I, d. 27, q. 3 CC). Per Ockham l’atto conoscitivo è un infentio nel senso che si riferisce direttamente alla cosa significata. Come intenzione, il concetto non è che un segno che sta in luogo di una classe di oggetti: uno qualsiasi dei quali può essere so- stituito al concetto stesso nei giudizi e ragionamenti nei quali ricorre (/bid., I, d. 23, q. 1, D; Quodl., IV, q. 35; Summa Log., I, 12). L'I., come riferimento all’oggetto, era stata in tal modo ridotta, dalla scolastica medievale, al ri- ferimento del segno al suo designato; e per molto tempo cessa di essere utilizzata come nozione au- tonoma. Soltanto nel sec. x1x, Francesco Brentano riesumava questa nozione per assumerla come ca- ratteristica dei fenomeni psichici (Psychologie vom empirischen Standpunkt, 1874). Questi si possono classificare secondo le caratteristiche della loro I., cioè del loro riferimento all’oggetto: nella rappre- sentazione, l’oggetto è semplicemente presente, nel giudizio viene affermato o negato, nel sentimento viene amato od odiato. Tutti e tre questi atti si riferiscono ad un «oggetto immanente» e sono atti intenzionali; ma la loro I., cioè il loro riferi- mento all’oggetto, è diverso per ciascuno di essi. Dapprima Brentano ritenne che l’oggetto dell’I. po- tesse essere indifferentemente reale o irreale; in seguito, nella X/assification der psychischen Phino- mene (1911) affermò che l’oggetto dell’I. è sempre reale e che il riferimento ad un oggetto irreale è indiretto cioè effettuato per il tramite di un soggetto che affermi o neghi l’oggetto stesso. A_ queste idee di Brentano si ispirava Husserl assumendo la no- zione di I. non più come contrassegno dei fenomeni psichici intesi come un gruppo di fenomeni che coesistano insieme con altri fenomeni detti fisici, ma come la definizione dello stesso rapporto tra il soggetto e l’oggetto della coscienza in generale. Dice Husserl a questo proposito: «La caratteri- stica delle esperienze vissute (Erlebnisse) che può essere indicata addirittura come il tema generale della fenomenologia orientata oggettivamente, è l’intenzionalità. Essa rappresenta una caratteri- stica essenziale della sfera delle esperienze vissute in quanto tutte le esperienze hanno, in qualche modo, intenzionalità... L'I. è ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e consente di in- dicare la corrente dell’esperienza vissuta come cor- rente di coscienza e come unità di coscienza » (Ideen, I, $ 84). In seguito Husserl stesso ha parlato di «intenzionalità fungente » per la quale l’esperienza vissuta si riferisce non soltanto al suo oggetto ma anche a se stessa ed è perciò consapevolezza di INTERESSE sè (v. FUNGENTE). Comunque, nell’ambito della fenomenologia l’I. veniva assunta come la carat- teristica fondamentale della coscienza; e come tale essa è rimasta in buona parte della filosofia contemporanea e specialmente nella fenomeno- logia e nell’esistenzialismo (v. Coscienza). Il con- cetto di rascendenza (v.), mediante il quale Heidegger ha definito il rapporto tra l’uomo e il mondo, non è altro che una generalizzazione della intenzionalità. Dice Heidegger: « Se si considera ogni rapportarsi all’ente come intenzionale, allora l’I. è possibile solo sul fondamento della trascen- denza; ma, si badi bene, nè I. e trascendenza si identificano nè questa si fonda in quella» (Vom Wesen des Grundes, I; trad. ital., pag. 24). INTENZIONE (lat. /ntentio; ingl. Intention; franc. Intention; ted. Gesinnung). Propriamente, l’in- tenzionalità nel dominio pratico cioè il riferimento di un’attività pratica (desiderio, aspirazione, vo- lontà) al suo proprio oggetto. In questo significato l’intenzionalità dell’atto morale può essere ricono- sciuta da qualsiasi dottrina morale. Tuttavia l’in- sistenza sul valore dell’I. come condizione della moralità è uno dei tratti caratteristici dell’etica del fine, in quanto distinta dall’etica del movente (v. Etica). Nell’etica del movente infatti la mora- lità dell’azione si giudica sul fondamento della sua efficienza a produrre il benessere, la felicità, ecc. Nell'’etica del fine, invece, la bontà dell’azione si misura sul fondamento della direzione che il sog- getto imprime all’azione, che è per l'appunto l’in- tenzione. San Tommaso giustamente dice a questo proposito che «l’I. è il nome dell’atto della vo- lontà, essendo presupposto l’ordinamento della ra- gione che ordina qualche cosa ad un fine +; e che «l’I. appartiene primariamente e principalmente a ciò che muove verso un fine » per cui essa è pro- priamente «l’atto della volontà » (S. 7%., II, 1, q. 12, a. 1). In questo senso l’I. è propria del- l’etica del fine. Pertanto la nozione di essa non si trova nell’etica aristotelica nella quale l’analisi dell’atto morale è fatta in base a un'etica del movente; e non si trova in tutte le etiche dello stesso genere, per es., nell’utilitarismo. Dall’altro lato, soprattutto la morale teologica tende ad in- sistere sul valore dell’intenzione. Abelardo diceva: « Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito ed il va- lore di colui che agisce non consiste nell’azione ma nell’I. » (Scito te ipsum, 3). La stessa morale kantiana, soprattutto nei suoi aspetti di predica- zione laica ed edificatoria, insiste fortemente sul valore dell’I.: l’esaltazione della « buona volontà » con cui s’inizia la Fondazione della metafisica dei costumi è in realtà un’esaltazione dell’intenzione. E la prima parte della Critica della Ragion Pratica 499 si conclude anch'essa con l'esaltazione della «I. veramente morale e consacrata immediatamente alla legge ». Per contro, la differenza tra l’etica dell’I. e l’etica oggettiva è stata ben espressa da Max Weber: « Nella sfera della condotta personale vi sono problemi etici specifici che l’etica non può risolvere sulla base dei suoi propri presupposti. C’è anzitutto la fondamentale questione: a) se l’intrinseco valore della condotta etica — la ‘ pura volontà * o ‘1’I.* come si suole chiamarla — basti alla sua giustificazione secondo la massima cri- stiana: “il cristiano agisce bene e lascia a Dio le conseguenze della sua azione” o 5) se la re- sponsabilità delle conseguenze prevedibili dell’azione dev'essere presa in considerazione. Ogni atteggia- mento politicamente rivoluzionario e specialmente il sindacalismo rivoluzionario, hanno il loro punto di partenza nel primo postulato; ogni politica rea- listica nel secondo. Entrambi invocano massime etiche. Ma queste massime sono tra loro in eterno conflitto, un conflitto che non può essere risolto per mezzo della sola etica + (« Der Sinn der Wert- freiheit der soziologischen und 6konomischen Wis-

senschaften », 1917; trad. ingl., in The Methodology of the Social Sciences, pag. 16). L’etica moderna e contemporanea, in quanto è prevalentemente un’etica del movente (v. Erica) dà la prevalenza a quello che Weber ha chiamato il secondo postu- lato. Dall'altro lato lo scetticismo assai diffuso nella filosofia contemporanea circa la possibilità di conoscere, con sufficiente probabilità, ciò che ac- cade nell’intimo della coscienza individuale, ha con- dotto la psicologia del comportamento a conside- rare l’I. come l'operazione (o la parte di una operazione) che costituisce l’esecuzione di un piano o progetto di condotta. In questo caso la frase «Ho l’I. di vedere Giacomo significa semplicemente che sono impegnato nella esecuzione di un piano di cui è parte l’incontro con Giacomo (MILLER, GALANTER, PRIBRAM, Plans and the Structure of Behavior, 1960, pag. 61). INTERAZIONE. TRANSAZIONE. INTERESSANTE (ingl. Interesting; franc. In- téressant; ted. Interessant). Kierkegaard ha sotto- lineato l’importanza di questo concetto, considerato da lui come « una categoria limite ai confini del- l’estetica e dell’etica e perciò come la categoria del punto critico ». Socrate fu, per es., il più I. degli uomini che siano vissuti e la sua vita la più I. delle vite vissute. Ma quella esistenza gli fu asse- gnata dalla divinità e nella misura in cui dovette conquistarla da sè, dovette conoscere pene e dolori (Furcht und Zittern, in Werke, III, 131). INTERESSE (ingl. Interest; franc. Intérét; te- desco Interesse). La partecipazione personale ad V. AZIONE RECIPROCA; 500 una situazione qualsiasi e la dipendenza che ne deriva per la persona interessata. Si tratta di un concetto moderno, che Kant utilizza nel dominio dell’estetica, allo scopo di affermare il carattere « disinteressato » del piacere estetico. Dice Kant: « È detto I. il piacere che noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare o in quanto causa determi- nante di esso o in quanto necessariamente atti- nente a tale causa. Ma quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro importi o possa importare la sua esistenza, ma solo come la giudichiamo con- templandola » (Crit. del Giud., $ 2). Hegel a sua volta definendo l’I. come « il momento dell’indivi- dualità soggettiva e della sua attività » intendeva con esso la presenza del soggetto all’azione (Enc., $ 475). La nozione di I. è stata soprattutto utiliz- zata nel dominio della pedagogia. L’I. è qui la partecipazione dell’educando al sapere, per la quale il sapere appare all’educando stesso come utile. Era stata questa una delle regole proposte per

l’educazione nell’Emilio di Rousseau. Ma è stato Herbart a utilizzare sistematicamente la nozione di 1., indicando come fine dell’educazione la plurila- teralità degli interessi. Secondo Herbart, 1’I. sta in mezzo tra l’essere spettatore dei fatti e l’inter- venirvi; è, in altri termini, una partecipazione non ancora totalmente attiva o impegnata. L’I. poi si distingue dal desiderio in quanto, mentre l’oggetto di quest’ultimo non esiste ancora, l’oggetto dell’I. è già presente e reale (A//gemeine Pidagogik, 1873, lI, 1, 2, $ 3). Fra i pedagogisti contemporanei Dewey ha insistito sul valore dell’I., definendolo come «l'accompagnamento dell’identificazione, at- traverso l’azione, dell'io con qualche oggetto o idea, per via della necessità di tale oggetto od idea per il mantenimento dell’autoespressione » (Educa- tional Essays, ed. by J. J. Findlay, pag. 89). Da questo punto di vista, lo sforzo, che si suole tal- volta, in pedagogia, contrapporre all’I., implica una separazione tra l’io e l'oggetto che deve essere appreso o padroneggiato. I caratteri dell’I. sono, secondo Dewey, l’attività, la proiettività e la pro- pulsività. Per il primo, l’I. è dinamico cioè spinge all’azione. Per il secondo, l’I. ha il proprio fine fuori di sè, in qualche oggetto o scopo al quale esso si attacca. Per il terzo, l’I. significa una rea- lizzazione interna o un sentimento di valore (/bid., pag. 90-91). Questa concezione dell’I., che è uno dei punti focali della pedagogia di Dewey, ha fortemente influenzato la teoria e la pratica del- l'educazione in tutti i paesi dell'Occidente. INTERFENOMENO (ingl. Interphenomenon). Termine creato da H. Reichenbach per indicare gli INTERFENOMENO eventi subatomici non osservabili cioè non imme- diatamente inferibili dall’osservazione: per es., il movimento di un elettrone o di un raggio lumi- noso dalla sorgente sino all’incontro con un'altra materia. « Eventi di questa specie vengono intro- dotti attraverso catene di inferenze di tipo molto più complicato. Essi sono costruiti sotto forma di un’interpolazione entro il mondo dei fenomeni, e la distinzione tra fenomeni e I. è l’analogo, nella meccanica quantistica, della distinzione tra cose osservate e quelle non osservate» (Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, I, 6). INTERIORITÀ. V. ESTERIORITÀ. INTERMUNDI (gr. peraxsopia; lat. Inter mundia). Gli spazi fra i mondi, nei quali, secondo Epicuro, abitano gli Dei (Diog. L., X, 89; Cice- RONE, De Div., II, 17, 40; De nat. deor., 16-19). INTERPRETANTE, INTERPRETE (in- glese Interpretant, Interpreter). Nella semiotica con- temporanea, i due termini significano rispettiva- mente: la disposizione a rispondere a un segno e colui (in generale l’organismo) che adopera il segno o si esprime con esso (Morris, Foundations of a Theory of Signs, $ 3) (v. SEMIOTICA). INTERPRETAZIONE (gr. tpunvela; lat. Zn- terpretatio; ingl. Interpretation; franc. Interprétation; ted. Interpretation, Auslegung). In generale, la pos- sibilità di riferire un segno al suo designato; o anche l’operazione con cui un soggetto (interprete) riferisce un segno al suo oggetto (designato). Ari- stotele chiamò I. il libro in cui studiava il rap- porto dei segni linguistici con i pensieri e dei pensieri con le cose. Egli infatti considerava le parole come «segni delle affezioni dell'anima che sono le medesime per tutti e costituiscono le im- magini di oggetti che sono identici per tutti» e considerava inoltre come soggetto attivo di questo riferimento l’anima o l’intelletto (De Interpr., 1, 16 a, 1 sgg.). Boezio, per il tramite del quale la dottrina è passata nella Scolastica latina, intendeva per I. «qualsiasi voce che significa qualcosa di per se stessa » includendo perciò fra le I. i nomi, i verbi e le proposizioni ed escludendone le congiun- zioni, le preposizioni e in generale i termini del discorso che non significano nulla di per se stessi. Il riferimento del segno al suo designato era perciò, per lui, l’essenziale dell’interpretazione. (In librum de interpr. editio prima, I, in P.L., 64, col. 295). In questa concezione, l’I. è il riferimento dei segni verbali ai concetti (le « affezioni della mente +) e dei concetti alle cose. Le caratteristiche della dot- trina possono essere così fissate: 1° l’I. è un evento che accade «nell'anima» cioè un evento men- tale; 2° il segno verbale o scritto è diverso dall’af- fezione della mente o concetto e si riferisce a INTROIEZIONE questo; 3° il rapporto tra il segno verbale e il concetto è arbitrario e convenzionale mentre il rapporto tra il concetto e l’oggetto è universale e necessario. Questi capisaldi sono rimasti per lungo tempo immutati. Nonostante gli sviluppi che la teoria dei segni ha ricevuto dalla logica stoica, medievale e moderna, la dottrina dell’I. ha continuato a con- siderare per molto tempo il processo interpretativo come proprio dell’anima o della mente cioè come un processo mentale. Solo nella filosofia contem- poranea si è prospettata un’altra alternativa, secondo la quale esso è un abito o comportamento. Per quanto non manchi anche oggi chi consideri l’I. un processo mentale (C. K. OpGEN-I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 1952 [1 ediz., 1923], pag. 57; Ducasse, in Journal of Symbolic Logic, 1939, n. 4), la semiotica americana ha presentato l’altra dottrina fondamentale dell’I. che è quella comportamentistica. I presupposti di questa dot- trina si trovano nell’opera di Carlo Peirce, che intese l’I. come un processo triadico, intercedente fra un segno, il suo oggetto, il suo interpretante, intendendosi per quest’ultimo il rapporto tra il primo e il secondo termine (Coll. Pap., 5.484). Per quanto in Peirce rimangono ancora molti pre- supposti della vecchia dottrina, egli intese l’I., non come un atto semplicemente mentale, ma come un abito d’azione cioè come la risposta abituale e costante che l'interprete del segno dà al segno stesso (/bid., 5.475 sgg.). Questo è il punto di vista che Carlo Morris ha fatto prevalere nella semiotica contemporanea (Foundations of a Theory of Signs, 1938; Signs, Language and Behavior, 1946). Da questo punto di vista l’I. ha i seguenti caratteri: 1° non è (o non è soltanto) un abito mentale ma un comportamento (v.) cioè la risposta oggettivamente osservabile e costante di un orga- nismo ad uno stimolo; 2° non esiste differenza tra segni mentali e segni verbali, nel senso che i primi siano suscettibili di un’I. necessaria e gli altri no; 3° il riferimento dei segni ai loro oggetti non è nè necessario nè arbitrario, ma è determinato dall’uso (nei linguaggi comuni) o da convenzioni opportune (nei linguaggi speciali). Le notazioni precedenti concernono la teoria dell’I. nella semiotica (v.). Bisogna però osservare che la parola ha, nel linguaggio scientifico e filo- sofico odierno, usi specifici diversi, che solo in- direttamente si possono riportare a quello chiarito. Si parla di I. nella scienza quando si fa corri- spondere a un sistema assiomatico un determinato modello (v. ASsioMaATIZZAZIONE, MODELLO): cioè un esempio concreto o un insieme di entità che soddisfi le condizioni enunciate dal sistema assio- matico. In questo senso la geometria ordinaria può 501 essere l’I. di un certo sistema assiomatico, per es., dell’assiomatica di Hilbert. Un altro uso del ter- mine è quello che si fa nelle discipline storiche, quando si parla dell’I. di un certo evento o com- plesso di eventi o di un periodo. In questo caso ’I. è un aspetto della scelta storiografica; e con- siste nella scelta delle caratteristiche storiche che si assumono come dominanti e centrali, rispetto alle quali le altre vengono a situarsi in un rango subordinato e secondario. In questo senso si parla, per es., di I. materialistica della storia, quando si assumono come primari e fondamentali gli aspetti materiali (o economici) della storia stessa (v. StoRrIOGRAFIA). L’I. può avere altri sensi specifici in altri campi di ricerca e può avere anche quello di spiegazione (come quando si parla, per es., dell’I. di un fenomeno fisico o, come faceva Ba- cone Nov. Org., I, 26) della natura in generale. Indipendentemente da tutti i significati richiamati, Heidegger l’ha definita come lo sviluppo e la realizzazione effettiva della comprensione: « L’I. non è la presa di cognizione del compreso, ma l’ela- borazione delle possibilità progettate nella com- prensione » (Sein und Zeit, $ 32). Questo concetto non è utilizzabile per l’analisi dell'uso del termine nei vari campi. INTERROGAZIONE MULTIPLA (gr. 16 tà melo tpotiuata Ev rotetv; modvtanthote; lat. Plurium interrogationum fallacia; ted. Hetero- zetesis). Una delle fallacie extra dictionem enume- rate da Aristotele e precisamente quella che consiste nella riduzione di parecchie domande a una sola, giocando così sull’unicità della risposta che l’av- versario è tentato di dare (ARIST., EI. .Sof., 30, 181 a 30; Pretro Ispano, Sumun. Logicales, 7.62- 7.64; JunGIus, Logica Hamburgensis, VI, 12, 16; GENOVESI, Ars Logico-critica, V, 11, 12; ecc.) (v. FALLACIA). INTERSOGGETTIVO (ingl. /ntersubjective; franc. Intersubjectif; ted. Intersubjektiv). Termine usato nella filosofia contemporanea per designare: 1° ciò che concerne i rapporti tra i vari soggetti umani, come quando si dice « esperienza I. +; 2° ciò che è valido per un soggetto qualsiasi, come quando si dice «concetto I.+ o «verifica I.» (v. UNIVER- SALE, 2). INTIMISMO (franc. Intimisme). L'atteggiamento che consiste nel concentrarsi sulle proprie vicende interiori. Si dice soprattutto di poeti e letterati, e in senso leggermente dispregiativo di filosofie che intendono la filosofia come una specie di auto- biografia mascherata (v. EGOCENTRISMO; EGOTISMO). INTRINSECO. V. EstRINSECO. INTROIEZIONE (ingl. /ntrojection; ted. In- trojektion). Termine introdotto da Riccardo Ave- narius (Kritik der reinen Erfahrung, 1888-90) per 502 designare il processo col quale, falsificando l’espe- rienza, si riduce l’oggetto a una rappresentazione interna dell’io e si ammette che anche gli altri individui hanno una simile rappresentazione interna. Tale processo, che è una interiorizzazione dell’og- getto, dà origine alla divisione ingannevole tra esperienza interna ed esperienza esterna, mentre l’esperienza, secondo Avenarius, è una sola ed è sempre un rapporto diretto tra un oggetto e un organismo. INTROSPEZIONE (ingl. Introspection; fran- cese /ntrospection; ted. Introspektion). L’auto-osser- vazione interiore cioè l'osservazione che l’io fa dei propri stati interni. Il termine fu messo in uso dalla psicologia dell’800, che indicò con esso il metodo psicologico fondamentale, ritenuto insosti- tuibile sino all'avvento del comportamentismo (v.). Comte aveva elevato contro l’I. un’obiezione di principio: « L’individuo pensante, aveva detto, non può dividersi in due, di cui l’uno ragioni, mentre l’altro lo guardi ragionare. L’organo osservato e l’organo osservatore essendo in questo caso iden- tici, come potrebbe l'osservazione aver luogo?»

(Cours de phil. positive, 1830, I, Sez. I, $ 8). Comte aveva concluso perciò all’impossibilità della psicologia e l’aveva espunta dalla sua enciclopedia delle scienze. Nel 1868, Peirce rispondeva negati- vamente alla questione «se abbiamo una facoltà di I.» e concludeva che «il solo modo di investi- gare una questione psicologica è l’inferenza dai fatti esterni» (Coll. Pap., 5.244-249; 7.418 sgg.). Questa conclusione di Peirce è il primo accenno dell’avviarsi dell'indagine psicologica verso il com- portamentismo (v.). INTUIZIONE (gr. emo; lat. Insuitus, In- tuitio; ingl. Intuition; franc. Intuition; ted. An- schauung). Il rapporto diretto (cioè privo di in- termediari) con un oggetto qualsiasi: rapporto che perciò implica la presenza effettiva dell’oggetto. Così l’intuito è stato costantemente inteso nella storia della filosofia, a cominciare da Plotino che usa il termine per designare la conoscenza imme- diata e totale che l’Intelletto divino ha di sè e dei suoi propri oggetti (Enn., IV, 4, 1; IV, 4, 2). In questo senso l’I. è una forma di conoscenza superiore e privilegiata; giacchè ad essa, come alla visione sensibile su cui si modella, l’oggetto è immediatamente presente. Boezio parlava dell’ in- tuito divino » che è il colpo d’occhio con cui Dio abbraccia le cose senza mutarle (Phil. Cons., V, 6). E S. Tommaso diceva riferendosi a Dio: «Il suo intuito verte su tutte le cose in quanto sono da- vanti a lui nella loro presenzialità» (S. 7A., I, q. 14, a. 13; cfr. q. 14, a. 9). La conoscenza di- vina si distingue per questo suo carattere dalla conoscenza umana, che procede componendo e INTROSPEZIONE dividendo cioè mediante atti successivi di afferma- zione e negazione (/bid., I, q. 85, a. 5). Il carattere intuitivo della conoscenza divina si contrappone qui al carattere discorsivo della conoscenza umana (v. DIANOIA; DISCORSIVO). Ma già la filosofia medievale adoperò il termine per indicare una forma particolare e privilegiata della stessa conoscenza umana e in primo luogo la conoscenza empirica. Ruggero Bacone diceva che «l’anima non s’acqueta nell’inzuito della verità se non la trova per via dell'esperienza» (Opus Maius, VI, 1). Duns Scoto privilegiava come co- noscenza intuitiva (cognitio intuitiva) quella che « si riferisce a ciò che esiste o a ciò che è presente in una certa esistenza attuale +, distinguendola dalla conoscenza astrattiva (v. ASTRATTIVA) che astrae dall’esistenza attuale (Op. Ox., II, d. 3, q. 9, n. 6). Questa nozione veniva accettata da Durando di S. Pourgain (In Sent., Prol., q. 3 F) e da Ockham che, come Bacone, identificava la conoscenza in- tuitiva con l’esperienza (/n Sent., Prol., q. 1 Z). Da questo momento in poi, e fino a Kant, il signi- ficato specifico del termine è per l'appunto quello di esperienza (v.). Ma nello stesso tempo il termine conserva il suo significato generico di rapporto immediato con un oggetto qualsiasi. In tal senso Cartesio parlava dell’intuito evidente (evidens intuitus) come di una delle due vie che conducono alla conoscenza certa (l’altra è la « deduzione necessaria +): intendendo per esso l’apprensione immediata di un qualsiasi oggetto mentale. « L’intuito della mente, egli diceva, si estende sia alle cose, sia alla conoscenza delle loro reciproche connessioni necessarie, sia infine a tutto ciò che l’intelletto sperimenta con precisione in se stesso o nell’immaginazione » (Regulae ad directionem ingenii, 12). Nello stesso senso, Locke chiamava intuitiva la conoscenza che percepisce la concordanza o la discordanza tra due idee imme- diatamente, cioè senza l’intervento di altre idee (Saggio, IV, 2, 1); e chiamava I., proprio per la sua immediatezza, la conoscenza che abbiamo della nostra propria esistenza (Ibid., IV, 9, 3). Ancora nel medesimo senso Leibniz diceva che si conoscono per I. le «verità primitive» sia di ragione sia di fatto (Nouv. Ess., IV, 2, 1), cioè le verità che l’intelletto apprende o possiede senza la mediazione di altre. Questo significato veniva accettato da Stuart Mill: «Le verità, egli diceva, ci sono conosciute in due modi: alcune sono co- nosciute direttamente o di per se stesse; altre attraverso la mediazione di altre verità. Le prime sono oggetto dell’I. o coscienza; le seconde del- l’inferenza » (Logic, Intr., $ 4). Kant a sua volta si riferiva al senso tradizionale del termine affer- mando che «l’I. è la rappresentazione quale sa- INTULZIONE rebbe per la sua dipendenza dall’immediata pre- senza dell’oggetto » (Pro/., $ 8). L’I. è perciò in generale per Kant la conoscenza alla quale l’og- getto stesso è direttamente presente. Ma Kant distingue una I. sensibile e una I. intellettuale. L’I. sensibile è quella di ogni essere pensante finito, a cui l’oggetto è dato: essa è perciò pas- sività, affezione (Crit. R. Pura, Anal. dei concetti, sez. I). L’I. intellettuale è invece originaria e crea- tiva; è quella per la quale l’oggetto stesso è posto o creato ed è perciò propria soltanto dell’Essere creatore, di Dio (/bid., $ 8, in fine; passim). L’I. intellettuale, è, in altri termini, l’intuito divino della filosofia tradizionale: la presenza dell’oggetto a questo intuito è inevitabile e necessaria perchè l’oggetto è creato dall’intuito stesso. Questa distinzione kantiana fu conservata dal Romanticismo, ma solo allo scopo di rivendicare per l’uomo II. intellettuale o creativa che Kant e gli antichi riservavano a Dio. E la cosa s'intende: giacchè, per i Romantici, la conoscenza umana è la stessa conoscenza con cui lo Spirito assoluto o creatore conosce se stesso, o è almeno un aspetto o un momento di essa. Così Fichte intende per I. intellettuale «la coscienza immediata che io opero e di ciò che io opero e che è ciò per cui l’Io sa in quanto fa» (Werke, I, pag. 463). A sua volta Schelling afferma che «la filosofia trascendentale dev'essere costantemente accompagnata dall’I. in- tellettuale » e che l’io stesso è « una continua I. in- tellettuale » in quanto « produce se stesso ». « Come senza l’I. dello spazio, egli aggiunge, sarebbe asso- lutamente incomprensibile la geometria, perchè tutte le sue costruzioni non sono che forme e maniere svariate per limitare quell’I., così pure senza l’I. intellettuale sarebbe impossibile la filosofia perchè tutti i suoi concetti non sono che limitazioni di- verse del produrre che ha per oggetto se stesso cioè dell’I. intellettuale » (System der transzenden- talen Idealismus, sez. I, cap. I; trad. ital., pag. 39). Hegel a sua volta identificava I. e pensiero. «Il puro intuire, egli diceva, è il medesimo del puro pensare... Fede e I. debbono essere prese in senso più alto, come fede in Dio, come I. intellettuale di Dio: vale a dire si deve astrarre proprio da ciò che forma la differenza dell’I. e della fede dal pen- siero. Non si può dire che fede e I. trasportate in questa più alta regione siano ancora diverse dal pensiero » (Enc., $ 63). La stessa tesi è sostenuta da Schopenhauer che identifica intelletto e I. e pre- tende che anche le connessioni logiche siano ridotte ad elementi intuitivi (Die Welt, I, $ 15). Allo stesso ceppo di concetti appartiene la nozione di un’I. come ricorre in Rosmini, quale apprensione immediata dell’idea dell’essere in generale (Nuovo saggio, $ 1159; Antropologia, $ 40, 505; Psicologia, 503 $ 13). E sebbene Gioberti polemizzasse con Ro- smini circa il carattere indeterminato e vuoto dell’idea dell’essere, accettava tuttavia la nozione di intuito come rapporto immediato, totale e nc- cessario della mente umana con Dio e con la sua azione creatrice (/ntr. allo studio della fil., II, pag. 46). Questa era ancora e sempre una « I. in- tellettuale ». Ma è un'I. intellettuale anche l’I. di cui parla Bergson per quanto carica di polemica anti-intellettualistica o anti-razionalistica. Essa in- fatti, come organo proprio della filosofia, possiede i caratteri della romantica I. intellettuale: un rap- porto immediato o diretto con la realtà assoluta, cioè con la durata della coscienza o con lo slancio creativo della vita. L’I., dice Bergson, « è la visione dello spirito da parte dello spirito ». «I. significa dapprima coscienza ma coscienza immediata, vi- sione che si distingue appena dall’oggetto visto, conoscenza che è contatto e perfino coincidenza » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 35-36). Gli stessi caratteri formali possiede l’I. eidetica o I. delle essenze di cui parla Husserl: «L'essenza è un oggetto di nuova specie, egli dice. Come il dato dell’I. individuale empirica è un oggetto in- dividuale, così il dato dell’I. eidetica è un’essenza pura. Non si tratta di un’analogia esterna, bensì di una radicale affinità. Anche l’I. eidetica è un’I. come l’oggetto eidetico è un oggetto. La genera- lizzazione dei concetti correlativi ‘ I.’ e ‘oggetto ’ non è arbitraria ma richiesta necessariamente dalla natura delle cose» (/deen, I, $ 3). Infine, l’I. che Croce identifica con l’arte ha gli stessi caratteri formali: è conoscenza originaria e immediata che perciò non distingue tra reale e irreale; ha carattere o fisionomia individuale ed esprime direttamente l’oggetto (Estetica, cap. 1). Ricapitolando i caratteri comuni e quelli diffe- renziali che I’I. ha rivestito nella storia della filo- sofia, si possono fissare i primi nel modo seguente. L’I. è un rapporto con l’oggetto caratterizzato: 1° dalla immediatezza del rapporto stesso; 2° dalla presenza effettiva dell’oggetto. Costantemente, in base a questi caratteri, l’I. è considerata come una forma di conoscenza privilegiata. D’altra parte, i suoi caratteri differenziali possono essere distinti così: 1° l’I. può essere riservata a Dio e consi- derata come la conoscenza che il creatore ha delle cose create; 2° può essere attribuita all'uomo e considerata come l’esperienza in quanto conoscenza immediata di un oggetto presente e in questo senso non è che percezione (v.); 3° può essere attribuita all'uomo e considerata una conoscenza originaria e creativa nel senso romantico. Tutte e tre queste alternative hanno perduto buona parte del loro interesse nella filosofia contemporanea. La prima infatti appartiene alla sfera delle specula- 504 zioni teologiche. La seconda tende ad essere sosti- tuita dal concetto dell’esperienza come metodo o come insieme di metodi (v. EspeRrIENZA). La terza è strettamente legata alla metafisica del Ro- manticismo (vecchio e nuovo) e sta e cade con esso. Nel 1868 Peirce sottoponeva a critica il concetto di I., negando: 1° che essa potesse servire a garan- tire il riferimento immediato di una conoscenza al suo oggetto; 2° che essa potesse costituire la co- noscenza evidente che l’Io ha di se stesso; 3° che potesse rendere capaci di distinguere gli elementi soggettivi di conoscenze differenti. Nello Stesso tempo, Peirce affermava l'impossibilità di pensare senza segni e di conoscere senza ricorrere al le- game reciproco delle conoscenze medesime (Coll. Pap., 5.213-263). Queste negazioni e affermazioni di Peirce sono state e sono largamente accettate dalla filosofia contemporanea. All’I. oggi fanno appello, più che i filosofi, gli scienziati e in particolare i matematici o i logici quando vogliono sottolineare il carattere inventivo della loro scienza. Diceva Claude Bernard: «L’I. o sentimento genera l’idea o l'ipotesi sperimentale cioè l’interpretazione anticipata dei fenomeni della natura. Tutta l’iniziativa sperimentale è nell’idea giacchè essa sola provoca l’esperienza. La ragione o il ragionamento servono solo a dedurre le con- seguenze di questa idea e a sottoporle all’espe- rienza » (Zntr. d l’étude de la médecine expérimentale, 1865, I, 2, $ 2). Poincaré ripeteva, con riferimento alle matematiche, ciò che Bernard aveva detto a proposito delle scienze sperimentali: « Con la lo- gica si dimostra, ma solo con l’I. si inventa... La facoltà che ci insegna a vedere è l'intuizione. Senza di essa, il geometra sarebbe come uno scrittore forte in grammatica ma privo di idee » (Science et méthode, 1909, pag. 137). Nelle matematiche l’esi- genza logica porta secondo Poincaré all’imposta- zione analitica, quella intuitiva all'impostazione geometrica. « Così, la logica e l’I. hanno ciascuna il suo compito. Entrambe sono indispensabili. La logica, che sola può dare la certezza, è lo stru- mento della dimostrazione: l’I. è lo strumento dell’invenzione » (La valeur de la science, 1905, pag. 29). In questo senso, come è stato talora osservato, l’I. ha più un carattere negativo che positivo: essa anticipa ciò che mon risulta dall’os- servazione empirica o non può essere dedotto dalle conoscenze già possedute. Non sembra designare, pertanto, che un certo grado di libertà del ricer- catore e non ha niente a che fare con il significato filosofico tradizionale del termine. Ad esso invece si riconduce l’uso che fanno del termine i mate- matici intuizionisti (v. INTUIZIONISMO, 49). INTUIZIONE DEL MONDO (ted. Weltan- schauung). Sulla filosofia come «I.» o « visione del INTUIZIONE DEL MONDO mondo », v. FiLosoria. K. Jaspers ha scritto una Psicologia delle visioni del mondo, distinguendo l’immagine spazio-sensoriale del mondo, quella psichico culturale e quella metafisica (Psychologie der Weltanschauungen, 1925; trad. ital., Roma, 1950). INTUIZIONISMO (ingl. Intuitionism; francese Intuitionnisme; ted. Intuitionismus). Con questo ter- mine vengono indicati atteggiamenti filosofici o scientifici diversi che hanno in comune il ricorso all’intuizione nel senso più generale del termine. In particolare, vanno sotto il nome di I. i seguenti indirizzi: 1° la filosofia scozzese del senso comune in quanto ammette che la filosofia si fonda su certe verità primitive e indubitabili, conosciute per in- tuizione (v. SENSO COMUNE); 2° la dottrina di Bergson secondo la quale l’intuizione è l’organo proprio della filosofia; 3° la dottrina di N. Hartmann e di Scheler secondo la quale i valori sono oggetto di un’in- tuizione che s’identifica col sentimento (v. VALORE); 4° l’indirizzo matematico fondato da L. E. J. Brouwer e che si ispira alle idee di Leopoldo Kronecker (1923-91): il quale riteneva dato all’in- tuizione umana il concetto di numero naturale asserendo che i numeri naturali li ha fatti Dio e gli altri li ha fatti l’uomo. Le tesi tipiche dell'I. di Brouwer sono le seguenti: 1° l’esistenza degli og- getti matematici è definita dalla possibilità di co- struzione degli oggetti stessi: perciò « esistono + solo enti matematici che si possono costruire; 2° il principio del terzo escluso non è valido rispetto a proposizioni in cui ricorre il riferimento a gran- dezze infinite; 3° le definizioni impredicative non sono valide. Il rigetto del principio del terzo escluso implica il rigetto della doppia negazione quindi del metodo della prova indiretta. Questo metodo è invece a fondamento dell’indirizzo for- malistico della matematica, patrocinato da Hilbert; e in conformità di esso basta a stabilire l’esistenza di un’entità matematica la dimostrazione che essa non implica contraddizione (cfr. A. HerTING, Ma- thematische Grundlagenforschung, Intuitionismus und Beweistheorie, Berlin, 1934). INVARIANTE (ingl. Invariant; franc. Inva- riant; ted. Invariante). Una proprietà costante: più in particolare, nella teoria dei gruppi, una proprietà che rimane la stessa sotto un gruppo di trasformazioni (v. GRUPPO; TRASFORMAZIONE). INVENZIONE (ingl. Invention; franc. Inven- tion; ted. Erfindung). «Inventare qualcosa, disse Kant, è del tutto diverso dallo scoprire. La cosa che si scopre, si ammette come già preesistente, solo che non era ancora conosciuta, come l’Ame- rica prima di Colombo; quella invece che si in- venta, come la polvere da sparo non esisteva affatto prima di colui che la inventò» (Antr., I, $ 57). La capacità inventiva si chiama, tradizional- mente, genio (v.). I problemi relativi all’I. assu- mono aspetti diversi nei vari campi. Nella logica sono stati talora dibattuti a proposito della ro- pica (v.) o dell’intuizione (v.). Nell’arte a proposito del genio (v.). INVOLGERE (lat. Involvere; ingl. Involve; ted. Involvieren). Implicare, contenere. Così Spi- noza diceva, riferendosi alla Causa prima, che «la sua essenza involge l’esistenza» (Er., I, Def. 1). Il termine corrisponde esattamente all’ingl. To entail, usato per indicare l’implicazione stretta o formale. V. IMPLICAZIONE. INVOLUZIONE (lat. /Involutio; ingl. Involu- tion; franc. Involution; ted. Involution). 1. L’opposto di evoluzione. La parola fu adoperata da Kant per indicare la teoria biologica opposta a quella della preformazione individuale, teoria che egli chia- mava dell’evoluzione (Crit. del Giud., $ 81). Oggi, col nome di I. si indicano i fenomeni opposti a quelli di evoluzione cioè i fenomeni regressivi del- l'evoluzione. A. Lalande ha sostenuto la tesi che il progresso in ogni campo dipende, non dal pas- saggio dall’omogeneo all’etereogeneo, come voleva Spencer, ma dal passaggio dall’etereogeneo all’omo- geneo che è la dissoluzione o I. (L’idée directrice de la Dissolution opposée a celle de l'Évolution dans la méthode des sciences physiques et morales, 1898, 28 ediz., col titolo Les Illusions évolutionnistes, 1931). 2. Nella logica simbolica, il procedimento che corrisponde all’elevazione a potenza dell’aritmetica (cfr. PEIRCE, Coll. Pap., 3.614-15). IO (lat. Ego; ingl. /, Self; franc. Moi; ted. Ich). Questo pronome, con cui l’uomo designa se stesso, è diventato oggetto di investigazione filosofica dal momento in cui il riferimento dell’uomo a se stesso, come riflessione su di sè o coscienza, è stato assunto a definizione dell’uomo. Ciò è avve- nuto con Cartesio; e da Cartesio appunto il pro- blema dell’io è stato per la prima volta posto in termini espliciti. « Che cosa dunque sono io?, chie- deva Cartesio. Una cosa che pensa. Ma che cos'è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, con- cepisce, afferma, nega, vuole o non vuole, imma- gina e sente. Certo non è poco se tutte queste cose appartengono alla mia natura. Ma perchè non le apparterrebbero?... È di per sè evidente che sono io che dubito, che intendo e che desidero e che non c'è bisogno di aggiungere nulla per spiegarlo » (Med., II). Come si vede la posizione del problema dell’io è qui subito accompagnata dalla sua soluzione: l’io è coscienza cioè rapporto con se stesso, soggettività. Questa è la prima delle interpretazioni storicamente date dell’io. Possono poi enumerarsi le altre interpretazioni seguenti: IO 505 l'io come autocoscienza; l’io come unità; l’io come rapporto. 1° La definizione cartesiana dell’io come co- scienza fu immediatamente accolta e incorporata nella tradizione filosofica. Locke la faceva sua e la rielaborava allo scopo di giustificare una carat- teristica formale dell’io: l’unità o identità. Egli diceva: « Quando vediamo, udiamo, odoriamo, gu- stiamo, tocchiamo, meditiamo o vogliamo una cosa, noi ci accorgiamo di farla. Altrettanto accade sempre nel caso delle nostre sensazioni e percezioni attuali; e in tal modo ognuno è a se stesso ciò che egli chiama se stesso: e in questo caso non si prende in considerazione il fatto che il medesimo io si continui nelle stesse sostanze o in sostanze diverse. Poichè la consapevolezza sempre accompagna il pen- siero ed essendo quella che fa sì che ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso e in tal modo di- stingue se stesso da tutte le altre cose pensanti,

in ciò solo consiste l’identità personale » (Saggio, II, 27, 11). In altri termini, secondo Locke, l’iden- tità dell'io non è fondata sull’unità o semplicità della sostanza-anima ma unicamente sulla coscienza; ed è, anzi, questa coscienza in quanto si riconosce nella diversità delle sue manifestazioni. Leibniz, pure insistendo sulla importanza di quella che egli chiamava coscienza o sentimento dell’io, non rite- neva che essa sola costituisse l’identità personale e vi aggiungeva « l’identità fisica e reale » (Nouv. Ess., II, 27, 10). Questo punto di vista si trova frequen- temente espresso nella filosofia moderna e contem- poranea, che talora ha accentuato il carattere attivo o volitivo della coscienza. Così ha fatto, per es., Maine de Biran. «La causalità o la forza cioè l’io, egli ha detto, resa manifesta a se stessa mediante il suo solo effetto o il sentimento imme- diato dello sforzo che accompagna ogni movimento o atto volontario, è precisamente come il primo raggio diretto, la prima luce che la vista interiore della mente coglie» (Nouv. Ess. d’Anthropologie, II, 1). L’io è così, per Maine de Biran, la coscienza originaria dello sforzo. Ma la migliore espressione della dottrina dell’io come coscienza è stata data da Kant. Diceva Kant: «Io, come pensante, sono un oggetto del senso interno, e mi chiamo anima. Ciò che è oggetto del senso esterno si chiama

corpo. Pertanto l’espressione io, come essere pen- sante, designa già l’oggetto della psicologia che può dirsi la dottrina razionale dell’anima, quando io dell'anima non voglio sapere più di quanto, indipendentemente dall’esperienza (la quale mi de- termina più da vicino e in concreto) può essere concluso da questo concetto dell’io presente in ogni pensiero » (Crir. R. Pura, Dialettica, II, cap. 1). Accanto a quest’io come «oggetto del senso in- terno » cioè coscienza (cfr. Prol., $ 46) Kant am- 506 mette poi un’altra specie di io che segna il pas- saggio a una seconda interpretazione di questo concetto. L’interpretazione dell’io come coscienza è rimasta frequente nella filosofia moderna e con- temporanea. Diceva Rosmini: « La parola io al concetto generale dell’anima unisce ancora la re- lazione dell’anima a se stessa, relazione di identità; ella contiene dunque un secondo elemento distinto dal concetto dell’anima, è un’anima che percepisce se stessa, si pronuncia, si esprime » (Psicol., $ 6). 2° L’'interpretazione dell’io come Autocoscienza nasce dalla distinzione che Kant aveva fatto tra l'io come oggetto della percezione o del senso in- terno e l’io come soggetto del pensiero o dell’ap- percezione pura, cioè l’io della riflessione (Antr., I, $ 4, nota; cfr. AUTOCOSCIENZA). Questa distin- zione che in Kant non avrebbe mai potuto con- durre ad una sostanzializzazione metafisica dell’io, data la funzionalità che Kant attribuisce all’io stesso, doveva essere assunta, da Fichte, come punto di partenza per la dottrina dell’Io assoluto, L’io della riflessione o della appercezione pura è. secondo Kant, la condizione ultima del conoscere; Fichte ne fa il creatore della realtà. «In quanto è assoluto, egli dice, l’Io è infinito e illimitato. Esso pone tutto ciò che è; e ciò che esso non pone non è (per esso; ma al di fuori di esso non c’è nulla). Ma tutto ciò che esso pone, esso lo pone come Io; ed esso pone l’Io come tutto ciò che esso pone. Quindi, in questo riguardo, l’Io ab- braccia in sè tutta la realtà, cioè una realtà infinita ed illimitata» (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, II; trad. ital, pag. 207). Queste tesi venivano fatte proprie e amplificate da Schelling per opera del quale divennero una delle espressioni caratte- ristiche del Romanticismo. Nello scritto L’Zo come principio della filosofia o l’incondizionato nel sapere umano (1795), egli identifica l’Io di Fichte con la Sostanza di Spinoza. « Io sono diventato spinozista, scriveva in occasione di questo scritto Schelling a Hegel; vuoi sapere come? Per Spinoza il mondo è tutto, per me tutto è l’Io ». E per quanto Hegel negasse questa tesi considerando come sapere as- soluto (e quindi anche come realtà assoluta) un sapere in cui la distinzione tra l’Io e il non Io, tra il soggettivo e l’oggettivo, è venuta a sparire, anch’egli tuttavia condivide la tesi del carattere infinito dell’Io. « L’Io, egli dice, questa immediata coscienza di sè, appare in primo luogo anch’esso da un lato come immediato, dall’altro poi come noto in un senso molto più elevato che qualsiasi altra rappresentazione. Ogni altro noto appartiene infatti certamente all’Io, ma nello stesso tempo è ancora diverso da esso e però è subito un con- tenuto accidentale; l’Io invece è la semplice cer- tezza di sè. Ma l’Io in generale è anche nello stesso IO tempo un concreto o meglio l’Io è il concretissimo, la coscienza di sè come di un mondo infinitamente molteplice » (Wissenschaft der Logik, I, libro I; trad. ital., I, pag. 65-66). Gentile non faceva che riecheg- giare la posizione fichtiana e romantica quando diceva: « L’io è, sì, l’individuo, ma l’individuo come soggetto, il quale non ha nulla da contrap- porre a se stesso e che trova tutto in sè; e perciò è il concreto attuale universale. Orbene questo Io, che è lo stesso assoluto, è in quanto si pone; è causa sui » (Teoria generale dello spirito, XVII, $ 7). 3° Già nell’interpretazione dell’io come co- scienza e come autocoscienza si insiste talora su un carattere formale dell’io, cioè sulla sua wnirà o identità. Si è visto che per Locke l’io è la co- scienza in quanto fonda l’identità personale; e per Kant l’io della riflessione è « l’unità dell’apperce- zione pura» (Cri. R. Pura, $ 16; v. APPERCEZIONE). Hume stesso aveva visto in una certa forma di unità, sia pura fittizia, il carattere fondamentale dell’io; che egli aveva paragonato ad una repubblica, che può mutare negli uomini che la governano, come pure nella sua costituzione e nelle sue leggi, senza perdere la sua identità. L'uomo, allo stesso modo, può mutare le sue impressioni e le sue idee, rimanendo lo stesso io (7reatise, I, 4, 6). Tut- tavia per Hume, come si vede da questa stessa immagine, l’unità dell’io non è assoluta o rigorosa; è un’unità formale e approssimativa, fondata sulla relativa costanza di certi rapporti fra le parti o i momenti dell’io. Questo punto di vista rende forse conto, meglio di quello che afferma la rigo- rosa unità dell’io, dei limiti e dei pericoli a cui l’io va soggetto nell'esperienza effettiva. 4° Il concetto dell’io come rapporto nasce dal riconoscimento del più vistoso carattere con cui l’io si presenta a questa esperienza: il carattere della problematicità per cui esso è una formazione instabile e può andare soggetto alla malattia e alla morte. La nozione di rapporto è difatti più gene- rica e meno impegnativa della nozione di unità. L'unità è una forma di rapporto necessaria, im- mutabile ed assoluta; un rapporto può essere più o meno saldo e può rompersi. Proprio sotto l’an- golo visuale della « malattia mortale» dell’io, che è la disperazione, Kierkegaard definì l’io come « un rapporto che si rapporta a se stesso ». L'uomo è una sintesi d'anima e di corpo, d’infinito e difinito, di libertà e di necessità, ecc. Una sintesi è un rapporto; e il ritorno su questo rapporto, cioè la relazione del rapporto con se stesso, è l’io dell’uomo (Die Krankheit zum Tode, 1849, cap. 1). Kierkegaard aggiungeva che proprio in quanto rapporto con se stesso, l’io è rapporto con altro: cioè con il mondo, con gli altri uomini e con Dio. Su questo secondo rapporto insistono talora i IPOSTASI filosofi contemporanei. Diceva Santayana: « Quando dico io, il termine suggerisce un uomo, uno fra i molti che vivono in un mondo che è in contrasto con il suo pensiero il quale tuttavia lo domina » (Scepticism and Animal Faith, 1923, ed. 1955, pag. 22). Da un punto di vista diverso, Scheler giunge a un analogo concetto dell’io: « Con la parola io, egli dice, è connesso un accenno da una parte a un rw, dall’altra ad un mondo esterno. Dio, ad es., può essere una persona ma non già un io giacchè per lui non ci sono nè un tu nè un mondo esterno» (Formalismus, ecc., pag. 405). E proprio del rapporto si avvale Heidegger per definire l’io. « La stessa assunzione dell” Jo penso qualcosa’ non può ricevere una adeguata deter- minazione se il ‘ qualcosa * resta indeterminato. Se invece il ‘ qualcosa * viene inteso come ente intra- mondano, allora porta con sè inespressa la pre- supposizione del mondo. Ed è proprio questo il fenomeno che determina la costituzione dell’essere dell'io, quando almeno esso debba poter essere qualcosa come un ‘Io penso qualcosa ’. Il dire io si riferisce all’ente che io sono in quanto: io-sono- in-un-mondo » (Sein und Zeit, $ 64). In forma solo apparentemente paradossale, Sartre affermava in un saggio del 1937: « Noi mostreremo che l’io non è nè formalmente nè materialmente nella coscienza; esso è fuori, nel mondo. Esso è un essere del mondo, come l’io di un altro» (Recherches Philosophiques, 1936-37; trad. ingl., The Transcendence of the Ego, New York, 1958, pag. 32). Nello stesso senso, Merleau-Ponty afferma: « La prima verità, è, sì ‘io penso * ma a condizione che s’intenda con ciò ‘io sono a me stesso * essendo nel mondo » (Phenome- nologie de la perception, 1945, pag. 466). Conside- rato nel suo rapporto con il mondo, l’io viene talora determinato in base al suo carattere attivo, alla sua capacità di iniziativa, al suo potere pro- gettante o anticipante. Dice Dewey: « Dire in modo significante ‘ Jo penso, credo, desidero ’ invece di dire soltanto ‘Si pensa, si crede, si desidera’ significa accettare e affermare una responsabilità e avanzare una pretesa. Non significa che l’io è l’origine o l’autore del pensiero o dell’affermazione o la sua sede esclusiva. Significa che l’io, come organizzazione accentrata di energie, identifica se stesso (nel senso di accettarne le conseguenze) con una credenza o sentimento di origine esterna e indipendente » (Experience and Nature, pag. 233). Proprio tali caratteri costituiscono oggi lo schema generale per lo studio sperimentale della persona- lità che è uno degli oggetti principali della psico- logia. Dalla personalità, che è l’organizzazione dei modi con cui l’individuo intelligente progetta i suoi comportamenti nel mondo, l’io si distingue sol- tanto come quella parte della personalità stessa 507 che è nota all’individuo interessato e a cui per- tanto egli fa riferimento nel dire «io». La perso- nalità, dall’altro lato, è più vasta: essa include anche le zone oscure o in penombra, le sfere di ignoranza più o meno voluta o non voluta, che caratterizzano il progetto totale delle relazioni del- l'individuo col mondo (v. PERSONALITÀ). IO PENSO. V. Cocrro. IO TRASCENDENTALE (ingl. Trascendental Ego; franc. Moi trascendental; ted. Transzendentales Ich). Lo stesso che Io assoluto (v. Io). IPERBOLICO. V. DuBgio. IPERORGANICO (franc. Hyperorganique). Termine con il quale gli scrittori positivisti hanno caratterizzato il mondo propriamente umano cioè psichico e sociale. IPERURANIO (gr. ùrepovpdvioc). La regione «al di là del cielo» nella quale, secondo il mito di Platone nel Fedro (247 c sgg.), risiedono le so- stanze immutabili che sono l’oggetto della scienza. Si tratta di una regione non spaziale; giacchè il cielo racchiudeva per gli antichi tutto lo spazio e al di là del cielo non c’è spazio. L'espressione è quindi puramente metaforica; nella Repubblica, Pla- tone stesso prende in giro coloro che si illudono di vedere gli enti intelligibili guardando in alto. « Per mio conto, egli dice, non posso riconoscere ad altra scienza il potere di far sì che l’anima guardi in su se non a quella che s’occupa dell’es- sere e dell’invisibile; ma se qualcuno cerca di apprendere qualcosa di sensibile, guardando in su a bocca aperta o a bocca chiusa, io dico che costui non apprenderà niente perchè non c’è scienza delle cose sensibili e che la sua anima non guarda in alto ma in basso, anche se egli studi restando sul dorso a terra o in mare» (Rep., VII, 529 b-c). IPOLEMMA (ingl. Hypolemma). Così è stata detta da W. Hamilton la premessa minore del sillogismo, in quanto viene sussunta alla premessa maggiore o lemma (Lectures on Logic, I, pag. 283). IPOSTASI (gr. sréotacw; ingl. MHypostasis; franc. Hypostase; ted. Hypostase). Con questo ter- mine Plotino chiamò le tre sostanze principali del mondo intellegibile cioè l’Uno, l’Intelligenza e l’Anima (Emn., III, 4, 1; V, 1, 10), che egli para- gonava rispettivamente alla luce, al sole e alla luna (Ibid., V, VI, 4). La trascrizione latina del nome è «sostanza », che tuttavia è stato usato dalla tra- dizione filosofica in un significato totalmente diverso (v. Sostanza). Nelle discussioni trinitarie dei primi secoli, il termine in questione fu preferito a quello di persona (mpécwrov) che, significando propria- mente maschera, sembrava evocare l’immagine di qualcosa di fittizio. Da queste discussioni, il nome di I. rimase fissato a designare la sostanza indi- viduale cioè per l’appunto la persona. Dice S. Tom- 508 maso: «Secondo alcuni la sostanza, nella defini- zione della persona, sta per la sostanza prima, che è l’I.; tuttavia non è superfluo aggiungere individuale; giacchè con il nome di I. o di so- stanza prima si esclude il rapporto tra l’universale e la parte. Non diciamo infatti che sia I. il con- cetto di uomo o la mano» (S. 7A., I, q. 29, a. 1). Nel linguaggio moderno e contemporaneo, il termine viene usato (ma raramente) in senso peg- giorativo: per indicare la trasformazione fallace o surrettizia di una parola o un concetto in sostanza cioè in una cosa o in un ente. In questo senso si parla anche di ipostatizzare (franc. Aypostasier) e di ipostatizzazione). IPOTESI (gr. sré0e015; ingl. Hypothesis; fran- cese Hypothèse; ted. Hypothese). In generale, un enunciato (o insieme di enunciati) che possa essere messo a prova, attestato e controllato solo indirettamente, cioè attraverso le sue conseguenze. La caratteristica dell'I. è pertanto che essa non include nè una garanzia di verità nè la possibilità di una verifica diretta. Una premessa evidente non è un’I. ma, nel senso classico del termine, una assioma. Un enunciato verificabile è una legge o una proposizione empirica, non un’ipotesi. Un’I. può essere vera; ma la sua verità può risultare soltanto dalla verifica delle sue conseguenze. In questo senso intendeva l’I. Aristotele che, pur ado- perando qualche volta il termine nel senso gene- ralissimo di premessa di una dimostrazione (con- fronta, ad es., Mer., V, 1, 1013a 16; 1913b 20; Fis., II, 3, 195a 18), la definiva nel suo signi- ficato specifico escludendola dal campo delle pre- messe necessarie: « Ciò che è necessario che sia ed è necessario che appaia necessario, non è nè un'I. nè un postulato » egli dice (An. Post., I, 10, 76 b 23). Assiomi e definizioni costituiscono le premesse necessarie del sillogismo; I. e postulati quelle non necessarie. In particolare, le I. stabili- scono l’esistenza delle cose definite. Le definizioni, egli dice, debbono solo farci comprendere ciò di cui si parla; le I. ne stabiliscono l’esistenza, per dedurne le conclusioni (/bid., I, 10, 76b 35 sgg.). Per conseguenza i ragionamenti fondati su I. pre- suppongono una specie di convenzione o accordo preliminare (An. Pr., I, 44, 50a 33) e non hanno il valore probativo di quelli fondati sulle definizioni (ibid., I, 23, 40b 22). Questa determinazione dell’I. come premessa di grado o qualità inferiore, cioè priva della neces- sità che è propria delle premesse autentiche, è caratteristica della posizione di Aristotele. Essa non si trova in Platone. Secondo Platone le premesse devono essere scelte in base a un giudizio compa- rativo, che si orienta su quella che è « la più forte » o «la migliore » tra esse (Fed., 100 a; 101 d). Alle IPOTESI matematiche e in generale alle discipline prope- deutiche, Platone fa l'appunto, non di muovere da I., ma di «lasciarle immobili per non esser capaci di dar ragione di esse » (Rep., VII, 533 c). E I. sono chiamate nel Parmenide tutte le possibili vie della ricerca, senza che qualcuna sia privile- giata con un nome diverso (Parm., 135 e). Platone dichiara talora di «indagare per via d’I.» come fanno i geometri cioè ragionando su questa base: «Se si verificano alcune condizioni, si otterrà un certo risultato, ma se non si verificano, il risul- tato sarà diverso » (Men., 87a). L’uso delle I. in filosofia stabilisce una differenza importante tra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, per ciò

che concerne il procedimento della filosofia stessa e in generale del sapere scientifico. Tale differenza cade però all’interno della nozione generale di I., come sopra espressa. E nell'ambito di tale nozione si possono distinguere i seguenti significati specifici: 1° L’antecedente di una proposizione ipotetica o condizionale o di un ragionamento anapodittico o di un sillogismo ipotetico. La logica stoica, a differenza da quella aristotelica, privilegiò le pro- posizioni ipotetiche e i ragionamenti anapodittici, conformamente all'impostazione generale della lo- gica come dialettica (v. LOGICA; DIALETTICA; Con- DIZIONALE; CONSEGUENZA; IMPLICAZIONE). 2° Una proposizione originaria assunta a fon- damento di un discorso scientifico, per es., un postulato o assioma della matematica. Di tali po- stulati o assiomi infatti non si afferma nè si nega la verità, ma si riconoscono validi se e nella mi- sura in cui rendono possibili il discorso matematico. In tal senso le matematiche sono chiamate « sistemi ipotetico-deduttivi ». Ma proposizioni analoghe ai postulati o assiomi delle matematiche e, com’essi, assunte ipoteticamente si possono ritrovare in tutte le scienze che hanno raggiunto un certo grado di elaborazione concettuale. 3° Una condizione qualsiasi. Tale è il signifi- cato del termine nell’espressione ex Aypothesi. Ari- stotele parla di ciò che è « necessario per I.» cioè in virtù di una determinata condizione (Fis., II, 9, 199 b 34 sgg.). 4° La spiegazione causale dei fenomeni. In questo senso la parola fu adoperata spesso nei sec. xvII e xv. Locke avvertiva di «aver cura che il nome di princìpi non ci inganni né ci si imponga, facendoci accogliere come verità incon- testabile quella che, nel miglior caso, non è che una congettura dubitabilissima: quali sono la maggior parte delle I. della filosofia naturale: e quasi stavo per dire tutte» (Saggio, IV, 12, 13): dove è ovvio che per Locke 1’I. è quella che enuncia i «princìpi» cioè le cause dei fenomeni. Ancora più esplicitamente Leibniz diceva: « L’arte di sco- IPSITÀ prire le cause dei fenomeni, o le vere I., è come l’arte di decifrare, nella quale spesso una conget- tura ingegnosa abbrevia di molto il cammino» (Nouv. Ess., IV, 12, 13): dove «I. vere» e « cause dei fenomeni» sono identificate. La rinuncia di Newton « liypotheses non fingo » si riferisce appunto a questo significato di ipotesi. Ecco infatti il testo di Newton: « Non ho potuto dedurre finora dai fenomeni le ragioni di queste proprietà della gra- vità, e non immagino ipotesi. Tutto ciò che non si deduce dai fenomeni è infatti da chiamarsi I.; e le I. o metafisiche o fisiche, sia di qualità oc- culte sia meccaniche, non hanno posto nella filo- sofia sperimentale ». A_ queste I. egli contrappone le cause vere che sono quelle « necessarie per spie- gare i fenomeni» (Philosophiae naturalis Principia mathematica, 1687, in fine). E nell’Ortica (1704), Newton faceva consistere l’I. nell’appello alle qua- lità occulte assunte come cause dalla metafisica aristotelica: alle quali egli contrapponeva i prin- cipi (la gravità, la fermentazione, la coesione) « che, egli diceva, io considero non come qualità occulte, che si suppongano risultare dalle forme specifiche delle cose, ma come leggi generali di natura, dalle quali le cose stesse sono formate e la cui verità ci è manifesta dai fenomeni, anche se le loro cause non siano state scoperte» (Opricks, III, 1, q. 31). La rinuncia di Newton alle I. non è dunque che la rinuncia alla spiegazione in favore della descri- zione. Alla metà del sec. xIx l’opposizione tra descrizione e spiegazione ipotetica veniva ribadita dal fisico inglese J. Macquorn Rankine. « Secondo il metodo astratto, egli diceva, una classe di og- getti e di fenomeni è definita per descrizione cioè facendo vedere che un certo insieme di proprietà è comune a tutti gli oggetti o fenomeni della classe e considerandole quali i sensi ce le fanno perce- pire, senza introdurre niente d’ipotetico e solo as- segnando loro un nome o un simbolo. Secondo il metodo iporetico, la definizione di una classe di oggetti o di fenomeni si deduce da una concezione congetturale circa la loro natura ». E Rankine pre- vedeva l’abbandono graduale delle teorie ipotetiche e la loro sostituzione con le teorie astratte (Ouslines of the Science of Energetics, 1865, in Miscellaneous Scientifics Papers, pag. 210; cfr. P. DuHEM, La théorie physique, 1906, pag. 80-81). 5° Uno speciale procedimento, che sostituisce l’induzione, per la formulazione di princìpi da es- sere verificati sperimentalmente. Secondo Stuart Mill, il procedimento scientifico è composto di tre parti: induzione, raziocinazione e verificazione. Ora «il metodo ipotetico sopprime il primo di questi tre passi, l'induzione, per accertare la legge e si limita alle altre due operazioni, raziocinazione e verificazione: la legge in base alla quale si ragiona 509 è assunta invece di essere provata» (Logic, III, 14, 4). Nello stesso senso Peirce mette l’I. accanto alla deduzione e all’induzione come un tipo di ragio- namento valido che si distingue dall’induzione perchè mentre questa « procede come se tutti gli oggetti che hanno certi caratteri fossero conosciuti », l’I. è «l’inferenza la quale procede come se tutti i caratteri richiesti alla determinazione di un certo oggetto o classe fossero conosciuti ». « Mentre l’in- duzione può essere considerata come l’inferenza della premessa maggiore del sillogismo, l’ipotesi può essere considerata come l’inferenza della pre- messa minore dalle altre due» («Some Conse- quences of Four Incapacities », in Values in a Universe of Chance, pag. 44 sgg.). Questo significato del termine è rimasto raro. 6° L'argomento di un discorso, in quanto posto o enunciato al principio del discorso stesso (ARISTO- TELE, Rer. ad Al., 30, 1436a 36; Rer., II,18,1391b 13). 7° Una teoria scientifica o parte di una teoria scientifica. In questo senso Mach dice: « Chiamiamo I. una spiegazione provvisoria che ha per scopo quello di far comprendere più facilmente i fatti, ma che sfugge alla prova dei fatti» (Erkenniniss und Irrtum, cap. 14; trad. franc., pag. 240). Per questo significato, v. TEORIA. IPOTETICO (gr. iro0erix6s; lat. Ayporheticus; ingl. Hypothetical; franc. Hypothétique; ted. Hypo- thetisch). Questo termine ha significati corrispon- denti a quelli del sostantivo. Per proposizione ipotetica, v. CATEGORICO. Per ragionamento ipote- tico, v. SILLOGISMO; ANAPODITTICO; RAGIONAMENTO; CONDIZIONALE; CONSEGUENZA. IPOTIPOSI (gr. srotirwar; ted. Ayporypose). Questo termine che significa schizzo o lineamenti (in questo senso ricorre nel titolo dell’opera di Sesto EMPIRICO, /. Pirroniane) fu adoperato dai retori per indicare la figura per la quale un argo- mento è vividamente delineato in parole (QUINTI- LIANO, /nst., IX, 2, 40). In senso analogo ha ado- perato la parola Kant per esprimere il rapporto tra la bellezza e la moralità: la bellezza, come simbolo della moralità, è l’I. di essa cioè la sua vivida manifestazione intuitiva. Mentre le parole e gli altri segni sono semplici espressioni dei concetti, le I. sono esibizioni o manifestazioni del concetto stesso in forma intuitiva (Crit. del giud., $ 59). IPSE DIXIT (gr. abròs tpa). Frase con cui i Pitagorici solevano rispondere alla richiesta di de- lucidazioni sulla loro dottrina: «L'ha detto lui». Il lui era Pitagora. Cicerone adduce questa usanza come esempio della prevalenza dell’autorità sulla ragione (De nat. deor., I, 5, 10). IPSITÀ (lat. Ipseitas; franc. Ipséité). Termine usato da Duns Scoto per indicare la singolarità della cosa individuale (v. ECCEITÀ). 510 IRASCIBILE. V. FACOLTÀ. IRONIA (gr. elpuvela; lat. Zronia; ingl. Zrony; franc. Ironie; ted. Ironie). In generale l’atteggiamento che consiste nel dare un’importanza assai minore del giusto (o di quella che si ritiene tale) a se stessi o alla propria condizione o situazione o a cose o persone che hanno stretto rapporto con se stessi. La storia della filosofia conosce due forme fonda- mentali d’I.: 1° I’I. socratica; 2° l’I. romantica. 1° L’I. socratica è la sottovalutazione che So- crate fa di se stesso nei confronti degli avversari con cui discute. Quando nella discussione sulla giustizia Socrate dichiara: «Io ritengo che l’inda- gine è al di là delle nostre possibilità e che voi che siete bravi dovete aver pietà di noi piuttosto che arrabbiarvi con noi», Trasimaco risponde: «Ecco la solita I. di Socrate» (Rep., I, 336e- 337 a). Aristotele non fa che enunciare generica- mente questo atteggiamento socratico quando vede nell’I. uno degli estremi nell’atteggiamento di fronte alla verità. Il veritiero è nel giusto mezzo; chi esagera la verità è il millantatore e chi invece tenta di diminuirla è l’ironico. L’I., dice Aristotele, è, sotto questo aspetto, simulazione (Er. Nic., II, 7, 1108 a 22). Cicerone si rifaceva a questo concetto affermando che « Socrate spesso nella disputa ab- bassava se stesso ed alzava coloro che voleva confutare; e così, parlando diversamente da come pensava, adoperava volentieri quella simulazione che i Greci chiamano I.» (Acad., IV, 5, 15) E a questo concetto del termine faceva riferimento S. Tommaso che la esamina come un forma (le- cita) di menzogna (S. 7A., II, 2, q. 113, a. 1). 2° L’I. romantica poggia sul presupposto del- l'attività creatrice dell’Io assoluto. Identificandosi con l’Io assoluto, il filosofo o il poeta (che molto spesso coincidono, per i Romantici) è portato a considerare ogni realtà più salda come un’ombra o un gioco dell’Io: è portato cioè a sottovalutare l’importanza della realtà, a non prenderla sul

serio. Secondo Federico Schlegel, l’I. è la libertà assoluta di fronte a qualsiasi realtà o fatto. « Tra- sferirsi arbitrariamente ora in questa ora in quella sfera come in un altro mondo, non solo con l’in- telletto e con l’immaginazione ma con tutta l’anima; rinunciare liberamente ora a questa ora a quella parte del proprio essere, e limitarsi completamente a un’altra; cercare e trovare il proprio uno e tutto ora in questo, ora in quell’individuo e dimenticare volutamente tutti gli altri: questo può solo uno spirito che contiene in sè come una pluralità di spiriti e tutto quanto un sistema di persone, e nel cui intimo l’universo che, come si dice, è in germe in ogni mondo, s’è dispiegato ed è perve- nuto alla sua maturità » (Fragmente, 1798, $ 121). Queste notazioni sull’I. trovarono una sistemazione IRASCIBILE concettuale nell’opera di C. G. F. SOLGER, Erwin (1815) nella quale l’I. veniva interpretata dal punto di vista della soggettività che comprende se stessa come cosa suprema e che perciò abbassa a un puro nulla tutte le altre cose, anche ciò che c’è di più alto. Pur polemizzando contro qualche par- ticolare, definito « platonico» della dottrina di Solger, Hegel la faceva sua nel descrivere l’I. nel modo seguente: « Prendete una legge, e schietta- mente qual è in sè e per sè: io ne sono perciò anche al di là e posso fare così e così. Non la cosa è superiore, ma sono io superiore e sono il padrone, che al di sopra della legge e della cosa, scherza con esse come con il suo piacere e in questa coscienza ironica, nella quale lascio pe- rire il Sommo, godo soltanto di me» (Fil. del dir., $ 140). L'I. così intesa, come coscienza della Soggettività assoluta, la quale, come tale, è tutto e di fronte alla quale perciò tutte le altre cose sono nulla e pertanto come coscienza dell’asso- luto arbitrio di tale soggettività è, secondo Hegel, un risultato della filosofia di Fichte quale è stata intesa e interpretata da Federico Schlegel (Fi/. del dir., $ 140, Zusatz). «Qui il soggetto si sa in sè medesimo come l’Assoluto e non dà alcun peso a tutto il resto: esso sa distruggere sempre di nuovo tutte le determinazioni che esso stesso si dà del giusto e del bene. Esso può dare a in- tendere a sè ogni cosa ma non mostra altro che vanità, ipocrisia, sfrontatezza. L’I. sa di dominare qualsiasi contenuto: essa non prende nulla sul serio, scherza con tutte le forme» (Geschichte der Phil., III, sez. 3, C, 3; trad. ital., III, 2, pag. 370-71). Quel concetto è rimasto a contrassegnare uno degli aspetti fondamentali del romanticismo tedesco. Di esso Kierkegaard ha dato un’interpretazione at- tenuata o metaforica, da un lato concependo l’I. socratica come la superiorità di Socrate sopra la nequizia del mondo (Diario, X*, A, 254); dal- l’altro lato intendendo in generale l’I. come « l’infinitizzazione dell’interiorità dell’io » ma come infinitizzazione «interiore», in un significato che non ha più la portata che Fichte attribuiva all’in- finità stessa. «Cos'è l’I.? egli scrive. L’unità di passione etica, che accentua in interiorità il proprio io infinitamente, e di educazione la quale nel suo esteriore (nel commercio con gli uomini) astrae infinitamente dal proprio io. L’astrazione fa sì che nessuno s’accorga della prima unità vissuta ed in ciò sta l’arte per la vera infinitizzazione dell’inte- riorità» (Diario, VI, A, 38, trad. Fabro). Poichè l’infinità dell'io è qui soltanto un'infinità « inte- riore », cioè l’accentuazione all’infinito del valore dell’io nella coscienza, ma non è l’infinità effettiva e creativa dell’Io assoluto dei romantici, l’I. non ha più il suo significato romantico: è solo il con- ISONOMIA 511 trasto tra la coscienza esaltata che l’io ha di sè e la modestia delle sue manifestazioni esterne. IRRAZIONALISMO (ted. /rrationalismus). Termine con il quale in italiano e in tedesco si designano le filosofie della vita o dell’azione cioè quelle filosofie che, come, ad es., quella di Scho- penhaver, considerano il mondo come la mani- festazione di un principio non razionale (v. AZIONE, FILOSOFIA DELL’; VITA, FILOSOFIA DELLA). IRREVERSIBILE (ingl. Zrreversibile; franc. Ir- réversible; ted. Irreversibel). Carattere delle relazioni non simmetriche e dei processi che hanno un senso determinato. Platone, nel mito del Politico, affermò la reversibilità del divenire cosmico affermando che il mondo, una volta raggiunta la misura del tempo che gli è stato assegnato, «riprende a girare in senso contrario » cioè inverte l’ordine del tempo. Ciò accade perchè il mondo è da un lato la cosa più perfetta possibile, ma dall’altro è corpo e come tale soggetto al mutamento. « Perciò ebbe in sorte di rifare il suo giro in senso inverso, essendo questa ‘ la minima mutazione possibile del suo mo- vimento * » (Pol., 269 c-e). Questo concetto, che la reversibilità del processo cosmico è dovuta all’esi- genza di realizzare la massima possibile identità con se stesso, veniva espresso da Leibniz nei ter- mini della scienza del suo tempo. Diceva Leibniz: « La saggezza suprema di Dio gli ha fatto scegliere soprattutto le leggi del movimento meglio adatte e più convenienti alle ragioni astratte o metafisiche. Si conserva nell’universo la stessa quantità di forza totale assoluta o di azione; la stessa quantità di forza rispettiva o di reazione; la stessa quantità di forza direttiva. In più l’azione è sempre uguale alla reazione e l’effetto intero è sempre equiva- lente alla sua causa piena» (Princ. de la nature et de la gréce, 1714, Op., ed. Erdmann, pag. 716). Questa perfetta equivalenza tra la causa e l’effetto significa la reversibilità del processo causale. La meccanica classica ammette questa reversibilità. Le equazioni che esprimono il comportamento dei fe- nomeni meccanici non dànno nessuna indicazione sul senso in cui scorre il tempo. Il # di queste equazioni è una variabile continua che non ha un senso determinato, e questo significa che ogni fenomeno meccanico è reversibile. L’irreversibilità dei fenomeni fu per la prima volta introdotta con la scoperta del secondo principio della termodina- mica (detto Principio di Carnot, 1824), secondo il quale il calore passa soltanto dal corpo più caldo al corpo più freddo. In tal caso, quando, con questo passaggio, si è raggiunto l’equilibrio della temperatura, è impossibile tornare indietro. Dal sistema in equilibrio non si può tornare al sistema dello squilibrio termico che solo rende possibile il passaggio del calore e quindi il lavoro meccanico. Un sistema in equilibrio termico non può quindi fornire lavoro meccanico. Con ciò si viene a stabi- lire l’irreversibilità dei fenomeni naturali i quali, sotto un certo rispetto, sono tutti fenomeni termici. Il Principio di Carnot ha quindi esclusa l’immagine di un divenire del mondo che, come pensavano gli antichi, si svolga ciclicamente e ritorni su se stesso. L’irreversibilità dei fenomeni naturali ha fatto pensare alla morte inevitabile dell’universo, per il raggiungimento dell’equilibrio termico che rende- rebbe impossibile ogni trasformazione e quindi ogni vita. E numerose sono state anche le dottrine che hanno avanzato ipotesi destinate a lasciare intra- vedere per il nostro universo una sorte diversa (cfr. su di esse MEvYERSON, De /’explication dans les sciences, 1927, pag. 203 sgg.).. Ma in verità sia la previsione della catastrofe sia quella delle possibili vie di salvezza vanno molto al di là di ciò che è consentito dalla portata del principio di Carnot e in generale da un principio scienti- fico. Questo infatti vale soltanto per sistemi chiusi o almeno relativamente isolati; ed è uno strumento di previsione nell’ambito di tali sistemi e non per l’universo o il mondo, cioè per una totalità aperta o infinita. In un senso diverso e positivo il signifi- cato filosofico dell’irreversibilità è stato illustrato da E. Paci, Tempo e relazione, 1954, cap. VI e assim (v. ENTROPIA). ISOLARE (ted. /solieren). Nel senso di astrarre, come adoperato da Kant; v. ASTRAZIONE. Wundt distingue l’astrazione isolante che consiste nel se- parare una parte determinata da un’apparenza com- plessa, dall’astrazione generalizzante che consiste nel lasciar da parte, intenzionalmente, alcune note con- cettuali (Logik, II, pag. 11 sgg.). ISOMORFISMO (ingl. Isomorphism; franc. Iso- morphisme; ted. Isomorphie). Termine adoperato in logica e in matematica per indicare la relazione fra relazioni omogenee di due o più termini e che consiste nella corrispondenza di termine a termine fra i termini delle relazioni (cfr. R. CARNAP, Lopical Syntax of Language, $ 71 c; A. CHURCH, /ntro- duction to Mathematical Logic, $ 55). ISONOMIA (gr. icovoplia; lat. Zsonomia). Se- condo Alcmeone di Crotone, è il perfetto equilibrio della proprietà che costituiscono il corpo, cioè la salute; il contrario di essa è la monarchia cioè la prevalenza di una proprietà sulle altre, che costi- tuisce la malattia (Fr. 4, Diels). Secondo Epicuro, il perfetto equilibrio e la perfetta corrispondenza di tutte le parti o gli elementi del tutto nell’infinito. « Da essa deriva la conseguenza che, se così grande è la moltitudine dei mortali, non minore è quella degli immortali, e se gli elementi di distruzione sono innumerevoli anche quelli di conservazione devono essere infiniti » (CIcER., De nat. deor., I, 19, 50). 512 ISTANTE. V. ATTIMO. ISTANZA (gr. tvotaoi; lat. Instantia; ingl. In- stance; franc. Instance; ted. Instanz). 1. Nella logica aristotelica, l’I. è «una premessa che è contraria a un’altra premessa » (An. Pr., II, 26, 69 a 36). Aristotele enumera quattro I. fondamen- tali: l’attacco alla premessa dell’avversario; una nuova premessa; una premessa contraria a quella dell'avversario; l'appello a precedenti decisioni (Top., VII, 10, 161a 1; Rer., II, 25, 1402a 34). 2. Bacone chiamò I. i casi particolari sperimentali di un determinato fenomeno, per es., del calore; e chiamò «tavole delle I.» l’elenco di tali casi (Nov. Org., II, 10 sgg.) (v. TavoLE). Stuart Mill ha talora seguito questa terminologia (Logic., III, 9, 1, passim). ISTINTO (gr. spui; lat. Znstinctus; ingl. In- stinct; franc. Instinct; ted. Instinkt). Una guida naturale, cioè non acquisita nè scelta e poco mo- dificabile, della condotta animale ed umana. L’I. si distingue dalla tendenza (v.) per il suo carattere biologico, in quanto è diretto alla conservazione dell’individuo e della specie ed è legato ad una struttura organica determinata; e dall’impulso per il suo carattere stabile. Esistono due concezioni fondamentali dell’I.: 1° quella metafisica, per cui l’I. è la forza che garantisce l'accordo delia con- dotta dell’animale con l’ordine del mondo; 2° quella scientifica per cui l’I. è un tipo di disposizione biologica. 1° La teoria metafisica dell’I. è stata fondata dagli Stoici. Per essi, l'ordine provvidenziale del mondo, che tutti gli esseri sono destinati a man- tenere, dirige la condotta animale mediante l’istinto. « L’I. primario dell’animale in quanto l’animale è sin da principio diretto dalla natura, è quello di prendersi cura di sè, dice CrisiPPO nel primo libro

Dei Fini. Dice infatti che la cosa che sta più a cuore a ciascun animale è la propria costituzione e la coscienza di questa costituzione. Non è veri- simile che l’animale si estranei da sè o che co- munque faccia in modo di estraniarsi da sè o di non prendersi cura di sè. Occorre dunque che la natura stessa lo costituisca in modo che egli abbia cura di sè, sicchè fugga le cose nocive e persegua quelle favorevoli. Dal che appare falso ciò che alcuni dicono e cioè che il piacere sia l’I. primario degli animali» (Diog. L., VII, 85). Attraverso l’I. la natura conduce l’animale a prendersi cura di sè e a conservarsi, contribuendo così a mantenere l'ordine del tutto. Cicerone esprimeva il concetto stoico nei termini seguenti: « Ogni specie animale, al fine di conservare se stessa, la propria vita ed il proprio corpo, evita per natura quanto appare nocivo e desidera e si procaccia tutto quanto è necessario alla vita come il cibo, il ricovero, e ISTANTE tutto il resto. È del pari comune a tutti gli esseri animale l’I. sessuale al fine della procreazione ed una certa qual cura delle loro creature » (Tusc., I, 4, 1l; De fin., III, 7, 23; De off, I, 28, 101). A un I. così inteso fu talora assimilato il diritto di natura, in quanto comune non soltanto agli uomini ma anche agli animali. Nel sec. n, Ulpiano distingueva dal diritto delle genti, che è proprio soltanto degli uomini, il diritto naturale, che è «quello che la natura ha insegnato a tutti gli ani- mali e perciò è proprio non solo del genere umano ma è comune a tutti gli animali che vivono in terra, in mare e in cielo. Da questo diritto dipen- dono il matrimonio, la procreazione e l’educazione dei figli, tutte cose di cui anche gli animali sono esperti » (Dig., I, 1, 1-4). Questa concezione dell’I. è rimasta sempre legata al presupposto metafisico di un ordine provvidenziale di cui l’I. stesso sa- rebbe la manifestazione negli animali e negli uomini. S. Tommaso adduceva a prova della tesi che la provvidenza si occupa anche delle cose singolari contingenti, l’I. naturale da cui gli animali sono dotati e che appare manifesto nelle api e in molti altri animali (Contra Gent., III, 75). Dante espri- meva perfettamente questa concezione dell’I.: « In noi seminata e infusa dal principio della nostra generazione, nasce un rampollo, che gli Greci chia- mano lormen cioè appetito d'animo naturale... E questo appare chè ogni animale, siccome ello è nato, sì razionale come bruto, se medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono con- trarie e quelle odia » (Conv., IV, 22; cfr. Par., I, 112-14). Kant ancora parlava dell’I. come della «voce di Dio cui tutti gli animali obbediscono » e che « dovette originariamente guidare sulle prime l’uomo primitivo » (Mutmasslicher Anfang der Men-

schengeschichte, 1786). I caratteri dell’I. in questa concezione restano fissati nel modo seguente: 1° la provvidenzialità; 2° l’infallibilità, che deriva dal precedente carat- tere e per la quale si ritiene che l’I. è in ogni caso adatto a garantire la vita dell'animale e la con- tinuazione della specie; 3° l’immutabilità che de- riva dai due caratteri precedenti e che si ritiene consistere nella non perfezionabilità dell’I.; 4° la cecità nel senso che l’I. sfugge al controllo del- l’animale e lo guida senza alcuna sua iniziativa diretta. Alcuni di questi caratteri sono stati talora assunti o mantenuti anche nella concezione scien- tifica dell’istinto. Essi sono però propri della con- cezione metafisica, essendo caratteri presunti, de- dotti dalla funzione che si attribuisce all’I. nel cosmo e tutti in contrasto con i dati dell’osserva- zione. Questi caratteri sono anche ammessi e difesi, abitualmente, dai filosofi che hanno una concezione provvidenzialistica del mondo biologico, per es., dai ISTINTO filosofi spiritualisti. Hegel ha anche parlato di un «I. della ragione» (Phénomen. des Geistes, I, cap. V, « L’osservazione della natura »; trad. ital., I, pag. 222, 225, ecc.), attribuendo a tale I. i caratteri generali sopra elencati. Una teoria metafisica dell’I. è anche quella di Freud, specialmente com’è formulata nei suoi ul- timi scritti. Gli I. sono «l’ultima causa di ogni attività e sono di natura conservatrice: da ogni stato raggiunto da un essere, sorge una tendenza a ristabilire tale stato quando sia stato abbando- nato ». Gli I. possono essere molteplici e possono cambiare mèta e sostituirsi l’uno all’altro; ma da ultimo si possono riconoscere due I. fondamentali in lotta fra loro: l’Eros o I. di vita e Thanatos I. di distruzione (Abriss der Psychoanalyse, 1940, cap. II). V. PSICOANALISI. 2° Le teorie scientifiche dell’I. sono di due specie: A) teorie esplicative; 8) teorie descrittive. A) Esistono tre fondamentali teorie esplica- tive: a) quella che lo spiega ricorrendo all’azione riflessa; 5) quella che lo spiega ricorrendo all’in- telletto; c) quella che lo spiega ricorrendo al sen- timento (simpatia). a) La dottrina che spiega l’I. ricorrendo all’azione riflessa è la più antica. Essa fu difesa da SPENCER nei suoi Principi di Psicologia (1855). « Mentre nelle forme primitive dell'azione riflessa, egli diceva, una singola impressione è seguita da una singola contrazione; mentre nelle forme più sviluppate dell’azione riflessa una singola impres- sione è seguita da una combinazione di contrazioni; in questa che noi distinguiamo come I., una com- binazione di impressioni è seguita da una combi- nazione di contrazioni; e più alto è l'I., più complesse sono le coordinazioni direttive ed ese- cutive » (Princ. of Psychology, $ 194). Questa tesi fu, accettata sostanzialmente e modificata da Darwin nel senso che lo sviluppo degli I. sarebbe dovuto alla selezione naturale degli atti riflessi che costi- tuiscono gli I. più semplici. «La maggior parte degli I. più complessi, diceva Darwin, sembra es- sere stata acquisita mediante la selezione naturale delle variazioni di atti più semplici. Tali variazioni sembrano risultare dalle stesse cause sconosciute che occasionano le variazioni leggere o le diffe- renze individuali nelle altre parti del corpo, agi- scono anche sull’organizzazione cerebrale e deter- minano mutamenti che, nella nostra ignoranza, consideriamo spontanei» (Descent of Man, 1871, I, cap. 3; trad. franc., pag. 69). Questa spiegazione dell’I. è rimasta quella accettata non solo dai darwiniani e dai neodarwiniani ma anche da co- loro che hanno elaborato la teoria dei riflessi condizionati, i quali hanno considerato l’I. come un riflesso condizionato complesso (cfr. PAvLOV, 33 — ARBAGNANO, Dirionario di filosofia. 513 I riflessi condizionati; trad. ital., pag. 273). Il di- fetto della teoria è che le variazioni casuali difficil- mente potrebbero spiegare la formazione di I. così perfezionati e complessi, come quelli degli insetti. b) La seconda teoria esplicativa ha per l’appunto in vista la formazione di questi I. più complessi e considera l’I. come intelligenza degra- data o meccanizzata. Questa dottrina, presentata da Romanes (Mental Evolution in Animals, 1883), è stata largamente accettata nella psicologia della fine del secolo scorso. Essa equivale a fare dell’I. un’abitudine che si è formata e perfezionata attra- verso lo sviluppo di una specie animale. Wundt specialmente ha contribuito alla diffusione della dottrina. «Gli I., egli dice, sono movimenti che originariamente derivano da semplici o composti atti di volontà e che poi, durante la vita indivi- duale o nel corso di uno sviluppo generale, ven- gono in tutto o in parte meccanizzati » (Grundzijge der physiologischen Psych., 4% ediz, 1893, II, pag. 510 sgg.; cfr. System der Phil., 2* ediz., 1897, pag. 590). Questa concezione è stata talora utiliz- zata dai filosofi, in vista di una metafisica spiri- tualistica (cfr., per es., RENOUVIER, Nouvelle Mona- dologie, 1899, pag. 83); ma contro di sè ha il fatto bene accertato che le abitudini acquisite non sono trasmissibili per eredità (v. EREDITÀ) e che non basta a spiegare la formazione di I. perfezionati la ereditarietà della disposizione a contrarre più facilmente abitudini, che sembra provata in alcuni casi (MacDougall). c) La terza teoria esplicativa è quella che riporta l’I. al sentimento e in particolare alla simpatia. «I. è simpatia» dice Bergson. « Nei fe- nomeni del sentimento, nelle simpatie e antipatie irriflessive, sperimentiamo in noi stessi, sotto una forma ben più vaga e ancora troppo penetrata d'intelligenza, qualcosa di ciò che deve avvenire nella coscienza di un insetto che agisce per istinto. L’evoluzione ha allontanato l’uno dall’altro, per svilupparli sino in fondo, elementi che all’origine si compenetravano » (Évo/. créatr., 1911, 8% ediz., pag. 190-91). L’evoluzione vitale ha allontanato fra loro intelligenza ed I. specificando l’I. nel com- pito di utilizzare o anche di costruire strumenti organizzati e l’intelligenza invece in quella di fab- bricare e adoperare strumenti inorganizzati (/bid., pag. 152). La specializzazione dell’I. dipende, se- condo Bergson, dal fatto che l’I. è per l'appunto l’utilizzazione, per un fine determinato, d'uno strumento determinato: di uno strumento il quale per di più è di una enorme complessità di det- taglio per quanto semplicissimo di funzionamento. Gli strumenti fabbricati dall’intelligenza sono in- vece assai meno perfetti ma possono continuamente mutare di forma e adattarsi alle nuove circostanze. 514 Questo spiega anche perchè l’I. non sia cosciente o sia cosciente in minima parte: la coscienza in- fatti misura lo scarto tra la rappresentazione e l’azione (cioè tra le diverse possibilità d’agire e l’azione effettiva): nell’I. questo scarto è minimo perchè una minima parte è lasciata alla scelta (Ibid., pag. 157). Scheler, facendo riferimento a questa dottrina di Bergson, in quanto tende a dar ragione degli I. più complicati (per es., di quello degli imenotteri che paralizzano pungendoli ma senza ucciderli ragni o scarabei per deporvi le loro uova, cfr. FABRE, Souvenirs entomologiques, I, 35 ediz., 1894, pag. 93 sgg.), dichiara di con- siderare probabile che « negli atti istintivi di questa specie, nei quali ci si trova in presenza di una concatenazione finalistica, logica, delle fasi di at- tività di più esseri, non si tratti che di una esage- razione anormale di ciò che è la vera fusione affet- tiva nella sfera dell’attività umana» (Sympathie, cap. I; trad. franc., pag. 50). Questa è una sostan- ziale accettazione del punto di vista di Bergson con la correzione che ciò che Bergson chiama simpatia è piuttosto da intendersi come fusione affettiva (per la differenza fra le due cose, v. SIMPATIA). La dottrina di Bergson è stata accettata ampia- mente dai filosofi, mentre ha trovato scarsa acco- glienza presso fisiologi e psicologi. Essa rimane come una delle possibili alternative per una spie- gazione dell’istinto. Questo infatti può venir ri- portato o all’una o all'altra nelle due attività che comunemente si assume dirigano la condotta umana: cioè o all'intelligenza o al sentimento. L’interpre- tazione 5) cerca di ricondurre l’I. all’intelligenza; l’interpretazione c) cerca di ricondurlo al sentimento. B) Nella psicologia contemporanea, l’influsso dell’indirizzo gestaltista, mentre determina il defi- nitivo abbandono della teoria dei riflessi, che ten- deva a risolvere l’I. in attività elementari (che sarebbero appunto le azioni riflesse), ha anche fa- vorito l’abbandono di ogni teoria esplicativa e il ricorso a teorie descrittive, fondate su ampia base di osservazioni. Da questo punto di vista, la de- scrizione dell’I. più comunemente adottata è quella data da G. E. Muller, che ha opportunamente modificata una definizione di MacDougall: « L’I. è una disposizione psico-fisica, dipendente dall’ere- dità, spesso completamente formata subito dopo la nascita, altre volte solo dopo un certo periodo di sviluppo, disposizione che guida l’animale a fare particolare attenzione ad oggetti di una certa specie o in un certo modo e a sentire, dopo averli per- cepiti, una spinta verso un’attività determinata, in connessione con essi + (cfr. D. Katz, Mensch und Tier, 1948; trad. ingl, pag. 171). Definizioni di questa specie rendono inutile perfino il nome di I. che infatti alcuni psicologi tendono a sostituire ISTINTO con altri termini, meno compromessi da un uso secolare (propensione, tendenza, erg). Talvolta si insiste sul carattere totalitario della disposizione istintiva considerandola come uno +*schema uni- tario », che cresce e diminuisce come un tutto (cfr. R. B. CATTELL, Personality, New York, 1950, pag. 195). L’etologia comparata distingue nell’I. ciò che Konrad Lorenz ha chiamato i/ meccanismo innato scatenante, che è l’insieme delle condizioni che fanno da stimolo alla condotta istintiva, e l’atto consumatorio che è costituito da uno schema o piano, gerarchicamente ordinato, di movimenti, che è il vero e proprio comportamento istintivo. Questo ordinamento gerarchico del comportamento istintivo diventa meno flessibile a misura che ci si avvicina al livello della condotta in atto. Tinbergen ritiene che questa flessibilità dipende dai cambia- menti del mondo esterno (The Study of Instinct, 1951, pag. 110). Lorenz ritiene che lo scatenamento della condotta istintiva possa anche essere provo- cato da un accumulo di energia endogena e ritiene che, nell’animale come nell’uomo, questo accumulo di energia (prevalentemente di natura fisico-chimica) costituisce un /. di aggressione che, se abbandonato a se stesso conduce gli uomini alla distruzione reciproca, ma che può essere disciplinato o convo- gliato verso mète che non mettano in pericolo la convivenza umana. Lo sfogo dell'aggressione sopra oggetti costitutivi sarebbe il privilegio dell’uomo, che può essere capace di mutare la direzione del suo impulso istintivo (Das sogenannte Bose, 1963, cap. XII). Questa dottrina continua tuttavia ad attribuire

all’I. la parte prevalente nella determinazione del comportamento umano, come di quello animale, ma dall’altra parte si è pure dubitato che si possa per spiegare tale comportamento usare il concetto di I. (cfr. il simposio su questo argomento nel British Journal of Educational Psychol., novembre 1941). Oppure si prospetta una concezione « stati- stica » dell’I., per la quale esso è soltanto « il fat- tore di un gruppo innato e conativo » (BURT, « The Case for Human Instincts » nella Riv., cit., 3* parte; cfr. J. FLucEL, Studies in Feeling and Desire, London, 1955). Tale negazione dell’I. riguarda soprattutto l’uomo. Katz aveva detto: « Nell’uomo gli I. de- terminano solo la forza di una spinta all’azione e il suo schema generale. Questo schema è indefinito e varia da occasione a occasione e da un individuo all’altro. Per es., in tutti i bambini l’I. del gioco si sviluppa e fiorisce a un certo tempo e poi muore. Ma il modo in cui i bambini realmente giocano varia enormemente. Ciò non di meno, proprio nel- l’infanzia l'uomo è più soggetto all’influenza degli istinti. Più tardi, la sua condotta di vità è così controllata dalle forze esterne che la sua base ISTITUZIONE istintiva può difficilmente esser distinta. A diffe- renza degli animali, egli non passa la sua vita dentro la sicurezza degli I.; ma ha la capacità di formarseli da sè » (Animals and Men, cit., pag. 173). Nella sociologia, l’I. è stato talora invocato come fattore formativo dominante della cultura o dei suoi aspetti fondamentali. AIl’I. Pareto riportava le azioni « non logiche » (Sociologia generale, 1923, $ 157). Thorstein Veblen, ricorreva, nelle sue spiegazioni sociologiche, frequentemente all’I.: per esempio, all’I. dell’efficienza, all’I. animistico, ecc. (cfr. The Instinct of Workmanship and the State of Business Enterprise, 1904). Questo punto di vista è oggi spesso contraddetto: «La cultura non è istintiva sotto nessun aspetto: essa è esclu- sivamente appresa. A partire dalla pubblicazione dell’Z. di BERNARD nel 1924, è stato impossibile accettare ogni teoria degli I. come la spiegazione dello schema culturale universale o come la solu- zione di qualche problema culturale » (G. P. Mur- DOCK, in R. LinToN, The Science of Man in the World Crisis, New York, 73 ediz., 1952, pag. 126- 127). 515 ISTITUZIONE (lat. Institutio; ingl. Institu- tion; franc. Institution; ted. Anstalt). 1. Nella logica terministica medievale, è l’adozione di un nuovo vocabolo nel corso della discussione e per il tempo che essa dura (cfr. OcKHaM, Summ. Log., III, 3, 38). Lo scopo di questa adozione è quello di rendere il linguaggio più conciso; o quello di di- scutere di una cosa sconosciuta; o quello di ingan- nare l’interlocutore o di permettergli di rispondere più facilmente alle obiezioni. In quest’ultimo senso è una delle obbligazioni (v.). 2. Nella sociologia contemporanea, il termine è di uso frequente ed è stato assunto, per es., da Durkheim come l’oggetto specifico della socio- logia definita per l'appunto come «scienza delle istituzioni » (Régles de la méthode sociologique, 2* ediz., pag. xxm). L'istituzione è stata talvolta intesa come un insieme di norme che regolano l’azione sociale (come fa per l'appunto Durkheim); talaltra, in senso più generale, come « qualsiasi atteggiamento sufficientemente ricorrente in un gruppo sociale » (cfr. ABBAGNANO, Problemi di so- ciologia, 1959, IV, 2). K K. Nella logica di Lukasiewicz la lettera K viene usata per indicare la congiunzione che più comu- nemente è simboleggiata con un punto «.». Cfr. A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, n. 91. KABBALA. Una delle fonti della filosofia giu- daica medievale. Xabalah (= tradizione) è una dot- trina segreta che fu dapprima trasmessa oralmente, poi esposta da alcuni rabbini in un certo numero di trattati, di cui due ci sono giunti interi o quasi Il libro della Creazione (Yessjrah) e il Libro dello Splendore (Zohar). Questi libri (di cui non si conosce la data della composizione), espongono una dottrina simile a quella dei neoplatonici e dei neopitagorici dei primi secoli dell’era volgare. Dio è in sè inac- cessibile, sfugge ad ogni conoscenza e rifiuta ogni determinazione: è la negazione di ogni cosa deter- minata, il niente di ogni cosa. La luce divina si con- centra e si proietta in raggi che costituiscono le sostanze emanate o Numeri (Sephirot) che formano gli esseri intermedi e il mondo. Le prime due sostanze sono la Saggezza (Hochma) e l’Intelligenza (Logos) che, con Dio, formano le prime tre ipostasi nonchè il mondo invisibile che è modello di quello visi- bile. I due mondi sono legati insieme dall’amore: il mondo inferiore tende al superiore e in risposta a quest’impulso il mondo superiore desidera e ama quello inferiore. — La K. ebbe molta fortuna anche nel periodo del Rinascimento, soprattutto fra i platonici. In particolare Pico della Miran- dola che cercò di unificare e organizzare in un nuovo spirito l’intero sapere tradizionale, vide nella K. lo strumento adatto a penetrare nei misteri di- vini e perciò la guida per l’interpretazione delle Sacre Scritture. Egli perciò considerava le dottrine della K. in accordo non solo con il cristianesimo, ma anche con le dottrine di Pitagora e di Platone, delle quali essa avrebbe rappresentato il precedente antichissimo (De hominis dignitate, fol., 138 r). Sulla K. confronta H. Sérouva, La Kabbale, 1947; 23 ediz., 1957). KALOKAGATIA (gr. xadQoxaya0la). L'ideale greco della perfetta personalità umana. Si possono trovare due definizioni di questo ideale: 1° come virtù intera, e in questo senso è l’ideale platonico. Platone non usa il termine o lo usa (forse confor- memente al significato corrente), per indicare i ricchi (Rep., 569 a); ma il suo punto di vista viene riferito nell’Erica Eudemia (VIII, 15) e nei Magna Moralia dove si dice: « Non a torto si chiama K. ciò che è perfettamente buono. Buono e bello chiamano infatti chi è compiutamente bravo, cioè coraggioso e ha tutte le altre virtù... L'uomo bello e buono non è corrotto dagli altri beni, per es., dalla ricchezza e dalla potenza » (Magna Mor., II, 9, 1207 b); 2° come virtù magnanima (v. MAgNA- NIMITÀ). Dice Aristotele: « È difficile essere ma- gnanimi: non è possibile infatti senza K.» (Er. Nic., IV, 3, 1124a 4). KANTISMO. V. CRITIcISMO. KARMAN. V. Buppismo. KENNETICO (Ingl. Kenneric). Neologismo co- niato da A.F. Bentley e tratto (dallo scozzese ken o kenning che significa conoscere) per contrassegnare l’indagine transazionale (/nquiry into Inquiries, 1954) (v. TRANSAZIONE). È L. Posposto o anteposto a termini come concetto, verità, ecc., significa /ogico. In generale, come dice Carnap, un L-termine, per es., « L-vero + si applica ogni volta che il termine radicale corrispondente, per es., «vero», si applica sulla base di ragioni semplicemente logiche, in contrasto con ragioni di fatto (Introduction to Semantics, $ 14). LAICISMO (ingl. Laicism; franc. Lalcisme). Con questo termine si intende il principio dell’aufo- nomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli cui esse si inspirano. Questo prin- cipio è universale e può essere legittimamente invo- cato in nome di qualsiasi attività umana legittima: intendendosi per attività « legittima » ogni attività che non ostacoli, distrugga o renda impossibile le altre. Pertanto esso non può essere inteso solamente come la rivendicazione dell’autonomia dello Stato di fronte alla Chiesa o per meglio dire al clero; giacchè è ser- vito anche, come la sua storia dimostra, alla difesa dell’attività religiosa contro quella politica e serve anche oggi in molti paesi a questo scopo; come serve a quello di sottrarre la scienza o in generale la sfera del sapere alle influenze estranee e deformanti delle ideo- logie politiche, dei pregiudizi di classe o di razza, ecc. Papa Gelasio I che alla fine del v secolo esponeva in un trattato e in alcune lettere la teoria detta delle « due spade» fu probabilmente il primo a fare ap- pello con chiarezza al principio del L.: il quale rimase sconosciuto all’antichità classica per il fatto che essa non conobbe alcun conflitto di principio fra le varie attività umane. La teoria delle due spade cioè di due poteri distinti, entrambi derivanti da Dio, quello del papa e quello dell’imperatore, serviva a Gelasio I per rivendicare l'autonomia della sfera religiosa nei confronti di quella politica. Essa rimase per molti secoli la dottrina ufficiale della chiesa e ancora nel sec. x il canonista Stefano di Tournai la esprimeva con estrema nettezza (Summa Decretorum, Intr.). Il principio espresso in questa dottrina rimane lo stesso, quando le parti s’inver- tono o la dottrina viene invocata a difendere il potere politico contro quello ecclesiastico: come fa Giovanni di Parigi nel suo trattato Su/la potestà regia e papale (1302-3); come farà Dante, alcuni anni più tardi, nel De monarchia; e come fecero Marsilio da Padova nel Defensor pacis (1324) e Guglielmo di Ockham nei suoi scritti politici. Cer- tamente le dottrine politiche ed ecclesiastiche di questi scrittori erano differenti e qualche volta opposte; ma è chiaro che la teoria dei due poteri non è altro che l’appello all'autonomia delle sfere rispettive di attività e che quest’ultimo non trae la sua forza dalla particolarità delle dottrine ma dal riconoscimento dell’autonomia, che è il principio del laicismo. Questo principio divenne un'esigenza fondamentale nella vita civile nei comuni italiani, francesi, belgi e tedeschi (cfr. SALVEMINI, Studi sto- rici, Firenze, 1901; PIRENNE, Les Villes du moyen dge, Bruxelles, 1927; DE LAGARDE, La naissance de l’esprit lalque, au déclin du moyen dge, Louvain-Paris, 38 ediz., 1956); il Rinascimento e l’Illuminismo non sono che due tappe successive della sua progressiva prevalenza nella vita politica e civile dell'Occidente. Ma, come si è detto, il principio del L. non vale soltanto nei rapporti tra l’attività politica e quella religiosa. Nella prima metà del sec. x1v Guglielmo di Ockham rivendicava con energiche parole l’auto- nomia della ricerca filosofica. A proposito della con- danna di alcune proposizioni di San Tommaso fatta dal Vescovo di Parigi nel 1277 egli diceva: «Le asser- zioni principalmente filosofiche, che non concernono la teologia, non debbono essere da alcuno condan- nate o interdette, giacchè in esse chiunque dev'essere libero di dire liberamente ciò che gli piace » (Dialogus inter magistrum et discipulum de imperatorum et pontificum potestate, I, II, 22). Questa è stata la prima e certo una delle più energiche affermazioni del principio del L. in filosofia; è dovuta a un 518 frate francescano del *300. Nel sec. xvm Galilei affermava lo stesso principio nei confronti della scienza, polemizzando contro i limiti e gli impacci che possono venire alla scienza dall’autorità eccle- siastica. La Sacra Scrittura e la natura, egli diceva, procedono entrambe dal Verbo divino; ma mentre la parola di Dio ha dovuto adattarsi al limitato intendimento degli uomini ai quali si rivolgeva, la natura è inesorabile e immutabile e mai non tra- scende i termini delle leggi impostegli perchè non si cura che le sue recondite ragioni siano o non siano comprese dagli uomini: sicchè « quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinnanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci conclu- dono, non debba in conto alcun esser revocato in dubbio, non che condannato, per luoghi della Scrit- tura che avessero nelle parole diverso sembiante » (Lett. alla Grand. Cristina, in Op., V, pag. 316). Galilei rivendicava così l'autonomia della scienza, negli stessi termini in cui Ockham aveva rivendi- cato l’autonomia della filosofia. Il principio del L. è stato il fondamento della cultura moderna ed è indispensabile alla vita e allo sviluppo di tutti gli aspetti di questa cultura. I soli autentici avversari del L. sono gli indirizzi politici totalitari cioè quegli indirizzi che intendono impadronirsi del potere po- litico e esercitarlo a/ solo scopo di conservarlo per sempre. Tali indirizzi pretendono infatti di impadro- nirsi del corpo e dell’anima dell’uomo, per impe- dirgli ogni critica o ribellione. Per quanto il roman- ticismo ottocentesco abbia incoraggiato la persistenza o la reviviscenza di tali indirizzi, essi si trovano oggi contrastati dalla stessa situazione oggettiva che esige in ogni campo lo sviluppo del sapere po- sitivo: questo sapere a sua volta esige l'autonomia delle sue regole, cioè il laicismo. D’altra parte un indirizzo politico totalitario può essere agevolmente riconosciuto proprio dal suo atteggiamento nei con- fronti del principio L.: sia che si appoggi a una con- fessione religiosa, sia che si appoggi ad un’ideologia razzista o classista o ad altra qualsiasi, esso tende in primo luogo a sminuire, ed al limite a distrug- gere, l'autonomia delle sfere spirituali, come tende a diminuire e a distruggere i diritti di libertà dei cittadini. Il L. difatti è, sul piano dei rapporti delle attività umane fra loro, ciò che la libertà è sul piano dei rapporti degli uomini fra loro: è il limite o la misura che garantisce a quelle attività la pos- sibilità di organizzarsi e svilupparsi, come la libertà è il limite e la misura che garantisce ai rapporti umani la possibilità di mantenersi e svilupparsi. Riconosciuto nella sua struttura concettuale e storica, il principio del L. non mostra alcun carattere di antagonismo con alcuna forma di religiosità, neppure col cattolicesimo. In primo luogo, esso è servito spesso ai cattolici per difendere l’autonomia LAMARCHISMO della loro attività; e tuttora costituisce la politica ufficiale del cattolicesimo nei paesi in cui esso non ha un partito politico a sua disposizione, per es., nei paesi anglosassoni. In secondo luogo, è interesse dei cattolici, come di tutti, che l'amministrazione dello stato, le scienze, la cultura, l'educazione e in generale le sfere dell’attività umana, si organizzino e reggano su princìpi che possano essere ricono- sciuti da tutti, cioè che siano indipendenti dalla inevitabile disparità delle credenze e delle ideologie, e perciò rendano efficaci e feconde le attività che su di essi si fondano. È abbastanza ovvio che un’ammi- nistrazione politica la quale favorisca certi gruppi di cittadini a danno degli altri, in vista delle loro credenze religiose, è semplicemente un’ammini- strazione inefficiente e corrotta e non può rivendicare meriti «religiosi ». Allo stesso modo, un potere giudiziario che non applichi con scrupolo ed equità la legge valida dello stato, non offre garanzie per nessuno, perchè è, parimenti, inefficiente e corrotto. Una scienza che serva gli interessi di partiti, credenze e ideologie, non può a nessun titolo considerarsi meritoria: non è affatto una scienza. Essa sarebbe simile a un’arte medica che assumesse come criterio di diagnosi, prognosi e cura i desideri del paziente o di altre persone; o più esattamente un’arte medica siffatta sarebbe un caso di scienza « non laica + cioè clericale o partitica. Il L. non è nell’interesse di questo o quel gruppo politico, religioso o ideologico; è nell’interesse di tutti. Posto, s’intende, che l’interesse di tutti sia lo sviluppo armonico delle attività che assicurano la sopravvivenza dell'uomo nel mondo. LAMARCHISMO. V. EvoLUZIONE. LASSISMO. V. Ricorismo. LATENTE (lat. Latens). F. Bacone chiamava L. il processo naturale che va dalla causa efficiente della materia sensibile sino alla forma: cioè il processo di costituzione della forma (Nov. Org., II, 1). I processi psichici latenti di cui parlava la psicologia del secolo scorso sono quelli che oggi si chiamano inconsci o subconsci. LATITUDINARIO (ingl. Latitudinarian; fran- cese Latitudinaire; ted. Latitudinarier). Kant chiamò con questo termine colui che ammette in alcuni casi la neutralità morale cioè l’esistenza di atti o caratteri umani indifferenti dal punto di vista morale. « Co- storo, egli dice sono o L. della neutralità, che am- mettono cioè che l’uomo non è nè buono nè cattivo e si possono chiamare indifferentisti; o L. della coalizione che ammettono che l’uomo è insieme buono e cattivo e si possono chiamare sincretisti ». L’opposto di L. è rigorista cioè colui il quale non ammetta alcuna neutralità morale (Religion, I, Osser- vazione). Il nome aveva originariamente indicato i sostenitori, nella chiesa inglese del sec. xvi, di una più lata interpretazione dei dogmi tradizionali.

LAVORO LAVORO (gr. révos; lat. Labor; ingl. Labor; franc. Travail; ted. Arbeit). L'attività diretta a uti- lizzare le cose naturali o a modificare l’ambiente per l’appagamento dei bisogni umani. Il concetto di L. implica perciò: 1) la dipendenza dell’uomo, quanto alla sua vita e ai suoi interessi, dalla natura: il che costituisce il bisogno (v.); 2) la reazione attiva a questa dipendenza, costituita da opera- zioni più o meno complesse dirette all’elaborazione o all’utilizzazione degli elementi naturali; 3) il grado più o meno elevato di sforzo, pena o fatica, che costituisce il costo umano del lavoro. Soprattutto su quest’ultimo aspetto si fonda la condanna che la filosofia antica e medievale ha pronunciata sul L. manuale (v. BanAUSIA). Per questo stesso aspetto, il L. fu considerato dalla Bibbia come parte della maledizione divina che fa séguito al peccato originale (Genesi, III, 19). E nello stesso testo famoso di San Paolo il precetto: «Chi non vuol lavorare, non mangi» è derivato dall’obbligo di non addossare agli altri la fatica e la pena del lavoro (// Tessal., III, 8-10). Nello stesso senso veniva prescritto il L. da Sant’Ago- stino (De Operibus Monachorum, 17-18) e da San Tommaso (S. Th., II, II, q. 187 a. 3) come precetto religioso. Dalla esigenza di distribuire fra tutti la pena e la degradazione del L. manuale sono ispirate l’Utopia (1516) di Tommaso Moro e la Città del sole (1602) di Campanella, che prescri- vono per tutti i membri delle loro città ideali l’ob- bligo del lavoro. Su questa base, la contrapposizione tra L. ma- nuale e attività intellettuale, tra arti meccaniche e arti liberali, rimaneva salda; ed anche nel Rina- scimento la difesa quasi unanime che letterati e filosofi fanno della vita attiva di fronte a quella contemplativa e l’unanime condanna dell’ozio (al quale è tolto il carattere, che l’età classica gli attri- buiva, di disponibilità per attività superiori) non sempre conducono ad una rivalutazione del L. ma- nuale. Un passo di Giordano Bruno afferma che la provvidenza ha disposto che l’uomo « vegna oc- eupato ne l’azione delle mani, e contemplazione per l’intelletto, de maniera che non contemple senza azione, e non opre senza contemplazione » (Spaccio della bestia trionfante, 1584, in Op. Ital., II, pag. 152). Ma è soprattutto negli scritti scientifici e tecnici che si afferma, a partire dal 400, la dignità del L. manuale. Galileo esplicitamente riconosceva il valore delle osservazioni fatte dagli artigiani mec- canici ai fini della ricerca scientifica (Discorsi in- torno a due nuove scienze, in Op., VIII, pag. 49). Bacone poneva a fondamento del suo sperimenta- lismo le «arti meccaniche», che agiscono sulla natura e s’arricchiscono della luce dell’esperienza (Nov. Org., I, 74) e riteneva pertanto indispensabili 519 le operazioni materiali o manuali per il raggiungi- mento di un sapere che è nello stesso tempo un potere sulla natura in vista dei bisogni e degli interessi umani (/b., I, 83). Se Cartesio dava poca importanza alla parte tecnica o strumentale della scienza (che per lui rimaneva un sistema rigida- mente deduttivo) e così al L. manuale, Leibniz insisteva invece sull'importanza del L. degli arti- giani, dei contadini, dei marinai, dei mercanti, dei musicisti, non solo ai fini della scienza, ma anche a quelli della vita e della civiltà umana (Phil. Schriften, VII, pag. 180 sgg.). Queste idee divennero predominanti nell’Illumi- nismo soprattutto per opera di Bacone e di Locke; quest’ultimo riconosceva nella ricerca sperimentale, diretta a determinare le proprietà dei corpi fisici, l’unico strumento di cui l’intelletto umano dispone per accrescere la conoscenza dei corpi stessi, la cui sostanza rimane sconosciuta (Saggio, IV, II, 25). L’articolo « Arr» di Diderot nell’Encyclopedie, cri- ticava sulle orme di Bacone la distinzione delle arti in liberali e meccaniche, considerandola un pregiu- dizio tendente «a riempire le città di ragionatori orgogliosi e di contemplativi superflui e le cam- pagne di tirannelli oziosi, pigri e altezzosi ». L’Illu- minismo in generale segna la rivendicazione della dignità del L. manuale; dal quale Rousseau voleva che Emilio acquistasse la prima idea della solida- rietà sociale e degli obblighi che essa impone (Émile, [1762], IV). Kant, pur distinguendo il L. dall’arte non riteneva possibile una netta separazione perché anche nelle arti liberali « è necessario qualcosa di costretto o come si dice un meccanismo senza del quale lo spirito non acquisterebbe corpo e svapo- rerebbe del tutto » (Crit. del Giud., $ 43). Ma solo con il Romanticismo si cominciò a sta- bilire il rapporto tra il L. e la natura stessa del- l’uomo. Fichte affermava che anche l’occupazione ritenuta più bassa e insignificante, in quanto è connessa con la conservazione e la libera attività degli esseri morali, è santificata allo stesso modo dell’azione più elevata (Sirrenlehre, III, $ 28). Ed Hegel ha dato la prima dottrina filosofica del L., che utilizza i risultati raggiunti da Adamo Smith nell’economia politica (v.). Già nelle Lezioni di Jena (1803-04) Hegel considerava il L. come « la media- zione tra l’uomo e il suo mondo »; difatti, a dif- ferenza degli animali, l’uomo con consuma imme- diatamente il prodotto naturale ma elabora, nei modi e per i fini più diversi, la materia fornita dalla natura, dando così a tale materia il suo valore e la sua conformità allo scopo (Fil. del dir., $ 196). Soltanto nella soddisfazione dei bisogni per mezzo del L., l’uomo è veramente tale: perché si educa sia teoricamente, attraverso le conoscenze che il L. richiede, sia praticamente perché si abitua all’oc- 520 cupazione, adegua la propria attività alla natura della materia e acquista attitudini universalmente valide. Perciò a differenza del barbaro che è pigro, l’uomo incivilito è educato alla consuetudine e al bisogno dell'occupazione (/5., $ 197 e Zusatz). Attraverso il L., «l’egoismo soggettivo si converte nell’appagamento dei bisogni di tutti gli altri » sicché mentre «ciascuno acquista, produce e gode per sé appunto perciò produce e acquista per il godimento degli altri » (/b., $ 199). Hegel ha anche messo in luce la crescita indefinita dei bisogni, l’importanza della divisione del L. e il rilievo che acquista, in base a questa divisione, la distinzione delle classi (Ib., $$ 195, 241, 245). Ha visto pure che la divi- sione del L. porta alla sostituzione della macchina all'uomo. Difatti, con quella divisione, si accresce sì la facilità del L. e quindi la produzione; ma si ha pure la limitazione a una sola abilità e quindi la dipendenza incondizionata dell’individuo dal complesso sociale. L'abilità stessa diventa così mec- canica e ne deriva la possibilità di surrogare al L. umano la macchina (Enc., $ 526). Questi capisaldi hegeliani sono accettati da Marx, il quale però insiste sul carattere naturale o materiale del rap- porto che il L. stabilisce tra l’uomo e il mondo, contro il carattere spirituale che Hegel gli aveva riconosciuto e che gli permetteva di considerarlo come un momento o una manifestazione della co- scienza. Gli uomini cominciarono a distinguersi dagli animali, secondo Marx, quando « comincia- rono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizza- zione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale » (/deologia tedesca, I, A; trad. it. pag. 17). Il L. non è quindi solo il mezzo con cui gli uomini si assicurano la loro sussistenza: è la stessa estrinsecazione o produzione della loro vita è un modo di vita determinato. La produzione e il L. non sono perciò, una condanna per l’uomo: sono l’uomo stesso, il suo modo specifico di essere e di farsi uomo. Attraverso il L. la natura diventa «il corpo inorganico dell’uomo » e l’uomo può as- surgere alla coscienza di sé, non tanto come indi- viduo, ma come «specie di natura universale + (Manoscritti economico-politici del 1844, I, trad. it. pag. 230 sgg.). Il L. fa anche dell’uomo un ente sociale perché lo mette in rapporto oltreché con la natura, con gli altri individui: sicché i rapporti di L. e di produzione costituiscono la trama o la struttura autentica della storia, della quale sono un riflesso le varie forme della coscienza. Questo accade tuttavia nel L. non alienato, cioè non divenuto merce, quale è invece nella società capitalistica: giacché in questo caso insorge il contrasto tra la personalità del singolo proletario e il L. come con- LAVORO dizione di vita che gli è imposta dai rapporti in cui entra come oggetto e non più come soggetto (Ideologia tedesca, I, C; trad. it. pag. 75). Dal punto di vista di un’etica religiosa, Kierke- gaard affermava a sua volta la stretta connessione del L. con la dignità dell’uomo. « Quanto più basso è il gradino in cui sta la vita umana, egli diceva, tanto meno si mostra la necessità di lavorare; quanto più in alto sta, tanto più questa necessità si manifesta. Il dovere di lavorare per vivere esprime l’universale umano e lo esprime anche nel senso che è una manifestazione della libertà. Proprio con il L. l’uomo si rende libero; il L. signoreggia la natura, con il L. egli mostra che sta più in alto della natura » (Entweder-Oder, II, in Werke, III, pag. 301). Questa stretta connessione del L. con l’esistenza umana, che nobilita il L. stesso e ne fa un fine oltre che un mezzo, diventa un luogo comune della filosofia e in generale della cultura contemporanea. E anche al di fuori dell'ambito marxista, il carat- tere penoso del L. è messo sul conto, non del L. stesso, ma delle condizioni sociali nelle quali esso si svolge nella società industriale. Dice Dewey: «È naturale che l’attività sia piacevole. Essa tende a trovare una via d'uscita e il trovarla è in sé sod- disfacente perché segna una riuscita parziale. Se l’attività produttiva è diventata così inerentemente insoddisfacente che gli uomini hanno bisogno di essere artificialmente indotti a impegnarsi in essa, questo fatto è un’ampia prova che le condizioni sotto le quali il L. è svolto impediscono il com- plesso delle attività invece di promuoverle, irritano e frustrano le tendenze naturali invece di indiriz- zarle verso la fruizione » (Human Nature and Con- duct, II, 3, pagg. 123-24). Nietzsche tuttavia aveva già visto nel L., un tradimento alla spiritualità gioiosa e contemplativa che dovrebbe essere pro- pria dell’uomo. Aveva scritto a proposito degli americani: «Il loro furibondo L. senza respiro — il vizio peculiare del Nuovo mondo — comincia già per contagio a inselvatichire la vecchia Europa e a estendere su di essa una prodigiosa assenza di spiritualità ». Aveva notato come solo il L. dà «la buona coscienza» e che invece l’inclinazione alla gioia, chiamata «bisogno di creazione» co- mincia a vergognarsi di sé (Die Froehliche Wissen- schaft, 1882, $ 329). E aveva visto in un L. così concepito «la miglior polizia, che tiene tutti sog- giogati ed è in grado di impedire vigorosamente lo sviluppo della ragione, del desiderio violento, del gusto dell’indipendenza » (Morgenròthe, 1881, $ 173). A queste idee di Nietzsche si rifanno impli- citamente o esplicitamente, coloro che contrappon- gono il gioco al L. o vogliono trasformare il L. in gioco. «Il gioco è improduttivo e inutile, ha LEGGE scritto Marcuse, proprio perché cancella i tratti repressivi e sfruttatori del L. e dell’agio; esso * semplicemente gioca * con la realtà». Ma dal- l’altro lato lo stesso Marcuse afferma che un ordine « non repressivo » del L. è un ordine di abbondanza che si ha «quando tutti i bisogni fondamentali possono soddisfarsi con un dispendio minimo di energia fisica e psichica e in un tempo minimo.» (Eros e civiltà, cap. 9, trad. it. pagg. 212-13). AI fondo della negazione del valore del L. sta, più che la condanna delle forme alienate e meccaniz- zate che il L. ha assunto nella civiltà contempo- ranea, la nostalgia di una vita puramente contem- plativa, la fede in una vita istintiva che, se non è repressa dal L., riporta infallibilmente l’uomo al paradiso perduto. LEGALISMO (ingl. Lepalism; franc. Lépa- lisme; ted. Legalismus). L’atteggiamento che in- siste sulla osservanza letterale della legge. In morale, è lo stesso che rigorismo (v.). Fuori della morale, consiste nel dare eccessivo valore alle prescrizioni o ai procedimenti formali. LEGALITÀ (ingl. Legality; franc. Légalité; ted. Legalitàt, Gesetzlichkeit). La conformità di un’azione alla legge. Kant distinse la L. così intesa dalla vera e propria moralità. «Il puro accordo o disaccordo di un’azione con la legge, egli disse, senza riguardo al movente dell’azione stessa, si chiama L. (conformità alla legge); quando in- vece l’idea del dovere derivata dalla legge è nello stesso tempo movente dell’azione si ha la moralità (dottrina morale)» (Met. der Sitten, Intr., $ III; cfr. Crit. R. Prat., I, cap. III. Questa distinzione era stata, in forma più attenuata, introdotta per la prima volta da Tomasio per distinguere la norma giuridica dalla norma morale (v. Diritto); e allo stesso scopo se ne avvale Kant nella Metafisica dei costumi. LEGGE (gr. vépoc; lat. Lex; ingl. Law; fran- cese Loi; ted. Gesetz). Una regola dotata di necessità, intendendosi per necessità: 1° l'impossibilità (o l’im- probabilità) che la cosa regolata accada altrimenti; oppure 2° una forza che garantisca la realizzazione della regola. La nozione di L. è distinta da quella di regola e da quella di norma. La regola (che è ter- mine generalissimo) può anche essere infatti priva di necessità; e regole sono non solo le L. naturali o le norme giuridiche ma anche le prescrizioni del- l’arte o della tecnica. La norma poi è una regola che concerne soltanto le azioni umane e non ha di per sè valore necessitante: pertanto non sono norme le leggi naturali e le regole tecniche; ed una norma, ad esempio di natura morale, non è costrit- tiva allo stesso modo di una legge giuridica. Da questo punto di vista esistono solo due specie di L.: le L. di natura e le L. giuridiche. Poichè la nozione 521 di L. giuridica è stata analizzata sotto la voce Di- RITTO, rimane qui da analizzare la nozione di L. naturale. Si possono distinguere le seguenti fonda- mentali interpretazioni di essa: 1° la L. come ra- gione; 2° la L. come uniformità; 3° la L. come convenzione; 4° la L. come relazione simbolica. 1° La nozione della L. come ragione è sorta nella Grecia antica dal trasferimento al mondo naturale di quel concetto di giustizia o di ordine ch’era stato elaborato nei confronti del mondo umano (cfr. JAE- GER, Paideia, I, cap. 6; trad. ital., I, pag. 212 ag.). Anassimandro per primo trasferì la nozione di dike dal mondo della polis al mondo della natura e intese il legame causale nel nascere e nel perire delle cose come la L. che presiede a una contesa giudiziaria nella quale tutti gli esseri, egli dice: « debbono reciprocamente pagarsi il fio della loro ingiustizia nell’ordine del tempo» (Fr. 9, Diels). Eraclito a sua volta concepiva questa L. come la stessa ragione o Logos: del quale, come egli diceva «si nutrono tutte le L. umane» (Fr. 114, Diels). Per quanto Platone (cfr. Tim. 83€) e Aristotele (De Cael., I, 1, 268 a 13) usino solo eccezionalmente l’espressione « L. di natura », il concetto della razio- nalità della natura e della esprimibilità di tale razionalità in proposizioni universali e necessarie è stato fatto prevalere proprio da loro nella storia della filosofia. Lucrezio si servì dell’espressione « patto di natura» (foedus naturae; De nat. rer., V, 57, 924; VI, 906). E il concetto stoico del destino o della provvidenza è l’espressione dello stesso punto di vista (Diog. L., VII, 149). Plotino ammet- teva, anche per le cose che si sottraggono al destino, una legge che deriva per esse direttamente dall'In- telletto divino (Enn., IV, 3, 15). La soggettivazione delle L. di natura operata da Kant nel tentativo di vedere la loro « sorgente » nell'intelletto e precisa- mente nelle forme a priori dell’intelletto (categorie) non muta molto il concetto di L. naturale che ri- mane, anche per Kant, l’espressione della raziona- lità della natura e sia pure di una razionalità che nella natura (come fenomeno) è introdotta dallo stesso intelletto. « Le L. naturali, dice Kant, se vengono considerate come princìpi dell’uso empirico dell’intelletto hanno insieme l'impronta della ne- cessità e quindi almeno la presunzione di una deter- minazione derivante da princìpi valevoli in sè a priori e antecedentemente ad ogni esperienza. Tutte le L. della natura, senza distinzione, sottostanno ai principi superiori dell’intelletto e applicano tali princìpi a casi particolari del fenomeno. Questi princìpi soltanto dànno il concetto che contiene la condizione, e per così dire l’esponente di una re- gola in generale; ma l’esperienza dà il caso che è sottoposto alla regola» (Crir. R. Pura, Analitica dei Princ., cap. II, sez. 3). Schelling interpretava la 522 formulazione delle L. naturali come la progressiva trasfigurazione della natura in razionalità. «La scienza della natura, egli diceva, toccherebbe il sommo della perfezione se giungesse a spiritualizzare perfettamente tutte le L. naturali in L. della intui- zione e del pensiero. I fenomeni (il materiale) deb- bono scomparire interamente e rimanere soltanto le L. (il formale). Accade perciò che, quanto più nel campo della natura balza fuori la L., tanto più si dissipa il velo che l’avvolge, gli stessi fenomeni si rendono più spirituali e infine spariscono del tutto. I fenomeni ottici non sono altro che una geometria le cui linee sono tracciate per mezzo della luce e questa luce stessa è già di dubbia materialità » (System des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 1; trad. ital., pag. 8-9). Si può dire che ogni interpretazione razionalistica della scienza faccia proprie, in un certo grado, queste tesi di Schelling. La L. non è da questo punto di vista che l’espressione della razionalità della natura; e la sua formulazione, da parte della scienza, non ha che lo scopo di ridurre la natura a ragione. 2° La concezione della L. naturale come di un rapporto costante tra i fenomeni è stata proposta per la prima volta da Hume. La L. naturale è, secondo Hume, il risultato di « un’esperienza fissa e inalterabile » (Ing. Conc. Underst., X, 1): l’espe- rienza della « congiunzione costante di oggetti si- mili», alla quale si riduce il rapporto causale. La connessione abituale e costante tra eventi diversi è quella che autorizza a parlare di causalità, con- sente la previsione degli eventi futuri ed esclude il miracolo (/bid., VII, 2). Questa concezione veniva adottata da Comte e con lui dalla scienza positi- vistica. «Il carattere fondamentale della filosofia positiva, diceva Comte, è di considerare tutti i fenomeni come soggetti a L. naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minimo numero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi ». Queste L. consistono non già nell’esporre «le cause generatrici dei fenomeni » ma solo espri- mono ciò che connette i fenomeni gli uni con gli altri mediante « relazioni normali di successione e di simiglianza» (Cours de phil. positive, I, lez. I, $ Il). Dallo stesso punto di vista, Stuart Mill considerava le L. come casi speciali dell’uniformità della natura. «Le varie uniformità, egli diceva, quanto sono accer- tate da ciò che è considerata come un’induzione suf- ficiente sono dette, nel comune linguaggio, L. di na- tura. Scientificamente parlando, il titolo è adoperato in senso più ristretto per designare le uniformità che sono state ridotte alla loro espressione più semplice » (Logic, III, 4, $ 1). Questa concezione ha dominato l’intero positivismo classico ed è entrata in crisi sol- tanto col riconoscimento del carattere economico delle L. naturali, effettuato da Mach. LEGGE 3° Il concetto di L. naturale come convenzione nasce sul fondamento della funzione economica che alla conoscenza scientifica aveva riconosciuto Mach. Egli aveva, a questo proposito, affermato il carattere soggettivo delle L. naturali. Solo i nostri concetti e la nostra intuizione, egli diceva, prescrivono L. alla natura. « Le L. naturali sono le restrizioni che noi, guidati dall'esperienza, prescriviamo alla nostra aspettazione dei fenomeni » (Erkenniniss und Irrtum, cap. 23; trad. franc., pag. 368). Il progresso della scienza conduce a una restrizione crescente delle possibilità di previsione cioè alla loro crescente de- terminazione e precisione. Questo riconoscimento del carattere economico o utilitario della scienza è stato, in filosofia, largamente incoraggiato dalla filosofia di Bergson e dal pragmatismo. La prima, attribuendo all’intelligenza soltanto la funzione vitale di fabbricare oggetti e di orientarsi nel mondo naturale, faceva della scienza, che è la creazione dell’intelligenza, « l’ausiliaria dell’azione » (BERGSON, La penseé et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 158) e non poteva riconoscere alle L. scientifiche alcuna validità teoretica. Il pragmatismo, a sua volta, generalizzando la tesi della strumentalità della co- noscenza, incoraggiava l’interpretazione delle L. scientifiche come semplici strumenti dell’orienta- zione pratica dell’uomo nel mondo. Alcune forme dello spiritualismo e dell’idealismo hanno interpre- tato questa funzione economica della scienza come segno dell’inferiorità teoretica della scienza stessa (talvolta dell’intero pensiero discorsivo) nei con- fronti della filosofia e dei suoi organi specifici. Eduardo Le Roy, portando all’estremo la critica di Bergson, affermò il carattere convenzionale della scienza e perciò la natura arbitraria delle sue leggi. Il compito della scienza è, secondo Le Roy, quello di trovare costanti utili; ed essa le trova perchè l’azione umana non comporta una precisione asso- luta ma esige solo che la realtà sia approssimativa- mente rappresentata, nei suoi rapporti con noi, da un sistema di costanti simboliche chiamate L. (Science et philosophie, 1899-1900). La stessa tesi, in un’esagerazione quasi caricaturale, si può trovare espressa da Croce: « Appunto perchè queste L., egli diceva, sono nostre costruzioni e dànno come fisso il mobile, non solamente esse non sono inec- cepibili e patiscono talvolta eccezioni, ma addirittura non vi ha fatto reale che non sia eccezione alla sua L. naturalistica ». Ciò accade perchè non ci sono uniformità rigorose e un orsacchiotto non è mai del tutto simile ai suoi genitori. « Onde si potrebbe definire: le L. inesorabili della natura sono L. che a ogni attimo vengono violate; e, per converso, le L. filosofiche sono quelle che vengono in ogni attimo osservate... Le scienze naturali, che non forniscono conoscenze vere, hanno ancora minore LEMMA diritto (se è lecito esprimersi così) a parlare di pre- visione » (Logica, II, cap. 5; 4* ediz., 1920, pag. 218). Contro la natura convenzionale delle L. si espresse Poincaré polemizzando contro Le Roy. La L. non è una creazione arbitraria dello scienziato, ma è l’espressione, approssimativa o provvisoria, di una costanza d’azione che permette la previsione. È ben vero che talvolta qualche L. viene elevata a prin- cipio e così sottratta al controllo dell’esperienza e all’incessante revisione che essa comporta; ma in tal caso la L. cessa di essere vera o falsa per diventare soltanto comoda; e il controllo continua ad essere esercitato sulle relazioni che esprimono «il fatto bruto dell’esperienza» (La valeur de la science, pag. 239). Poincaré osserva pure che «lo scienziato crea nel fatto soltanto il linguaggio nel quale lo

enuncia » ma che, una volta enunciato una predi- zione in un determinato linguaggio « non dipende evidentemente da lui che la predizione stessa si realizzi o non si realizzi » (/bid., pag. 233). La stessa critica veniva rivolta alla tesi del carattere convenzio- nale delle L. scientifiche da Moritz Schlick. Utiliz- zando la distinzione tra enunciato e proposizione la quale è un enunciato dotato di significato (in quanto compie realmente la funzione della comuni- cazione) Schlick ritenne che «il contenuto proprio di una legge naturale consiste nel fatto che a certe regole grammaticali (per. es., di una geometria) corrispondono alcune proposizioni definite come descrizioni vere della realtà ». Poichè questo fatto è completamente invariante rispetto a ogni arbitrario mutamento delle regole grammaticali, non si può effettuare la riduzione delle L. di natura a mere convenzioni linguistiche. «Solo le proposizioni sono vere o false, non gli enunciati. Gli enunciati infatti sono soggetti a modificazioni arbitrarie ma questo non concerne chi si preoccupa della conoscenza dei fatti. Con l’aiuto delle regole dei simboli (la cui grammatica egli deve certo conoscere perchè senza di essa gli enunciati sarebbero privi di senso per lui) egli può sempre giungere sino alle proposizioni genuine la cui verità non dipende dalle predilezioni dei simboli » (Gesetz, Kausalitàt, und Wahrschein- lichkeit, Vienna, 1948; ora in Readings in Phil. of Science, 1953, pag. 181 sgg.). 4° Le critiche di Poincaré e Schlick alla tesi della natura convenzionale della L. scientifica muovono da quella che si può chiamare la quarta concezione fondamentale della L. stessa, cioè la concezione della L. come rapporto simbolico tra i fatti. Questa tesi è stata espressa per la prima volta da Duhem nel suo libro sulla Teoria fisica e veniva da lui riassunta così: « Una L. di fisica è una relazione simbolica la cui applicazione alla realtà concreta esige che si conosca e si accetti tutto un insieme di teorie » (Théorie physique, 1906, pag. 274). Questo 523 vuol dire che i termini simbolici, che una legge mette in relazione, sono astrazioni prodotte dal lavoro lento, complicato e consapevole che è servito a ela- borare le teorie fisiche; e che questo lavoro non è mai definitivamente compiuto. « Ogni L. fisica, dice Duhem, è una L. approssimata: di conseguenza, per il logico rigoroso, essa non può essere nè vera nè falsa; ogni altra L. che rappresenti le stesse espe- rienze con la stessa approssimazione può pretendere, con lo stesso diritto della prima, al titolo di L. vera, o per parlare più rigorosamente, di L. accettabile » (Ibid., pag. 280). Questi concetti sono rimasti sostan- zialmente immutati nella filosofia contemporanea. Le osservazioni di Schlick contro la convenzionalità delle L. naturali e in favore del carattere simbolico delle L. stesse, costituiscono una conferma sostan- ziale dal punto di vista di Duhem. Una L. è pur sempre un enunciato grammaticale e presuppone pur sempre la grammatica del linguaggio in cui si esprime; ma per quanto tale grammatica possa essere considerata convenzionale, non lo è il signi- ficato della L. in quanto si riferisce a rapporti tra fatti, verificabilmente costanti e tali da rendere possibile una previsione probabile. Per quanto la teoria di Duhem sia stata formulata anteriormente al riconoscimento del carattere probabilistico della scienza, quella che egli chiamava « approssimazione delle L. di natura » lasciava la via aperta a quello che oggi si chiama carattere probabilistico delle L. stesse. Piuttosto, la funzione che la metodologia delle scienze tende oggi a riconoscere sempre più come predominante alla L. scientifica è la capacità di previsione. « Una proposizione, ha detto Peirce, non può essere chiamata ‘legge di natura’ finchè la sua capacità di previsione non sia stata messa a prova e confermata in modo tale che nessun dubbio rimanga su di essa » (Values in a Universe of Chance, pag. 290). Una L. è in generale una formula per la previsione. Da questo punto di vista la L. cessa di avere la necessità che la prima e la seconda inter- pretazione le riconoscevano. La sua validità si mi- sura dalla sua efficienza; e questa efficienza dalla possibilità di ottenere con essa previsioni che risul- tino sufficientemente corrette. LEGGE BIOGENETICA. V. BIOGENETICA. LEGGE DEI TRE STADI. V. Posirivismo. LEGGE DELLA MINIMA AZIONE. Vedi AZIONE MINIMA. LEGGE MODALE. V. MODALE. LEGGE PSICOFISICA. V. PsicoLOGIA, b). LEIBNIZIANISMO. V. CARATTERISTICA; SPIRITUALISMO. LEKTON. V. SignIFICATO. LEMMA (gr. Xfuua; ingl. Lemma; francese Lemme; ted. Lemma). 1. La proposizione che si as- sume come prima premessa di un ragionamento 524 (ARisT., Top., VIII, 1, 156 a, 21; Dio. L. VII, 76; Cicer. De Div., II, 53, 108). In questo senso Kant chiamava L. la proposizione che una scienza assume senza dimostrazione, desumendola da un’altra scienza (Crit. del Giud., $ 68; Logik, $ 39). 2. Un teorema matematico laterale o subordi- nato, fuori della catena deduttiva (LEIBNIZ, Nouv. Ess., IV, 2, 8). LENINISMO. V. Comunismo. LETIZIA (gr. eòpposivn; lat. Laetitia). V. Giora. LEVIATANO (ingl. Leviathan). Dal nome di un biblico mostro (Giob., 40, 20) Hobbes chiamò così « lo stato, in latino civitas, che è un uomo arti- ficiale, benchè di più grande statura e forza dell’uomo naturale, per la cui protezione e difesa fu ideato » (Leviath., Intr.); e dette questo titolo alla sua opera politica fondamentale (1561). LIBERALISMO (ingl. Liberalism; franc. Libé- ralisme; ted. Liberalismus). La dottrina che si assunse la difesa e la realizzazione della libertà nel campo politico. Tale dottrina nasce e s’afferma nell'età moderna e può essere considerata divisa in due fasi: 1° La fase settecentesca, caratterizzata dall’indivi- dualismo; 2° la fase ottocentesca caratterizzata dallo statalismo. 1° La prima fase è caratterizzata dai seguenti indirizzi dottrinali che costituiscono gli strumenti delle prime affermazioni politiche del L.: a) Il giu- snaturalismo (v.) che consiste nel riconoscere all’in- dividuo diritti originari e inalienabili; 5) Il con- trattualismo (v.) che consiste nel considerare la società umana e lo stato come frutto di una convenzione fra individui; c) Il L. economico, proprio della scuola fisiocratica, che combatte l'intervento dello stato nelle faccende economiche e vuole che queste seguano esclusivamente il loro corso naturale (v. ECoNOMIA); d) Come conseguenza globale delle precedenti dottrine: la negazione del- l’assolutismo statale e la riduzione dell’azione dello stato in limiti definiti, mediante la divisione dei poteri (v. SATO). Il postulato fondamentale di questa fase del L. è la coincidenza dell’interesse privato con l'interesse pubblico. Un giusnaturalista e moralista

come Bentham crede che basti al singolo seguire intelligentemente il proprio piacere perchè persegua, contemporaneamente, il piacere di tutti gli altri. E la dottrina economica di Adamo Smith è fondata sul presupposto analogo della coincidenza tra il be- ninteso interesse economico del singolo e l’interesse economico della società (v. INDIVIDUALISMO). 2° La seconda fase del L. s’inizia quando questo postulato entra in crisi. Tale crisi ha i suoi precedenti nelle dottrine politiche di Rousseau, Burke, e Hegel nonchè nel fatto che il L. individualistico sembrava, sul terreno politico ed economico realizzare la difesa di una classe determinata di cittadini (la LENINISMO borghesia) anzichè della totalità dei cittadini stessi. Il Contratto sociale (1762) di Rousseau costituisce già il capovolgimento dell’individualismo. I diritti che il giusnaturalismo aveva riconosciuti agli indi- vidui appartengono, secondo Rousseau, soltanto al cittadino. « Ciò che l’uomo perde per il contratto sociale è la sua libertà naturale e il diritto illimitato a tutto ciò che lo tenta e che può ottenere; ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede ». Ma in realtà solo « l'obbedienza alla legge che ci si è prescritta è la libertà »: cosicchè solo nello stato l'uomo è libero (Contrat social, I, 8). L’affermata infallibilità della « volontà gene- rale » che risulta dalla « alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comu- nità » (/bid., I, 6) trasforma quella che per l’indivi- dualismo è la coincidenza dell'interesse singolo con l’interesse comune nella coincidenza, preliminare e garantita, dell’interesse statale con l’interesse sin- golo. In tal modo si veniva riaffermando quella superiorità dello stato sull’individuo contro la quale il L. era insorto nella sua prima fase. Tale superio- rità viene riconfermata anche da Burke. «La so- cietà è un contratto, egli diceva. Ma se i contratti per oggetti di interesse occasionale possono essere sciolti a piacere, non si può considerare lo stato come niente di meglio che un accordo di parti in un commercio di pepe e caffè... Si deve considerarlo con reverenza perchè non è la partecipazione a cose che servono soltanto all’esistenza animale...: è una società in tutte le scienze, in tutte le arti, in tutte le virtù e in ogni perfezione » (Reflections on the Revolution in France, 1790; Works, II, pa- gina 368). Ma il culmine di questo nuovo ricono- scimento dello stato si ha con la dottrina di Hegel per la quale esso è « l’ingresso di Dio nel mondo + e per cui il suo fondamento è «la potenza della ragione che si realizza come volontà» (Fil. del Dir., $ 258, Zusatz). Concordava con questa esal- tazione dello stato l’altra branca del romanticismo ottocentesco, il positivismo. Questo, con Comte, preconizzava uno statalismo egualmente assolu- tistico di quello hegeliano (Systéme de politique positive, 1851-54; IV, pag. 65) e con Stuart Mill, pur senza indulgere a concessioni assolutistiche, faceva larga parte all’azione dello stato proprio in quel dominio che il liberalismo classico voleva riservato esclusivamente all’iniziativa individuale: il dominio economico (Principles of Political Economy, 1848). Il saggio Su/la Libertà (1859) di Stuart Mill tendeva, nello stesso tempo, a togliere la libertà dal novero delle condizioni indispensabili per l’eser- cizio dell'attività morale giuridica economica, ecc. (secondo la concezione del L. classico) e a farne un ideale o un valore in sè cioè indipendente dalle possibilità che offre. Ciò non toglie che lo scritto LIBERTÀ sia uno delle più nobili e appassionate difese della libertà stessa. Il sec. xx nei suoi primi decenni ha visto la conti- nuazione di questo L. statalista. Idealismo inglese e idealismo italiano insistettero sul carattere divino dello stato. Così fece Bernardo Bosanquet nello scritto The Philosophical Theory of the State (1899) e così fece Gentile identificando lo stato con l’Io assoluto (Genesi e struttura della società, postumo, 1946). L'ispirazione hegeliana prevaleva d’altronde anche nella dottrina di Croce il quale tuttavia rima- neva fedele all’ideale classico della libertà, cui ren- deva pratica testimonianza nel periodo del fascismo. Per Croce infatti il L. è la stessa dottrina dello svol- gimento dialettico della storia, che tutto assolve e giustifica, anche l’assolutismo e la negazione della libertà (Etica e politica, 1931, pag. 290). Di questa stessa forma di L. (al quale direttamente si collega attraverso Hegel) si può considerare una manifesta- zione lo stesso socialismo marzxistico (v. MATERIA- LISMO). I partiti politici che dai primi dell’ottocento in poi hanno innalzata la bandiera liberale si sono ispirati all’uno o all’altro degli indirizzi fondamen- tali ora espressi cioè o all’individualismo o allo statalismo. Pertanto un coacervo di indirizzi poli- tici disparati e talora opposti hanno potuto richia- marsi al L. (su di essi vedi DE RucGiERO, Storia del L. europeo, 1925). Si sono infatti richiamati ad esso partiti che hanno negato il valore dello stato (come il radicalismo inglese del secolo scorso) e par- titi che lo hanno esaltato (come la cosiddetta « destra storica » nell'Italia postrisorgimentale); par- titi che hanno negato ogni ingerenza dello stato in materia economica (come fanno tuttora alcuni par- titi liberali europei) e partiti che invece invocano l'intervento dello stato nell’iniziativa e nella dire- zione degli affari economici; infine partiti che hanno ritenuto la libertà condizione operante d’ogni atti-

vità umana e partiti che l’hanno relegata nell’em- pireo dei puri « valori ». Questi contrasti sono la manifestazione evidente del carattere composito della dottrina liberale. E a sua volta questo carat- tere composito dipende dal modo approssimativo e confuso con cui è stata trattata la nozione che dovrebbe essere fondamentale per il L.; quella di libertà. Il ricorso casuale o surrettizio all’uno o all’altro dei concetti di libertà che sono stati ela- borati nella storia del pensiero filosofico ha reso l’idea liberale in politica confusa e oscillante e l'ha talora condotta alla difesa o alla accettazione della non libertà (v. LIBERTÀ). LIBERO ARBITRIO. V. LiBERTÀ. LIBERTÀ (gr. #ev0epla; lat. Libertas; in- glese Freedom, Liberty; franc. Liberté; ted. Freiheit). Il termine ha tre significati fondamentali, corrispon- 525 denti a tre concezioni che si sono intersecate nel corso della sua storia e che possono essere caratte- rizzate nel modo seguente: 1° la concezione della L. come autodeterminazione o autocausalità, secondo la quale la L. è assenza di condizioni e di limiti; 2° la concezione della L. come necessità, che si fonda sullo stesso concetto della precedente, cioè su quello di autodeterminazione, ma attribuisce l’autodeterminazione stessa alla totalità (Mondo, Sostanza, Stato) cui l'uomo appartiene; 3° la con- cezione della L. come possibilità o sceltà, secondo la quale la L. è limitata e condizionata, cioè finita. Non costituiscono concetti diversi di L. le forme che la L. assume nei vari campi, per es., la L. metafisica, la L. morale, la L. politica, la L. economica, ecc. Le dispute metafisiche, morali, politiche, economiche, ecc., intorno alla L. sono infatti dominate dai tre concetti in questione, ai quali pertanto sono ricon- ducibili le forme specifiche di L. intorno a cui tali dispute vertono. 1° La prima concezione della L., quella per cui essa è assoluta, incondizionata e quindi non subisce limitazioni e non ha gradi, è stata espressa dicendo che è libero ciò che è causa di se stesso. Questa concezione è stata per la prima volta affacciata da Aristotele. Sebbene l’analisi aristotelica della volontarietà delle azioni, sembra che faccia appello al concetto della L. finita, la definizione di ciò che è volontario è quella della L. infinita: volontario è cioè che è « principio di se stesso ». Aristotele co- mincia col dire che la virtù dipende da noi e così pure il vizio. « Nelle cose infatti, egli prosegue, in cui l’agire dipende da noi, anche il non agire dipende da noi; e là dove siamo in grado di dir no, possiamo anche dir si. Sicchè se il compiere un’azione bella dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere un’azione brutta » (Er. Nic., III, 5, 1113 b 10). Questo è quanto già Platone aveva detto nel mito di Er. Ma per Aristotele questo significa che «l’uomo è il principio e il padre dei suoi atti, come dei suoi figli » (/bid.). Difatti «solo per colui che ha in se stesso il suo proprio principio, l’agire o il non agire dipende da se stesso » (/bid., III, 1, 1110 17); sicchè l’uomo «è il principio dei suoi atti » (/bid., III, 3, 1112 b 15-16). Questa nozione di « principio di se stesso » è la definizione della L. incondizionata. Essa ricorre, per es., in Cicerone. « Per i moti volontari dell'anima, egli dice, nonèda richiedersi una causa estranea giacchè il movimento è in nostro potere e dipende da noi: nè perciò è senza causa, dato che la sua causa è la sua stessa natura » (De Fato, 11). La nozione di L. aveva in Epicuro lo stesso significato di autodeterminazione assoluta: autodeterminazione che egli faceva risalire agli atomi cui attribuiva il potere di deviare dalla propria traiettoria. Dice Lucrezio: « Noi possiamo deviare i nostri movimenti 526 senza essere determinati nè dal tempo nè dal luogo ma secondo che ci ispira lo spirito; giacchè senza dubbio è la volontà il principio di quegli atti e da essa. il movimento si espande in tutte le membra» (De nat. rer., II, 260). La nozione della L. come autocausalità o autodeterminazione (aòrtorpayia) è a fondamento anche del concetto della L. come necessità. Gli Stoici ammettevano che fossero libere le azioni che hanno in se stesse la loro causa o il loro principio: « Solo il sapiente è libero, essi dicevano, e tutti i malvagi sono schiavi, giacchè la L. non è altro che l’autodeterminazione, mentre la servitù è la privazione dell’autodeterminazione » (Diog. L., VII, 121). Epitteto, conseguentemente chiamava «libere » le cose che sono «in nostro potere » cioè gli atti dell'uomo che hanno il loro principio nell'uomo stesso (Diss., I, 1). Questo concetto si è trasmesso per tutto il Medio Evo. Origene lo ha per primo difeso nel mondo cri- stiano, chiarendolo nel senso che la L. consiste non soltanto nell'avere in sè la causa dei propri movimenti ma nell’essere questa causa. Questa definizione, che si applica a tutti gli esseri viventi, privilegia l’uomo perchè la causa dei movimenti umani è ciò che l’uomo stesso sceglie come movente, in quanto giudice e arbitro delle circostanze esterne (De Princ., III, 5). Considerazioni analoghe ricor- rono nel De Libero arbitrio di Sant'Agostino (cfr. ad es.: I, 12; III, 3; III, 25). «Sente che l’animo si muove da sè colui che sente in sè la volontà » dice egli altrove (De div. quaest. 83, 8). Alberto Magno chiamava libero l’uomo che è causa di sé e che il potere altrui non può costringere (S. Th., II, 16, 1). E per San Tommaso: « Il libero arbitrio è la causa del proprio movimento perchè l’uomo, per il libero arbitrio, determina se stesso ad agire ». San Tommaso aggiunge che non è necessario, affinchè ci sia L., che l’uomo sia la prima causa di se stesso e difatti non lo è, perchè tale prima causa è Dio. Ma la Prima causa non toglie nulla alla autocausalità dell’uomo (S. Th., I, q. 83, a. 1; cfr. Contra Gent., II, 48). L’ul- tima scolastica, mantenne questo concetto di L.; accentuò anzi l’indifferenza della volontà rispetto ai suoi possibili determinanti. Duns Scoto afferma che «la L. della nostra volontà consiste nel potersi determinare ad atti opposti, sia successivamente che nel medesimo istante » (Op. Ox., I, d. 39, q. 5, n. 16). E questa determinabilità ad atti opposti esprime la perfetta indifferenza della volontà rispetto ad ogni motivazione possibile. Ockham, pur negando la possibilità simultanea di atti opposti, sottolinea ugualmente l'indifferenza assoluta della volontà: «Per L., egli dice, s'intende il potere per il quale posso indifferentemente e contingentemente porre cose diverse, sicchè posso causare e non causare lo stesso effetto, senza che ci sia nessuna diversità LIBERTÀ tranne che in questo potere» (Quod/., I, q. 16). Ockham non ritiene tuttavia che si possa dimostrare che la volontà sia libera in questo senso. La L. si può solo conoscere per esperienza giacchè « l’uomo sperimenta che, per quanto la ragione gli detti qualcosa, la volontà può tuttavia volerla e non vo- lerla » (/bid., I, q. 16). Buridano osservava a questo proposito che la L. non consiste nel poter non seguire il giudizio dell’intelletto; giacchè se l’intelletto rico- noscesse con evidenza due beni come perfettamente uguali, non potrebbe decidersi nè per l’uno nè per l’altro; consiste invece nel poter sospendere o impe- dire il giudizio dell’intelletto (/Zn Eth., II, q. 1-4). Così poneva le premesse del caso che si chiamò dell’Asino di Buridano (v.): il quale, non avendo L., muore di fame nella condizione in cui l’uomo, invece, può sospendere il giudizio ed effettuare arbitrariamente la scelta. Il concetto di autopraghia o causa sui ricorre frequentemente nella filosofia moderna e contem- poranea. « La sostanza libera, dice Leibniz, si de- termina da se stessa cioè seguendo il motivo del bene appercepito dall’intelligenza, che la inclina senza necessitarla: tutte le condizioni della L. sono com- prese in queste poche parole » (Théod., III, $ 288). Questo stesso concetto persuase Kant ad ammettere il carattere « noumenico » della libertà. « Se si deve ammettere la L., egli dice, come proprietà di certe cause dei fenomeni, essa deve, in rapporto ai feno- meni come eventi, essere la facoltà di iniziare da sé (sponte) la serie dei propri effetti, senza cioè che l’attività della causa debba avere un inizio e senza che abbisogni di un’altra causa che determini tale inizio » (Proleg., $ 53). La « facoltà di iniziare da sè un evento +, è esattamente la causa sui del concetto tradizionale di libertà. Questa è anche chiamata nello stesso senso «spontaneità assoluta» cioè attività che non riceve altra determinazione che da se stessa (Crit. R. Prat., I, libro I, cap. III, Delucidazione critica). Ma proprio come causa sui o spontaneità assoluta, «la causa libera non può essere nei suoi stati sottomessa a determinazioni di tempo, non dev’essere un fenomeno, dev'essere una cosa in sè e soltanto i suoi effetti sono da ritenersi fenomeni + (Proleg., $ 53). Kant ha voluto conciliare la L. umana, come potere di autodeterminazione, con il determinismo naturale che per lui costituisce la razionalità stessa della natura; perciò ha considerato la L. come noumeno, ritenendo che ciò che da un punto di vista (quello dei fenomeni) può considerarsi come necessità, da un altro punto di vista (quello del noumeno) può considerarsi come libertà. Ma il concetto di L. non è stato per nulla innovato da questo artificio kantiano. Lo stesso concetto si trova espresso da Fichte: « L’assoluta attività, egli dice, la si chiama anche libertà. La L. è la rappre- LIBERTÀ sentazione sensibile dell’auto-attività » (Siftenlehre, Intr., 7, in Werke, IV, pag. 9). Allo stesso concetto fa appello anche oggi ogni forma di indeterminismo (v.). Nelle forme spiritua- listiche dell’indeterminismo (che sono le più diffuse) l’autodeterminazione viene considerata come una esperienza interna fondamentale, come una specie di creazione «interiore». Essa diventa la stessa « autocreazione dell’io ». Dice Maine de Biran: « La L. o l’idea di L., presa nella sua sorgente reale, non è che il sentimento stesso della nostra attività o di questo potere di agire, di creare lo sforzo costitutivo dell’io » (Essai sur les fondements de la psychologie, 1812, in CEuvres, ed. Naville, I, pa- gina 284). Una concezione analoga si può trovare nel Mikrokosmus di Lotze (I, pag. 283 sgg.) e, con qualche attenuazione, nella Nouvelle Monadologie, di Renouvier (pag. 24 sgg.). Lo spiritualismo fran- cese con Sécretan, Ravaisson, Lachelier, Boutroux, Hamelin, si attiene strettamente allo stesso concetto. «La conoscenza delle leggi delle cose, dice Bou- troux, ci permette di dominarle e così, lungi dal nuo- cere alla nostra L., il meccanismo la rende efficace ». Pertanto non solo le cose interne, come voleva Epit- teto, ma anche quelle esterne dipendono da noi (De l’idée de loi naturelle, 1895, pag. 133, 143). Da questo punto di vista il motivo non è la causa necessitante dell’azione umana: la volontà dà la sua preferenza a un motivo piuttosto che a un altro e il motivo più forte non è tale indipendentemente dalla volontà, ma proprio in virtù di essa (La contingence des lois de la nature, 1874, pag. 124). Il concetto bergsoniano di L. non fa che riesprimere questa stessa tesi. Bergson afferma che il concetto che egli difende della L. è situato tra la nozione di L. morale cioè della «indipendenza della persona di fronte a tutto ciò che non è essa stessa » e la nozione di libero arbitrio, secondo il quale ciò che è libero « dipende da sè come un effetto dipende dalla causa che lo determina necessariamente ». Contro questa ultima concezione Bergson obbietta che gli atti liberi sono impreve- dibili e che perciò ad essi non può applicarsi la causalità, secondo la quale cause uguali hanno effetti uguali. La L. rimane perciò indefinibile; e va identificata con lo stesso processo della vita co- sciente, cioè con la durata reale (Essais sur /es données immédiates de la conscience, 1899, pa- gina 131 sgg.). Ma in realtà il concetto di libero arbitrio faceva leva proprio sulla imprevedibilità dei fatti umani (i cosidetti « futuri contingenti +) e sulla autocausalità della volontà. La dottrina bergsoniana nega l’indifferenza della volontà ai motivi solo per sostenere che la volontà crea o costituisce i motivi e conferisce ad essi la forza determinante di cui dispongono. Ma in tal modo l’autodeterminazione rimane la definizione della libertà; e come tale ri- 527 mane anche nel concetto (proposto da F. LOMBARDI, La libertà del volere e l'individuo, 1941, p. 192) di un atto 0 movimento che «si riproduce o si pro- duce di continuo» e che in questa autoproduzione trascina con sè « l’intero mondo in cui opera ». Nè ha un senso diverso la dottrina di Sartre per la quale la L. è la scelta che l’uomo fa del suo essere proprio e del mondo. « Ma precisamente perchè si tratta di una scelta, Sartre dice, questa scelta, nella misura in cui si effettua, designa in generale altre scelte come possibili. La possibilità di queste altre scelte non è nè resa esplicità nè posta, ma è vissuta nel senti- mento d’ingiustificabilità e si esprime nel fatto del- l’assurdità della mia scelta e, per conseguenza, del mio essere. Così la mia L. divora la mia libertà. Essendo libero, io progetto il mio possibile totale, ma pongo con ciò che sono libero e che posso annientare questo primo progetto e confinarlo nel passato » (L’érre et le néant, pag. 560). Ma una scelta che non ha nulla da scegliere, cioè non è limitata da condizioni determinate, è una scelta solo di nome; in realtà, è un’autocreazione gratuita. La dottrina di Sartre non fa che portare all’estremo il vecchio concetto della L. come autocausalità. A questo concetto fanno appello sia l’indetermi- nismo che il determinismo. Ciò che il determinismo nega è ciò che l’indeterminismo afferma: la possi- bilità di una causa sui. Si è visto come Kant stesso la ritenesse impossibile nel dominio dei fenomeni e la rinviasse al dominio del noumeno: così fa pure Schopenhauer che ritiene valide le ragioni addotte da Priestley nella sua Dottrina della necessità filosofica (v. DETERMINISMO) e afferma che la L. come autocausalità è soltanto della volontà come forza noumenica o metafisica, della volontà come principio cosmico (Die Welt, I, $ 55). In generale il determinismo consiste nel ritenere universale la portata del principio di causalità nella sua forma empirica e pertanto nel negare la causalità auto- noma. Claude Bernard in questo senso affermava l’inerzia dei corpi viventi, come di quelli inorga- nici, cioè l’incapacità di tali corpi e darsi da sè il movimento; e vedeva nel riconoscimento di tale inerzia la condizione per il riconoscimento del determinismo assoluto (Intr. d /’étude de la méde- cine expérimentale, 1865, II, 8). L’equivalente politico della concezione della L. come auto-causalità è la nozione della L. come assenza di condizioni o di regole, rifiuto d’ogni obbligazione e, in una parola, anarchia. Il più delle volte, questo concetto viene utilizzato come strumento polemico per negare la L. stessa. Così fece per primo Platone quando volle mostrare come dalla troppa L. concessa dal regime democra- tico nascono la tirannide e la schiavitù. Difatti il rifiuto costante di ogni limite e restrizione 528 « rende i cittadini così ombrosi che non appena si propone qualcosa che sembri minacciare la loro libertà, essi si dolgono e si ribellano e finiscono per ridersi delle leggi scritte o non scritte, perchè non vogliono in alcun modo sottoporsi a un padrone » (Rep., VIII, 563 d). La L. qui è intesa (non tuttavia da Platone, per il quale vedi oltre) come assenza di misura, rifiuto di ogni norma. L’illimitato potere su tutto, nel quale secondo Hobbes consiste la L. allo stato di natura (De cive, I, $ 7) ha lo stesso significato. Filmer credeva infatti di esprimere il significato della dottrina di Hobbes quando diceva: « La L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, nel vivere come gli piace, senza esser vincolato da alcuna legge » (Observations upon Mr. Hobbes’s Leviathan, 1652, pag. 55). Ma forse la migliore e più coerente espressione di questa no- zione di L. è l'Unico di Max Stirner: l’individuo che non ha alcuna causa fuori di sè, che è lui la sua stessa causa e la causa di tutto. In questa forma estrema la tesi della L. anarchica viene difesa assai rara- mente: assai spesso invece viene presupposta come termine polemico ed a essa vengono in buona o mala fede ricondotte le altre concezioni della L. politica. 2° La seconda concezione fondamentale della L. è quella che la identifica con la necessità. Questa concezione è strettamente imparentata con la prima. Il concetto di L. cui fa riferimento è ancora quello di causa sui; ma, come tale, la L. viene attribuita non alla parte ma al tutto: non all’uomo singolo ma all’ordine cosmico o divino, alla Sostanza, all’Assoluto, allo Stato. L'origine di questa conce- zione è negli Stoici. Come già si è visto, gli Stoici ritenevano che «la L. consiste nell’autodetermina- zione e che pertanto solo il sapiente è libero» (Diog. L., VII, 121). Ma perchè il sapiente è libero? Perchè egli solo segue una vita conforme alla natura: egli solo cioè si conforma all’ordine del mondo, al destino (Diog. L., VII, 88; StoBeo, F/or., VI, 19; CiceR., De Fato, 17). La L. del sapiente coincide pertanto con la necessità dell’ordine cosmico. Crisippo tuttavia tentò di sfuggire a questa conse- guenza. Egli distingueva le cause perfette e principali dalle cause ausiliarie e prossime. Il destino opera soprattutto attraverso le prime; ma tra le ultime c'è l’assenso che l’uomo dà alle cose e di conse- guenza la sua azione. Accade come nel caso di un cilindro cui una piccola spinta basta per roto- lare su un piano inclinato: la natura del cilindro e del piano fanno sì che esso continuerà a rotolare una volta che sia stato spinto, ma affinchè ciò accada occorre la spinta. Allo stesso modo, l’ordine delle cose fa sì che un'azione una volta iniziata continui in un certo modo; ma ad iniziarla occorre l’assenso dell’uomo e questo assenso rimane in potere di lui (Cicer., De Fato, 18-19). Tuttavia, LIBERTÀ anche per Crisippo la L. non è che l’adeguarsi dell’assenso umano all’ordine del mondo: le cause ausiliarie infatti non cadono fuori dell'ordine ne- cessario del mondo più che non cadano fuori di esso le cause principali, e la spinta che fa rotolare il cilindro appartiene a quell’ordine come la forma del cilindro e il piano sul cui rotola. Da questo punto di vista, negare che l’uomo come tale sia libero o affermare che esso è libero in quanto manifestazione dell’autodeterminazione cosmica o divina, è la stessa cosa. Tutto ciò appare chiarissimo nella formulazione spinoziana. Secondo Spinoza, « si dice libera la cosa che esiste solo per la necessità della sua natura e che da sè sola è determinata ad agire; mentre è necessaria o coatta la cosa che è indotta ad esistere e ad agire da un’altra cosa, secondo una certa e determinata ragione» (Er., I, def. 7). In questo senso Dio solo è libero perchè egli solo agisce in base alle leggi della sua natura e senza essere costretto da nessuno (/bid., I, 17, coroll. II); mentre l’uomo, come ogni altra cosa, è determinato dalla necessità della natura divina e può credersi libero solo in quanto ignora le cause delle sue volizioni e dei suoi desideri (/bid. I app.; II, 48). Tuttavia l’uomo stesso può diventar libero se è guidato dalla ragione (Ibid. IV, 66 scol.): se cioè agisce e pensa soltanto come parte della Sostanza infinita e riconosce in sè la necessità universale di essa (/bid., V, VI, scol.). In altri termini l’uomo di- venta libero mediante l’amore intellettuale di Dio (che è per l’appunto la conoscenza della necessità di- vina): amore che è identico con quello con cui Dio ama se stesso (/bid. V, 36 scol.). Nessuna innovazione è apportata a questo punto di vista dalla elaborazione e amplificazione che la filosofia romantica ne ha fatto. Schelling afferma esplicitamente la coincidenza di libertà e necessità. « L’Assoluto, egli dice, opera per mezzo di ogni singola intelligenza, cioè la sua azione è anche assoluta in quanto non è nè libera nè priva di L. ma l’uno e l’altro insieme: assolu- tamente libera, perciò anche necessaria + (System des transzendentalen Idealismus, IV, E). Le Ri- cerche filosofiche sull'essenza della L. umana (1809) dello stesso Schelling, trasferiscono in Dio, o meglio nella natura o fondamento di Dio, l’atto con cui l’uomo sceglie quella natura o fondamento da cui ogni sua inclinazione o azione sarà determinata. La tendenza ad attribuire all’Assoluto la L. e a identificarla con la necessità si chiarisce così come la caratteristica propria della concezione romantica. Hegel, a questo proposito, contrappone «il con- cetto astratto della L.» cioè la L. come esigenza o possibilità, alla « L. concreta » che è la «L. reale» o «la realtà stessa» dello spirito o degli uomini (Enc., $ 482; Fil. del dir., $ 33, Zusatz). Questa L. reale che è la realtà stessa dell’uomo è lo Stato, LIBERTÀ il quale appunto perciò è considerato da Hegel come «Iddio reale » (Fil. del dir., $ 258, Zusatz). Lo stato è «la realtà della L. concreta» (/bid., 8 260). Ciò significa che esso «è la realtà in cui l’individuo ha e gode la sua L., in quanto però l’individuo stesso è scienza, fede e volontà dell’uni- versale. Così lo stato è il centro degli altri aspetti concreti della vita cioè del diritto, dell’arte dei co- stumi, degli agi. Nello stato la L. è realizzata og- gettivamente e positivamente ». Questo non signi- fica che la volontà soggettiva del singolo si realizza mediante la volontà universale, che sarebbe quindi un mezzo per essa; ma piuttosto che la volontà universale si realizza attraverso i cittadini che sotto questo aspetto sono suoi strumenti. « Sono piut- tosto il diritto, la morale, lo stato, e solo essi la positiva realtà e soddisfazione della libertà. L’ar- bitrio del singolo non è libertà. La L. che viene limitata è l’arbitrio, concernente il momento par- ticolare dei bisogni» (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, I, pag. 90). Questa coincidenza di L. e necessità che conduce ad attribuire la L. stessa sol- tanto all’Assoluto o alla sua realizzazione nel mondo, che è lo Stato, da un lato è rimasta a caratterizzare tutte le dottrine di derivazione romantica, dall’altro è stata utilizzata, fuori dell'ambito di tali dottrine, per la difesa dell’assolutismo statale e per il rifiuto del liberalismo politico. Gentile e Croce condivisero quella dottrina: il primo identificando la L. con la necessità dialettica dell’Assoluto (Teoria generale dello spirito, XII, $ 20) il secondo identificando la L. con «la creatività delle forze che si chiamano individuali e coincidono con l’unità dell’ Universale » (Storiografia e idealità morale, pag. 58). Ma la con- divise pure Martinetti affermando che la L. non è che la spontaneità della ragione e che la spontaneità della ragione non è che la necessità stessa sicchè in ogni caso si identificano L. e spontaneità, spon- taneità e concatenazione necessaria (La libertà, 1928, pag. 349). In forma diversa, la dottrina ritorna in alcune manifestazioni della filosofia contempo- ranea, per es., nel realismo di Nicolai Hartmann e nel- l’esistenzialismo di Jaspers. Secondo Hartmann, la L. consiste nel fatto che, per ogni piano dell’essere, al determinismo dei piani inferiori si aggiunge il determinismo proprio del piano stesso. I piani, in altri termini, sono contingenti l’uno rispetto all’altro in quanto ognuno ha una forma specifica di determi- nismo non riducibile a quella dei piani inferiori; la L. non è che il superdeterminismo di un piano dell’essere rispetto agli altri. Dice Hartmann: « La L. in senso po- sitivo non è un minus ma un plus nella determina- zione. Il nesso causale non permette un minus perchè la sua legge afferma che una serie di effetti, una volta in corso, non può essere arrestata in alcun modo. Ma ammette invece un plus — se questo c'è — 34 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 529 perchè la sua legge non afferma che agli elementi di determinazione causale di un processo non pos- sano aggiungersi altri elementi di determinazione » (Erhik, pag. 649). Sul piano dello spirito, questo plus di determinazione è costituito dalla teleologia propria dell’uomo, che impone ai processi causali fini desunti dalla sfera dei valori. Ma è ovvio che in questo senso la L. non è altro che l’aggiunta di un determinismo « superiore » ai determinismi inferiori: è cioè l’autodeterminazione dei piani, che si aggiunge alla determinazione esterna. Nello stesso senso, Jaspers afferma l’unità di L. e necessità, espressa nella formula « io posso perchè devo + (nel senso della necessità di fatto, /ch muss: Phil., II, pag. 186, 195). In questo caso la L., l’autodeterminazione, appar- tiene alla situazione esistenziale totale, di cui l’io è l’espressione. Siamo sempre nell’ambito della conce- zione che identifica la L. con l’autocausalità di una totalità metafisica (o politica o sociale, ecc.) cioè con la necessità con cui tale totalità si realizza. Questa dottrina è stata talora difesa da filosofi o scrittori di spiriti liberali, ma è in realtà l’insegna stessa dell’antiliberalismo moderno. Difatti, sul piano me- tafisico, essa riconosce come soggetto di L. soltanto l’essere, la sostanza, il mondo e sul piano politico soltanto lo stato, la chiesa, la razza, il partito, ecc.; e attribuisce alla totalità così privilegiata un po- tere di autocausalità o autocreazione che è un altret- tanto assoluto potere di coercizione sugli individui, che ne sono considerati le manifestazioni o le parti. 3° Mentre le prime due concezioni della L. hanno un nucleo concettuale comune, la terza non fa appello a questo nucleo perchè intende la L. come misura di possibilità, quindi scelta motivata o condizionata. In questo senso la L. non è auto- determinazione assoluta e non è quindi un tutto od un nulla, ma piuttosto un problema sempre aperto: il problema di determinare la misura, la condizione o la modalità della scelta che può garan- tirla. Libero, in questo senso, non è chi è causa sui o si identifica con una totalità che è causa sui; ma chi possiede, in un grado o misura determinata, possibilità determinate. Platone per primo ha enun- ciato il concetto che la L. consista in una « giusta misura» (Leggi, 693€); ed ha illustrato questo

concetto nel mito di Er. In questo mito si dice che le anime, prima di incarnarsi, sono condotte a scegliere il modello di vita cui poi rimarranno legate. « Per la virtù, annuncia la parca Làchesi, non ci sono padroni: ciascuno ne avrà più o meno a se- conda che la onorerà o la trascurerà. Ciascuno è l’autore della sua scelta, la divinità è fuori causa? (Rep., X, 617e). Ma l’importante è che questa scelta, di cui ciascuno è l’autore, e la cui causa- lità per ciò non può essere addossata alla divinità, è limitata in un senso dalle possibilità oggettive, 530 cioè dai modelli di vita disponibili, ein un altro senso dalla motivazione giacchè, come dice Platone, «la maggior parte delle anime sceglie secondo la consue- tudine della vita precedente» (/bid., 620a). La situazione mitica qui illustrata è esattamente quella di una L. finita cioè di una scelta tra possibilità determinate e condizionata da motivi determinanti. Una tale L. è delimitata: 1° dal rango delle possi- bilità oggettive che sono sempre più o meno ristrette di numero; 2° dal rango dei motivi della scelta che possono ancora restringere, fino all’unità, il rango delle possibilità oggettive. Pertanto questo concetto di L. è una forma di determinismo, sebbene non di necessitarismo: ammette la determinazione del- l’uomo da parte delle condizioni cui la sua attività risponde, senza ammettere che a partire da tali condizioni la scelta sia infallibilmente prevedibile. Questo concetto di L. è andato interamente smarrito nell’antichità e nel Medio Evo per la prevalenza del concetto di L. come causa sui. Quando si è riaffacciato, ai principi dell’età moderna, ha assunto, in polemica con la nozione di libero arbitrio, la forma della negazione della L. di volere e dell’affermazione della L. di fare. In questa forma si trova espressa da Hobbes. Questi, identificando la volontà con l’appetito, afferma che non si può non volere ciò che si vuole (non si può non aver fame quando si ha fame, non aver sete quando si ha sete, ecc.); ma si può fare o non fare ciò che si vuole (mangiare o non mangiare quando si ha fame, ecc.). Esiste quindi una L. di fare, non una L. di volere (De Homine, 11, $ 2; De Corp., 25, $ 13). Questa dottrina veniva sostanzialmente accolta da Locke, che definiva la L. come « il fatto per cui si è in grado di agire o non agire secondo che si scelga o si voglia» (Saggio, II, 21, 27). Ma in Locke la dottrina stessa si complica e diventa confusa, perchè da un lato egli distingue l’appetito dalla volontà che ritiene costituita da un potere di scelta o di preferenza o di inibizione (cioè di sospensione del desiderio, /bid., II, 21, 48); dall’altro ammette che tale scelta o preferenza o inibizione sia necessaria- mente determinata dal motivo (che egli identifica

in un primo tempo con il desiderio del bene, in un secondo tempo con il disagio proprio del desiderio, Ibid., II, 21, 31). Non si vede pertanto come, da questo punto di vista, possa parlarsi di L. di fare o di non fare, dato che la scelta stessa o la preferenza accordata all’uno o all’altra di queste alternative è necessariamente determinata. Comunque, l’inten- zione della dottrina di Locke è chiara: essa tende da un lato a garantire il determinismo dei motivi, negando il libero arbitrio come autocausalità della volontà; dall’altro a garantire la L. dell'uomo contro il determinismo rigoroso. Molto meglio Locke è riuscito a esprimere questo stesso concetto sul ter- LIBERTÀ reno politico, negando, contro Filmer, che la L. consiste per ciascuno nel fare ciò che gli pare, e affermando: «La L. naturale dell'uomo consiste nell’essere libero da ogni potere superiore sulla terra e nel non sottostare alla volontà o all'autorità legislativa di alcuno e nel non avere per propria norma che la legge di natura. La L. dell’uomo in società consiste nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello stabilito per consenso nello stato nè al dominio di altra volontà o alla limitazione di altra legge che quella che questo potere legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui » (Two Treatises of Government, II, 4, 22). Nello stato di natura la L. consiste nella possibilità di scelta limitata dalla norma di natura, che è una norma reciproca che prescrive di riconoscere agli altri quelle stesse possibilità che si riconoscono a sè (Ibid., II, 2, 4). Nella società, la L. consiste nella possibilità di scelte delimitate da una legge stabilita da un potere a ciò destinato dal consenso dei citta- dini. In altri termini la L. politica suppone due condizioni: 1° L'esistenza di norme che circoscrivino le possibilità di scelta dei cittadini; 2° La possibilità dei cittadini stessi di controllare, in una certa misura, lo stabilimento di queste norme. Da questo punto di vista il problema della L. politica è un problema di misura: la misura nella quale i cittadini devono partecipare al controllo delle leggi e la misura nella quale tali leggi debbono restringere le loro possibilità di scelta. Questo è sempre stato il problema del liberalismo classico e cioè di ogni liberalismo autentico, antico e moderno. Montes- quieu riproponeva la dottrina della L. politica di Locke nell’Esprit des lois (1748, XI, 3-4). Hume e l’Illuminismo riprendevano la dottrina della L. filosofica. Il primo affermava: « Per L. non possiamo significare che un potere di agire o di non agire secondo la determinazione della volontà; cioè che se deliberiamo star fermi, possiamo farlo e se deliberiamo muoverci, lo possiamo egualmente + (Ing. Conc. Underst., VIII, 1); e nello stesso tempo metteva in luce il determinismo dei motivi, senza il quale le leggi e le sanzioni sarebbero inoperanti. L’illuminismo, per bocca di Voltaire, riprendeva la stessa dottrina: la L. di indifferenza è « una parola priva di senso » giacchè essa significherebbe che c’è nell'uomo «un effetto senza causa ». Si è liberi di fare quando si ha il potere di fare (Dictionnaire philosophique, art. Liberté). Kant stesso si avvaleva del concetto di L. finita per definire la L. giuridica o politica: essa è «la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne tranne che a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso » (Zum ewigen Frieden, II, art. 1, n. 1). La concezione di un determinismo non necessitaristico è rimasta tradizionale nell’orien- tamento empiristico. Stuart Mill mostrava come il LIBERTINISMO fatalismo scaturisce da un concetto della necessità che non si riduce a quello della determinazione. Questa significa soltanto « uniformità di ordine e ca- pacità di predizione +. Ma i sostenitori della neces- sità « sentono come se ci fosse un più forte legame tra le volizioni e le loro cause: come se, quando di- cono che la volontà è governata dall’equilibrio dei motivi, si dicesse qualcosa in più dell’affermazione che si può, conoscendo i motivi e la nostra abituale suscettibilità ad essi, predire il modo in cui agiremo » (Logic, VI, 2, $ 2). Dewey traduce questa stessa dottrina nei termini del pragmatismo cioè di un empirismo orientato verso il futuro. «Si assume talora, egli dice, che se si può mostrare che la deli- berazione determina la scelta ed è determinata dal carattere e dalle condizioni, non c’è libertà. Questo è come dire che un fiore non può portare frutti perchè viene dalla radice e dallo stelo. La questione non concerne gli antecedenti della deliberazione della scelta ma le loro conseguenze. Che cosa hanno esse di proprio? Questo, che ci dànno il controllo delle possibilità future che si aprono a noi. Questo con- trollo è il nucleo della nostra libertà. Senza di esso, noi siamo spinti dal didietro, con esso camminiamo nella luce » (Human Nature and Conduct, 1922, pag. 311). La L. di cui Heidegger parla come «trascen- denza + e « progettazione » dell’uomo nel mondo è anch'essa una L. finita perchè condizionata e li- mitata dal mondo stesso in cui si progetta (Vom Wesen des Grundes, 1949, III; trad. ital., pag. 64 sgg.). Questa dottrina della L. si è rafforzata ed è diventata più chiara e coerente dacchè la scienza stessa, a partire dal quarto decennio del nostro secolo, ha abbandonato l’ideale della causalità necessaria e della previsione infallibile. La preva- lenza del concetto di condizione su quello di causa, della spiegazione probabilistica sulla spiegazione necessitaristica, che si è delineata, come effetto del principio di indeterminazione, nella fisica atomica (v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE), ha reso ovviamente anacronistico la conservazione dello schema neces- sitaristico per la spiegazione degli eventi umani. Nello stesso tempo, l’opposizione tra scienza e coscienza, tra l’esigenza della causalità propria della prima e la testimonianza di L. propria della seconda, è venuto a perdere il suo significato. Da un lato si è visto che la coscienza non testimonia una L. assoluta nè può far valere assolutamente una sua qualsiasi testimonianza in proposito; dall’altro lato, si è visto che la scienza non esige la causalità neces- saria, che autorizzerebbe la previsione infallibile degli eventi, ma un determinismo condizionante che autorizza la previsione probabile degli eventi stessi. La conclusione è che il concetto della L. come autocausazione (quale ancora compare in Bergson e Sartre) è così poco sostenibile come il 531 concetto del determinismo come necessità. Corri- spondentemente, sul piano politico, il concetto della L. come potere di fare ciò che piace e quello della L. come potere assoluto della totalità cui l’uomo appartiene (stato, chiesa, razza, partito, ecc.) sono egualmente mistificatori. La L. è oggi, come ai tempi in cui ne veniva per la prima volta formulata la nozione nel mondo moderno, una questione di misura, di condizioni e di limiti; e ciò in qualunque campo, da quello metafisico e psicologico a quello economico e politico. Si insiste oggi sul fatto che la L. umana è « una libertà situata, una L. inquadrata nel reale, una L. sotto condizione, una L. relativa » (GURVITCH, Déterminismes sociaux et liberté humaine, 1955, pag. 81). Si esprime talora questo concetto dicendo che la L. non è una scelta ma piuttosto una « possibilità di scelta»: cioè una scelta tale che una volia effettuata può essere ancora e sempre ripetuta nei confronti di una situazione determinata (ABBAGNANO, Possibilità e Libertà, 1956, passim). In questa forma, la L. può essere riconosciuta pro- pria di tutte le attività umane ordinate ed efficaci, anche e principalmente dei procedimenti scientifici, le cui tecniche di controllo consistono per l’appunto in possibilità di scelte nel senso suddetto. Un pro- cedimento valido è un procedimento che può essere da chiunque efficacemente adoperato nelle circo- stanze adatte: è una « possibilità di scelta » che si ripresenta a chiunque si trovi nelle condizioni opportune. Analogamente, le L. politiche sono pos- sibilità di scelta che assicurano ai cittadini la possi- bilità di scegliere ancora. Un tipo di governo è libero non già semplicemente se è scelto dai cittadini ma se consente ai cittadini in certi limiti una continua possibilità di scelta, nel senso della possibilità di mantenerlo o modificarlo o eliminarlo. Le cosid- dette «istituzioni strategiche della L.+, come le L. di pensiero, di coscienza, di stampa, di riunione, ecc., sono per l’appunto dirette a salvaguardare ai citta- dini la possibilità di scelta nel dominio scientifico, religioso, politico, sociale, ecc. Pertanto i problemi della L. nel mondo moderno non possono essere risolti da formule semplici e totalitarie (quali sarebbero quelle suggerite da un concetto di L. anarchico o necessitaristico), ma dallo studio dei limiti e delle condizioni che, in un campo e in una situazione determinata, possono rendere effettiva ed efficace la possibilità di scelta dell’uomo. LIBERTARISMO (ingl. Libertarianism). Lo stesso che anarchismo. Libertario (ingl. Libertarian; franc. Libertaire): lo stesso che anarchico. (v. ANAR- CHISMO. LIBERTINISMO (franc. Libertinisme). La corrente antireligiosa che si diffuse soprattutto negli ambienti eruditi di Francia e d’Italia nella prima metà del sec. xvii e che costituisce la reazione, in 532 gran parte sotterranea, che accompagna in quel periodo il predominio politico del cattolicesimo. Tale corrente non ha idee filosofiche ben determinate. Ad essa infatti appartennero: cattolici sinceramente attaccati alla chiesa, che tuttavia ritenevano impos- sibile accettarne integralmente l’impalcatura dottri- nale come Gassendi, Gaffarel, Boulliau, Launoy, Marolles, Monconys; protestanti emancipati da ogni preoccupazione religiosa come Diodati, Prio- leau, Sorbière e Lapeyrère; e scettici dichiarati, che si rifanno alle dottrine del paganesimo classico o almeno alla forma che esse avevano assunto nell’umanesimo rinascimentale, come Guyet, Luil- lier, Bouchard, Naudé, Quillet, Trouiller, Bourdelot, Le Vayer. Non si può pertanto parlare, a proposito del L., di un corpo di dottrine coerente, ma piuttosto di un certo numero di temi comuni, che possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° La negazione della validità delle prove dell’e- sistenza di Dio e della possibilità di intendere e difendere i dogmi fondamentali del cristianesimo. 2° La negazione della morale ecclesiastica e in genere della morale tradizionale e l’accettazione del piacere come guida o ideale per la condotta della vita. Il significato che la parola libertino ha nell’uso corrente deriva appunto da questo aspetto. 3° L'accettazione della dottrina dell’ordine ne- cessario del mondo, quale era stata elaborata e difesa dagli aristotelici del Rinascimento; e per conseguenza: a) la negazione della libertà umana; b) la negazione dell'immortalità dell'anima; c) la negazione della possibilità del miracolo, interpretato come frutto dell’immaginazione o come fatto naturale insolito. Questi punti di dottrina collegano il L. con l’aristotelismo del Rinascimento. 4° La tesi che la religione è, in generale, un prodotto dell’impostura delle classi sacerdotali. S° L'accettazione del principio della « ragion di stato » cioè del machiavellismo politico. 6° Lo smantellamento di credenze e pratiche religiose, l’irrisione di esse e talvolta la loro tradu- zione in imagini oscene. 7° Il fideismo, cioè la dichiarata accettazione, sincera o meno, delle credenze tradizionali, in con- trasto con le conclusioni della ragione, secondo quel principio della « doppia verità» che era stato an- ch’esso proprio dell’aristotelismo rinascimentale (e dell’averroismo medievale). 8° Il carattere aristocratico attribuito al sapere e in particolare alla riflessione filosofica e i limiti imposti alla loro diffusione e al loro uso per evitare che entrino in urto con gli interessi dello Stato e delle istituzioni con esso collegate. Quest’ultimo punto soprattutto stabilisce la dif- ferenza radicale tra L. e Illuminismo (v.): il quale consiste propriamente nel togliere ogni freno alla LIBERTISMO critica razionale, nel portarla in ogni campo (quindi anche nel campo politico, oltre che in quello reli- gioso) nella volontà di far parte dei risultati di essa a tutti gli uomini e di utilizzarli per il migliora- mento dei loro modi di vivere. Tuttavia non c’è dubbio che il L. è un anello importante di congiun- gimento tra lo spirito dell’Umanesimo e lo spirito dell’Illuminismo. Il suo storico migliore, R. Pintard, così riassume il suo giudizio su di esso: « Se si crede, come tutto conduce ad ammettere, che lo slancio dello spirito filosofico della fine del xvIr secolo è in gran parte un seguito del Rinascimento del xvi secolo, — bisogna anche concludere che il L. trionfante dei Fontenelle e dei Bayle non sarebbe esistito senza il L. militante dei Le Vayer, dei Gas- sendi e dei Naudé che fu anche un L. dolorante — esitante, combattuto, imbarazzato da scrupoli e da timori e che arrivò ad esprimersi solo rinnegandosi » (Le Libertinage érudit dans la première moitié du XVII siècle, 1943, I, pag. 576). LIBERTISMO (franc. Libertisme). Questo termine è stato adoperato da Bergson (in Revue de Métaph. et de Morale, 1900, pag. 661) in luogo di quello più comune «Filosofia della libertà » per indicare lo spiritualismo francese del sec. xix nel quale si inserisce la stessa dottrina di Bergson. LIBIDO. Termine con il quale è stata designata da Freud e dagli psicanalisti la tendenza sessuale nella forma più generale e indeterminata. Dice Freud: « Analoga alla fame in generale, la L. designa la forza con la quale si manifesta l’istinto ses- suale, come la fame designa la forza con la quale si manifesta l'istinto d’assorbimento del nutri- mento ? (Einfithrung in die Psychoanalyse, cap. 21;

trad. franc. pag. 336). In questo senso le prime ma- nifestazioni della L. si connettono ad altre funzioni vitali: nel lattante, ad es., l’atto di succhiare pro- cura un piacere che rimane separato da quello dell’assorbimento del cibo e viene ricercato per suo conto. Freud pertanto designa la zona bucco- labiale come «zona erogena » e considera il pia- cere procurato dall’atto di succhiare come un pia- cere sessuale. La L. in questo senso può non aver niente a che fare con ciò che è in rapporto alla sfera genitale. Freud pensa poi che non si guadagna niente a chiamare la L. col nome di istinto, come ha fatto Jung (/bid., pag. 442 sgg.; cfr. C. G. Jung, Wandlungen und Symbole der Libido, 1925). LICEO (gr. Avxewov). Così fu chiamata, dal territorio in cui era situata, sacro ad Apollo Liceo, la scuola di Aristotele o Peripato. Dopo la morte di Aristotele la scuola fu retta da Teofrasto di Eresso, sino alla morte di costui (288 od 86 a. C.), che la indirizzò soprattutto all’organizzazione del lavoro scientifico e alle ricerche particolari. A Teo- frasto successe Stratone di Lampsaco che la tenne LINGUA per 18 anni e dopo il quale la scuola continuò il suo lavoro attraverso numerosi altri rappresentanti dei quali ci restano scarse notizie e frammenti. Nel primo secolo avanti Cristo Andronico di Rodi pubblica le opere esoteriche di Aristotele e dà inizio a una nuova forma di attività filosofica: il com- mento agli scritti del maestro. In questa attività emerse specialmente Alessandro di Afrodisia vissuto intorno al 200 d. C. (cfr. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, Texte und Kommentar, Basilea, 1944 sgg.). LIMITAZIONE (lat. Limitatio; ingl. Limitation; franc. Limitation; ted. Limitation, Begrenzung). Nella logica del *600 cominciò a chiamarsi con questo nome ciò che nella logica medievale era chiamato restri- zione (restrictio, cfr. Pietro Ispano, Summul. Logic., 11.01) cioè la riduzione di un enunciato a un signi- ficato più ristretto. Dice, ad es., Jungius: «Si dice che un enunciato viene limitato quando si sostituisce ad esso un altro enunciato il quale dichiari che il predicato conviene al soggetto non immediatamente ma mediante una sua parte o accidente. Ad es., ‘l’Etiope è bianco” viene limitato da ‘l’Etiope è bianco nei denti *» (Logica Hamburgensis, 1638, II, 8, 8). Nello stesso senso si esprime Wolff che tuttavia distingue la proposizione restrittiva da quella limitata in quanto la L. si assume ab intrin- seco cioè dalla parte stessa del soggetto come nel caso dell’enunciato sull’Etiope, mentre la restri- zione si assume ab extrinseco come nell’enunciato «L'aria è leggera rispetto ai fluidi » (Logica, $ 1106). Kant ha chiamato L. la terza categoria della qualità, che è «la realtà unita con la negazione» (Crif. R. Pura, $ 11), e che corrisponde al giudizio infinito cioè alla proposizione che afferma un predicato negativo (/bid., $ 9) (v. INFINITO, GIUDIZIO). In tutti questi casi la L. era considerata come una restrizione applicata al soggetto della proposizione. W. Hamilton considerò invece la restrizione appli- cabile al predicato e chiamò L. la restrizione solo in espressioni come « La virtù è la sola nobiltà + (Lectures on Logic, 2* ediz., pag. 262). LIMITE (gr. népas; lat. Limes; ingl. Limit; franc. Limite; ted. Grenze). Aristotele ha perfetta- mente distinti ed enumerati i diversi significati del termine (Met., V, 17, 1022a 4 sgg.), che sono i seguenti: 1° L’ultimo punto di una cosa cioè il primo punto al di là del quale non c’è alcuna parte della cosa e al di qua del quale c’è ogni parte di essa. Oggi questo concetto si esprime dicendo che il L. è un punto che non può essere raggiunto; o che è una grandezza tale che la differenza tra essa e gli ele- menti della serie infinita cui appartiene sia e ri- manga inferiore a ogni grandezza assegnabile (cfr. Perrce, Coll. Pap., 4.117; JORGENSEN, A Treatise of Formal Logic, III, pag. 87 sgg.). SEGNICA 533 2° La forma di una grandezza o di una cosa che ha grandezza. 3° Il termine: sia il terminus ad quem o punto di arrivo sia, talvolta, il terminus a quo o punto di partenza. 4° La sostanza o l’essenza sostanziale di una cosa; giacchè questo è il L. di conoscenza della cosa e perciò anche della cosa stessa. In questo senso L. significa condizione. Per Aristotele la condizione della conoscenza e dell’essere stesso della cosa è la sostanza o essenza necessaria (v. ESSENZA; SOSTANZA). Al primo significato del termine si connette l’uso che Kant fece della parola. « Un L., egli scrisse, negli esseri estesi, presuppone sempre uno spazio che è al di là di una certa superficie deter- minata e la include in sè; il confine invece non ha bisogno di questo ma è una pura negazione che qualifica una grandezza, in quanto non è una tota- lità assoluta e perfetta. Ora la nostra ragione vede, in qualche modo, intorno a sè, uno spazio per la conoscenza delle cose in sè, sebbene non possa mai averne concetti determinati e sia puramente limitata ai fenomeni» (Prol., $ 57). In questo senso Kant, chiamò concetto-limite il concetto di noumeno in quanto serve «a circoscrivere le pretese della sensi- bilità e perciò di uso puramente negativo + (Crif. R. Pura; Anal. dei Princ., cap. 3; cfr. Cosa in SÈ). Ciò che ha L. in questo senso è il finito nel significato 4 del termine. LINGUA (lat. Lingua; ingl. Language, Tongue; franc. Langue; ted. Sprache). Un insieme organiz- zato di segni linguistici. La distinzione tra L. e linguaggio è stata fatta prevalere da Saussure che ha definito la L. come « insieme delle abitudini lingui- stiche che permettono ad un soggetto di compren- dere e di farsi comprendere » (Cours de languistique générale, 1916, pag. 114). La L. in questo senso da un lato è un sistema o struttura (v.) dall’altro suppone una « massa parlante » che la costituisce come una realtà sociale. Si possono distinguere due specie di L.: 1° le L. storiche che sono quelle la cui massa parlante è una comunità storica: per esempio l'italiano, l’inglese, il francese, ecc.; 2° le L. artificiali che sono quelle la cui massa parlante è un gruppo distinto da una competenza specifica; e tali sono le L. delle tecniche particolari (che talvolta, meno propriamente, sono dette linguaggi), r es., la L. matematica, la L. giuridica, ecc. LINGUA SEGNICA (ingl. Sign Language). Con questo termine s’intende il linguaggio costituito da gesti il quale, secondo le cosidette teorie psicolo- giche del linguaggio, costituisce la prima fase di ogni linguaggio. Wundt ha distinto a questo pro- posito due specie di gesti, l’indicativo e l’imitativo. Il gesto indicativo sarebbe derivato biologicamente 534 dal movimento di afferrare (Die Sprache, Volkspsy- chologie, I, 2* ediz., pag. 129). Sono state anche studiate particolari L. segniche, come quelle dei napoletani di bassa classe, dei monaci trappisti (che hanno il voto del silenzio), degli indiani d’America e di alcuni gruppi di sordomuti. LINGUAGGIO (gr. 26y06; lat. Sermo; inglese Language, Speech; franc. Langage; ted. Sprache). In generale, l’uso dei segni intersoggettivi. Per intersoggettivi si intendono i segni che rendono possibile la comunicazione. Per uso si intende: 1° la possibilità di scelta (istituzione, mutazione, correzione) dei segni; 2° la possibilità di combi- nazione di tali segni in modi limitati e ripetibili. Questo secondo aspetto si riferisce alle strutture sintattiche del L., mentre il primo si riferisce al dizionario del L. stesso. La scienza moderna del L. ha (come si vedrà) sempre più insistito sull’im- portanza delle strutture linguistiche cioè delle possibilità di combinazioni che il L. delimita. Elementi come « Socrate » « uomo 1 «è» «er «tutti » «non», ecc., sono egualmente parole cioè segni in- tersoggettivi, ma possono entrare in un discorso solo con una funzione determinata: cioè possono combinarsi con gli altri segni solo in modi che sono limitati e riconoscibili. Il L. si distingue dalla lingua che è un particolare insieme organizzato di segni intersoggettivi. La di- stinzione fra L. e lingua è stata fatta prevalere nella scienza del L. da Ferdinando de Saussure, che l’espri- meva nel modo seguente: « La lingua è un prodotto sociale della facoltà del L. e nello stesso tempo un insieme di convenzioni necessarie adottate dal corpo sociale per permettere l’esercizio di questa facoltà presso gli individui. Preso nel suo insieme, il L. è multiforme ed eteroclito; a cavallo di domini diversi — quello fisico, quello fisiologico e quello psichico — esso appartiene anche al dominio indi- viduale e al dominio sociale; non si lascia classifi- care in alcuna categoria di fatti umani perchè non si sa come determinare l’unità » (Cours de /an- guistique générale, 1916, pag. 15). Dal punto di vista generale o filosofico il problema del L. è il problema della intersoggettività dei segni cioè del fondamento di questa intersoggettività. Non è che una forma di questo problema quello della « ori- fine » del L. dibattuto nel sec. xv e nel sec. xIx: le due soluzioni tipiche di esso non sono infatti che due modi di garantire l’intersoggettività dei segni linguistici. Che il L. si origini dalla convenzione significa semplicemente che quella intersoggettività è frutto di una stipulazione, di un contratto fra gli uomini; e che il L. si origini dalla natura significa semplicemente che quella intersoggettività è garantita dal rapporto del segno linguistico con la cosa, o con lo stato soggettivo, cui esso si riferisce. Si pos- LINGUAGGIO sono distinguere quattro soluzioni fondamentali del problema della intersoggettività del L. e pertanto quattro interpretazioni del L.: 1° L. come conven- zione; 2° il L. come natura; 3° il L. come scelta; 4° il L. come caso. Le prime tre di queste interpreta- zioni erano state già distinte e contrassegnate da Platone. Le prime due hanno in comune l’affermazione del carattere necessario del rapporto tra il segno linguistico e il suo oggetto (quale che sia). La tesi convenzionalistica, infatti, affermando la perfetta arbitrarietà di tutti gli usi linguistici e pertanto l’impossibilità di confrontarli e correggerli, riconosce a tutti la stessa validità. La tesi del carattere naturale del L. è condotta, dall’altro lato, ad ammettere le medesime conclusioni. Poichè tutti i segni linguistici sono tali per natura e ognuno è suscitato o prodotto dall’oggetto che esprime, tutti sono ugualmente va- lidi ed è impossibile confrontarli, modificarli o cor- reggerli. Entrambe le tesi portano alla conseguenza che è impossibile dire ciò che non è perchè dire ciò che non è significa non dire. Megarici e Cinici che nella filosofia greca dei tempi di Platone rap- presentavano le due tesi in questione, avevano in comune questo teorema fondamentale, ch’essi de- rivavano (come Aristotele testimonia) dal principio che « niente si può predicare di una cosa salvo il suo stesso nome», principio che non esprime altro che la necessità del rapporto tra il segno linguistico e il suo oggetto (Met., V, 29, 1024 b 33; per i Megarici ed in particolare Stilpone cfr. PLUTARCO, Ad Colot., 23, 1120 a). Sarà facile mostrare che queste tesi caratteristiche delle due dottrine necessaristiche del L. si ritrovano ugual- mente nelle forme che tali dottrine hanno assunto nel mondo moderno. 1° L’interpretazione del L. come convenzione ha avuto origine con gli Eleati. L’inesprimibilità del- l’Fssere (come necessario e unico) doveva condurli a vedere nelle parole nient'altro che «le etichette delle cose illusorie » come dice Parmenide (Fr. 19, Diels). Questa concezione sembra condivisa da Empedocle (Fr. 8-9, Diels); ma solo Demo- crito la giustifica con argomenti empirici. De- mocrito infatti fonda la tesi della convenziona- lità su quattro argomenti: l’omonimia, per la quale cose diverse sono designate dal medesimo nome; la diversità dei nomi per una medesima cosa; la possibilità di mutare i nomi; e la mancanza di analogie nella derivazione dei nomi (Fr. 26, Diels). I Sofisti insistevano con Gorgia sulla diversità tra i nomi e le cose e sulla conseguente impossibilità che attraverso i nomi si comunicasse la conoscenza delle cose. «Il L., diceva Gorgia, non manifesta le cose esistenti proprio come una cosa esistente non manifesta la propria natura ad un’altra di esse + LINGUAGGIO (Fr. 3, 153, Diels). Si è già detto come Stilpone affermasse il teorema della impredicabilità di una cosa dell’altra: teorema che esprime la necessità del riferimento del segno linguistico all’oggetto. Ai Megarici faceva riferimento Platone: «O forse preferisci quel modo che dice Ermogene con molti altri: cioè che i nomi sono convenzioni e son chiari per quelli che li hanno stipulati e conoscono le cose cui corrispondono e che questa è la giustezza dei nomi, sicchè non importa se si convenga secondo quanto si è già stabilito oppure sul contrario e, per es., di chiamar grande quel che oggi chiamiamo pic- colo 0 piccolo quel che oggi chiamiamo grande? + (Crat., 433 e). Questo convenzionalismo schietto, che afferma la pura arbitrarietà del riferimento linguistico, viene perduto da Aristotele in poi e non si presenta di nuovo che nel pensiero contemporaneo. Aristotele per la prima volta inserisce tra il nome e il suo designato l’affezione dell’anima cioè la rappresenta- zione o concetto mentale (o l’idea o la parola interiore o com'altro si chiamerà in seguito) che scinde ed articola il rapporto tra il nome e il suo designato. L'inserimento di questo termine con- sente di riconoscere nello stesso tempo la conven- zionalità del L. e la necessità dei suoi signi- ficati. Aristotele infatti afferma che « il nome è una voce semantica secondo convenzione + intendendo 4 per convenzione + che « nessuno dei nomi è tale per natura ma solo quando è diventato un simbolo» (De Interpr., 2, 16 a 18; 26-28). Le parole, come suoni vocali o segni scritti, non sono le stesse per tutti. Esse tuttavia si riferiscono alle « affezioni dell’anima che sono le stesse per tutti e costituiscono imagini di oggetti che sono gli stessi per tutti » (/bid., I, 16 a 3-8). Si ha perciò: 1° gli oggetti sono gli stessi per tutti; 2° le affezioni dell'anima, come imagini degli oggetti, sono le stesse per tutti; 3° le parole scritte o parlate non sono le stesse per tutti. Sicchè il rapporto parola-imagine mentale è convenzionale mentre il rapporto imagine mentale-cosa è naturale. Il primo può cambiare senza che muti il secondo; e l'immutabilità o necessità del secondo determina, essa sola, la struttura generale del L. che dipende, non dalla convenzionalità dei segni ma dalla « unione e separazione» dei segni stessi cioè dal modo in cui essi sono uniti e separati tra loro. Ciò stabilisce, secondo Aristotele, il carattere privilegiato del L. apofantico: che è quello in cui hanno luogo le determinazioni di vero e falso a seconda che l'unione o la separazione dei segni riproduce 0 meno l’unione o la separazione delle cose. Aristotele non nega che esistano discorsi non apofantici, per es., la pre- ghiera (Zbid., 4, 17a 2). Ma, privilegiando il di- scorso apofantico, fa di esso il vero L., quello sul quale gli altri più o meno si modellano o dal punto 535 di vista del quale debbono essere giudicati. E

difatti la poetica e la retorica, che si occupano del L. non apofantico, sono da Aristotele trattate in connessione con l’analitica. Ora il L. apofantico non ha più nulla di convenzionale: le sue strutture sono naturali e necessarie perchè sono quelle stesse dell’essere, che esso rivela. Questo convenzionalismo apparente o zoppo che può combinarsi con la tesi del carattere apofantico del L. è la forma che il convenzionalismo assume nel Medio Evo e nell’età moderna. Il nominalismo medievale riprende appunto in questa forma la tesi convenzionalistica. Ockham, ad es., distingue i segni « istituiti ad arbitrio a significare più cose + cioè le parole, dai segni naturali che sono i concetti (Summa Log., I, 14); e questa posizione non fa che riprodurre sostanzialmente quella aristotelica. Identica è la posizione di Hobbes il quale, mentre insiste sull’arbitrarietà del segno linguistico, ritiene che esso sia « una nota con la quale si possa richia- mare nell’anima un pensiero simile ad un pensiero passato » (De Corp., 2, 4). Questa corrispondenza tra le parole e i pensieri è assunta da Locke come defi- nizione della funzione segnica del linguaggio. « Le parole, dice Locke, che di loro natura erano adatte a questo scopo, vennero impiegate dagli uomini come segni delle loro idee: non per alcuna connessione na- turale che vi sia tra particolari suoni articolati e certe

idee, poichè in tal caso non ci sarebbe fra gli uomini che un solo L., ma per una imposizione volontaria mediante la quale una data parola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale idea» (Saggio, III, 2, 1). L'inserimento del « segno natu- rale » o « pensiero + 0 «idea +» tra la parola e il suo designato toglie, come si è visto, alla tesi convenzio- nalistica il suo carattere proprio e l’avvicina alla tesi opposta, sino a confonderla con essa. Quella tesi si riduce infatti all’affermazione dell’arbi- trarietà del segno linguistico isolato, della parola intesa come suono, ma non si estende all’uso vero e proprio delle parole (nel quale propriamente consiste il L.) e pertanto alle regole di quest’uso. Essa equivale a dire, per es., che nel gioco degli scacchi è indifferente chiamare pedina la torre o torre la pedina, ma che è necessario che un certo pezzo (pedina o torre) si usi in un modo e che un altro (torre o pedina) si usi in un altro modo. Il linguaggio è il gioco di scacchi che, in questo caso, si dichiara necessario: la convenzionalità delle parole cioè dei semplici suoni articolati non diminuisce tale necessità. Pertanto il ripristino della tesi classica del conven- zionalismo si ha soltanto con l’eliminazione di qualsiasi intermediario tra il segno linguistico e il suo designato; o in altri termini con la dichiarazione di arbitrarietà non dei suoni isolati ma dell'uso di 536 tali suoni e cioè delle regole che lo limitano. Questa è stata la posizione del Wittgenstein della seconda maniera (nelle Philosophische  Untersuchungen). Wittgenstein ha ammesso l’arbitrarietà e perciò l’equivalenza di tutti i « giochi linguistici » in uso, ammettendo che tali giochi possono avere caratteri e regole diversissime sicchè anche chiamarli tutti insieme « L.» non significa altro che essi hanno l’uno con l’altro relazioni differenti (Philosophical Investigations, I, 65). Da questo punto di vista ritor- nano le tesi classiche del convenzionalismo; e in primo luogo l’impossibilità di rettificare il L., per cui L. dev’essere dichiarato sempre vero e perfetto 0, come Wittgenstein preferisce, in ordine: « È chiaro che ogni enunciato del nostro L. è in ordine come esso è. Cioè, noi non stiamo perseguendo un ideale come se i nostri enunciati ordinariamente vaghi non avessero ancora raggiunto un senso inecce- pibile e come se un L. perfetto aspettasse di essere costruito da noi. Dall’altro lato, sembra chiaro che dove c’è senso ci dev'essere ordine perfetto. Così ci dev'essere ordine perfetto nella più vaga delle proposizioni + (Zbid., I, 98). Da questo punto di vista l’ideale linguistico, la lingua perfetta è qualcosa di già esistente nell’uso. « L'ideale, dice Wittgenstein, deve essere trovato nella realtà. Finchè non abbiamo ancora veduto come si trova in essa, non comprendiamo la natura di questo deve. Pensiamo che dev'essere nella realtà perchè pensiamo di averlo già veduto » (/bid., 101). Questo punto di vista si può dire coincida con quello di Carnap. Il « principio di tolleranza » o « di conven- zionalità +, stabilito da Carnap, esprime la perfetta equivalenza dei sistemi linguistici. « In logica, dice Carnap, non c’è morale. Ciascuno può costruire come vuole la sua logica cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi, deve solo indicare come lo vuol fare, e dar regolazioni sintattiche invece di argomenti filosofici » (Logica! Syntax of Language, $ 17). Da questo punto di vista la stessa costruzione di un L. ideale o perfetto è fatto sulla base di ciò che un certo tipo di L. è in linea di fatto. «I fatti, dice Carnap, non determinano se l’uso di una certa espressione sia corretto o sbagliato ma soltanto quanto frequentemente porta all’effetto cui tende e simili. Una questione intorno a ciò che è corretto o sbagliato deve sempre riferirsi a un sistema di regole. A stretto rigore, le regole che elencheremo non sono regole del L. B, come è dato di fatto, costi- tuiscono piuttosto un sistema linguistico in corri- spondenza con 2 che chiameremo il sistema seman- tico B-S. Il L. B appartiene al mondo dei fatti... Invece il sistema linguistico B-S è qualcosa di costruito da noi; ha tutte e sole quelle proprietà che stabiliamo mediante le regole. Tuttavia noi costruiamo 8-S non arbitrariamente ma con ri- LINGUAGGIO guardo ai fatti di 8. Quindi possiamo fare l’affer- mazione empirica che il L. B è in una certa misura in armonia con il sistema B-S» (Foundations of Logic and Mathematics, I, 4). Il sistema seman- tico B-S ha perciò, secondo Carnap, le seguenti proprietà: 1° costituisce il criterio in base al quale si può giudicare della correttezza o meno del L. B; 2° le regole di B-S non sono convenzionali perchè sono scelte sulla base di dati di fatto forniti da 8. Carnap pertanto ammette contemporaneamente la tesi della convenzionalità dei L. e la tesi della naturalità dei sistemi semantici cioè dei L. perfetti. 2° La dottrina che il L. sia « per natura» e che il rapporto tra il L. e il suo oggetto (quale che sia) venga stabilito dall’azione causale di quest’ul- timo è anch’essa caratterizzata dal riconoscimento della necessità del rapporto semantico. Mentre la precedente dottrina affermava che il rapporto se- mantico è sempre esatto perchè è in ogni caso istituito ad arbitrio, la dottrina in esame afferma che è sempre esatto perchè sfugge all’arbitrio ed è istituito dall’azione causale dell’oggetto. Questa tesi si può far risalire ad Eraclito (Fr. 23, Diels; 114, Diels); ma esplicitamente fu esposta dai Cinici, e specialmente da Antistene, il cui punto di vista è espresso da Cratilo nel dialogo omonimo di Pla- tone: « Le cose hanno i nomi per natura ed è arte- fice di nomi non uno qualsiasi ma solo colui che guarda al nome che per natura è proprio di ciascuna cosa e che è capace di esprimere la specie di essa in lettere e sillabe» (Crar., 390d-e). Sappiamo d’altronde che Antistene aveva definito il L. di- cendo che è «quello che manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3); e che traeva da questa dottrina le stesse conseguenze che i Megarici con Stilpone traevano dalla tesi della convenzionalità: e cioè che « è impossibile contraddire o anche dire il falso » (ARIST., Met., V, 29, 1024 b 33). Questa di Antistene è tuttavia una soltanto delle forme che la dottrina in esame può assumere ed ha assunto nel corso della sua storia. Queste forme sono di- stinguibili sul fondamento del tipo di oggetto che si assume come designato dal linguaggio. Tutte le forme di questa dottrina asseriscono che il L. è apofantico cioè in qualche modo rivelativo del suo oggetto; esse differiscono tra loro nel deter- minare il tipo di oggetto che il L. rivelerebbe in modo primario o privilegiato. Si possono così distinguere: a) la teoria dell’interiezione; b) la teoria dell’onomatopeia; c) la teoria della metafora; d) la teoria dell’immagine logica. a) La teoria dell’interiezione che fu detta da Max Miiller (Lectures on the Science of Language, 1861, cap. 9; trad. ital., pag. 363) teoria del pu/-puh è stata esposta per la prima volta da Epicuro: « Le parole, egli disse, non sono in principio create LINGUAGGIO per convenzione; ma è la stessa natura umana che, influenzata da determinate emozioni e in vista di determinate imagini, fa sì che gli uomini emet- tano l’aria in modo appropriato alle singole emo- zioni ed imagini. Le parole sono dapprima diverse per la diversità delle genti, che dipende anche dai luoghi; ma poi vengono rese comuni affinchè i loro significati siano meno ambigui e più rapida- mente comprensibili » (Dioc. L., X, 75-76). Lu- crezio esprimeva più succintamente lo stesso con- cetto: «La natura costrinse gli uomini a emettere i vari suoni del L. e l’utilità condusse a dare a ciascuna cosa il suo nome» (De nat. rer., V, 1027-28). In tempi moderni la dottrina è stata ripresa da Condillac (Sur l’origine des connaissances humaines, 1746, I, $ 1 sgg.) ed esposta nel modo più brillante da Rousseau. « Il primo L. dell’uomo, diceva quest’ultimo, il L. più universale e più energico e il solo di cui aveva bisogno prima che gli occorresse di persuadere uomini riuniti, è il grido di natura. Poichè questo grido era strappato da una specie d’istinto nelle occasioni pressanti, per implorare soccorso nei grandi pericoli o sol- lievo nei mali violenti, esso non era di grande uso nel corso ordinario della vita in cui regnano senti- menti più moderati. Quando le idee degli uomini cominciarono ad estendersi e moltiplicarsi e si sta- bill tra essi una comunicazione più stretta, e si cercarono segni più numerosi e un L. più esteso, essi moltiplicarono le inflessioni della voce e vi aggiunsero i gesti che, per loro natura sono più espressivi e di cui il senso dipende meno da una determinazione anteriore » (De /’inépalité parmi les hommes, I; cfr. pure il saggio « Sull’origine delle lingue », in (Euvres, 1877, vol. I). Ma il problema in cui questa dottrina si urta è proprio quello del passaggio da una lingua costituita da semplici gridi o interiezioni a una lingua oggettiva, costituita da termini generali o astratti. Ancora nel mondo mo- derno non è mancato chi ha visto nell’interiezione l'origine di quei suoni che, gradualmente purificati e organizzati, si trasformarono in vero e proprio linguaggio. Così pensava, ad es., O. Jespersen (Lan- guage, its Nature, Development and Origin, 1923, pag. 418 sgg.) e più rigorosamente la stessa tesi è stata presentata da Grace de Laguna che ha cercato di definire meglio il passaggio dall’interiezione al L. come un processo di oggettivazione, per il quale alle espressioni emotive si vengono via via sostituendo gli aspetti percepiti delle situazioni effettive (Speech, its Function and Development, 1927, pag. 260 sgg.). Ma ciò che riesce difficile a comprendersi è per l'appunto questo processo di oggettivazione e pu- rificazione dei gridi emotivi: tanto più che lc stesse dottrine che si appellano ad essi hanno messo in luce ed esplicitamente riconosciuta la differenza 537 fra le parole e le interiezioni (che non si distinguono dai gridi animali) nonchè il fatto che le parole si affermano a danno delle interiezioni. b) La teoria dell’onomatopeia, che Max Miiller (Lectures on the Science of Language, 1861, cap. 9) chiamò teoria del bau-bau, è quella che afferma che le radici linguistiche sono imita- zioni di suoni naturali. La teoria era conosciuta da Platone; il quale la critica osservando che, « in tal caso, coloro che rifanno il verso delle pecore, dei galli e degli altri animali darebbero il nome agli animali di cui contraffanno la voce» (Crar., 423 c). La teoria fu difesa da Herder nel suo 7rat- tato sull'origine del L. (1772): egli considerò i suoni naturali (per es., il belare di un agnello) come i segni di cui l’anima si avvale per ricono- scere l’oggetto in questione. « Il suono del belare, notato come contrassegno distintivo, diventa il nome dell’agnello. Il contrassegno compreso per il quale l’anima si riflette chiaramente in un’idea, è la parola. E che cos’è l’intero L. umano se nonun insieme di tali parole?» (Werke, ed. Suphan, V, pag. 36-37). La principale obiezione contro questa dottrina è stata portata dai glottologi: non è vero che l'origine di tutte le radici linguistiche è onomatopeica. Neppure nella formazione dei nomi degli animali, nella quale il principio onomatopeico si potrebbe presumere più efficace, esso ha vera- mente una funzione dominante. Contro di esso sta poi l’obiezione filosofica, che già Platone avan- zava, che altro è l’imitazione di un suono, altro è l'imposizione di un nome. Tuttavia, il principio dell’onomatopeia è stato molte volte utilizzato dai glottologi per spiegare la formazione delle parole originali in questa o quella lingua e il loro distri- buirsi in gruppi distinti. Lo stesso Cassirer ammette come prima fase dell’espressione linguistica uno stadio mimetico nel quale «i suoni sembrano avvi- cinarsi all’impressione sensoria e riprodurre la sua diversità il più fedelmente possibile» (Phil. der symbolischen Formen, 1923, I, cap. 2, $ 2; tradu- zione ingl., pag. 190). c) La terza forma della dottrina della natu- ralità del L. è quella che lo considera come meta- fora. Le tesi caratteristiche in cui si esprime questa teoria sono le seguenti: 1° il L. non è imitazione ma creazione. Questa tesi distingue questa teoria da quella onomatopeica; 2° la creazione linguistica mette capo non a concetti o termini generali ma a imagini, che sono sempre individuali o parti-

colari; 3° ciò che la creazione linguistica esprime non è un fatto oggettivo 0 razionale ma soggettivo o sentimentale; e questo è propriamente l’oggetto del linguaggio. Con queste caratteristiche la teoria fu espressa per la prima volta da Vico; il quale affermò che «il primo parlare» non fu «un par- 538 lare secondo la natura delle cose » ma « un parlare fantastico per sostanze animate, la maggior parte immaginate divine » (Scienza Nuova, II, Della logica poetica). I primi poeti, secondo Vico, dettero «i nomi alle cose dalle idee più particolari e sensibili; che sono le due fonti, questa della metonimia e quella della sineddoche» (Ibid, Corollari d’intorno ai tropi, 2). Di conseguenza i primi uomini conce- pirono l’idea delle cose « per caratteri fantastici di sostanze animate e mutoli »; e si spiegarono « con atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee (quanto, per es., lo hanno l’atto di tre volte fal- ciare o tre spighe per significare tre anni) ». Questo, secondo Vico, è facile a osservarsi nella lingua la- tina, «che quasi tutte le voci ha formate per tra- sporti di nature o per proprietà naturali o per effetti sensibili »; ma « generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni + (Ibid., Corollari d’intorno ai tropi, 2). Espressa in forma assai più immaginifica, questa teoria si ritrova nello Hamann secondo il quale il L., che è «l’organo e il criterio della ragione +, non è una semplice collezione di segni ma «il simbolo e la rivelazione della stessa vita divina» (Schriften, II, 19, 207, 216). Nel sec. xtx la teoria della metafora, anche senza l’impostazione metafisica o teologica con cui compare in Haman è il tratto comune delle dottrine che sono state chiamate del din-don cioè del carattere risonante della natura umana. Così Max Miller affermava che il L. è il prodotto di una «facoltà creativa la quale dà a ciascuna impressione, nel modo che penetra per la prima volta nel cervello, un’espressione fonetica +; e che i fonemi così creati vengono poi selezionati e com- binati naturalmente attraverso il processo storico di formazione del L. stesso (Lectures, cit., 9; trad. ital., pag. 394). ll carattere metaforico del L., consi- stendo nel ricorso a termini ambigui od equivoci, favorisce (secondo questa teoria) l’origine e la for- mazione del mito. « Nel L. umano, ha detto F. Max Milller è impossibile esprimere idee astratte se non sotto metafora e non si esagera dicendo che l’in- tero dizionario dell’antica religione era fatto di metafore... Di qui una sorgente continua di equivoci molti dei quali sono consacrati nella mitologia e nella religione del mondo antico» (Contributions on the Science of Mythology, 1897, I, 68 sgg.). Questa connessione del L. con il mito era già stata fatta da Vico che, per di più, non aveva equiparato ad una malattia del L. la formazione del mito. Le dottrine moderne del mito (v.) negano questa equiparazione, ma mantengono la connes- sione del mito col linguaggio. In senso analogo Croce ha stabilita la connessione del L. con l’arte in generale. Il L. ha, per Croce, natura fantastica o metaforica ed è quindi legato più strettamente con LINGUAGGIO la poesia che con la logica. « L'uomo, dice Croce, parla a ogni istante come il poeta, perchè come il poeta esprime le sue impressioni e i suoi sentimenti nella forma che si dice di conversazione o familiare, e che non è separata per nessun abisso dalle altre forme che si dicono prosastiche, prosastico-poetiche, narrative, epiche, dialogate, drammatiche, liriche, meliche, cantate, e via enumerando » (Breviario di estetica, 1913, II). Un abisso c’è tuttavia (e Croce lo ha affermato più tardi) tra l'espressione poe- tica che placa e trasfigura il sentimento ed è perciò un conoscere, dagli altri tipi di espressione (o sen- timentale o prosastica) che, vincolati strettamente al sentimento e all’idea, non operano quella tra- sfigurazione che è propria dell’espressione autentica e pertanto non possono neppure dirsi linguaggio. Fsse sono, secondo Croce soltanto «suoni artico- lati » (La poesia, 1936, pag. 9 sgg.). Questa con- clusione cui Croce, non senza coerenza, ha condotto la teoria in esame, mostra i limiti della teoria stessa. Questa si trova nell’incapacità di spiegare il pas- saggio dal L. metafora al L. concettuale, dal L. che è grido o gesto o altro « carattere poetico + (secondo l’espressione di Vico) al L. che è struttura, organiz- zazione e regola. d) La quarta forma della dottrina della natu- ralità del L. è quella che lo considera come la espressione o l’imagine dell’essenza o dell’essere delle cose. Questa dottrina è assai antica perchè la sua prima manifestazione è la teoria di Anti- stene secondo la quale « il L. è quello che manifesta ciò che era o è» (Dioa. L., VI, 1, 3). Gli Stoici a loro volta affermarono che « parlare significa pronunziare un suono che significa l’oggetto pen- sato » (Sesto E., Adv. Math., VIII, 80). La carat- teristica di questa dottrina è che essa porta la sua attenzione non tanto sui singoli segni o parole ma sulle loro connessioni sintattiche cioè sulle regole del loro uso nelle proposizioni e nei ragionamenti e pertanto sulle strutture formali del linguaggio. A questo indirizzo appartiene propriamente la teoria che abbiamo chiamato del convenzionalismo apparente o zoppo: cioè la teoria che, mentre i singoli segni linguistici sono scelti ad arbitrio, i loro modi di combinarsi non sono arbitrari ma naturali e necessari perchè corrispondono ai modi di combinarsi dei concetti mentali che a loro volta corrispondono ai modi di combinarsi delle cose. Questa teoria, avanzata da Aristotele, è stata ri- prodotta più volte dall’empirismo moderno e con- temporaneo (v. sopra). In questa forma la dottrina è caratterizzata dall’inserzione, tra il segno lin- guistico e la cosa, del concetto mentale, attraverso il quale lo stesso segno linguistico, nei suoi modi di combinazione, viene a partecipare della necessità oggettiva delle cose. Un fondamento analogo ha LINGUAGGIO l’affermazione della naturalità del L. fatta da Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca (1808) dove si afferma che «esiste una legge fondamentale se- condo cui ogni concetto assume, attraverso gli organi, un suono; quello e non un altro» (IV; trad. ital., Allason, pag. 78), o quella di Hegel che «il L. dà alle sensazioni, intuizioni e rappre- sentazioni una seconda esistenza, più alta di quella immediata, un’esistenza in universale, che ha vigore nel dominio della rappresentazione +» (Enc., $ 459). Ma la tesi della naturalità del L. è stata ripresa nella sua forma rigorosa e perciò nei suoi teoremi classici soltanto ad opera della logica matematica contemporanea. Questa difatti ha riaffermato il principio di una corrispondenza di termine a ter- mine tra i segni linguistici e le cose, principio che i Cinici avevano espresso dicendo che il L. è ciò che manifesta quello che una cosa era od è. Questo principio che fa del L. la riproduzione pittorica della realtà o in generale dell’essere, è stato dapprima difeso da Russell ma ha trovato la sua formulazione più rigorosa nel Tractatus logico-philosophicus (1922) di Wittgenstein. Il principio veniva esposto da Russell nella forma seguente: «In ogni proposizione che possiamo apprendere (cioè non solo in quelle la cui verità o falsità possiamo giudicare ma in tutte quelle che possiamo immaginare) tutti i costituenti sono realmente entità di cui abbiamo conoscenza diretta » (€ On Denoting », 1905, ora in Logic and Knowledge, 1956, pag. 56; cfr. Mysticism and Logic, 1918, pag. 219, 221; The Problems of Philosophy, 1912, pag. 91). Questo vuol dire che ad ogni termine adoperato nelle proposizioni deve corrispondere un termine o entità oggettiva di cui si abbia conoscenza diretta (acquaintance): o che dev’esserci una corri- spondenza di termine a termine fra gli elementi che entrano a comporre le proposizioni e le entità di cui si ha conoscenza diretta. Russell osserva a questo proposito che « dobbiamo attribuire un signi- ficato alle parole che usiamo se vogliamo parlare con qualche significato e non per pura chiacchera; e il significato che attribuiamo alle parole dev’essere qualcosa di cui abbiamo già conoscenza» (Problems of Phil., pag. 91). Questa è semplicemente la ripre- sentazione della tesi di Antistene secondo la quale parlare significa dire qualcosa e precisamente qual- cosa che è, sicchè non si può dire ciò che non è: con l’aggiunta che ciò che è, vale a dire le entità corrispondenti ai termini del L., dev'essere « diret- tamente conosciuto ». Russell fondava su questo principio la sua teoria della denotazione: secondo la quale « quando c’è qualcosa di cui non abbiamo conoscenza immediata ma solo una definizione per mezzo di frasi denotanti, le proposizioni nelle quali questa cosa è introdotta per mezzo di una frase denotante non contengono realmente la cosa 539 come costituente ma contengono invece i costi- tuenti espressi dalle diverse parole della frase denotante » (€ On Denoting +, /bid., pag. 55-6). Così ad es., poichè non abbiamo diretta esperienza dello spirito degli altri, noi non conosciamo, se A è uno di tali spiriti, che « A ha questa e quella proprietà 1; ma conosciamo soltanto che « Tal dei Tali ha uno spirito che ha questa o quella proprietà ». Tuttavia, se un linguaggio ideale ci potesse essere, esso do- vrebbe contenere unicamente elementi costitutivi ultimi sicchè in esso « non ci sarebbe che una parola e non più di una per ogni oggetto semplice ed ogni cosa che non fosse semplice sarebbe espressa da una combinazione di parole, ciascuna delle quali sta- rebbe per una cosa semplice » (« The Phil. of Logical Atomism+, Logic and Knowledge, pag. 197-98). Secondo Russell il L. dei Principia Mathematica mira ad essere un L. di questa specie: in esso c’è solo sintassi e niente vocabolario (/b., pag. 198). E ciò lo rende uguale al L. proposto dai dotti dell’Accademia di Lagado di cui parla Swift nei Viaggi di Gulliver. Essi proponevano di abolire le parole perchè « dal momento che le parole sono solo nomi per le cose, sarebbe più comodo per tutti gli uomini portare con loro le cose che sono ne- cessarie a esprimere le particolari faccende di cui intendono discorrere +. Questi saggi portavano perciò con loro sacchi pieni di oggetti e facevano conver- sazione mostrandosi reciprocamente gli oggetti stessi (Gulliver’s Travels, III, cap. 5). Lo stesso ideale è stato espresso da Wittgenstein (prima maniera) con formule semplici e precise. Eccone alcune: «Il nome significa l’oggetto: l’og- getto è il suo significato » (Tractatus, 3.203). « Alla configurazione dei segni semplici nella proposizione corrisponde la configurazione degli oggetti nella si- tuazione +» (/bid., 3.21). « Il nome è il rappresentante dell'oggetto nella proposizione » (/bid., 3.22). Witt- genstein ha espresso con tutta la chiarezza deside- rabile il concetto del linguaggio (che non è altro che «la totalità delle proposizioni +, /bid., 4.001) come raffigurazione pittorica del mondo. « A prima vista, egli dice, non sembra che la proposizione, così come, ad es., è stampata sulla carta sia un’imagine della realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista un'imagine della musica nè la nostra scrittura fonetica (a let- tere) sembra un’imagine del nostro L. parlato. Eppure questi simboli si dimostrano anche nel senso ordinario del termine, imagini di ciò che rappresentano » (/bid., 4.011). Buona parte dell’em- pirismo logico e in generale della filosofia contem- poranea condivide o ha condiviso questa dottrina del L. come imagine logica del mondo. L'obiezione fondamentale contro di essa è stata bene espressa da Max Black: « Non c’è motivo che il L. debba 540 ‘ corrispondere * o © assomigliare * al ‘ mondo * più che non vi sia motivo che debba assomigliare al mondo il telescopio con cui l’astronomo lo studia » (Language and Philosophy, V, 4; trad. ital., pag. 173). È interessante constatare che all’altro estremo della filosofia contemporanea, cioè all’estremo me- tafisico o ultra-metafisico, si ha un concetto analogo del linguaggio. Heidegger non ammette certo la corrispondenza di termine a termine tra gli elementi del L. e gli elementi dell’essere; ma afferma tuttavia, con energia uguale a quella di Wittgenstein, il carat- tere apofantico del L. rispetto alla totalità dell’essere. In questo senso egli ha chiamato il L. «la casa dell’essere ». Ed ha aggiunto: « Discorrere di casa dell'essere non significa per nulla trasferire l’imma- gine della casa all’essere; un giorno ci sarà possibile, muovendo da un adeguato pensamento dell’es- senza dell'essere, giungere a comprendere che cosa significhino casa ed abitare (« Brief liber den Huma- nismus », in P/atos Lehre von der Wahrheit, 1947, pag. 112). In altri termini il L. è l'immediata rivela- zione dell'essere; e l’uomo accede all’essere attra- verso il linguaggio. 3° La terza dottrina fondamentale del L. è quella che lo interpreta come uno strumento, cioè come un prodotto di scelte ripetute e ripetibili. Questa dottrina è stata per la prima volta presentata da Platone. Di fronte alle due tesi opposte della con- venzionalità e della naturalità del L., Platone evita, nel Cratilo, di decidere in favore di una di esse. «A me piace, egli dice, che, per quanto è possibile, i nomi siano simiglianti alle cose; ma io temo che, per dirla con Ermogene, questa attrazione della simiglianza ci porti su di un terreno sdrucciolevole e che perciò sia necessario servirci anche di un mezzo un pò grossolano, cioè della convenzione, per renderci conto della giustezza dei nomi » (Crat., 435 c). I nomi dei numeri, ad es., difficilmente si potrebbero, secondo Platone, ritenere naturali nel senso di essere simili a ciò che indicano. Ma se nè la convenzione nè la natura cioè nè la dissimiglianza tra la parola e la cosa nè la simiglianza costituisce il significato, che cosa in ogni caso lo costituisce? L'uso. Dice Platone: « Se l’uso non è una conven- zione, sarebbe meglio dire che non la somiglianza è il modo in cui le parole significano ma piuttosto l’uso: questo infatti, a quanto sembra, può signi- ficare sia mediante la simiglianza sia mediante la dissimiglianza » (Crar., 435a-b). Platone ha qui espresso una tesi fondamentale della linguistica moderna: è soltanto l’uso che stabilisce o per dir meglio costituisce il significato delle parole. Ma questa tesi presuppone l’altra, del carattere strumen- tale del linguaggio: tesi, quest’ultima, che Platone ha espresso dicendo che il L. è uno strumento e che, come tutti gli strumenti, dev'essere adatto allo LINGUAGGIO scopo (Crar. 387 a). Da questo punto di vista, l’uso è la scelta ripetuta o convalidata che ha condotto a forgiare un determinato strumento linguistico; e come tutti gli altri strumenti, così pure gli strumenti linguistici possono riuscire più o meno perfetti e adeguati allo scopo. Si giustifica così quello che, secondo Platone, è il fondamentale teorema filosofico intorno al L.: la fallibilità del L. stesso, la possibi- lità di dire ciò che non è (Sof., 261 b). La caratte- ristica comune delle due dottrine precedenti è, come si è visto, la negazione di questo teorema. La tesi della convenzionalità esclude che il L. possa includere l’errore perchè una convenzione non può avere che lo stesso valore di un’altra. La tesi della naturalità esclude che il L. possa includere l’errore perchè deve riconoscere che il L. rappresenta, in ogni caso, ciò che è ed è quindi sempre nel vero. Entrambe le tesi escludono che il L. si possa giudi- care o che abbia un senso il giudizio sulla sua cor- rettezza. La tesi del L. come operazione, uso, scelta, include invece questa possibilità giacchè vede in esso il prodotto di operazioni dirette a costituire uno strumento efficace e considera come non infallibile la riuscita di queste operazioni. Il fondamento oggettivo di quella possibilità è che «il discorso nasce dalla unione reciproca delle specie » (.Sof. 259 d) e che le specie non sono nè tutte insieme unite nè tutte disgiunte, ma alcune possono unirsi e altre no. Le possibilità del L. sono pertanto limitate dalle possibilità di combinazione delle specie o forme dell’essere (Sof., 262 c). Questa posizione platonica veniva riprodotta da Leibniz. «Io so, egli diceva, che si suol dire nelle scuole e dappertutto che i significati delle parole sono arbitrari (ea instituto) ed è vero che non sono determinati da una necessità naturale, ma lo sono tuttavia per opera di ragioni naturali, in cui il caso ha la sua parte, e talvolta morali, in cui entra una scelta » (Nouv. Ess., III, 2, 1). Herder partiva dalla stessa considerazione preliminare e definiva come astrazione la scelta che si fa di una qualità dell’oggetto allo scopo di nominarlo. « L’uomo mette in atto la riflessione non solo quando percepisce tutte le qualità di un oggetto vividamente e con chiarezza ma anche quando può riconoscere una o più qualità come qualità distintive... E con quali mezzi effettua questo riconoscimento? Attra- verso la sua capacità di astrazione » (Werke, ed. Suphan, V, pag. 35). È in questa tradizione che Humboldt formulò quella dottrina del L. che doveva avere così vasta influenza sulla scienza moderna del linguaggio. La formazione degli strumenti linguistici è difatti, da questo punto di vista, la for- mazione di connessioni, di symploké (come diceva Platone) e pertanto il L. non è un complesso ato- mistico di parole, ma è discorso organizzato. LINGUAGGIO 541 Humboldt esprimeva chiaramente questo concetto. « Non possiamo concepire il L., egli diceva, come avente inizio dalla designazione degli oggetti me- diante le parole e come procedente in un secondo tempo alla organizzazione delle parole stesse. In realtà, il discorso non è composto da parole che lo precedono, ma al contrario le parole prendono origine dall’intero discorso» (« Einleitung zum Kawi-Werk », Werke, VII, 1, pag. 72 sgg.). Pertanto la comunicazione non è effettuata dalla singola parola ma dalle frasi e solo queste sono gli strumenti particolari di cui è formato il L. (/bid., pag. 169 sgg.). Queste idee hanno dominato e continuano a domi- nare la scienza del linguaggio. Esse si trovano incorporate negli stessi concetti di cui questa scienza si avvale, per es., nel concetto di fonema. Un fonema è «l’unità minima dotata di caratteristiche sonore distintive» ed è pertanto un’unità di significato non di suono (BLOOMFIELD, Language, 1933, 5.4). Ogni lingua sceglie i suoi fonemi; ma questa scelta non può essere qualificata nè come « casuale + o «arbitraria » e neppure come « naturale » o « ne- cessaria »: perchè una scelta condiziona o limita le altre e ogni gruppo o serie di esse è condizionata dall’esigenza dell’efficacia comunicativa del lin- guaggio. I fonemi possono pertanto essere ridotti a tipi che la scienza del L. si propone di determinare. Le determinazione di questi tipi fornisce il fonda- mento delle scelte che costituiscono le strutture fondamentali del L., e perciò spiega, in qualche misura, tali strutture, senza che ne giustifichi la perfezione o l’infallibilità. Nella linguistica contem- poranea, la concezione del L. come strumento è sostenuta specialmente dai funzionalisti, che vedono nel L. «uno strumento di comunicazione» per il quale l’esperienza umana si analizza in unità o monemi che hanno un contenuto semantico o una forma fonica: questa forma fonica a sua volta si articola in unità distinte e successive, « fonemi, la cui natura e i cui rapporti variano da lingua a lingua » (MAR- TINET, A Functional View of Language, 1962, cap. I). 4° La quarta concezione del L., che è quella che abbiamo chiamata del caso, è in realtà una specifi cazione della terza o per meglio dire è una prospet- tiva di studio aperta dalla terza concezione. Questa prospettiva è costituita dallo studio statistico del linguaggio. È noto che azioni che sono individual- mente mutevoli e imprevedibili presentano unifor- mità e costanza se considerate in gran numero. Non si può certo prevedere se una particolare per- sona si sposerà l'anno venturo, ma si può prevedere con sufficiente approssimazione il numero delle persone che si sposeranno l’anno venturo in una determinata comunità sulla base delle statistiche degli ultimi anni. Allo stesso modo si possono stu- diare le frequenze statistiche con la quale espressioni determinate ricorrono in una comunità sufficiente- mente vasta: cioè si possono fissare certe costanti statistiche del L. e assumerle come base per lo studio delle strutture linguistiche. Certamente tale indagine statistica non è indispensabile per lo studio di massa del linguaggio. C'è anche l’altro metodo, che è

quello dell’osservazione sociologica, per la quale l’osservatore linguistico può, partecipando alla vita di una comunità, descriverne gli usi linguistici. Questo è anzi il metodo prevalentemente seguito sin ora dai glottologi, i quali solo raramente, e quasi esclusivamente nei confronti di opere letterarie, hanno fatto ricorso al metodo statistico. Si può ricordare a questo proposito l’opera di Lutoslawski sullo stile di Platone (The Origin and Growth of Plato’s Logic, 1897) che riuscì a porre su nuova e più sicura base la cronologia degli scritti platonici. Ma non mancano oggi proposte di un ricorso siste- matico al metodo statistico in vista della soluzione di tutti i problemi della linguistica strutturale. Dice a questo proposito G. Herdan: « Se consideriamo la lingua come il totale dei segni linguistici più la loro probabilità di ricorrere nel discorso individuale e perciò come i vari modi nei quali l’evento segno può accadere insieme con le relative frequenze dei differenti segni nell’uso effettivo, la concezione risponde a tutte le esigenze di quella che si chiama la popolazione statistica di tali eventi o il loro uni- verso statistico. Ogni enunciato individuale (la parole nella terminologia di de Saussure) compie l’ufficio di campione di quella popolazione» (Language as Choice and Change, 1956, 1.3). Da questo punto di vista, se si esaminano testi differenti di una stessa lingua si trova per esempio che le frequenze relative con le quali un particolare fonema è stato usato dagli scrittori sono su per giù le stesse. Questo autorizza a considerarle come fluttuazioni della probabilità costante di quel particolare fonema in quel lin- guaggio. E questo significa che il parlatore o scrit- tore obbedisce a certe leggi del caso e che solo quando si considerano grandi masse di forme linguistiche si ha l’impressione di una determinazione causale nel loro uso. In altri termini avverrebbe qui ciò che accade nella fisica per la quale il determinismo macroscopico è soltanto l’effetto di una considera- zione di massa degli eventi microscopici. I sostenitori di questa concezione del L. affermano pertanto che ciò che dal punto di vista intuitivo appare nel L. come una relazione di causa ed effetto (la determi- nazione delle scelte linguistiche) è, dal punto di vista quantitativo, soltanto caso. La teoria pertanto spiega le differenze fra i testi non con l’intenzione dei parlanti o con un determinismo causale ma con le leggi statistiche del caso (HERDAN, op. cif., 1.4; C. E. SHanNON and W. WerAVER, The Mathematical Theory of Communication, Urbana, 1949). 542 LINGUAGGIO, Questo punto di vista da un lato ha reso pos- sibile la ricerca di una grammatica generativa cioè di un «sistema di regole che in qualche modo

esplicito e ben definito, assegnino descrizioni strut- turali agli enunciati» (CHomsky, Aspects of Theory of Syntax, 1965, pag. 8). Dall'altro lato, ha reso possibile, nello studio del L., l’uso dei modelli (v. MopetLo) che qualche volta sono considerati come costituenti la stessa realtà sistematica del L. (Sapir, Language, 1921) e talaltra come costrutti cioè come strutture ipotetiche opportunamente co- struite (REZvIN, Models of Language, 1966, $ 2). V. STRUTTURA; STRUTTURALISMO. LINGUAGGIO, ANALISI DEL. V. Empi- RISMO LOGICO. LINGUAGGIO CHIUSO. V. Lingcuaggio- OGGETTO. LINGUAGGIO FORMALIZZATO. V. Si- STEMA LOGISTICO. LINGUAGGIO-OGGETTO (ingl. Object- Language). Questa nozione nasce corrispondente- mente a quella di metalinguaggio (v.) ogni qualvolta si assume che un L. è «semanticamente chiuso » cioè non contiene, in aggiunta alle sue espressioni, anche i nomi di queste espressioni o termini (come «vero» e «falso +) che si riferiscano ad esse. In tal caso, infatti, bisogna distinguere il L. de/ quale si parla e che è l’argomento della discussione e il L. con il quale si parla e con il quale desideriamo costruire la definizione di verità per il primo lin- guaggio. Quest'ultimo è il metalinguaggio; il primo è il L.-oggetto. La distinzione tra L.-oggetto e metalinguaggio fu introdotta dai logici polacchi verso il 1919 e diffusa da Tarski (cfr. « The Semantic Conception of Truth », 1944, in Readings in Philo- sophical Analysis, 1949, pag. 60). La distinzione fu accettata da Carnap (Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 3). A volte tuttavia il L.-og- getto e il metalinguaggio coincidono come quando, ad es., si parla in italiano dell’italiano. La distin- zione vale soprattutto per i linguaggi formaliz- zati (v.). LIRICO (ingl. Lyric; franc. Lyrique; ted. Ly- risch). Aggettivo adoperato da Croce per specifi- care l’espressione artistica come espressione del sentimento. « Ciò che dà coerenza e unità all’intui- zione, dice Croce, è il sentimento: l’intuizione è veramente tale solo perchè rappresenta un senti- mento e solo da esso e sopra di esso può sor- gere... Etica e lirica, o dramma e lirica, sono sco- lastiche divisioni dell’indivisibile: l’arte è sempre lirica, cioè espressione etica e drammatica del sentimento » (Breviario di Estetica, 1912, in Nuovi saggi di estetica, pag. 28). La liricità costituisce per Croce il carattere soggettivo o romantico del- l’arte. ANALISI DEL LITIGIOSUS. Così fu chiamato il dilemma di Protagora e del suo scolaro Euatlo (AuLo GELLIO, Noct. Att., V, 10) (v. DILEMMA). LOCKISMO (ingl. Lockianism). La dottrina di Locke assunta come l’espressione tipica dell’empi- rismo (v.). LOGICA (ingl. Logic; franc. Logique; tedesco Logik). L'etimologia stessa (da >Aéyos, che signi- fica « parola», « proposizione», «discorso ?, ma anche « pensiero 1) è equivoca come è equivoca la nozione. In Aristotele, un gruppo di scritti del quale, raccolti nell’Organon, costituiscono la prima ampia trattazione di questa disciplina, manca qual- siasi parola per designarla. Agli inizi degli Anglitici, lo scritto più strettamente «logico » di questa rac- colta, Aristotele definisce, senza darle un nome, la scienza che si accinge a ricercare come scienza della dimostrazione e del sapere dimostrativo (Anal. Pr., I, 24a 10 sgg.) dove però, tra l’altro, il testo non è del tutto chiaro. I suoi oggetti sareb- bero quelli elencati nel seguito del medesimo passo: la proposizione (come enunciato apofantico, inse- rito in un discorso dimostrativo), i termini di essa (soggetto e predicato) e finalmente il sillogismo. Qui e in altri testi (principalmente nei 7opici e nella Rerorica) Aristotele distingue due tipi di di- scorso, dialettico e dimostrativo: il primo che muove dal problematico e dal probabile e termina necessariamente nel probabile; il secondo invece che muove dal vero e termina nel vero. Ma, a parte il valore conoscitivo della premessa, avverte che formalmente i due discorsi sono identici, consi- stono sempre nel sillogismo e nelle sue tipiche strutture. Ill termine Xoyiy) (sottinteso céeym) si trova invece negli scritti degli Stoici per indicare l’arte del discorso persuasivo in genere: si divide pertanto in reforica e dialettica, quest’ultima con- tenendo quello che sarà l’oggetto fondamentale della L., la dottrina del discorso dimostrativo e degli oggetti che vi si collegano (proposizione, ter- mini, sillogismo, ecc.). solo nei commentatori peripatetici e platonici di Aristotele, o negli scritti di eclettici che a questi si riferiscono (come Cice- rone o Galeno), gli uni e gli altri influenzati dalla terminologia degli Stoici, che il termine «L.», usato come stretto sinonimo di « Dialettica », viene introdotto come nome di quella dottrina che aveva il centro negli Analitici aristotelici, cioè la teoria del sillogismo e della dimostrazione. Boezio dà il nome di «L.» (anche qui, alternante con « Dia- lettica ») all’insieme delle dottrine contenute nel- l’Organon aristotelico, cui si viene ad aggiungere, come una specie di introduzione generale, l’/sagoge di Porfirio. E così per tutto il Medio Evo, per lo meno a partire dal x secolo, l’esposizione, lo studio e il commento dell’/sagoge porfiriana se- LOGICA guita dai libri dell’Organon (nell’ordine, divenuto tradizionale, di: Categorie, De Interpretatione, Primi Analitici, Secondi Analitici, Topici, Elenchi Sofistici), spesso con i commenti e nelle traduzioni o riduzioni boeziane, costituisce un’ars (una delle «sette arti liberali +) detta indifferentemente Dialettica o Lo- gica. La differenza che in essa si viene ad introdurre durante il sec. xl, tra ars verus e ars nova, non ha poi molto rilievo, trattandosi di una distinzione meramente storica e scolastica tra i libri di Porfirio e di Aristotele da tempo noti nella traduzione boeziana (/sagoge, Categorie, De Interpretatione) e quelli resisi noti più recentemente con la diffusione di nuove traduzioni latine dell’Organon. In so- stanza, l’insegnamento di L. alla fine dell'Età an- tica e nel Medio Evo comprendeva questi argomenti: 1° teoria delle quinque voces o predicabili (genere, specie, differenza, proprio, accidente); 2° teoria delle categorie o predicamenti (sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, posizione, avere, azione, passione); 3° dottrina delle proposizioni e regole della conversione; 4° dottrina del sillogismo categorico; 5° dottrina del sillogismo ipotetico; 6° dialettica: a) topica; 5) dottrina dei sofismi o fallaciae. Che poi si potevano raggruppare in tre parti: dottrina dei termini, dottrina delle proposi- zioni, dottrina del ragionamento (categorico oppure ipotetico, apodittico oppure dialettico). A_ queste parti di origine aristotelica o (tramite Boezio) stoica il pensiero medievale aggiunse alcune dot- trine che costituiscono un apporto originale alla tradizione L. dell’Occidente — la dottrina della designazione e denotazione (de proprietatibus ter- minorum), la dottrina dei segni logici e delle propo- sizioni molecolari (de syncategorematibus), la dot- trina dell’implicazione materiale (de consequentiis) — tutte dottrine appartenenti a quella parte della L. che oggi si chiama « semantica ». Per capire le trasformazioni intervenute, nel corso dello stesso Medio Evo, non solo nella tradizione dottrinaria, ma nello stesso ambito di oggetti co- perto dal nome « L. », bisogna tener presenti alcune considerazioni. Più preoccupato di creare la nuova disciplina che non di fondarla, e ancora più preoc- cupato di crearne le dottrine fondamentali in vista di applicazione a problemi filosofici più « concreti » (principalmente, alla metafisica e all'etica) che non di svolgerle e di esporle sistematicamente, Aristotele lasciò la L. non soltanto senza un nome proprio per designarla, ma anche equivoca nel suo status come disciplina e non ben determinata nei riguardi della sua materia subiecta. Che sono propriamente gli oggetti di cui si occupa la Logica? Entità reali, oppure pensieri, o forme del discorso? Il problema si pone già nella tarda Antichità. A proposito degli universali (categorie, generi, specie) che appaiono 543 costituire propriamente gli elementi in cui si ri- solve il discorso logico: gli universali sono sostanze reali, o no? Porfirio nell’/sagoge imposta il pro- blema, Boezio ne tenta una soluzione che tuttavia si aggira in circolo e risulta insoddisfacente; donde nel Medio Evo la disputa tra i realisti (Bernardo di Chartres, Guglielmo di Champeaux, Anselmo di Aosta, ecc.), i quali affermano l’esistenza reale degli universali e quindi fanno della L. una specie di Ontologia, e i nominalisti (Roscellino, Abelardo, più tardi Guglielmo d’Ockham), i quali negano la sussistenza ontologica degli universali. Abelardo di- scutendo la questione degli universali per primo arriva, attraverso un profondo commento al testo boeziano, a fissare il piano proprio della L.: questa è scientia sermocinalis; i termini della L. sono sermones, quindi parole, discorsi, non però meri suoni (flarus vocis, come sembra sostenesse Ro- scellino), bensì parole con una intenzione (intentio) significativa, vale a dire volte a significare cose, o meglio qualità, date nell’esperienza. Da allora si precisano nella L. medievale due correnti o metodi (viae): la via antiqua (o antiquorum) fedele alla tra- dizione realistica, quindi ontologizzante, e la via moderna (o modernorum), che sviluppa una L. « ter- ministica », ossia puramente sermocinalis, dove i termini del discorso sono assunti come tali, indi- pendentemente da ogni ipotesi metafisica sull’esi- stenza reale o meno del loro oggetto. E questo fu in sostanza il punto di vista che si impose nella L. a partire dal sec. xn e sul quale furono impostati i testi scolastici di questa disciplina in uso fino agli inizi dell’Età moderna, come le Summulae Logicales di Pietro Ispano (sec. xm), essendosi oramai diffusa la convinzione che la stessa questione degli universali appartenesse piuttosto alla meta- fisica e alla gnoseologia che non alla L. propria- mente detta, la quale rimane relativamente indiffe- rente alle eventuali risposte date a quel problema. Tuttavia si veniva a porre un’altra distinzione, la quale in parte è arrivata fino ai nostri giorni: quella per cui oggetto della L. sono fatti mentali (Duns Scoto, ma anche Tommaso d’Aquino e d’altra parte alcuni nominalisti), e quella per cui non sitrattapropriamente di atti mentali bensì di forme strutturali, intenzionalmente di- rette alla costituzione di contenuti semantici ma, come forme, indipendenti e da tali con- tenuti e dagli atti mentali in cui tali contenuti vengono appresi (Buridano e i suoi continuatori dei sec. XIV e Xv: Alberto di Sassonia, Nicola di Autre- court, Marsilio di Inghen, ecc.). Sarà quest’ultima posizione che, ripresa nell’età contemporanea da E. Husserl (e in modo meno chiaro da B. Russell e da L. Wittgenstein) determinerà l’attuale rinascita della concezione della L. come formale pura. 544 Ma intanto si veniva a porre un altro problema. La L. è scienza o arte? Cioè: è disciplina che, come, per es., le matematiche, espone rapporti obiettivi sussistenti tra i suoi oggetti (per es., tra le premesse del sillogismo e la sua conclusione), oppure una tecnica per ottenere discorsi corretti e veri? In genere i Logici medievali ritengono che sia una cosa e l’altra; ed anche come arte, sia in- sieme una precettistica (Logica docens) e un eser- cizio attivo di discorso o discussione controllato da quei precetti (Logica utens). La reazione umani- stica contro la Scolastica porta, nel campo della L., ad un’esaltazione di quest’ultimo aspetto e ad una aspra polemica contro il formalismo tradizionale (Coluccio Salutati, Lorenzo Valla, ecc.). Alla L. «inglese » (cioè terministica), la quale spesso nel- l’insegnamento e nell’esercizio scolastico si perdeva in sterili arguzie e cavilli disputatori (come già l’antica eristica ai tempi di Platone e di Aristotele), si contrappone una L.-retorica, per lo più di ispi- razione ciceroniana, come ricerca dei mezzi di persuasione mediante il discorso e insieme disci- plina euristica che guidi alla ricerca delle verità nel campo delle cose naturali ed umane (storiche ed etiche). Questo movimento di riforma della L. culmina nel ramismo (da Petrus Ramus, cioè Pierre de la Ramée). Accanto a questa corrente si deve ricordare anche l’altra, di ispirazione invece peri- patetica, fiorita a Padova nel sec. xvi e che ebbe i massimi esponenti nel Fracastoro e nello Zaba- rella, i quali accentrarono le loro ricerche sul pro- blema, appena accennato nella trattazione aristo- telica, dell’inferenza induttiva, delle sue difficoltà e dei suoi presupposti. Anche in questi logici (sebbene, naturalmente, in forma meno drastica che non nei retori umanisti) l’interesse per le strut- ture formali del discorso deduttivo è fortemente diminuito a vantaggio di una concezione pragma- tica e metodologica della scienza della logica. All’inizio del Seicento Francesco Bacone porta, in un certo senso, a compimento questo processo, tentando con il Novum Organon (il cui nome stesso è programmatico) una radicale riforma della L. con- cepita esclusivamente come metodologia scientifica generale. Scartata quasi per intero la tradizione L. peripatetico-scolastica (quella che aveva il suo centro nella teoria formale del sillogismo), anche nella L. umanistica (di Ramo, ecc.) scevera gli aspetti più propriamente metodologici, allo scopo di farne uno «strumento» per guidare e inqua- drare la ricerca scientifica. Con il che l’antica no- zione di « L.» appare interamente mutata. Il disinteresse per il formalismo logico, e in sua vece l'interesse per problemi gnoseologici, psicolo- gici e metodologici di una Logica utens si accen- tuano nel corso dell'Età moderna: si che nel corso LOGICA dei sec. XVII, XVII e XTX « L. » diviene il nome sco- lastico di una serie eterogenea di insegnamenti filosofici, ed i manuali di questa «materia» (di questo titolo) espongono varie e diverse cose: ac- canto alla sillogistica tradizionale (spesso però ri- dotta a pochi cenni e comunque conservata più per ragioni di tradizione che per un interesse reale), contengono annotazioni metodologiche, schizzi di teoria della conoscenza, analisi di certi concetti generali, ecc. Tipica a questo proposito è l’Arf de Penser dei maestri portorealisti, nota anche col nome di Logique de Port Royal, che rimase a lungo il testo più importante di questa disciplina e il modello più o meno fedelmente seguito e compen- diato dagli altri trattati. Tuttavia la « rinascita » della geometria euclidea, iniziatasi nel sec. xVI e proseguita trionfalmente (almeno per quanto ne concerne l'aspetto logico- formale) fino quasi ai nostri giorni, ripropone, insieme al modello del « rigore » euclideo, il problema di fissare le strutture discorsive da cui quello stesso rigore è costituito e risulta. Cartesio (Regulae ad directionem ingenii, Discours de la méthode) e poi Pascal (Esprit de géométrie e Art de persuader) cominciano ad estrapolare in forma di regole metodologiche alcuni aspetti di quel «rigore», riportandosi, pur in polemica con la sillogistica tradizionale, sul medesimo terreno di indagine delle forme strutturali di un linguaggio perfetto (qui, il linguaggio matematico), e quindi ripro- ponendo alcuni problemi fondamentali di L. for- male, quali il problema della definizione (nomi- nale e reale) e quello della validità della deduzione da assiomi. Contemporaneamente Hobbes, muo- vendo egli pure dall’euclidismo della nuova scienza (galileiana) della natura, compiva un passo decisivo verso la concezione della L. formale pura moderna. Hobbes infatti introduce la fecondissima idea del raziocinio come « calcolo logico +, cioè come combi- nazione e trasformazione di simboli secondo certe regole le quali già a Hobbes apparivano — ed in seguito appariranno sempre più — convenzionali (comunque poi si abbia ad intendere tale « conven- zionalità +). Appariva quindi nella storia del pensiero quel convenzionalismo che era destinato in seguito a dimostrarsi il punto di vista più efficace per togliere alla L. ogni presupposto dogmatico e meta- fisico, per liberarla dalle contaminazioni psicolo- gistiche (che continueranno ad incepparne lo svi- luppo fin quasi ai nostri giorni) e ad assestarla come disciplina della strutture formali del discorso « rigo- roso » secondo determinati modelli ideal-linguistici. Però il punto di vista convenzionalistico non era destinato ad agire immediatamente sul pensiero logico moderno, che dai filosofi precedentemente nominati prese piuttosto l’idea del calcolo logico LOGICA basato sulla distinzione delle idee in semplici e complesse, e sull’analogia (meramente formale) tra certe operazioni logiche e certe operazioni aritmetiche. Rappresentando i termini con simboli generici (per es., lettere dell’alfabeto: a, b, c, ..., x, Y, z; X, Y, Z; e simili) e le operazioni logiche con simboli vari (di solito presi in prestito dall’aritmetica: +, X, =; ecc.) si può tentare di svolgere una dot- trina matematica (formale) del discorso. Leibniz fece parecchi tentativi in questa direzione, tutti però infruttuosi e da lui stesso abbandonati; e tentativi del genere, analogamente infruttuosi, fu- rono compiuti in seno alla scuola leibniziana, per esempio da Lambert, Holland, Castillon. Ma più che in questi tentativi, forse sopravvalutati dai logici matematici del nostro secolo, l’importanza di Leibniz per la rinascita della L. dopo la crisi ini- ziatasi con l’Umanesimo, sta nell’idea, ampiamente sviluppata dai suoi seguaci tedeschi del Settecento (Lambert, Wolff, Crusius) di una «architettonica della ragione » (concepita non più psicologicamente, ma in modo tale da preludere al punto di vista «trascendentale » della filosofia posteriore) espli- cantesi nelle forme e strutture del discorso; « archi- tettonica » che costituirà l’oggetto proprio della Logica. L’eredità leibniziana è raccolta poi da Kant: il quale nella Logik distingue nettamente quest’ul- tima disciplina sia dalla psicologia (con la quale tendevano a confonderla gli Illuministî) sia dal- l’Ontologia (con la quale tendevano a confonderia alcuni leibniziani — in particolare il Crusius), affermandone il carattere di dottrina formale pura — non però del discorso, bensì del pensiero: donde le possibilità di ricaduta in una specie di psicologismo trascendentale, insite nel kantismo. Infatti, com'è noto, accanto alla L. formale pura Kant pone una L. trascendentale come dottrina delle funzioni pure della conoscenza; gli idealisti, in particolare Fichte e Hegel, accentuando tale interpretazione psicolo- gistico-trascendentale risolveranno entrambe le parti della L. kantiana nella parte trascendentale, inter- pretando poi quest’ultima come una specie di «metafisica della mente» o del « Pensiero». Da allora in vaste zone della filosofia contemporanea, tutte più o meno influenzate dall’idealismo, il termine « L. » ha perduto interamente il suo senso tradizionale per ritornare all’accezione illuministica di « filosofia del pensare » in genere. La fine dell’Ot- tocento presenta appunto questo quadro. La L. è intesa come una «teoria del pensiero » e quindi trattata con metodi naturalistici dai positivisti (per es. Sigwart, Wundt, ecc.), con metodi metafisico- trascendentali dagli idealisti. Edm. Husserl (Logische Untersuchungen, I, 1900-1901) ha criticato a fondo questo punto di vista e, riprendendo le idee di un logico boemo dimenticato, B. Bolzano (Wissen- 35 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 545 schaftslehre, 1838), ripropone l’idea della L. formale pura come dottrina delle proposizioni in sè (nella loro pura apofanticità L., indipendenti quindi sia dagli atti psicologici in cui vengono pensate, sia dalla realtà intorno a cui vertono) e della pura deduzione di proposizioni da proposizioni (in sè). Già in questa prima opera, ma più ancora nelle successive (particolarmente nella Formale und trans- zendentale Logik, 1928), Husserl riprende l’idea della ragione come « ragione formale », ossia pura architettonica del pensiero che si esplica storica- mente nell’attività scientifica da una parte, e nella riflessione logica dall’altra. La rinascita della L. formale pura, caratteristica dell’epoca contemporanea, doveva però avvenire mediante una ripresa e uno sviluppo, con idee più chiare e maggiore indipendenza da dottrine metafi- siche, degli abortiti tentativi leibniziani per costruire la nostra disciplina nella forma di calcolo simbolico. Quest'opera venne iniziata da un gruppo di filosofi e matematici inglesi nella metà del secolo scorso. G. Bentham, W. Hamilton, A. De Morgan fecero lo sforzo, storicamente decisivo, che doveva tra- sformare la L. in disciplina matematica, superando l’ostacolo contro il quale si erano arenati i tentativi di Leibniz: ostacolo costituito dal fatto che nella L. aristotelica le considerazioni quantitative venivano introdotte solo nei riguardi del soggetto della pro- posizione, ma non del predicato. Spetta soprattutto allo Hamilton la cosidetta « quantificazione del predicato », ossia l’analisi delle proposizioni secondo forme che introducono quantificatori (e tutti», « qualche +) non solo per il soggetto, ma anche per il predicato: per es., che interpreta una proposizione del tipo « tutti gli uomini sono mortali » come « tutti gli uomini sono alcuni mortali ». In realtà non si trattava di una mera «correzione» alla L. aristo- telica (nella quale l’omissione di quantificatori per il predicato non era affatto casuale), bensì dell’intro- duzione di un punto di vista nuovo, del punto di vista puramente esferssionale, per il quale i concetti sono considerati solo come classi o collezioni di oggetti, e le proposizioni vengono interpretate come inclusioni (o esclusioni) totali o parziali di classi in (da) classi («tutti gli uomini sono mortali», «la classe ‘ uomo * è inclusa nella classe ‘mortale ’ 1). In tal modo l’Analitica aristotelica (comprendente principalmente la teoria della conversione e quella del sillogismo) veniva trasformata in — veniva sostituita da — una specie di calcolo delle classi. Muovendo da questi studi, una serie di logici e matematici inglesi (G. Boole, Jevons, Venn, Whi- tehead) e alcuni continentali (Schròder, Poretsky, Couturat) crearono una disciplina più formalizzata e assai più indipendente dalla L. tradizionale, l’Algebra della Logica: un calcolo ambivalente 546 (interpretabile, cioè, come calcolo delle classi e come calcolo delle proposizioni), del tutto simile, nella sua forma esteriore, all’Algebra simbolica ordinaria, però con alcune peculiarità, per es., che in esso le equazioni possono assumere solo i valori 1 («universo di discorso » oppure « vero +) o 0 («classe vuota» oppure « falso +»); che a-a=aea+a=a;ecc. Sarà quest'Algebra della L. a fornire i concetti-base e molti materiali dottrinari alla Logica matematica, creata tra la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro da G. Frege, G. Peano e B. Russell, e cul- minante nei Principia Mathematica di B. Russell e A. N. Whitehead, pubblicati tra il 1900 e il 1913. In quest'opera la L. veniva ad essere costituita di due discipline fondamentali: il calcolo proposi- zionale, secondo le operazioni principali della ne- gazione, disgiunzione o affermazione alternativa, congiunzione o affermazione simultanea, implica- zione materiale; e il calcolo delle funzioni proposi- zionali (enunciati contenenti variabili); quest’ultimo dà origine alla considerazione di enunciati generali ed enunciati particolari o esistenziali, mediante gli operatori « per ogni x» ed «esiste almeno un x tale che» (risp. ‘(x) ”. e ‘(Hx) ’.). Da quest’ultima dottrina deriva quella dei simboli incompleti: de- scrizioni (tipo « il re di Francia +) e classi. Il calcolo delle classi quindi non è più una dottrina fondamen- tale della L., essendo derivabile da quello delle funzioni proposizionali: tuttavia, data la sua impor- tanza, molti logici contemporanei ne fanno ancora un capitolo a sè (e lo stesso si dica di quello delle relazioni). In seguito il Wittgenstein, nel 7ractasus, enuncerà una specie di seconda tesi estensionale per le proposizioni: distinguendo proposizioni ato- miche (cioè semplici) da molecolari (cioè complesse) affermerà che queste ultime dipendono tutte, per la loro verità o falsità, dalla verità o falsità delle componenti atomiche più le regole semantiche delle operazioni di composizione (per es., l’enunciato «poqg»è vero se, e solo se, almeno p o qè vero): donde un assetto del calcolo proposizionale sulla base di certi diagrammi logici meramente combina- tori. Partendo da questi, nel periodo tra le due guerre mondiali, alcuni logici, principalmente polacchi, tenteranno di elaborare delle Logiche polivalenti, nelle quali gli enunciati oltre 1 (« vero +) e 0 (« falso 1) possono assumere altri valori intermedi. Mancava ancora nei Principia, esclusivamente rivolti alla fondazione dell’Aritmetica dei numeri naturali, una trattazione della Logica modale, ossia un calcolo di valori modali come « possibile », « necessario », ecc., la quale verrà tentata in seguito da logici come il Lewis e il von Wright. La L. matematica aveva soprattutto due scopi: 1° di costituire la disciplina matematica fondamen- tale, di cui tutte le altre matematiche, secondo la LOGICA tesi /ogicistica, sostenuta appunto da Frege e da Russell, dovrebbero costituire dei rami, più o meno complessi, ma tuttavia pur sempre con quel mede- simo materiale concettuale e ad esso riducibili; e 2° di costituire (secondo il programma formalistico del Peano, sviluppato poi da D. Hilbert) metodi di assetto rigoroso e di controllo logico delle disci- pline matematiche vere e proprie. La L. diviene così uno strumento di analisi filosofica. Per opera di Russell e Wittgenstein essa viene a costituire una specie di linguaggio ideale o perfetto, o meglio, lo schema generale (perchè meramente simbo- lico) di un tale linguaggio, secondo il quale schema si dovrebbero poi costruire linguaggi, o frammenti di linguaggi, scientifici, in cui dovrebbero venir tradotti, e così analizzati secondo le strutture logiche di quel linguaggio, gli enunciati delle singole discipline sotto esame. Sotto questa luce, la L. simbolica russelliana non è più strettamente legata alle matematiche come tali: è la L. tout court, uno strumento di analisi scientifica in generale. E fu applicata anche all'analisi filosofica dallo stesso Russell, da Wittgenstein, da Wisdom, e in seguito (con un deciso abbandono dei presupposti metafisici dell’atomismo logico russelliano) dagli empiristi logici. Ma il programma russelliano, accentrato nella nozione di linguaggio ideale, venne sottoposto ad aspre critiche, principalmente, ma non esclusiva- mente, da parte degli « analisti dell’uso » di Oxford. D'altra parte in altri settori (per es., nella scuola tedesca discendente da Hilbert e da Scholze, e nella scuola polacca di Lukasiewicz e Tarski) gli interessi matematici e l'interesse per la L. stessa come disciplina strettamente matematica, rimasero pre- valenti. Di qui uno scindersi (per ora soltanto par- ziale) della L. in una serie di discipline sempre più formalizzate e matematizzate, con i problemi, assai complessi, inerenti alla formalizzazione di una di- sciplina matematica fondamentale (la metamate- matica), per la quale non si può usare di un altro linguaggio formalizzante senza cadere in un circolo: donde i problemi, affrontati da Gédel, da Hermes, da Tarski e in parte anche da Carnap. Invece in seno alla ex-scuola di Vienna, ora scuola di Chicago, e sotto l’influenza di altre correnti (neopositivismo inglese, pragmatismo americano) la logica si è venuta orientando, per opera soprattutto di Morris, di Carnap, di Hempel, in senso più analitico-filo- sofico, tendendo a diventare parte di una disci- plina assai più ampia, la semiotica o teoria generale dei segni (di cui la teoria del linguaggio è la parte più interessante), creata da Ch. W. Morris sotto la doppia spinta della sintassi logica carnapiana e della Logica deweyana. Abbandonato ogni presupposto coscienzialistico o mentalistico e ogni velleità me- LOGOS tafisica, la scienza del pensiero diviene scienza del linguaggio, ossia di un tipico e fondamentale com- portamento umano. L’analisi logica diviene analisi linguistica: ma quella che la tradizione considerava come dimensione « L. +» è soltanto una dimensione del linguaggio, o meglio due (come distinsero Morris e Carnap, con una distinzione largamente accettata, ma oggi anche assai controversa): la dimensione sintattica, per cui i segni che compongono il discorso {il linguaggio) si connettono tra loro secondo regole di formazione e trasformazione (derivazione) rela- tive alla sola forma del discorso stesso; e la dimen- sione semantica, per cui il discorso, e gli enunciati che lo compongono, può essere vero o falso, cioè porta su fatti ed eventi, e di conseguenza — conse- guenza però che molti filosofi, per es., i fenomenisti, contesterebbero — le parole che lo compongono portano su cose e qualità. Questi sono i due aspetti fondamentali, L. matematica e L. formale analitica, in cui si divide oggi la L., divisione tuttavia che non significa separazione in due diverse, e tanto meno antitetiche, discipline, bensì due diverse direzioni della ricerca logica, mosse da due tipi diversi di inte- resse teoretico. G. P. LOGICI, PRINCIPI. V. CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; FONDAMENTO; IDENTITÀ, PRINCIPIO DI; TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. LOGICISMO (ingl. Logicism; franc. Logicisme; ted. Logicismus). Con questo nome si usa designare una corrente di pensiero logico-matematico che tra la fine del secolo scorso e gli inizi del nostro ebbe i primi e massimi rappresentanti in R. Dedekind, G. Frege e B. Russell; e nel sec. xx ebbe molti seguaci, soprattutto (ma non esclusivamente) in seno al cosidetto «Circolo di Vienna + (Carnap). I pensatori di questo indirizzo sostengono che la matematica (pura) è un ramo della Logica, ossia che tutte le proposizioni delle matematiche pure (in particolare dell’Aritmetica, e quindi dell’Analisi) si possono enunciare con il solo vocabolario e la sola sintassi della Logica matematica, la quale diviene così la disciplina matematica per eccellenza. Con questa convinzione Dedekind, Frege e Russell avevano condotte le loro celebri analisi del con- cetto di « numero » (intero) appunto per definirlo soltanto mediante nozioni (simboli) della Logica matematica. Al L. si oppongono il formalismo e l’intuizionismo (v. MATEMATICA). G. P. LOGICO (ingl. Logica!; franc. Logique; te- desco Logisch). 1. Lo stesso che razionale. 2. Ciò che concerne un determinato tipo di logica. In questo senso si chiama oggi « verità lo- gica » la verità che consiste nell’enunciazione di una tautologia, conformemente al concetto della logica come studio delle tautologie (v. LoGICA; RAGIONE). 547 LOGISTICA (ingl. Logistic; franc. Logistique; ted. Logistik). Nell’Antichità (per es., nei frammenti del pitagorico Archita di Taranto) il termine « L. »era a volte usato per indicare l’aritmetica pura. Leibniz usò il termine come sinonimo di « calcolo logico » o «logica matematica »: e con questo significato di «logica simbolica +» 0 « matematica » venne proposto da Couturat e Lalande al Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi nel 1904. Ma, dopo aver avuto una certa fortuna, il termine « L. » è oggi raramente adoperato. 0. P. LOGISTICO, SISTEMA. V. SisreMma Lo- GISTICO. LOGOS (gr. x6y0c; lat. Verbum). La ragione in quanto 1° sostanza o causa del mondo; 2° per- sona divina. 1° La dottrina del L. come sostanza o causa del mondo è stata per la prima volta difesa da Eraclito. « Gli uomini sono ottusi nei confronti dell’essere del L., dice Eraclito, sia prima che dopo averne sentito parlare; e sembrano inesperti, sebbene tutto avvenga secondo il L.» (Fr. 1, Diels). Il L. è concepito da Eraclito come la legge stessa del mondo: « Tutte le leggi umane si alimentano di una sola legge divina: perchè questa domina tutto ciò che vuole e basta a tutto e prevale su tutto + (Fr. 114, Diels). Questa concezione fu fatta propria dagli Stoici, i quali videro nella ragione il « principio attivo » del mondo, che anima, ordina e guida il principio passivo di esso, che è la materia. «Il principio attivo, dicevano, è il L. che è nella materia cioè Dio: esso è eterno e attraverso la materia è l’artefice di ogni cosa » (Diog. L., VII, 134). Il L. così inteso, cioè come principio formativo del mondo, è identificato dagli Stoici col destino (/bid., VII, 149). Nello stesso senso Plotino afferma: « Il L. che agisce nella materia è un principio attivo naturale: non è pensiero nè visione ma potenza capace di modificare la materia, potenza che non conosce ma agisce come il sigillo che imprime la sua forma o come l’oggetto che riproduce il suo riflesso nell’acqua; come il cerchio viene dal centro, così la potenza vegetativa o generatrice riceve d’altronde la sua potenza produttiva cioè dalla parte principale dell’anima, la quale gliela comunica modificando l’anima generatrice che risiede nel tutto » (Enn., II, 3, 17). In tal senso il L. è lo stesso Intelletto divino in quanto ordinatore del mondo: « Dall’intelligenza emana il L. e ne emana sempre, fin tanto che l’Intelletto è presente in tutti gli esseri » (Ibid., III, 2, 2). Questa concezione è servita da modello a tutte le forme del panteismo moderno (v. Dio). 2° La dottrina del L. come ipostasi o persona divina trova la sua prima formulazione per opera di Filone di Alessandria. In questa dottrina, il L. 548 è un ente intermedio tra Dio e il mondo, il tra- mite della creazione divina. Dice Filone: « L'ombra di Dio è il suo L., servendosi del quale come di strumento, Dio creò il mondo. Quest’ombra, è quasi l’immagine derivata e il modello delle altre cose. Giacchè come Dio è il modello di quella sua immagine o ombra che è il L., così il L. è il modello delle altre cose » (Leg. A//., IHI, 31). Dal cristianesimo, il L. viene identificato col Cristo. Il prologo del- l’Evangelo di San Giovanni, accanto alle funzioni che già Filone attribuiva al L., aggiunge la deter- minazione propriamente cristiana: « Il L. si è fatto carne ed ha abitato tra noi» (Joann., I, 14). Nella sua elaborazione della teologia cristiana, i Padri della chiesa insistettero sui due punti seguenti: 1° sulla perfetta parità del Logos-Figlio col Dio- Padre; 2° sulla partecipazione del genere umano al L. stesso in quanto ragione: «Noi imparammo, dice ad es. Giustino, che Cristo è il primogenito di Dio e che è il L., del quale partecipa tutto il genere umano» (Apol. Prima, 46). Contro gli Gnostici seguaci di Valentino, per i quali il L. è l’ultimo degli Eoni, che, per essere più vicino al mondo, è quello destinato a formarlo, Ireneo afferma l’uguaglianza di essenza e di dignità tra Dio padre e il L., come di entrambi e dello Spirito Santo (Adv. haeres., II, 13, 8). Su questi concetti dovevano fondarsi le formulazioni dogmatiche del sec. Iv, specialmente le decisioni del Concilio di Nicea (325) intorno ai due dogmi fondamentali del cristianesimo, la Trinità e l’Incarnazione. Ma nel frattempo la nozione di L. continuò ad oscillare tra l’interpre- tazione che esige la perfetta parità del L. con Dio e quella che invece stabilisce una certa differenza gerarchica fra le due ipostasi. La dottrina di Origene, che fu il primo grande sistema di filosofia cristiana (m secolo), inclina piuttosto verso la seconda inter- pretazione. Origene afferma che si può dire del L., ma non di Dio, che è l’essere degli esseri, la sostanza delle sostanze, l’idea delle idee: Dio è al di là di tutte queste cose (De Princ., VI, 64). Pertanto, il L. è coeterno con il Padre, il quale non sarebbe tale se non generasse il Figlio, ma non è eterno nello stesso senso. Dio è la vita e il Figlio riceve la vita dal Padre. Il Padre è Iddio il figlio è Dio (In Joann., II, 1-2). Come già si è detto, la Chiesa, nelle sue assisi conciliari, si pronunciò contro questa inter- pretazione, che rimase l’appannaggio di tentativi eretici, più volte rinnovati nel corso della sua storia. La dottrina del L. è rimasta una dottrina religiosa. I filosofi hanno fatto ricorso ad essa solo quando hanno voluto dare una veste religiosa alla loro dottrina. Così ha fatto Fichte nella seconda fase del suo pensiero. Nella Introduzione alla vita beata (1806) Fichte, ricorrendo al prologo dell’Evangelo di San Giovanni, vuol mostrare l’accordo del suo LOQUACITÀ idealismo con il Cristianesimo; e pertanto riconosce nel L. ciò che egli chiama l’Esistenza o la Rivela- zione di Dio (al di là della quale rimane l’Essere di Dio): cioè il Sapere, l’Io, l’Immagine, di cui la vita divina è a fondamento (Werke, V, pag. 475). LOQUACITÀ (gr. dSoreoxta; lat. Loquacitas; ingl. Loquacity; franc. Loquacité; ted. Redseligkeit). Secondo Aristotele, uno dei caratteri delle persone anziane che sono più interessate al passato che al futuro (che ormai promette poco per loro) e perciò godono di rievocarlo parlando (Rer., II, 13, 1390 a 6). LOTTA PER LA VITA. V. SELEZIONE NA- TURALE. LUCE (lat. Lux; ingl. Ligh:; franc. Lumiere; ted. Lich). Una tradizione filosofica, che pro- babilmente ha la sua lontana origine nella reli- gione persiana che adorò in Mitra lo « Spirito della L.» (cfr. Cumont, Oriental Religions in Roman Paganism; trad. ingl., pag. 155), fa della L. una realtà privilegiata di natura incorporea, tramite della comunicazione fra le regioni superiori del mondo e l’uomo. Le caratteristiche salienti di questa dottrina sono le seguenti: 1° la L. è una realtà superiore privilegiata, che è Dio stesso o è da Dio; 2° la L. è incorporea e fa da tramite tra mondo incorporeo e mondo corporeo; 3° la L. è la forma generale (cioè l’essenza o la natura) delle cose cor- poree. Le prime due tesi sono di carattere religioso e di schietta derivazione orientale. La terza è pro- priamente filosofica e rimane caratteristica del- l’agostinismo medievale. Nella filosofia occidentale, la metafisica della luce è introdotta da Parmenide. « Poichè tutte le cose si dicono luce e notte e poichè luce e notte sono pre- senti a questa o a quella cosa, secondo le loro possibilità, il tutto è pieno di L. e insieme di invi- sibile tenebra e L. e tenebra sono eguali perchè nessuna prevale sull’altra » (Fr. 9). La sostanzia- lizzazione della L. si affaccia frequentemente nelle Enneadi di Plotino dove talora non è facile distin- guere la L. come metafora dalla L. come sostanza (per es., Enn., V, 3, 9; IV, 3, 17). Si affaccia con tutta chiarezza nelle speculazioni degli Gnostici che sono di diretta derivazione manichea: « Prima che l’uni- verso visibile avesse origine sussistevano due supremi princìpi: l’uno buono, l’altro perverso. La dimora del primo, del Padre della grandezza, era nella regione della luce. Egli si moltiplicava in cinque ipostasi: l’Intelletto, la Ragione, il Pensiero, la Riflessione, la Volontà» (BuoNAIUTI, Frammenti gnostici, 1923, pag. 55). In uno dei libri della Kabala, il Zohar, la L. viene intesa come la sostanza primitiva che appare talvolta come cielo; e pertanto come l’elemento nel quale gli altri si dissolveranno alla fine dei tempi (cfr. SfRouva, La XKabbale, LUME Parigi, 1957, pag. 346 sgg.). Questa dottrina passò nella filosofia ebraica del Medio Evo e da essa nella scolastica cristiana. In questa, essa fu caratteristica dell'indirizzo agostiniano, difeso specialmente dai Francescani. Nel sec. xm, Roberto Grossatesta affermava che tutti i corpi hanno una forma comune, la quale si unisce alla materia prima, anteriormente alla specificazione di essa nei vari elementi. Questa forma prima è la luce. « La L., egli dice, si diffonde da sè in tutte le direzioni, in modo che da un punto luminoso viene immediatamente generata una sfera di L. grande quanto si vuole, a meno che non le faccia ostacolo qualche corpo opaco. Dall'altro lato la corporeità è ciò che ha per conseguenza necessaria

l'estensione della materia nelle tre dimensioni » (De inchoatione formarum, ed. Baur, 51-52). Ro- berto identificava così la diffusione istantanea della L. in tutte le direzioni con la tridimensionalità dello spazio, e quindi la L. con lo spazio. Quasi negli stessi termini Bonaventura da Bagnorea affermava che la L. non è un corpo, ma la forma di tutti i corpi. «La L. è la forma sostanziale di ogni corpo naturale». Tutti i corpi ne partecipano più o meno e a seconda che ne partecipano hanno maggiore o minore dignità e valore nella gerarchia degli esseri. Essa è il principio della formazione generale dei corpi; la loro formazione speciale è dovuta al so- praggiungere di altre forme, elementari o miste (In Sent., II, d. 13, d. 2, q. 1-2). Nella seconda metà dello stesso xm secolo la Perspectiva di Witelo espone idee molto simili. « L'azione divina si esplica nel mondo per il tramite della luce. Le sostanze inferiori ricevono da quelle superiori la L. derivata dalla fonte della divina bontà; in generale l’essere di ogni cosa deriva dall’essere divino, ogni intellig- gibilità deriva dall’intelletto divino e ogni vitalità dalla vita divina. Di tutte queste influenze il principio il mezzo e il fine è la L. divina dalla quale, per la quale e alla quale tutte le cose sono disposte» (Perspectiva, ed. Bacumker, pag. 127-28). L’ottica che studia le leggi della diffusione della L. diventa così l’intera fisica in quanto l’intero mondo fisico è determinato dalla diffusione della L. (/bid., pa- gina 131). Forse l’ultima manifestazione di questa fisica o metafisica della L. si può vedere nel progetto di Cartesio di descrivere il mondo dal punto di vista della luce. «Come i pittori non potendo rap- presentare nel quadro tutte le diverse facce di un corpo ne scelgono una delle principali, che mettono verso la L., e situando in ombra le altre le fanno apparire solo quel tanto che si può vederle; così temendo di non poter mettere nel mio discorso [cioè nel progettato libro sul Mondo che poi non pubblicò] tutto ciò che avevo nel pensiero, progettai di esporre molto ampiamente soltanto ciò che pensavo della L.; poi, in questa occasione, 549 di aggiungere qualcosa sul sole e le stelle fisse perchè essa deriva quasi tutta da queste fonti; sui cieli perchè la trasmettono; sui pianeti, sulle comete e la terra perchè la riflettono; in particolare su tutti i corpi che sono sulla terra perchè sono o colorati o trasparenti o luminosi; e infine sull'uomo perchè ne è lo spettatore » (Discours, V). LULLIANA, ARTE (lat. Ars /ulliana; in- glese Lullic Art; franc. Art lullien; ted. Lullische Kunst). Propriamente l’ars magna di Raimondo Lullo (1235-1315) cioè la scienza universale che insegna a combinare i termini per la scoperta sin- tetica dei princìpi delle scienze. A differenza della logica aristotelica, l’ars magna vuol essere un pro- cedimento inventivo che non si ferma a risolvere le verità conosciute ma procede a scoprire le nuove. La nozione di quest’arte che trovò nel Rinasci- mento seguaci entusiasti, tra i quali Agrippa, Bo- villo e Bruno, fu ripresa da Leibniz che la chiamò Caratteristica generale (v. CARATTERISTICA). LUME (gr. péyyos; lat. Lumen; ingl. Light; franc. Lumiére; ted. Licht). Il criterio direttivo del pensiero e della condotta dell’uomo, in quanto paragonato a un L. proveniente dall’alto o dal- l'esterno. Aristotele paragonava alla luce, che fa venire all’atto i colori che nell’oscurità sono soltanto in potenza, l’azione dell’intelletto attivo sull’animo umano (De An., III, 5, 430 a 15). Gli Stoici parlavano della facoltà sensibile e della rappresentazione catalettica come di un « lume della natura +. « Come lume di natura per il riconoscimento della verità, essi dicevano, ci è stata data la facoltà sensibile e la rappresentazione che attraverso di essa si genera » (Sesto E., Adv. Math., VII, 259). E Cicerone diceva: «La natura ci ha dato minuscole fiammelle e noi, ben presto guastati da cattivi costumi e da false opinioni, le spegniamo in modo da far scomparire totalmente il L. della natura» (7usc., III, 1, 2). Plotino a sua volta parla del Bene come della « luce di cui l’intelletto è illuminato » (Enn., VI, 7, 24). Ma solamente in Sant'Agostino la nozione di L. divenne fondamentale e solo attraverso l’opera di lui si diffuse e rimase viva nella tradizione occiden- tale. Sant'Agostino riconosce agli Stoici il merito di aver visto in Dio « il L. delle menti » (De Civ. Dei, VIII, 7). Questo L. è la condizione di ogni conoscenza vera e di ogni comunicazione di verità. La luce della verità che, partendo da Dio, illumina diretta- mente l’anima e la guida, è il concetto centrale della filosofia agostiniana. « Anche gli ignoranti, dice Sant'Agostino, quando sono bene interrogati ri- spondono correttamente intorno ad alcune disci- pline perchè è presente ad essi, nella misura in cui lo possono ricevere, il L. della ragione eterna, nel quale essi vedono le verità immutabili » (Retractiones, I, 4, 4). Questo significa che il funzionamento na- 550 turale dell’intelletto umano esige la presenza della luce divina e che pertanto la conoscenza della verità è, per l’uomo, la visione della verità stessa in Dio, resa possibile, ogni volta, dalla diretta illuminazione divina. Ai primordi della Scolastica questa dottrina veniva riprodotta da Scoto Eriugena (De divis. nat., II, 23). Ma nel corso ulteriore della Scolastica essa doveva diventare uno dei massimi punti di dissenso tra la scolastica agostiniana e la scolastica aristotelica. Tale dissenso si può vedere tipicamente espresso nelle posizioni di San Bonaventura e di San Tommaso. San Bonaventura si rifà alle parole di Agostino «il quale a chiare lettere e con ragioni dimostra che la mente, nella sua conoscenza certa, dev'essere regolata da regole immutabili ed eterne, non attraverso una sua disposizione (habitus) ma direttamente da queste regole stesse, che sono al di sopra di essa, nella Verità eterna » (De Scientia Christi, q. 4). San Tommaso, dal suo canto, ammette che «tutto ciò che si sa con certezza, deriva del L. della ragione che per opera divina è innato interiormente all’uomo » (De Ver., q. 11, a. 1, ad 13). Ma interpreta aristotelicamente questo L. come la conoscenza innata dei primi princìpi indimostrabili «che si conoscono per il L. dell’intelletto agente » (Contra Gent., III, 46). In altri termini, la conoscenza umana della verità non è visione in Dio o illumina- zione diretta da parte di Dio: ma l’uso di una « forma » che Dio ha comunicato alla mente umana e che costituisce pertanto il «L. naturale » di essa (S. 7h., I, g.106, a. 1). San Tommaso distingue da questo L. naturale, il L. di gloria (/umen gloriae) che rende « deiforme » la creatura razionale cioè la rende capace di vedere l’essenza divina e nega che il L. di gloria possa essere una disposizione naturale dell’uomo (/bid., I, q. 12, a. 5); e che possa esserlo il lumen gratiae cioè la grazia giustificante (/bid., I, q.106, a. 1). Il significato agostiniano del concetto di L. cioè quello per il quale significa l'illuminazione continua da parte di Dio si conserva nelle dottrine che, nel mondo moderno e contemporaneo, si rifanno all’agostinismo. Sono le dottrine per le quali la conoscenza è una « visione in Dio». Tale essa era per Malebranche (Recherche de la vérité, III, 2, 6), per Rosmini (Nuovo Saggio, $ 396) e per Gioberti (Introd. allo studio della fil., II, pag. 175). Dal- l’altro lato, cioè lungo la linea della seconda in- terpretazione, il L. naturale finisce per perdere ogni connessione teologica. Il titolo che Cartesio dette a un dialogo lasciato incompiuto, che doveva riassumere la sua filosofia, dimostra il modo in cui egli intendeva la nozione in esame: « Ricerca della verità con il L. naturale che, da sè, e senza il soccorso della religione e della filosofia, deter- mina le opinioni che deve avere un onest’uomo LUOGHI su tutte le cose che possono occupare il suo pen- siero e penetra fino nei segreti delle scienze più curiose ». Il L. naturale, inteso così, è quel « buon senso o ragione » che nei primi righi del Discorso del metodo è detta «la cosa del mondo meglio distribuita »; e di cui nei Principi di filosofia (I, 30) si dice: « La facoltà di conoscere che ci è stata data e che noi chiamiamo L. naturale non percepisce che oggetti veri, in quanto li appercepisce cioè in quanto li conosce chiaramente e distintamente ». Leibniz a sua volta afferma che «il L. naturale suppone una conoscenza distinta » (Nouv. Ess., I, 1, 21) e Cristiano Wolff intendeva per «L. del- l’anima » la «chiarezza delle percezioni » (Psychol. empirica, $ 35). In questi usi, l’espressione non ha più nulla del significato tradizionale, cioè di una luce che venga dal di fuori o dall’alto a investire la mente umana e a guidarla. Il L. naturale è qui soltanto la chiarezza del pensiero umano. Leibniz dice parlando della massima « Bisogna seguire la gioia ed evitare la tristezza » che: « Si tratta di un principio innato, ma che non fa parte del L. na- turale, giacchè non lo si conosce affatto in modo luminoso » (Nouv. Ess., I, 2, 1). Il significato che l’espressione «i L.» assunse nel periodo illumini- stico è proprio questo chiarito da Leibniz. I L. sono la chiarezza della critica razionale portata in tutti i campi possibili del sapere e assunta come cri- terio direttivo del pensiero e della condotta del- l’uomo. LUOGHI (gr. r6ror; lat. Loci; ingl. Topics; franc. Lieux; ted. Òrter). Secondo Aristotele, sono gli oggetti propri dei ragionamenti dialettici e re- torici cioè quegli « argomenti che sono comuni all’etica, alla politica, alla fisica e a molte altre discipline diverse, come, per es., l'argomento del più e del meno» (Rer., I, 2, 1358 a 10). Questi sarebbero i L. comuni. Ma vi sono anche, secondo Aristotele, L. speciali 0 propri cioè argomenti co- stituiti da proposizioni che appartengono, per es., alla fisica ma su cui è impossibile fondare propo- sizioni concernenti l’etica o reciprocamente. I L. co- muni non hanno oggetto specifico perciò non ac- crescono la conoscenza delle cose; i L. propri invece, specialmente se utilizzano proposizioni op- portunamente scelte, contribuiscono alla conoscenza delle scienze speciali (Res., I, 2, i358a 21). I retori latini sottolinearono l’importanza che la ricerca degli argomenti e specialmente degli argo- menti (o L.) comuni — che non accrescono il sapere ma sono strumenti di persuasione — ha per l’arte oratoria (CICERONE, Top., 2, 7; De orat., II, 36, 152; QuinTILIANO, /nst., V, 10, 20). E at- traverso le opere logiche di Boezio (De diff. to- picis, I; P.L., 64°, col. 1174) la nozione passò nella logica medievale. Pietro Ispano definisce il LUOGO L. come «la sede di un argomento o ciò da cui si trae un argomento conveniente alla questione pro- posta » (Summul. Log., 5.06). Come si è detto, la parte della logica che studia i L. è la 7opica. Cicerone la interpretò come la parte inventiva della logica stessa cioè come quella che escogita gli argomenti utili a convincere, più che limitarsi a giudicarli dal punto di vista della loro validità. E rimproverò agli Stoici di aver coltivata la sola dialettica e di aver trascurato la Topica (Top., 2, 6). Ma in realtà non c’è cenno in Aristotele della capacità inventiva della Topica: la quale è piuttosto intesa come una ricerca diretta a ricondurre sotto un numero ristretto di capi (che sono appunto i L.) gli argomenti che ricorrono in più scienze o in più parti di una stessa scienza. Comunque, anche la credenza nel carattere inven- tivo della Topica passò nella tradizione (attraverso Boezio, De diff. top., 1; P. L., 64°, col. 1173); ed anzi, quando si cominciò a riconoscere il carattere improduttivo della logica aristotelica, le si con- trappose l’importanza della Topica come arte del- l'invenzione. Così fece Pietro Ramo nelle sue Dialecticae Institutiones (1543); e così fece Vico che nel De antiquissima Italorum Sapientia (1710) con- siderò la Topica come l’arte propria dell'ingegno che è la facoltà dell’invenzione. Ancora nella Lo- gica Hamburgensis (1638) di Jungius c'è un’am- plissima trattazione dei L. logici che è però con- tenuta sotto il titolo della Dialettica (libro V). Ma la Logica di Portoreale (1662) affermava già la scarsa utilità dello studio dei Topici: « Per formare gli uomini in un’eloquenza giudiziosa e solida, scrisse Arnauld, sarebbe utile insegnare loro a ta- cere più che a parlare, cioè a sopprimere e ad eliminare i pensieri bassi, comuni e falsi, piuttosto che a produrre, come fanno, un ammasso confuso di ragionamenti buoni e cattivi dei quali si riem- piono libri e discorsi » (Logigue, cap. 17). Lo studio dei L. di questo genere serve perciò soltanto a riconoscerli ed a evitarli. La Logica di Portoreale ne enumerava tre specie: quelli grammaticali, quelli logici e quelli metafisici (Zbid., cap. 18). In seguito, lo studio dei L. ha cessato di essere parte integrante della logica. Kant generalizza il concetto di luogo logico intendendo per esso «ogni concetto, ogni titolo sotto il quale si raccolgono molte cono- scenze » e parla di una «Topica trascendentale » che ha per oggetto «la determinazione del posto che spetta nella sensibilità o nel concetto puro a ciascun concetto, secondo la diversità del suo uso » (Cri. R. Pura, Anal. dei princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). In questo 551 senso la Topica coincide con la « Dottrina degli elementi» della stessa Critica della Ragion Pura. LUOGO (gr. r6rog; lat. Locus; ingl. Place; franc. Lieu; ted. Ort). La situazione di un corpo nello spazio. Vi sono due dottrine del L.: 1° quella aristotelica per la quale il L. è il limite che circonda il corpo ed è quindi una realtà per suo conto; 2° quella moderna, per la quale il L. è un certo rapporto di un corpo con gli altri. 1° Secondo Aristotele, il L. è «il primo limite immobile che abbraccia un corpo» (Fis., IV, 4, 212a 20): o in altri termini è ciò che abbraccia o circonda immediatamente il corpo. In questo senso si dice che un corpo è nell’aria perchè l’aria circonda il corpo ed è ad immediato contatto con esso. Questa concezione rimane lungo tutta la filo- sofia medievale ed è ripetuta sostanzialmente anche dai critici della fisica aristotelica, per es., da Ockham (Summulae in libros Phys., IV, 20; Quodl., I, 4). In base a questa concezione esistono «luoghi na- turali », che sono quelli nei quali un corpo natural- mente sta o a cui ritorna quando ne è allontanato: « Una cosa, dice Aristotele, si muove o natural- mente o non naturalmente e i due movimenti sono determinati dai luoghi propri e dai luoghi estranei. Un L. nel quale una cosa rimane o verso la quale si muove non per sua natura, dev'essere il L. na- turale di qualche altra cosa, come l’esperienza dimostra » (De Cael., I, 7, 276 a 11). L'intera fisica aristotelica poggia su questo teorema (v. FISICA). 2° La teoria aristotelica dei luoghi veniva sot- toposta a una critica decisiva da Galilei nei Dialoghi dei massimi sistemi (1632, Giornata seconda). Car- tesio esprimeva, qualche anno più tardi, con tutta chiarezza, il concetto di L. che emergeva dalle nuove impostazioni della scienza. « Le parole ‘ L. * e ‘spazio ’, egli diceva, non significano nulla che differisca veramente dai corpi che diciamo essere in qualche L. e indicano solamente la loro grandezza e figura e come essi sono situati fra gli altri corpi. Bisogna infatti, per determinare questa situazione, riferirsi ad altri corpi che consideriamo immobili; ma potendo tali corpi esser diversi, possiamo dire che una stessa cosa, nello stesso tempo, muta e non muta di L.» (Princ. Phil., II, 13). E Cartesio porta qui l’esempio dell’uomo che è seduto in una barca che si allontana dalla riva: il L. di questo uomo non muta rispetto alla barca ma muta ri- spetto alla riva. Con queste osservazioni, che espri- mono la relatività del movimento (relatività gali leiana), era raggiunto il concetto moderno di L. come riferimento di un corpo ad un altro corpo assunto come sistema di riferimento. M MACHIAVELLISMO (ingl. Machiavellianism; franc. Machiavélisme; ted. Machiavelismus). La dottrina politica di Machiavelli o il princìpio nel quale essa viene convenzionalmente riassunta. La dottrina politica di Machiavelli ha esplici- tamente lo scopo di additare la via attraverso la quale le comunità politiche in generale (ed in parti- colare quella italiana) possono rinnovarsi conservan- dosi o conservarsi rinnovandosi. Tale via è il ritorno ai principi, conformemente alla concezione che il Rinascimento (v.) ha del rinnovamento dell’uomo in ogni campo. Il ritorno ai princìpi di una comunità

politica suppone due condizioni e cioè: 1° che le origini storiche di una comunità vengano chiara- mente riconosciute, il che può essere fatto solo da una indagine storica obbiettiva; 2° che siano riconosciute nella loro verità effettuale le condizioni a partire dalle quali o attraverso le quali il ritorno dev'essere realizzato. L’oggettività storiografica e il realismo politico costituiscono così i due capisaldi del machiavellismo originario. Il secondo di essi fa di Machiavelli il fondatore della scienza empirica della politica cioè di una disciplina empirica che studi le regole dell’arte di governo senz’altra preoccupazione che l'efficacia di tali regole. Della dottrina politica di Machiavelli fanno parte integrante il concetto della fortuna cioè del caso che con la sua imprevedi- bilità costituisce sempre una condizione dell'attività politica; e il connesso concetto dell’impegno poli- tico per il quale gli uomini « debbono bene non si abbandonare mai» nel senso che non devono di- sperare né rinunziare all’azione ma inserirsi attiva- mente negli eventi la cui riuscita, data la presenza del caso, non è mai predeterminata (Sulla dottrina di Machiavelli e le sue interpretazioni v. G. Sasso, N. M., Storia del suo pensiero politico, Napoli, 1958). Per machiavellismo s'intende anche il principio nel quale convenzionalmente, a partire dal sec. xVII, si è riassunta la dottrina di Machiavelli: cioè che «il fine giustifica i mezzi». Tale massima tuttavia non è stata formulata da Machiavelli, che non considera lo stato come fine assoluto e non lo con- sidera dotato di un'esistenza superiore a quella del- l’individuo (nel senso in cui farà, per es., HEGEL, Fil. del dir., $ 337). Machiavelli inoltre orientava tutte le sue simpatie verso l’onestà e la lealtà nella vita civile e politica e pertanto ammirava gli stati che si reggevano o si erano retti su queste virtù, come, ad es., quelli dei Romani e degli Svizzeri. Tuttavia il suo scopo era, come si è detto, di for- mulare, sulla base dell’esperienza politica antica e nuova, regole di governo efficaci; ed egli considerò tale efficacia indipendente dal carattere morale o immorale delle regole stesse. Dall’altro lato, egli si rendeva conto che la morale e la religione possono essere, e talvolta sono, forze politiche che condizio- nano, come tutte le altre forze, l’attività politica e la sua riuscita; come pure vedeva che talvolta ciò non accade e che l’azione politica riesce efficace anche esercitandosi in senso contrario alle leggi della morale. Poichè questo caso era il più frequente nella società (specialmente italiana e francese) del suo tempo, la quale perciò è da lui detta « corrotta », e poichè Machiavelli ha soprattutto in vista l’appli- cazione delle sue regole politiche alla società italiana per la costituzione di uno stato unificato, si spiega la sua insistenza su certe massime immorali di con- dotta politica: insistenza che è malamente espressa o generalizzata nella massima che il fine giustifica i mezzi. Questa massima fu in realtà propria dalla morale gesuitica. Hegel la cita nella forma che essa aveva ricevuta dal padre gesuita Busenbaum MAGIA (1602-68): « Quando il fine è lecito, anche i mezzi sono leciti » (Medulla theologiae moralis, IV, 3, 2); e la giustifica sia formalmente cioè come espressione tautologica, sia sostanzialmente, come « coscienza indeterminata della dialettica dell’elemento positivo + (Fil. del dir., $ 140, d); cfr. sul M., F. MEINECKE, Die Idee der Staatsràson in der neueren Geschichte, 1925; trad. ingl., Machiavellianism, 1957). MACROCOSMO. V. Microcosmo. MADRE (gr. pipe) Secondo Platone, la madre dell’universo è la materia amorfa, come il padre di esso è il modello eterno al quale il De- miurgo lo crea simile. « Questa madre e ricettrice di tutto ciò che di visibile e di sensibile viene creato, non dobbiamo chiamarla nè terra nè aria nè fuoco nè acqua nè altra cosa che nasca da queste o da cui queste nascano; ma piuttosto una specie invisibile e amorfa, capace di accogliere tutto, partecipe del- l’intellegibile e difficile a concepirsi» (Tim., 51 a-b). MAGIA (gr. pay) tex; lat. Magia; ingl. Ma- gic; franc. Magie; ted. Magie). La scienza che pre- tende di dominare le forze naturali con gli stessi pro- cedimenti con cui si assoggettano gli esseri animati. Il presupposto fondamentale della M. è pertanto l’animismo e la migliore definizione di essa è quella che è stata data da Reinach come «la strategia dell’animismo » (Mythes, Cultes et Religions, II, Introd., pag. XV). Strumenti di questa strategia sono gli incantesimi, gli esorcismi, i filtri, i talismani, medianti i quali il mago comunica con le forze naturali o celestiali o infernali e le persuade a obbe- dirgli. Il carattere violento o subdolo delle opera- zioni con cui si persuadono le forze naturali a obbe- dire, è un altro contrassegno della M.: che è una strategia d'assalto, che vuol conquistare d’un colpo solo: a differenza di quella che sarà la strategia della scienza moderna, la quale tende a una graduale conquista della natura, e prescinde dai mezzi vio- lenti o subdoli. La M. è di origine orientale e si diffuse in occi- dente nel periodo greco-romano (cfr. F. CUMONT, Oriental Religions in Roman Paganism, cap. VID. Essa circolò più o meno nascostamente nel Medio Evo per ritornare alla piena luce nel Rinascimento: durante il quale fu spesso considerata come il com- pimento della filosofia naturale cioè come quella parte di essa che consente all’uomo di agire sulla natura e di dominarla. Così, per es., la considerava Pico della Mirandola (De MHominis Dignitate, fol. 136 v); e così la consideravano tutti i naturalisti del rinascimento. Giovanni Reuchlin, Cornelio Agrippa, Teufrasto Paracelso, Gerolamo Fracastoro, Gerolamo Cardano, Giovambattista della Porta mirano tutti ugualmente a togliere alla M. il carattere diabolico che le era stato attribuito nel Medio Evo e a farne la parte pratica della filosofia. Della Porta 553 distinse nettamente dalla M. diabolica, che si avvale delle azioni degli spiriti immondi, la M. naturale che non oltrepassa i limiti delle cause naturali e le cui operazioni appaiono meravigliose solo perchè ne rimane nascosto il procedimento (Magia natu- ralis, 1558, I, 1). Questa distinzione veniva ripetuta da Campanella; che distingueva, inoltre, anche una M. divina che opera in virtù della grazia divina, come quella di Mosè e degli altri profeti (De/ senso delle cose e della M., 1604, IV, 12). Sulla M. nel Rinascimento, cfr. GARIN, Medioevo e Rinascimento, 1954, cap. III. Il progredire della scienza, eliminando il presup- posto della M., cioè l’animismo, toglieva ogni base a quella strategia d’assalto in cui essa consisteva. Francesco Bacone, che pure è l’erede maggiore di quella esigenza operativa che la M. rappresentava, paragona la M. stessa ai romanzi cavallereschi del ciclo di Artù; e la ritiene derivare dalla metafisica che indaga le forme; mentre dalla fisica, che è la ricerca delle cause efficienti e materiali nasce, come scienza operativa, la meccanica (De augm. scient, III, 5). Pertanto, nel mondo moderno, la M. è sparita dall’orizzonte della scienza e della filosofia. Per ciò che riguarda quest’ultima, costituisce un’eccezione l’opera di Novalis che, nel periodo romantico, difese un «idealismo magico» per il quale è M. buona parte delle più comuni attività umane. Dice, per es., Novalis: « L'uso attivo degli organi non è altro che pensiero magico, tauma- turgico, o uso arbitrario del mondo dei corpi; infatti la volontà non è altro che magia, energica capacità di pensiero» (Fragmente, $ 1731). Egli esprimeva così il principio del suo idealismo magico: «Il più gran mago sarebbe quello che sapesse anche incantare se stesso sino al punto che le sue stesse magie gli apparissero fenomeni estranei e autonomi. E non potrebbe essere questo il caso nostro?» (/bid., $ 1744). Ma sparita dal mondo della filosofia e della scienza, la M. rimane come una delle categorie interpretative della sociologia e della psicologia. Sulla funzione della M. nell’uomo primitivo, così si esprime Ma- linowski: «La M. fornisce all’uomo primitivo un numero di atti e di credenze rituali già fatti, una tecnica mentale e pratica definita la quale serve a superare gli ostacoli pericolosi in ogni importante impresa e in ogni situazione critica... La sua funzione è quella di ritualizzare l’ottimismo dell’uomo, di rafforzare la sua fede nella vittoria della speranza sulla paura» (Magic Science and Religion, ed. Anchor Book, pag. 90). Ma l’atteggiamento primitivo non è solo dell’uomo primitivo: l’uomo civilizzato ricade in esso in determinate circostanze che vanno dalla mancanza di tecniche adatte per affrontare situazioni difficili alle incapacità di trovare a utiliz- 554 zare queste tecniche. Credenze magiche sono perciò frequenti nella vita di ogni giorno, anche se spesso non confessate. Comportamento magico è stato chiamato, non senza ragione, da Sartre la reazione emotiva patologica che talora è alla base dei disturbi mentali (v. Emozione). D'altronde Jung ha visto l’origine della M. nell’idea di una Energia univer- sale che egli ritiene latente nell’inconscio di tutto il genere umano e che si identifica con l’idea di Dio (Psicologia dell’inconscio, 1942, cap. 5). E Levi- Strauss ha stabilito un’analogia tra la cura magica e la psicanalisi (v.) perchè entrambe rendono pos- sibile, attraverso la presa di coscienza dei conflitti interni del malato, un’esperienza specifica nella quale i conflitti possono svilupparsi e manifestarsi libera- mente (Antropologie $tructurale, 1958, pag. 217 sgg.). MAGNANIMITÀ (gr. usyadopuyla; lat. Ma- gnanimitas; ingl. Magnanimity; franc. Magnanimité; ted. Grossmuth). Secondo Aristotele, la virtù che consiste nel desiderare grandi onori e nell’esserne degni. Aristotele dà molto rilievo a questa virtù, in quanto accompagna e « rende più grandi » tutte le altre. «Chi è degno di piccole cose, egli dice, e si considera degno di esse sarà moderato ma non magnanimo; la M. è indisgiungibile della gran- dezza come la bellezza da un grande corpo, giacchè i piccoli corpi saranno graziosi e proporzionati ma non belli » (Er. Nic., IV, 3, 1123 b 7). L’insistenza su questa virtù è il segno della persistenza in Ari- stotele dell’etica aristocratica arcaica (cfr. JAEGER, Paideia, I, cap. I; trad. ital., I, pag. 43 sgg.). Car- tesio considerava la M. identica con la generosità e la identificava con la virtù che consiste nel giu- dicare se stesso secondo il proprio valore e nel- l’esser privo di gelosia e d’invidia verso gli altri (Passions de l’ame, art. 156-61). MAIEUTICA (gr. porvi) réxw; ingl. Maieu- tics; franc. Maleutique; ted. Mdàeutik). L'arte della levatrice alla quale Socrate, nel Teefeto platonico, paragona il suo insegnamento, in quanto consiste nel portare alla luce le conoscenze che si formano nella mente dei suoi allievi. «Io ho questo in comune con le levatrici, dice Socrate: sono sterile di sapienza; e ciò che molti da anni mi rimproverano, che interrogo gli altri ma non rispondo mai da me perchè non ho alcun pensiero saggio da esporre, è rimprovero giusto » (Teer., 150 c.). MALE (gr. 76 xaxéy; lat. Malum; ingl. Evil; franc. Mal; ted. Bòse). Questo termine ha una varietà di significati altrettanto estesa del termine bene (v.) di cui è correlativo. Dal punto di vista filosofico, tuttavia, questa varietà si lascia ricondurre alle due interpretazioni fondamentali che sono state date della nozione nel corso della storia della filo- sofia, e che sono: 1° la nozione metafisica del M. secondo la quale esso è a) il non-essere, oppure MAGNANIMITÀ b) una dualità nell’essere; 2° la nozione soggetti- vistica, secondo la quale il M. è l'oggetto di una appetizione negativa o di un giudizio negativo. 1° La concezione metafisica del M. consiste o nel considerarlo come il non essere di fronte all’es- sere che è il bene; o nel considerarlo come una dualità dell’essere, come un dissidio o un contrasto interno all'essere stesso. a) La concezione del M. come non essere si affaccia negli Stoici ed è chiaramente formulata dai Neoplatonici. Ritenendo che l’esistenza dei mali condiziona quella dei beni sicchè, ad es., non ci sarebbe giustizia se non ci fossero offese, non ci sarebbe operosità se non ci fosse ignavia, non ci sarebbe verità se non ci fosse menzogna, e così via, gli Stoici e in particolare Crisippo ritenevano che i cosidetti mali non sono veramente tali perchè sono necessari all’ordine e all’economia dell’universo (GeLLIO, Noct. Att., VII, 1). Marco Aurelio espri- meva perfettamente questo punto di vista dicendo: t Viene mutilata e compromessa l’integrità del tutto, ogni volta che tu tagli via una particella qualsiasi dell’ordine e della continuità dell'universo... E vera- mente tagli via, per quanto è in tuo potere, qual- cosa dell’universo ogni volta che ti rammarichi dell’accaduto; in un certo senso condanni a morte così facendo, nel tuo desiderio, l’intero universo + (Ric., V, 8). Poichè non si può dover amare una cosa e considerarla cattiva, il punto di vista stoico equivale a considerare buona ogni cosa esistente e a ridurre il M. al non essere. Questa riduzione diventa esplicita nel neoplatonismo. Plotino dice: « Se tali sono gli enti e tale è ciò che è al di là degli enti [cioè Dio] il M. non esiste nè in quelli nè in questo, giacchè sia l'uno che l’altro è bene. Resta dunque che, se esista, esiste in ciò che non è; e che sia una specie di non-essere e si trovi perciò nelle cose mescolate di non-essere o partecipanti al non-essere » (Enn., I, 8, 3). E in questo senso Plotino identifica il male con la materia: la materia è il non essere «Il M. non consiste in una deficienza parziale ma in una deficienza totale: la cosa che manca parzialmente del bene non è cattiva e può anche essere perfetta nel suo genere. Ma quando c’è deficienza totale, come nella materia, allora c’è il vero M., che non ha alcuna parte di bene. La materia non ha neppure l’essere che le renderebbe possibile partecipare del bene: si può dire che essa sia solo in un senso equivoco; in verità essa è lo stesso non essere » (/bid., I, 8, 5). L’identificazione del male col non essere diventa tradizionale nella filosofia cristiana. Essa viene ripresa da Clemente Alessandrino (Strom., IV, 13), da Origene (De Princ., I, 109) e da S. Agostino che la diffonde nel mondo occidentale. Dice S. Ago- stino: « Nessuna natura è M. e questo nome non MALE indica altro che la privazione del bene » (De Civ. Dei, XI, 22). Pertanto « Tutte le cose sono buone e il male non è sostanza perchè se fosse sostanza sa- rebbe bene» (Conf., VII, 12). Boezio a sua volta affermava: «Il male è niente, perchè non lo può fare Colui che può ogni cosa» (Phil. cons., III, 12). La scolastica è altrettanto unanime su questo punto. S. Anselmo ribadiva la dottrina del M. come non essere negli stessi termini di S. Agostino (De casu diaboli, 12-16). La scolastica giudaica ripete, con Maimonide, la stessa tesi (Guide des égarés III, 10); e la ripetono nella scolastica cristiana, sia gli agostiniani, ceme Alessandro di Hales (S. 7A., I, q. 18,9) sia gli aristotelici come Alberto Magno (S. 77%., I, q. 27, 1) e S. Tommaso. « Poichè bene, dice S. Tommaso, è tutto ciò che è appetibile e poichè ogni natura appetisce il suo essere e la sua perfezione è necessario dire che l’essere e la perfezione di qualsiasi natura è essen- zialmente bene. Non può essere perciò che « M.» significhi un qualche essere o una qualche forma o natura; e rimane che significhi soltanto l’assenza del bene » (S. 77., I, q. 48, a. 1). AIM. si può riferire il verbo essere solo nel senso della «verità della proposizione » cioè nel senso in cui si dice che «la cecità è nell'occhio »; un senso che non implica in alcun modo la realtà (enritas rei) (Ibid., I, q. 48, a. 2). Dopo le osservazioni scettiche di Pietro Bayle sulla compatibilità del M. (in tutte Ie sue forme) con l’onnipotenza divina e con la perfezione del- l'universo, la teodicea di Leibniz è fondata sulla dottrina tradizionale del M. come negazione del bene. «I Platonici, S. Agostino e gli Scolastici, dice Leibniz, hanno avuto ragione di dire che Dio è la causa materiale del M., che consiste nella sua parte positiva, e non della forma di esso, che consiste nella privazione; come si può dire che la corrente è la causa materiale del ritardo cioè della velocità di un battello, senza essere causa della forma del ritardo stesso cioè dei limiti di questa velocità + (Théod., I, 30). Le considerazioni di Leibniz a questo proposito sono rimaste a fondamento di ogni ulte- riore tentativo di feodicea (v.). D’altra parte, la nullità del M. è rimasta costantemente la tesi propria delle dottrine che identificano l’essere col bene o, in termini moderni, con la razionalità o il dover essere: come accade in Hegel per il quale il M., inteso come volontà cattiva, è « la nullità assoluta » di questa volontà (Enc., $ 512). Dal punto di vista di un idealismo assoluto come quello di Hegel e della sua scuola, si ripresenta il problema tradizionale della teodicea, quello della possibilità del M.; e l’unica soluzione disponibile è ancora quella tra- dizionale, la nullità del M. stesso. Diceva Gentile: « Non errore e verità, ma errore nella verità, come 555 suo contenuto che si risolve nella forma; nè M. e bene; ma M. onde il bene si nutre nel suo assoluto formalismo » (Teoria generale dello spirito, XVI, 10). A sua volta Croce affermava: «Il M., quando è reale non esiste se non nel bene, che gli contrasta e lo vince e quindi non esiste come fatto positivo: quando invece esiste come fatto positivo è, non già un M., ma un bene (e a sua volta ha come ombra il M. contro cui lotta e vince) ». (Fil. della pratica, 1909, pag. 139). Non essere o nullità o irrealtà del M. è la tesi che viene costantemente riscoperta come nuova ogni volta che, in una forma qualsiasi, viene posta l’identità fra essere e bene. b) La seconda concezione metafisica del M. è quella che lo considera come un contrasto interno dell’essere, cioè come la lotta tra due princìpi. Si tratta di una concezione per la quale il dominio dell’essere è diviso in due campi opposti, dominati da due princìpi antagonisti. Il modello di questa concezione è la religione persiana, cioè la religione di Zarathustra o Zoroastro che contrapponeva alla divinità (Ahura Mazda o Ormazd) un’antidivinità (Ahriman) che è il principio del M. (cfr. PETTAZZONI, La religione di Zaratustra, Bologna, 1921; Du- CHESNE-GUILLEMIN, Ormazd et Ahriman, Parigi, 1953). Questa dottrina costituisce una soluzione estremamente semplice del problema del M.: una so- luzione che, mentre limita la potenza delle divinità, non viene meno al monoteismo perchè concepisce la potenza limitante come una anti-divinità. Se- condo questa soluzione, il M. è reale allo stesso titolo del bene; e come tale ha una sua propria causa, antitetica a quella del bene. La dottrina evita la riduzione, così poco convincente per l’uomo comune, del M. al nulla; e fa appello allo stesso tipo di giustificazione cui ricorre la negazione meta- fisica della realtà del male. Il dualismo persiano ritornava nel culto di Mitra: personaggio che, secondo la testimonianza di Plutarco, occupava un posto intermediario tra il dominio della luce proprio di Ahura Mazda e il dominio delle tenebre proprio di Ahriman (De Iside et Osiride, 46-47; cfr. F. Cu- MONT, Ze Mysteries of Mithra, cap. I). Ritornava altresì, con qualche attenuazione, in qualche setta gnostica dei primi secoli dell’era volgare e special- mente in quella di Basilide (cfr. BuonaIUTI, Fram- menti gnostici, 1923, pag. 42 sgg.) nonchè nella setta dei Manichei contro i quali conduce una delle sue principali polemiche S. Agostino (v. MANI- CHEISMO). Ma la filosofia non ha mai accettata questa soluzione del problema del M. nella forma semplice in cui l’aveva originariamente formulata la religione persiana. Essa, cioè, non ha mai ammessa la separazione dei due princìpi. Quando ha accettato quella soluzione l’ha modificata nel senso di includere entrambi i princìpi in Dio: cioè di considerare sia il 556 principio del bene sia il principio del M. come uniti in Dio, proprio in virtù del loro contrasto. Nel sec. xv Jakob Bòhme, insistendo sulla presenza, in tutti gli aspetti della realtà, di due princìpi in lotta, che sono poi il bene e il M., attribuiva la causa di questa lotta alla presenza in Dio dei due princìpi antagonisti che egli indicava con vari nomi: lo spirito e la natura, l'amore e l'ira, l’essere e il fondamento, ecc. Questi due princìpi sarebbero in Dio strettamente avvinti in una specie di lotta amorosa. « La divinità, diceva Bòhme, non se ne sta tranquilla, ma le sue potenze operano senza tregua e lottano amorosamente, si muovono e combattono: come accade a due creature che giocano in grande amore l’una con l’altra e si abbracciano e si stringono; talora l’una è vinta, talora l’altra; ma il vincitore subito si arresta e lascia che l’altra riprenda il suo giuoco » (Aurora oder die Morgenròte im Aufgane, 1634, cap. XI, $ 49). In altri termini il dualismo del bene e del M. è in Dio stesso e in Dio stesso i due princìpi com- battono una lotta «amorosa» nella quale nes- suno è definitivamente sconfitto. Quella sottocor- rente del pensiero filosofico che si chiama reosofia (v.) ha sempre fatta propria questa soluzione del pro- blema del male. La quale nel periodo romantico, ritornava nelle Ricerche sull’essenza della libertà umana (1809) di Schelling: in cui Schelling soste- neva proprio come Bòhme, che in Dio, c’è non solo l’essere, ma a fondamento di questo essere un substrato o natura che è distinto da lui ed è un’oscura brama, un inconscio desiderio di essere, di uscire dall’oscurità e di raggiungere la luce di- vina (Werke, I, VIII, pag. 359). Schelling tuttavia affermava che, essendo questi due princìpi stret- tamente uniti in Dio, non c’è in lui distinzione tra bene e M.: con la separazione di quei prin- cìpi nell'uomo nasce invece la possibilità del bene e del M. e del loro contrasto (/bid., pag. 364). Ancora in tempi relativamente recenti, e in più diretto riferimento alla religione persiana, una solu- zione simile del problema del M. veniva riproposta da G.T. Fechner: il quale ammetteva in Dio la stessa dualità tra la volontà razionale e gli istinti oscuri che è riscontrabile nell'uomo (Zend-Avesta, 5° ediz., 1922, pag. 244-245). Prospettate meno espli- citamente, si possono scorgere soluzioni analoghe in alcune forme dello spiritualismo e nella psicana- lisi (v.). Ma si tratta spesso di soluzioni di carat- tere religioso o teosofico, che difficilmente possono essere considerate come vere e proprie spiegazioni filosofiche. 2° La seconda concezione fondamentale del M. è quella che lo considera, non già come una realtà o irrealtà, ma come l’oggetto negativo del desiderio o in generale del giudizio di valutazione. Questa MALE RADICALE concezione è ammessa da tutti coloro che difendono quella che è stata chiamata la teoria soggettivistica del bene. Hobbes, Spinoza, Locke, condividono questa teoria (v. per i relativi testi l’art. BENE); alla quale Kant ha dato la sua forma più generale. Egli dice: «I soli oggetti di una ragion pratica sono il bene ed il male. Col primo s’intende un og- getto necessario della facoltà di desiderare, col se- condo un oggetto necessario della facoltà di abbor- rire, ma entrambi secondo il solo principio della

ragione » (Crit. R. Prat., cap. 2). Kant insisteva soprattutto nel sottrarre le determinazioni di bene e M. (in tedesco Gut e Bose) alla sfera della « facoltà di desiderare inferiore » alla quale appartengono il piacevole e il doloroso (in tedesco Wohl e Ùbel). «Ciò che noi dobbiamo chiamar bene, egli diceva, dev'essere un oggetto della facoltà di desiderare a giudizio di ogni uomo ragionevole; il M. dev'essere un oggetto di avversione agli occhi di ognuno: sicchè per tali giudizi occorre, oltre il senso, anche la ragione» (/bid.). Tuttavia Kant era d'accordo con la teoria soggettivistica nel ritenere che il bene e il M. non possono essere determinati indipendente- mente dalla facoltà di desiderare dell’uomo: il che vuol dire che essi non sono realtà o irrealtà per loro conto. La filosofia moderna e contemporanea con- divide questo indirizzo. Il M. è, per essa, semplice- mente un disvalore cioè l’oggetto di un giudizio negativo di valore; e implica pertanto il riferimento alla regola o norma sul quale il giudizio di valore si fonda (v. VALORE). Così, ad es., un terremoto è un M. se distrugge vite umane o fonti di sussistenza o di benessere per l’uomo, ma non lo è se non fa questo perchè in tal caso non contrasta col desiderio o con l’esigenza umana della sopravvivenza e del benessere. Comunque si voglia considerare tale esigenza, essa si esprime in regole o norme, con le quali possono entrare in contrasto sia avvenimenti naturali sia comportamenti umani. Tali avvenimenti o comportamenti sono detti mali, non perchè abbiano uno speciale status metafisico, ma sul fondamento di quel contrasto. Proprio da questo punto di vista Kant interpretava lo stesso « M. radicale » della natura umana come una massima che è fondamento del comportamento di tutti gli esseri razionali finiti: cioè come la massima di allontanarsi, occasionalmente, dalla legge morale (Religion, I, 3). Tale massima non esprime altro che la possibilità di contravvenire alle norme morali che sono proprie dell’uomo; e pertanto definisce il M. radicale come la possibilità generale del disva- lore nella condotta dell’uomo. MALE RADICALE. V. MALE. MALTHUSIANESIMO (ingl. Malthusianism; franc. Malthusianisme; ted. Malthusianismus). 1. La dottrina economica di Thomas Robert Malthus MASSIMA (1766-1834) esposta nel Saggio sulla popolazione (1798): nella quale veniva riconosciuta in linea di principio la diversa proporzione di accrescimento tra la popolazione e i mezzi di sussistenza e consi- derati i mezzi per evitare lo squilibrio tra l’una e gli altri. Malthus teneva presente lo sviluppo del Nord America inglese e osservava che qui la popola- zione tendeva a crescere secondo una progressione geometrica, raddoppiandosi ogni venticinque anni, mentre i mezzi di sussistenza tendevano a crescere secondo una progressione aritmetica. Secondo Malthus, lo squilibrio che così si determina fa inter- venire i mezzi repressivi (la miseria, il vizio e altri flagelli sociali) che falciano la popolazione; e non c'è altro modo di evitare l’azione di tali mezzi se non sostituendoli con mezzi preventivi, che consistono nel controllo delle nascite. Malthus vedeva perciò l’unico rimedio ai mali sociali nell’astensione dal matrimonio delle persone che non sono in grado di provvedere al mantenimento dei figli, raccoman- dando nello stesso tempo «una condotta stretta- mente morale durante il periodo di questa asten- sione ». Questa dottrina ha posto un problema che rimane vivo e attuale nella società contemporanea, tenuto conto dell'enorme proporzione di crescita della popolazione mondiale. 2. In generale, la teoria e la pratica del controllo volontario delle nascite. MANICHEISMO (ingl. Manicheism; fran- cese Manichéisme; ted. Manichaismus). La dottrina del sacerdote persiano Mani (/ar. Manichaeus) vissuto nel mi secolo che si proclamò il Paracleto cioè colui che doveva portare la dottrina cristiana alla sua perfezione. Il M. è una mescolanza fanta- stica di elementi gnostici, cristiani e orientali, sul fondamento del dualismo della religione di Zara- tustra. Ammette infatti due princìpi, uno del bene o principio della luce, l’altro del male o principio delle tenebre. Questi princìpi sono rappresentati nell'uomo da due anime, una corporea che è quella del male, l'altra luminosa che è quella del bene. La prevalenza dell’anima luminosa si può raggiun- gere con una ascesi particolare che consiste in un triplice sigillo: astenersi dal cibo animale e dai discorsi impuri (signaculum oris); astenersi dalla proprietà e dal lavoro (signaculum manus); aste- nersi dal matrimonio e dal concubinaggio (signa- culum sinus). Il M. fu molto diffuso in Oriente e in Occidente e qui durò sino al sec. vu. Il grande avversario del M. fu S. Agostino che dedicò alla cunfutazione di esso un numeroso gruppo di opere. Cfr. H. C. PuEcH, Le manichéisme: Son fondateur, Sa doctrine, Parigi, 1949. MANIERA (ingl. Manner; franc. Manière; ted. Manier). A partire dal xvm secolo la parola è stata adoperata per designare una forma parti- 557 colare, di minor pregio, dell’espressione artistica; e precisamente quella che è il prodotto di una ricerca fallita di originalità. Dice Kant: « La M. è una specie di contraffazione la quale consiste nell’imitazione dell’originalità in generale e quindi nell’allontanarsi per quanto possibile dagli imitatori senza però possedere il talento di essere per se stesso esemplare... Il prezioso, il ricercato, l’affettato, che vogliono distinguersi dal comune, ma riescono senz’anima, somigliano ai modi di chi sta ad ascoltare se stesso o si muove come se fosse sulla scena » (Crif. Giud., $ 49). Nello stesso senso, Hegel definiva la M. come quella forma d’arte nella quale l’artista, invece di conservare all’arte la sua « oggettività » cerca di assorbirla nella sua individualità « parti- colare e accidentale »; e la contrapponeva perciò all’originalità, che è la «vera oggettività» del- l’opera d’arte (Vorlesungen iber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 391 sgg.). MANIFESTAZIONE (ingl. Manifestation; franc. Manifestation; ted. Manifestation). Lo stesso che espressione, rivelazione o fenomeno (v.), nel senso positivo di quest’ultimo termine. MANTICA (gr. pavtix) rex; ingl. Mantic; franc. Mantique; ted. Mantik). La visione anticipata o la scienza delle cose future. Così definisce la M. Cicerone (De Divin., I, 1) il quale riporta e discute soprattutto il modo in cui tale scienza era intesa dagli Stoici. Per essi, la M. è fondata sull’ordine necessario del mondo, cioè sul destino: giacchè appunto interpretando quell’ordine, si possono anticipare gli eventi che esso determina. « Gli Stoici, dice Cicerone, affermano che soltanto il sapiente può essere indovino. Crisippo definisce la M. con queste parole: la facoltà di conoscere, di vedere e spiegare i segni mediante i quali gli Dei manifestano la loro volontà agli uomini» (De Divin., II, 63, 130). MARXISMO. V. CoMunISMO, MATERIALISMO DIALETTICO, MATERIALISMO STORICO. MASSIMA (lat. Maxima propositio; ingl. Maxim; franc. Maxime; ted. Maxime). Questo termine ha due significati diversi: 1° proposizione evidente; 2° regola di condotta. 1° Il significato di proposizione evidente è il più antico e si trova stabilito a proposito dalla teoria dei luoghi logici. Boezio chiamò +« proposizione massima » la proposizione indimostrabile ma evi- dente (In top. Cicer., I; De diff. topicis, II; in P.L., 64°, col. 1151, 1185) e questo significato rimase fissato nella logica medievale. « La proposizione massima, dice Pietro Ispano, è la proposizione di cui non ce n’è un’altra più nota o più primitiva, come ad es., ‘Ogni tutto è maggiore della sua parte ’» (Summ. Log., 5.07). Più tardi, si accentuò talvolta il carattere di probabilità della massima; per essa Jungius intende infatti «un enunciato universale 558 massimamente probabile » (Log. Hamburgensis, 1638, V, 3, 5). In questo significato che è sinonimo di assioma usavano la parola sia Locke (Saggio, IV, 12, 1) che Leibniz (Nouv. Ess., IV, 12, 6). Questo significato è ora in disuso giacchè per esso viene costantemente adoperato il termine assioma. 2° Furono i moralisti francesi della seconda metà del ’600 i primi ad adoperare il termine per significare una regola morale. La Rochefoucauld intitolava la raccolta dei suoi pensieri Reffexions ou Sentences et Maximes Morales, (1665); e Kant accoglieva quest’uso, intendendo per M. una regola di condotta in generale. Egli distingueva la M. come « principio soggettivo della volontà » dalla legge che è il principio oggettivo, cioè universale, della condotta. L'individuo può assumere come sua M. sia la legge sia un’altra regola qualsiasi e perfino quella di allontanarsi dalla legge stessa (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I, 1, nota; Crit. R. Prat., $ 1, Def.; Religion, I, Oss.). Questo secondo significato del termine è il solo rimasto. MATEMATICA (gr. Ma@nuatuh; lat. Mathe- matica; ingl. Mathematics; franc. Mathématique; ted. Mathematik). Le definizioni filosofiche della M. esprimono da un lato orientamenti diversi della ricerca matematica, dall’altro modi diversi di giu- stificare la validità e la funzione delle M. nell’in- sieme delle altre scienze. Possono distinguersi quattro definizioni fondamentali: 1° la M. come scienza della quantità; 2° la M. come scienza delle relazioni; 3° la M. come scienza del possibile; 4° la M. come scienza delle costruzioni possibili. 1° «Scienza della quantità » è stata la prima definizione filosofica della matematica. Già implicita nelle considerazioni di Platone sull’aritmetica e sulla geometria, le quali tendevano soprattutto a mettere in luce la differenza tra le grandezze per- cepite dei sensi e le grandezze ideali che sono l'oggetto della M. (Rep., VII, 525-27), questa defì- nizione veniva chiaramente formulata da Aristotele. «Il matematico, diceva Aristotele, costruisce la sua teoria per mezzo dell’astrazione: egli prescinde da tutte le qualità sensibili, quali il peso e la leggerezza, la durezza e il suo contrario, il caldo e il freddo, e le altre qualità opposte e si limita a considerare solo la quantità e la continuità, qualche volta in una sola dimensione, qualche volta in due, qualche volta in tre; nonchè i caratteri di queste entità in quanto sono quantitative e continue, trascurando ogni altro aspetto di esse. Conseguentemente egli studia le posizioni relative e ciò che ad esse inerisce, la com- mensurabilità o l’incommensurabilità e le propor- zioni» (Met., XI, 3, 1601a 28; cfr. Fis., II, 2, 193 b 25). Questo concetto delle matematiche è durato assai a lungo e solo nel secolo scorso è comin- ciato ad apparire insufficiente a esprimere tutti gli MATEMATICA aspetti dell’indagine matematica. Kant stesso lo utilizzava traducendolo nel linguaggio della sua filosofia. Egli poneva la distinzione tra M. e filosofia in questo che, mentre la filosofia procede mediante concetti, la M. procede mediante la costruzione di concetti: ma la costruzione dei concetti è possibile in M. solo sul fondamento dell’intuizione a priori dello spazio, che è poi la forma della quantità in generale. « Coloro, dice Kant, i quali hanno creduto di distinguere la filosofia dalla M. dicendo che questa ha per oggetto solo la quantità, han preso l’effetto per la causa. La forma della conoscenza M. è la causa per cui essa può riferirsi unicamente a quan- tità. Soltanto infatti il concetto di quantità si può costruire, cioè esporre a priori nell’intuizione dello spazio » (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. I, sez. 1). Il concetto della M. come costruzione e quindi in qualche modo intuizione, doveva ritornare nella M. contemporanea (v. oltre, n. 4). Ma quello di M. come scienza della quantità si è trovato innumerevoli volte ripetuto dai filosofi. Le lun- ghe e fantastiche disquisizioni di Hegel sui concetti fondamentali della M. nella grande Logica sono fondate su di esso (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. II). E anche assai più tardi, Croce si riferiva imperterrito allo stesso concetto « Le M. forniscono concetti astratti che rendono possibile il giudizio numeratorio; costruiscono gli strumenti per contare e calcolare e per compiere quella sorta di finta sin- tesi a priori che è la numerazione degli oggetti sin- goli » (Logica, 1920, pag. 238). 2° La seconda concezione fondamentale della M. è quella che la considera come scienza delle relazioni quindi come strettamente collegata con la logica o parte di essa. L’antecedente di questa concezione si può trovare in Cartesio, che affermava: « Per quanto le scienze che si chiamano comune- mente matematiche abbiano oggetti diversi, esse si accordano tutte in quanto non considerano altro che i diversi rapporti o proporzioni che si ritrovano in essi» (Discours, II). Il concetto leibniziano dell’ars combinatoria (v.) o M. universale si può assumere certo come inizio del concetto della M. come logica; ma esso non impediva allo stesso Leib- niz di aderire ancora al concetto tradizionale della M. come arte della quantità (De Arte combi- natoria, 1666, Proemium, 7, in Op., ed. Erdmann, pag. 8). Ovviamente, la stretta connessione della M. con la logica cominciò ad apparire in modo evidente come tratto caratteristico delle M. quando la logica stessa assunse la forma di un calcolo matematico. Boole affermava che poichè « le ultime leggi della logica sono matematiche nella loro forma +, l’esibizione della logica nella forma di un calcolo non è un modo arbitrario di presentarla, ma qualcosa che dipende dalle stesse leggi del pen- MATEMATICA siero (Laws of Thought, 1854, cap. I, $ 10). Le ri- cerche di Dedekind sui fondamenti dell’aritmetica (Was sind und sollen die Zahlen?, 1887) si muo- vono nello stesso ordine di pensieri. Ma soprat- tutto contribuì a inscrivere la M. nel dominio della logica l’opera di Frege e la sua polemica contro lo psicologismo. In un saggio del 1884 Frege mostrava l’importanza del concetto di re- lazione per la definizione del numero naturale e diceva: «Il concetto di relazione appartiene — non meno che il semplice concetto — al campo della logica pura. Qui non interessa il contenuto speciale della relazione ma esclusivamente la sua forma logica. Se qualcosa può venire affermata di essa, la verità di questo qualcosa risulta analitica e viene riconosciuta a priori » (Eine /ogisch-mathe- matische Untersuchung iber den Begriff der Zahi, 1884, $ 70; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag. 139). Da questo punto in poi la stretta connessione della matematica con la logica attraverso la teoria delle relazioni, poteva considerarsi acquisita e fu costan- temente assunta per la definizione della matematica. Tuttavia anche le definizioni che hanno in comune questo fondamento sono state formulate in modo diverso. La più ovvia formulazione di una defini- zione di questo tipo è quella che considera la M. come « una teoria delle relazioni ». Poincaré espo- neva questa definizione nella forma generale asse- rendo: « La scienza è un sistema di relazioni. Solo nelle relazioni va cercata l’oggettività e sarebbe vano cercarla negli esseri considerati come isolati gli uni dagli altri» (Le valeur de la science, 1905, pag. 266). Questo concetto fu condiviso da Russell che vedeva la coincidenza tra M. e logica proprio nell'ambito della teoria delle relazioni e riteneva che il tema comune delle due scienze fosse la forma degli enunciati, definita come « ciò che resta invariato quando ogni componente dell’enunciato viene sosti- tuito da un altro » cioè quando l’enunciato è rivolto alla pura relazione (/ntr. to Mathematical Philosophy, 1918, cap. XVIII). Dall'altro lato Peirce, pur ammettendo la connes- sione tra M. e logica, aveva cercato di distinguere la M. dalla logica, affermando che mentre la M. è la scienza che deriva conclusioni necessarie, la logica è la scienza del modo in cui derivare conclusioni necessarie. «Il logico non si cura particolarmente circa questa o quella ipotesi o circa le sue conseguenze eccetto in quanto queste cose possono gettar luce sulla natura del ragionamento. Il matematico è intensamente interessato ai metodi efficienti di ra- gionare mirando alla loro possibile estensione a nuovi problemi ma, in quanto matematico, non si preoccupa di analizzare quelle parti del suo metodo la cui correttezza è data come ovvia + (Coll. Pap., 4.239). Questa distinzione era però fondata sulla 559 nozione della logica come di una scienza categorica e normativa (/bid., 4.240): nozione che non ha avuto fortuna nella logica contemporanea, di cui si è sempre più accentuato il carattere convenzionale (v. CONVENZIONALISMO; Logica). Pertanto la mi- gliore definizione della M., da questo punto di vista, è quella data da Wittgenstein: « La matematica è un metodo logico. Le proposizioni della M. sono equazioni, dunque pseudo-proposizioni. La propo- sizione matematica non esprime alcun pensiero. E infatti non è mai la proposizione matematica di cui abbiamo bisogno nella vita ma l’adoperiamo solo per concludere da proposizioni che non ap- partengono alla M. ad altre che parimenti non le appartengono » (Tractatus, 1922, 6.2; 6.21; 6.211). Le equazioni della M. corrispondono alle tautologie della logica (/bid., 6.22); e, come queste, non dicono nulla. Un punto di vista analogo a questo è stato assunto da Carnap: «I calcoli costituiscono un genere particolare di calcoli logici, distinguendosene soltanto per la loro maggiore complessità. I calcoli geometrici sono un genere particolare di calcoli fisici » (Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 13). Questa è la formulazione migliore della tesi del logicismo (v.). Da questo punto di vista, si tratta in primo luogo di costruire una logica esatta; in seguito, di derivare da essa la M., nel modo seguente: 1° definendo tutti i concetti delle M., cioè dell’arit- metica, dell’algebra e dell'analisi, in termini dei concetti della logica; 2° deducendo da queste defi- nizioni e per mezzo dei princìpi della logica stessa (inclusi gli assiomi di infinità e di scelta) tutti i teo- remi della M. (cfr. C. G. HEMPEL, « On the Nature of Mathematical Truth +, 1925, in Readings in the Philosophy of Science, 1953, pag. 59). 3° La terza concezione fondamentale della M. è quella propria della corrente formalistica e si può esprimere dicendo che per essa la M. è «la scienza del possibile »; dove per possibile s'intende ciò che non implica contraddizione (v. PossisiLe, 1). Da questo punto di vista, la M. non è parte della logica e non la presuppone. Nel modo in cui è stato conce- pita da Hilbert e Bernays (Grundiagen der Mathe- matik, I, 1934; II, 1939) la M. può essere costruita come un semplice calcolo, senza esigere alcuna in- terpretazione. Essa diventa allora un sistema as- siomatico (v. ASsIOMATIZZAZIONE) nel quale: 1° tutti i concetti di base e tutte le relazioni di base siano enumerate completamente, e sia ricondotto ad essi, mediante una definizione, ogni concetto ulteriore; 2° gli assiomi siano enumerati completamente e da essi siano dedotti tutti gli altri enunciati in modo conforme alle relazioni di base. In un sistema sif- fatto, la dimostrazione matematica è un procedimento puramente meccanico di derivazione di formule; ma 560 nello stesso tempo si aggiunge alla M. formale una metamatematica che è costituita da ragionamenti non formali intorno alla matematica. « In tal modo, ha detto Hilbert, si realizza, mediante scambi con- tinui, lo sviluppo della totalità della scienza mate- matica, in due modi: derivando dagli assiomi nuove formule dimostrabili mediante deduzioni formali e d’altra parte aggiungendo nuovi assiomi e la prova di non contraddizione, per mezzo di ragionamenti che hanno un contenuto ». Le M. costituiscono al- lora un sistema perfettamente autonomo; cioè che non presuppone un limite o una guida fuori di sè e che si sviluppa in tutte le direzioni possibili: intendendosi, per direzioni possibili, quelle che non portano a contraddizioni. È pertanto essenziale a questo concetto della M. la possibilità di determinare la possibilità (cioè la non-contraddittorietà) dei sistemi assiomatici. Ma proprio questa possibilità è stata messa in dubbio da un teorema scoperto da Gédel nel 1931: secondo il quale non è possibile dimostrare la non contrad- dittorietà di un sistema S con i mezzi (assiomi, definizioni, regole di deduzione, ecc.) che appar- tengono allo stesso sistema $S; ma occorre, per effettuare una tale dimostrazione ricorrere a un sistema Si, più ricco di mezzi logici che S (« Uber formal unentscheidbare Sitze der Principia Mathe- matica und verwandter Systeme », in Monatschrifte fir Mathematik und Physik, 1931, pag. 173-98). Questo teorema di Gòdel ha avuto nella M. moderna una grande risonanza. È stato possibile, finora, dare la dimostrazione della non contraddittorietà di alcune parti delle M., per es. dell’aritmetica (fu data da Gentzen nel 1936): ma le cose non sono andate molto oltre su questa via; sicchè la «scienza del possibile » trova oggi che il suo più difficile compito è quello di mostrare la « possibilità » delle sue parti. Quanto alla possibilità dell’intera M. come sistema unico e totale, essa è ovviamente esclusa dalla stessa formulazione del teorema di Giodel. Il quale ha mostrato anche il limite dell’as- siomatica, perchè ha mostrato come nessun sistema assiomatico contiene «tutti» gli assiomi possibili e che pertanto nuovi princìpi di prova possono essere continuamente scoperti. Altra conseguenza del teo- rema di Gédel è una limitazione delle capacità delle macchine calcolatrici, la cui costruzione è stata enormemente facilitata dal concetto formali- stico della matematica. Si può infatti costruire una macchina per risolvere un problema definito, ma non una macchina che sia capace di risolvere ogni problema (cfr. E. NagEL-G. R. NEWMAN, Gòdel’s Proof, 1958, pag. 98 sgg.). 4° La quarta concezione fondamentale della M. è quella secondo la quale essa è la scienza che ha per oggetto la possibilità della costruzione. Si tratta, MATEMATICA come è evidente, della nozione kantiana della M. come «costruzione di concetti» perciò questo indirizzo è chiamato comunemente intuizionismo; ma i suoi precedenti si sogliono scorgere nella pole- mica antiformalistica di Poincaré, nell'opera di Kronecker (Uber den Zahibegrif, 1887) nella tendenza empiristica di alcuni matematici fran- cesi (Borel, Lebegue, Bayre) nel filosofo viennese F. Kaufmann ecc. Secondo Brouwer, che è uno dei principali rappresentanti dell’intuizionismo, la M. si identifica con la parte esatta del pensiero umano: perciò essa non presuppone alcuna scienza, neppure la logica, ma esige piuttosto un’intuizione che permetta di cogliere l’evidenza dei concetti e delle conclusioni. Le conclusioni, pertanto, non devono essere derivate in virtù di regole fisse contenute in un sistema formalizzato, ma ogni conclusione deve essere direttamente controllata in base alla sua propria evidenza. Da questo punto di vista, il procedimento di dimostrazione matematica non ha in vista la deduzione logica ma la costruzione di un sistema matematico. Brouwer insiste sul fatto che anche nel caso di una dimostrazione di impossibi- lità, ottenuta mettendo in vista una contraddizione, l’uso del principio di contraddizione è soltanto ap- parente: in realtà si tratta dell’affermazione che una costruzione matematica, la quale doveva soddisfare certe condizioni, non è realizzabile (cfr. A. HEy- TING, Mathematische Grundlagenforschung. Intuitio- nismus und Beweistheorie, 1934 [trad. franc., 1955], I, 5, 1). Heyting a sua volta ha dimostrato, sulle orme dello stesso Brouwer, che mentre il principio di contraddizione può essere utilizzato, non così accade del principio del ferzo escluso (v.) (Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, in L. B. Preusz. Akad. Wiss., 1930). L'intuizionismo, definendo la M. come la scienza delle costruzioni possibili non fa tuttavia appello, come faceva Kant, a una forma a priori dell’intui- zione; né ad alcuna forma di intuizione empirica o mistica. La costruzione di cui l’intuizionismo parla è una costruzione concettuale, che non fa riferimento a fatti empirici. Così Heyting ha riassunto il punto di vista di Brouwer: 1° la M. pura è una creazione libera dello spirito e non ha in sè alcun rapporto con i fatti di esperienza; 2° la semplice constatazione di un fatto di esperienza contiene sempre l’identificazione di un sistema matematico; 3° il metodo della scienza della natura consiste nel riunire i sistemi matematici contenuti nelle esperienze isolate in un sistema puramente mate- matico costruito a questo scopo (cfr. HEYTING, Op. cit., IV, 3). Se si tengono presenti queste conclusioni, si vede che il distacco tra formalismo e intuizionismo (cioè fra la terza e la quarta concezione della M.) MATERIA non è così radicale come in apparenza sembrerebbe. In primo luogo, la costruzione in cui gli intuizio- nisti vedono l’oggetto proprio del procedimento matematico è un oggetto formale, la cui possibilità è determinata da regole formali. Dall’altro lato, i limiti del formalismo, messi in luce dal teorema di Gédel, mettono in valore alcune esigenze affacciate dal concetto intuizionistico delle matematiche. E poichè è difficile disconoscere il valore dell’aspetto linguistico delle matematiche, che è quello su cui specialmente si fonda il /ogicismo, un certo eclet- tismo domina il pensiero matematico contemporaneo (cfr. ad es., E. W. BETH, Les fondements logiques des mathématiques, 2% ediz., 1955). Tuttavia, dal punto di vista filosofico, cioè dei concetti di base e degli orientamenti generali di ricerca, la differenza fra le definizioni enunciate nel presente articolo rimane importante. MATERIA. In senso gnoseologico v. FORMA, 2. MATERIA (gr. 65m; lat. Materia; ingl. Matter; franc. Matière; ted. Materie). Uno dei princìpi costitutivi della realtà naturale, cioè dei corpi. Le definizioni principali, che sono state date della M. sono le seguenti: {9 la M. come soggetto; 2° la M. come potenza; 3° la M. come estensione; 4° la M. come forza; 5° la M. come legge; 6° la M. come massa; 7° la M. come densità di campo. Le prime quattro sono definizioni filosofiche, le ultime due scientifiche. ‘1° La definizione della M. come\soggetto) si al- terna, in Platone e Aristotele, con quella della M. come potenza. Secondo questo concetto la M. è ricettività o passività; e Platone in questo senso la chiama madre delle cose naturali giacchè essa «accoglie in ‘sè tutte le cose ma non prende mai alcuna fatti che somigli alle cose in quanto è come la(cefa)che riceve l'impronta » (7im., 50 b-d). In questo senso la M. è il materiale grezzo, amorfo, passivo e ricettivo di cui sono composte le cose naturali. TAristotelei chiama questo materiale sog- getto (Lroxeluevov). «Chiamo M., egli dice, il soggetto primo di una cosa, ciò da cui la cosa si genera non accidentalmente » (Fis., I, 9, 192 a 31). Come soggetto la M. «è ciò che rimane attraverso i mutamenti opposti: come, ad es., nel movimento, il mobile rimane lo stesso pur essendo ora qua e ora là e nel mutamento quantitativo rimane lo stesso ciò che diventa più piccolo o più grande e nel mutamento qualitativo rimane la stessa cosa quella che talvolta è in buona salute talaltra no » (Met., VIII, 1, 1042a 27). Nel suo aspetto di soggetto la M. è priva di forma, indeterminata, quindi di per sè inconoscibile (/bid., VII, 11, 1037 a 27; VII, 10, 1036a 8): caratteri che sono posse- duti in modo eminente dalla «M. prima» cioè da quella M. che non costituisce il materiale (per es., 36 — ABBAGNANO, Distonario di filosofia. S61 il bronzo o il legno) di cui una cosa è fatta ma il soggetto comune, e inconoscibile, di tutti i ma- teriali (/bid., IX, 7, 1049a 18 sgg.). Il concetto della M. come soggetto passivo fu ripreso dagli IStoici! che per l’appunto designarono la M. da questo suo carattere (Dioc. L., VII, 134). Per questo carattere di passività, per cui essa è pronta a ricevere l’azione creatrice della (Ragione fron che è il principiq attivo) gli Stoici chiamarono la M. « sostanza prima » (Diog. L., VII, 150; cfr. SENECA, Ep., 65, 2).'Plotino non faceva che portare al limite questa concezione della M. affermando che essa «non è anima, nè intelletto, nè vita, nè forma, nè ragione, nè limite (giacchè è assenza di limite), nè potenza (giacchè che cosa potrebbe creare?). Priva com’è di tutti i caratteri, non può neppure esserle attribuito l’essere nel senso, per es., in cui si dice che c’è il movimento o la quiete; essa è veramente il non essere, un’immagine illusoria della massa corporea” e una aspirazione all'esistenza » (Enn., III, 6, 7). Questo concetto della M. fu co- stantemente adoperato a scopi teologici. Nella pa- tristica lo ripetono (Origene: (Contra Cels., III, 41; De Princ., II, 1) e S. Agostino. Quest’ultimo con- sidera la M., secondo il concetto classico, come « assolutamente informe e priva di qualità » e « pros- sima al nulla » ma tuttavia ‘esistente in quanto do- tata della capacità di essere formata (Conf., XII, 8; De natura boni, 18). S. Tommaso a sua volta nega che la M. sia « potenza operativa » (S. 7A., I, q. 44, ad. 3°); ed insiste sulla sua imperfezione o incom- piutezza relativamente alla forma (/bid., I, q. 4, a. 1). La scolastica agostiniana, pur riconoscendo alla M. una certa realtà attuale e negando perciò che essa sia un « quasi nulla » o una pura + possi- bilità d’essere », non ne innova il concetto. Duns Scoto, ad es., pur riconoscendo alla M. una certa realtà (enzitas), la considera tuttavia come « ricet- tiva di tutte le forme sostanziali e accidentali», secondo il concetto aristotelico (Op. Ox., II, d. 12, q. 1, n. 11); e le nega la potenza attiva negando in essa la presenza delle ragioni seminali (/bid., d. 18, q. 1, n. 3). Da questo punto di vista la passi- vità o ricettività rimane la caratteristica fondamen- tale della materia. A questa caratteristica fecero pure appello alcuni naturalisti del Rinascimento come, ad es., Paracelso (Metreor., 72) e Telesio: il quale considerò la M. come la « massa corporea ? destinata a subire l’azione delle due « nature agenti », il caldo e il freddo (De rer. nat., I, 4). Questa con- cezione fu condivisa da Locke che concepì la M. come « morta e inattiva » (Saggio, IV, 10, 10); ed essa ritorna frequentemente, ancor oggi, nella filo- sofia e nel pensiero comune. Ritorna, per es., in ‘Bergson che intende la M. come l’arresto potenziale del movimento della vita e la considera definita 562 dalla sua «inerzia», che la contrappone al «vi- vente » (Évol. Créatr., 8* ediz., 1911, pag. 216 sgg.). 2° Il concetto della M. come\potenza}s’intreccia in Platone e Aristotele, con quello della M. come soggetto. Platone dice che la M. «non perde mai la propria potenza » (Tim., 50 b).|Aristotele iden- tifica la M. con la potenza. « Tutte le cose prodotte sia dalla natura che dall'arte hanno M. giacchè la possibilità che ha ciascuna di essere o_non es- .sere, questa è, per ciascuna di esse, la sua M.» (Met., VII, 7, 1032a 20). Ma la potenza non è, secondo Aristotele, solo questa pura possibilità di essere o non essere: è una potenza operativa € attiva; « Una casa esiste potenzialmente se non c'è niente nel suo materiale che le impedisca di diven- tare una casa e se non c'è nient’altro che debba essere aggiunto, rimosso o mutato... E le cose che hanno in se stesse il principio della loro genesi esisteranno di per se stesse quando niente di esterno lo impedisca » (Mer., IX, 7, 1049 a 9 sgg.). Questa autosufficienza della potenza a produrre la cosa, per la quale la M. non è solo il grezzo materiale ma una capacità effettiva di produzione, esprime un concetto che non è più quello della M. come passi- vità o ricettività. Come potenza operativa, la M. non ‘ è un principio necessariamente corporeo! Plotino che da un lato, come si è visto, riduce la M. al non es- sere, dall’altro la identifica, come potenza, con l’in- finito (En., II, 4, 15). E ammette, accanto alla M. sensibile, una M. intelligibile che resta sempre iden- tica a se stessa e possiede tutte le forme, sicchè ‘manca per essa la ragione di trasformarsi (#bid., II, 4, 3). Da questa dottrina trae origine la tradizione che insiste sull'attività della M.: tradizione che passa attraverso Scoto Eriugena (De divis. nat., III, 14), e ha una nuova fase nella dottrina di Avicebron della composizione ilomorfica universale. Secondo Avion anche le cose spirituali sono composte di M. e forma e la M. si identifica con la prima delle categorie aristoteliche, la sostanza in quanto «sostiene» le altre nove categorie (Fons vitae, II, 6). Solo sul fondamento del carattere attivo o creativo della M. Davide di Dinant potette iden- tificare Dio con la M. (ALBERTO Magno, S. 7h., I, 4, q. 20; S. Tommaso, S. 7A., I, q. 4, a. 8). Ma la M. conserva il suo carattere di attività anche nella scolastica agostiniana, che contemporanea- mente insisteva nel riconoscere una realtà posi- tiva alla M. e la presenza di essa anche negli esseri spirituali, secondo il concetto di Avicebron. ‘S. Bonaventura]dice, per es.: « La ragione seminale è la potenza attiva insita nella M.; e questa potenza attiva è l'essenza della forma giacchè da essa si genera la forma mediante il procedimento della natura che non produce nulla dal nulla » (7 Sent., II, d. 18, a. 1, q. 3). Questo concetto della M. ve- MATERIA niva trasmesso al Rinascimento attraverso Nicola Cusano che considera la M. come la « possibilità * indeterminata » nella quale esistono, in forma con- tratta, tutte le cose dell’universo. « La disposizione della possibilità, diceva Cusano, dovette essere con- tratta e non assoluta: giacchè se la terra, il sole e le altre cose non fossero nascoste nella M. come possibilità contratte, non ci sarebbe ragione per cui esse dovrebbero venire all’atto anzichè non venire » (De docta ignor., II, 8). In altri termini, solo per la presenza, allo stato contratto, di possi- bilità determinate nella M., queste possibilità ven- gono fuori con la creazione. È un concetto sul quale Giordano Bruno doveva fondare quello della M. come principio attivo e creativo della natura: « Quella M. per essere attualmente tutto quello che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni; e perchè le aveva tutte non ne ha nessuna, perchè quello che è tante cose diverse, bisogna che non sia alcuna di quelle particolari ». In questo senso la M. coin- cide con la forma (De la causa, IV). 3° Il concetto della M. come estensione fu difeso da Cartesio. «La natura della M. o dei corpi in generale, egli diceva, non consiste nell’es- sere una cosa dura o pesante o colorata o che tocca i nostri sensi in qualche altro modo, ma solamente, nell’essere una sostanza estesa, in lunghezza, lar- ghezza e profondità » (Princ. phil., II, 4). Questo concetto viene largamente accettato nel 600. Hobbes, per es., identifica la M. prima degli aristotelici con il corpo in generale cioè col «corpo considerato a prescindere da qualsiasi forma e da qualsiasi accidente, eccetto la sola grandezza o estensione e l’attitudine a ricevere forma e accidenti» (De Corp., VIII, 24). Questo stesso concetto del corpo in generale come materia è accettato da Spinoza che anch'egli lo identifica con l'estensione (£r., II, def. 1). Ci sono motivi per credere che questa defi- nizione della M. sia quella implicita nell’ipotesi atomistica. Il termine « M.» ricorre, come è noto, per la prima volta in Aristotele in significato filo- sofico; ma Aristotele stesso parla, in riferimento a Democrito, del «corpo comune di tutte le cose» e afferma che, secondo Democrito, tale corpo dif- ferisce, nelle sue parti, in grandezza e figura (Fis., III, 4, 203a 33-203b 1). Ora «grandezza e fi- gura » non sono altro che estensione. Altrove Ari- stotele enumera tre differenze fra gli atomi cioè la figura, l’ordine e la posizione (Mer., I, 4, 985 b 15); ma figura, ordine e posizione non sono altro che estensione. Estensione è pure la figura a cui, secondo Epicuro, si riducono tutte le qualità dell’atomo (Dico. L., X, 54). L’ipotesi atomistica implica perciò il concetto della M. come MATERIA estensione. Su tale concetto d’altronde insisteva Guglielmo di Ockham nel sec. x1v: « È impossibile che ci sia M. senza estensione: giacchè non è possibile che ci sia M. che non abbia le parti distanti l’una dall'altra: onde sebbene le parti della M. possano unirsi come si uniscono quelle dell’acqua e dell’aria, non possono tuttavia essere nel medesimo luogo» (Summulae physicorum, I, 19; Quodl., IV, q. 23). 4° Il concetto della M. come forza o energia viene dapprima difeso dai Platonici di Cambridge del sec. xv, poi accettato da Leibniz e da molti filosofi del sec. xvm. Secondo Cudworth, la M. è una natura plastica cioè una forza vivente che è diretta emanazione di Dio (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 3). H. More a sua volta riduce, con Cartesio, la M. a estensione; ma identifica l’estensione stessa con lo spirito, ri- solvendola in particelle indivisibili che egli chiama monadi fisiche e che non hanno più nulla di ma- teriale (Enchiridion metaphysicum, I, 8, 8; I, 9, 3). Queste considerazioni metafisiche assunsero un più preciso significato per opera di Newton e Leibniz. Newton riteneva impossibile ammettere che «la M. fosse vuota di ogni tenacità e attrito di parti e comunicazione di movimento » e la considerava perciò in strettissima relazione con le «forze» o « principi » che si manifestano nell’esperienza (Op- ticks, 1704, III, 1, q. 31). Leibniz ritiene che la M. sia costituita, oltre che dall’estensione, da una forza passiva di resistenza che è l’impenetrabilità o antitipia (v.) (Op., ed. Erdmann, pag. 157, 463, 466, 691). La stessa dottrina fu accettata da Wolff che definiva la M. « un ente esteso fornito di forza d'inerzia » e riteneva che essa possedesse di per se stessa una forza attiva (Cosmol., $ 141-42). Questa interpretazione della M. divenne uno dei temi comuni dell’Illuminismo e della polemica degli illuministi contro Cartesio. Diceva Diderot: « Non so in qual senso i filosofi hanno supposto che la M. sia indifferente al movimento e al riposo. È certo, invece, che tutti i corpi gravitano gli uni sugli altri; che tutte le particelle dei corpi gravitano le une sulle altre; che in questo universo tutto è in tra- slazione o in nisu o in traslazione e in nisu in- sieme » (Principes phil. sur la Matière et le Mouve- ment, in (Euvr. phil., ed. Vernière, pag. 393). Questa fu anche la concezione accettata da Kant. « La M., egli diceva, riempie uno spazio, non attraverso la sua pura esistenza ma mediante una particolare forza motrice »: una forza repulsiva di tutte le sue parti (Metaphysische Anfangsgrilnde der Naturwis- senschaft, II, Lehrsatz, 2, 3). Il concetto romantico della M. come forza o attività quale si trova, ad es., espresso da Schelling non è che l’amplificazione di questa dottrina. Le tre dimensioni della M. sono determinate, secondo Schelling dalle tre forze che 563 la costituiscono: cioè dalla forza espansiva, dalla forza attrattiva e da una terza forza sintetica: che corrispondono nella natura rispettivamente al magnetismo, all’elettricità e al chimismo (System des transzendentalen Idealismus, III, cap. II, Dedu- zione della materia; trad. ital., pag. 109 sgg.). Più genericamente Schopenhauer identificava la M. con l’attività (Die Welt, I, $ 4). Nel dominio scientifico questo punto di vista è stato realizzato come ener- getismo (v.). G. Ostwald ha sostenuto alla fine del secolo scorso, l’inutilità perfetta, per la scienza della natura, del concetto di M. e la sua sostituzione con quello di energia (Die Uberwindung des wissen- schaftlichen Materialismus, 1895). 5° Mentre la riduzione operata da Berkeley della M. a percezioni o idee non si può chiamare un concetto della M. perchè è la semplice negazione di essa, si può considerare invece come definizione della M. quella data da Mach come di una « de- terminata connessione degli elementi sensibili in conformità di una legge» (Analyse der Empfin- dungen, XIV, 14). Questa definizione non tende in- fatti a negare la materia o a ridurla a elementi soggettivi e psichici ma a sostituire la stabilità rela- tiva di una legge alla rigidità e inerzia tradizional- mente attribuite alla materia. Il concetto fondamen- tale è, in questa definizione, quello di legge, che si intende come l’espressione di una connessione co- stante. La M. sarebbe appunto la connessione co- stante nella quale si presentano raggruppati gli elementi ultimi delle cose cioè le sensazioni. 6° I precedenti usi del termine son tutti di natura filosofica anche se talora sono stati proposti o sostenuti da scienziati. Nel dominio della scienza, e precisamente della meccanica, la nozione di M. si identifica con quella di massa (definita dal secondo principio della dinamica come rapporto tra la forza e l’accelerazione impressa). La massa può essere intesa o come massa inerziale o come peso. Il principio della «conservazione della M.+ che la scienza dell’800 considerava come uno dei suoi pilastri, accanto a quello della « conservazione del- l’energia », si riferisce per l'appunto alla M. intesa come peso; giacchè il suo significato specifico gli fu dato soltanto dalle celebri esperienze con cui Lavoisier dimostrava (1772) che nelle reazioni chi- miche (ivi compresa la combustione) il peso del composto è la somma dei pesi dei componenti. 7° Nella scienza contemporanea il concetto di M. tende ad essere ridotto a quello di densità di campo. « Una volta riconosciuta l’equivalenza tra massa ed energia, la divisione fra M. e campo appare artificiosa e non chiaramente definita. Non potremmo allora rinunciare al concetto di M. ed edificare una fisica del puro campo? Ciò che fa impressione sui nostri sensi come M. è in realtà 564 una grande concentrazione di energia in uno spazio relativamente limitato. Sembra quindi lecito assi- milare la M. a regioni spaziali nelle quali il campo è estremamente forte » (EINsTEIN-INFELD, The Evo- lution of Physics, cap. II; trad. ital, pag. 253). Questo indirizzo della fisica contemporanea non si può tuttavia confondere con l’energetismo perchè non implica la riduzione della M. a energia ma piuttosto la riduzione dei due concetti di M. e di energia a quello di campo (v.). MATERIALISMO (ingl. Materialism; fran- cese Matérialisme; ted. Materialismus). Questo termine fu usato per la prima volta da Roberto Boyle nello scritto del 1674 intitolato The Excel- lence and Grounds of the Mechanical Philosophy (cfr. EUCKEN, Geistige Stromungen der Gegenwart, 5* ediz., 1916, pag. 168). Esso designa in generale ogni dottrina che attribuisca la causalità soltanto alla materia. In tutte le sue forme storicamente individuabili (fuori dell’uso polemico del termine) il materialismo consiste infatti nell'affermare che la sola causa delle cose è la materia. La vecchia defi- nizione di Wolff secondo la quale sono materialisti «i filosofi che ammettono solo l’esistenza degli enti materiali cioè dei corpi» (Psychol. rationalis, $ 33) non è sufficiente a individuare le forme storiche del M. perchè porterebbe a includere in questa cor- rente dottrine che le ripugnano (v. oltre). Si possono su questa base distinguere: 1° il M. metafisico o cosmologico, che si identifica con l’atomismo filo- sofico; 2° Il M. metodologico secondo il quale l’unica spiegazione possibile dei fenomeni è quella che fa ricorso ai corpi e ai loro movimenti; 3° il M. pratico che è quello che riconosce nel piacere l’unica guida della vita; 4°il M. psicofisico che è quello che ammette la stretta dipendenza causale dei fenomeni psichici da quelli fisiologici. Queste sono le forme storica- mente riconoscibili del M. oltre quelle note sotto i nomi di M. dialettico e M. storico (v.), considerati a parte. Non si può assumere invece come storica- mente legittimo il significato che Berkeley attribuisce al termine, intendendo per materialisti tutti coloro che comunque riconoscano l’esistenza della materia (Principles of Human Knowledge, $ 74) perchè in questo senso sarebbero materialisti anche Aristo- tele e gli aristotelici. Neppure si possono chiamare materialisti gli Stoici per quanto ritenessero che tutto ciò che è in natura è corpo (Diog. L., VII, 1, 56; PLUT., De Com. Not.) giacchè ammettevano un principio razionale divino come causa del mondo; e non può essere ritenuto materialista, per motivi analoghi, Tertulliano, il quale pure afferma che «tutto ciò che esiste è corpo » (De An., 7: De carne Christi, 11). 1° Il M. cosmologico è caratterizzato dalle seguenti tesi: 4) Il carattere originario o inderivabile MATERIALISMO della materia, che precede ogni altro essere e ne è la causa. Non è pertanto un M. la dottrina di Gassendi secondo la quale gli atomi costituenti l'universo sono stati creati da Dio. 5) La struttura atomica della materia. c) La presenza nella materia, quindi negli atomi, di una forza capace di farli muovere e combinarsi in modo tale da dare origine alle cose. Democrito ammetteva che gli atomi si muovono per loro conto dall’eternità (ARIST., Fis., VII, 1, 252a 32) e questo presupposto è rimasto in tutte le forme dell’atomismo. L'ultima forma sto- rica che il M. ha assunto, quella che ebbe la massima diffusione negli ultimi decenni del secolo scorso, per opera del biologo tedesco Ernesto Haeckel am- metteva addirittura che gli atomi fossero dotati, oltre che di movimento, anche di vita e di sensibi- lità (Die Weltràtsel, 1899). d) La negazione del finalismo dell’universo e in generale di ogni ordine che non consista nella semplice distribuzione delle parti materiali nello spazio. e) La riduzione dei poteri spirituali umani alla sensibilità, cioè il sen- sismo. In questa forma, il M. si è presentato: nell’antichità, nelle dottrine di Democrito e di Epicuro; nell’età moderna, in quelle di alcuni il- luministi e numerosi positivisti dell’Ottocento. 2° Il M. metodico è stato difeso per la prima volta da Hobbes e la sua tesi fondamentale consiste nel ritenere che la nozione di materia, cioè di corpo e di movimento, sia il solo strumento disponibile per la spiegazione dei fenomeni. Hobbes affermava difatti che la conoscenza di una cosa è sempre cono- scenza della sua genesi, e che la genesi è movimento. Perciò ogni conoscenza è conoscenza del movimento; e il movimento implica corpo. Perciò egli ha chia- mato De Corpore (1655) il suo trattato di filosofia prima. Da questo punto di vista la spiegazione mate- rialistica è l’unica possibile anche per ciò che riguarda lo spirito e le cose spirituali. Così Hobbes obiettava a Cartesio: « Che diremo se il ragionamento non è altro che un insieme e una connessione di nomi per mezzo della parola «è »? Segue da questa tesi che mediante la ragione non possiamo concludere nulla che riguardi la natura delle cose ma solo riguardo ai loro appellativi e cioè che con essa noi vediamo soltanto se raggruppiano bene o male i nomi delle cose, secondo le convenzioni che abbiamo stabilito a nostro arbitrio per i loro significati. Se è così, come può ben darsi, il ragionamento di- penderà dai nomi, i nomi dall’immaginazione, e l'immaginazione forse (e questo secondo la mia opinione) dal movimento degli organi corporei e così lo spirito non sarà altro che un movimento in certe parti del corpo organico» (/// Objections, 4). Il corpo è pertanto, secondo Hobbes, l’unico oggetto possibile del sapere umano e la filosofia si divide in due parti, la filosofia naturale e la filosofia civile MATERIALISMO DIALETTICO a seconda che studia il corpo naturale cioè la natura o il corpo artificiale cioè la società (De Corp., I, 9). Un M. metodico è stato, in tempi recenti sostenuto dai filosofi del circolo di Vienna e specialmente da Carnap, ma in un senso ancora diverso da quello di Hobbes e riferentesi al linguaggio: tale M. è l’esigenza di tradurre nei termini del linguaggio fisico i dati protocollari, per costruire con essi un linguag- gio intersoggettivo. Questo M. s’identifica perciò col fisicalismo (v.) e non implica nessuna affermazione sull’esistenza della materia (cfr. Erkenntnis, 1931, pag. 447). Tale M. non implica neppure la deduci- bilità delle leggi biologiche e psicologiche dalle leggi fisiche. L’unificazione delle leggi della scienza è senza dubbio, secondo questo punto di vista una meta della scienza stessa; ma non si può esclu- dere nè prevedere che questa meta sarà raggiunta (CARNAP, Logical Foundations of the Unity of Science, 1938, pag. 61). 3° Nel suo significato pratico o morale, il M. è un termine che appartiene al linguaggio comune più che a quello filosofico. Si parla infatti di « epoca materialistica », di «tendenze materialistiche » o del «materialismo » di gruppi o ceti di persone per indicare la tendenza al benessere o, più esatta- mente, un’etica che assuma il piacere come sola guida della condotta. Il termine filosofico per questo è edonismo (v.). L’edonismo si accompagna spesso col M. ma non necessariamente. L’etica di Epicuro e dei materialisti dell’800 è edonista; ma non lo è l’etica di Democrito. D'altronde l’edonismo può essere proprio di filosofie non materialistiche; e per es. fu accettato dai Cirenaici e degli Empiristi del xvm secolo. Nella sua forma estrema tuttavia l’edonismo costituì una manifestazione caratte- ristica del M. psicofisico settecentesco, che, su questo punto, fu una continuazione del /iberti- nismo (v.). L’opera di HELVETIUS, De l’esprit (1758) è particolarmente significativa a questo riguardo perchè contiene un’esaltazione indiscri- minata del piacere: come l’altra di qualche anno anteriore di La METTRIE, L’art de jouir ou l’école de la volupté (1751). 4° Il materialismo psicofisico consiste nell’af- fermare la stretta dipendenza causale dell’attività spirituale umana dalla materia cioè dall’organismo, dal sistema nervoso o dal cervello. Questa tesi si è presentata in diverse forme nel xvm e xIx secolo. Una di queste forme è la concezione del- l’uomo macchina. L'espressione fu usata dal fran- cese La METTRIE come titolo d’una sua opera famosa (1748); ma il concetto si trova anche espresso nell'opera di Dave HARTLEY, Observations of Man (1749) e in quella di GiusepPE PRIESTLEY Disquisitions Relating to Matter and Spirit (1777). Il Système de la nature di Holbach è forse la mi- 565 gliore espressione di questo punto di vista: secondo il quale tutte le facoltà umane sono modi d’essere e di agire che risultano dall’organismo fisico del- l’uomo, a sua volta determinato dalla macchina dell’universo. Una più ristretta e specifica forma di questo M. è quella che esso assunse nell’opera del medico francese Pietro CABANIS, Rapports du physique et du moral de l'homme (1802) che insiste sulla dipendenza delle attività psichiche dal sistema nervoso. Verso la metà dell’800 questa dipendenza causale dei poteri spirituali umani dal sistema ner- voso sembrò a molti filosofi e scienziati un fatto stabilito. Il M. di quell’epoca fa leva appunto su questo fatto. Lo zoologo Carlo Vogt in uno scritto del 1854, La fede del carbonaro e la scienza (KOhler- glaube und Wissenschaft, 1854) affermava che «il pensiero sta al cervello nella stessa relazione in cui la bile sta al fegato o l’urina ai reni»: una affermazione cui faceva riscontro quella dello sto- rico e letterato francese Ippolito Taine: «Il vizio e la virtù sono prodotti come il vetriolo e lo zuc- chero, e ogni dato complesso nasce dall’incontro di altri dati più semplici da cui dipende » (Histoire de la littérature anglaise, 1863, Intr.). Un’altra forma più attenuata o se si vuole più signorile della stessa dottrina è quella secondo la quale la coscienza è l’epifenomeno dei processi nervosi nel senso che mentre è prodotta da essi non reagisce su di essi più che l’ombra non reagisca sull’oggetto che la produce (Huxley, Clifford, Ribot). La Storia del M. (Geschichte des Materialismus, 1866) di Fede- rico Alberto Lange impernia l’esposizione del M. proprio sul M. psicofisico: nel quale egli vede un salutare mernento contro la pretesa di estendere il sapere umano al di là di certi limiti. Il M., secondo Lange, rinasce tutte le volte che l’uomo dimentica

questi limiti e pretende dare valore oggettivo a costru- zioni metafisiche che hanno solo valore fantastico. Sia il M. metafisico sia il M. psicofisico della metà dell’800 hanno un carattere romantico. Non vogliono, cioè, limitarsi ad essere tesi filosofiche dotate di maggiori o minori possibilità di conferme ma pretendono essere dottrine di vita, destinate a sconfiggere la religione e a soppiantarla. Questa pretesa dà a tali dottrine un tono violentemente polemico e profetico, per cui la « Scienza » diventa la nuova tavola della verità assoluta. Questo atteg- giamento si chiamò scientismo (v.) e costituisce l’avanguardia romantica della scienza dell’800. Di tale scientismo, il M. costituì il credo: un credo che la scienza stessa in buona parte contribuì a smantel- lare, con la crisi in cui entrava, negli ultimi decenni del secolo, la concezione meccanistica di essa. MATERIALISMO DIALETTICO (ingl. Dia- lectical Materialism; franc. Matérialisme dialectique; ted. Dialektischer Materialismus). S’intende con 566 questa espressione la filosofia ufficiale del comunismo in quanto teoria dialettica della realtà (naturale e storica). Più che di un materialismo (v.), si tratta veramente di un dialettismo naturalistico, i cui principi furono posti da Marx (v. DIALETTICA), ma svolti da Engels in un modo che è poi stato più o meno pedissequamente seguìto dai filosofi del mondo comunista, che sono i soli seguaci di tale filosofia. Secondo Engels, Hegel ha perfettamente riconosciuto le leggi della dialettica, ma le ha consi- derate come « pure leggi del pensiero + sicchè non sono state ricavate dalla natura e dalla storia, ma « elargite ad esse dall’alto come leggi del pensiero ». Ma «se noi capovolgiamo la cosa, tutto diviene semplice: le leggi della dialettica che nella filosofia idealistica appaiono estremamente misteriose diven- tano subito semplici e chiare come il sole» (Anti- Diihring, pref.). Tali leggi sono, secondo Engels, tre: 1° La legge della conversione della quantità in qualità e viceversa; 2° La legge della compene- trazione degli opposti; 3° La legge della negazione della negazione. La prima significa che nella natura le variazioni qualitative possono essere ottenute soltanto aggiungendo o togliendo materia o movi- mento, cioè mediante variazioni quantitative. La seconda legge garantisce l’unità e la continuità del mutamento incessante della natura. La terza significa che ogni sintesi è a sua volta la tesi di una nuova antitesi che metterà capo ad una nuova sintesi (EncELS, Dialektik der Natur, passim). L'insieme di queste leggi determina, secondo Engels, l’evoluzione necessaria, e necessariamente progressiva, del mondo naturale. L'evoluzione storica continua, con le stesse leggi, quella naturale. Il senso dell’intero processo è ottimistico. L'organizzazione della pro- duzione secondo un piano, quale si attuerà nella società comunista, è destinato a sollevare gli uomini al di sopra del mondo animale dal punto di vista sociale, come l’uso degli strumenti della produzione lo ha fatto dal punto di vista della specie. Come si vede il M. dialettico di Engels non è altro che la teoria dell'evoluzione (la quale celebrava ai tempi di Engels i suoi primi trionfi) interpretata nei termini delle formule dialettiche hegeliane e condotta al suo più ottimistico esito. Si considerano abitualmente come parti integranti del M. dialettico, il materialismo storico e il mate- rialismo metafisico. Sul primo, v. la voce a parte. Sul secondo, hanno insistito, più che Marx e Engels, Lenin e i comunisti russi. Lenin così recapitolava le tesi del materialismo: «1° Ci sono cose che esistono indipendentemente dalla nostra coscienza, indipen- dentemente dalle nostre sensazioni, al di fuori di noi. 2° Non esiste e non può esistere alcuna differenza di principio tra il fenomeno e la cosa in sè. La sola differenza effettiva è quella tra ciò che è cono- MATERIALISMO STORICO sciuto e ciò che non lo è ancora. 3° Sulla teoria della conoscenza, come in tutti gli altri campi della scienza, si deve ragionare sempre dialetti- camente cioè non supporre mai invariabile e già fatta la nostra conoscenza ma analizzare il pro- cesso per cui la conoscenza nasce dall’ignoranza o grazie al quale la conoscenza vaga e incom- pleta diventa conoscenza più adeguata e precisa » (Materialismus und Empiriokritizismus, 1909; tra- duzione ital., pag. 75). Come si vede, neppure queste tesi esprimono una concezione materiali- stica, ma costituiscono una rivendicazione del realismo gnoseologico. MATERIALISMO STORICO (ingl. MHisto- rical Materialism; franc. Matérialisme historique; ted. Historischer Materialismus). Con questo nome fu designato da Engels il canone di interpretazione storica proposto da Marx e precisamente quello che consiste nel riconoscere ai fattori economici (tecniche di lavoro e di produzione, rapporti di lavoro e di produzione) un peso preponderante nella determinazione degli eventi storici. Il presup- posto di questo canone è il punto di vista antro- pologico difeso da Marx, secondo il quale la perso- nalità umana è costituita intrinsecamente (cioè nella sua stessa natura) dai rapporti di lavoro e di produ- zione in cui l’uomo entra per far fronte ai suoi bisogni. Di questi rapporti la « coscienza » dell’uomo (cioè le sue credenze religiose, morali, politiche, ecc.) è piuttosto un risultato che un presupposto. Questo punto di vista venne difeso da Marx soprattutto nello scritto /deologia tedesca (Deutsche Ideologie, 1845-46). Stando ciò, la tesi del materialismo sto- rico è che le forme che la società storicamente assume dipendono dai rapporti economici che prevalgono in una certa fase di essa. Dice Marx: « Nella produ- zione sociale della loro vita, gli uomini entrano in determinati rapporti necessari e indipendenti dalla loro volontà, rapporti di produzione che corrispon- dono ad una certa fase di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, che è la base reale su cui si edifica una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corri- spondono determinate forme sociali di coscienza... Il modo di produzione della vita materiale condiziona perciò in generale, il processo della vita sociale, po- litica e spirituale » (Zur Kritik der politischen Oko- nomie, 1859, Pref.; trad. ital., pag. 17). Marx elaborò questa teoria soprattutto in opposizione al punto di vista di Hegel: per Hegel è la coscienza che determina l’essere sociale dell’uomo; per Marx invece è l’essere sociale dell’uomo che determina la sua coscienza. Non bisogna tuttavia credere che Marx abbia voluto farsi sostenitore di un fatalismo economico per il quale le condizioni economiche necessitereb- MATRICI, METODO DELLE bero l’uomo a determinate forme di vita sociale. Negli stessi rapporti economici, in quanto dipen- dono dalle tecniche di lavoro, di produzione, di scambio, ecc. l’uomo entra come elemento attivo e condizionante; e pertanto la condizionalità che la struttura economica esercita sulle soprastrutture sociali è, almeno parzialmente, una auto condi- zionalità dell’uomo nei confronti di se stesso (Deutsche Ideologie, I, C; trad. ital., pag. 69 sgg.). Engel parlò in seguito di un «rovesciamento della prassi storica +, cioè di una reazione della coscienza umana alle condizioni materiali, opposta all’azione di questa su quella. Ma dal punto di vista di Marx, di tale rovesciamento non c’è bisogno: giacchè non è la soprastruttura che reagisce sulla struttura, ma l’uomo che, intervenendo, con le sue tecniche, a mutare o a migliorare la struttura economica, si autocondiziona attraverso di essa. Il materialismo storico ha proposto all’attenzione degli storici un canone di interpretazione al quale in molti casi è indispensabile far ricorso per la spiegazione di eventi e di istituzioni storico-sociali. A questo canone fanno infatti ricorso, in più o meno larga misura, storici di tutti i domini dell'attività umana, in quanto esso apre alla spiegazione storica una via che, talvolta, è la sola possibile. Tuttavia non è sempre la sola possibile. Si tende oggi a inter- pretare il materialismo storico, non come un prin- cipio dogmatico (quale soprattutto Engel lo pro- pose), ma come una possibilità esplicativa cui si debba far ricorso in circostanze appropriate. In altri termini, affermare che in ogni caso eventi o situazioni storico-sociali debbano essere spiegate col determinismo dei fattori economici è tesi al- trettanto dogmatica di quella che volesse esclu- dere assolutamente e in ogni caso il determinismo di tali fattori. Lo storico si trova, in una data situazione, a dover determinare il peso relativo dei fattori determinanti; e si tratta di stabilirlo di volta in volta, di fronte alle situazioni partico- lari, senza che esso possa essere deciso in anticipo e una volta per tutte. Sottratto alla sua impostazione dogmatica, il materialismo storico ha offerto alla tecnica della spiegazione storiografica una delle sue possibilità più feconde e un nuovo grado di libertà alla scelta storiografica (v. STORIOGRAFIA). MATESIOLOGIA (franc. Mathésiologie). Ter- mine adoperato da Ampère per indicare la scienza che dovrebbe avere per oggetto « da una parte le leggi che si devono seguire nello studio o nell’in- segnamento delle conoscenze umane, dall’altra la classificazione naturale di queste conoscenze » (Essai sur la philosophie des sciences, 1834, pag. 31). MATHEMA (gr. uk0nua). Tutto ciò che è oggetto di apprendimento. In tal senso Platone chiama l’idea del bene «il più grande M.» (Rep., 567 VI, 505 a). Sesto Empirico riteneva che il M. im- plicasse, oltre la cosa appresa, colui che la apprende, e il modo dell’apprendimento (Adv. Math., I, 9) e intendeva per «matematici» tutti i cultori di scienze oltre che i filosofi. Kant restrinse la parola a indicare le proposizioni della matematica, che sono quelle ottenute mediante «la costruzione di concetti » (Cri. R. Pura, II, cap. 1, sez. 1). La parola più vicina all’uso classico del termine è disciplina (v.): una scienza in quanto si apprende o insegna. MATHESIS UNIVERSALIS. Così Leibniz (Op., ed. Erdmann, pag. 8) chiamò l’arte combina- toria o caratteristica universale (v.). Husserl ha ri- preso il termine per indicare la logica formale o pura come «scienza eidetica dell’oggetto in gene- rale », che egli caratterizza così: « Oggetto è per essa tutto ed ogni cosa e perciò possono essere costituite le verità infinitamente molteplici che si distribuiscono nelle molte discipline della mathesis. Queste ultime per altro rimandano tutte ad un piccolo patrimonio di verità immediate o fonda- mentali che nelle discipline puramente logiche fun- gono da assiomi + (Ideen, I, $ 10; Logische Untersu- chungen, I, cap. ultimo). MATRICI, METODO DELLE (ingl. Method of matrices; franc. Méthode des matrices). Il me- todo con cui si costruiscono le tavole di verità (v. TAVOLA) e che consiste nell’enumerazione si-

stematica delle possibilità di verità per un certo numero di proposizioni semplici cioè nell’enumera- zione delle combinazioni possibili dei valori di verità di queste proposizioni. Per una proposizione si hanno due possibilità (vero o falso), per due proposizioni quattro e in generale per n proposi- zioni 2° possibilità di verità. Questo metodo fu introdotto da Peirce in uno scritto del 1885 (Coll. Pap., 4.359-403), fu sviluppato da Schréder (A4/- gebra der Logik, 1890) adoperato dai logici polacchi e specialmente da Lukasiewicz per la costruzione delle logiche polivalenti (cioè che ammettono oltre ai due valori di verità, vero e falso, il valore possibile) (cfr. TARSKI, Logic, Semantics, Metamathematics, 1956, cap. IV), ed è adoperato oggi su vasta scala da molti logici matematici (cfr., ad es., BETH, Les fondements logiques des mathematiques, 1955, $ 34). Il metodo era conosciuto nell’antichità e Filone di Megara se ne servì nella sua analisi delle pro- posizioni condizionali. Egli infatti asserì che tali proposizioni sono vere nei casi seguenti: 1° se sia l’antecedente sia il conseguente sono veri; 2° se l’antecedente è falso e il conseguente è vero; 3° se l’antecedente e il conseguente sono entrambi falsi; ma sono false se l’antecedente è vero e il conse- guente è falso (Sesto EmMpPIRICO, Adv. Math., 1, 309). V. CONDIZIONALE; IMPLICAZIONE. 568 Il metodo delle M. serve in generale per rico- noscere se una proposizione del calcolo proposi- zionale è vera e se perciò può essere enumerata fra le leggi del calcolo (TARSKI, Introduction to Logic, $ 13; CHurc8Ò, Introduction to Mathematical Logic, I, $ 15). MATRIMONIO (gr. l'&uoc; lat. Matrimonium; ingl. Marriage; franc. Mariage; ted. Ehe). Qual- siasi progetto di vita in comune tra persone di sesso diverso. Questa è una definizione generaliz- zata che tiene conto della varietà di forme che il M. assume in gruppi sociali diversi nonchè dei diversi concetti che ne sono stati dati. Tali con- cetti possono essere raggruppati nel modo seguente: 1° Il M. come istituzione naturale. Così lo concepirono Platone che vide «nella società co- niugale il principio e l’origine di tutti gli stati » (Leggi, IV, 721 a); e Aristotele che considerò la famiglia «anteriore e più necessaria dello Stato » (Er. Nic., 8, 12, 1162a 18 sgg.); sebbene sia Pla- tone che Aristotele ritenessero indispensabile che lo Stato intervenisse a ordinare le modalità del matrimonio. In questo caso, il fine esclusivo del M. è la procreazione e l’educazione della prole. 2° Il M. come istituzione contrattuale. Così il M. venne inteso dal diritto romano e dal diritto canonico. In tal caso, pur riconoscendosi il fine del M. nella procreazione ed educazione della prole,

si distingue da esso la forma o essenza del M. considerato come un’associazione o comunità di vita (consortium omnis vitae, Dig., XXI, 23, 2) o « una qualche indivisibile congiunzione degli animi », come dice S. Tommaso (S. 7h., III, q. 29, a. 2), la cui condizione indispensabile è il consenso espresso nelle forme stabilite dalla legge civile o religiosa. Sull’aspetto contrattuale del M. insisteva Kant che lo definì come «l’unione di due persone di sesso diverso per il possesso reciproco delle loro facoltà sessuali durante tutta la vita »; lo considerò come fonte di un diritto reale oltre che personale nel senso che ognuno delle due persone è acquistata dall'altra proprio come una cosa; ma vide nella reciprocità di tale acquisto il riscatto della perso- nalità dei due coniugi (Mer. der Sitten, I, $ 24-25). Hegel invece insisteva sull’unità etico-sentimentale del M.: «Il M., egli diceva, non è essenzialmente nè unione meramente naturale, bestiale, nè un puro contratto civile, ma un’unione morale del senti- mento, nel mutuo amore e fiducia, che fa di due persone una sola persona » (Philosophische Propà- deutik, I, $ 51; Enc., $ 519; Fil. del Dir., $ 162). 3° Il M. come istituzione sociale. Questo è il punto di vista degli antropologi e sociologi che hanno riscontrato nei diversi gruppi umani, tutte le forme possibili di M.: quello di un uomo e di una donna, di un uomo e di più donne, di più MATRIMONIO donne e di un uomo, di più uomini e più donne (cfr., ad es., W. N. STEPHENS, The Family in Cross- Cultural Perspective, 1963). Da questo punto di vista, Levi-Strauss ha considerato le regole del M. come una specie di linguaggio, cioè un certo tipo di comunicazione: più specificamente come la co- municazione delle donne nel seno di un gruppo (Structures élémentaires de la parenté, 1949; cfr. An- thropologie structurale, 1958, pag. 69 sgg.). MECCANICISMO (ingl. Mechanism; francese Mécanisme; ted. Mecanismus). Ogni dottrina che faccia ricorso alla spiegazione meccanicistica. Per spiegazione meccanicistica si intende quella che si serve esclusivamente del movimento dei corpi, in- teso nel senso ristretto di movimento spaziale. In questo senso, una teoria meccanicistica della natura è quelia che non ammette altra spiegazione possi- bile dei fatti naturali, a qualsiasi dominio apparten- fano, se non quella che li considera come movi- menti o combinazioni di movimenti di corpi nello spazio. Il M. può essere considerato: 1° come una concezione filosofica del mondo; 2° come un me- todo o un principio direttivo della ricerca scien- tifica. 1° Come concezione filosofica del mondo, il M. si è presentato, sin dall’antichità, come asomismo (v.). La concezione del mondo come di un sistema di corpi in movimento, cioè di una grossa macchina, è propria dell’atomismo antico. Il materialismo del *700 e dell’800 ha ripreso questa concezione, la quale è contrassegnata dalle seguenti caratteri- stiche: a) la negazione di ogni ordine finalistico. La polemica fra M. e finalismo è cominciata non appena, a partire dal ’600, il M. si è affermato col sorgere della scienza moderna. Anche oggi, spesso, per M. non s'intende che la negazione del fina- lismo (v.); b) il determinismo rigoroso cioè il con- cetto di una causalità necessaria che investa tutti i fenomeni della natura. Oggi si considera come non meccanicistica ogni concezione del mondo che neghi il determinismo rigoroso. I due tratti precedenti si trovano tipicamente espressi nella filosofia di Hobbes che costituisce una delle migliori espressioni del M. filosofico (v. MATERIALISMO). Dall'altro lato, la veduta più scaltrita che le filosofie antimeccanicistiche dell’800 assunsero di fronte al M. fu quella espressa da Lotze nel Microcosmo (1856) e cioè che «il com- pito che spetta al M. nell’ordinamento dell’uni- verso è universale senza eccezioni quanto alla sua estensione, ma nel tempo stesso affatto secondario quanto alla sua importanza» (Mikrokosmus, I, Intr.; trad. ital., pag. 10): o, in altri termini, che il M. non è che lo strumento di cui il Principio razionale o divino dell’universo si è avvalso per raggiungere i suoi scopi. Questo punto di vista si è intrecciato, MECCANICISMO nella filosofia spiritualistica contemporanea, con la critica ab extrinseco dei princìpi scientifici del mec- canicismo. Nel frattempo, tuttavia, cioè a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, il M. come concezione filosofica generale non trovava più so- stenitori per motivi che saranno chiari nel seguito. 2° Il M. scientifico può essere considerato: a) nella fisica; 5) nelle altre scienze. a) Nella fisica, il M. consiste nella tesi che tutti i fenomeni della natura debbano essere spie- gati con le semplici leggi della meccanica; e che pertanto la meccanica stessa possegga uno status privilegiato fra le altre scienze, in quanto fornisce a tutte i princìpi di spiegazione. Ora la meccanica come scienza è creazione relativamente recente. Archimede conosceva gli elementi della srarica cioè di quella parte di essa che tratta dell’equilibrio delle forze ma la dinamica, cioè lo studio dei mo- vimenti dei corpi sotto l’azione delle forze, rimase sconosciuta agli antichi ed è stata fondata da Galilei e da Newton. Il principio di D’Alembert unificava poi la statica e la dinamica mostrando che un problema di dinamica può essere trasformato in un problema di equilibrio di forze, quindi di sta- tica, prendendo in considerazione forze fittizie dette « forze d’inerzia »: e così, per es., l’orbita di un pianeta intorno al sole può essere considerata come l’equilibrio tra la forza gravitazionale e una forza centrifuga uguale ed opposta. Con questa concezione la meccanica era in qualche modo con- clusa quanto ai suoi teoremi fondamentali. Da allora essa ha subìto soltanto trasformazioni con- cettuali e linguistiche che hanno mirato a renderla più coerente e semplice. Da questo punto di vista, una seconda fase dello sviluppo della meccanica può essere considerato quello che essa ha subìto verso la metà dell’800, ad opera soprattutto di Hamilton, con la sostituzione dell’idea di energia a quella di forza. La prima fase della meccanica era caratterizzata dal tentativo di spiegare i feno- meni naturali col ridurli a innumerevoli azioni a distanza fra gli atomi della materia. La seconda fase si ispira all'importanza che il principio di conservazione dell’energia (enunciato da Helm- holtz nel 1847) aveva assunto nella scienza e dalla espressione, in termini di energia cinetica e poten- ziale, delle leggi fondamentali della meccanica. Una terza fase fu iniziata verso la fine del secolo, da Hertz, che cercò di ridurre la dinamica alla cine- matica, ammettendo come legge fondamentale quella del minimo principio: ogni sistema libero persiste nel suo stato di riposo e di movimento uniforme lungo la via più breve. Da queste vicende della meccanica è relativa- mente indipendente il M. della fisica. Come si è detto, la caratteristica delle teorie meccanicistiche 569 in fisica è quella di utilizzare esclusivamente le grandezze che sono proprie della meccanica (la forza, la massa, l’energia, ecc.). Si può distinguere: la teoria meccanistica della discontinuità e la teoria meccanistica del conrinuo. La teoria meccanistica del discontinuo è la teoria atomica che è stata invocata a spiegare, oltre che la luce (teoria crepuscolare), vari fenomeni fisici come l’adesione, la coesione, la capillarità; e che ha dato luogo alla teoria cinetica dei gas e alle prime teorie dei fenomeni elettrici. Le teorie mec- canistiche fondate sulla continuità furono rese pos- sibili soltanto dalla scoperta di più complicati strumenti di calcolo differenziale; e trovano il loro esemplare nella ipotesi di Fresnel sull’etere ela- stico come mezzo di propagazione delle onde lu- minose. Entrambe queste teorie sono state nella fisica eliminate dalla teoria del campo (v.) con la quale i concetti della meccanica hanno cessato di valere come princìpi esplicativi generali della fisica. Contemporaneamente l’altra caratteristica fondamentale del M. cioè il determinismo rigoroso o necessitarismo veniva eliminato dall’affermarsi della teoria quantistica (v. CAUSALITÀ). « Le leggi della fisica quantistica, dicono a questo proposito Einstein e Infeld, non governano le vicende nel tempo di oggetti singoli ma governano le variazioni della probabilità nel tempo» (The Evolution of Physics, IV; trad. ital., pag. 298). Con questa tra- sformazione la fisica è uscita dalla sua fase mecca- nistica, costituendosi come scienza della previsione probabile (v. Fisica). b) Il M. non è stato soltanto un principio direttivo della fisica; a partire dalla metà del se- colo xvm è stato anche il principio direttivo di tutte le altre scienze naturali compresa la biologia, la psicologia e la sociologia. Ovviamente, fuori della fisica, il M. ha avuto un carattere assai meno rigoroso: non si è mai raggiunto neanche per la spiegazione dei più semplici fenomeni biologici, psicologici o sociologici, l’esattezza quantitativa dei modelli meccanici impiegati a spiegare, per es., il fenomeno della capillarità o quello dell’interfe- renza della luce. Fuori della fisica, pertanto, il M. è stato più un’aspirazione generica, una tesi filo- sofica o nella migliore ipotesi una generica esi- genza di metodo, che un effettivo strumento di spiegazione. Polemicamente, esso ha fatto valere l’istanza della necessità causale contro il finalismo; e positivamente ha affermato in ogni campo l’esi- genza dell’analisi quantitativa. Oltre a questo, le tesi del M., nei vari campi della scienza, sono tesi riduzionistiche: il M. della biologia consiste nel ridurre le leggi biologiche a leggi fisico-chimiche; il M. della psicologia consiste nel ridurre le leggi psicologiche a leggi biologiche; e così il M. nella 570 sociologia consiste nel ridurre le leggi sociolo- giche a leggi biologiche e psicologiche. Queste ten- denze riduzionistiche hanno avuto la loro utilità nello sgombrare il campo delle rispettive scienze da impalcature concettuali antiquate, da presup- posti metafisici o teologici che impacciavano la ricerca o addirittura la bloccavano. La scienza del sec. xx, a partire soprattutto dal terzo decennio di esso, ha tuttavia abbandonato l’impostazione riduzionistica e perciò il M. senza tuttavia ritornare alle posizioni cui il M. si contrapponeva. La bio- logia, ad es., ha abbandonato il presupposto che i fenomeni vitali siano retti solo da leggi fisico-chi- miche senza tuttavia ammettere una qualsiasi forma di vitalismo (v. EvoLUZIONE; VITALISMO). Si può dire pertanto che il M. è stato abbandonato; ma bisogna aggiungere che con esso sono stati abbandonati anche gli indirizzi concettuali ai quali il M. si con- trapponeva e dei quali rappresentava la correzione. MEDIANITÀ (ted. Durchschaittlichkeit). Se- condo Heidegger, quel che l’uomo è in media o all’ingrosso, nella sua esistenza quotidiana e indif- ferente: una determinazione fondamentale dell’esi- stenza dalla quale l’analisi esistenziale deve pren- dere le mosse (Sein und Zeit, $ 9). MEDIATORE PLASTICO (franc. Médiateur Plastique). Così fu chiamata da alcuni filosofi del- 1°800 la « natura plastica » di cui parlava Cudworth come Ectipo (v.) cioè intermediario tra Dio e il mondo (The True Intellectual System of the Uni- verse, I, 1, 3). L'espressione si trova usata da Laromiguière (Lecons de phil., 1815-18, II, 9) e da Galluppi (Zezioni di logica e metafisica, 1832- 1836, II, pag. 273). MEDIAZIONE (ingl. Mediation; franc. Mé- diation; ted. Vermittelung). La funzione che mette in relazione due termini o due oggetti in gene- rale. Tale funzione è stata riconosciuta propria: 1° del termine medio nel sillogismo; 2° delle prove nella dimostrazione; 3° della riflessione; 4° dei demoni nella religione. 1° Secondo Aristotele il sillogismo è determinato dalla funzione mediatrice del termine medio che con- tiene in sè un termine ed è contenuto dall’altro ter- mine (An. Pr., I, 4, 25b 35) (v. SILLOGISMO). 2° Secondo la logica di Portoreale, la M. è indispensabile in qualsiasi ragionamento. « Quando la sola considerazione di due idee non basta a far giudicare se si deve affermare o negare l’una dell’altra, si ha bisogno di ricorrere a una terza idea, semplice o complessa, e questa terza idea si chiama medio » (ARNAULD, Log., III, 1). A sua volta Locke diceva: « Le idee intermedie che ser- vono a dimostrare la concordanza tra due altre sono chiamate prove; e quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente percepita la con- MEDIANITÀ cordanza o discordanza, questa è detta una dimo- strazione » (Saggio, IV, 2, 3). Nello stesso senso d’Alembert affermava: « Tutta la logica si riduce a una regola semplicissima: per confrontare due o più oggetti lontani gli uni dagli altri ci si serve di più oggetti intermediari. Lo stesso accade quando si vogliono confrontare due o più idee; l’arte del ragionamento non è che lo sviluppo di questo principio e delle conseguenze che ne risultano » (CEuvres, ed. Condorcet, 1853, pag. 224). 3° Secondo Hegel, la M. è la riflessione in generale (Werke, ed. Glockner, II, pag. 25; IV, pag. 553; ecc.). « Un contenuto può essere cono- sciuto come la verità, dice Hegel, solo in quanto non è mediato con un altro, non è finito, si media dunque con se stesso, ed è così, tutto in uno, M. e relazione immediata con se stesso ». In altri termini, la riflessione esclude non solo l'immediatezza, che è l'intuire astratto cioè il sapere immediato, ma anche la «relazione astratta» cioè la M. di un concetto con un concetto diverso (le prove di Locke) che Hegel ritiene propria (e con ragione) del secolo dell'illuminismo (Enc., $ 74). 4° Una funzione mediatrice tra gli dèi e gli uomini fu riservata, nell’antichità, ai demoni. Il Demiurgo platonico incarica le divinità inferiori o demoni di creare le generazioni mortali e comple- tare l’opera della creazione (Tim., 41 a-c). Plotino dice che i demoni sono eterni, in relazione con noi, e «intermediari fra gli dèi e la nostra specie » (Enn., III, 5, 6). Come mediatore era concepito Mitra e precisamente come mediatore tra l’irrag- giungibile divinità delle sfere eteree e il genere umano (CuMONT, The Mysteries of Mithra, pa- gina 127 sgg.). Infine secondo la dottrina cristiana, «al solo Cristo compete di essere mediatore in modo semplice e perfetto », mentre angeli e sacer- doti sono piuttosto strumenti di M. (S. TomMaso, S. Th., III, q. 26, a. 1). MEDIETÀ (gr. ueoémg; lat. Medietas; in- glese Mean; franc. Milieu; ted. Mittel). Il mezzo, o giusto mezzo, tra gli estremi, che, secondo Ari- stotele, può essere definito o in relazione alle cose o in relazione a noi. « Se ogni scienza, dice Aristo- tele, adempie bene al suo compito mirando al giusto mezzo e indirizzando ad esso le sue opere (onde siamo soliti dire delle buone opere che non c’è nulla da togliere nè da aggiungere in quanto l’eccesso e il difetto rovinano ciò che sta bene mentre la M. lo salva) se cioè i buoni artisti lavo- rano guardando a questo mezzo, la virtù che è, come la natura, più accurata e migliore di ogni arte, dovrà tendere proprio al giusto mezzo » (Er. Nic., II, 6, 1106b 8). La M. è tuttavia la definizione soltanto della virtà etica (v.) o morale perchè solo questa concerne passioni o azioni che MEMORIA sono suscettibili di eccesso o difetto (cfr. pure S. Tommaso, S. 7A., I, II, q. 59, a. 1) (v. VIRTÙ). MEDITAZIONE. V. MisticIsMO. MEGARISMO (ingl. Megarism; franc. Méga- risme; ted. Megarismus). La scuola socratica di Megara, fondata nel sec. v a. C. da Euclide (da non confondere col matematico Euclide che visse ed insegnò ad Alessandria circa un secolo dopo). Altri rappresentanti della scuola sono Eubulide di Mileto, Diodoro Crono e Stilpone che insegnò in Atene verso il 320 avanti Cristo. La caratteristica della scuola è quella di unire l’insegnamento di Socrate con la dottrina eleatica. Euclide riteneva che uno solo è il bene ed è l'Unità, chiamata con vari nomi: Saggezza, Dio, Intelletto, ecc. Pertanto come gli Eleati, i Megarici polemizzavano contro la realtà del movimento, del mutamento e del molteplice. A confutare questa realtà miravano vari argomenti, di natura sofistica, da essi ad- dotti: come l’argomento del sorife (v.) o del calvo; come pure mirava la negazione della pos- sibilità fatta da Diodoro Crono (per quest’ultima v. PossisiLiTÀà). Alcuni di questi argomenti furono ripresi dagli Stoici, in quei ragionamenti « am- bigui » o « convertibili » che in seguito si chiama- rono dilemmi (v.) che oggi chiamano paradossi o antinomie (v.). MEGLIORISMO (ingl. Meliorism; frane. Mé- liorisme; ted. Meliorismus). Parola recente, usata soprattutto da scrittori anglossassoni, per indicare un atteggiamento di fronte al mondo non pessi- mistico nè ottimistico ma orientato verso la speranza del meglio e la volontà di realizzarlo. MELANCONIA (gr. uérac yo; ingl. Melan- cholia; franc. Mélancolie; ted. Melancholie). Pro- priamente, umor nero (v. TEMPERAMENTO). Nel linguaggio comune, tristezza senza motivo. MEMORIA (gr. uviun; lat. Memoria; ingl. Me- mory; franc. Mémoire; ted. Gedachtnis). La possi- bilità di disporre delle conoscenze passate. Per conoscenze passate bisogna intendere quelle che sono state già, in un modo qualsiasi, disponibili; e non già semplicemente conoscenze de/ passato. La conoscenza del passato può essere anche di nuova formazione: per es., disponiamo ora di informa- zioni circa il passato del nostro pianeta o del nostro universo che non sono affatto ricordi. Una conoscenza passata non è neppure, semplicemente, un’impronta, una traccia qualsiasi: un’impronta o traccia è difatti alcunchè di presente, non di pas- sato. La tristezza o l’imperfezione fisica lasciati da un incidente di cui si è stati vittima, non sono la M. di questo incidente, per quanto ne siano le tracce, mentre un ricordo può essere disponibile e pronto senza l’aiuto di alcuna traccia, come è il caso di una formula per il matematico e in ge- 571 nerale dei ricordi che sono affidati a formazioni o ad abiti professionali. La M. sembra costituita da due condizioni o momenti distinti: 1° la conservazione o persistenza, in una certa forma, delle conoscenze passate che, per esser passate, devono essersi sottratte alla vista: questo momento è la rifentiva; 2° la possibilità di richiamare, all’occorrenza, la conoscenza passata e di renderla attuale o presente: che è propriamente il ricordo. Questi due momenti furono già distinti da Platone che li chiamò rispettivamente « conser- vazione di sensazione» e «reminiscenza» (Fil, 34 a-c); e da Aristotele che si serve degli stessi termini. Aristotele pone anche chiaramente il pro- blema che emerge dalla conservazione della rappre- sentazione come traccia (impressione) di una cono- scenza passata. « Se rimane in noi, egli dice, qualcosa che è simile a un’impronta o ad una pittura, come può la percezione di questa impronta essere M. di qualch’altra cosa e non soltanto di sè? Infatti, chi effettivamente ricorda non vede che questa im- pronta e solo di essa ha sensazione: come può allora ricordare ciò che non è presente?» (De Mem., 1, 450b 17). La risposta di Aristotele a questa difficoltà è che l’impronta nell’anima è come un quadro che può essere considerato o per sè o per l’oggetto che rappresenta. « Come, egli dice, un animale dipinto in un quadro è sia un animale sia un’immagine ed è insieme entrambe le cose, sebbene il loro essere non sia lo stesso, sicchè può essere considerato sia come animale sia come immagine; così anche l’immagine mnemonica che è in noi dev'essere considerata un oggetto di per se stesso e nello stesso tempo rappresentazione di qualche altra cosa» (/bid., 450b 21). La spiega- zione dell’intero processo della M., sia come ri- tentiva sia come ricordo, è poi, secondo Aristotele interamente fisica: a un movimento è affidata la ritentiva e la produzione dell’impronta ed è un mo- vimento che produce il ricordo. Il ricordo tuttavia, a differenza della ritentiva, è una specie di dedu- zione (sillogismo); giacchè « chi ricorda deduce che ha già ascoltato, o comunque percepito ciò che ri- corda; ed è questa una specie di ricerca » (Ibid., 453 a 11). Il ricordo è perciò soltanto degli uomini. Con ciò Aristotele metteva in luce un altro carat- tere fondamentale della M. come ricordo: il suo carattere attivo di deliberazione o di scelta. L’ana- lisi platonico-aristotelica della M. ha messo in luce i seguenti punti: a) la distinzione tra ritentiva e ricordo; 5) il riconoscimento del carattere attivo o volontario del ricordo di fronte al carattere naturale o passivo della ritentiva; c) la base fisica del ricordo come conservazione di movimento o movimento conservato. Questi punti si può dire che rimangano costanti nella storia successiva del 572 concetto. Tuttavia le dottrine che successivamente si presentano possono essere suddivise in due gruppi, a seconda che fanno leva, per l’interpretazione della M., sull’aspetto per cui essa è ritentiva o conser- vazione o sull’aspetto per cui è ricordo. A) La psicologia antica ha insistito sull’aspetto per il quale la M. è conservazione, persistenza di conoscenze acquisite. La trattazione misticheggiante di Plotino, oltre a negare la base fisica della M. e a vedere dal corpo un ostacolo più che un aiuto di essa (Enn., IV, 3, 26) proporziona la M. alla forza e alla persistenza della conservazione: « Se l’immagine persiste nell’assenza dell’oggetto, v’è già M., anche se persiste per poco; se persiste per poco, la M. è corta; se dura di più la M. aumenta perchè la forza dell’immaginazione è maggiore; e se difficilmente vien meno, la M. è indistruttibile » (4bid., IV, 3, 29). In modo analogo, l’elencazione che S. Agostino fa dei « miracoli » della M., poggia sullo stesso concetto di essa come ricettacolo delle conoscenze o, secondo la sua espressione, « ventre dell’anima » (Conf., X, 14). Questo è pure il concetto che della M. ebbero i filosofi medievali. S. Tommaso la chiama «il tesoro e il posto di conservazione delle specie » (S. 7%., I, q. 29, a. 7), ripetendo un luogo comune della filosofia medievale. Ciò equi- valeva ad insistere sulla M. come ritentiva. Ma sulla M. come conservazione insistono anche concezioni moderne e contemporanee che, ripren- dendo la concezione agostiniana del tempo come distensio animi o durata di coscienza, vedono nella M. la conservazione integrale dello spirito da parte di se stesso: cioè la persistenza in esso di tutte le sue azioni e affezioni, di tutte le sue manifesta- zioni o modi d’essere. Questa concezione fu già esposta da Leibniz che concepiva la M. come conservazione integrale sotto forma di virtualità o « piccole percezioni + delle idee che non hanno più la forma di pensieri o di «appercezioni»: onde osservava contro Locke: «Se le idee non fossero che forme o modi dei pensieri, cesserebbero con essi; ma voi stesso, Signore, avete riconosciuto che esse sono gli oggetti interni dei pensieri e come tali possono sussistere. E io mi meraviglio che voi possiate fare a meno di queste potenze o fa- coltà pure, che abbandonate, a quanto sembra, ai filosofi della scuola » (Nouv. Ess., II, 10, 2). Sotto forma di virtualità o facoltà può e deve conser- varsi integralmente ogni atto o manifestazione dello spirito giacchè lo spirito è per l’appunto questa

auto-conservazione. Tale è la concezione della M. propria di ogni filosofia spiritualistica o coscienzia- listica. Nel modo migliore e più circostanziato tale concezione è stata esposta da Bergson in Materia e M. (1896) e da lui contrapposta alla concezione della M. fondata sul ricordo. «La M., egli ha MEMORIA detto, non consiste nella regressione dal presente al passato, ma al contrario nel progresso dal pas- sato al presente. È nel passato che noi ci situiamo di colpo. Partiamo da uno stato virtuale, che con- duciamo a poco a poco, mediante una serie di piani di coscienza diversi, sino al termine in cui esso si materializza in una appercezione attuale cioè sino al punto in cui diviene uno stato pre- sente e agente, cioè, infine, sino a quel piano estremo della nostra coscienza su cui si disegna il nostro corpo. In questo stato virtuale consiste il ricordo puro» (Matiére et mémoire, 7® ediz., pag. 245). La M. pura (o ricordo puro) è la cor- rente di coscienza in cui tutto vien conservato allo stato di virtualità. La limitazione del ricordare effettivo non appartiene alla M. ma al ricordo attuale che Bergson identifica con la percezione e che è una scelta operata nella M. pura per le esi- genze dell’azione. Pertanto le lesioni cerebrali non affettano la M. vera e propria, ma soltanto la reminiscenza dei ricordi nella percezione cioè il meccanismo attraverso il quale la M. si inserisce nel corpo e diventa azione. Questa teoria, che Bergson appoggiava ad una analisi dei disturbi delle funzioni mnemoniche, è caratterizzata da due punti fondamentali: 1° la distinzione tra la M. pura e il ricordo, intendendosi per M. pura la conservazione integrale, indipendente da ogni cir- costanza, dello spirito da parte dello spirito. Ora è evidente che tale M. non ha niente a che fare con la memoria osservabile; 2° la negazione di ogni base fisiologica della M. pura e la restrizione della base fisiologica al fenomeno della percezione. Anche questa negazione non ha alcuna conferma di fatto mentre trova il suo precedente storico nella teoria di Plotino. Da Cartesio in poi (Princ. Phil., IV, 196) la base fisiologica della M. non è stata negata. La stessa conservazione integrale dello spirito da parte dello spirito è la «corrente della coscienza » di cui parla Husserl, che anch'egli ri- corre al concetto adoperato da Leibniz e da Bergson di virtualità o potenzialità per contrassegnare la me- moria. « Oltre che nell’appercezione, dice Husserl, le cose possono essere esperite nel ricordo e nelle ripresentazioni affini al ricordo... Appartiene all’es- senza di queste esperienze vissute quella importante modificazione che trasporta la coscienza dal modo dell’attualità al modo dell’inattualità e viceversa. In un caso l’esperienza vissuta è coscienza esplicita del suo oggetto; nell’altro è coscienza implicita, soltanto potenziale» (/deen, I, $ 35). Il presup- posto è sempre quello della totale conservazione di tutto il contenuto della coscienza: il feno- meno del ricordo è legato al passaggio del conte- nuto dallo stato attuale a quello potenziale o viceversa. MENTALITÀ B) Ad un secondo gruppo di teorie della M. appartengono quelle che hanno fatto soprattutto leva sul fenomeno del ricordo. Hobbes, per es., ha definito la M. come «il sentire di aver già sen- tito» (De corp., 25, 1): il che significa definirla in rapporto all’atto con cui si riconosce, in ciò che si percepisce, ciò che si è percepito altra volta. Da questo stesso punto di vista Wolff definiva la M. come «la facoltà di riconoscere le idee ripro- dotte e le cose da esse rappresentate» (Psychol. rationalis, $ 278): un concetto che si ritrova anche in Baumgarten (Me., $ 579). Da questo punto di vista si tende talvolta a riconoscere il carattere attivo della M. cioè la funzione della volontà o della scelta deliberata nel richiamare i ricordi. Di- ceva Locke: « In questo richiamo delle idee riposte nella M., lo spirito stesso non è puramente passivo perchè la rappresentazione di questi quadri dor- mienti dipende a volte dalla volontà» (Saggio, II, 10, 7). Kant metteva in luce egualmente questo carattere attivo: «La M., egli diceva, differisce

dalla semplice immaginazione riproduttiva in questo che, potendo essa riprodurre volontariamente la rap- presentazione precedente, l’anima non è in balia di questa » (Anfr., I, $ 34). A questo stesso gruppo di dottrine appartengono: a) quelle che interpretano la M. come intelligenza; 5) quelle che interpretano la M. come meccanismo associativo. a) Come intelligenza o pensiero la M. (sempre nel suo aspetto di ricordo) è stata interpretata da Hegel. Hegel vede nella M. «il modo estrinseco, il momento unilaterale dell’esistenza del pensiero ». E nota che già la lingua tedesca dà alla M. « l’alta situazione della parentela immediata col pensiero » (Enc., $ 464). La M. è, secondo Hegel, pensiero esteriorizzato, pensiero che crede di trovare qual- cosa di esterno, cioè la cosa che viene ricordata o rievocata, ma che in realtà non trova che se stesso perchè anche la cosa ricordata o rievocata è pensiero. Perciò Hegel dice che lo spirito «si fa come M., in se stesso, qualcosa di esterno; cosicchè ciò che è suo appare come qualcosa che vien trovato » (/bid., $ 463). Qui viene teorizzata soprattutto la M. come ricordo; ed è evidente la parentela di questa dottrina con quelle spirituali- stiche o coscienzialistiche: l’identificazione della M. col pensiero ha lo stesso senso dell’unificazione della M. con la coscienza o con la sua durata. b) Il concetto della M. come meccanismo as- sociativo è stato espresso per la prima volta da Spinoza nel modo seguente: «La M. non è altro che una certa concatenazione delle idee implicanti la natura delle cose che sono fuori del corpo umano; la quale si produce nella mente secondo l’ordine e la concatenazione delle affezioni del corpo umano ». Spinoza distingue la concatenazione propria della 573 M. da quella delle idee «che si compie secondo l’ordine dell’intelletto e che è uguale in tutti gli uomini » (Ef., II, 18, schol.). Non c’è dubbio per- tanto che Spinoza alludeva a un meccanismo asso- ciativo, del tipo di quelli che fu più tardi teoriz- zato da Hume, « È evidente che esiste un principio di connessione fra i vari pensieri o idee dello spi- rito e che nel loro apparire alla M. o alla imma- ginazione essi si presentano l’uno dopo l’altro con un certo grado di metodo e di regolarità» (Ing. Conc. Underst., III). Come è noto, Hume enunciava tre leggi di associazione, la rassomiglianza la con- tiguità e la causalità; ma soltanto le prime due furono adoperate dalla psicologia associazionistica per la spiegazione dei fenomeni psichici (v. Asso- CIAZIONISMO). La psicologia moderna si è fondata in gran parte sull’ipotesi associazionistica nello studio dei feno- meni della M., sino a che la psicanalisi da un lato, la teoria della forma dall’altro, hanno mostrato la importanza degli interessi e degli atteggiamenti vo- litivi nel ricordo e quella dell’intera personalità nel riconoscimento del già visto. Lo studio sperimen- tale della M. ha confermato il detto di Nietzsche: «Io ho fatto questo, — mi dice la memoria. Non posso averlo fatto, — sostiene il mio orgoglio che è inesorabile. Alla fine cede la M.» (Jenseits von Gut und Bose, 1886, $ 68). L'impianto delle analisi psicologiche moderne continua così ad essere im- perniato sul fatto del ricordo più che su quello della ritentiva: il quale invece continua ad essere preferito dalle teorie filosofiche della memoria. MENDELISMO. V. GENETICA. MENTALISMO (ingl. Mentalism). Vocabolo usato per lo più da scrittori filosofici anglosassoni per indicare cose in verità assai diverse, e cioè: o come sinonimo di « soggettivismo + e « idealismo soggettivo » (del tipo berkeleyiano); o come sino- nimo di psicologismo (v.), vale a dire la tendenza, vivamente combattuta dalla Logica odierna ma tuttavia tenacemente persistente, a considerare le forme, figure e strutture della Logica come forma- zioni, rappresentazioni ed operazioni mentali (psi- cologiche) e le regole della Logica come «leggi del pensiero ». Negli scritti dei seguaci della meto- dologia operativistica e dei pragmatisti (per es., Dewey) « M.» viene usato in un’accezione lieve- mente diversa: e cioè a designare la tendenza empiristica a risolvere l’esperienza e i concetti em- pirici in meri «stati mentali», trascurandone gli aspetti obiettivi (fisiologici, operativo-manuali, lin- guistici, storici, ecc.). G. P. MENTALITÀ (ingl. Mentality; franc. Menta- lite; ted. Mentalitàt). 1. Termine adoperato dai so- ciologi per indicare gli atteggiamenti, le disposizioni e i comportamenti istituzionalizzati in un gruppo 574 e adatti a caratterizzare il gruppo stesso. Per es., «la M. dei primitivi », «la M. borghese», ecc. 2. Spaventa. chiamò « M. pura» il pensiero ri- flesso o consapevole, che egli ritenne debba accom- pagnare anche le prime categorie della logica he- geliana (quelle dell’essere e dell’essenza) (Scritti filosofici, 1901, passim). MENTE (lat. Mens). 1. Lo stesso che intel- letto (v.). 2. Lo stesso che spirito: cioè l’insieme delle fun- zioni superiori dell’anima, intelletto e volontà (vedi SPIRITO). 3. Lo stesso che dottrina. In questo senso si dice (o meglio si diceva perchè questo significato è an- tiquato). « La M. di Aristotele » per dire la dottrina di Aristotele su un argomento qualsiasi. MENTITORE (gr. yevdsuevos; lat. Mentiens; ingl. Liar; franc. Menteur; ted. Liigner). Uno degli argomenti che gli antichi chiamavano ambigui o convertibili e i moderni chiamano antinomie o pa- radossi: quello che consiste nell’affermare di men- tire: così, se si dice la verità, si mente; e se si mente, si dice la verità. La conclusione è impossibile. Attribuito a Eubulide di Megara (Diog. L., II, 108) l’argomento viene riportato da molti scrittori an- tichi (ArIst., E/ Sof., 25, 180b 2; CICER., Acad., Il, 95; De Div., II, 4; Getto, Nocr. Att., 18, 2). Ripreso nell’ultimo periodo della Scolastica, l’ar- gomento viene tuttora discusso dalla logica come una delle antinomie logiche (v. ANTINOMIE). MENZIONE. V. Uso. MENZOGNA (gr. qeùsoc; lat. Mendacium; ingl. Lie; franc. Mensonge; ted. Lige). Aristotele distingue due specie fondamentali di M., la mil- lanteria che consiste nell’esagerare la verità e la ironia (v.) che consiste nel diminuirla. Queste tut- cavia sono le M. che non riguardano le relazioni d’affari nè la giustizia: in questi casi infatti non si tratta di semplici M. ma di vizi più gravi (frode, tradimento, ecc.) (Et. Nic., IV, 7, 1127a 13). S. Tom- maso ha dato una minuziosa classificazione della M., dal punto di vista della morale teologica (S. 7H., II, 2, q. 110). MERAVIGLIA. V. AMMRAZIONE. MERITO (lat. Meritum; ingl. Merit; francese Mérite; ted. Verdienst). Titolo per ottenere appro- vazione, ricompensa o premio. Si dice non solo di persone ma anche di opere, per es., «Il M. di questo libro è... ». Il M. è diverso dalla virtù e dal valore morale ma costituisce quanto della virtù stessa o del valore morale può essere valutato ai fini di una ricompensa qualsiasi, sia pure quella dell’approvazione. MESOLOGIA. V. EcoLogia. METABASI (gr. peràBao el 0 yévoc). Il passaggio, legittimo o meno, a un altro soggetto MENTE di discorso o a un altro campo. Dice Aristotele: «Noi non possiamo passare, al di là del corpo, ad un altro genere, come passiamo dalla lunghezza alla superficie e dalla superficie al corpo» (De Cael., I, 1, 268 b 1). Quintiliano considera questo passaggio come una figura retorica (/nst. Or., IX, 3, 25). METABIOLOGIA (ingl. Merabiology; fran- cese Métabiologie; ted. Metabiologie). Le specula- zioni metafisiche che assumono il loro punto di partenza dai fenomeni biologici. Oppure: l’analisi della struttura linguistico-concettuale della biologia. METACRITICA (ted. Merakritik). Questo ter- mine compare come titolo di due opere tedesche dedicate alla critica del kantismo; e precisamente nell'opera di HAManN, Metacritica del Purismo della Ragione (1788) e nell’opera di HERDER, M. della Critica della Ragion Pura (1799). Il ter- mine vuol significare «critica della critica». METAFISICA (gr. tà perà tà puovd; lat. Mera- physica; ingl. Metaphysics; franc. Métaphysique; ted. Metaphysik). La scienza prima cioè la scienza che ha come proprio oggetto l’oggetto comune di tutte le altre e come proprio principio un principio che condiziona la validità di tutti gli altri. Per questa sua pretesa di priorità (che la definisce) la M. presuppone una situazione culturale deter- minata: cioè la situazione nella quale il sapere si è già organizzato e diviso in scienze diverse, rela- tivamente indipendenti l’una dall’altra e tali da esigere la determinazione dei loro rapporti scam- bievoli e la loro integrazione su di un fondamento comune. Questa era appunto la situazione che si era verificata ad Atene verso la metà del rv secolo, per opera di Platone e dei suoi discepoli, che ave- vano contribuito potentemente allo sviluppo della matematica, della fisica, dell’etica e della politica. Il nome stesso di questa scienza, che solitamente si attribuisce al posto in cui gli scritti aristotelici relativi capitarono nella raccolta di Andronico di Rodi (1 secolo a. C.), ma che Jaeger attribuisce a un peripatetico anteriore ad Andronico (Aristoteles; trad. ital., pag. 517) si presta ad esprimere bene la natura di essa, in quanto procede al di là della fisica, che è la prima delle scienze particolari, per raggiungere il fondamento comune su cui tutte si fondano e determinare il posto che a ciascuna compete nella gerarchia del sapere; e ciò spiega, se non l’origine, almeno la fortuna che il nome ha incontrato. Platone presentò l’esigenza di questa scienza su- prema dopo aver chiarito la natura delle scienze particolari che costituiscono il curriculum del filo- sofo: aritmetica, geometria, astronomia e musica. «Io penso, egli disse, che se lo studio di tutte queste scienze che abbiamo passato in rassegna è fatto METAFISICA in modo da condurci a intendere la loro comu- nanza e parentela reciproca e si colgono le ragioni per le quali sono intimamente connesse, la loro trattazione ci porterà alla meta cui ci indirizziamo e la nostra fatica non sarà vana; in caso contrario sarà proprio vana» (Resp., 531c-d). In questa scienza delle scienze Platone riconosceva la dialet- tica (v.) il cui compito fondamentale sarebbe quello di sottoporre a critica o vagliare le ipotesi che le scienze singole assumono a loro fondamento ma che « non osano toccare perchè non sono in grado di darne ragione» (Resp., 533 c). Aristotele chiamava una disciplina siffatta « filo- sofia prima + o « la scienza di cui andiamo in cerca »; e ne determinava il progetto nei tredici problemi enumerati nel terzo (8) libro della Metafisica. Tali problemi vertono tutti direttamente o indi- rettamente, sui rapporti tra le scienze e i loro og- getti o princìpi relativi: sulla possibilità di una scienza che studi tutte le cause (996 a 18) o tutti i primi princìpi (996 a 26) o tutte le sostanze (997 a 15) o anche le sostanze e i loro attributi (997 a 25) e le sostanze non sensibili (997 a 34); e su altri problemi (come quelli delle parti costi- tuenti di tutte le cose, della possibile diversità di natura tra i princìpi, dell’unità dell’essere, ecc.), che si situano tutti nella zona di intersecazione e di incontro delle singole discipline scientifiche e sono di interesse comune per esse. Pertanto la M., come l’ha intesa e progettata Aristotele, è la scienza prima nel senso che fornisce a tutte le altre il fondamento comune cioè l’oggetto cui esse tutte si riferiscono e i princìpi da cui tutte di- pendono. La M. implica, perciò, una enciclopedia delle scienze; cioè un prospetto completo ed esau- riente di tutte le scienze nei loro rapporti di co- ordinazione e subordinazione e nei compiti e nei limiti assegnati a ciascuna una volta per tutte (v. EncicLoPEDIA). La M. si è presentata, nella sua storia, sotto tre forme fondamentali diverse e cioè: 1° come teologia; 2° come ontologia; 3° come gnoseologia. La caratterizzazione oggi corrente della M. come «scienza di ciò che è al di là dell’espe- rienza » si può riferire soltanto alla prima di queste forme storiche, cioè alla M. teologica; e si tratta, anche, di una caratterizzazione imperfetta in quanto coglie un tratto subordinato, perciò non costante, di questa metafisica. 1° Il concetto della M. come teologia consiste nel riconoscere come oggetto della M. l’essere più alto e perfetto dal quale dipendono tutti gli altri esseri e cose del mondo. Il privilegio di priorità attribuito alla M. dipende, in questo caso, dal ca- rattere privilegiato dell’essere che ne è l'oggetto: questo è l’essere superiore a tutti e da cui tutti gli altri dipendono. 575 Nell’opera di Aristotele questo concetto si in- treccia con l’altro, della M. come ontologia, cioè come scienza dell’essere in quanto essere. Così Aristotele lo esprime: « Se c’è qualcosa di eterno, di immobile e di separato, la conoscenza di esso deve appartenere ad una scienza teoretica, ma cer- tamente non alla fisica (che si occupa delle cose in movimento) nè alla matematica, bensì ad una scienza che è prima di entrambe... Solo la scienza prima ha per oggetto le cose separate ed immobili. Sebbene tutte le prime cause siano eterne, queste cose sono eterne in modo speciale, perchè sono le cause di ciò che del divino è accessibile a noi. Di conseguenza, ci sono tre scienze teoretiche: la matematica, la fisica e la teologia: giacchè se il divino è dappertutto esso è specialmente nella natura più alta e la scienza più alta deve avere per oggetto l’essere più alto... Se non ci fossero altre sostanze oltre quelle fisiche, la fisica sarebbe la scienza prima; ma se c’è una sostanza immobile, essa sarà la sostanza prima e la filosofia la scienza prima; e in quanto prima anche la più universale perchè sarà la teoria dell’essere in quanto essere e di ciò che l’essere in quanto essere è o implica + (Met., VI, 1, 1026 a 10). L’ultima frase fa vedere come Aristotele intrecci il concetto della M. come ontologia col concetto della M. come teologia. Quest'ultimo tuttavia è completamente diverso dal- l’altro. In base ad esso, l'oggetto della M. è pro- priamente il divino; e la priorità della M. consiste nella priorità che l’essere divino ha su ogni altra forma o modo d’essere. Le scienze si graduano, da questo punto di vista, in base all’eccellenza o alla perfezione dei loro oggetti rispettivi, e l’eccel- lenza o la perfezione di tali oggetti si misurano col confronto tra essi e l’essere divino. Era questo il criterio che Platone aveva seguito nell'ordinamento delle scienze, privilegiando la scienza che ha per oggetto « ciò che è ottimo ed eccellente » cioè la perfezione stessa (Fed., 97 d) e graduando rispetto a questa tutte le altre (Rep., VII, 525a sgg.). Questa concezione tuttavia confinava tutte le scienze diverse dalla M. ad un livello di irrimediabile in- feriorità; e raggiungeva lo scopo, non già di giu- stificare le altre scienze cioè di fondare la loro validità e nobilitare la loro ricerca, ma piuttosto di svalutarle col confronto con la scienza prima e col carattere sublime del suo oggetto. Questo pro- babilmente fu il motivo per cui Aristotele cominciò ad un certo punto ad insistere sull’altro concetto della M. come ontologia, pur senza mai rinnegare o abbandonare il primo. La M. teologica tuttavia si ripresenta ogni volta che si fa corrispondere ad un essere primo e per- fetto una scienza egualmente prima e perfetta. Una M. teologica è pertanto quella di Plotino, 576 che contrappone alle scienze che hanno per oggetto il sensibile quelle che hanno per oggetto l'intelli- gibile, cioè la realtà suprema. « Tra le scienze che sono nell’anima razionale, egli dice, alcune hanno per oggetto le cose sensibili e seppure si possono chiamare scienze giacchè meglio converrebbe ad esse il nome di opinioni; esse vengono dopo le cose e sono immagini di esse. Le altre, le vere scienze, hanno per oggetto l’intelligibile, vengono all’anima dall’intelletto divino e non hanno nulla di sensi- bile » (Enn., V, 9, 7). Questa spartizione della realtà in due domini, di cui l’uno superiore e privilegiato, l’altro inferiore e derivato, è il presupposto carat- teristico della M. teologica: la quale pretende di avere come proprio oggetto la realtà primaria e privilegiata. Una M. teologica è pertanto la dot- trina di Spinoza in quanto ha come oggetto l'or- dine necessario del mondo cioè Dio stesso (Er., II, 46-47). E una M. teologica è la filosofia di Hegel che assume di avere come proprio oggetto Dio stesso: « La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la religione, perchè oggetto di entrambe è la Verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la Verità » (Enc., $ 1). Per- tanto di fronte alla filosofia, tutte le altre scienze restano in condizione di inferiorità: il loro oggetto è il finito, cioè l’irreale, mentre l’oggetto della filosofia, cioè Dio è l’infinito. Dice Hegel: « Le scienze particolari, al pari della filosofia, hanno per elemento conoscenza e pensiero; senonchè si occupano degli oggetti finiti e del mondo dei fenomeni. Una collezione di conoscenze relative a questa materia resta di per sè esclusa dalla filosofia, cui non si addice nè questo contenuto nè la forma relativa » (Geschichte der Philosophie, Einleitung, B, 2, a; trad. ital., I, pag. 69). Ed è evidente che, nonostante le esplicite proteste an- timetafisiche, una M. teologica è anche la filosofia dello spirito di Croce che ha per oggetto la Storia eterna dello Spirito universale: una realtà sublime, di fronte alla quale scadono al rango di apparenze particolari o di accidentalità empiriche gli oggetti di tutte le altre scienze (Teoria e storia della sto- riografia, 1917; La Storia come pensiero e come azione, 1938). Infine, una M. teologica è la filo- sofia di Bergson che pretende « fare a meno dei simboli » ed entrare direttamente a contatto con una realtà privilegiata, di natura divina che è la corrente della coscienza (* Introduction à la mé- taphysique », in La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 206 sgg.); e che si contrappone come tale alla scienza, detta semplice «ausiliaria del- l’azione » (/bid., pag. 158). Ogni forma di spiri- tualismo o coscienzialismo tende, più o meno chiaramente, a una metafisica teologica di questa specie. METAFISICA 2° La seconda concezione fondamentale è quella della M. come ontologia o dottrina che studia i caratteri fondamentali dell’essere: quei ca- ratteri che ogni essere ha e non può non avere. Le proposizioni principali della M. ontologica sono le seguenti: 1° Esistono determinazioni necessarie dell’essere cioè determinazioni che nessuna forma o modo d'essere può non avere. 2° Tali determi- nazioni sono presenti in tutte le forme e i modi d'essere particolari. 3° Esistono scienze che hanno per oggetto un modo d’essere particolare, isolato in virtù di opportuni principi. 4° Deve esistere una scienza che abbia per oggetto le determinazioni necessarie dell’essere, anch'esse rese riconoscibili in virtù di un adatto principio. 5° Questa scienza precede tutte le altre ed è perciò scienza prima in quanto il suo oggetto è implicito negli oggetti di tutte le altre scienze e in quanto, conseguente- mente, il suo principio condiziona la validità di ogni altro principio. La M. che si esprime in queste proposizioni implica, di regola: a) una determinata teoria dell’essenza e precisamente quella dell’es- senza necessaria (v. EsseNZA); è) una determinata teoria dell’essere predicativo e precisamente quella dell’inerenza (v. EsseRE, 1); c) una determinata teoria dell’essere esistenziale e precisamente quella della necessità (v. ESSERE, 2). Le proposizioni precedenti esprimono la forma più matura che la M. ha assunto nell’opera di Aristotele e precisamente nei libri VII, VIII, IX della Metafisica. Esse esprimono, cioè, la M. come teoria della sostanza, intendendosi per sostanza «ciò che un essere non può non essere» cioè l’es- senza necessaria o la necessità d’essere (v. So- sTANZA). Il principio della M. in questo senso è il principio di contraddizione. Solo questo prin- cipio infatti consente di delimitare e di riconoscere l’essere sostanziale. « Coloro, dice Aristotele, che negano questo principio distruggono completamente la sostanza e l’essenza necessaria giacchè sono co- stretti a dire che tutto è accidentale e non c'è qualcosa come l’essere uomo o l’essere animale. Se infatti c'è qualcosa come l’essere uomo, questo non sarà l’essere non uomo o il non essere uomo, ma queste saranno negazioni di quello. Uno solo è infatti il significato dell’essere e questo è la so- stanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa non è altro che indicare l’essere proprio di essa + (Met., IV, 4, 1007a 21). Da questo punto di vista la sostanza è oggetto della M. in quanto costituisce il principio di spiegazione di tutte le cose esistenti. Dice Aristotele: «La sostanza di ciascuna cosa è la causa prima dell’essere di questa cosa. Alcune cose non sono sostanze ma quelle che sono tali sono naturali e sono poste dalla natura, sicchè è chiaro che la sostanza è la na- METAFISICA tura stessa e che non è elemento ma principio » (Ibid., VII, 17, 1041 b 27). La sostanza in questo senso non è una realtà privilegiata o sublime, che conferisca alla scienza che ne faccia oggetto una dignità superiore. In quanto sostanze, Dio e l’in- telletto (come Aristotele dice, Er. Nic., I, 6, 1096a 24) o anche Dio e un filo d’erba (come si potrebbe dire) hanno lo stesso valore; e le scienze che li as- sumono ad oggetto la stessa dignità. In un passo famoso delle Parti degli Animali Aristotele ha espli- citamente riconosciuto l’uguale dignità di tutte le scienze in quanto hanno per oggetto la sostanza. « Le sostanze inferiori, dice Aristotele, essendo più e meglio accessibili alla conoscenza vengono ad avere il sopravvento nel campo scientifico; e poichè sono più vicine a noi e più conformi alla nostra natura, la scienza di esse finisce per essere equi- valente alla filosofia che ha per oggetto le cose divine... Infatti anche nel caso di quelle meno favorite dal punto di vista dell'apparenza sensibile, la natura che le ha prodotte dà gioie indicibili a coloro che sanno comprenderne le cause e sono per loro natura filosofi» (De Part. An., I, 5, 645a 1). È ovvio che, da questo punto di vista, la priorità della M. non consiste nell’eccellenza del suo oggetto (com’è nel caso della M. teologica) ma solo nel fatto che la M., avendo come og- getto specifico la sostanza consente di intendere gli oggetti di tutte le scienze sia nei loro caratteri comuni e fondamentali sia nei loro caratteri spe- cifici: senza la sostanza, infatti, e per es., senza l'essere e l'unità che le appartengono, « ogni cosa sarebbe distrutta, giacchè ogni cosa è ed è una» (Met., XI, 1, 1059b 31). In altri termini: ogni scienza è, come tale, studio della sostanza in qual- cuna delle sue determinazioni, per es., della so- stanza in movimento la fisica, della sostanza come quantità la matematica; la M. è la teoria della sostanza in quanto tale. La priorità della M. sulle altre scienze è, da questo punto di vista, una priorità logica, non di valore. E si tratta di una priorità logica fondata sulla priorità ontologica del suo oggetto specifico. Consiste nel fatto che tutte le altre scienze presup- pongono la M. allo stesso modo che tutte le de- terminazioni della sostanza presuppongono la so- stanza; ora la riforma che S. Tommaso ha fatto subire alla M. aristotelica nel sec. xm mira a restrin- gere la superiorità logica della metafisica. Secondo S. Tommaso, la M. come teoria della sostanza non include Dio tra i suoi oggetti possibili, in quanto Dio non è sostanza (S. Tk., I, q. 1, a. 5, ad 1°). L'identità di essenza ed esistenza in Dio distingue nettamente l’essere di Dio dall’essere delle creature nelle quali invece l’essenza © l’esistenza sono se- parabili (/bid., I, q. 3, a. 4). La determinazione 37 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 577 dei caratteri sostanziali dell’essere in generale non concerne pertanto Dio ma solo le cose create o finite. Con ciò la M. perde la sua priorità, che passa alla teologia, considerata come una scienza a sè, originaria, che ripete i suoi princlpi diretta- mente da Dio. « E così la teologia non riceve nulla dalle altre scienze, come se queste le fossero su- periori, ma si serve di esse come di inferiori e di serve, come le scienze architettoniche si servono di quelle che procurano i materiali e la scienza civile della militare » (/bid., I, q. 1, a. 5, ad 2°). Con la negazione del carattere analogico dell’essere, operata da Duns Scoto, si ritorna a riconoscere la priorità della metafisica. Duns Scoto infatti defi- nisce la M. come «la scienza prima dello scibile primo » cioè dell’essere (In Mer., VII, q. 4, n. 3). L’essere che è oggetto della M. è, secondo Duns Scoto, l’essere comune: comune cioè a tutte le creature e a Dio, per quanto non si tratta di un genere che avrebbe ancora un estensione troppo ristretta. La comunità dell’essere comprende il do- minio intero dell’intelligibile: la scienza dell’essere, la M., è perciò la scienza prima e più estesa (Op. Ox., I, d. 3, q. 3, a. 2, n. 14). La caratteri- stica di questo punto di vista di Scoto è che esso distingue nettamente tra la priorità di valore che appartiene alla teologia e la priorità logica che appartiene invece alla metafisica. Questa distinzione viene mantenuta nel corso ul- teriore della storia della M. ontologica. Nel se- colo xv tale M. cominciò ad essere contrassegnata col nome che le è proprio di ontologia. Questo nome ricorre nello Schediasma Historicum (1655) di Giacomo Thomasius (padre di Cristiano); e viene giustificato da Clauberg nel modo seguente: «Come viene detta /eosofia o teologia la scienza che si occupa di Dio, così quella che verte non intorno a questo o a quell’ente insignito di un nome speciale o distinto dagli altri da una certa proprietà, ma intorno all’ente in generale, non im- propriamente sembra che possa essere detta onto- sofia od ontologia » (Op. Phil., 1691, I, pag. 281). Un'ontologia così intesa, e nettamente distinta dalla teologia, non implicava alcun antagonismo aperto o nascosto con i dati dell’esperienza. Essa anzi comincia ad essere considerata come l’esposizione ordinata e sistematica di quei caratteri fondamentali dell’essere che l’esperienza rivela in modo ripetuto o costante. Tale è il concetto che della M. come ontologia ebbe Wolff: il quale dette a questa disciplina la forma sistematica che le garantì, per qualche tempo, il successo. Secondo Wolff, il pensiero comune possiede già in forma confusa le nozioni che l’ontologia espone in forma distinta e sistematica. Esiste cioè una « ontologia naturale + costituita dalle «confuse nozioni ontologiche vol- 578 gari ». Essa può definirsi come « il complesso delle nozioni confuse che rispondono ai termini astratti coi quali esprimiamo i giudizi generali intorno al- l’essere e che acquistiamo con l’uso comune delle facoltà della mente » (On;., $ 21). Questa ontologia naturale, che gli Scolasti ci completarono senza to- glierla dalla confusione, si distingue dall’ontologia artificiale o scientifica come la logica si distingue dai procedimenti naturali dell’intelletto (/bid., $ 23; Log., $ 11). Essa non è un semplice dizionario filosofico ma una scienza dimostrativa, il cui og- getto è costituito dalle determinazioni che appar- tengono a tutti gli enti, sia assolutamente sia sotto determinate condizioni (Onf., $ 25). In tal modo, per opera di Wolff, faceva il suo ingresso nel- l’organismo tradizionale della M. ontologica una esigenza descrittiva ed empiristica che tendeva ad eliminare il contrasto tra l’apriorismo deduttivo della M. e l’esperienza. In base alla stessa esigenza, Wolff distingueva una psicologia empirica « nella quale si stabiliscono in base all'esperienza i prin- cìpi che possono rendere ragione di ciò che può accadere nell'anima umana» (Log., Disc. Prel., $ 111) dalla psicologia reazionale che è la « scienza di tutte le cose che sono possibili nell’anima umana + (/bid., $ 58). Dall'altro lato Wolff distin- gueva dall’ontologia le tre discipline M. speciali, cioè la teologia, la psicologia e la fisica (di cui è parte la cosmologia) rispettivamente dirette a conoscere Dio, l’anima umana e le cose naturali (Ibid., 8 55-59). L’ontologia wolfiana rendeva possibile un’inter- pretazione empirica di questa scienza per la quale essa fu talora difesa dagli stessi illuministi. Diceva, per es., D'Alembert: « Poichè sia gli esseri spiri- tuali sia quelli materiali hanno proprietà generali in comune, come l’esistenza, la possibilità, la du- rata, è giusto che questo ramo della filosofia, dal quale tutti gli altri rami prendono in parte i loro princìpi, si denomini ontologia ossia scienza del- l’essere o M. generale » (Discours préliminaire, $ 7, in @Euvres, ed. Condorcet,! pag. 115). In questo senso d’Alembert si fece sostenitore di una nuova M. cioè di « una M. che sia creata più per noi e si tenga più vicina e più attaccata alla terra, una M. cioè le cui applicazioni si estendano alle scienze naturali

e ai diversi rami della matematica. Non esiste infatti in senso stretto alcuna scienza che non abbia la sua M., se con ciò si intendono i prin- cìpi generali su cui è costruita una determinata dottrina e che sono, per così dire, i germi di tutte le verità particolari » (Éclaircissement, $ 16). In un senso assai vicino a questo l’ontologia veniva in- tesa da Crusius (Entwurf der notwendigen Vernunft- wahrheiten, 1745, $ 1) e da Lambert (Architektonik, 1771, $ 43). Con una più radicale rinuncia al ca- METAFISICA rattere sistematico della scienza, un’ontologia de- scrittiva o «denotativa» che mentre si limiti «a osservare e registrare i tratti dell’esistenza » prenda anche in considerazione lo strumento di questa osservazione cioè la riflessione umana e le condi- zioni che la sollecitano, può vedersi ancora oggi difesa (DeWEY, Experience and Nature, 1926, cap. 2; J. H. RANDALL, Nature and Historical Experience, 1958, cap. 5). 3° Il terzo concetto della M. come gnoseologia è quello espresso da Kant. Veramente, l'origine di questo concetto dev’essere riconosciuta nella no- zione di filosofia prima di Bacone: «una scienza universale, che sia madre di tutte le altre e costi- tuisca nel progresso delle dottrine la parte della via comune, prima che le vie si separino e disgiun- gano ». Tale scienza doveva essere, secondo Bacone, «il ricettacolo degli assiomi che non sono propri delle scienze particolari ma spettano in comune a parecchie di esse » (De Augm. scient., III, 1). Questo ‘ concetto di filosofia prima ha una sua propria storia che è quella del concetto positivistico della filosofia; ma con esso il concetto kantiano della M. ha in comune l’accento posto sui princlpi, più che sull’oggetto, della scienza. La M. è, secondo Kant lo studio di quelle forme o princìpi conoscitivi che, per essere costitutivi della ragione umana, anzi di ogni ragione finita in generale, condizionano ogni sapere e ogni scienza; e dal cui esame per- tanto possono ricavarsi i princìpi generali di cia- scuna scienza. Kant esponeva questo concetto della M. nelle ultime pagine della Critica della Ragion Pura e precisamente nel capitolo sull’architettura. La M. può intendersi, dice Kant, o come la se- conda parte della « filosofia della ragion pura» e cioè come «il sistema della ragion pura (scienza), come l’intera conoscenza filosofica (sia vera che apparente) che deriva dalla ragion pura in con- nessione sistematica »: e in questo senso essa esclude da sè la parte preliminare o propedeutica della filosofia della ragion pura, cioè la critica. Oppure può intendersi come l’intera filosofia della ragion pura compresa la critica. È in questo secondo senso, che Kant chiamava ontologia la M. nello scritto del 1793 con cui rispondeva al tema proposto dall’Accademia di Berlino: « Quali sono i progressi reali che la M. ha fatto dal tempo di Leibniz e Wolff? ». Ontologia, M. e critica coincidono, da questo punto di vista: « La critica, e solo la cri- tica, diceva Kant nei Prolegomeni, contiene il di- segno ben verificato e saggiato d’una M. scienti- fica, come pure il materiale necessario per realiz- zarlo. Per qualunque altra via o mezzo, essa è impossibile » (Prof, A, 190). La M. kantiana si contrapponeva così come M. « scientifica » o « cri- tica » alla M. dogmatica tradizionale, che Kant METAFISICA sottometteva a critica nelle tre parti distinte da Wolff, teologia, psicologia e cosmologia. Ma nè nella dialettica trascendentale nè altrove Kant ha sottoposto a critica la prima parte fondamentale della M. wolfiana, cioè l’ontologia. In realtà il concetto fondamentale dell’ontologia rimaneva va- lido per Kant con la correzione del carattere cri- tico o gnoseologico di essa cioè col passaggio dal significato realistico al significato soggettivi- stico della disciplina in questione. Della M. critica od ontologica fanno parte, secondo Kant, una M. della natura e una M. dei costumi. La M. della natura comprende «tutti i principi razionali puri derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione della matematica) della scienza teoretica di tutte le cose» La M. dei costumi comprende «i principi che determinano a priori e rendono necessario il fare o il non fare» ed è perciò la «morale pura» (Crit. R. Pura, Dottr. del Me- todo, cap. 3). Il carattere proprio della M. kantiana è la sua pretesa di essere «una scienza di concetti puri» cioè una scienza che abbraccia le conoscenze che possono essere ottenute indipendentemente dalla esperienza, sul fondamento delle strutture razionali della mente umana. Da questo punto di vista, la continuazione storica di essa nella filosofia contem- poranea è l’ontologia fenomenologica di Husserl. A differenza di Kant, Husserl prende in conside- razione non già i princìpi generalissimi, da ritenersi come costitutivi della ragione in generale, ma i principi che costituiscono il fondamento di deter- minati campi del sapere cioè di una scienza o di un gruppo di scienze e che perciò chiama mate- riali. «Ogni oggetto empirico concreto, egli dice, si inserisce con la sua essenza materiale in una specie materiale superiore, in una regione di oggetti empirici. All’essenza regionale corrisponde poi una scienza eidetica regionale o, come possiamo anche dire, una ontologia regionale». Pertanto « ogni scienza di dati di fatto o di esperienza ha i suoi fondamenti teoretici essenziali in ontologie regio- nali... Così, ad es., a tutte le discipline naturalistiche corrisponde la scienza eidetica della natura fisica in generale (l’ontologia della natura) in quanto alla natura fattizia corrisponde un eidos puramente apprendibile, la ‘ essenza natura in generale, con inclusa una massa infinita di rapporti essenziali + (Ideen, I, $ 9). L’affermazione del carattere « mate- riale» cioè determinato o specifico dei princìpi ontologici, che si riferiscono sempre ad un deter- minato genere di essenze o campo del sapere, porta così Husserl a stabilire il carattere « regionale » dell’ontologia. Dal suo punto di vista, l’ontologia generale o formale non è che la logica pura, che è «la scienza eidetica dell’oggetto in generale » (Ibid., 579 $ 10) (v. MATHESIS UNIVERSALIS). Ad una ontologia generale, invece, è ritornato N. Hartmann, che ha in comune con Husserl il presupposto fenomenolo- gico. L'oggetto dell’ontologia è, secondo Hartmann, l’ente non l’essere; giacchè l’essere è unicamente «ciò che v’è di comune in ogni ente». L'essere e l’ente si distinguono come la verità e il vero, la realtà e il reale e così via: ci sono molte cose vere, ma l’essere della verità è uno solo. Analogamente l’essere dell’ente è uno solo benchè l’ente possa essere vario e le differenziazioni dell’essere appar- tengono allo sviluppo dell’ontologia e non al suo inizio, che verte su ciò che è comune e universale (Grundiegung der Ontologie, 1935, pag. 42). L’im- postazione schiettamente realistica della ontologia di Hartmann sembra ravvicinarla a quella tradizio- nale, specialmente a quella di Wolff; ma in realtà ciò che costituisce l'oggetto dell’ontologia è, secondo Hartmann, la datità dell’essere cioè il modo in cui l’essere è dato (/bid., pag. 48) all’esperienza fenomenologica: sicchè la sua ontologia fa parte integrante della corrente fenomenologica. E alla stessa corrente appartiene l’ontologia di Heidegger intesa come la determinazione del senso dell’essere a partire dall’essere di quell’ente che pone le do- mande e formula le risposte: cioè dell’uomo. Hei- degger riafferma il carattere primario o privilegiato dell’ontologia. « Il problema dell’essere tende non solo alla determinazione delle condizioni @ priori della possibilità delle scienze che studiano l’ente in quanto ente così e così e che perciò si muovono già sempre in una comprensione dell’essere, ma bensì anche alla determinazione delle condizioni e della possibilità delle ontologie che precedono e fondano le scienze ontiche [cioè empiriche] » (Sein und Zeit, $ 3). Tutte le dottrine cui si è fatto riferimento finora (tranne quelle di Dewey e Randall) ammettono il presupposto sul quale la M. è stata tradizional- mente imperniata e cadono perciò nei limiti del concetto di essa. Tale presupposto è il carattere necessario e primario della M.: necessario in quanto ha per oggetto l’oggetto necessario di tutte le altre scienze; e primario perchè è, come tale, a fon- damento di tutte le scienze. Ciò che della M. ri- mane nella filosofia contemporanea — e vi rimane non come mera sopravvivenza ma come parte viva dell'indagine — non possiede più questi caratteri tradizionali. La M. è difatti presente e operante nella filosofia contemporanea nella forma di due problemi connessi: 1° il problema del significato o dei significati di esistenza nel linguaggio delle diverse scienze; 2° il problema delle relazioni fra le diverse scienze e delle indagini su oggetti che cadono nei punti di intersezioni o di incontro fra di esse. 580 1° Rispetto al primo problema, si parla oggi esplicitamente di ontologia, nel senso di un impegno ad usare in un determinato senso il verbo essere e i suoi sinonimi. Dice, ad es., Quine: « La nostra accettazione di una ontologia è simile, in linea di principio, alla nostra accettazione di una teoria scientifica cioè di un sistema di fisica: noi adot- tiamo, almeno in quanto siamo ragionevoli, lo schema concettuale più semplice nel quale i disor- dinati frammenti dell’esperienza grezza possono es- sere adattati e distribuiti. La nostra ontologia è determinata una volta che abbiamo fissato lo schema concettuale totale per adattarvi la scienza nel suo senso più vasto; e le considerazioni che determinano la costruzione ragionevole di una parte

qualsiasi di quello schema concettuale, per es., la parte biologica o fisica, non sono differenti, in ispecie, dalle considerazioni che determinano la ragionevole costruzione dell’intero schema » (From a Logical Point of View, pag. 16-17). Carnap, pure obiettando contro l’uso della parola « onto- logia +, in quanto sembra faccia riferimento a convinzioni metafisiche, mentre si tratta in realtà di una pratica decisione «come la scelta di uno strumento +, ha sostanzialmente confermato il punto di vista di Quine (Meaning and Necessity, $ 10). In questo senso si parla frequentemente di onto- logia nella logica e nella metodologia contempo- ranea. 2° Rispetto al secondo problema, l’erede della M. tradizionale è la metodologia dalla quale ven- gono abitualmente dibattuti i problemi concernenti i rapporti fra le singole scienze e le questioni sor- genti dalle interferenze marginali tra le scienze stesse. Certamente la metodologia non ha ereditato la pretesa di stabilire una enciclopedia delle scienze che definisca, una volta per tutte, i compiti e i limiti di ciascuna; e perciò non rivendica la dignità di arbitra o regina fra le scienze. Si tratta piuttosto di ordinare via via l'universo concettuale nel modo più semplice e comodo: cioè nel modo, che, mentre favorisca la comunicazione continua tra una scienza e l’altra, non attenti alla indispensabile autonomia

di ciascuna scienza. Si tratta, a questo scopo, di problematizzare, a ogni fase della ricerca scienti- fica, i rapporti tra le varie discipline o i vari indirizzi di ricerca sia a vantaggio dello sviluppo delle disci- pline singole, sia a vantaggio dell’uso che di esse può o deve fare l’uomo: cioè della filosofia. METAFORA (gr. uetapopd; ingl. Metaphor; franc. Métaphore; ted. Metapher). Trasferimento di significato. Dice Aristotele: « La M. consiste nel dare ad una cosa un nome che appartiene a un’altra cosa: trasferimento che può effettuarsi dal genere alla specie o dalla specie al genere o da specie a specie o sulla base di una analogia » (Poet., 21, METAFORA 1457 b 7). La nozione di M. è stata talora adope- rata per determinare la natura del linguaggio in generale (v. Linguaggio). Come particolare stru- mento linguistico, la sua definizione non è diversa, oggi, da quella data da Aristotele. Per la M. mitica dei popoli primitivi che è sostanzialmente l’identi- ficazione dell’espressione metaforica con l’oggetto, cfr. CassiRER, Language and Myth, 1946. METAGEOMETRIA (ingl. Mesageometry; franc. Métagéométrie; ted. Metageometrie). La geo- metria non euclidea: cioè ogni geometria che parta da assiomi diversi da quelli di Euclide (v. Geo- METRIA). METALINGUAGGIO (ingl. Metalanguage; franc. Métalangage). Quando D. Hilbert introdusse la concezione delle matematiche come sistemi me- ramente sintattico-deduttivi (sistemi arbitrari di simboli nei quali, dati certi assiomi fondamentali e certe regole operative, si procede per via mera- mente simbolica, operando cioè sulle formule co- stituenti gli assiomi secondo le date regole opera- tive, a trarne le « conseguenze» senza riguardo ai possibili od eventuali significati extrasimbolici, in- tuitivi o altro, di quegli stessi simboli), si venne a porre il problema di controllare la non-contraddit- torietà dei sistemi di assiomi delle discipline mate- matiche così formalizzate, nonchè di controllare la correttezza delle singole derivazioni (deduzioni). Poichè, secondo un noto teorema (di Gédel) non si può provare la non-contraddittorietà di un si- stema matematico formalizzato entro il sistema stesso, D. Hilbert e la sua scuola ricorsero alla creazione di particolari sistemi per il controllo dei sistemi simbolici (cioè delle singole discipline ma- tematiche: algebra, geometrie, ecc.). Tali sistemi di controllo furono detti mefamatematici. Per ana- logia, o meglio per estensione del termine, i logici polacchi e Carnap chiamarono M. ogni sistema linguistico (per es., il linguaggio della Logica, della grammatica, ecc.) che non porta su denotata extra- linguistici, ma che semanticamente porta su simboli e fatti linguistici; e mefalinguistica ogni espressione che parla non di cose (reali o ideali), bensì di parole o discorsi (per es.: «‘ Mario” è un nome proprio di persona maschile singolare»; « ‘accelerazione ” è un termine della Fisica »). La distinzione tra lin- guaggio e M. acquista moltissima importanza nel- l’analisi filosofica neopositivistica, essendo uno dei fondamenti della critica alla metafisica speculativa, nella quale espressioni metalinguistiche vengono sistematicamente scambiate per espressioni lingui- stiche (v. LINGUAGGIO-OGGETTO). G. P. METALOGICO (ingl. Meralogical; franc. Mé- talogique; ted. Metalogisch). 1. Questo termine da Carnap in poi (Logische Syntax der Sprache, 1934; trad. ingl., 1937; $ 2) ha lo stesso significato che METODO « sintattico », cioè caratterizza lo studio sistematico delle regole formali di un linguaggio (v. SINTASSI). 2. Schopenhauer chiamò « verità metalogica » quella propria dei quattro princìpi del pensiero cioè princìpi d’Identità, di Contraddizione, del Terzo Escluso e di Ragion Sufficiente (Uber die vierfache Wurzel des Satzen vom zureichenden Grunde, 1813, $ 33). 3. Metalogicon è il titolo di un’opera di Giovanni di Salisbury (sec. xn): avrebbe dovuto significare « difesa della logica ». METAMATEMATICO (ingl. Metamathe- matic; franc. Métamathématique; ted. Metamathe- matisch). Lo stesso che sintattico o metalogico. Nel senso di Hilbert, la teoria della prova cioè la for- malizzazione della prova matematica mediante un sistema logistico (v. PROVA). METAMORALE (ingl. Metamoral; franc. Mé- tamorale). Lo studio dei fondamenti della morale. Oppure: lo studio delle strutture logico-linguistiche della morale. METAPSICHICA (ingl. Psychical Research; franc. Métapsychique; ted. Parapsychologie, Me- tapsychik). L’esame spregiudicato, e con intendi- mento scientifico, di quelle facoltà umane, reali o immaginarie, che risultano inesplicabili sulla base delle ipotesi generalmente riconosciute. Questa è almeno la definizione di questa scienza data dai suoi più seri cultori. I fenomeni che essa investiga cadono in due categorie fondamentali: i cosiddetti fenomeni mentali, che consistono in informazioni acquistate con mezzi ultra-normali o fenomeni di percezione extra-sensoriale; i fenomeni fisici 0 pro- digi, per es., oggetti che fluttuano nell’aria, colpi, rumori, ecc. La M. cerca di stabilire la realtà di tali fenomeni e di presentare opportune ipotesi per la loro spiegazione. Cfr. D. J. WEST, Psychical Research Today, London, 1954. METASTORICO. Si indicano con questo ter- mine i valori eterni che la storia tende a realizzare e che pertanto si assume che costituiscano la sua struttura o il piano provvidenziale che la regge (v. STORIA).

METEMPIRICO (ingl. Metempirical; francese Metempirique; ted. Metempirisch). Ciò che è al di là dei limiti dell’esperienza possibile (LEWES, Problems of Life and Mind, 1874, I, pag. 17). METEMPSICOSI (ingl. Merempsychosis; fran- cese Métempsychose; ted. Metempsychose). La cre- denza nella trasmigrazione dell’anima di corpo in corpo. La credenza è antichissima e di origine orientale, ma il termine compare soltanto negli scrittori dei primi tempi dell’epoca cristiana. Plo- tino usa talvolta quello di metensomatosi (Enn., II, 9, 6, 13), che sarebbe più esatto. La credenza diffusa dalle sètte degli Orfici e dei Pitagorici fu accettata da Empedocle (Fr., 115, 117, 119), da Platone S81 (Tim., 49 sgg.; Rep., X, 614 sgg.) da Plotino e dai Neoplatonici e dallo gnostico Basilide (BUONAIUTI, Frammenti gnostici, pag. 63 sgg.). Cfr. E. ROHDE, Psyche, 1890-94; trad. ital., Bari, 1916. METENSOMATOSI. V. METEMPSICOSI. METESSI (gr. pé0ek.c). Partecipazione. La pa- rola fu usata da Platone per indicare uno dei modi possibili del rapporto tra le cose sensibili e le idee (Parm., 132 d). Gli altri modi in cui Platone con- cepì lo stesso rapporto furono quelli della mimesi o imitazione (Rep., 597 a; Tim., S0c) e della pre- senza dell’idea nelle cose (Fed., 100 d). Il termine è stato usato in questa forma da Gioberti nella Protologia per designare il ciclo di ritorno del mondo a Dio, che culmina in un rinnovamento finale o palingenesi (Prot., II, pag. 107). Gioberti adopera lo stesso termine (come quello di mimesi, con cui indica l'allontanamento del mondo da Dio) per caratterizzare un termine di varie coppie di cose o enti del mondo: per es., il corpo è la mimesi, l’anima è la M., la femmina è la mimesi, il maschio è la M., ecc. (/bid., pag. 319). METODICA. Così talora è stato chiamato la dottrina del metodo pedagogico: per es., RAYNERI, Primi principi di metodica (1850); RosMiInI, Del Principio supremo della metodica (1857); ecc. METODO (gr. ué0080c; lat. Methodus; ingl. Me- thod; franc. Méthode; ted. Methode). Il termine ha due significati fondamentali: 1° ogni ricerca o orien- tamento di ricerca; 2° una particolare tecnica di ricerca. Il primo significato non si distingue da quello di «indagine» o « dottrina ». Il secondo si- gnificato è più ristretto e indica un procedimento di indagine ordinato, ripetibile e autocorreggibile, che garantisca il conseguimento di risultati validi. AI primo significato vanno riferite espressioni come «il M. hegeliano », « il M. dialettico », ecc. o anche «il M. geometrico », « il M. sperimentale », ecc. AI secondo significato vanno riferite espressioni come «il M. sillogistico », «il M. dei residui » e in gene- rale quelle che designano particolari procedimenti di indagine o di controllo. Sia Platone (Sof., 218 d; Fed., 270c) che Aristotele (Po/., 1289a 26; Er. Nic., 1129a 6) adoperano il termine in entrambi i significati. Nell’uso moderno e contemporaneo prevale il secondo significato. Ma bisogna osser- vare che non c'è dottrina o teoria, sia scientifica che filosofica, che non possa essere considerata sotto l'aspetto del suo ordine procedurale e perciò detta metodo. Cartesio stesso, ad es., espose la stesso contenuto del Discorso del metodo nella forma delle Meditazioni metafisiche e dei Principi di filosofia: ciò che per un verso era M., per un altro era dottrina. E in generale non c’è dottrina che non possa essere considerata e chiamata M., se vista come ordine o procedura di ricerca. Per- 582 tanto la classificazione dei M. filosofici e scientifici sarebbe senz’altro una classificazione delle dottrine rispettive. Per le dottrine che più frequentemente o a maggior ragione sono dette M., v. le voci rispettive: ANALISI; ASSIOMATIZZAZIONE; (CONCOMI- TANZA} (CONCORDANZA; DEDUZIONE; DIALETTICA; DIFFERENZA; DIMOSTRAZIONE; INDUZIONE; PROVA; ResIpUI; SiLLogIsMo; SINTESI; ed inoltre le voci dedicate alle singole discipline: FILosoFIA; FISICA; GroMETRIA; LoGIcA; MATEMATICA; SCIENZA; ecc. METODOLOGIA (ingl. Merhodology; francese Méthodologie; ted. Methodologie, Methodenlehre). Sotto questo termine si possono intendere quattro cose diverse: 1° la logica o la parte della logica che studia i metodi; 2° la logica trascendentale ap- plicata; 3° l’insieme dei procedimenti metodici di una scienza o di più scienze; 4° l’analisi filosofica di tali procedimenti. 1° Come M., la logica è stata intesa nell’età post-cartesiana. Dice la Logica di Portoreale: « La logica è l’arte di ben condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose, tanto per istruire se stessi quanto per istruire gli altri ». Nello stesso senso Wolff definiva la logica come «la scienza di dirigere la facoltà conoscitiva nella conoscenza della verità » (Log., $ 1). Questo concetto della logica si può vedere espresso anche nella definizione che Stuart Mill dà di essa come «la scienza delle ope- razioni dell'intelletto che servono alla valutazione della prova» (Logic, Intr., $ 7). Dall'altro lato la M. è stata anche considerata come una parte della logica. Pietro Ramo distingueva la logica in quattro parti e precisamente nella dottrina del con- cetto, del giudizio, del ragionamento e del metodo (Dialecticae Institutiones, 1543): e questa partizione accettata dalla Logica di Portoreale è rimasta tra- dizionale ed è stata costantemente seguita dalla logica filosofica del sec. xrx (v. per tutti BENNO ERDMANN, Logik, 1892, I, $ 7). Da Wolff (Log., $ SOS sgg.) in poi la dottrina del metodo si chiamò spesso logica pratica. 2° Come logica trascendentale applicata o « pratica », la M. è stata intesa da Kant. Essa costituisce la seconda parte principale della Critica della Ragion Pura la quale ha per iscopo «la de- terminazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura»; e comprende una disciplina, un canone, un’architettonica e infine una storia della ragion pura. Kant stesso mette a raffronto questa parte della sua opera con la logica formale applicata o pratica: « Dal punto di vista trascendentale, egli dice, faremo quello che nelle scuole si è cercato di fare sotto il nome di logica pratica, rispetto all’uso dell’intelletto in generale, ma si è fatto male perchè, non limitandosi a un METODOLOGIA modo speciale di conoscenza intellettuale (per es., a quello puro) e neanche a certi oggetti, la logica generale non può far altro che proporre titoli di metodi possibili e di espressioni tecniche» (Crif. R. Pura, Dottr. Trasc. del Metodo, Intr.). 3° Col nome di M. viene oggi spesso indicato l’insieme dei procedimenti tecnici di accertamento o di controllo in possesso di una determinata di- sciplina o gruppo di discipline. In questo senso si parla, per es., della « M. delle scienze naturali + o della «M. storiografica». In questo senso la M. è elaborata all’interno di una disciplina scien- tifica o di un gruppo di discipline e non ha altro scopo se non quello di garantire alle discipline in questione l’uso sempre più efficace delle tecniche di procedura di cui dispongono. 4° Dall’altro lato, e in stretta connessione con la M. nel senso precedente, la M. si viene costi- tuendo come disciplina filosofica relativamente au- tonoma e destinata all’analisi delle tecniche di ricerca adoperate in una o più scienze. L'oggetto della M. in questo senso non sono i « metodi» delle scienze cioè le grandi e approssimative clas- sificazioni (analisi, sintesi, induzione, deduzione, esperimento, ecc.) in cui cadono le recniche della ricerca scientifica, ma proprio soltanto queste tecniche, considerate nelle loro strutture specifiche e nelle condizioni che ne rendono possibile l’uso. Tali tecniche comprendono ovviamente ogni pro- cedura linguistica od operativa, ogni concetto come ogni strumento, di cui una o più discipline si av- valgono per l’acquisizione e il controllo dei loro risultati. In questo senso, la M. è l’erede: a) della metafisica, perchè ad essa competono i problemi concernenti i rapporti tra le scienze e le zone di interferenza (e talora di contrasto) tra scienze di- verse; 5) della gnoseologia, in quanto alla consi- derazione della «conoscenza + intesa come forma globale dell’attività umana o dello Spirito in gene- rale, sostituisce la considerazione dei singoli pro- cedimenti conoscitivi in uso in uno o più campi della ricerca scientifica. La M. in questo senso si chiama anche « critica delle scienze ». Per quanto il lavoro fatto da essa in questa direzione, iniziato dai primi decenni del secolo, sia già ingente, manca finora una precisa determinazione del compito e degli orientamenti di questa disciplina. Cfr. tut- tavia: Autori vari, Fondamenti logici della scienza, Torino, 1947; Id., Saggi di critica delle scienze- Torino, 1950: entrambi a cura del Centro di Studi Metodologici di Torino. MEZZO (ingl. Means; franc. Moyen; ted. Mittel). 1. Tutto ciò che rende possibile il conseguimento di un fine, l’esecuzione di un proposito o la rea- lizzazione di un progetto. Su rapporto tra M. e fine, v. VALORE. MIRACOLO 2. Ambiente e specialmente ambiente biologico. In questo senso la parola corrisponde al francese milieu che è stato cominciato ad usare in questo significato verso la metà del secolo scorso (vedi AMBIENTE). MICIURINISMO. V. GENETICA. MICROCOSMO (gr. puixpds xbopoc; lat. Mi- crocosmus; ingl. Microcosm; franc. Microcosme; ted. Mikrokosmos). La corrispondenza tra il macro- cosmo cioè il mondo, e il M., cioè l’animale e talvolta l’uomo, è un tema filosofico antico nato dalla tendenza a interpretare l’intero universo sul fondamento di quell’universo minore che l’uomo è a se stesso. Aristotele così esponeva questo prin- cipio di interpretazione a proposito della possibilità del movimento autonomo: « Se questo è possibile nell’animale, che cosa impedisce che accada anche nel mondo? Se accade nel M., può accadere anche nel cosmo grande; e se accade nel cosmo, può accadere anche nell’infinito, se è possibile che l’in- finito si muova o stia in quiete nella sua totalità » (Fis., VIII, 2, 252 b 25). Ora questa è un’obiezione che Aristotele rivolge a se stesso e che confuta negando la possibilità del movimento autonomo dell'universo e ammettendo, perciò, il primo mo- tore. La corrispondenza tra M. e macrocosmo non è pertanto un principio a cui Aristotele faccia appello. Ma già ai tempi di Aristotele era un principio antico giacchè esso era a fondamento della cosmogonia degli Orfici e precisamente della dottrina che il mondo è nato da un uovo: difatti è nato da un uovo perchè è un animale (cfr. A. OLI- VIERI, Civiltà greca nell’Italia meridionale, Napoli, 1931, pag. 23 sgg). Platone stesso chiamò il mondo «un grande animale» (7im., 30 b) fornito perciò d’anima e intelligenza, assumendo come realtà let- terale una corrispondenza metodologica; e questo fu il senso in cui solitamente tale corrispondenza fu assunta dopo di lui dagli Stoici, dai Neo-pitago- rici e in generale da tutti coloro che insistettero sul carattere animato dell’universo. La corrispondenza tra M. e macrocosmo fu uno dei temi preferiti della letteratura magica. La magia infatti intende dominare il mondo naturale o incan- tandolo o addomesticandolo come si fa con un animale; e il suo presupposto è precisamente questo, che il mondo sia un animale e che tutti i suoi aspetti siano controllabili con procedimenti che si rivolgono ad essi come ad attività viventi. La cor- rispondenza M.-macrocosmo fu pertanto uno dei temi obbligati della magia rinascimentale. Cornelio Agrippa affermava che l’uomo raccoglie in sè, tutto ciò che è disseminato nelle cose e che questo gli consente di conoscere la forza che tiene avvinto il mondo e di servirsene per operare azioni mira- colose (De Occulta philosophia, I, 33). Osservazioni 583 analoghe si ripetono in tutti gli scrittori del Rina- scimento che ammettono la magia (per es., CAM- PANELLA, De Sensu rerum, I, 10). Teofrasto Para- celso impiantava proprio sulla corrispondenza tra macrocosmo e M. l’intera scienza medica; e perciò esigeva che questa si fondasse su tutte le scienze che studiano la natura dell’universo e cioè sulla teologia, la filosofia, l’astronomia e l’alchimia (De Philosophia occulta, II, pag. 289). Con l’abbandono, da parte della scienza, del principio antropomorfico nell’interpretazione della natura, la corrispondenza tra M. e macrocosmo ha cessato di essere una guida utile della ricerca ed è apparsa piuttosto come un pregiudizio. Lo stesso Lotze che ha intitolato M. la sua opera fon- damentale non ammette quella corrispondenza se non nella forma del condizionamento che il mondo esercita sull’uomo e cerca di restringerne la por- tata in limiti ristrettissimi (Mikrokosmus, VI, K, 1; trad. ital., II, pag. 312 sgg.). MILLENARISMO. V. Chitiasmo. MIMAMSA. Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, la cui fondazione viene attribuita a Jaimini. Esso è sostanzialmente una interpreta- zione della dottrina dei vedanta (v.) e vuol essere una tecnica della liberazione. Si oppone al concetto di un Dio creatore e ammette la realtà della ma- teria e delle anime (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, 1957, pag. 127 sgg.). MIMESI. V. MeETESSI. MINIMUM. Così Lucrezio chiamò l’atomo (De nat. rer., I, 620). Cusano insisteva sulla coincidenza del massimo e del minimo in Dio (De docta ignor., I, 4) e Giordano Bruno usò la parola nel senso di Cusano (De minimo triplici et mensura, I, 7) (v. ATOMO). MIRACOLO (gr. vépas; lat. Miraculum; in- glese Miracle; franc. Miracle; ted. Wunder). Un fatto eccezionale o inspiegabile, assunto come segno o manifestazione di una volontà divina. Tale era la nozione che del M. si aveva nell’antichità clas- sica (per es., Iliade, II, 234; Odissea, III, 173; XII, 394; ecc.); e tale è la nozione che si ebbe di esso nel Medioevo e che viene così espressa da S. Tommaso: « Nel M. possono scorgersi due cose: Una è quel che accade e che è certo qual- cosa che eccede la facoltà della natura; e in questo senso i M. si dicono potenze (virtutes). La seconda è ciò per cui i M. accadono cioè la manifestazione di qualcosa di soprannaturale; e in questo senso comunemente i M. si dicono segni, mentre si di- cono portenti per la loro eccellenza e prodigi in quanto mostrano qualcosa da lontano » (S. 7à., II, 2, q. 178, a. 1, ad 3°). Quando, come accadde con l’averroismo medie- vale, con l’aristotelismo rinascimentale e special- 584 mente con il primo affermarsi della scienza moderna, si cominciò ad insistere sull’ordine necessario della natura, il M. cominciò ad essere considerato come una « eccezione + a quest’ordine perciò negato come tale o ridotto ad evento insolito ma conforme all’ordine naturale. Nel libro Sugli Incantesimi, Pomponazzi, ad es., negava che i M. fossero eventi contrari alla natura ed estranei all’ordine del mondo; e li ammetteva solo come fatti inconsueti e rarissimi, che non accadono secondo l’andamento abituale della natura ma ad intervalli lunghissimi: fatti tuttavia che rientrano nell’ordine naturale, dal quale sono anzi determinati (De Incantationibus, 12). Spinoza a sua volta affermava che «il M., sia esso contro natura, sia esso al di sopra della natura, è una mera assurdità e che per M., nella Sacra Scrit- tura, non è possibile intendere che un'opera della natura la quale superi l’intelligenza degli uomini o si creda che la superi» (7ractatus teologico- politicus, cap. 6). Spinoza riteneva che Dio si co- noscesse meglio dall’ordine e dalla necessità della natura che non da pretesi miracoli. Ma anche Hume, che parte da una concezione tutta diversa, nega la possibilità del miracolo. * Un M., egli dice, è una violazione delle leggi della natura e siccome un’esperienza fissa e inalterabile ha stabilito queste leggi, la prova contro il M., tratta dalla stessa natura del fatto, è così completa quanto ci si può immaginare che sia un argomento tratto dall’espe- rienza » (/nq. Conc. Underst., X, 1). Tutte le limita- zioni che il concetto di legge naturale ha subito da Hume in poi, non hanno reso più facile la nozione di M. dal punto di vista della scienza e della fi- losofia. Ma forse si tratta di una nozione che, dal punto di vista della religione, non deve essere resa più facile. Dice Kierkegaard: « È in fondo ugualmente assurdo tanto (e lo fa anche Lessing pubblicando i Frammenti di Wolfenbatteln) aguzzare il proprio ingegno per provare l'assurdità, l’inverosimiglianza del M. e poi, dal fatto che è inverosimile, conclu- dere: ergo, ciò non è M. (ma sarebbe poi un M. se fosse verosimile?), quanto (ed è questa la sa- pienza della speculazione) sforzarsi di comprendere o di rendere comprensibile il M., concludendo in- fine: ergo, è un miracolo. Un M. comprensibile non è più un miracolo. No, il M. rimanga quel che è, oggetto di fede» (Diario, X3, A, 373). Da questo punto di vista cadono, ovviamente, le obie- zioni contro il M.; ma dall’altro lato il M. cessa di essere a qualsiasi titolo oggetto della ricerca scientifica e filosofica. MISOLOGIA (gr. puoodoyia; ingl. Misology; franc. Misologie; ted. Misologie). Termine creato da Platone per indicare l’odio dei ragionamenti. Secondo Platone, «la M. nasce allo stesso modo MISOLOGIA della misantropia ». Come la misantropia nasce dall’aver avuto fiducia in qualcuno senza discer- nimento, così la M. nasce dall’aver creduto, senza possedere l’arte del ragionamento, alla verità di ragionamenti che poi sono apparsi falsi (Fed., 89 d-90 b). Secondo Kant la M. nasce quando si affida alla ragione il compito di conseguire «il godimento della vita e la felicità»: compito al quale essa è in realtà inadatta giacchè il suo destino, come facoltà pratica, è quello di condurre alla moralità (Grundlegune der Metaphysik der Sitten, I). Secondo Hegel una forma di M. è il sapere immediato (Enc., $ 11). MISTERO (gr. puothpioy; lat. Mysterium; in- glese Mystery; franc. Mystère; ted. Mysterium). Nel senso in cui la parola cominciò ad essere usata dagli scrittori ermetici dell’antichità (per es., Corpus Hermeticum, I, 16) significa una verità rivelata da Dio che va mantenuta segreta. La parola passò poi, nell’uso cristiano, a indicare qualcosa di in- comprensibile o di significato oscuro o nascosto. Jacob Bòhme chiamava in questo senso Dio Myste- rium magnum (è il titolo di una sua opera del 1623). Dai moderni la parola viene adoperata: 1° nel senso di verità di fede indimostrabile, quindi in un certo senso incomprensibile: per es., «i M. della Trinità e dell’Incarnazione +; 2° nel senso di un problema che si ritiene insolubile o la cui soluzione si attribuisce al do- minio religioso o mistico: per es., «il M. dell’es- sere ». Non mancano anche oggi i filosofi che, come già Spencer (First Princ., $ 14), ritengono che il M. sia il dominio proprio della religione; 3° nel senso di un qualsiasi problema di difficile o non immediata soluzione; e in questo senso anche un problema poliziesco è un mistero. MISTICISMO (ingl. Mysticism; franc. Mysti- cisme; ted. Mysticismus). Ogni dottrina che am- metta una comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. La parola mistica cominciò ad essere usata in questo senso negli scritti di Dionigi l’Areopagita, che ap- partengono alla seconda metà del v secolo e si ispirano al neoplatonico Proclo. In tali scritti viene accentuato il carattere mistico del neoplato- nismo originale, cioè della dottrina di Plotino. Per far ciò, si insiste da un lato sull’impossibilità di giungere a Dio o di realizzare una qualsiasi comu- nicazione con lui mediante i procedimenti ordinari del sapere umano; dal punto di vista del quale non si può far altro che definire Dio negativamente (teologia negativa). Dall'altro, si insiste su un rap- porto originario, intimo e privato tra l’uomo e Dio: rapporto in virtù del quale l’uomo può ri- tornare a Dio e congiungersi infine con lui in un atto supremo. Quest’atto è l’estasi che Dionigi considera come la deificazione dell’uomo. MISTIFICAZIONE Lo schema di ogni dottrina mistica è questo, che il falso Dionigi ricavò dagli scritti neo-platonici e che contiene anche molte tracce delle credenze orientali cui questi dovevano una parte della loro ispirazione. Il M. medievale si pose talvolta come un'alternativa escludente la via della ricerca ra- zionale: tale fu in Bernardo di Chiaravalle (se- colo xm): nel quale la difesa della via mistica si accompagna alla polemica contro la filosofia e in generale l’uso della ragione. Altra volta, invece, la via mistica e la via della speculazione scolastica sono entrambe ammesse e riconosciute: come fe- cero i Vittorini (Ugo, Riccardo) nello stesso se- colo xm. E gli stessi caratteri il M. conserva in S. Bonaventura, che coltiva ugualmente la specula- zione filosofica e quella mistica. Dall’altro lato la grande corrente del M. speculativo tedesco del sec. xIv (Maestro Eckhart, Taulero, Susone, ecc.) è di nuovo in posizione polemica contro ogni ten- tativo di adoperare la ragione nel campo della religione; ma la sua caratteristica è quella di essere una speculazione sulla fede, ritenuta come il tra- mite della comunicazione diretta tra l’uomo e Dio. Cadono poi interamente fuori del dominio della filosofia, ma non di quello del M., i mistici pratici del cristianesimo come Santa Teresa, Santa Cate- rina da Siena, S. Francesco, Giovanna D'Arco, ecc. (cfr. H. Deacror:, Études d’histoire et de psycho- logie du mysticisme, Paris, 1908; J. H. LEUBA, The Psychology of Religious Mysticism, 1925). La ricerca mistica consiste essenzialmente nel definire i gradi progressivi dell’ascesa dell’uomo a Dio, nell’illustrare con metafore lo stato di estasi e nel cercare di promuovere tale ascesa con oppor- tuni discorsi edificatori. I gradi dell’ascesa mistica sono abitualmente tre: il pensiero (cogitatio) che ha per suo oggetto le immagini provenienti dal- l’esterno ed è diretto a considerare l'orma di Dio nelle cose; la meditazione (meditatio) che è il rac- cogliersi dell'anima in se stessa e che ha per oggetto l’immagine stessa di Dio; e la contemplazione (contemplatio) che si rivolge a Dio stesso. Questi gradi sono variamente illustrati e suddivisi dai mistici che abitualmente dividono ognuno di questi gradi in due altri, enumerando così, con l’estasi, sette gradi di ascesa. Ad es., secondo Bonaventura, il pensiero può considerare le cose o nel loro ordine oggettivo (I grado) o nell'apprensione che di esse ha l’anima umana (II grado). La meditazione può contemplare l’immagine di Dio nei poteri naturali dell'anima, memoria, intelletto e volontà (III grado) oppure nei poteri che l’anima acquista in virtù delle tre virtù teologali (IV grado). La contempla- zione può considerare Dio nel suo primo attributo cioè nel suo essere (V grado) oppure nella sua massima potenza, che è il bene (VI grado) (/tine- 585 rarium mentis in Deum, 1259). Al di là di questi gradi, per tutti i mistici, c’è l’estasi (v.) o excessus mentis, definita talvolta come « ignoranza dotta » (v.) e in ogni caso considerata come il «deîficarsi dell’uomo » cioè l’unirsi dell’uomo a Dio. Da un punto di vista filosofico-religioso è impor- tante l’apprezzamento che Kierkegaard fece del misticismo. Il mistico è, secondo Kierkegaard, «colui che sceglie se stesso in un isolamento com- pleto » cioè nel suo isolamento dal mondo e dai rapporti umani (Aut Aut, in Werke, II, pag. 215) ma così facendo egli commette una certa indiscre- zione nei riguardi di Dio. Giacchè, in primo luogo, egli disdegna l’esistenza, la realtà nella quale Dio lo ha posto; e in secondo luogo egli degrada Dio e se stesso. « Degrada se stesso perchè è sempre una degradazione essere essenzialmente differenti dagli altri grazie a una semplice accidentalità; e de- grada Dio perchè fa di lui un idolo e di se stesso un favorito alla corte di lui» (Ibid, Werke, II,g pag. 219). Nella filosofia contemporanea, il M. è stato difeso da Bergson. Nel M., Bergson ha visto la « religione dinamica » cioè la religione che continua lo slancio creativo della vita e tende a creare forme di vita più perfette per l’uomo. « L’amore mistico, dice Bergson, si identifica con l’amore di Dio per la sua opera, amore che ha creato ogni cosa, ed è in grado di rivelare a chi sappia interrogarlo il mistero della creazione. È composto di un’essenza più metafisica che morale. Vorrebbe, con l’aiuto di Dio, perfezionare la creazione della specie umana e fare dell'umanità quello che sarebbe potuto es- sere subito se avesse potuto costituirsi definitiva- mente senza l’aiuto dell’uomo ». In altri termini è allo slancio mistico che può essere dovuto il ripristino della «funzione essenziale dell’universo, che è una macchina destinata a creare divinità » (Deux Sources; trad. ital., pag. 256, 349). Questa interpretazione del M. data da Bergson non si differenzia dal comune panteismo (v.). MISTIFICAZIONE (ingl. Mystification; fran- cese Mystification; ted. Mystification). L’interpreta- zione di un concetto in modo oscuro, fallace o tendenzioso. Diceva, per es., Marx: «La M. alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmentele forme generali del movimento della dialettica stessa » (Carteggio Marx-Engels; trad. ital., V, pag. 28). Secondo Marx la dialettica di Hegel era «mistificata» perchè interpretata idealistica- mente invece che materialisticamente. In modo analogo si dice che si ha un concetto mistificato della libertà quando si fa coincidere la libertà con la necessità e così implicitamente la si nega, ecc. 586 MISURA (gr. uérpov; lat. Mensura; ingl. Mea- sure; franc. Mesure; ted. Mass). Già Platone aveva diviso l’arte della M. in due parti, situando nella prima le arti «che misurano il numero, la lun- ghezza, l'altezza, la larghezza e la velocità in rap- porto ai loro contrari» e nella seconda «le arti che misurano il rapporto al giusto mezzo, al con- veniente, all’opportuno, al doveroso e insomma a quelle determinazioni che stanno nel mezzo tra due estremi » (Polit., 284 e). Conseguentemente, si può intendere per misura:

1° il rapporto tra una grandezza e l’unità. A questo proposito Aristotele osservava che l’unità può essere intesa in due modi: come unità conven- zionale o apparente e come unità assolutamente indivisibile (Mer., X, 1, 1053a 22). Lo stesso Aristotele riconosceva la condizione di ogni M. in questo senso nella omogeneità tra ciò che si misura e ciò con cui si misura (/bid., X, 1, 1053 a 22); 2° il criterio o il canone di ciò che è vero o bene. In questo senso Cleobulo uno dei Sette Savi diceva: « Ottima è la M.» (Diog. L., I, 93), Pla- tone vedeva nella giusta M. l’ordine e l’armonia delle cose (Fi/., 24c-d) e Aristotele faceva della medietà (v.) il canone della virtù etica. Nello stesso senso usava la parola Protagora nel suo famoso principio che l’uomo è M. delle cose; e Aristotele quando vedeva nell'uomo virtuoso «il canone e la M. delle cose» (Er. Nic., III, 4, 1113a 33). In questo senso la M. è uno dei concetti fonda- mentali della cultura classica greca. MITO (gr. w6006; lat. Mytus; ingl. Myth; fran- cese Myrhe; ted. Mythos). Oltre l’accezione gene- rica di «racconto» nella quale la parola è usata, per es., nella Poetica (I, 1451 b 24) di Aristotele si possono distinguere, dal punto di vista storico, tre significati del termine, e precisamente: 1° quello del M. come di una forma attenuata di intellettua- lità; 2° quello del M. come una forma autonoma di pensiero o di vita; 3° quello del M. come stru- mento di controllo sociale. 1° Nell'antichità classica il M. è considerato come un prodotto inferiore o deformato dell’atti- vità intellettuale. AI M. si attribuì, al massimo, la « verosimiglianza » di fronte alla « verità » propria dei prodotti genuini dell’intelletto. Questo fu il punto di vista di Platone e di Aristotele. Platone contrappone il M. alla verità o al racconto vero (Gorg., 523 a); ma nello stesso tempo gli riconosce la verosimiglianza che, in certi campi, è la sola validità cui il discorso umano possa aspirare (Tim., 29 d) e che, in altri campi, esprime ciò di cui non si può trovare di meglio nè di più vero (Gorg., 527 a). Il M. costituisce, anche, per Platone la «via umana e più brcve» della persuasione; ed in complesso il suo dominio è rappresentato da quella MISURA zona che è al di là della stretta cerchia del pensiero razionale e nella quale non è lecito avventurarsi che con supposizioni verosimili. Sostanzialmente lo stesso atteggiamento ha di fronte al M. Aristotele. Il M. è talora opposto alla verità (Mist. An., VII, 12, 597 a 7); ma talora è anche la forma appros- simativa e imperfetta che la verità assume quando, per es., di una cosa si dà «la ragione in forma di M. » (Zbid., VI, 35, 580 a 18). A questo concetto del M. come verità imperfetta o diminuita va congiunta, spesso, l’attribuzione al M. di una va- lidità morale o religiosa. Ciò che il M. dice, si suppone, non è dimostrabile nè chiaramente con- cepibile, ma il suo significato morale o religioso vale a dire ciò che insegna rispetto alla condotta dell’uomo rispetto agli altri uomini o rispetto alla divinità, risulta chiaro. Così Platone dice nel Gorgia, a proposito dei M. morali che vi sono esposti: « Forse queste cose ci sembreranno M. da vecchie donne e le considererai con disprezzo. E non sa- rebbe fuor di luogo spregiarle se con la ricerca potessimo trovare altre cose migliori e più vere. Ma anche voi tre, tu, Polo e Gorgia, che siete i più saggi greci di oggi, non riuscite a dimostrare che convenga vivere altra vita che questa » (Gorg., 527 a-b). Analogamente, un significato religioso si attribuisce al M., ogni qualvolta che con questo nome si designano credenze determinate come, per es., quando si dice « M. cosmogonico » 0 « M. soteriologico » 0 « M. escatologico », ecc. Nel co- mune linguaggio, prevale questa accezione del si- gnificato nella sua forma estrema cioè come di credenza dotata di minima validità e di scarsa ve- rosimiglianza; in questo senso si chiama mitico ciò che è irraggiungibile o contrario ai criteri del co- mune buonsenso, per es., « una perfezione mitica ». All’ambito di questa interpretazione del M. ap- partengono le cosiddette teorie naturalistiche che

sono prevalse nel secolo scorso in Germania. Se- condo queste teorie, il M. è un prodotto dello stesso atteggiamento teoretico o contemplativo che darà poi luogo alla scienza e consiste nell’assumere un determinato fenomeno naturale come chiave per la spiegazione di tutti gli altri fenomeni. I fenomeni astronomici, quelli meteorologici e altri sono stati di volta in volta invocati a questo scopo. Più re- centemente un’altra scuola sociologica ha visto nel mito soprattutto il ricordo degli eventi passati. Nell’uno e nell’altro caso queste «spiegazioni na- turalistiche » del M. non fanno altro che ridurlo a una forma imperfetta di attività intellettuale. 2° La seconda concezione del M. è quella per la quale esso è una forma autonoma di pensiero e di vita. In questo senso il M. non ha una validità o una funzione secondaria e subordinata rispetto alla conoscenza razionale, ma funzione e validità MITO originaria e primaria; e si colloca su un piano diverso, ma dotato di uguale dignità, di quello dell'intelletto. Fu Vico a esprimere per la prima volta questo concetto del M.: « Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde la favola, fu diffinita vera narratio) le quali nac- quero dapprima perloppiù sconce, e perciò poi si resero improprie, quindi alterate, seguentemente inverosimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della dif- ficoltà delle favole» (Sc. N., II, Pruove filos. per la discoverta del vero Omero, IV). La verità del M. non è dunque una verità intellettuale corrotta o degenerata ma una verità autentica, sebbene di forma diversa da quella intellettuale, cioè di forma fantastica o poetica: «I caratteri poetici nei quali consiste l’essenza delle favole nacquero da neces- sità di natura, incapace d'’astrarne le forme e le proprietà da ‘subbietti *; e in conseguenza dovette essere maniera di pensare d’intieri popoli, che fus- sero stati messi dentro tal necessità di natura, ch'è nei tempi della lor maggior barbarie » (/bid., VI). Da questo punto di vista «i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni » (/bid., X); e i caratteri poetici contengono significati storici che furono, nei primi tempi, trasmessi a memoria dai popoli (Ibid., IX). Il Romanticismo fece proprio questo concetto del M. e lo amplificò in una metafisica teologica. La Filosofia della mitologia di Schelling vede nel M., considerato come la religione naturale del genere umano, una fase della autorivelazione dell’ Asso- luto. Il M. fa parte integrante del processo della teofania; esso non ha a che fare con la natura o meglio ha a che fare con essa solo indirettamente, in quanto la natura stessa è la rivelazione di Dio. Il M. è una fase della teogonia che è al di là e al di sopra della natura perchè è la manifestazione di Dio come coscienza della natura o rapporto di essa con l’io (Werke, II, I, pag. 216 sgg.). Al di fuori di queste speculazioni che appartengono in proprio all’idealismo romantico, la dottrina del M. come forma autonoma di espressione e di vita ha trovato ampia accoglienza nella filosofia e nella sociologia contemporanee. Nella filosofia, la mi- gliore espressione di questa interpretazione del M. è il secondo volume della Filosofia delle forme sim- boliche (1925) di Ernesto Cassirer: nel quale la caratteristica del pensiero mitico è scorta nella mancata o imperfetta distinzione tra il simbolo e l’oggetto del simbolo e cioè nella mancata o im- perfetta consapevolezza del simbolo come tale. «Il M., dice Cassirer, sorge spiritualmente al di sopra del mondo delle cose ma nelle figure e nelle immagini con le quali esso sostituisce questo mondo, esso non vede che un'altra forma di materialità e 587 di legame con le cose » (Philosophie der symbolischen Formen, II, 1925; trad. ingl., 1955, pag. 24). Più tardi, nel Saggio sull'uomo, Cassirer ha visto il carattere distintivo del M. nel suo fondamento emotivo. «Il sostrato reale del M. non è un so- strato di pensiero ma di sentimento. Il M. e la religione primitiva non sono certo del tutto incoe- renti, non sono interamente privi di senso o di ra- gione. Ma la loro coerenza proviene molto di più da un’unità sentimentale che da regole logiche. Questa unità è uno degli impulsi più forti e più profondi del pensiero primitivo » (Essey on Man, cap. 7; trad. ital., pag. 124-25). Anche questa con- cezione tuttavia cade nell’ambito dell’interpreta- zione che fa del M. una forma spirituale autonoma di fronte all’intelletto. E all'ambito di questa stessa interpretazione ap- partiene l’interpretazione sociologica che fa del M. il prodotto di una mentalità pre-logica. Questa è stata la tesi dei sociologi francesi Durkheim e Lévy- Bruhl. Il primo aveva affermato che il vero mo- dello del M. non è la natura ma la società e che esso è in ogni caso la proiezione della vita sociale dell’uomo: una proiezione che ne riflette le carat- teristiche fondamentali (Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912). Il secondo ha definito il pensiero mitico come pensiero pre-logico, nel senso che esso prescinderebbe completamente dall’ordine necessario che per il pensiero logico costituisce la natura e vedrebbe la natura stessa come « una rete di partecipazioni e di esclusioni mistiche nella quale non valgono la legge di contraddizione e le altre leggi del pensiero logico » (La mentalité primitive, 1922; L'dme primitive, 1928). 3° La terza concezione del M. è la moderna teoria sociologica di esso, che si può far risalire principalmente a Fraser (Golden Bough, 1911-15) e a Malinowski. Quest’ultimo vede nel M. la giusti- ficazione retrospettiva degli elementi fondamentali che costituiscono la cultura di un gruppo. « Il M. non è un semplice racconto nè una forma di scienza, nè una branca d’arte o di storia nè una narrazione esplicativa. Esso compie una funzione sui generis strettamente connessa con la natura della tradizione e la continuità della cultura, con la relazione tra maturità e giovinezza e con l’atteggiamento umano verso il passato. La funzione del M. è, in breve, quella di rafforzare la tradizione e di darle maggior valore e prestigio connettendola alla più alta, mi- gliore e più soprannaturale realtà degli eventi ini- ziali ». In questo senso il M. non è limitato al mondo o alla mentalità dei primitivi. È anzi in- dispensabile a ogni cultura. « Ogni mutamento sto- rico crea la sua mitologia, che è tuttavia solo indirettamente relativa al fatto storico. Il M.» un costante accompagnamento della fede vivente 588 che ha bisogno di miracoli, dello status sociolo- gico che domanda precedenti, della norma morale che esige sanzione» (« Myth in Primitive Psycho- logy », 1926, in Magic, Science and religion, 1955, pag. 146). Dall'altro lato Levi-Strauss ha indagato la struttura (v.) del M. nelle società primitive, analizzando alcuni M. nei loro elementi più sem- plici (mitemi) e studiandone le combinazioni pos- sibili, che spiegano anche le somiglianze e le dif- ferenze tra M. in vigore presso gruppi umani diversi (Anthropologie structurale, 1958, cap. XI). Egli ha inoltre mostrato che il M. non è un rac- conto storico ma piuttosto la rappresentazione ge- neralizzata di fatti che ricorrono uniformemente nella vita degli uomini: la nascita e la morte, la lotta contro la fame e le forze della natura, la sconfitta e la vittoria, il rapporto tra i sessi. Il M. non riproduce perciò mai la situazione reale ma si oppone a questa situazione, nel senso che la rappresenta abbellita, corretta e perfezionata ed esprime così le aspirazioni che la situazione reale fa sorgere. Egli adopera la parola dialettica (v.) per caratterizzare il rapporto tra il M. e la realtà che lo ispira (« The Story of Asdiwal», in 7he Structural Study of Myth and Totemism, ed. by Leach, 1969, pag. 29 sgg.). Altri autori preferiscono parlare di retroazione (Feedback); nel senso che il M. reagisce sulla situazione che l’ha provocata, cioè tende a modificare l'universo sociale dal quale sorga e che, una volta modificato, provoca a sua volta una risposta nel campo del M. e così via (DougLas, nello stesso volume, pag. 57 sgg.). In ogni caso, il M. appare come « una filosofia nativa » (secondo l’espressione di Levi-Strauss) cioè la forma in cui un gruppo sociale esprime il proprio atteg- giamento di fronte al mondo o un modo per ri- solvere il problema della sua esistenza. Da questo punto di vista il M. non è definito nei confronti di una determinata forma dello spi- rito, per es., dell'intelletto o del sentimento, come accade nelle due interpretazioni precedenti, ma ri- spetto alla funzione che compie nelle società umane: funzione che può essere chiarita e descritta in base a fatti osservabili. La svalutazione del M. propria della prima concezione e la sopravvalutazione di esso propria della seconda sono, da questo terzo punto di vista, egualmente fuori posto. Questo è certamente un vantaggio del punto di vista in questione. Un altro vantaggio è che esso spiega la funzione che il M. esercita nelle società progredite e i caratteri disparati che in tali società può assu- mere. Possono costituire M., in esse, non solo racconti favolosi, storici o pseudostorici, ma figure umane (l’eroe, il condottiero, il duce) o concetti o nozioni astratte (la nazione, la libertà, la patria, il proletariato) o infine progetti di azione che non MITO DELLA CAVERNA si realizzeranno mai (lo « sciopero generale » di cui parlava Sorel come del M. proprio del proletariato; cfr. Réfléxions sur la violence, 1906). La disparità di contenuto del M. denuncia l’impossibilità di riportarlo, in base al contenuto, a questa o quella forma spirituale; e l’opportunità di studiarlo, in- vece, rispetto alla funzione che compie nella so- cietà umana. MITO DELLA CAVERNA. V. CAVERNA. MITOLOGICO (ted. Mythologisch). Un signi- ficato speciale ha ricevuto questo termine ad opera di Rudolf Bultmann: significato che è importante per l’interpretazione del cristianesimo data da questo pensatore: « M., egli dice, è la forma di rappresentazione in cui ciò che non è mondano, ciò che è divino, viene raffigurato come mondano, umano, l’al di là come al di qua, in cui, ad es., la trascendenza di Dio viene pensata come distanza spaziale; rappresentazione in conseguenza della quale il culto viene inteso come un’azione in cui, per opera di mezzi materiali, vengono comunicate forze non materiali ». In questo senso, è ovvio che la parola mito non ha il senso moderno «in cui non significa altro che ideologia» (Keryema und Mythos, I, 1951, pag. 22, n. 2). Cfr. MIEGGE, L’Evangelo e il mito, Milano, 1956. MNEMONICA, MNEMOTECNICA (la- tino Ars memoriae; ingl. Mnemonics; franc. Mné- monique; ted. Mnemonik, Mnemotechnik). L'arte di coltivare la memoria. Si tratta di un’arte antichis- sima, che Cicerone attribuisce già a Simonide di Ceo (De Or., II, 86, 351). Quest’arte fu coltivata dai Sofisti e Ippia si vantava di esserne maestro (Ippia Min., 368 d; Ippia Mag., 286 a). Il gusto di quest'arte risorse nel Rinascimento e fu coltivata specialmente da Giordano Bruno, che dedicò ad essa un gruppo di scritti (De umbris idearum, 1582; Ars memoriae, 1582; Cantus circaeus, 1582; Triginta sigillorum explicatio, 1583; ecc.) (v. CLAvIS UNIVERSALIS). La psicologia contemporanea è ritor- nata a occuparsi di quest'arte, con mezzi spe- rimentali. MOBILE, PRIMO (gr. rpitov ximréy; la- tino Primum mobile; ingl. First Mobile; franc. Premier mobile; ted. Primare Bewegliches). Così Aristotele chiamò il primo cielo al quale il movimento è comunicato direttamente dal primo motore o mo- tore immobile e che perciò è altrettanto semplice, ingenerato e incorruttibile del primo motore (De Cael., II, 6, 288 a 14 sgg.). Aristotele stesso para- gona al primo M. la facoltà appetitiva dell’anima, come paragona al motore immobile il bene (De An., III, 10, 433 b 14). Il primo M. è il cielo che Dante chiama «cristallino » cioè diafano o traspa- rente e al di là del quale ammette il cielo empireo o sede dei beati (Conv., II, 4; Par., 30, 107). MODALITÀ MOBILISMO (franc. Mobilisme). La parola è moderna (cfr. Cume, Le mobilisme moderne, 1908) poco usata anche in italiano e in francese, ma si presta ad esprimere l’atteggiamento filosofico di quelli che Platone chiamava i «fluenti» (7eer., 181 a) cioè di coloro i quali ammettono che tutto muta e nulla sta fermo: come facevano nell’anti- chità i seguaci di Eraclito e come fanno, nella filosofia moderna, i filosofi del divenire (v.). MODA (ingl. Fashion; franc. Mode; ted. Mode). Kant ha interpretato la M. come una forma di imitazione, fondata sulla vanità, in quanto « nes- suno vuole apparire da meno degli altri anche in ciò che non ha alcuna utilità ». Da questo punto di vista «stare alla M. è questione di gusto; chi è fuori di M. e aderisce a un uso passato, si dice antiquato; chi non dà nessun valore all’esser fuori di M. è un eccentrico». Kant dice che «è meglio esser matto secondo la M. che fuori di essa» e che la M. è veramente pazza solo quando sacrifica alla vanità l’utile o addirittura il dovere (Antr., I, $ 71). In realtà questa analisi di Kant non è oggi più sufficiente perchè è noto che la M. investe tutti i fenomeni culturali e anche quelli filosofici. M. sono state nell’età moderna il cartesianesimo, l'iluminismo, il newtonismo, il darwinismo, il po- sitivismo, l’idealismo, il neoidealismo, il pragma- tismo, ecc.: tutte dottrine che hanno avuto una importanza decisiva nella storia della cultura. D’al- tronde sono state M. anche movimenti culturali che poca o nessuna traccia hanno lasciato. Si può dire che la funzione della M. è quella di inserire negli atteggiamenti istituzionali di un gruppo, o più in particolare nelle sue credenze, per mezzo di una rapida comunicazione e assimilazione, atteg- giamenti o credenze nuove che, senza la M., do- vrebbero combattere a lungo per sopravvivere e farsi valere. Questa funzione specifica per la quale la M. agisce come un controllo che limita o in- debolisce i controlli della tradizione rende inutile ogni esaltazione e ogni disdegno nei confronti della moda. MODALE (ingl. Modal; franc. Modale; te- desco Modal). Si chiama con questo termine la proposizione nella quale la copula riceve una qual- siasi determinazione complementare. Per le propo- sizioni M., v. MODALITÀ. MODALE, LEGGE (ted. Modales Grund- gesetz). Così Nicolai Hartmann ha chiamato la riduzione di tutte le modalità dell’essere (cioè della possibilità e della necessità) all’effettualità cioè al- l’essere di fatto (Mbplichkeit und Wirklichkeit, 1938, pag. 71) (v. NECESSITÀ). MODALISMO (ingl. Modalism; franc. Moda- lisme; ted. Modalismus). Si chiama così l’inter- pretazione della Trinità cristiana che consiste nel 589 vedere nelle tre persone divine tre modi o mani- festazioni dell'unica sostanza divina. Questa inter- pretazione è stata sempre condannata come eretica dalla chiesa cristiana che ha insistito sull’ugua- glianza e la distinzione delle persone divine. Nel sec. Im il M. fu sostenuto da Sabellio; ma una specie di M. è stato visto anche nella dottrina di Scoto Eriugena e di Abelardo al quale ultimo fu rimproverato da S. Bernardo (De Erroribus Abe- lardî, 3, 8). Un altro nome per la stessa eresia è monarchismo (v.). MODALITÀ (lat. Modalitas; ingl. Modality; franc. Modalité; ted. Modalitàt). Le differenze della predicazione cioè le differenze cui può dar luogo il riferimento di un predicato al soggetto nella proposizione. Tali differenze furono per la prima volta riconosciute da Aristotele sulla base del suo proprio concetto dell’essere predicativo (v. Es- seRE, Il) che è l’inerenza. Egli dice infatti che «altro è l’inerire, altro è l’inerire di necessità e il poter inerire: giacchè molte cose ineriscono, ma non di necessità, altre non ineriscono nè di neces- sità nè semplicemente, ma possono inerire» (An. Pr., I, 8, 29 b 29). In tal modo Aristotele distingue: 1° l’inerire puro e semplice del predicato al sog- getto; 2° l’inerire necessario; 3° l’inerire possibile. In seguito, cioè dai commentatori di Aristotele, vennero chiamati modi la seconda e la terza forma della predicazione; e vennero dette « proposizioni modali » le proposizioni necessarie e possibili (AM- MONIO, De interpr., f. 171 b; Boezio, De Interpr., II, V, P. L. 64°, col. 582). Nel Medioevo, simil- mente, si chiamò proposizione de inesse o de puro inesse quella che oggi diciamo proposizione asser- toria; e si chiamarono modali le proposizioni ne- cessarie o possibili (ABELARDO, Dialect., II, pag. 100; Pierro Ispano, Summ. Log., 1.31). Nella Logica (1638) di Jungius è detta « enunciazione pura» la proposizione assertoria ed «enunciazione modifi- cata o modale» la proposizione necessaria o pos- sibile. Lo stesso uso fu seguito dalla Logica di Portoreale (I, 8) e da Wolff (Log., $ 69). Si può dire pertanto che Kant non faceva che riesporre questa lunga tradizione affermardo: «La M. dei giudizi è una loro funzione tutta particolare, che ha questo carattere distintivo: non contribuisce per niente al contenuto del giudizio (giacchè oltre la quantità, la qualità e la relazione, non c’è altro che formi il contenuto del giudizio) ma tocca solo il valore della copula rispetto al pensiero in gene- rale. Giudizi problematici sono quelli in cui l’affer- mare o il negare si ammette come semplicemente possibile (arbitrario); assertori quelli in cui si considera come reale (vero); apodittici quelli in cui si considera come necessario » (Crif. R. Pura, $9, 4). 590 Nella logica contemporanea la trattazione della M. non è stata portata a un grado sufficiente di chiarezza concettuale e di elaborazione analitica. Ciò è dovuto al fatto che la logica contemporanea si modella sulle matematiche che praticamente igno- rano, o possono ignorare, l’uso delle modalità. Non fa meraviglia pertanto che sia stata proposta quella tesi dell’estensionalità (v.) che equivale alla elimi- nazione delle M. da ogni enunciato. Questa tesi non ha tuttavia impedito ai suoi stessi proponenti di tentare un’interpretazione delle modalità. Rus- sell ha affermato che le M. sono proprietà non delle proposizioni ma delle funzioni proposizio- nali (v.): sicchè sarebbe necessaria la funzione pro- posizionale: «Se x è un uomo, x è mortale» che è sempre vera; possibile la funzione « x è un uomo » che è qualche volta vera; e impossibile la fun- zione * x è un unicorno » che non è mai vera (« The Philosophy of Logical Atomism », 1918, cap. V; in Logic and Knowledge, pag. 230 sgg.). Ma questa interpretazione di Russell equivale semplicemente a una paradossale inversione delle M. in quanto il senso modale dell’espressione « Se x è un uomo, x è mortale » non è la necessità ma la possibilità; essa significa infatti «x può esser mortale». Un altro suggerimento di Russell (Scritto cit., pag. 231) è l’identificazione del necessario con l’analitico, cioè con affermazioni del tipo «x è x». Carnap, a sua volta, si è appigliato appunto a questa in- terpretazione tentando una costruzione della M. sulla base del concetto di necessità logica cioè della analiticità e definendo la possibilità come la negazione di tale necessità (Meaning and Necessity, 1957, $ 39). È appena necessario notare che questa interpretazione equivale alla negazione pura e sem- plice delle M. stesse e non può valere come una logica di esse. D'altronde, Quine ha mostrato le difficoltà inerenti a tutte le trattazioni delle M., fondate, come quella di Carnap, sulla quantifica- zione (From a Logical Point of View, VIII, 4). Circa la distinzione delle M. o, come oggi si dice, dei valori modali delle proposizioni, la più antica e accreditata tavola di tali valori è quella data da Aristotele nel De Interpretatione, che ne comprende sei: vero, falso; possibile, impossibile; necessario, contingente (De /nr., 12, 21 b). Questa logica a sei valori rimase immutata nel Medioevo (cfr., ad es., Pietro Ispano, Sum. Logic., 1.30) ed è stata sviluppata e difesa anche da logici con- temporanei, per es., da Lewis (A Survey of Sym- bolic Logic, 1918). Talvolta i valori modali sono stati ridotti a cinque con l’identificazione della possibilità e della contingenza (per es.: O. BECKER, «Zur Logik der Modalititen», in Jahrb. fiir Phil. and Phdnom. Forschung, 1930, pag. 496-548). Lu- kasiewicz e Tarski hanno a loro volta costruito MODALITÀ una logica a tre M.: vero, falso e possibile (cfr. gli articoli in Compres Rendus des Séances de la So- ciété des Sciences et Lettres de Varsovie, 1930, pag. 30, 50, 176; cfr. per Luxkasiewicz: Polish Logic 1920-39, Oxford, 1967). Carnap ha accet- tato le sei M. della tradizione aristotelica (Meanine and Necessity, $ 39). Il concetto stesso di M. è assai poco chiaro in queste dottrine della logica contemporanea. Si pos- sono qui soltanto indicare le confusioni più fre- quenti: 1° il tentativo di ridurre gli enunciati modali a enunciati quantitativi; 2° il tentativo di ridurre la M. a un valore di verità della proposizione; 3° il tentativo di predicare le M. l'una dell’altra. 1° Il primo tentativo consiste nel far corri- spondere enunciati universali alle proposizioni ne- cessarie ed enunciati particolari alle proposizioni possibili. Così « tutti gli uomini muoiono » sarebbe l’equivalente di « gli uomini debbono morire +; e «alcuni uomini sono artisti » sarebbe l’equivalente di «gli uomini possono essere artisti ». Queste trascrizioni sono indubbiamente insufficienti perchè nè la proposizione necessaria nè quella possibile esprimono fatti come le corrispondenti proposizioni universale e particolare (cfr. A. PAP, Semantics and Necessary Truth, 1958, pag. 368) e perchè la propo- sizione possibile ha un significato distributivo (« ogni uomo può essere artista ») che sarebbe escluso dalla corrispondente proposizione particolare. Ma è poi evidente che nessuna trascrizione del genere è possibile per proposizioni modali del tipo «x può essere »: proposizioni che tuttavia ricorrono in tutti i rami della scienza, ogni qualvolta si tratta di ipotesi, predizioni, probabilità, anticipazioni, ecc. 2° La seconda confusione è quella per cui la M. si allinea tra i valori di verità delle proposizioni: una confusione di cui han dato esempio le stesse cosiddette logiche delle modalità. Ora i valori di verità delle proposizioni (vero, falso, probabile, inde- terminato, ecc.) appartengono a un livello diverso dalla M. che è una determinazione della predica- zione cioè della relazione tra soggetto e predicato della proposizione. I valori di verità appartengono alla sfera del riferimento semantico delle proposi- zioni; le M. appartengono alla struttura relazionale delle proposizioni stesse. Esse indicano pertanto se tale struttura può essere o no diversa da com°è: cioè indicano se il contenuto di un enunciato (il suo significato) può essere o no diverso da come l’enunciato lo esprime. Le M. fondamentali sono quindi due e due soltanto: possibilità e necessità, con i loro opposti non-possibilità e impossibilità Esse modificano i valori di verità delle proposizioni nel senso di limitarli o estenderli ma non vanno confusi con tali valori: la predicazione reciproca suppone anzi la diversità dei livelli e si può dire MODERNISMO «necessariamente vero» o «possibilmente vero », proprio perchè possibilità e verità, verità e neces- sità, appartengono a due sfere diverse e non si esclu- dono tra loro. 3° La terza confusione è quella inerente al ten- tativo di predicare le M. una dell’altra. Questo ten- tativo è contraddittorio come quello di predicare una dell'altra i valori di quantità o di verità delle pro- posizioni. Il teorema fondamentale a questo pro- posito è quello che riconosce il carattere alternativo delle modalità. Ma questo teorema è stato solita- mente disconosciuto o ignorato dai logici della M. a partire da Aristotele. Questi infatti si preoccupò di predicare le M. l’una dell’altra, affermando ad es., che ciò che è necessario che sia, deve anche essere possibile che sia, dal momento che non può dirsi che è impossibile che sia (De /nz., 13, 22 b 11). Ma questa affermazione o porta a considerare il necessario stesso come possibile cioè come non necessario o porta a dividere in due il concetto di possibile (che è la via seguita da Aristotele) col riconoscimento di una specie di possibile che s’identifica col necessario (v. PossisiLe). Dall'altro lato, l'affermazione reciproca (che Aristotele il- lustrò col famoso esempio della battaglia navale) che il possibile è necessario nel senso che necessa- riamente c'è un possibile (per es., necessariamente domani ci sarà o non ci sarà una battaglia navale) equivale a rendere necessaria l’indeterminazione e a negare il possibile come tale. Difatti « È neces- sario che x sia possibile» significa che x deve mantenersi indeterminato senza mai realizzarsi; ma in tal caso x non è un possibile. Queste antinomie o paradossi sorgono dal disconoscimento del ca- rattere esclusivo delle differenze modali che, in virtù di questo carattere, costituiscono alternative inconciliabili. Dall'altro lato i valori di verità pos- sono essere predicati delle M.; c’è un possibile Vero, per es., «l’uomo può essere bianco» e un possibile falso come «l’uomo può esser rettan- golo ». E ci può essere una necessità vera ed una necessità falsa, che è l’assurdo. Queste notazioni esigerebbero adeguati sviluppi analitici. Per ulte- riori osservazioni, v. NECESSARIO; POSSIBILE. MODELLO (ingl. Model; franc. Modéle; te- desco Modell). 1. Una delle specie fondamentali di concetti scientifici (v. CONCETTO) e precisamente quello che consiste in una disposizione caratteriz- zata dall’ordine degli elementi di cui si compone, anzichè dalla natura di questi elementi. Perciò due M. sono identici se il rapporto dei loro ordini può essere espresso come una corrispondenza biuni- voca, cioè tale che a un termine dell’uno corrisponda uno, e uno solo, dell’altro e a ciascuna relazione di ordine fra gli elementi dell’uno corrisponda una identica relazione fra i corrispondenti elementi del- 591 l’altro. L’ordinario calcolo numerico è il migliore esempio della corrispondenza biunivoca: se ci sono da una parte cinque libri e dall’altra cinque lapis si possono allineare queste due serie di oggetti nello stesso ordine o collocare uno sull’altro. Allo stesso modo, la serie dei numeri interi è in corri- spondenza biunivoca con i numeri pari e così via. Per essere utile un M. deve avere i seguenti carat- teri: 1° la semplicità che ne renda possibile l’esatta definizione; 2° la possibilità di essere espresso me- diante parametri suscettibili di trattamento mate- matico; 3° la somiglianza o l’analogia con la realtà che è destinata a spiegare. I M. meccanici erano apparsi indispensabili alla scienza del sec. xrx; ma oggi M. puramente teo- retici sono utilizzati da discipline diverse: dalla economia (che si avvale dei giochi), dalla psicologia, dalla biologia e dall’antropologia (cfr. HEMPEL, Aspects of Scientific Explanation, 1965, pag. 445 e nota 28). Levi-Strauss ha considerato la strut- tura (v.) come un M. di questo genere per la spie- gazione dei fatti sociali (Anthropologie Structurale, 1958, cap. XV). 2. Lo stesso che archetipo (v.). MODERNI. V. ANTICHI. MODERNISMO (ingl. Modernism; franc. Mo- dernisme; ted. Modernismus). Un tentativo di ri- forma cattolica che ebbe qualche diffusione in Italia e in Francia nell’ultimo decennio dell’800 e nel primo del nostro secolo e fu condannato dal papa Pio X con l’enciclica Pascendî dell’8 settembre 1907. Questo tentativo è ispirato dalle esigenze della filosofia dell’azione (v.) e consiste nell’attingere da questa filosofia il significato da dare ai con- cetti fondamentali della religione: Dio, rivelazione, dogma, grazia, ecc. Il M. si ispira soprattutto alle idee di Ollé Laprune e di Blondel, che però rima- sero estranei al movimento, e conta i nomi di Luciano Laberthonnière, Alfredo Loisy ed Eduardo Le Roy. In Italia assunse specialmente la forma della critica biblica (Salvatore Minocchi, Ernesto Buonaiuti) e della critica politica (Romolo Murri) mentre il dibattito filosofico si limitava a riprodurre, con scarsa originalità, le idee del M. francese. I capisaldi possono essere così esposti: 1° Dio si rivela immediatamente (senza interme- diari) alla coscienza dell’uomo. « Se, dice per esempio Laberthonniére, l’uomo desidera possedere Dio ed essere Dio, Dio s’è già dato a lui. Ecco come nella natura stessa possono trovarsi e si trovano le esi- genze del soprannaturale» (Essais de philosophie religieuse, 1903, pag. 171). Questo principio dimi- nuiva o annullava la distanza fra il dominio della natura e quello della grazia e anche tra l’uomo e Dio, facendo di Dio il principio metafisico della coscienza umana. Tale è il fondamento del cosid- 592 detto « metodo dell’immanenza » cioè di quel me- todo che vuole trovare Dio e il soprannaturale nella coscienza dell’uomo. 2° Dio è soprattutto un principio d’azione e l'esperienza religiosa è soprattutto un'esperienza pratica. Questo punto che deriva anch’esso stretta- mente dall’Azione (1893) di Blondel equivale a far coincidere la religione con la morale: che è una delle tesi fondamentali di Loisy (La religion, 1917, pag. 69). 3° I dogmi non sono che l’espressione simbolica ed imperfetta, perchè relativa alle condizioni sto- riche del tempo in cui si costituiscono, della vera rivelazione, che è quella che Dio fa di se stesso alla coscienza dell’uomo. Tale fu il punto di vista che Loisy difese nel più famoso scritto del M., L’évangile et l’église (1902). 4° Alla Bibbia vanno applicati senza limita- zione gli strumenti di indagine di cui dispone la ricerca filologica: il che vuol dire che essa va con- siderata e studiata come un documento storico dell’umanità, sia pure di carattere eccezionale e fondamentale. Questa fu la convinzione sia di Loisy sia di coloro che in Italia accettarono il punto di vista del M. su questo punto e special- mente di Buonaiuti. 5° Il cristianesimo non può condurre, nel campo della politica, alla difesa dei privilegi del clero o di altri gruppi sociali ma solo al progresso e all’ascesa del popolo, la cui vita nella storia è la manifestazione della stessa vita divina. Tali fu- rono le idee politiche difese soprattutto da Romolo Murri. Cfr. E. BUONAIUTI, Le modernisme catho-

lique, 1927; J. Riviére, Le modernisme dans l’église, 1929; Garin, Cronache di filosofia italiana 1943- 1955, 1956. MODERNO (lat. Modernus; ingl. Modern; franc. Modern; ted. Modern). Quest’aggettivo, in- trodotto dal latino post-classico e che significa propriamente « attuale » (da modo = ora) fu ado- perato nella Scolastica a partire dal sec. xm a indicare la nuova logica terministica, designata come via moderna di fronte alla via antiqua della logica aristotelica. Esso designò anche il nomina- lismo che è strettamente connesso alla logica ter- ministica. Dice, per es., Walter Burleigh: « Sebbene l’universale non abbia esistenza fuori dell’anima, come dicono i moderni, tuttavia, ecc.» (Expositio super artem veterem, Venetiis, 1485, f. 59 r; PRANTI, Geschichte der Logik, III, pag. 255, 299, ecc.). Nel senso storico, in cui la parola viene oggi solitamente adoperata e in cui in questo dizionario si parla di « filosofia moderna », essa indica il pe- riodo della storia occidentale che comincia dopo il Rinascimento cioè a partire dal xvi secolo. Dal periodo M. si suol spesso distinguere quello MODERNO « contemporaneo +, che comprende gli ultimi de- cenni. MODIFICAZIONE RIPRODUTTIVA (te- desco Reproduktive Modifikation). Così Husserl ha chiamato le ripresentazioni delle cose e delle espe- rienze vissute, che ci sono già state darte una volta nelle loro peculiari modalità (/deen, I, $ 44). MODO (gr. rtpéroc; lat. Modus; ingl. Mode; franc. Mode; ted. Modus). Con questo termine sono stati intesi: 1° Le diverse forme dell’essere predicativo (v. MODALITÀ). 2° Le determinazioni non necessarie (o non incluse nella definizione di una cosa). In tal senso il M. era già inteso dalla logica medievale (cfr., ad es., Pierro IsPano, Sumun. Logic., 1.28). E fu ripreso da Cartesio che intese per M. le qua- lità secondarie mutevoli delle sostanze e li con- trappose agli arrributi che costituiscono invece le qualità permanenti o necessarie. « Poichè, egli disse, non devo concepire in Dio alcuna varietà o muta- mento, io dico che in lui vi sono, non M. o qua- lità, ma piuttosto attributi; e anche nelle cose create, ciò che si trova in esse sempre costante, come l’esistenza e la durata della cosa che esiste e dura, io lo chiamo attributo e non M. o qualità + (Princ. Phil., I, 56). Questo concetto fu ripetuto da Spinoza (Et., I, def. 5) e da Wolff il quale dice: «Ciò che non ripugna alle determinazioni essen- ziali, ma non è determinato da esse, si dice M.» (Ont., $ 148). Dall’altro lato la Logica di Portoreale definiva il M. non distinguendolo dall’attributo o dalla qualità come «ciò che, essendo concepito nella cosa, e come tale da non poter sussistere senza di essa, la determina a essere in una certa

maniera e a farla nominare corrispondentemente » (I, 2). Di questa definizione Locke accettava la notazione secondo la quale il M. non può sussi- stere indipendentemente dalla sostanza; e pertanto definiva M. « quelle idee complesse che, per quanto composte, non contengono in sè la supposizione di sussistere di per se stesse ma si considerano dipendenze o affezioni delle sostanze, come sono quelle espresse dalle parole ‘triangolo *, ‘ gratitu- dine *, ‘omicidio *, ecc. + (Saggio, II, 12, 4). All’ambito dello stesso concetto appartiene il significato che Spinoza attribuisce al termine, in- tendendolo come «ciò che è in un’altra cosa e il cui concetto si forma per mezzo di quest’altra cosa + (Er., I, 8, scol. 2). Tuttavia il M. deriva necessariamente, secondo Spinoza, dalla natura di- vina e perciò si distingue dall’attributo non per la sua assenza di necessità ma per la sua particolarità: M. sono le cose particolari e i singoli pensieri che esprimono gli attributi di Dio, il pensiero e l'estensione (/bid., I, 25 scol.; II, 1). MONADE 3° Le forme, le specie, gli aspetti, le determina- zioni particolari di un oggetto qualsiasi. Questo significato è il più generale e comune e il meno preciso. 4° La specificazione delle figure del sillogismo a seconda della qualità e della quantità delle pre- messe (v. FIGURA; SILLOGISMO). MODUS PONENS, MODUS TOLLENS.

Così furono detti, nella logica del ’600, i due modi del sillogismo ipotetico, in quanto il primo, posto l'antecedente, pone il conseguente (se A è, è B; ma A è, dunque è 2); e il secondo tolto il con- seguente toglie l’antecedente (se A è, è B; ma B non è, dunque A non è) (JuncIUS, Logica, 1638, III, 17, 10-11; WOLFF, Logica, $ 409-10). MOLECOLARE, PROPOSIZIONE (inglese Molecular Proposition; franc. Proposition molécu- laire; ted. Molekular Satz). Termine entrato in uso col Tractatus di Wittgenstein, e corrispondente alla propositio hypothetica della Logica boeziano-scola- stica: è una proposizione formata da una o più atomiche (v.) legate da certe costanti logiche, come «non», «e», «01, «implica» («se..., ...1) (nega- zione, congiunzione, disgiunzione, implicazione), e altre. Nella Logica russelliana alle proposizioni molecolari corrispondono le proposizioni funzio- . a. P. MOLINISMO. V. GRAZIA. MOLTEPLICITÀ (gr. và road; ingl. Multipli» city; franc. Multiplicité; ted. Mannigfaltigkeit). Ciò che è molteplice e vario: i « molti » in contrapposto all’ uno », sui quali si esercitavano, di preferenza, stando alla testimonianza di Platone (Fi/., 14d), le discussioni dialettiche del sec. rv avanti Cristo. Platone stesso stabilì il concetto autentico del mol- teplice, che non è quello della dispersione illimi- tata, ma quello del numero: il quale, come diceva Platone, è nello stesso tempo uno e molti perchè è l’ordine di una M. determinata (Fi/., 18 a-b) {(v. Numero). Il senso di questa parola è ritornato ad essere quello di una dispersione disordinata in alcuni usi moderni, per es., in quello che Kant ne fa come della « materia » della conoscenza cioè del contenuto sensibile, nel suo stato disordinato o grezzo, indipendentemente dall’ordine e dalla unità che esso riceve ad opera delle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto (Crir. R. Pura, $ 1). MOLTIPLICAZIONE LOGICA (ingl. Lo- gical Multiplication; franc. Multiplication logique; ted. Logische Multiplikation). Nell’ Algebra della Lo- gica (v.) si chiama così l'operazione «a-b», la quale gode di proprietà formali analoghe a quelle della M. aritmetica (importantissima l’eccezione «a-a=a+) Interpretata come operazione tra classi, «4-5» viene a formare la classe contenente tutti e soli gli elementi comuni alle classi a e d. 38 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 593 Interpretata come operazione tra proposizioni, «a-b» ne indica l’affermazione congiuntiva, simul- tanea («a e 51). a. P. MOMENTO (ingl. Moment; franc. Moment; ted. Moment). 1. Concetto meccanico: l’azione istantanea di una forza su di un corpo. Così definisce il M. Kant (Metaphysische Anfanesgriinde der Naturwissenschaft, Nota sulla meccanica; Crit. R. Pura, Analitica dei Principi, B, in fine). 2. Concetto temporale: una parte minima di tempo, priva di successione (cfr. Locke, Saggio, II, 14, 10). 3. Concetto dialettico: una fase o determina- zione del divenire dialettico: per cs., possibilità e accidentalità sono «i M. della realtà» (HEGEL, Enc., $ 145); la condizione, la cosa e l’attività sono «i tre M. della necessità» (HEGEL, /bid., $ 148); l’essere e il nulla sono «i M. del divenire » (HeceL, Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. I, C, nota 2; trad. ital., vol. I, pag. 87 sgg.); ecc. Questo concetto del M. come fase dialettica è il più comune nella filosofia contemporanea. 4. Concetto logico: fase o stadio di una dimo- strazione o di un ragionamento qualsiasi. MONADE (lat. Monas; ingl. Monad; franc. Mo- nade; ted. Monade). In quanto ha significato di- stinto da quello di Unità (v.), il termine designa un’unità reale inestesa, quindi spirituale. Giordano Bruno adoperò per primo il termine in questo senso, concependo la M. come il minimum, cioè l’unità indivisibile, costituente l’elemento di tutte le cose (De Minimo, 1591; De Monade, 1591). Il termine fu ripreso nello stesso senso dai neoplato- nici inglesi e specialmente da H. More che elaborò il concetto delle « M. fisiche », inestese, perciò spi- rituali, come componenti della natura (Enchiridion Metaphysicum, 1679, I, 9, 3). A partire dal 1696 Leibniz si avvale del termine per designare la sostanza spirituale in quanto componente semplice dell’universo. La M. è, secondo Leibniz, un atomo spirituale, una sostanza priva di parti e di esten- sione, quindi indivisibile. Come tale non si può disgregare ed è eterna: solo Dio può crearla 0 annullarla. Ogni M. è diversa dall'altra giacchè non vi sono in natura due esseri perfettamente uguali (v. IDENTITÀ DEGLI INDISCERNIBILI). Ogni M. costituisce un punto di vista sul mondo ed è quindi tutto il mondo da un determinato punto di vista (Monadologie, 1714, $ 57). Le attività fondamentali della M. sono la percezione e l’appetizione; ma le M. hanno infiniti gradi di chiarezza e distin- zione: quelle fornite di memoria costituiscono le anime degli animali e quelle fornite di ragione costituiscono gli spiriti umani. Ma anche la ma- teria è costituita da M.: almeno la materia seconda; giacchè la materia prima è la semplice potenza 594 passiva o forza di inerzia (Op., ed. Gerhardt, III, pag. 260-61). La totalità delle M. è l’universo. Dio è «l'unità primitiva o la sostanza semplice origi- naria di cui tutte le M. create o derivate sono pro- duzioni e nascono, per così dire, per fulgurazione continua dalla divinità di momento in momento » (Mon., $ 47). I tratti di questa dottrina di Leibniz ricorrono uniformemente ogni qualvolta i filosofi fanno ri- corso al concetto di monade. E ricorrono anche, sostanzialmente, nelle dottrine metafisiche dello spi- ritualiimo contemporaneo. Si consideri il sapore leibniziano del passo seguente di Husserl: «La costituzione del mondo obiettivo comporta essen- zialmente un’armonia di M., più precisamente una costituzione armoniosa particolare in ciascuna M. e per conseguenza una genesi realizzantesi armo- niosamente nelle M. particolari » (Carr. Med., $ 49) (v. SPIRITUALISMO). MONADOLOGIA (ingl. Monadology; fran- cese Monadologie; ted. Monadologie). Con questo termine Leibniz intitolò la breve esposizione del suo sistema che compose a richiesta del Principe Eugenio di Savoia nel 1714. Il termine è rimasto a designare la dottrina delle monadi. Kant inti- tolò M. Physica un suo scritto del 1756. E il termine da allora ricorre frequentemente (cfr., ad es., RENOUVIER e PRAT, Nouvelle Monadologie, 1899). MONARCHIA. V. Governo, FORME DI. MONARCHISMO. V. MopaLISMO. MONARCOMACO (ingl. Monarchomachist ; franc. Monarchomachiste; ted. Monarchomache). Così furono detti nel sec. xvm i seguaci del di- ritto naturale, in quanto combattevano l’assolu- tismo monarchico. Il nome ricorre per la prima volta nel titolo dell’opera del cattolico scozzese GUGLIELMO BARKLAY, De regno et regali potestate adversus Buchananum, Brutum, Boucherium, et re- liquos monarcomachos, Parigi, 1600. MONASTICO. Vico chiamò filosofi M. o so- litari gli Stoici e gli Epicurei in quanto « vogliono l’ammortimento dei sensi», e « niegano la provvi- denza, quelli faccendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando che muoiano l’anime umane coi corpi ». Ai filosofi M. Vico contrappose i filosofi politici e specialmente i Platonici che convengono coi legislatori nell’ammet- tere la provvidenza e l'immortalità nonchè la modera- zione delle passioni (Scienza Nuova, 1744, Degnità V). MONDANO (gr. xoapx6c; ingl. Worldly, Mun- dane; franc. Mondain; ted. Weltlich). Questo ag- gettivo si adopera quasi esclusivamente in corri- spondenza del significato e) di mondo, vale a dire designa ciò che appartiene al campo di attività, di interessi o di comportamenti che sono estranei alla vita religiosa e talvolta in antagonismo con MONADOLOGIA ensibile », cioè attingibile dagli organi sensori o « M. intellettuale » cioè attingibile da strumenti intellettuali. In questo senso si parla pure di « M. ambiente» per indicare l’insieme delle relazioni di un essere vivente con le cose circostanti o la situazione in cui si trova; ma la parola non ha significato diverso da am- biente (v.); c) la totalità di una cultura come quando si dice «M. antico » o «M. moderno » o «M. pri- mitivo » o «M. civile»; d) una totalità geografica come quando si dice « Nuovo M.+ per designare l’America o « Vecchio M. » per designare il Conti- nente antico; e) la totalità di ciò che è estraneo alla religione. In questo senso la parola è costante- mente adoperata nel Nuovo Testamento (Mattàh., 4, 8; XVI, 26; Joan., I, 10; VII, 7; XII, 31; ecc.); e la «sapienza del M.» viene contrapposta come stoltezza alla sapienza di Dio (/ Cor., I, 20). La nozione di M. in questo senso è comune a tutti gli scrittori cristiani; ed ad essa si fa anche riferi- mento quando si chiamano «sapienti del M.» co- loro che «si avvalgono della ragione naturale », come fa Ockham (Suruna logicae, III, 1). Di questi significati, i più specificamente filoso- fici sono i primi due, che si riflettono in tutti gli altri. Il significato d) è puramente amplificativo o retorico, il significato e) puramente religioso. Si possono pertanto distinguere tre concetti fonda- mentali di M.: 1° il M. come ordine totale; 2° il M. come totalità assoluta; 3° il M. come totalità di campo. I significati 1° e 2° sono articolazioni del significato a); il significato 3° è il significato 6). 1° Si dice che per primo Pitagora abbia chia- mato cosmo il M. per contrassegnare l'ordine di esso (StoBEO, Ecl., 21, 450; Fr. 21, Diels); certo è che questa è l’interpretazione del concetto pre- valente nella filosofia greca. Platone la accetta (Gorg., 508 a). E Aristotele, che distingue il tutto (tè rav) nel quale la disposizione delle parti può MONDO mutare, dalla totalità (cò &Xov) in cui le parti hanno posizioni fisse (Met., V, 26, 1024 a 1), dice a pro- posito del M.: « Se la totalità del corpo, che è un continuo, è ora in questo ordine o in questa disposizione ora in un’altra, e se la costituzione della totalità è un M. o un cielo, allora non sarà il M. che si genera e si distrugge ma solo le sue disposizioni + (De Cael., I, 10, 280a 19). Aristo- tele intende dire in questo passo che il M. è la costituzione (o struttura) della totalità (il suo or- dine) e che tale costituzione o struttura rimane immutata anche se le sue singole parti si dispon- gono diversamente. Ciò equivale a definire il M. come l’ordine immutabile dell’universo. Analoga- mente gli Stoici distinguevano l'universo (tò rv) come la totalità di tutte le cose esistenti, compreso il vuoto, dal M., considerato come «il sistema del cielo e della terra e degli esseri che sono in essi »: nel quale senso il M. è Dio stesso (STOBEO, Ecl., I, 421, 42 sgg.). Questa interpretazione del M. pre- valse nell’antichità e fu adottata dalla filosofia cri- stiana la quale trovava in essa un opportuno punto di partenza per le dimostrazioni dell’esistenza di Dio (cfr., per es., AGOSTINO, De Ordine, I, 2). Essa entrò in crisi soltanto quando la nozione di ordine co- minciò a incorporarsi con quella di natura più che con quella di M.: il concetto di totalità ebbe allora il sopravvento. 2° I primi ad esporre il concetto del M. come totalità che abbraccia ogni cosa furono gli Epicurei. « Il M., diceva Epicuro, è la circonferenza del cielo che abbraccia gli astri e la terra e tutti i fenomeni + (Dioc. L., X, 88). Ma solo nella filosofia moderna questo concetto prevalse soppiantando interamente quello più antico del M. come ordine. Dice Leibniz: «Chiamo M. tutta la serie e tutta la collezione di tutte le cose esistenti, affinchè non si dica che più M. possano esistere in diversi tempi e luoghi. Bisognerebbe infatti contarli tutti insieme per un solo M. o, se preferite, per un solo universo » (Théod., I, $ 8). Da questo punto di vista il M. è «l’insieme totale delle cose contingenti» (/bid., I, $ 7); e l’elaborazione successiva del concetto ha specialmente insistito su questo concetto di totalità assoluta. Pertanto le due nozioni di, universo e di M. che gli antichi tendevano a distinguere l'una dall’altra vengono considerate coincidenti. Dice Wolff: «La serie degli enti finiti sia simultanei che successivi, tra loro connessi, si dice M. o anche universo » (Cosmol., $ 48). A sua volta Baumgarten chiarisce meglio il senso della totalità assoluta, affermando che essa non può essere parte di altra totalità. « Il M., egli dice, è la serie (la moltitudine, la totalità) dei finiti reali la quale non è parte di un'altra serie» (Mer., $ 354). Una determinazione che veniva ripetuta da Crusius: « Il M. è un reale 595 concatenamento di cose finite tale da non essere a sua volta parte di un altro, a cui appartenga in virtù d’un reale concatenamento » (Entwurf der notwendigen Vernunft-Wahrheiten, 1745, $ 350). È questo il concetto che viene criticato nella dialet- tica trascendentale di Kant. Kant osservava che la parola M. «nel senso ni si passa alla richiesta della totalità delle condizioni, che è l’incondizionato o M. e non è più niente di empirico (/bid., sez. 7). Non c’è quindi da meravigliarsi che la nozione di M., fondata com'è su un procedimento sofistico, dia luogo ad antinomie irresolubili: antinomie che concernono la finità o l'infinità del M., il suo cominciamento o non cominciamento nel tempo, l’esistenza o non esistenza di parti semplici in esso e la presenza o l’assenza della libertà (v. ANTI- NOMIE KANTIANE). La soluzione di tali antinomie si ha, secondo Kant, soltanto rinunciando alla nozione stessa di M. o considerando tale nozione sempli- cemente come una regola della conoscenza empi- rica; e precisamente come la regola che « esige il regresso nella serie delle condizioni dei dati feno- menici, un regresso nel quale non sia mai dato di arrestarsi a qualcosa di assolutamente incondizio- nato» (/bid., sez. 8). Da questo punto di vista il M. non è una realtà ma « un principio regolativo della ragione ». Questa critica di Kant è, si può dire, rimasta decisiva. È ben vero che cercano di dimenticarla non solo le dottrine che costituiscono sopravvivenze della metafisica teologica ma anche dottrine cosmo- logiche moderne, sedicenti «scientifiche » che specu- lano sul M. e sulla creazione (v. CosmoLogia). Ma è anche vero che queste dottrine s’imbattono subito in antinomie insolubili, che riproducono quelle kan- tiane, non appena fanno appello al concetto del M. come totalità assoluta. In realtà ciò di cui la scienza può parlare è soltanto il M. osservabile 596 inteso come «il più inclusivo insieme di oggetti astronomici che possa essere identificato con l’aiuto degli strumenti disponibili ad un dato tempo» (M. K. MunITZ, Space, Time and Creation, 1957, pag. 93). Ma in questo senso il M. è una to- talità di campo, non una totalità assoluta. 3° La terza interpretazione del concetto di M., che è in regola con la critica kantiana, s’identifica con quello che abbiamo enunciato come signifi- cato 5): per esso il M. è la totalità di un campo o di più campi di attività o di indagine o di rela- zioni. Da questo punto di vista, la parola M. senza aggettivi non designa una totalità assoluta ma semplicemente l’insieme di un campo specifico, che è quello dell’astronomo o del cosmologo. In questo senso, la parola è perfettamente analoga a ciò che la «materia» è per il fisico o la «vita» per il biologo: l’indicazione di un campo generico determinato dal convergere o dal sovrapporsi di un determinato gruppo di tecniche di ricerca (M. K. MuUNITZ, Op. cif., pag. 69). In generale, da questo punto di vista, può dirsi che la nozione designa « un insieme di campi definiti da tecniche relativamente compatibili e in qualche misura con- vergenti. Possiamo così parlare del ‘ M. naturale * come dell'insieme dei campi coperti dalle scienze naturali nella misura in cui le loro tecniche sono relativamente compatibili e convergenti; o di ‘ M. storico * come dell’insieme dei campi in cui pos- sono essere adoperate le tecniche dell’indagine sto- riografica; ecc. » (ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, pag. 154-55). A questa stessa nozione si ricollega quella data da Heidegger ed accettata dalla filosofia esistenzia- listica, del M. come il campo costituito dalle rela- zioni dell’uomo con le cose e con gli altri uomini. «È egualmente erroneo, dice Heidegger, assumere l’espressione M. tanto per designare la totalità delle cose naturali (concetto del M. naturalistico) O per indicare la comunità degli uomini (concetto personalistico), Ciò che di metafisicamente essen- ziale contiene il significato più o meno chiaro di M. è che esso mira all’interpretazione dell’Esserci umano nel suo rapportarsi all’ente nel suo insieme » (Vom Wesen des Grundes, 1929, I; trad. ital., pag. 53). Ovviamente, da questo punto di vista, la parola M. fa parte integrante dell’espressione « essere nel M.» che designa il modo d’essere che è proprio dell’uomo in quanto « è situato nel mezzo dell'ente come rapportantesi all'ente» cioè è in rapporto essenziale con le cose e con gli altri uomini. M. significa, in tal caso, l’insieme delle relazioni tra l’uomo e gli altri esseri: la totalità di un campo di relazioni (v. TUTTO; UNIVERSO). MONDO DELLA VITA (ted. Lebenswelt). Termine introdotto da Husserl nella Krisis per de- MONDO DELLA VITA signare «il mondo in cui viviamo intuitivamente, con le sue realtà, così come si dànno, dapprima nella semplice esperienza poi anche nei modi in cui esse diventano oscillanti nella loro validità (oscil- lanti tra l’essere e l'apparenza ecc.)» (Krisis, $ 44). Husserl contrappone tale mondo a quello to della loro dottrina, il termine è stato costan- temente monopolizzato dai materialisti; e quando è usato senza aggettivo designa appunto il materia- lismo. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che esso fu adottato da uno dei più popolari autori di scritti materialistici cioè dal biologo Ernesto Haeckel (Der Monismus als Band zwischen Religion und Wissenschaft, 1893). In questo senso il termine, fu adoperato nel nome della Associazione Monistica Tedesca (Deutsche Monistenbund) fondata nel 1906 da Haeckel e da Ostwald; nonchè nel titolo di una delle più antiche riviste filosofiche americane The Monist fondata nel 1890 da Paul Carus. MONOFILETISMO (ingl. Monophyletism; franc. Monophylétisme; ted. Monophyletismus). La dottrina secondo la quale tutte le specie viventi derivano da un unico ceppo originario. La dottrina contraria si chiama polifiletismo. MONOFISISMO (ingl. Monophysism; fran- cese Monophysisme; ted. Monophysismus). Un’in- terpretazione eretica del dogma cristiano dell’Incar- nazione: il Verbo o Cristo avrebbe una sola natura, quella divina. Tale interpretazione fu sostenuta nel sec. v da Eutiche, in opposizione al resroriane- simo (v.) che sosteneva l’eresia opposta; e fu condan- nata dal Concilio di Calcedonia del 451. MONOGENISMO (ingl. Monogenism; fran- cese Monogénisme; ted. Monogenismus). La dottrina secondo la quale tutte le razze umane viventi discen- dono da un unico ceppo. La dottrina contraria si chiama poligenismo. MORTE MONOPSICHISMO (ingl. Monopsychism; franc. Monopsychisme; ted. Monopsychismus). La dottrina averroistica dell’unità dell’anima intellettiva in tutti gli uomini. V. INTELLETTO ATTIVO. MONOSILLOGISMO (ingl. Monosyllogism; franc. Monosyllogisme; ted. Monosyllogismus). Ra- gionamento costituito da un solo sillogismo, così detto in opposizione a polisillogismo (v.). MONOTEISMO (ingl. Monotheism; franc. Monothéisme; ted. Monotheismus). La dottrina dell’unicità di Dio. V. DIO, 3°, 5). MONOTELETISMO (ingl. Monotheletism; franc. Monothélétisme; ted. Monotheletismus). Inter- pretazione eretica del dogma dell’incarnazione, secondo la quale esiste in Cristo una sola volontà, quella divina, che costituisce il tratto d’unione delle due nature che sono in lui, la divina e l’umana. Tale eresia fu sostenuta dal patriarca di Costanti- nopoli Sergio nel sec. vi e condannata dal VI Con- cilio ecumenico nel 680. MONTANISMO (ingl. Montanism; franc. Mon- tanisme; ted. Montanismus). Setta religiosa cristiana del r secolo detta così dal nome del suo fondatore Montano, ex sacerdote di Cibele. Montano inten- deva trasferire nel cristianesimo il culto entusiastico della sua setta di provenienza: i montanisti vivevano in continua agitazione nell’attesa dell’imminente ritorno del Cristo. Tertulliano appartenne per un certo tempo a questa setta. MONUMENTALE, STORIA. V. ArcHEo- LOGICA, STORIA. MORALE (lat. Moralia; ingl. Morals; franc. Mo- rale; ted. Moral). 1. Lo stesso che Etica. 2. L’oggetto dell’etica, la condotta in quanto diretta o disciplinata da norme, l’insieme dei mores. In questo significato la parola è adoperata nelle seguenti espressioni: «la morale dei primitivi» «la morale contemporanea », ecc. MORALE (gr. 866; lat. Moralis; ingl. Moral; franc. Moral; ted. Moral). Questo aggettivo ha in primo luogo i due significati corrispondenti a quelli del sostantivo morale e cioè 1° attinente alla dot- trina etica, 2° attinente alla condotta e quindi suscet- tibile di valutazione M.: e, specialmente, di valu- tazione M. positiva. Così non soltanto si parla di atteggiamento M. o di persona M. per indicare un atteggiamento o persona moralmente valutabile ma anche si intendono con le stesse espressioni cose positivamente valutabili cioè buone. L’aggettivo ha avuto poi in inglese, francese, ita- liano, e ancora conserva in certe espressioni, il significato generico di « spirituale». Hegel ricordava questo significato in riferimento al francese (Enc., $ 503). E ancora tale significato rimane, per esempio, nell’espressione «scienze morali», che sono le «scienze dello spirito ». 597 MORALISMO (ingl. Moralism; franc. Mora- lisme; ted. Moralismus). 1. La dottrina che fa dell’at- tività morale la chiave per l’interpretazione di tutta la realtà. Il termine fu adoperato in questo senso da Fichte nella esposizione della Wissenschaftslehre del 1801 ($ 26 in Werke, II, pag. 64)e fu ripreso e dif- fuso da scrittori francesi della fine del secolo scorso. 2. Nel linguaggio comune e, sempre più fre- quentemente, in quello filosofico il termine designa l’atteggiamento di chi si compiace di moralizzare su ogni cosa, senza sforzarsi di comprendere le situa- zioni cui il giudizio morale va riferito. In questo senso il M. è un formalismo o conformismo morale, che ha poca sostanza umana. Cfr. A. BANFI, « M. e moralità », L'uomo copernicano, 1950, pag. 279 sgg. MORALITÀ (lat. Moralitas; ingl. Morality; franc. Moralité; ted. Moralitàt). Il carattere proprio di tutto ciò che si conforma alle norme morali. Kant ha contrapposto la M. alla legalità. Quest’ul- tima è il semplice accordo e disaccordo di un’azione con la legge morale senza riguardo al movente del- l’azione stessa. La M. consiste invece nell’assumere come movente di azione l’idea stessa del dovere (Me- taphysik der Sitten, I, Intr.,$ 3; Crit. R. Prat.,I, 1, 3). Marco Aurelio, è il riposo dai contraccolpi dei sensi, dai movimenti impulsivi che ci tirano qua e là come marionette, dalle divagazioni dei nostri ragionamenti, dalle cure che dobbiamo avere per il corpo» (Ricordi, VI, 28). Leibniz concepiva la fine del ciclo vitale come diminuzione o involu- zione della vita. « Non si può, egli diceva, parlare di generazione totale o di morte perfetta, intesa rigoro- samente come separazione dell’anima. Ciò che chia- miamo generazioni sono sviluppi e accrescimenti e ciò che chiamiamo morti sono involuzioni e dimi- nuzioni » (Mon., $ 73). Con la M., in altri termini, la vita diminuisce e scende a un livello inferiore a quello dell’appercezione o coscienza, in una specie di «stordimento +, ma non cessa (Principes de la nature et de la gràce, 1714, $ 4). A sua volta, Hegel considera la morte come la fine del ciclo dell’esistenza individuale o finita per la sua impossibilità di ade- i all’universale. « La inadeguatezza dell’animale all’universalità, egli dice, è la sua malattia originale; ed è il germe innato della morte. La negazione di questa inadeguatezza è appunto l’adempimento del suo destino » (Enc., $ 375). Infine il concetto biblico della M. come pena del peccato originale (Gen., II, 17; Rom., V, 12) è, nello stesso tempo, il concetto di essa come conclusione del ciclo della vita umana perfetta in Adamo e il concetto di una limitazione fondamentale che la vita umana ha subito a partire dal peccato di Adamo. Dice S. Tommaso a questo proposito: « La M., la malattia e qualsiasi difetto corporeo dipende da un difetto nell’assog- gettamento del corpo all’anima. E come la ribellione dell’appetito carnale allo spirito è la pena del peccato dei primi genitori, tale è anche la M. ed ogni altro difetto corporeo» (S. 7h., II, 2, q.164, a.l). Ma questo secondo aspetto, che è proprio della teologia cristiana, appartiene propriamente al con- cetto della M. come possibilità esistenziale. c) Il concetto della M. come possibilità esi- stenziale implica che la M. non sia un evento MOTIVO particolare, situabile all’inizio o al termine di un ciclo di vita proprio dell’uomo, ma una possibilità sempre presente alla vita umana e tale da deter- minare le caratteristiche fondamentali di essa. Alla considerazione della M. in questo senso ha avviato, nella filosofia moderna, la cosiddetta filosofia della vita e specialmente Dilthey. «Il rapporto che ca- ratterizza in modo più profondo e generale il senso del nostro essere, egli ha detto, è quello della vita con la M., perchè la limitazione della nostra esistenza mediante la M. è decisiva per la comprensione e la valutazione della vita» (Das Erlebnis und die Dichtung, 5* ediz., 1905, pag. 230). L’idea importante espressa qui da Dilthey è che la M. costituisca « una limitazione dell’esistenza » non già in quanto ne costituisce il termine ma in quanto costituisce una condizione che accom- pagna tutti i momenti di essa. Questa concezione che riproduce in qualche modo, sul piano filoso- fico, la concezione della M. della teologia cristiana, è stata espressa da Jaspers col concetto della situa- zione-limite: cioè di una «situazione decisiva, es- senziale, che è collegata con la natura umana in quanto tale ed è inevitabilmente data con l’essere finito» (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, III, 2; trad. ital., pag. 266; cfr. Phil., II, pag. 220 sgg.). Rifacendosi a questi precedenti, Heidegger ha con- siderato la M. come possibilità esistenziale. « La M., egli ha detto, come fine dell’Esserci, è la pos- sibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e, come tale, indeterminata e insuperabile » (Sein und Zeit, $ 52). Da questo punto di vista, cioè come possibilità, «la M. non offre niente da rea- lizzare all'uomo e niente che possa essere come realtà attuale. Essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni rapporto, di ogni esistere » (/bid., $ 53). E poichè la M. può essere compresa solo come possibilità, la sua comprensione non è nè l’attesa di essa nè il fuggire di fronte ad essa, il « non pen- sarci », ma l’anticipazione emotiva di essa, l’an- goscia (v.). L'espressione usata da Heidegger nel definire la M. «la possibilità dell’impossibilità » può a buon diritto apparire contraddittoria. Essa è suggerita a Heidegger dalla sua dottrina della im- possibilità radicale dell’esistenza: la M. è la mi- naccia che tale impossibilità fa incombere sull’esi- stenza medesima. Se si vuol prescindere da questa interpretazione dell’esistenza in termini di necessità negativa, si può dire che la M. è «la nullità pos- sibile delle possibilità dell’uomo e dell’intera forma dell’uomo » (ABBAGNANO, Struttura dell’ esistenza, 1939, $ 98; cfr. Possibilità e libertà, 1956, pag. 14 seguenti). Poichè ogni possibilità può, come pos- sibilità, non essere, la M. è la nullità possibile di ognuna e tutte le possibilità esistenziali; in questo senso, Merleau-Ponty dice che il senso della M. è la «contingenza del vissuto», cioè «la minaccia per- petua per i significati eterni in cui esso crede di esprimersi per intero » (Structure du comportement, 1942, IV, II, $ 4). MOTIVAZIONE (ingl. Morivation; franc. Mo- tivation; ted. Motivation). 1. La causalità del motivo. Schopenhauer per primo ha nettamente distinto questa forma della causalità dalle altre tre che sono: la causalità della causa, la causalità della ragione, e la causalità della ragion d’essere (Ueber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, 1813, $ 20, 29, 36). Dice Schopenhauer: «L’efficienza del motivo viene ad essere conosciuta da noi non solo dal di fuori, come quella di tutte le altre cause e perciò solo mediatamente, ma anche dall’interno, in modo immediato... Di qui risulta l’importante proposizione: la M. è la cau- salità vista dall’interno... Bisogna perciò proporre la M. come una forma speciale del principio di ragion sufficiente dell’agire cioè come legge della M.» (Vierfache Wurzel, $ 43). Anche senza il carattere privilegiato che Schopenhauer le ricono- sceva come rivelazione immediata del modo di agire intrinseco della causalità, la M. è rimasta a indicare l’azione determinante del motivo, quali che siano i limiti che si pongano a tale deter- minazione. I problemi della M. sono da un lato di natura psicologica e concernono il modo di agire dei motivi in quanto si presta ad essere os- servato dagli strumenti di cui la psicologia dispone; dall’altro lato, sono di natura filosofica in quanto concernono i limiti o le modalità della determina- zione e quindi la libertà e il determinismo (v.). 2. Husserl ha chiamato M. le connessioni del- l’esperienza che condizionano la possibilità della sperimentazione ulteriore. « La sperimentabilità, egli ha detto, non significa una vuota possibilità logica ma una possibilità motivata dalla connessione del- l’esperienza. Questa è via via una catena di M. in quanto assume sempre nuove M. e trasforma quelle già formate » (/deen, I $ 47). MOTIVO (ingl. Motive; franc. Motif; te- desco Motiv). La causa o la condizione di una scelta, cioè di una volizione o di un’azione. Il M. può essere più o meno chiaramente riconosciuto da colui sul quale agisce: si chiama talvolta mo- vente (franc. Mobile; ted. Triebfeder) il M. che non ha carattere « razionale » cioè che non può essere considerato come una «ragione» della scelta. Già Aristotele aveva detto: « Poichè ci sono tre cose: primo, il motore; secondo, ciò con cui muove; e terzo, ciò che è mosso, si ha che il motore im- mobile è il bene pratico, il motore che è anche mosso è la facoltà appetitiva, e ciò che è mosso è l’animale » (De An., III, 10, 433 b 14). Il M. è inteso qui come un motore unico e immutabile che 600 è il bene, il fine cui tende la vita dell’animale. Ma nel mondo moderno di un motore in questo senso non si parla più e si parla invece di motivo. Wolff intendeva con questo termine « la ragione suf- ficiente della volizione o della nolizione » (Psychol, empirica, $ 887): una definizione che, si può dire, non ha subìto mutamenti, tranne che nel diverso grado di determinazione attribuito al motivo. Il problema di questi diversi gradi di determinazione è il problema della /ibertà (v.). Dall'altro lato, l’importanza del concetto di M. per la spiegazione della condotta umana è stata talvolta messa in dubbio nella filosofia contemporanea. Dewey, per es., ha affermato che «l’intero concetto di M. è in verità extrapsicologico ». Nessuna persona di buon senso attribuisce gli atti di un animale o di un idiota ad un M.; ed è assurdo chiedere che cosa induce un uomo all’attività. « Ma quando abbiamo bisogno di condurlo ad agire in un modo specifico piuttosto che in un altro, quando vo- gliamo dirigere la sua attività in una direzione specifica, allora la questione del M. è pertinente. Il M. è allora l’elemento del complesso totale del- l’attività umana che, se sufficientemente stimolato, darà luogo a un atto avente conseguenze specifiche ». In altri termini il M. è piuttosto che un fattore di spiegazione della condotta umana, uno stru- mento per orientarla e guidarla (Human Nature and Conduct, pag. 119-20). MOTORE. V. Dio, Prove DI; MOVIMENTO. MOVENTE. V. Motivo. MOVIMENTO (gr. x(vnow; lat. Motus; in- glese Motion; franc. Mouvement; ted. Bewegung). 1. In generale, un mutamento o processo di qual- siasi specie. Questo significato corrisponde a quello del termine greco. Platone distingueva due specie di M., l’alterazione e la traslazione (7eer., 181 d); Aristotele ne distingueva quattro e cioè, oltre le due precedenti, il M. sostanziale (generazione e corruzione) e il M. quantitativo (aumento e dimi- nuzione) (Fis., III, 1, 201a 10). Per le singole specie del M., v. le voci relative. Il M. in generale fu definito da Aristotele come «l’entelechia di ciò che è in potenza » (Fis., III, l, 201 a 10): definizione che è rimasta celebre nei secoli. Essa vuol dire che il M. è la realizzazione di ciò che è in potenza: ad es., la costruzione, l’apprendimento, la guarigione, la crescita, l’invec- chiamento, sono realizzazioni di potenzialità (/bid., 201 a 16). Nel M. così inteso la parte fondamen- tale è quella del motore, dal cui contatto si genera il movimento. « Quale che sia il motore, dice Ari- stotele, esso sempre apporterà una forma — so- stanza particolare o qualità o quantità — che sarà principio e causa del M., quando il motore muo- verà; al modo in cui l’entelechia nell'uomo fa dell’uomo in potenza un uomo» (/id., III, 2, 202 a 8). La fisica aristotelica è, dal principio alla fine, una teoria del M. in questo senso (v. Fisica). Il suo teorema fondamentale « tutto ciò che si muove è mosso da qualcosa » (/bid., VII, 1, 256a 14) porta alla teoria del primo motore immobile dell’universo (v. Dio, Prove DI). 2. In senso specifico, il M. locale o traslazione. Aristotele afferma la priorità di questo M. sugli altri tre. Gli altri M. possono infatti essere ridotti a quest’ultimo, che dall’altro lato è il solo che può appartenere alle cose eterne cioè agli astri (Fis., VIII, 7, 260b). Le specie del M. locale ca- ratterizzano, secondo Aristotele gli elementi del- l’universo, compreso quello costitutivo delle so- stanze celesti cioè l’etere, che si muove di M. circolare (v. Fisica). Questa dottrina del M. è rimasta per lungo tempo immutata perchè tutta la filosofia antica e medievale l’ha ripetuta senza mo- difiche sostanziali. Una teoria del M. che ebbe fortuna nell’ultimo periodo della scolastica è quella elaborata da Duns Scoto, della forma fluente. Se- condo Duns Scoto, un corpo che si muove acquista ad ogni istante qualcosa: ma non il luogo, che non è un suo attributo ma risiede nei corpi che lo attorniano, bensì piuttosto una specie di deter- minazione qualitativa, analoga al calore che è acquisito dal corpo che si riscalda. Questa deter- minazione è il dove (ubi). Il M. è quindi la perdita o l'acquisizione continua del dove e in questo senso è una « forma fluente » (Quod!., q. 11, a. 1). La dottrina veniva criticata dalla scolastica della fine del ’200 e del *300. Ockham la sottometteva a una critica radicale, considerando il M. come il mutamento del rapporto di un corpo con i corpi circostanti (Quod?., VII, q. 6). Questo era il con- cetto che doveva prevalere nell’età moderna ad opera della scienza. Cartesio l’esprimeva nel modo seguente: « Il M. è il trasporto di una parte della materia o di un corpo dalla vicinanza dei corpi che lo toccano immediatamente e che consideriamo in riposo, alla vicinanza di altri corpi» (Prince. Phil., II, 25). Sul concetto del M. nella scienza contemporanea, v. RELATIVITÀ. MUSICA (gr. uovowi téixvn; lat. Musica; in- glese Music; franc. Musique; ted. Musik). Due sono le definizioni filosofiche fondamentali che sono state date della musica. La prima è quella che la con- sidera come la rivelazione all'uomo di una realtà privilegiata e divina: rivelazione che può assumere o la forma della conoscenza, o quella del senti- mento. La seconda è quella che la considera come una tecnica o un insieme di tecniche espressive, che concernono la sintassi dei suoni. 1° La prima concezione, che passa per essere la sola « filosofica » ma che veramente è metafisica o teologizzante, consiste nel ritenere che la M. è una scienza o un’arte privilegiata in quanto ha per oggetto la realtà suprema o divina o una sua caratteristica fondamentale. Di questa concezione si possono distinguere due fasi: a) la prima vede l’oggetto della M. nell’armonia come caratteristica divina dell’universo e considera pertanto la M. come una delle scienze supreme. 5) Per la seconda l'oggetto della M. è lo stesso principio cosmico (Dio, o la Ragione autocosciente, o la Volontà infinita, ecc.) e la M. è l’autorivelazione di questo principio nella forma del sentimento. Entrambe queste concezioni hanno un tratto fondamentale in comune: la separazione della M., come arte « pura », dalle tecniche in cui essa si realizza. Pla- tone polemizza contro i musici che vanno alla ri- cerca di nuovi accordi sugli strumenti (Rep., VII, 531 b) e così fa pure Plotino. Schopenhauer e Hegel parlano della « essenza » della M., della sua natura universale ed eterna, in quanto è separabile dai mezzi espressivi nei quali essa prende corpo come fenomeno artistico. a) La dottrina della M. come scienza dell’ar- monia e dell’armonia come ordine divino del cosmo è nata coi Pitagorici. «I Pitagorici, che Platone segue spesso, dicono che la M. è armonia di con- trari e unificazione dei molti e accordo dei discor- danti » (FinoLao, Fr., 10, Diels). La funzione e i caratteri dell'armonia musicale sono gli stessi che la funzione e i caratteri dell'armonia cosmica: la M. è perciò il mezzo diretto per elevarsi alla co- noscenza di questa armonia. Platone pertanto in- cludeva la M. fra le scienze propedeutiche al quarto posto (dopo l’aritmetica, la geometria piana e so- lida e l’astronomia) e quindi la considerava la più vicina alla dialettica e la più filosofica (Fed., 61 a). Come scienza autentica tuttavia la M. non con- siste, secondo Platone, nel cercare con l’orecchio nuovi accordi sugli strumenti: in questo modo si anteporrebbero gli orecchi all’intelligenza (Rep., VII, 531 a). Coloro che così fanno «si regolano come gli astronomi perchè cercano i numeri negli accordi accessibili all’udito ma non risalgono ai problemi, non indagano quali numeri siano armo- nici e quali no e donde venga la loro differenza » (Ibid., VII, 531 b-c). Per questa possibilità di pas- sare dai ritmi sensibili all’armonia intelligibile, la M. è ritenuta da Plotino una delle vie per ascen- dere a Dio. « Dopo le sonorità, i ritmi e le figure percepibili dai sensi, egli dice, il musico deve pre- scindere dalla materia nella quale si realizzano gli accordi e le proporzioni e attingere la bellezza di essi in se stessi. Deve apprendere che le cose che lo esaltavano sono entità intelligibili: tale è infatti l'armonia: la bellezza che è in essa è la bellezza assoluta, non quella particolare. Per questo, egli 601 deve servirsi di ragionamenti filosofici che lo con- ducono a credere a cose che aveva in sè senza saperlo » (Enn., I, 3, 1). Furono queste le considerazioni che portarono a includere la M. nel novero delle «arti liberali » ritenute fondamentali per tutto il Medioevo. S. Ago- stino espone il passaggio della M. dalla fase della sensibilità, in cui essa si occupa dei suoni, alla fase della ragione in cui diventa contemplazione dell’armonia divina. «La ragione, egli dice, com- prese che in questo grado, tanto nel ritmo quanto nell’armonia, i numeri regnano e conducono tutto a perfezione: osservò allora con la massima dili- genza di quale natura fossero e li scoprì divini ed eterni perchè col loro aiuto erano state ordinate tutte le cose supreme» (De Ordine, II, 14). Nelle Nozze di Mercurio e della Filologia, Marciano Ca- pella, verso la metà del v secolo, includeva la M. tra le arti liberali (ridotte a sette) e con questa la stabiliva come uno dei pilastri dell'educazione medievale. Alcuni secoli dopo, Dante paragonava la M. al pianeta Marte: giacchè come questo è «la più bella relazione» perchè è al centro degli altri pianeti, e il più caloroso perchè il suo calore è simile a quello del fuoco, così è la M.: «la quale è tutta relativa siccome si vede nelle parole armo- nizzate e nelli canti, dei quali tanto più dolce ar- monia risulta tanto più la relazione è bella»; e la quale « trae a sè gli spiriti umani che sono quasi principalmente vapori del cuore sicchè quasi ces- sano da ogni operazione » (Conv., II, 14). Ciò che qui Dante chiama « relazione » è l'armonia di cui parlavano gli antichi e il carattere cosmico della M. è espresso nel confronto di essa con uno degli astri maggiori dell’universo. b) La dottrina della M. come autorivelazione del Principio cosmico tende a privilegiare la M. al di sopra di tutte le altre arti o scienze e a farne la più diretta via d’accesso all’Assoluto. Queste sono le caratteristiche proprie della concezione ro- mantica della M., caratteristiche che si trovano ben realizzate nella teoria di Schopenhauer. Se- condo Schopenhauer, mentre l’arte in generale è l’oggettivazione della Volontà di vivere (che è il Principio cosmico infinito) in tipi o forme univer- sali (le Idee platoniche) che ciascun’arte riproduce a suo modo, la M. è rivelazione immediata o di- retta della stessa Volontà di vivere. « La M., egli dice, è dell’intera Volontà oggettivazione ed im- magine tanto diretta quant'è il mondo; o anzi come sono le Idee, il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La M. non è quindi, come le altre arti, l’immagine delle idee, bensì l'immagine della Volontà stessa, della quale sono oggettività anche le idee. Perciò l’effetto della M. è tanto più potente e insinuante di quello delle altre arti: giacchè queste ci dànno solo il riflesso mentre quella ci dà l’essenza » (Die Welt, 1819, I, $ 52). Con questa esaltazione della M. coincide la dottrina di Hegel: la quale tuttavia aggiunge l'importante determinazione, che la M. è l’espres- sione dell’assoluto nella forma del sentimento (Gemiith). «La M., dice Hegel, costituisce il punto centrale di quella rappresentazione la quale esprime il soggettivo come tale sia rispetto al contenuto sia rispetto alla forma, giacchè essa partecipa dell’interiorità e rimane soggettiva anche nella sua oggettività ». In altri termini essa non lascia, come fanno le arti figurative, che l’esterio- rizzazione sia libera di svilupparsi di per se stessa e di arrivare a un'esistenza di per sè stante « ma supera l’oggettivazione esterna e non s’immobi- lizza in essa fino a farne qualcosa di esterno che abbia esistenza indipendentemente da noi» (Vorle-

sungen liber die Aesthetik, ed. Glockner, III, pag. 127). Ciò vuol dire che nella M., a differenza che nelle altre arti, la forma sensibile in cui l’Idea si manifesta od esprime è interamente superata come tale e risolta in pura interiorità, in puro sentimento. Da questo punto di vista Hegel dice che il sentimento è la forma propria della M.: «Il com- pito fondamentale della M. consiste nel far risuo- nare, non già la stessa oggettività ma, all’opposto le forme e i modi nei quali la più interna sogget- tività dell’io e l’anima ideale si muove in se stessa» (4bid., pag. 129). Col riconoscimento del sentimento come forma propria della M. e come giustificazione della superiorità di essa, la teoria romantica della M. aveva trovato la sua espressione definitiva. È solo un’esagerazione di questa espressione la teoria di Kierkegaard che la M. « trova il suo oggetto asso- luto nella genialità erotico-sensuale » (Aus Auf, Le tappe erotiche, ecc.; trad. franc., Prior e Guignot, pag. 54). La definizione della M. come l’arte di esprimere «i sentimenti » o «le passioni » mediante i suoni, fu ripetuta infinite volte e si perdette per- sino il senso delle sue implicanze teoretiche. Essa fu assunta come una definizione oggettiva o scientifica della M. (cfr. HANSLICK, Vom Musikalisch-Schònen, 1854, la nota finale del cap. 1). Fu questa la defi- nizione della M. cui si ispirò l’opera di Wagner, che infatti condivideva la filosofia di Schopenhauer sulla musica. Federico Nietzsche a sua volta fu, nella sua giovinezza, un seguace di questa conce- zione: dalla quale si staccò a partire dal 1878 (con Umano, troppo umano) quando cominciò a scorgere nell’opera di Wagner, orientata nostalgicamente verso il cristianesimo, un abbandono di quei valori vitali che erano propri dell'antichità classica e uno spirito di rinuncia e di rassegnazione. Ma dal concetto romantico della M. neppure Nietzsche si staccò mai veramente. L'ideale che egli vagheggiò di una M. « meridionale» (del tipo di quella di Bizet) conserva ancora la caratteristica romantica di essere l’espressione del sentimento per quanto di un sentimento situato «al di là del bene e del male ». Egli scrisse infatti: « Il mio ideale sarebbe una M. il cui maggior fascino consistesse nell’igno- ranza del bene e del male, una M. resa tremula tutt'al più da qualche nostalgia di marinaio, da qualche ombra dorata, da qualche tenera rimem- branza; un’arte che assorbisse in se stessa, da una grande distanza tutti i colori di un mondo morale che tramonta, un mondo divenuto quasi incom- prensibile, e la quale fosse ospitale e profonda abbastanza per accogliere in sè i tardi fuggiaschi » (Jenseits von Gut und Bòse, $ 255). Anche oggi si fa frequentemente ricorso alla definizione della M. come espressione del sentimento o almeno la si presuppone come cosa ovvia e sicura (cfr., per es., Dewey, Art as Experience, cap. 10; trad. ital., pag. 278 sgg.). In Italia ha contribuito a raffor- zarla la dottrina crociana dell'arte come espressione del sentimento; ma, ovviamente, questa dottrina non è che la generalizzazione a tutto il dominio dell’arte della definizione romantica della musica. Questa definizione ha trovato e trova pure incar- nazioni frequenti nella figura del musicista, sacer- dote o profeta, che sa ascoltare la voce dell’Assoluto e tradurla nel linguaggio sonoro del sentimento. Anche oggi difficilmente si rinuncia a vagheg- giare questa raffigurazione romantica della M.: la quale consente agli intenditori di essa di sen- tirsi rapiti dentro un orizzonte mistico nel quale gli accordi musicali sono parole di una divinità nascosta. 2° La caratteristica della seconda concezione fondamentale della M. è l'identità, che essa implica, tra la M. e le sue tecniche. Tale identità fu chiara- mente espressa da Aristotele con il riconoscimento della molteplicità delle tecniche musicali. «La M., egli diceva, non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può derivare, ma per usi molteplici, poichè può servire per l'educazione, per procurare la catarsi e in terzo luogo per il riposo, il sollevamento dell’anima e la sospensione dalle fatiche. Da ciò risulta che bisogna far uso di tutte le armonie, ma non di tutte allo stesso modo, impiegando per l’educazione quelle che banno un maggiore contenuto morale, per l’ascolto di M. eseguite da altri quelle che incitano all’azione o ispirano alla commozione » (Po/., VIII, 7, 1341 b 30 sgg.). Queste considerazioni che, nella loro ap- parente semplicità, sembrano escludere un’inter- pretazione filosofica della M., in realtà esprimono il concetto che la M. è un insieme di tecniche espressive, aventi scopi o usi diversi e che possono essere indefinitamente e opportunamente variate. E questo concetto è in realtà il solo che ha aiutato e sorretto lo sviluppo dell’arte musicale. Esso ritornò nel Rinascimento e veniva così espresso da Vincenzo Galilei: «L’uso della M. fu dagli uomini introdotto per il rispetto e il fine che di comun parere dicono tutti i savi; il quale non da altro principalmente nacque che dall’esprimere con efficacia maggiore i concetti dell'animo loro nel celebrare le lodi degli Dei, dei geni e, degli eroi, come dai canti fermi e piani ecclesiastici, ori- gine di questa nostra a più voci si può in parte comprendere, e d’imprimergli, secondariamente, con pari forza nelle menti dei mortali per utile e co- modo loro» (Dialogo della M. antica e della moderna, 1581, ed. Fano, 1947, pag. 95-96). In queste parole di Galilei appare anche chiara- mente riconosciuto il carattere espressivo delle tecniche musicali: un carattere che fa della M. un’arte nel senso moderno del termine (v. ESTE- TICA). Il concetto di tecnica espressiva è espresso da Kant con la nozione di « bel gioco di sensa- zioni » di cui egli si avvale per definire sia la M. sia la tecnica dei colori. Kant osserva che «non si può sapere con certezza se un colore e un suono siano semplici sensazioni piacevoli o se siano già in se stessi un bel gioco di sensazioni e quindi contengano, in quanto gioco, un piacere che di- pende dalla loro forma nel giudizio estetico ». Alcuni fatti, e specialmente la mancanza della sen- sibilità artistica in alcuni uomini e l’eccellenza di tale sensibilità in altri, convincono a considerare le sensazioni dei due sensi, vista e udito, non come semplici impressioni sensibili, ma come « l’effetto di un giudizio formale nel gioco di molte sensa- zioni +. In ogni caso, «a seconda che si adotterà l'una o l’altra opinione nel giudicare del principio della M. ne sarà diversa la definizione e o si defi- nirà, come noi abbiamo fatto, quale un bel gioco di sensazioni (dell’udito) o come un gioco di sen- sazioni piacevoli. Secondo la prima definizione, la M. è considerata come arte bella senz'altro, con la seconda è invece considerata, almeno in parte, come arte piacevole » (Crit. del giud., $ 51). Il concetto di « bel gioco di sensazioni » tende già ad esprimere una nozione sintattica della M. e per di più una nozione per la quale la ricerca sintattica può essere indirizzata liberamente in tutte le dire- zioni (questo è implicito nella parola « gioco »). Verso la metà dell’800 questa nozione veniva più rigorosamente e chiaramente formulata nello scritto di EpuaRDO HANSLICK, // bello musicale (1854) che rimane a tutt'oggi una delle più importanti opere di estetica musicale. Hanslick si schiera po- lemicamente contro il concetto romantico della M. come «rappresentazione del sentimento». L’og- getto proprio della M. è piuttosto il bello musi- cale: intendendosi con ciò «un bello che, senza dipendere e senza abbisognare di alcun contenuto esteriore, consiste unicamente nei suoni e nel loro artistico collegamento. Le ingegnose combinazioni di bei suoni, il loro concordare e opporsi, il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò che in libere forme si presenta alla intuizione del nostro spirito e che ci piace come bello. L'elemento primordiale della musica è l’eu- fonia, la sua essenza il ritmo» (Vom Musikalisch- Schònen, III; trad. ital., 1945, pag. 82). Così in- tesa la M. s’identifica con la tecnica realizzatrice. Dice Hanslick a questo proposito: « Se non si sa riconoscere tutta la bellezza che vive nell’elemento puramente musicale, molta colpa è da attribuirsi al disprezzo del sensibile che negli antichi esteti troviamo in favore della morale e del sentimento, in Hegel in favore dell’idea. Ogni arte parte dal sensibile e in esso si muove. La teoria del senti- mento disconosce questo fatto, trascura comple- tamente l’udire e prende in considerazione imme- diatamente il sentire. Essi pensano che la M. sia fatta per il cuore e che l’orecchio sia una cosa triviale » (/bid., INI, pag. 85-86). Dall'altro lato Hanslick ha espresso pure con chiarezza il carat- tere che differenzia il linguaggio musicale dal lin- guaggio comune. « La differenza, egli dice, consiste in questo, che nel linguaggio il suono è solo un segno cioè un mezzo per esprimere qualcosa di comple- tamente estraneo a questo mezzo, mentre nella M. il suono ha importanza in sè, cioè è scopo a se stesso. La bellezza autonoma delle bellezze so- nore qui, e l’assoluto predominio del pensiero sul suono come su un puro e semplice mezzo di espressione là, si contrappongono in maniera così definitiva che una mescolanza dei due prin- cìpi è una impossibilità logica » (/bid., IV, pag. 113). Questo carattere tuttavia non è proprio soltanto del linguaggio musicale ma di ogni linguaggio artistico, di fronte al comune linguaggio (vedi ESTETICA). Per quanto la nozione di M. cui esplicitamente hanno fatto e fanno ricorso musicisti, critici e stu- diosi di estetica musicale sia ancora e sempre quella di «rappresentazione del sentimento », la nozione della M. come tecnica di una sintassi dei suoni le cui regole possano essere indefinitamente variate, è quella che ha prevalso nella pratica della crea- zione musicale e nella ricerca di nuovi e più liberi modi di tale creazione. L'ultimo e più radicale tentativo di liberazione della lingua musicale dalla sintassi tradizionale è la cosiddetta M. atonale. Questa non è altro che l’affermazione programma- tica della libertà del linguaggio musicale di scegliere la sua propria disciplina: la quale, in qualche casoparticolare può essere anche quella tonale. Dice a questo proposito Schénberg: « L'emancipazione della dissonanza, cioè la sua equiparazione con i suoni consonanti (che nella mia Harmonielehre spiego con il fatto che la differenza tra consonanza e disso- nanza non è una differenza antitetica ma graduale, che cioè le consonanze sono i suoni più vicini al suono fondamentale e le dissonanze quelli più lon- tani; e che di conseguenza la loro comprensibilità è graduata, essendo i suoni più vicini più facil- mente afferrabili di quelli lontani) avvenne incon- sapevolmente, col presupposto che la sua compren- sibilità può essere garantita quando venga favorita da determinate circostanze. Non bastando l’orecchio da solo a riconoscere e a comprendere i rapporti e le funzioni, tali circostanze si trovarono nel campo dell’espressione e in quello, fino allora poco considerato, della sonorità » (« Gesinnung oder Er- kenntnis? +, 1926, in L. ROGNONI, Espressionismo e dodecafonia, 1954, pag. 249). Da questo punto di vista la tonalità si definisce in modo generalissimo come « tutto ciò che risulta da una serie di note, coordinata sia mediante il diretto riferimento ad un’unica nota fondamentale sia mediante collegamenti più complicati » (Harmo- nielehre, 1922, 3* ediz., III, pag. 488; in ROGNONI, Op. cit., pag. 243). Alban Berg osservava che «la rinuncia alla tonalità ‘maggiore’, ‘ minore” non implica affatto l’anarchia armonica » perchè « anche se per la perdita del ‘maggiore’ e del ‘ minore ’, sono venute meno alcune possibilità armoniche, sono però rimasti tutti gli altri elementi essenziali della M. vera ed autentica» («Was ist Atonal», 1930, in RogNONI, Op. cit., pag. 290). Quale che sia il giudizio di gusto che si vuol dare sulle opere musicali ispirate da questo programma, non c’è dubbio che il programma stesso non è altro che la liberalizzazione della lingua musicale e delle sue tecniche dalle pastoie della sintassi tradizionale e l'avviamento alla ricerca di nuove forme sintattiche, che possono anche, occasionalmente, coincidere con quelle tradizionali. La M. atonale è pertanto la realizzazione, nel campo della M., di quella stessa esigenza di liberazione che nel campo della pittura è l’astrattismo: come quest’ultimo intende prescin- dere dalle forme stabilite o riconosciute della rap- presentazione o della percezione, così la M. intende prescindere dalle forme stabilite e riconosciute del- l'armonia musicale. L’una e l’altra vanno in cerca di nuove discipline, di nuove forme sintattiche per le loro tecniche espressive. E l’una e l’altra pre- suppongono (pur senza averne sempre un chiaro concetto) la nozione dell’arte come «tecnica del- l’espressione +; intendendosi per espressione le forme libere e finali della sintassi linguistica. Poichè fu quella nozione di M. che presiedette, sul finire del Medioevo e nel Rinascimento, alla genesi della M. moderna in quanto si presentò fin dall'inizio come ricerca di tecniche espressive, si può scorgere in essa la condizione che garantisce anche oggi alla M. la sua capacità di sviluppo. MUTAMENTO (ingl. Change; franc. Change- ment; ted. Verdnderung). 1. Lo stesso che movi- mento, 1 (v.). 2. Lo stesso che alterazione (v.). MUTAZIONISMO (ingl. Mutationism; fran- cese Mutationisme; ted. Mutationismus). 1. Lo stesso che evoluzionismo (v.). 2. La dottrina che spiega la trasformazione delle specie viventi l'una nell’altra con l'insorgenza di pic- cole mutazioni brusche ed ereditarie che si produr- rebbero a caso nel corso di una o più generazioni. Questa dottrina fu presentata da De VRIES nel- l’opera La teoria delle mutazioni (1901). N. Nella logica di Lukasiewicz la lettera N è usata per indicare la negazione, che viene comune- mente simboleggiata con —, sicchè Np significa > p (cfr., A. CHURCH, Introduction to Mathematical NARCISISMO (ingl. Narcissism; franc. Nar- cissisme; ted. Narzissismus). 1. Secondo Plotino, il mito di Narciso significa la situazione dell’uomo che, non sapendo di portare la bellezza dentro di sè, la cerca nelle cose esterne e tenta di abbrac- ciarla inutilmente in esse (Enn., I, 6, 8; V, 8, 2). Questa interpretazione acquista rilievo sullo sfondo della preoccupazione fondamentale di Plotino che è quella della ricerca interiore, o dell’interiorità di coscienza (v.). Talvolta, da autori moderni, il significato del mito è stato invertito: il narci- sismo rappresenterebbe non già l’inanità del ten- tativo di cercare nell’esterno ciò che è interno, ma l’autentico destino dell’uomo che è quello di proiettare fuori di sè e di amare come tale ciò che è dentro di lui (cfr. LAVELLE, L’erreur de Narcisse, 1939). 2. Una forma o un modo della sessualità, se- condo la psicanalisi, e precisamente quella per la quale la libido (v.) reinveste l'Io disinvestendo l’og- getto, sicchè l'Io «si comporta verso gli investi- menti oggettuali come il corpo di un animaletto protoplasmatico verso gli pseudopodi da esso emessi » (FREUD, Introduzione del narcisismo, 1914). NATIVISMO. V. InnatisMo. NATURA (gr. quo; lat. Natura; ingl. Nature; franc. Nature; ted. Natur). Un insieme di con- cetti, diversamente imparentati tra loro, sono stati utilizzati per definire questo termine. I prin- cipali sono i seguenti: 1° il principio del mo- vimento o la sostanza; 2° l’ordine necessario o la connessione causale; 3° l’esteriorità, in quanto contrapposta alla interiorità della coscienza; 4° il campo d'incontro o di unificazione di certe tecniche d’indagine. 1° L'interpretazione della N. come principio di vita e di movimento di tutte le cose esistenti è la più antica e venerabile e ha informato di sè l’uso corrente del termine. « Lasciar fare alla N. +, « Abbandonarsi alla N.?, « Seguire la N.», e via dicendo, sono espressioni suggerite dal concetto che la N. è un principio di vita che si prende buona cura degli esseri in cui si manifesta. In questo senso, esplicitamente, la N. fu definita da Aristotele. «La N., egli disse, è il principio e la causa del movimento e della quiete della cosa alla quale inerisce primieramente e di per sè, non accidental- mente » (Phys., II, 1, 192b 20). L'esclusione del- l’accidentalità serve, come Aristotele stesso spiega, a distinguere l’opera della N. da quella dell’uomo.

La N. può anche essere la materia se si ammette, come facevano i Presocratici, che la materia ha in se stessa un principio di movimento e di mutamento; ma è veramente questo principio, quindi la forma o la sostanza della cosa, in virtù della quale la cosa stessa si sviluppa e diviene -quella che è (Phys., II, 1, 193a 28 sgg.). Questo è il motivo per cui la N. assume il significato di forma o sostanza o essenza necessaria: una cosa possiede la sua N. quando ha raggiunto la sua forma, quando è per- fetta nella sua sostanza. In conclusione, la migliore definizione della N. è, secondo Aristotele, la se- guente: « La sostanza delle cose che hanno il prin- cipio del movimento in se stesse »: a questa defini- zione possono ricondursi tutti i significati del termine (Met., V, 4, 1015a 13). In questo senso la N. è non solo causa, ma causa finale (Fis., II, 8, 199b 606 32). La tesi del finalismo della N. si trova di regola congiunta con questo concetto di essa. Tale concetto, che è poi la sintesi dei due concetti fondamentali della metafisica aristotelica, quelli di sostanza e di causa, ha dominato per lungo tempo nella speculazione occidentale e non è mai stato completamente obliterato da concetti diversi e concorrenti. Per la sua causalità, la N. è lo stesso potere creatore di Dio: è N. naturante. Ma poichè tale causalità è inerente alle cose che produce, la N. è la totalità stessa di queste cose, è N. narurata. Questa distinzione che si trova in Scoto Eriugena senza però i termini relativi (De divis. nar., III, 1), veniva introdotta nella scolastica latina da Averroè (De Cael., I, 1) e largamente accettata (cfr. S. ToM- MASO, S. Th., II, 1, q. 85, a. 6). Spinoza non faceva che riesporla quasi negli stessi termini (Er., I, 29 Schol.). A questa distinzione, precisamente al concetto di N. naturata, si connette l’altro significato subordinato, quello della N. come l’universo o il complesso delle cose naturali: concetto che coesiste (perchè ne è il risultato) con quello della N. come principio di movimento; e coesiste anche, come si vedrà, con quello della N. come ordine perchè designa in questo secondo caso, la N. « materiale » (materialiter spectata). L’esaltazione speculativa che della N. fece il naturalismo del Rinascimento fa appello al concetto della N. naturante o universale. Nicolò Cusano diceva: « È lo Spirito diffuso e contratto per tutto l’universo e per tutte le sue singole parti, che si chiama N. La N. è perciò, in qualche modo, la com- plicazione di tutte le cose che si generano attraverso Il movimento » (De docta ignor., II, 10). E Giordano Bruno affermava: «La N. o è Dio stesso o è la virtù divina che si manifesta nelle cose» (Summa Terminorum, in Op. latine, IV, 101). Nello stesso senso Spinoza identificava la N. con Dio (Et., I, 29, Schol.). E questo concetto della N. permaneva nel *700 e veniva riaffermato da Wolff (Cosm., $ 503-506) e da Baumgarten (Mer., $ 430). Quando nello stesso secolo, si cominciò a contrapporre la N. all’uomo e si bandì il «ritorno alla N.», la N. cui si fece appello è ancora quella del vecchio concetto aristotelico: un principio direttivo insito nell'uomo sotto forma di istinto. Tale fu il concetto che della N. ebbe Rousseau (De /’inégalité parmi les hommes, I). Questo concetto è ormai passato nel patrimonio delle credenze comuni del nostro mondo; e perciò spesso fa capolino, senza farsi notare, nelle più elaborate concezioni filosofiche. Come si è visto, esso comprende tre concetti coordinati o equipollenti: a) la N. come causa (efficiente e finale); 2) la N. come sostanza o essenza necessaria; c) la N. come totalità delle cose. NATURA 2° La seconda concezione fondamentale della N. è quella che la intende come ordine e necessità. L’origine di questa concezione è negli Stoici. Essi dicevano che «la N. è la disposizione a muoversi da sè secondo le ragioni seminali, disposizione che porta a compimento e tiene insieme tutte le cose che da essa nascono a determinati tempi e coincide con le cose stesse dalle quali si distingue » (Dioa. L., VII, 1, 148). In questa definizione viene accentuata la regolarità e l'ordine del divenire

al quale la N. presiede. A questo concetto di N. si connette la nozione di legge naturale, che ha avuto per tutta l’antichità e sino al sec. xrx un’im-portanza grandissima nella morale e nel diritto (v.). Difatti la legge di N. è la regola di comportamento che l’ordine del mondo esige sia rispettata dagli esseri viventi, regola la cui realizzazione, secondo gli Stoici, era affidata o all’istinto (negli animali) o alla ragione (nell'uomo) (Diog. L., VII, 1, 85). L’aristotelismo del Rinascimento riprende il con- cetto della N. come ordine. Nel De Fato Pietro Pomponazzi difendeva esplicitamente, nel xvI secolo, il fato stoico, cioè la necessità assoluta dell’ordine cosmico stabilito da Dio. E il pensiero che è alla base delle prime manifestazioni della scienza mo- derna cioè dell’opera di Leonardo, Copernico, Keplero e Galileo è quello di un ordine necessario, di carattere matematico, che la scienza deve rintrac- ciare e descrivere. «La necessità, diceva Leonardo, è tema e inventrice della N., e freno e regola eterna» (Works, ed. Richter, n. 1135). Galileo a sua volta riteneva che la N. è l’ordine dell’universo, un ordine che è unico e non è mai stato nè sarà diverso (Op., VII, pag. 700). L°’insistenza sulla natura come ordine e necessità si accompagna alla negazione del finalismo della natura stessa che è invece la carat- teristica della prima concezione (v. FINALISMO). Questo concetto della N. è rimasto a fondamento della scienza moderna in tutto il suo periodo classico. « La N. è assai consonante e conforme a se stessa » diceva Newton (Opricks, 1704, III, 1, q.31): ma fu Boyle che su questo punto ebbe le idee più chiare affermando esplicitamente: « La N. non dev'essere considerata come un agente distinto e separato, ma come una regola o piuttosto come un sistema di regole, secondo le quali gli agenti naturali e i corpi su cui essi operano sono determinati dal Grande Autore delle cose ad agire e a patire». Fu questa la concezione della N. accettata da Kant. «Con l’espressione ‘ N.’ (in senso empirico) inten- diamo la connessione dei fenomeni, per la loro esistenza secondo regole necessarie o leggi. Vi sono dunque certe leggi, e leggi a priori, che rendono prima di tutto possibile una N.; le leggi empiriche possono esserci ed essere scoperte solo mediante l’esperienza, perciò in seguito a quelle leggi origi- NATURA narie per cui comincia ad essere possibile l’espe- rienza stessa» (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. II, sez. 3, Terza analogia). Altrove, Kant distingue la N. materialiter spectata dalla N. formaliter spectata: la prima sarebbe «l’insieme di tutti i fenomeni »; la seconda sarebbe « la regola- rità dei fenomeni nello spazio e nel tempo +» (/bid., $ 26). Ma la prima non è altro che il materiale cui si applica la seconda e il concetto della N. rimane pertanto quello di una regolarità dovuta a leggi {Prol., $ 14). Questa dottrina è stata ripetuta nume- rose volte nella filosofia moderna e contemporanea. Fra gli ultimi che la ripetono si può ricordare Whitehead, che intende per N. «un complesso di enti in relazione » dove l’enfasi è posta sulla relazione, e che attribuisce alla filosofia naturale il compito di «studiare come si connettano i vari elementi della N. » (The Concept of Nature, 1920, cap. I-II; trad. ital., pag. 13, 28). 3° La terza concezione della N. è quella che l’intende come la manifestazione dello spirito o come uno spirito diminuito o imperfetto, reso « esterno » o « accidentale » o « meccanico » cioè de- gradato dai suoi veri caratteri. Questa concezione si trova espressa chiaramente in Plotino. « La sag- gezza, egli dice, è il primo termine, la N. è l’ultimo. La N. è l’immagine della saggezza ed è l’ultima parte dell’anima: come tale non ha in sè che gli ultimi riflessi della ragione... L'intelligenza ha in sè ogni cosa, l’anima dell’universo riceve le cose eternamente e essa è la vita e l’eterna manifesta- zione dell’intelletto; ma la N. è il riflesso del- l’anima nella materia. In essa, o anche prima di essa, la realtà finisce giacchè essa è il termine del mondo intellegibile: oltre di essa, non ci sono che imitazioni » (Enn., IV, 4, 13). Che la N. sia la manifestazione, nel senso di « esteriorizzazione ?, con ciò che di diminuito o degradato ha l’esterio- rità di fronte all’interiorità della coscienza, è il concetto della N. che è stato condiviso (e con- tinua ad esserlo) da tutte le metafisiche spirituali- stiche. Esso viene ripreso dalla teosofia rinasci- mentale, e si trova, per es., espresso da Jakob Bohme (De signatura rerum, TX). Ma fu il roman- ticismo che soprattutto lo amplificò e diffuse. Diceva Novalis: « Che cosa è la N. se non l’indice enciclopedico sistematico o il piano del nostro spirito? » (Fragmente, n. 1384). E Hegel esprimeva nel modo più rigoroso e completo questo stesso concetto. « La N., egli diceva, è l’idea nella forma dell’essere altro » cioè della «esteriorità» (Erc., $ 247). Come tale essa non mostra, nella sua esi- stenza, libertà alcuna ma solo necessità e acciden- talità. Pertanto « nella N., non solo il gioco delle forme è in preda a una accidentalità sregolata e sfrenata; ma ogni forma manca per sè del con- 607 cetto di se stessa». Hegel riconosce che la N. è soggetta a «leggi eterne » ma questo non la salva: la N. è peggiore del male. « Quando l’accidentalità spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa di infinitamente più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle piante; perchè colui che così erra è pur sempre spirito » (Ibid., $ 248). È ben vero che non tutta la filosofia romantica condivise la condanna hege- liana della natura. Schelling fu portato piuttosto a esaltare la N. stessa, a considerarla come parte o elemento della vita divina. In uno scritto del 1806, egli rimproverava a Fichte di considerare la N. o col sentimento del più rozzo e pazzo asceta, cioè come un puro nulla, o da un punto di vista pu- ramente meccanico e utilitario, cioè come uno strumento di cui l’Io assoluto si serva per realiz- zare se stesso (Werke, I, VII, pag. 94, 103). E in realtà nel considerare la N. come manifestazione dell’Assoluto, Schelling non insisteva tanto sulla inferiorità della manifestazione rispetto al Prin- cipio manifestantesi, quanto piuttosto sulla stretta relazione tra i due. Questa è l’altra alternativa offerta dalla concezione della N. di cui qui trat- tiamo. Si può infatti da un lato insistere sugli aspetti per cui la N. si distingue dallo spirito e in qualche modo si contrappone ad esso, cioè sul- l’esteriorità, l’accidentalità, il meccanismo. Ma si può anche, dall’altro lato, insistere sull’aspetto per cui la N., come manifestazione dello spirito, pre- senta i suoi stessi caratteri sostanziali. Così ha fatto Schelling. Ma più frequentemente prevale la prima alternativa. Lo spiritualismo francese del secolo scorso ha condiviso quasi unanimemente la tesi che Ravaisson esprimeva alla fine del Rapport sur la philosophie en France au XIX° siècle (1868), e cioè che la N. sia il degradarsi in meccanismo e necessità di un Principio spirituale che è spon- taneità e libertà. Questa concezione è stata fatta prevalere anche nello spiritualismo del nostro se- colo da Bergson. La N., come esteriorità o spa- zialità, è una degradazione dello spirito. Così Bergson espone il progetto di una teoria della co- noscenza della N.: « Bisognerebbe, con uno sforzo sui generis dello spirito, seguire la progressione o piuttosto la regressione dell’extra-spaziale  degra- dantesi in spazialità. Situandoci dapprima nel punto più alto della nostra propria coscienza per lasciarci poi cadere a poco a poco, noi abbiamo il senti- mento che il nostro io si estenda in ricordi inerti esteriorizzati gli uni rispetto agli altri, in luogo di tendersi in un volere indivisibile ed agente. Ma questo è solo l’inizio, ecc. + (Évol. Créatr., 11 ediz., 1911, pag. 226). Lo stesso senso di degradazione ha la N. nella filosofia di Gentile per il quale essa è il « passato dello spirito» ed è perciò un limite 608 astratto che lo spirito ricomprende in sè e « signo- reggia » (Teoria generale dello spirito, XVI, 18). 4° La quarta concezione della N. è quella che si può intravvedere come presupposta o implicita nelle operazioni effettive della ricerca scientifica e in alcune analisi della metodologia scientifica con- temporanea. Per essa la N. è definita in termini di campo (v.) e più precisamente è il campo cui fanno riferimento e in cui si incontrano (o talora si scontrano) le tecniche percettive e di osservazione di cui l’uomo dispone; delle quali le prime non sono meno complesse delle seconde, nonostante che appaiano « naturali» cioè tali da poter essere messe in opera senza il concorso di progetti deli- berati. Alle tecniche percettive fa costante riferi- mento l’arte che dà sempre qualcosa da « vedere » o da «sentire» anche quando pretende di essere « astratta » e di prescindere perciò dalle forme che sono comunemente offerte dalla percezione comune. Alle tecniche osservative fa riferimento la scienza naturale che, pur iniziando il suo lavoro dalla per- cezione, se ne allontana rapidamente sia nei suoi strumenti di osservazione sia negli oggetti che riesce a individuare (per es., « massa», «energia», «elet- troni +, « fotoni », ecc.) alcuni dei quali si compor- tano molto diversamente dalle «cose» che sono l'oggetto della percezione comune. Il campo og- gettivo cui fanno riferimento sia i vari modi del percepire comune sia i vari modi dell’osservazione scientifica, così come è intesa e praticata nelle varie branche della scienza naturale, si può inten- dere oggi come « N. ». In questo senso la N. non si identifica con un principio o con un'apparenza

metafisica nè con un determinato sistema di con- nessioni necessarie; ma può essere determinata, a ogni fase dello sviluppo culturale dell'umanità, come la sfera degli oggetti possibili di riferimento delle tecniche di osservazione di cui l’umanità è in pos- sesso. Si tratta, come è ovvio, di una concezione non dogmatica ma funzionale, che non è stata finora fatta oggetto di indagini metodologiche suf- ficienti alla sua chiarificazione, ma che sembra tut- tavia richiesta dalla fase attuale della metodologia scientifica. NATURA, FILOSOFIA DELLA (inglese Philosophy of Nature; franc. Philosophie de la nature; ted. Naturphilosophie). Questa espressione, in quanto diversa da quella tradizionale « filosofia naturale » che designa la fisica o la scienza naturale in generale, è stata per la prima volta adoperata da Kant per designare una disciplina nettamente distinta dalla scienza stessa. Per filosofia della N. o metafisica della N., Kant intese infatti la disci- plina che « abbraccia tutti i princìpi razionali puri derivanti da semplici concetti (quindi con esclusione della matematica) della conoscenza teoretica di NATURA, FILOSOFIA DELLA tutte le cose» (Crit. R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III. Così intesa la filosofia della N. è una delle due parti fondamentali della filosofia, di cui l’altra è la filosofia morale; e comprende solo i princìpi a priori su cui è fondata la co- noscenza della N., cioè i fondamenti della fisica e delle altre scienze teoretiche della N., ma non già le leggi, che è compito della fisica rintrac- ciare nella N. stessa (/bid.; cfr. Crit. del Giud., Intr., I. Dopo di Kant l’espressione filosofia della natura è rimasta a designare una disciplina che ha per oggetto la N. ma non è la scienza. Così la filosofia della N. fu intesa da Schelling che a questa disci- plina dedicò la maggior parte della sua attività. Schelling riteneva che la scienza fondata sull’in- dagine sperimentale non è mai veramente scienza. La natura infatti è a priori nel senso che le sue singole manifestazioni sono determinate in anticipo dalla sua totalità, cioè dall'idea di una N. in generale (Werke, I, III, pag. 279). Sostanzialmente, il compito della filosofia della N. è quello di mostrare come la N. si risolva nello spirito (System des transzendenta- len Idealismus, $ 1). Tale compito è rimasto proprio di essa in tutte le manifestazioni che ebbe nel corso del sec. xx: manifestazioni che, in buona parte, si ispirarono a Hegel. Hegel considerò la filosofia della N. come una delle tre grandi partizioni della filosofia che risulterebbe costituita, oltre che da essa, dalla logica e dalla filosofia dello spirito. La logica sarebbe il sistema delle pure determinazioni del pensiero. La filosofia della N. e la filosofia dello spirito sarebbero entrambe una logica appli- cata; e in particolare la filosofia della N. avrebbe il compito « di portare le vere forme del concetto, immanenti nelle cose naturali, alla coscienza » (System der Phil., ed. Glockner, I, pag. 87-88). La filosofia della N. così intesa non è che la mani- polazione arbitraria di concetti scientifici, avulsi dai loro contesti, al fine di ridurli a determinazioni razionali o pseudorazionali. E tale essa è rimasta anche quando si è voluta sottrarre all'impostazione idealistica ed è stata trattata da un punto di vista realistico, come ha fatto Nicolai Hartmann. La Filosofia della natura (1950) di quest’ultimo, conserva infatti la pretesa di scorgere o riconoscere il valore « metafisico» o «ontologico» dei risultati della scienza. Compito della filosofia della N. dovrebbe essere l’analisi categoriale dei concetti scientifici. « Ciò che propriamente sono l'estensione, la durata, la forza, la massa, non può dirlo il pensiero mate- matico, afferma Hartmann. A questo punto s'inse- risce l’analisi categoriale: i portatori o substrati della quantità sono ciò con cui si connettono i problemi metafisici di fondo della filosofia della N. » (Philosophie der Natur, pag. 22). NATURA, STATO DI Si può dire che l'ultimo e più ristretto concetto di filosofia della N. sia quello presentato dai componenti del Circolo di Vienna, agli albori dell’empirismo logico. M. Schlick considerava la filosofia della N. come l’analisi del significato delle proposizioni proprie delle scienze naturali. Da questo punto di vista, egli diceva, «la filosofia della natura non è scienza essa stessa, ma un'atti- vità diretta alla considerazione del significato delle leggi di N.» (Philosophy of Nature; trad. ingl., 1949, pag. 3). In questo concetto c'è ancora qualche traccia della filosofia come « visione del mondo » o sintesi dei risultati più generali delle scienze parti- colari. La metodologia contemporanea ha invece sempre più sottolineato l'illegittimità di astrarre le proposizioni della scienza dei loro contesti e di trovare in esse significati che vadano al di là di quanto i contesti stessi autorizzano. Da questa limitazione metodologica, il compito di una filosofia della N. viene tagliato alla base. E tutto ciò che (oltre la pretesa di elaborare una metafisica della N. o una metafisica fondata sulle scienze naturali) essa legit- timamente comprendeva, cioè i problemi concer- nenti il linguaggio scientifico in generale e i lin- guaggi delle singole scienze, i rapporti tra le scienze, Io studio comparativo dei loro me- todi, ecc., trova posto oggi nel seno della meto- dologia delle scienze. NATURALE (gr. quowxéc; lat. Naturalis; in- glese Natural; franc. Naturel; ted. Natbrlich). Gli usi di questo aggettivo corrispondono agli usi fon- damentali del termine narura. 1. Corrispondentemente al primo significato, N. è ciò che è prodotto dal principio del movimento oppure ciò che si produce da sé o spontanea- mente. In questo senso si è parlato di « diritto N.» che è il diritto che consiste nel conformarsi all’or- dine spontaneo della natura: o di «religione N.» che è la religione rivelata all’uomo dalla natura o attraverso la natura cioè attraverso la ragione o il cuore dell’uomo. 2. Corrispondentemente al secondo significato di natura, si dice N. ciò che rientra nell'ordine ne- cessario della natura, in quanto si distingue dal- l’ordine soprannaturale, voluto o stabilito diretta- mente da Dio. Nell’ambito di entrambi questi significati N. si contrappone anche ad artificiale, in quanto è ciò che è prodotto dalla causalità della natura, fuori dell’arbitrio umano. 3. Corrispondentemente al terzo significato di natura si parla, ad es., di «cose N.» per dire « cose esterne» e di «causalità N.» per dire « causalità esterna ». 4. Le scienze N. si dicono oggi tali soprattutto in corrispondenza al significato 4 di natura. 39 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 609 NATURALISMO (ingl. Naturalism; franc. Na- turalisme; ted. Naturalismus). Il termine ha tre significati diversi. Indica cioè: 1° La dottrina che ritiene che i poteri naturali della ragione sono più efficaci di quelli che la filosofia produce o promuove nell’uomo. In questo senso Kant diceva: «Il naturalista della ragion pura assume per principio che per mezzo della ragione comune senza scienza (che egli chiama ‘sana ragione ’) si può, rispetto alle questioni più alte che costituiscono il compito della metafisica, conchiudere di più che per mezzo della specula- zione. Afferma quindi che si può determinare con maggior sicurezza la grandezza e la distanza della luna ad occhio anzichè per mezzo della matematica » (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. IV). 2° La dottrina che nulla esiste fuori della na- tura, e che Dio stesso è solo il principio di mo- vimento delle cose naturali. In questo senso, che è il più diffuso nella terminologia contemporanea, si parla del « N. del Rinascimento o del « N. antico » o del «N. materialistico +, ecc. 3° La negazione di ogni distinzione tra natura e soprannatura e la tesi che l’uomo può e deve essere compreso, in tutte le sue manifestazioni, anche in quelle ritenute più alte (diritto, morale, religione, ecc.) solo nel rapporto con le cose e gli esseri del mondo naturale e sulla base degli stessi concetti utilizzati dalle scienze per la spie- gazione di essi. In questo senso il naturalismo è inteso da molti filosofi americani (Santayana, Woodbridge, Cohen) e dallo stesso Dewey (Expe- rience and Nature, cap. Ill, e passim). NATURA, SCIENZE DELLA. V. SCIENZE,

CLASSIFICAZIONE DELLE. NATURA, STATO DI (ingl. State of Nature; franc. État de nature; ted. Naturzustand). La condi- zione dell’uomo, anteriormente alla costituzione della società civile, secondo la dottrina del contrat- tualismo (v.). Già in Platone, nel III Libro delle Leggi, c'è la nozione della condizione in cui gli uomini vennero a trovarsi dopo che immani cata- strofi ebbero distrutte le città: « Questa, dice Platone, è la condizione degli uomini dopo che è avvenuta la catastrofe: una sconfinata paurosa solitudine, la terra immensa e abbandonata, periti quasi tutti gli animali e i bovini e solo qualche gruppo di capre è rimasto ai pastori, come misero resto, per ricominciare la vita» (Leggi, III, 677e). Questa non è la descrizione di una condizione idilliaca: come non fu idilliaca la condizione che Hobbes ritenne propria dello stato di N.: quella della guerra di tutti contro tutti: « Intanto che gli uomini vivono senza un potere comune cui siano soggetti, diceva Hobbes, si trovano nella condizione che chiamiamo 610 di guerra e tale guerra è di ogni uomo contro l’altro uomo » (Leviath., I, 13). Ciò accade perchè gli uomini, essendo per N. uguali, hanno anche gli stessi desideri; e desiderando le stesse cose cercano di soverchiarsi a vicenda (/bid.). La fondazione dello stato, cioè di un potere sovrano, è il solo mezzo per uscire dalla condizione di guerra propria dello stato di natura. Dall'altro lato, già Seneca, nell’antichità, esal- tava lo stato di N. come una condizione per- fetta del genere umano. Nella novantesima Lettera a Lucilio, Seneca descrive l’età dell’oro in cui gli uomini erano innocenti e felici e vivevano semplice- mente, senza cercar il superfluo. Inoltre non avevano bisogno di governo e di leggi perchè obbedivano volentieri ai più saggi. Ma ad un certo punto, il progresso stesso delle arti portò l’avidità e la corru- zione contro le quali si rese necessaria l’istituzione dello stato. — L’esaltazione dello stato di N. divenne un tema ricorrente nella filosofia del ‘700 e trovò la sua massima espressione nell’opera di Rousseau. Locke aveva già considerato, in polemica con Hobbes, lo stato di N. come uno stato di perfezione. Esso, aveva detto, è «uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri possessi e delle proprie persone come si crede meglio, entro i limiti della legge di N., senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun’altro » (Second Treatise On Governement, II, 4). Ma è stato sopratutto Rousseau ad esaltare la perfezione dello stato di N. sul fondamento che in quella condizione l'uomo obbedisce soltanto all’istinto, che è infal- libile (De l’inégalité parmi les hommes, I). «Tutto è perfetto quello che esce dalle mani del Creatore, tutto traligna nelle mani dell'uomo »: così Rousseau cominciava il suo Emilio. In Rousseau stesso, d'altronde, questa esaltazione dello stato di N. contrasta col valore riconosciuto allo stato civile fondato sul contratto sociale; ed in realtà la nozione dello stato di N. costituisce per Rousseau il criterio o la norma con cui giudicare la società presente e delineare un ideale di progresso. Dopo Rousseau, già Kant intendeva per stato di N.« quello in cui non c’è alcuna giustizia distributiva » (Mer. der Sitten, I, $ 41). Ed Hegel mostrava l’equivoco per cui era stato inventato lo stato di N. come una condi- zione di fatto nella quale valesse il diritto naturale, equivoco dovuto al fatto che si interpretava l’espres- sione «diritto naturale» nel senso di diritto esistente in N. piuttosto che diritto determinato dalla N. della cosa (Enc., $ 502). Da Hegel in poi, la nozione di stato di N. ha cessato di interessare i filosofi. È rimasta tuttavia una nozione cui volen- tieri fa appello l’uomo comune o che viene utiliz- zata dalle dottrine politiche utopistiche: le quali spesso proiettano lo stato di N. come una perfezione NATURISMO dell’avvenire, e così fanno pure, talora, le immagina- zioni romanzesche della fantascienza. NATURISMO (ingl. Naturism; franc. Natu- risme; ted. Naturismus). 1. La dottrina, o la cre- denza, che la natura sia la guida infallibile per la salute fisica e mentale dell’uomo e che pertanto a tale guida l’uomo debba « ritornare », nei suoi com- portamenti e costumi, allontanandosi dalle crea- zioni artificiali della società. Questa dottrina è alla base di molte pratiche e credenze popolari del mondo contemporaneo, dopo essere stata (nel *700) dottrina filosofica (v. NATURA, STATO DI). 2. Meno propriamente: culto religioso della na- tura. NAUSEA (ingl. Nausea; franc. Nausée; te- desco Ekel). L'esperienza emotiva della gratuità dell’esistenza cioè della perfetta equivalenza delle possibilità esistenziali. La nozione è stata intro- dotta nella filosofia da Sartre e da lui illustrata soprattutto nel romanzo intitolato La nausea. NAZIONALISMO (ingl. Nazionalism; fran- cese Nationalisme; ted. Nationalismus). Il concetto di nazione cominciò a formarsi a partire da quello di popolo, che aveva dominato nella filosofia po- litica del sec. xvi, quando si accentuò, in questo concetto, l’importanza dei fattori naturali e tradi- zionali a scapito di quelli volontari. Il popolo (v.) è costituito essenzialmente dalla volontà comune, che è la base del patto originario; la nazione è costituita essenzialmente da legami indipendenti dalla volontà dei singoli: la razza, la religione, la lingua e tutti gli altri elementi che possono essere compresi sotto il nome di «tradizione». A diffe- renza del « popolo», che non c’è se non per la deliberata volontà dei suoi membri e come effetto di questa volontà, la nazione non ha niente a che fare con la volontà degli individui: è un destino che incombe sugli individui, e al quale questi non possono sottrarsi senza tradimento. In questi ter- mini la nazione cominciò ad essere concepita chia- ramente soltanto ai primi dell’800; e la nascita del concetto coincide con la nascita di quella fede nei geni nazionali e nei destini di una singola nazione che si chiama nazionalismo. Il concetto di popolo rimaneva legato agli ideali cosmopolitici del ’700. Ma già in Rousseau si trova la condanna di questi ideali: l’attaccamento di Rousseau al concetto dello stato-città, quale si era realizzato nella Grecia antica, lo portava a con- dannare l’universalismo settecentesco. Nello stesso tempo, questo attaccamento, anacronistico come era, lo conduceva a esaltare il valore dello stato nazionale. « Sono le istituzioni nazionali, egli diceva, che formano il genio, il carattere, i gusti e i co- stumi di un popolo, che lo fanno esser lui e non altro, che gli ispirano quell’ardente amor di patria NECESSARIO 611 fondato su abitudini impossibili a sradicarsi, che lo fanno morire di noia presso altri popoli, in mezzo a delizie di cui è privato nel suo paese» (Considér. sur le gouvernement de Pologne, III). Ma fu soprattutto nell’epoca della restaurazione post- napoleonica che il concetto della nazione cominciò ad assumere importanza dominante come uno dei prodotti o il prodotto fondamentale di quella « tra- dizione » alla quale, in quel periodo si attribuiva l’origine e la conservazione di tutti i valori fon- damentali dell’uomo. I Discorsi alla nazione tedesca (1808) di Fichte, che sono il primo documento del nazionalismo tedesco, vedono nel popolo te- desco «il popolo che solo ha diritto di chiamarsi il popolo senz’altra designazione, a differenza dei rami che da lui si staccarono, come indica d’al- tronde di per sè la parola tedesco » (Reden, VII); e vedevano assicurata dalla stessa provvidenza della storia l’avvenire di questo popolo superiore. Con la nozione di «spirito di un popolo» Hegel por- tava a compiuta elaborazione il concetto di na- zione. « Lo spirito di un popolo, diceva Hegel, è un tutto concreto: dev'essere riconosciuto nella sua determinatezza... Esso si sviluppa in tutte le azioni e in tutti gli indirizzi di un popolo e si realizza sino a giungere a godere di sè e a comprendere se stesso. Le sue manifestazioni sono religione, scienza, arte, destini, eventi. Tutto questo, e non il modo in cui un popolo è determinato per na- tura (come potrebbe suggerire la derivazione di natio da nasci) fornisce al popolo il suo carattere » (Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pag. 42; tradu-

zione ital., I, pag. 49). Nello spirito di un popolo si incarna, di volta in volta, lo Spirito del mondo, la Ragione universale che presiede ai destini del mondo e determina la vittoria del popolo che è la migliore incarnazione di se stessa. In questo concetto dello spirito del popolo come incarnazione o manifestazione di Dio nel mondo e quindi del carattere fatale e provvidenziale della vita storica della nazione, sono già compresi tutti gli elementi del N. europeo del sec. xix e di qualsiasi nazio- nalismo. In Italia, Mazzini cercò di conciliare gli ideali universalistici dell’illuminismo col N.; e vide nella « missione » propria di una nazione il modo in cui essa può servire il fine generale dell'umanità. Era questa una sintesi piuttosto incoerente, ma che evitava quella esaltazione della forza che così spesso doveva poi trovarsi nel N. europeo. Gian Domenico Romagnosi fu il primo a fornire una teoria giuridica dello stato nazionale in questo senso (Della costituzione di una monarchia nazio- nale rappresentativa, 1815): teoria che P. S. Man- cini, assumeva più tardi a fondamento del diritto internazionale (Della nazione come fondamento del diritto delle genti, 1851). In Francia l’affer- mazione del N. si lega soprattutto all'opera dello storico Michelet che dava col libro Le Peuple (1843) uno dei principali documenti del N. profe- tizzante. In Germania, un altro storico, Treitschke, intraprendeva l’illustrazione e la difesa del N. te- desco che rimase collegato, alla sua origine, con la politica di forza di Bismarck e poi di Gu- glielmo II. In Russia infine Dostojewski si fece profeta del N. russo (cfr. Hans KoHN, Prophets and Peoples, 1946; trad. ital., 1949; The Idea of Natio- nalism, New York, 1944). Sia la prima sia la seconda guerra mondiale sono state combattute sotto l’in- segna del nazionalismo. La seconda è stata com- battuta sotto l’insegna di un N. che aveva perso tutti i contatti con l’universalismo settecentesco e riconosceva nella forza l’unico segno decisivo ac- cordato dalla Provvidenza storica alla nazione da lei favorita. Quest’idea, che il fascismo italiano e il nazional-socialismo germanico avevano fatta propria, non era un'idea nuova: era la vecchia idea hegeliana e romantica del privilegio che lo Spirito del mondo accorda alla nazione in cui di preferenza si incarna, giacchè l’unico segno di questo privilegio è appunto la forza vittoriosa che tale nazione può esercitare sulle altre. Questo N. profetico non abita più oggi i popoli europei che, dalla lezione delle due guerre sono stati ricondotti agli ideali universalistici dell’illuminismo: tende tuttavia ad affermarsi in altre regioni del globo terrestre, alle quali si può solo augurare di far tesoro dell’esperienza culturale e storica della

vecchia Europa. NECESSARIO (gr. avayuatoc; lat. Necessarius; ingl. Necessary; franc. Nécessaire; ted. Notwendig). Ciò che non può non essere; o che non può essere. Questa è la definizione nominale tradizionale che costituisce anche una delle nozioni più unifor- memente e saldamente stabilite nella tradizione filosofica. In tale definizione «ciò che non può essere» è l’impossibile che è il contrario opposto del N. ed è quindi anch’esso N. come il nero, che è il colore opposto al bianco, è anch'esso colore. Il contraddittorio del N., cioè il non-N. è invece l’altra modalità fondamentale, cioè il possibile (v.). Le discussioni logiche contemporanee sul N., quando non equivalgono alla negazione, espressa o implicita di questa nozione, non sono altro di regola, che la riespressione di questa definizione in termini di convenzionalismo moderno. Il primo a dare un’esauriente analisi di « N.» è stato Aristotele. Egli ha distinto: a) il N. come condizione o concausa, per cui si dice ad es. che il cibo è N. alla vita o la medicina alla salute o l'andare in un certo posto a riscuotere una certa somma; b) il N. come forza o costrizione per cui si dice che 612 è N. ciò che impedisce od ostacola l’azione di un istinto o una scelta; c) il N. come ciò che non può essere altrimenti, che è il senso fondamentale del concetto. A questo senso infatti si possono, secondo Aristotele, ridurre gli altri. « Ciò a cui siamo costretti si dice che è N. quando una forza qualsiasi ci costringe a fare o a subire qualcosa che è contro l'istinto, sicchè la necessità consiste in questo caso nel non poter fare o subire altrimenti. Lo stesso vale per le condizioni della vita e del bene: giacchè quando il bene, la vita o l’essere non possono esserci senza alcune condizioni queste son dette necessarie e si dice che la causa è la necessità stessa » (Met., V, 5, 1014b 35). Nel senso fondamentale, le dimostrazioni sono necessarie perchè non possono concludere altrimenti; e non possono concludere altrimenti perchè le premesse non possono essere diverse da quelle che sono (/bid., 1015b 7). Il significato a) di N. è quello che Aristotele designa altrove come necessità ipotetica: è la necessità che si trova nelle cose naturali e precisamente nella loro materia in quanto costituisce la condizione di esse (Fis., II, 9, 200a 30; De Somno, 455b 26; De part. an., 639b 24, 642a 9). Già Platone aveva ammesso questa specie di necessità, ritenen- dola come uno dei costituenti del mondo (insieme con l'intelligenza) e identificandola con la materia (Tim., 47 d, sgg.). Aristotele distingue infine ciò che è N. in virtù di una causa esterna e ciò che è a se stesso la causa della propria necessità. Le cose semplici sono necessarie in questo secondo senso e perciò lo sono in modo primario ed eminente (2bid., 1015 b 10). Ma il concetto della necessità è sempre quello. Queste notazioni sono rimaste pressochè immutate per tutta la storia della filosofia. Gli Stoici defi- nirono la necessità tenendo presente gli enunciati verbali più che le condizioni di fatto; e dissero pertanto N. «ciò che è vero e non può rivelarsi falso » (Droga. L., VII, 1, 75): dove il « non potersi rivelare falso » significa, per ciò che è vero, il non poter essere altro. Nè mutano il concetto del N. le distinzioni stabilite da San Tommaso in confor- mità della divisione aristotelica delle quattro cause. San Tommaso enumera infatti: @) la necessità materiale (o ex principio intrinseco) nel senso in cui si dice che «ogni cosa composta da contrari è N. che si corrompa +; 5) la necessità formale, che è quella naturale e assoluta, secondo la quale si dice che « è N. che un triangolo abbia i tre angoli uguali a due retti »; c) la necessità finale o utilità secondo la quale si dice che il cibo è N. alla vita o un cavallo al viaggio; d) la necessità efficiente, o necessità di coazione, secondo la quale si è costretti da una causa efficiente in modo tale che non si può agire altri- menti. In tutti i casi, il N. rimane per San Tommaso NECESSARIO « ciò che non può non essere » (S. 7h., I, q. 82, a. l;j De Ver., q.22, a. 5). È immediatamente evidente che questa distinzione riproduce quella aristotelica. La necessità materiale e quella finale sono la neces- sità ipotetica di Aristotele; la necessità di coazione ha in Aristotele lo stesso nome e la necessità « natu- rale e assoluta » è, per San Tommaso come per Aristotele, il significato fondamentale della necessità. Queste distinzioni, talora indicate con altri nomi, sono rimaste le stesse per lungo tempo, nella storia della filosofia. Gli Scolastici le ripetono senza mu- tarle, come ripetono, anche quando ci credono poco, il significato fondamentale di N. come ciò che non può essere altrimenti (cfr., ad. es., Gio- VANNI DI SALISBURY, Metalogicus, II, 13). Colui al quale si deve la prevalenza del concetto di necessità in metafisica e in teologia, sia nella scolastica araba sia nella scolastica cristiana, Avicenna, era partito dalla distinzione aristotelica (Mer., V, 5, 1015 b 10, già cit.) tra ciò che è N. per sè e ciò che è N. per altro (Mer., II, 1, 2): una distinzione che è alla base della dottrina di Spinoza (Er., I, 33, scol. 1) ed è stata da allora in poi ripetuta innumerevoli volte. Le prime novità concettuali, in questa storia uniforme, sono la definizione della necessità logica e l’introduzione del concetto di necessità morale da parte di Leibniz. Leibniz distinse: a) la necessità geometrica, che è quella appartenente alle verità eterne «il cui opposto implica contraddizione +; 5) la necessità fisica, che costituisce « l’ordine della natura e consiste nelle regole del movimento e in qualche altra legge generale che è piaciuto a Dio dare alle cose creandole +; c) la necessità morale che è «la scelta del saggio, in quanto è degna della sua saggezza + cioè la scelta del « meglio » (Tliéod., Disc., $ 2). La necessità fisica è fondata sulla neces- sità morale (è stato Dio a scegliere le leggi della natura che costituiscono la necessità fisica e la sua scelta è stata dettata dal fatto che erano le migliori possibili); ed entrambe le necessità, la fisica e la morale, sono dette da Leibniz ipotetiche; esse, egli afferma, non hanno niente a che fare con la necessità assoluta, che è l'impossibilità del contrario (Nouv. Ess., II, 21, 13). Leibniz si avvale di questa distinzione per difendere la libertà di Dio e quella dell’uomo e nello stesso tempo per salvare l’infal- ‘ libilità della previsione divina: «La verità, che dice ch’io domani scriverò, non è affatto necessaria. Ma supponiamo che Dio la preveda, è N. che essa si verifichi: cioè è necessaria la conseguenza, che essa si realizzi, dal momento che è stata prevista, essendo Dio infallibile: è ciò che si chiama una necessità ipotetica » (Théod., I, $ 37; cfr. Discours de Mét., 13). La differenza tra questa dottrina di Leibniz e quella tradizionale consiste in ciò che NECESSARIO quest’ultima riconosceva come una specie di neces- sità, riconducibile al significato fondamentale del termine, quella che Leibniz considera come libertà e scelta: la necessità ipotetica. Leibniz ha, in altri termini, ristretto il significato della necessità a quello che Aristotele e la tradizione aristotelica consideravano come la necessità «primaria» o «assoluta » o «naturale» e che Leibniz chiama «geometrica » o « metafisica ». La definizione leib- niziana di questa necessità come « ciò il cui opposto è impossibile » 0 « ciò il cui opposto è contraddit- torio» serve appunto a limitare l’estensione di essa soltanto alle verità matematiche e a un ristretto numero di verità metafisiche. Questo è il risultato importante e duraturo della introduzione del con- cetto di necessità morale da parte di Leibniz. Quanto a questo concetto, dal momento che esclude la necessità ed è la stessa definizione della deter- minazione libera, ciò che gli si può obbiettare è l’improprietà del nome: esso non è per nulla « necessità ». Tuttavia proprio come tipo o specie di necessità, esso entrò nella filosofia del ’700, insieme con la distinzione delle forme del necessario proposta da Leibniz. Wolff rielaborava infatti questa distin- zione e a sua volta distingueva: a) l’assolutamente necessario, che è « ciò il cui opposto è impossibile o implica contraddizione » (On., $ 279); 5) l’ipo- teticamente N. che è «ciò il cui opposto implica contraddizione o è impossibile soltanto in un'ipotesi data o sotto una determinata condizione» (Onf., $ 302); c) il moralmente N., che è « ciò il cui opposto è moralmente impossibile » (Phil. practica, I, $ 115). La differenza tra l’assolutamente N. e l’ipotetica- mente N. consiste in questo: il primo esclude la contingenza e il secondo no (/bid., $ 317-18). A differenza di Leibniz, Wolff tuttavia non riduce la necessità ipotetica alla necessità morale, cioè alla libertà, ma la identifica con quella retta dal principio di ragion sufficiente cioè con la causalità (Ibid., $ 320 sgg.). Wolff stesso afferma che questa sua dottrina della necessità è identica con quella tradizionale e in particolare con quella di San Tom- maso (/bid., $ 327), cioè con la definizione del N. come ciò che non può essere altrimenti; ed essa certamente lo è, salvo che per il riconoscimento della necessità morale. Questa dottrina viene sem- plicemente riprodotta da Kant, che anch’egli distingue «la necessità materiale  nell’esistenza » che consiste nella connessione causale, dalla necessità «formale e logica nella connessione dei concetti » (Crit. R. Pura, Anal., II, cap. II, sez. 3, Postulati del pensiero empirico); e distingue ancora da queste due specie di necessità, la «necessità morale», come costrizione o obbligo, che è il dovere (Crir. R. Prat., I, Libro I, cap. III; trad. ital., pag. 96). 613 La necessità materiale è la necessità reale o ipotetica. Dice Kant: « Tutto ciò che accade è ipoteticamente necessario; ecco un principio che subordina il mutamento nel mondo ad una legge cioè a una regola dell’esistenza necessaria senza la quale la natura non vi sarebbe» (Crit. R. Pura; l. c.). E in realtà la connessione causale rimane per Kant «ipotetica » perchè Kant la considera aperta dai due lati e non ritiene legittimo considerarla chiusa a formare una totalità o serie assoluta. Ovvia- mente, se ciò avvenisse, la necessità ipotetica diverrebbe necessità assoluta o geometrica. A sua volta Schopenhauer riteneva che la necessità non avesse altro senso tranne che la « inevitabilità del- l’effetto quando la causa è stata posta » e riteneva perfino contraddittorio parlare di un essere « asso- lutamente necessario » cioè necessario senza con- dizioni (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, $ 49). Ma con l’idealismo ro- mantico, proprio la necessità assoluta divenne la protagonista della filosofia. Fichte affermava: « Qual- siasi cosa realmente esiste, esiste per assoluta ne- cessità; ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste. È impossibile che non esista 0 che esista altrimenti da come è » (Grundzilge des gegen- wdrtigen Zeitalters, 9). Assoluto voleva pure essere il significato della necessità che Hegel difiniva come «unità di possibilità e realtà»: definizione che esprime la presenza della totalità delle condizioni in ogni momento del reale e quindi della piena e assoluta necessità del reale stesso. « Quando si hanno tutte le condizioni, dice Hegel, la cosa deve diventare reale » (Enc., $ 147). «Il N. è mediato per mezzo di un circolo di circostanze: è così, perchè le circo- stanze sono così ed insieme è così immediato, è così perchè è » (/bid., $ 149). In tal modo la ne- cessità diventa l’anima della realtà, la dialestica (v.) propria della Ragione reale o della Realtà razionale. Questa estensione all’infinito della necessità non innova, come è ovvio, le caratteristiche del con- cetto, che rimane quello definito da Aristotele; come non innova tali caratteristiche l’uso che del concetto fa il filosofo contemporaneo che più ha insistito sulla necessità del reale, nei suoi vari gradi e forme: Nicolai Hartmann (cfr. special- mente Mbglichkeit und Wirklichkeit, 1938): (v. Pos- SIBILE). Possiamo ora dare uno sguardo alla sorte che è toccata, nella filosofia contemporanea, alle tre forme del N. che sono comunemente ammesse da Wolff in poi, dando atto che nessuna innovazione è stata portata al concetto stesso del N.: 1° il moralmente N., cioè l’obbligatorio o il doveroso, per quanto talvolta si continui a chia- marlo tale, non può essere incluso nelle forme del necessario; 614 2° l’ipoteticamente N., identificandosi con il causale (v.) o il condizionale (v.), condivide la sorte di questi concetti; 3° l’assolutamente N., il N. « geometrico » o «logico » è quello al quale si fa più frequente riferi- mento nel dominio del sapere filosofico e scientifico. « C'è soltanto una necessità logica, dice Wittgenstein e così c’è soltanto una impossibilità logica » (Tract. Logico-Philosophicus, 6.375). Quasi tutti i logici contemporanei sottoscrivono o implicitamente ammettono, questa tesi di Witt- genstein. Non c’è accordo tra essi, tuttavia, sulla definizione della necessità logica; Le principali dottrine in proposito sono: a) la dottrina dell’anali- ticità; b) la dottrina della regola; c) la dottrina dell’immunità; d) la dottrina della qualità. a) La prima dottrina è l’erede della definizione leibniziana della necessità logica come « impossibilità del contrario ». Peirce diceva che il /ogicamente o essenzialmente N. è ciò che una persona che non conosce i fatti ma è perfettamente a giorno delle regole del ragionamento e delle parole implicite nel ragionamento stesso, sa che è vero. Una tale persona ad es. non sa se c'è o no un animale detto basilisco 0 se vi sono cose come serpenti, galline e uova; però sa che ogni basilisco è nato da un uovo di gallina covato da un serpente. « Questo è essen- zialmente N. perchè è ciò che la parola basilisco significa » (Coll. Pap., 4.67). Lewis a sua volta ha detto che «un’asserzione è logicamente necessaria se, e solo se, il contraddittorio di essa è incompatibile con se stesso » (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 89) che è nient'altro che una riformula- zione della definizione di Leibniz. Strawson nello stesso senso ha detto « un'asserzione è necessaria quando è la contraddittoria di un’asserzione incon- sistente » (Intr. to Logical Theory, 1952, pag. 22). Carnap, osservando che il concetto di necessità logica è comunemente inteso nel senso che si applica a una proposizione p «se e solo se la verità di p è fondata su ragioni puramente logiche e non di- pendente dalla contingenza dei fatti; o in altre parole se l’assunzione di non-p condurrebbe a una contraddizione logica, indipendentemente dai fatti » ha identificato la necessità logica con la verità logica; e ha definito la verità logica, sulle orme di Leibniz, come quella che è valida in tutti i possibili mondi, o, nella sua terminologia, è valida in qualsiasi descrizione di stato di un sistema. La sua definizione della descrizione di stato rende chiaro questo con- cetto: « Una classe di enunciati in .S,, che contiene per ogni enunciato atomico o questo enunciato o la sua negazione ma non entrambe le cose, e nessun altro enunciato, è chiamato una descrizione di stato in S,; perchè esso ovviamente dà la completa descrizione di un possibile stato dell’universo degli NECESSARIO individui rispetto a tutte le proprietà e relazioni espresse dai predicati del sistema. Così le descrizioni di stato rappresentano i mondi possibili di Leibniz o i possibili stati di cose di Wittgenstein » (Meaning and Necessity, $ 2, $ 39). Questa è l’espressione più rigorosa che la tesi della riduzione della necessità ad analiticità abbia mai ricevuto. Essa tuttavia non è andata esente da critiche (cfr., ad es., QUINE, From a Logical Point of View, II; A. Pap, Semantics and Necessary Truth, pag. 150 sgg.). b) La seconda interpretazione della necessità logica è quella che riduce gli enunciati a cui tale necessità si applica a semplici regole: o regole di trasformazione o, più semplicemente, regole lingui- stiche. La dottrina che le «verità necessarie » della matematica, per es. la famosa proposizione di cui Kant parlava «7 + 5= 12», siano nient’altro che regole di trasformazione cioè regole che permet- tono l’inferenza da una formula all’altra e consen- tano pertanto la sostituibilità reciproca delle for- mule, fu già esposta dal Circolo di Vienna e specialmente da Schlick e ritorna frequentemente nella letteratura contemporanea (cfr., ad es., K. BRITTON, in Proceedings of the Aristotelian So- clety, 21°, 1947). Come pure ritorna in essa la dottrina che le proposizioni analitiche (o tauto- logie) che costituiscono le « verità necessarie » della logica non sono altro che regole linguistiche o più precisamente regole semantiche. Difatti l’enunciato «tutti gli scapoli sono non sposati » può essere in- terpretata come una regola per l’uso della parola « scapolo +, e una regola ricavata a sua volta dal- l’uso. L’obiezione addotta talvolta contro queste dottrine che esse toglierebbero alla verità N. il rango di « proposizioni +, perchè una proposizione è sempre o vera o falsa mentre una regola non lo è, ma è piuttosto utile, conveniente, corretta, ecc. (cfr., ad es., Pap, Op. cit., pag. 179 sgg.) non è molto concludente perchè dimostra soltanto l’in- compatibilità tra questa interpretazione della ve- rità N. e il concetto tradizionale di proposizione. c) La terza interpretazione della necessità lo- gica è quella data da Quine, secondo la quale essa sarebbe l’immunità accordata a certe propo- sizioni nella matematica e nella logica in quanto, per il carattere centrale che occupano nel sistema, la loro revisione disturberebbe enormemente il si- stema stesso, che invece tendiamo, per quanto è possibile, a conservare nei tratti fondamentali. Da questo punto di vista N. significherebbe non «ciò che non può essere altrimenti » ma piuttosto « ciò di cui non si vuol fare a meno», non perchè sia impossibile farne a meno, ma perchè è preferibile. Questa interpretazione è fondata sul rigetto della distinzione tra verità analitiche (o di ragione) e verità sintetiche (o di fatto) sulla quale si fondano NECESSITARISMO invece le interpretazioni di cui in a) (QuINE, Methods of Logic, pag. XIII; From a Logical Point of View, II e VIII. Questa interpretazione equivale ovviamente alla eliminazione del concetto stesso di necessità. d) La quarta interpretazione è quella che la considera come una proprietà intrinseca delle pro- posizioni, considerate come oggetti, nel senso di Carnap: e precisamente una proprietà che le pro- posizioni posseggono antecedentemente alla formu- lazione delle convenzioni linguistiche. Da questo punto di vista «spiegare la necessità dei princìpi tradizionali dell’inferenza deduttiva in termini di convenzioni linguistiche significa porre il carro da- vanti ai buoi». Questa è la tesi di A. Pap (Semantics and Necessary Truth, spec. cap. 7; cfr. anche « Ne- cessary Propositions and Linguistics Rules», in Ar- chivio di Filosofia, 1955, pag. 63-105). In questa dottrina la necessità logica non si distingue da una qualitas occulta. Di queste quattro interpretazioni la sola che non equivale alla negazione della necessità stessa è la prima, che identifica la necessità con l’analiticità o tautologicità. Si tratta di un’interpretazione che è collegata strettamente con il concetto che Witt- genstein espose della tautologia: « Tra i possibili gruppi di condizioni di verità si dànno due casi estremi. In uno, la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari; e noi diciamo in questo caso che le condizioni di verità sono tautologiche. Nell’altro caso la propo- sizione è falsa per tutte le possibilità di verità: le condizioni di verità sono contraddittorie » (Tractatus, 4.46). Per conseguenza «la tautologia non ha con- dizione di verità perchè è incondizionatamente vera; e la contraddizione a nessuna condizione è vera » (Ibid., 4.461). Questo equivale a dire che un’affer- mazione incondizionatamente vera cioè una tauto- logia o una proposizione N. o comunque la si voglia chiamare, è quella che esaurisce il rango delle possibilità. Questo è pure il significato della dottrina di Carnap della verità logica come « de- scrizione di stato» cioè come verità valida per tutti i mondi possibili o per tutti i possibili stati di cose. Da questo punto di vista c’è necessità dove è possibile enumerare tutte le possibilità; e necessità equivale, praticamente, a onnipossibilità. Questa d’altronde non è dottrina recente. Ockham, nel sec. xIv riteneva N. soltanto le proposizioni condizionali o equivalenti o quelle intorno al pos- sibile come, ad es., «Se c’è l’uomo, l’uomo è animale ragionevole» o «Ogni uomo può essere

animale ragionevole » (Quodl., V, q. 15). Poichè solo convenzioni linguistiche d’altra natura pos- sono limitare opportunamente il rango di possibilità cui una proposizione fa riferimento, è abbastanza 615 chiaro che questo concetto di necessità è intera- mente riducibile a convenzione. NECESSITARISMO (ingl. Necessitarianism; franc. Nécessitarisme). Questo termine, assai poco usato in italiano ma che ha in inglese una lunga tradizione, è molto utile per indicare l’insieme delle dottrine che, in un modo qualsiasi dànno un posto eminente al concetto del necessario o si avvalgono sistematicamente di esso. Possono essere enumerate almeno tre dottrine fondamentali di questo genere: 18 La dottrina che ammette il destino cioè l’ordine finalistico o provvidenziale del mondo; cioè un ordine che determina necessariamente ogni cosa e ad ogni cosa garantisce la riuscita migliore. Questa dottrina può chiamarsi provvidenzialismo o fatalismo; ma quest’ultimo nome è adoperato solo da coloro che la combattono o almeno che ne combattono alcuni aspetti (v. DESTINO; FATO; ProvviIDENZA). Il significato di necessario cui tale dottrina fa riferimento è quello a) di Aristotele e c) di S. Tommaso. 2* La dottrina che l’ordine del mondo con- siste nella connessione causale universale; dottrina che fa riferimento al necessario nel significato a) di

Aristotele, d) di S. Tommaso, 5) di Leibniz, di Wolff e di Kant. Questa dottrina è il determinismo rigoroso o classico, che meglio si dovrebbe chia- mare causalismo (v. CAUSALITÀ; DETERMINISMO). 3» La dottrina che la necessità costituisce il significato primario e fondamentale dell’essere; e che si avvale di esso come criterio per la valuta- zione e l’analisi di tutte le cose esistenti. Questo significato di N. è certamente il più importante e fondamentale, quello al quale il termine dovrebbe di preferenza essere riferito. Il necessario è, per tale dottrina, la categoria fondamentale; l’orizzonte generale che abbraccia tutti gli strumenti di inda- gine e di spiegazione di cui è possibile servirsi. Molto spesso tale dottrina non ammette la necessità nel senso delle dottrine 1* o 2: Aristotele e S. Tommaso, ad es., che possono essere conside- rati come esempi molto importanti di questa dot- trina, pur ammettendo la necessità del destino non ammettono la necessità causale assoluta; tuttavia sono necessitaristi nel senso che per essi il significato fondamentale dell’essere è la necessità e che tale significato è presente nella costruzione di tutti i concetti fondamentali della loro filosofia. Nello stesso senso è necessitaristica la dottrina di Hegel e sono necessitaristiche tutte le dottrine che si ispirano all’idealismo romantico. Ma l’attrezzatura concettuale del N. è diffusa molto al di là di questa o quella dottrina: concetti comé quelli di causa e di sostanza, con tutte le loro derivazioni, che sono mumerosissime, dominano ancora vaste zone del discorso comune, scientifico e filosofico; e intro- 616 ducono il loro senso necessitaristico nelle analisi della scienza e della filosofia. NEGATIVO (gr. aroparéc; lat. Negativus; ingl. Negative; franc. Négatif; ted. Negativ). Ciò che effettua o implica una negazione, cioè una esclusione di possibilità. Un’entità N., per es., una proposizione, non implica che sussista l’entità po- sitiva corrispondente alla quale poi venga ag- giunta la negazione, ma è semplicemente l’esclu- sione di una possibilità; e, il più delle volte, di una possibilità formulata soltanto allo scopo di escluderla. I molteplici usi del termine si lasciano ricondurre a questo significato fondamentale. « Risultato N. + di un esperimento significa l’esclusione di una certa possibilità di interpretazione o di spiegazione. «Effetto N.» di una certa operazione significa l'esclusione di ciò che ci si aspettava come pos- sibile dall’operazione stessa. « Atteggiamento N.» nei confronti di una dottrina o di una cosa qual- siasi è l’atteggiamento che esclude la possibilità che la dottrina sia vera o che la cosa abbia un valore qualsiasi; ecc. NEGAZIONE (gr. &répaor; lat. Negatio; in- glese Negation; franc. Négation; ted. Verneinung, Negation). Termine col quale si può designare tanto l’atto del negare, quanto il contenuto ne- gato, ossia la proposizione negativa, detta in greco &népao (lat. negario: Boezio) e definita come «enunciato che divide qualcosa da qualcosa » (De Interpr., 17 a 26), in quanto, secondo la medesima dottrina aristotelica, essa separa o allontana due concetti. Sostanzialmente la tradizione logica suc- cessiva ha conservato questa dottrina e quindi questo significato del termine N.: soltanto i se- guaci della teoria del giudizio come assenso (Ro- smini, Fr. Brentano, Husserl) considerano la N. come atto di diniego (rifiuto, ripudio, Verneinung) di una rappresentazione o idea. Nella Logica sim- bolica contemporanea la N. è rappresentata da un simbolo speciale (€ — +) che premesso al simbolo di una proposizione « p + trasforma questa o nell'affer- mazione che «p» è falsa (Russell) o in una nuova proposizione (molecolare), funzione di verità di « p », e precisamente (nella Logica a due valori) nella proposizione che è falsa quando «p + è vera e vera quando « p + è falsa (Wittgenstein, Carnap). G.P. NEOCRITICISMO (ingl. Neo-Criticism; fran- cese Néocriticisme; ted. Neukantianismus). Il mo- vimento del « ritorno a Kant » iniziatosi in Germania verso la metà del secolo scorso e che ha dato ori- gine ad alcune tra le più importanti manifestazioni della filosofia contemporanea. I tratti comuni di tutte le correnti del N. sono i seguenti: 1° la negazione della metafisica e la riduzione della filo- sofia a riflessione sulla scienza, cioè a teoria della NEGATIVO conoscenza; 2° la distinzione tra l’aspetto psicolo- gico e l’aspetto logico-oggettivo della conoscenza, distinzione in virtù della quale la validità di una conoscenza è completamente indipendente dal modo in cui essa viene psicologicamente acquisita o con- servata; 3° il tentativo di risalire dalle strutture della scienza, sia di quella della natura sia quella dello spirito, alle strutture del soggetto che la renderebbero possibile. In Germania, costituirono la corrente neo- criticista: 1° la Scuola di Marburgo (Marburger Schule) alla quale hanno appartenuto F. A. Lange, H. Cohen, P. Natorp, E. Cassirer, e alla quale si riconnette, in parte, anche Nicolai Hartmann; 2° la Scuola del Baden (Badische Schule), che fu fondata da W. Windelband e H. Rickert; 3° lo storicismo tedesco con G. Simmel, G. Dilthey, E. Troeltsch, ecc. Quest’ultimo indirizzo formulò il problema della storia analogamente al modo in cui le altre scuole kantiane formulavano il problema della scienza na- turale (v. SToRICISMO). Fuori della Germania, si connettono all’indirizzo neocritico C. Renouvier e L. Brunschvicg, in Francia; e S. H. Hodgson e R. Adamson, in Inghilterra; Banfi in Italia. NEOHEGELISMO (ingl. Neo-Hegelianism; franc. Néo-Hégélianisme; ted. Neuhegelianismus). Il ritorno all’idealismo romantico che si è verificato in Inghilterra, in Italia e in America negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro secolo. Il N., come l’idealismo romantico di cui è una diretta filiazione, ha come sua tesi fonda- mentale l’identità del finito e dell’infinito cioè la riduzione dell’uomo e del mondo dell’esperienza umana all’Assoluto. H necidealismo anglo-ameri- cano e il neocidealismo italiano si distinguono tra loro per il modo in cui effettuano questa riduzione. L’idealismo anglo-americano l’effettua per via ne- gativa, mostrando che il finito, per la sua intrinseca irrazionalità, non è reale o è reale solo nella mi- sura in cui rivela e manifesta l’infinito. L’idealismo italiano la effettua per via positiva, mostrando nella struttura stessa del finito, nella sua intrinseca e necessaria razionalità, la presenza e la realtà del- l'infinito. Questa era stata anche la via tenuta da Hegel e da tutto l’idealismo romantico. Alla corrente inglese appartengono G. H. Stirling, T. H. Green, B. Bosanquet, J. E. McTaggart; e specialmente F. H. Bradley, che è il maggiore rappresentante di essa. In America la maggiore figura del N. è stata J. Royce. Dell'idealismo italiano i maggiori fappresentanti sono stati G. Gentile e B. Croce. Su tutti, v. IDEALISMO. NEOIDEALISMO. V. NEOHEGELISMO. NEOKANTISMO. V. NEOCRITICISMO. NEOPITAGORISMO (ingl. Neo-Pyrhago- reanism; franc. Néo-pythagorisme; ted. Neupythago- NEOREALISMO reismus). La reviviscenza della filosofia pitagorica che si manifestò nel I secolo a. C. sia con la com- parsa di scritti pitagorici di falsa attribuzione (Derti Aurei, Simboli, Lettere, attribuiti a Pitagora), e di altri scritti attribuiti al lucano Ocello e ad Ermete Trismegisto sia con una fioritura di filosofi che dichiaravano di ispirarsi alle dottrine del pitago- rismo antico. Fra essi: Nigidio Figulo, Apollonio di Tiana, Nicomaco di Gerasa e soprattutto Numenio di Apamea (1 sec. d. C.). Le dottrine di questi scrit- tori non hanno nulla di originale ma presentano tratti che divennero propri del neoplatonismo (v.). NEOPLATONISMO (ingl. Neo-Platonism; franc. Néo-platonisme; ted. Neuplatonismus). La scuola filosofica fondata in Alessandria da Am- monio Sacca nel 1 secolo d. C. e che ha come suoi maggiori rappresentanti Plotino, Giamblico e Proclo. Il N. è una scolastica: è cioè l’utilizzazione della filosofia platonica (filtrata attraverso il neo- pitagorismo, il platonismo medio e Filone) per la difesa di verità religiose cioè di verità che si rite- nevano rivelate all’uomo ab antiquo e da lui ri- scopribili nell'intimità della coscienza. I capisaldi del N. sono i seguenti: 1° il carattere rivelativo della verità, che perciò è di natura religiosa e si manifesta nelle istituzioni religiose esistenti e nella riflessione dell’uomo su se stesso; 2° il carattere assoluto della trascendenza di- vina, per il quale Dio, considerato come il Bene, è posto al di là di ogni determinazione conoscibile e ritenuto ineffabile; 3° la teoria dell’emanazione cioè della deriva- zione necessaria da Dio di tutte le cose esistenti, che diventano sempre meno perfette a misura che si allontanano da Lui; e la conseguente distinzione tra il mondo intelligibile (Dio, Intelletto e Anima del mondo) e il mondo sensibile (o materiale) che è un’immagine o parvenza dell’altro; 4° il ritorno del mondo a Dio attraverso l’uomo e la sua progressiva interiorizzazione, sino al punto dell’estasi cioè dell’unione con Dio. Nel N. si sogliono distinguere: la Scuola Siriaca fondata da Giamblico; la Scuola di Pergamo alla quale appartenne fra gli altri l’imperatore Giuliano detto l’Apostata; e la Scuola di Atene il cui maggiore rappresentante fu Proclo. Ma le dottrine fonda- mentali del N. hanno avuto, e continuano ad avere, un’influenza profonda su molti indirizzi del pen- siero filosofico. Il «platonismo » del Rinascimento è in realtà un N. che ripete, con alcune variazioni, le tesi su esposte. Le variazioni che caratterizzano il N. ri- nascimentale (quello di Cusano, Pico e Ficino) sono relative alla maggiore importanza attribuita all’uomo e alla sua funzione nel mondo, conformemente a 617 quello che è lo spirito generale del Rinasci- mento (v.). Una forma di razionalismo religioso è invece il N. inglese che fiorì nella scuola di Cambridge nel sec. xv (Cudworth, Moore, Whichcote, Smith, Culverwel); che da un lato si oppone al materia- lismo di Hobbes e dall’altro sostiene che le idee fondamentali della religione sono state stampate direttamente da Dio nella ragione e nell’intelletto dell’uomo e perciò precedono la conoscenza empi- rica delle cose naturali. Ma anche nel N. inglese ritornano molti temi del N. rinascimentale, special- mente di Ficino. NEOPOSITIVISMO (ingl. Neo-Positivism; franc. Néo-positivisme; ted. Neupositivismus). 1. Lo stesso che empirismo logico (v.). 2. Così talora è stato chiamato il bergsonismo (Le Roy, Un positivisme nouveau, 1901). NEOREALISMO (ingl. New Realism; fran- cese Néo-realisme; ted. Neurealismus). Con questo termine si designano le correnti del pensiero con- temporaneo che assumono come loro insegna la negazione dell’idealismo gnoseologico (v.) cioè la negazione della riduzione dell’oggetto della cono- scenza a un modo d’essere del soggetto. L’idealismo gnoseologico è stato il clima dominante della filo- sofia dell’800: giacchè esso era partecipato non solo dall'idealismo romantico ma anche dallo spi- ritualismo, dal neocriticismo e in generale da tutte le filosofie coscienzialistiche. Eccezioni a questa tendenza generale furono dapprima la filosofia dell’immanenza di G. Schuppe e l’opera di Osvaldo Kiilpe (Einleitung in die Philosophie, 1895). Ma una nuova storia cominciò per il realismo soltanto a partire dal saggio di G. E. Moore, «La confuta- zione dell’idealismo » pubblicato nel Mind del 1903. In seguito difendevano il realismo in Inghilterra B. Russell e S. Alexander; mentre in America un volume collettivo del 1912 intitolato appunto Il nuovo realismo affermava le tesi di un realismo aggiornato, tesi che sotto altra forma venivano riproposte alcuni anni dopo nei Saggi di realismo critico (1920) pubblicati da un altro gruppo di filosofi americani. Nel primo gruppo la figura più nota fu quella di W. P. Montague; nel secondo gruppo quella di G. Santayana. Più tardi il nuovo realismo ha trovato sostenitori in A. N. Whitehead e in N. Hartmann. Il nuovo realismo presenta nel suo interno tanti indirizzi dottrinali diversi quanti sono i filosofi che lo professano; ma si fonda tuttavia su una tesi fondamentale comune che costituisce la sua novità e il suo punto di distacco dal realismo tradizionale nonchè la sua linea di difesa contro l’idealismo. Questa tesi è la seguente: il rapporto conoscitivo (cioè il rapporto nel quale l’oggetto della cono- 618 scenza entra col soggetto, cioè con la mente che lo apprende) non modifica la natura dell’oggetto stesso. Questa tesi si ispira alla nozione matematica della «relazione esterna» cioè della relazione che non modifica i termini relativi. Essa, come è ovvio, elimina del tutto la dipendenza esistenziale o qua- litativa dell'oggetto della conoscenza dal soggetto e rende privo di senso l’idealismo. Lontanissimi come sono tra loro, sotto tutti gli altri rispetti, Moore, Montague, Santayana, Alexander, Hart- mann, condividono questa tesi. NEOTOMISMO (ingl. Neo-Thomism; francese Néo-thomisme; ted. Neuthomismus). Con questo termine o con quello assai meno appropriato di « neoscolastica » s'intende quel movimento di ri- torno alla dottrina di S. Tommaso, nel seno della cultura cattolica, che fu iniziato dall’enciclica Ae- terni Patris di Leone XIII (4 agosto 1879). Questo movimento consiste nella difesa polemica delle tesi filosofiche tomistiche contro i diversi indirizzi della filosofia contemporanea e, indirettamente, nella rielaborazione e nel rammodernamento di tali tesi. Una delle prime figure del N. fu quella del cardinale belga Desiderato Mercier (morto nel 1925); mentre tra le figure più note del mondo contemporaneo ci sono quelle di E. Gilson e di J. Maritain. Abitualmente il tomismo accetta la problematica della filosofia contemporanea ma cerca di ricon- durre tale problematica alla sistematica tomistica. Uno degli effetti più importanti della fioritura neotomista è la rinnovata importanza che hanno assunto, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, gli studi di filosofia medievale cioè della scolastica classica. NEOVITALISMO. V. ViraLISMO. NESSO (lat. Nexus; ingl. Bond; franc. Con- nexion; ted. Zusammenhang). La connessione delle cose tra di loro o nell’ordine causale o nell’ordine finale: Kant chiama il primo nexus effectivus, il secondo nexus finalis (Crit. del Giud., $ 87). White- head ha chiamato con questo termine (nexus) le connessioni reali tra le cose, da lui conside- rate come elementi ultimi della realtà insieme alle cose stesse e alle percezioni (Process and Reality, 1929). NESTORIANISMO (ingl. Nestorianism; fran- cese Nestorianisme; ted. Nestorianismus). La dot- trina di Nestorio, patriarca di Costantinopoli (428- 431) secondo la quale, essendoci in Cristo due nature, ci sono anche due persone, di cui l’una abita nell’altra come in un tempio. Nestorio negava pure che Maria fosse madre di Dio e diceva favola pagana l’idea di un Dio ravvolto in fasce e crocifisso. Questa interpretazione del- l'incarnazione era stata già sostenuta da Diodoro di Tarso (morto verso il 394) e dal suo discepolo NEOTOMISMO Teodoro di Mopsuestia (morto verso il 428). Essa fu condannata dal concilio di Efeso del 431 ma continuò per lungo tempo a sopravvivere, e tut- tora sopravvive presso gruppi della Turchia asiatica e della Persia. NEUTRALISMO (ingl. Neutralism). Termine adoperato da Peirce come sinonimo di monismo (Chance, Love and Logic, II, 1; trad. ital., pa- gina 121) (v. MonISMO). NEUTRALIZZAZIONE (ted. Neutralisie- rung). Con questo termine Husserl ha indicato la sospensione della credenza per la quale «quello che è esistente o possibile o verosimile o discutibile, come pure il non-esistente, in qualsiasi negazione o affermazione, sono presenti alla coscienza ma non nella maniera del reale bensì come ‘ mero pen- sato * o ‘mero pensiero * » (Ideen, I, $ 109) (vedi EPOCHÉ). NEUTRO, MONISMO (ingl. Neutral Mo- nism). Con questa espressione viene talvolta in- dicata in America la tesi del neorealismo se- condo la quale le entità che entrano a comporre lo spirito e la materia non sono nè mentali nè materiali, ma acquistano tali qualifiche in virtù delle relazioni in cui entrano. In realtà questo punto di vista è stato per la prima volta sostenuto dall’empirio-criticismo (v.) di Avenarius e da Mach. NEWTONISMO (ingl. Newronianism; fran- cese Newtonianisme; ted. Newtonianismus). Con questo termine è stato indicato soprattutto la dot- trina di Newton della gravitazione universale. Cioè la generalizzazione delle leggi della gravitazione a tutto l’universo e la formulazione di queste leggi mediante l’unica formula: i corpi si attraggono proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione inversa del quadrato delle distanze. Questa legge fu enunciata da Newton per la prima volta nel Propositiones de motu del 1684, e poi nei Principi matematici di filosofia naturale del 1687. NICHILISMO (ingl. Nihilism; franc. Nihi- lisme; ted. Nihilismus). Termine usato più spesso con intento polemico, per indicare dottrine che si rifiutano di riconoscere realtà o valori la cui am- missione si ritiene importante. Così Hamilton usò il termine per qualificare la dottrina di Hume che nega la realtà sostanziale (Lecsures on Metaphysics, I, pag. 293-94); e in questo caso la parola non vuol dire più che fenomenismo. In altri casi essa viene adoperata per indicare gli atteggiamenti di coloro che negano determinati valori morali o politici. Soltanto Nietzsche fece un uso non polemico del termine, servendosi di esso per qualificare la sua opposizione radicale ai valori morali tradizionali e alle tradizionali credenze metafisiche. «Il N., egli disse, non è soltanto un insieme di considera- zioni sul tema: ‘Tutto è vano’; non è solo la NOLONTÀ credenza che tutto merita di morire, ma consiste nel mettere la mano in pasta, nel distruggere... È lo stato degli spiriti forti e delle volontà forti cui non è possibile attenersi a un giudizio negativo: la negazione attiva risponde meglio alla loro natura profonda + (Wille zur Macht, ed. Kròner, XV, $ 24). NIENTE. V. NULLA. NIRVANA. L’estinzione delle passioni e del desiderio di vivere, quindi della catena delle nascite, nella dottrina buddistica. « Quest’isola incompara- bile in cui ogni cosa sparisce ed ogni attaccamento cessa, io la chiamo N., distruzione della vecchiaia e della morte» (Surtanipdta, V, 11). Nella filosofia occidentale Schopenhauer ha fatto propria questa nozione, vedendo in essa la negazione della volontà di vivere, la cui esigenza scaturisce dalla conoscenza della natura dolorosa e tragica della vita (Die Welt, I, $ 71; II, cap. 41). NODALE, LINEA (ted. Knotenlinie). Così Hegel chiamò il passaggio dalla quantità alla qua- lità avvenuto per mutamento della quantità stessa (per es., quando il mutamento della quantità di calore nell’acqua produce il passaggio dell’acqua stessa dallo stato liquido al solido o all’aeriforme (Wissenschaft der Logik, I, sez. III, cap. II, B; trad. ital., I, pa- gina 444 sgg.). Questo concetto ha avuto più fortuna fuori dello hegelismo che nell’hegelismo. Kierkegaard ne trasse il suo concetto del salto (v.). Engels fece del passaggio dalla quantità alla qualità una delle leggi fondamentali della dialettica (Dialektik der Natur; trad. ital., pag. 57) (v. DIALETTICA; SALTO). NOEMA (ted. Noema). Nella terminologia di Husserl, l’aspetto oggettivo dell’esperienza vissuta: cioè l’oggetto, considerato dalla riflessione nei suoi vari modi d’essere daro (ad es., il percepito, il ricordato, l’immaginato). Il N. è distinto dall’og- getto stesso, che è la cosa: per es., l’oggetto della percezione dell’albero è l’albero, ma il N. di questa percezione è il complesso dei predicati e dei modi d’essere dati all’esperienza, per es., l'albero verde, illuminato, non illuminato, percepito, ricordato, ecc. (Ideen, I, $ 88). L'aggettivo corrispondente è Noe- matico. NOESI (ted. Noesis). Nella terminologia di Husserl, l’aspetto soggettivo dell’esperienza vis- suta, costituito da tutti gli atti di comprensione che mirano ad afferrare l’oggetto, come il perce- pire, il ricordare, l’immaginare, ecc. (/deen, I, $ 92). L'aggettivo corrispondente è Noetico. NOETICA (ingl. Noetic; franc. Noétique; te- desco Noétik). Così Hamilton chiamò la parte della logica che studia «le leggi fondamentali del pensiero » cioè i quattro princìpi di Identità, Con- traddizione, Terzo escluso e Ragion sufficiente (Lectures on Logic, V, I, pag. 72). Quest’uso è stato seguito da pochi altri autori. 619 NOIA (ingl. Boredom; franc. Ennui; ted. Lang- weile). Moralisti e filosofi hanno talora insistito sul carattere cosmico o radicale di questo sentimento. « Senza il divertimento, diceva Pascal, noi saremmo nella N. e la N. ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci diletta e così ci fa arrivare inavvertitamente alla morte» (Pensées, 171). Schopenhauer osservava che « non appena miseria e dolore concedono all’uomo una tregua, la N. è subito tanto vicina che egli per necessità ha bisogno di un passatempo »; e vedeva perciò la vita continuamente oscillare tra il dolore e la N. (Die Welt, I, $ 57). Più profonda- mente e anticipando l’esistenzialismo, Leopardi vedeva nella N. l’esperienza della nullità di tutto ciò che è: «Or che cos'è la N.?» si chiedeva. « Niun male nè dolore particolare (anzi l’idea e la natura della N. esclude la presenza di qualsiasi particolar male o dolore) ma la semplice vita pie- namente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo » (Zibaldone, VI, pag. 421). Heidegger ha ripetuto queste nota- zioni, scorgendo nella N. il sentimento che rivela la totalità delle cose esistenti, nella loro indiffe- renza. «La vera N., egli ha detto, non è quella che ci viene da un libro o da uno spettacolo o da un divertimento che ci annoiano, ma quella che ci invade quando ‘ci si annoia’: la N. profonda che, come nebbia silenziosa, si raccoglie negli abissi del nostro esserci, accomuna uomini e cose, noi stessi con tutto ciò che è intorno a noi, in una singolare indifferenza. È questa la N. che rivela l’esistente nella sua totalità » (Was ist Metaphysik? 58 ediz., 1949, pag. 28). La N. in questo senso è molto vicina alla nausea (v.) di cui parla Sartre e che è anch’essa l’esperienza dell’indifferenza delle cose nella loro totalità. Il precedente di essa può forse essere scorto nella malinconia (Sckhwermut) che secondo Kierkegaard è lo sbocco inevitabile della vita estetica. « Se si domanda a un malinconico quale ragione abbia per essere così e che cosa gli pesi, risponderà che non lo sa, che non lo può spiegare. In questo consiste l’infinità della malin- conia » (Entweder-Oder, in Werke, II, pag. 171). In questo senso la malinconia è l’accidia medievale (Ibid., II, 168) ed è considerata da Kierkegaard come «l’isterismo dello spirito» nonchè come il peccato fondamentale in quanto «è peccato non volere profondamente e sentitamente» (/bid., pa- gina 171). NOLONTA (lat. Noluntas; ingl. Nolition; fran- cese Nolonté; ted. Nolitio). Il non volere o rifuggire. Il termine è rarissimo, in tutte le lingue. Secondo S. Tommaso, «il desiderio del bene si chiama volontà in quanto è il nome dell’atto di volontà; ma la fuga dal male si dice piuttosto nolontà. 620 Sicchè come la volontà è del bene, così la N. è del male» (S. 7h., II, 1, q. 8, a. 1). Nello stesso senso il termine ricorre in Wolff (Phil. practica, I, $ 38). È chiaro che in questo senso la N. è vo- lontà positiva, come la cosiddetta volontà. Altri autori invece l’hanno intesa nel senso di volontà inibita o assenza di volontà (RENOUVIER e PRAT, Monadologie, pag. 231). Questo secondo senso è decisamente improprio. NOME (gr. évoua; lat. Nomen; ingl. Name; franc. Nom; ted. Name). La parola o il simbolo che denota un oggetto qualsiasi. I problemi che il N. fa sorgere come parola o simbolo, per es. quello della sua origine o della sua validità, si trovano discussi nella voce linguaggio (v.). Qui occorre soltanto richiamare le determinazioni specifiche che i logici hanno dato al concetto di N. Quando Platone definisce il N. come «lo strumento adatto a insegnare e a farci discernere l’essenza, al modo in cui la spola è adatta a tessere la tela » (Crat., 388 b), la sua definizione si adatta a qualsiasi termine o espressione linguistica. Aristotele invece ha dato la prima analisi specifica del nome. « Il N., egli ha detto, è un suono di voce significativo per convenzione, che prescinde dal tempo e le cui parti non sono significative se prese separatamente » (De Int., 2, 16a 19). In quanto « prescinde dal tempo », il N. si distingue dal verbo che ha sempre una determinazione temporale. In quanto non ha parti di per sè significative, il nome si distingue dal discorso. E poichè Aristotele osserva che l’espres- sione infinita « non uomo» non è un N., i logici posteriori aggiunsero alla definizione aristotelica del N. la caratterizzazione « finita »; nonchè quella di « retta », per escludere i casi obliqui del N. che sono di interesse per il grammatico e non per il logico (Pietro Ispano, Summul. Log., 1.04). Lo stesso Aristotele avvertiva (De /nt., 2, 16a 23) che il N. non sempre è semplice; e in questo senso la definizione di esso veniva così modificata da Jungius nel sec. xvi: « Per N. si intende un simbolo o segno, istituito per una cosa determinata e per la nozione che rappresenta la cosa, sia che si tratti di un N. grammaticalmente unico, sia che si tratti di un N. composto da più vocaboli (Log. Hambur- gensis, 1638, IV, 2, 10). Nella logica contemporanea, la funzione del N. è stata analizzata soprattutto a proposito di quella che Carnap ha chiamata «l’antinomia della relazione- N. ». Questa antinomia era stata scorta da Frege (* Uber Sinn und Bedeutung +, 1892, in Aritmetica e logica, ed. Geymonat, pag. 215-52) ma fu formulata come antinomia da Russell (s On Denoting », 1905, ora in Logic and Knowledge, pag. 41-56). L’antino- mia risulta dal fatto che due nomi sinonimi (aventi cioè lo stesso significato) debbono poter essere NOME sostituiti l’uno all’altro senza che muti il significato e il valore di verità del contesto. Ora « Sir Walter Scott» e «l’autore di Waverley» sono nomi sino- nimi perciò sostituibili. Tuttavia se nella frase « Giorgio IV domandò una volta se Scott era l’au- tore di Waverley» si sostituisce ad «autore di Waverley » l’altro N. sinonimo «Scott» la frase risulta falsa perchè diventa: « Giorgio IV domandò una volta se Scott era Scott ». Questa antinomia ha avuto nella logica contem- poranea due soluzioni principali: la prima della quale consiste essenzialmente nel ridurre la denota- tazione a una descrizione in termini direttamente o indirettamente riducibili a esperienze elementari. Questa soluzione è stata proposta da Russell (che la espose nel saggio citato e poi nel primo vol. dei Prin- cipia Mathematica, 1910). Secondo Russell, la frase « Giorgio IV, ecc. » può significare: a) « Giorgio IV desiderava sapere se un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e se Scott fu quell'uomo +; oppure può significare 5): « Un uomo e solo un uomo scrisse Waverley e Giorgio IV desiderava sapere se Scott fu quell'uomo». In questo secondo caso « l’autore di Waverley ricorre, dice Russell, in modo primario (primary occurrence) perchè suppone che

Giorgio IV ha una qualche diretta conoscenza di Scott. Nella prima invece la frase ricorre in modo secondario nel senso che non suppone una diretta conoscenza di Scott («On Denoting»?, Op. cif., pag. 72). Questa teoria oltre a presupporre la differenza tra conoscenza diretta e conoscenza indiretta, equivale a ridurre i nomi propri a nomi comuni e i nomi comuni a nomi propri, cioè deno- tanti elementi ricavati dall’esperienza diretta. Teorie simili a queste sono state date da Quine (Methods of Logic, 1950, $ 33; From a Logical Point of View, 1953, cap. 1) e da altri. La seconda soluzione dell’antinomia della rela- zione-N. è quella proposta dallo stesso Frege. Essa consiste nel distinguere il significato (Bedeutunp, Meaning) come denotazione, dal senso (Sinn, Sense). La denotazione è il riferimento del N. all’oggetto: « Sir Walter Scott » e « l’autore di Waver/ey » hanno la stessa denotazione perchè si riferiscono allo stesso oggetto. Il senso è invece, come diceva Frege, « qualcosa che viene subito afferrato da chi conosca sufficientemente la lingua (o in genere il complesso di segni) cui il N. proprio appartiene » (« Uber Sinn und Bedeutung », $ 1; ed. ital. cit., pag. 219); sicchè due nomi possono avere diversi sensi, pur riferendosi allo stesso oggetto. Questo è proprio il caso delle due espressioni citate; e poichè è possibile comprendere il senso di un N. senza cono- scere la sua denotazione, le domande del tipo di quella attribuita a Giorgio IV significano una ri- chiesta di informazione concernente l'identità delle NON CAUSA PRO CAUSA loro denotazioni. Questa soluzione è stata ripetuta con varianti da Carnap (Meaning and Necessity, $ 31-32) e da Church (/ntr. to Mathematical Logic, 1958, $ 01). E sembra una soluzione preferibile perchè non esige particolari presupposti sulla natura del linguaggio. NOMINALE, DEFINIZIONE. V. Derini- ZIONE. NOMINALISMO (lat. Nominalismus; franceseNominalisme; ted. Nominalismus). La dottrina dei filosofi nominales o nominalisti che costituirono una delle grandi correnti della Scolastica. I termini nominalista (nominalis) o terminista (ferminista) furono usati solo al principio del sec. xv (v. TER- MINIsMO). Ma già Ottone di Frisinga nella sua cro- naca Sulle gesta di Federico (I, 47) affermava che Roscellino » fu il primo nei nostri tempi a proporre in logica la dottrina delle parole (sententiam vocum) ». AI principio del sec. x11 il N. veniva difeso da Abe- lardo (v. UNIVERSALI); ma il suo trionfo nella Scolastica fu dovuto all’opera di Guglielmo di Ochkam (1280-1349) che non per nulla fu detto Princeps Nominalium. Così Ockham esprimeva la sua convinzione in materia: « Nessuna cosa fuori dell’anima nè di per sè nè per qualcosa che le venga aggiunta, di reale o di razionale, e comunque si consideri e si intenda, è universale: giacchè tanta è l'impossibilità che una cosa fuori dell’anima sia in qualsiasi modo universale (a meno che ciò non avvenga per convenzione come quando si considera universale la parola ‘uomo’ che è singolare) quanta è l’impossibilità che l’uomo, per qualsiasi considerazione o secondo qualsiasi essere, sia l’asino » (/n Sent., I, d. II, q.7 S-T). Dal punto di vista positivo, il N. ammette che l’universale o concetto è un segno dotato della capacità di essere predicato di più cose. In questo senso il concetto era già stato definito da Abelardo (v. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI). Nel delineare una breve storia del N., a proposito di Nizolio, Leibniz diceva che «sono nominalisti coloro che credono che, oltre le sostanze singolari, non ci sono che i puri nomi e quindi eliminano la realtà delle cose astratte e universali », e Leibniz faceva cominciare il N. così inteso da Roscellino e includeva tra i nominalisti, oltre lo stesso Nizolio, anche Tommaso Hobbes (De stilo philosophico Nizolii, 1670, Op., ed. Erdmann, pag. 69). Queste notazioni e inclusioni leibniziane sono state accettate dagli storici della filosofia. In epoca più vicina a noi, il termine è stato ado- perato per designare l’interpretazione convenziona- listica della fisica: per es. Poincaré lo adoperava nei confronti di Le Roy(La science et l’hypothèse, pag. 3). Qualche volta i logici moderni usano il termine per indicare la dottrina che il linguaggio delle scienze 621 contiene solo variabili individuali, i cui valori sono oggetti concreti e non già classi, proprietà e simili (Quine, From a Logical Point of View, VI, 4 sgg.; CARNAP, Meaning and Necessity, $ 10). NOMINALIZZAZIONE (ted. Nominalisie- rung). Husserl ha inteso per «legge di N.» quella secondo la quale «ad ogni proposizione, ed a ogni forma parziale distinguibile nella proposizione, corrisponde un elemento nominale» (/deen, I, $ 119): il che significa, per es., che alla proposizione « S è P» può corrispondere l’elemento unico nominale «l'essere P di S», nella quale «esser P» può signi- ficare la simiglianza, la pluralità, ecc. NOMOLOGIA (ingl. Nomology; franc. Nomo- logie; ted. Nomologie). Termine raramente usato nella filosofia dell’800 per indicare la scienza della legislazione. Husserl ha chiamato « N. aritmetica » la matematica universale (Logische Untersuchungen, I, $ 64). NOMOTETICO (ted. Nomothetisch). Kant chiama N., cioè dante leggi, il giudizio riflettente (v.) in quanto fornisce massime per l’unificazione delle leggi naturali; ed esclude che sia nomotetico il giudizio trascendentale « che contiene le condizioni per la sussunzione sotto categorie + e non fa che «indicare le condizioni dell’intuizione sensibile sotto le quali può esser data realtà (applicazione) ad un concetto dato » (Crit. del Giud., $ 69). Windel- band ha chiamato nomotetiche le scienze naturali in contrapposto alle scienze dello spirito o scienze storiche dette idiografiche (Préludien, 5* ediz., II, pag. 145) (v. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE). NON (ted. Nicht). Secondo Heidegger, il N. esprime la limitazione fondamentale dell’esistenza giacchè « l’Esserci, essendo come poter essere, è sempre o nell’una o nell’altra possibilità, ma N. è mai l’una e l’altra perchè, nel progetto esistentivo, ha sempre rinunciato ad una » (Sein und Zeit, $ 58). Il N. esprime così l’esclusione delle possibilità che è sempre implicita nella scelta di quelle che l’Esserci (cioè l’uomo) fa entrare nel suo progetto. In questo senso Heidegger parla del N. come della colpa fondamentale dell’esistenza: « L'idea formale esisten- ziale del colpevole va quindi definita così: esser fondamento di un essere che è determinato da un N., cioè esser fondamento di una nullità» (/bid.). NON CAUSA PRO CAUSA (gr. cò ui altiov © atriov). Uno dei sofismi enunciati da Aristotele (£/ .Sof., 5, 167b 21) che consiste nell’assumere come causa (cioè come premessa) ciò che non lo è, donde segue una conseguenza impossibile e l’apparente confutazione dell’avver- sario. È una fallacia che si verifica specialmente nella riduzione all’assurdo. L'esempio fatto da Aristotele è il seguente. Si voglia ridurre all’assurdo l’affermazione che l’anima e la vita sono la stessa 622 NON-ENS cosa. Si procede così: la morte e la vita sono con- trarie; la generazione e la corruzione sono contrari; ma la morte è corruzione, quindi la vita è genera- zione. Ma ciò è impossibile, perchè ciò che vive non genera ma è generato; quindi l’anima e la vita non sono la stessa cosa. La fallacia qui consiste nell’eliminare la premessa: « Anima e vita sono la stessa cosa» e sostituirla con l’altra « Morte e vita sono cose contrarie». (Cfr. Pretro IsPANO, Summ. Log., 7.56-57; ARNAULD, Log., III, 19, 3; JuNGIUS, Log., VI, 12, 11; ecc.). NON-ENS LOGICUM. Così W. Hamilton chiamava l’atto del pensiero negativo cioè il non pensare a niente di preciso, che equivale a non pensare (Lectures on Logic, I, 2* ed., 1867, p. 76). NON IO (ingl. Non Ego; franc. Non moi; tedesco Nicht Ich). Con questo termine Fichte indicava il mondo della natura e in generale il mondo og- gettivo, in quanto è posto dall’Io ma opposto al- l’Io stesso. « Non v’è nulla di posto originariamente, tranne l'Io; e questo soltanto è posto assolutamente. Perciò un’opposizione assoluta non può aversi se non ponendo qualcosa di opposto all’Io. Ma ciò che è opposto all’Io è = Non-Io » (Wissenschafts- lehre, 1794, $ 2, 9). NOOGONIA (ted. Noogonie). Come « sistema di N.» Kant ha designato la dottrina di Locke, in quanto descrive la genesi dei concetti a partire dall’esperienza (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi. Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). NOOLOGIA (lat. Noologia; franc. Noologie; ted. Noologie). Termine inventato da Calov nei suoi Scripta philosophica (1650) per indicare una delle due scienze ausiliarie della metafisica [l’altra è la gnostologia (v.)] e precisamente quella che ha per oggetto le funzioni conoscitive. Il termine è stato ripreso nel secolo successivo da Crusius e altri, nello stesso senso o in sensi analoghi. Kant chiamò noologisti coloro che, come Platone, riten- gono che le conoscenze pure derivano dalla ragione, in contrapposizione agli empiristi che le ritengono derivate dall’esperienza (Crit. R. Pura, Dottr. Trasc. del Metodo, cap. IV). Ampère propose di chiamare noologiche tutte le scienze dello spirito (Essai sur la philosophie des sciences, 1834). Nes- suno di questi usi ha avuto fortuna. NOOSFERA (franc. Noosphère). Termine ado- perato da Le Roy per indicare il dominio dell’evo- luzione propriamente umana, perciò contrapposto al dominio dell’evoluzione biologica (biosfera) e tale che si compie solo con l’aiuto di mezzi spiri- tuali: l'industria, la società, il linguaggio, l’intelli- genza, ecc. (L’exigence idéaliste et le fait de l’évo- lution, 1927, pag. 195-96). NORMA (lat. Norma; ingl. Norm; franc. Norme; ted. Norm). Una regola o criterio di giudizio. LOGICUM La N. può essere anche costituita da un caso con- creto, un modello o un esempio; ma il caso concreto, il modello o l’esempio valgono come N. solo se possono essere utilizzati come criteri di giudizio degli altri casi, o delle cose cui l’esempio o il modello fanno riferimento. La N. si distingue dalla massima (v.) perchè non è, come la massima (nel significato 2) solo una regola di condotta, ma può essere regola o criterio di qualsiasi operazione o attività. E si distingue dalla /egge (v.) perchè può mancare del carattere costrittivo della legge stessa; per es., una N. del costume diventa legge quando viene resa coattiva da una pubblica sanzione. La N. è concetto recente, nato nell’ambito del neocriticismo tedesco. È un concetto che si è formato attraverso la distinzione e la contrapposizione tra il dominio empirico del farto (cioè della necessità naturale) e il dominio razionale del dover essere (cioè della necessità ideale). La N. non deriva la sua validità dal fatto che venga o non venga seguita o applicata; ma solo dal dover essere che esprime. I filosofi della scuola del Baden (Windelband e Rickert) hanno insistito su questo carattere della norma. Ha detto Windelband: « Il sole della neces- sità naturale splende ugualmente sul giusto e sull’in- giusto. Ma la necessità che avvertiamo nella validità delle determinazioni logiche, etiche ed estetiche, è una necessità ideale, che non è quella del Mussen e del non-poter-essere-altrimenti, ma quella del Sollen ed del poter-essere-altrimenti » (Préludien, 43 ediz., 1911, II, pag. 69 sgg.). In questo senso ha inteso la N. anche Kelsen che ha posto il concetto di essa alla base della sua teoria del diritto. « La N., egli ha detto, è l’espressione dell’idea che qualcosa debba accadere, e specialmente che un individuo debba comportarsi in una data maniera. Nulla è detto dalla N. sull’effettivo comportamento dell’individuo in questione » (Genera! Theory of Law and State, 1945, I, C, a, S; trad. ital., pag. 36). In questo senso si è parlato e si parla di una «trascen- denza» della N. nei confronti delle situazioni che essa regola: con tale trascendenza si è insistito (talora op- portunamente) sull’indipendenza del valore della N. dalla sua effettiva applicazione. Per es. non c'è dubbio che le norme dirette allo scopo di ottenere un buon prodotto agricolo o industriale, quali sono determinate da apposite discipline scientifiche e tecnologiche, rimangono valide indipendentemente dal fatto che esse siano ignorate o trascurate nella

maggior parte dei casi. Questa indipendenza tuttavia non significa che le norme abbiano un'origine misteriosa o inaccessibile o siano depositate in qualche regione dell’essere che abbia solo un riferimento indiretto e lontano con i campi del- l’esperienza umana che esse mirano a regolare. Le norme esprimono, abitualmente, la disciplina NOUMENO più opportuna di determinate attività, in vista di dare a tali attività la maggiore efficienza e preci- sione possibile. Se quindi esse non sono sempre generalizzazioni di quel che già è in atto o che già si fa, perchè possono anche ispirarsi ad un ordina- mento del tutto diverso, non sono neppure estranee ai campi dell’attività umana che mirano a regolare. In questo senso Dewey diceva: «La differenza che si suole registrare tra i modi in cui gli uomini pensano e quelli in cui devono pensare è del tutto simile a quella che corre fra la buona e la cattiva coltivazione o la buona e la cattiva pratica medica. Gli uomini pensano come non devono quando seguono metodi d’indagine che l’esperienza delle indagini passate mostra non adatti a raggiungere il fine prefissato» (Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 156). Da questo punto di vista una N. è sem- plicemente una formula tecnica per lo svolgimento efficace di un’attività determinata. Si possono pertanto distinguere due concetti di N.: 1° la N. come criterio infallibile per il rico- noscimento o la realizzazione di valori assoluti. Questo è il concetto che è stato elaborato dalla filosofia dei valori (v.) e che viene tuttora accettato dalle dottrine assolutistiche; 2° la N. come proce- dura che garantisce lo svolgimento efficace di un’attività determinata. NORMALE (ingl. Normal; franc. Normal; te- desco Normal). 1. Ciò che è conforme alla norma. 2. Ciò che è conforme a un’abitudine o a una consuetudine o a una media approssimativa o ma- tematica o all’equilibrio fisico o psichico. In questo senso si dice, ad es., «condurre una vita N.» per dire una vita conforme alle consuetudini di un certo gruppo sociale; o « ha un peso N.» o «una altezza N.» per dire che ha il peso o l’altezza corrispondenti alla media di quelli degli individui della stessa età, razza, ecc.; o «una mente N.» o «un’organismo N.» per indicare la buona salute mentale o fisica. Questo uso del termine non è del tutto improprio: perchè, sebbene le norme cui esso fa riferimento siano ottenute da generalizzazioni empiriche, esse sono tuttavia adoperate come criterio di giudizio e stabiliscono quindi una « normalità ». NORMATIVO (ingl. Normative; franc. Nor- matif; ted. Normativ). L'aggettivo ha due sensi principali, che corrispondono ai due sensi che sono attribuiti alla parola norma e cioè: 1° è N. ciò che prescrive la regola infallibile per raggiungere la verità, la bellezza, il bene, ecc., cioè un bene assoluto; 2° è N. una formula tecnica che garan- tisce lo svolgimento efficace di una certa attività. Nella seconda metà dell’800 sono state dette N. nel senso 1° le scienze filosofiche speciali cioè la logica, l’etica e l’estetica, alle quali si attribuì il compito di prescrivere le norme cui il pensiero, la 623 volontà e il sentimento avrebbero dovuto adeguarsi per raggiungere la verità, il bene e la bellezza (Win- delband, Rickert, Wundt, Simmel, Husserl, ecc.). La qualifica di N. è stata in questo senso respinta dalle discipline anzidette (v. le voci relative). Non si può tuttavia negare che esistano discipline N. nel senso 2°, cioè nel senso di formulare, ipoteti- camente, tecniche atte a garantire lo svolgimento efficace di determinate attività. NOTA (lat. Nota; ingl. Note; franc. Note; ted. Merkmal). Segno o caratteristica di un og- getto. Sul principio: «la N. di una N. è una N. della cosa stessa» che Kant volle sostituire al dictum de omni et nullo come fondamento del sillogismo v. SiLLOGISMO. NOTAZIONE (ingl. Noration; franc. Notation; ted. Noration). Si chiamano con questo termine i simboli primitivi della logica. La più comune clas- sificazione di tali simboli è quella che li divide in quattro classi e cioè costanti, variabili, connettivi e operatori. Questi due ultimi sono talora detti rispettivamente operatori e astrattori (v. le singole voci: CONNETTIVO; COSTANTE; OPERATORE). NOTAZIONE (gr. Etvpororia; lat. Noratio; ingl. Notation; franc. Notationj ted. Notation). In logica, l'argomento (/ocus) derivato dall’etimologia del nome; come quando Platone fa derivare la voce séma (corpo) da séma (tomba) come argo- mento che il corpo è la tomba dell’anima (Crar., 400 c). Questo tipo di argomento è chiarito da Cicerone (7op., 8, 35) ed è ripreso dai Logici del ’600 (JunGIUS, Log., V, 25). NOUMENO (gr. voovpevov; ingl. Noumenon; franc. Nouméne; ted. Noumenon). Questo termine è stato introdotto da Kant per indicare l’oggetto della conoscenza intellettuale pura, che è poi la cosa in sè (v.). Nella dissertazione del 1770 Kant dice: «L'oggetto della sensibilità è il sensibile; ciò che non contiene nulla che non possa essere conosciuto dall’intelligenza è l’intelligibile. Il primo dalle scuole degli antichi era detto fenomeno, il secondo N.» (De mundi sensibilis, ecc., $ 3). In realtà la parola N. è talora usata dai filosofi greci, ma non in con- trapposto con fenomeno, bensì talora in contrap- posto con sensibile come in Platone: « Se intellezione e opinione vera sono due cose diverse, allora ci saranno senza dubbio enti che, quantunque non siano sensibili per noi, sono soltanto pensati» (Tim., 51 d); e talora in contrapposto con l’oggetto direttamente afferrabile, come negli Stoici: « La comprensione si produce, secondo gli Stoici, 0 con la sensazione e allora è comprensione di cose bianche o nere o ruvide o lisce o col ragionamento e allora è comprensione di nessi dimostrativi come quando si dimostra che gli dèi esistono e che eser- citano la provvidenza. Delle cose pensate invece 624 alcune sono pensate secondo l’occasione, altre se- condo la somiglianza, altre secondo la composi- zione e altre secondo contrarietà» (Dioa. L., VII, 52). Più frequente è negli antichi (soprattutto in Platone, in Aristotele e nei Neoplatonici) l’uso del termine intelligibile (vontéc) che però viene contrapposto non a fenomeno, ma a sensibile (cfr., ad es., ARISTOTELE, Et. Nic., X, 4, 1174 b 34). NOZIONE (gr. tota, rpéinyic; lat. Notio; ingl. Nozion; franc. Notion; ted. Notion). Due si- gnificati fondamentali: uno generalissimo, per cui N. è qualsiasi atto d’operazione conoscitiva; l’altro specifico, per cui è una speciale classe di atti od operazioni conoscitive. Cicerone, che introdusse il termine, lo fa corri- spondere sia ad tyvorx che ha significato genera- lissimo, sia a rp6Anyis che è l’anticipazione, cioè una specie particolare e privilegiata di conoscenze (Top., 7, 31). Nel Medioevo Giovanni di Salisbury, adoperò il termine nel senso generale, riferendolo appunto al greco toa (Meral., II, 20); ed in senso generalissimo lo adoperava anche Jungius, che intendeva per N. «la prima operazione del nostro intelletto cioè quella con la quale espri- miamo una cosa con un’immagine » (Log. Hambur- gensis, 1638, Prol., 3). Locke invece intendeva restringere il termine a quelle idee complesse « che sembra abbiano origine e costante esistenza più nel pensiero degli uomini che nella realtà delle cose » (Saggio, II, 22, 2); mentre Leibniz osservava che « molti applicano la parola N. a ogni sorta di idee o di concezioni, sia a quelle originali, sia a quelle derivate » (Nouv. Ess., II, 22, 2). Berkeley a sua volta restringeva il termine a indicare la conoscenza che lo spirito ha di se stesso e della relazione tra le idee: conoscenza che non è a sua volta un’idea (Princ. of Human Knowledge, I, $ 27, 89, 140, ecc.; cfr. la nota al $ 27 della edizione dei Principles, in Works, ed. T. E. Jessop, II, pag. 53). Anche Kant dava del termine un signi- ficato ristretto, intendendo per esso «il concetto puro in quanto ha la sua origine unicamente nel- l’intelletto » e riservando il termine « rappresenta- zione » per il significato generale di N. (Cris. R. Pura, Dial. trasc., I, sez. 1). Viceversa Wolff aveva affermato: «La rappresentazione delle cose nella mente è la N., da altri detta idea» (Lop., $ 34). Tutti i significati specifici proposti per il termine

non hanno avuto fortuna; gli è rimasto ora quasi esclusivamente il significato generico di operazione o atto o elemento conoscitivo in generale. NOZIONI COMUNI (gr. xorval Evora; latino Notiones communes). Sono le anticipazioni (v.) degli Stoici, alle quali spesso si è fatto riferimento nella storia della filosofia: cfr., ad es., SPINOZA, Etàh., II, 38, Cor.; LEIBNIZ, Nouv. Ess., Avant-propos; ecc. NOZIONE NULLA (gr. undéy, tò ud 8v; lat. Nihil; ingl. No- thing, Nothingness; franc. Néant; ted. Nichts). Due concezioni del N. si sono intercalate nella storia della filosofia: 1° il N. come non-essere; 2° il N. come alterità o negazione. Queste due concezioni hanno i loro capistipite rispettivamente in Parmenide e Platone. Parmenide affermò che «il N. non è» (Fr., 6, 2) e che «non si può nè conoscere nè esprimere » (/bid., 4); Platone, decidendosi a una specie di « parricidio » verso Parmenide (Sof., 242 d), ammise l’essere del non-essere e definì il N. come alterità. « Risulta, egli scrisse, che c’è un essere del non-essere, così per il movimento come per tutti i generi, giacchè in tutti i generi l'alterità, che rende ciascuno di essi altro da sè, fa un non-essere dell’essere di ciascuno: sicchè correttamente diremo che tutte le cose non sono ed insieme sono e par- tecipano dell’essere » (/bid., 256 d). Sicchè mentre per Parmenide il N. è assoluto non-essere quindi non è pensabile nè esprimibile in alcun modo, per Platone il N. è l’alterità dell’essere cioè la nega- zione di un essere determinato (per es., del movi- mento) e l’indefinito riferimento a un altro genere dell’essere (a ciò che non è movimento). 1° Alla tesi di Parmenide, portava un appoggio Gorgia affermando che «il N. non è perchè se esistesse sarebbe insieme non-essere ed essere: non- essere in quanto pensato come tale, essere in quanto sarebbe non-essere » (Fr., 3, 26). Il N. definito da queste proposizioni è il N. assoluto: quella « certa idea negativa del niente cioè di ciò che è infinita- mente lontano da ogni sorta di perfezione » di cui parlava Cartesio, opponendola a Dio che include tutte le perfezioni (Méd., IV); o quel «concetto vuoto senza oggetto » che è la negazione del « più alto concetto da cui si suol prendere le mosse in una filosofia trascendentale » cioè dell’oggetto, di cui parlava Kant (Crif. R. Pura, Anal. dei Princ.; Nota alla Anfibolia dei concetti della riflessione). Del N. così inteso è stato fatto un uso preva- lentemente teologico e metafisico: da un lato è servito a definire Dio, quando si è voluto insistere sulla sua eterogeneità dal mondo o a definire la materia quando si è voluto insistere sulla sua ete- rogeneità dalle cose; dall'altro, è servito a intro- durre nell'essere una condizione o un elemento che ne spiegasse certi caratteri. Il primo uso ricorre frequentemente nella teo- logia negativa. Già Scoto Eriugena aveva identifi- cato Dio col N. perchè Dio è Superessentia (cioè al di sopra della sostanza) e perchè il niente è, dall'altro lato, «la negazione e l’assenza di ogni essenza o sostanza, anzi di tutte le cose che sono state create in natura » (De divis. nat., III, 19-21). Questa dottrina viene frequentemente ripetuta nel Medioevo: come N. o «N. del N.» o « quintes- NULLA senza del N.» viene indicato Dio nel Zoher, uno dei libri della Kabala (cfr. SfRouYA, La Kabbale, Paris, 1957, pag. 322). Un « N. superessente » Dio è detto da Maestro Eckhart (Op., ed. Pfeiffer, pag. 139); e «un N. eterno» da Bòhme (My- sterium Magnum, I, 2). In tutte queste espressioni il N. esprime la negazione totale delle forme d’es- sere conosciute, ritenute inadeguate alla natura di Dio. AI secondo uso del concetto di N. hanno fatto ricorso i Neo-platonici per accentuare la differenza tra la materia e le cose cioè tra il carattere informe dell’una e le determinazioni delle altre. Così per Plotino la materia è il non-essere perchè è priva di corporeità, di anima, di intelligenza, di vita, di forma, di ragione, di limite, di potenza: cioè di tutti i caratteri che l’essere possiede. « Bisogna dire, dice Plotino, che essa è non-essere ma non nel senso del movimento che non è la quiete o reciprocamente, bensì è veramente il non-essere, un’immagine o fantasma della massa corporea e una aspirazione all’esistenza » (Enn., II, 6, 7. Nello stesso senso la materia è caratterizzata da S. Agostino: « Se si potesse dire che il N. è e non è qualcosa, direi che questa è la materia » (Conf., XII, 6, 2). Il terzo uso è proprio della filosofia moderna ed è diretta a risolvere l’essere nel divenire o la pos- sibilità in impossibilità. AI primo scopo è diretta la concezione del N. sostenuta da Hegel. Egli cor- rettamente osserva che il vecchio detto Ex nihilo nihil fit non esprime altro che la negazione del divenire, e contro questa negazione afferma l’in- dissolubilità e la convertibilità reciproca dell’essere e del nulla. « Dell’essere e del N., egli scrisse, è il caso di dire che in nessun luogo, nè in cielo nè in terra, c'è qualcosa che non contenga in sè tanto l’essere quanto il nulla. Senza dubbio, in quanto si parla di un certo qualcosa e di qual- cosa di reale, quelle determinazioni non si trovano più nella loro completa verità, in cui stanno come essere e come N., ma vi si trovano in una determinazione ulteriore e intese, per es., come positivo e negativo... Ma il positivo e il negativo contengono il primo l’essere, il secondo il N. come loro base astratta. Così perfino in Dio la qualità, cioè l’attività, la creazione, la potenza, ecc., contiene essenzialmente la determinazione del nega- tivo; coteste qualità consistono nella produzione di un altro » (Wissenschaft der Logik, I, sez. I, cap. I, C, nota I; cfr. Enc., $ 87). La caratteristica di una dottrina siffatta è il teorema che il N. è il fonda- mento della negazione, non già la negazione del nulla. Questo teorema è espresso da Hegel nel passo citato dicendo che il positivo e il negativo contengono come loro base astratta il nulla. Nella 49) — ABBagNnavO, Dizionario di filosofia. 625 filosofia contemporanea lo stesso teorema è espli- citamente messo innanzi da Heidegger. «È il N., egli dice, che è l'origine della negazione, non viceversa » (Was ist Metaphysik?, 1949, 5* ediz., pag. 33). Da questo punto di vista, il N. è «la ne- gazione radicale della totalità dell’esistente » (/bid., 1949, 5* ediz., pag. 27), cioè è N. assoluto. Ma in- sieme costituisce il fondamento dell’essere e preci- samente dell’essere dell’uomo, in quanto questo essere è instabile (hinf@llie). L’instabilità dell’es- sere dell’uomo è vissuta nella situazione emotiva dell’angoscia. « L’esistente non è affatto distrutto dall’angoscia in modo che rimanga, così, il nulla. Come potrebbe accadere diversamente, dato che l’angoscia si trova nella più completa impotenza di fronte all’esistente nella sua totalità? In realtà il N. si rivela proprio con e nell’esistente in quanto questo ci sfugge e si dilegua nella sua totalità » (Ibid., 1949, 5* ediz., pag. 31). Questo significa che il N. è vissuto dall'uomo in quanto l’essere del- l’uomo (l'esistenza) non è e non può essere rurto l’essere: l’essere dell’uomo consiste nel non essere l’essere nella sua totalità, cioè nel N. dell’essere. Perciò Heidegger dice che il N. è lo stesso annul- lamento (« È proprio il N. stesso che annulla»; Ibid., 5* ediz., 1949, pag. 31) e che esso è «la con- dizione che rende possibile, nel nostro esserci, la rivelazione dell’esistente come tale » (Ibid., 53 ediz., 1949, pag. 32). Il problema e la ricerca dell’es- sere nascono dal fatto che l’uomo non è tutto l’essere, cioè che il suo essere è il N. della totalità dell’essere. Sartre sostituisce alla nozione di esi- stenza quella di coscienza ma continua a intendere per essa l’essere dell’uomo che è il N. dell’essere: finisce così col ripetere i concetti di Heidegger. « Il N. non è, egli dice, il N. è srato; il N. non si an- nienta, il N. è sfaro annientato. Resta dunque che deve esistere un essere — che non potrebbe essere l’in sè — che ha per proprietà di annullare il N., di reggerlo col suo essere, di sostenerlo perpetua- mente con la sua stessa esistenza: un essere per il quale il N. viene alle cose» (L’étre er le néant, pag. 58). Quest’essere è la coscienza che, essendo costituita da possibilità, è sempre aperta verso il nulla. « Una possibilità resta sempre aperta che esso si riveli come un nulla. Ma dal fatto stesso che si prospetti che un esistente possa sempre risolversi come N., ogni questione suppone che si realizzi un arretramento nientificatore, in rapporto al dato, e diviene una semplice presentazione, oscillante tra l'essere e il N.» (/bid., pag. 59). In questo modo l’uomo ha la possibilità di circoscrivere « un N. che lo isoli » cioè di mettersi fuori dell’essere, per met- terlo in questione e sottrarsi alla sua totalità. È chiaro ciò che queste speculazioni sul N. intendono suggerire: l’essere proprio dell'uomo, in quanto 626 costituito da possibilità, che come tali possono non realizzarsi, e che in ogni caso escludono l’essere completo o totale, e manifestandosi quindi in modo eminente nel dubbio, nel problema, nella progetta- zione, ecc., è il N. del rutto dell’essere. Si tratta cioè di speculazioni che vogliono definire il finito (la limitazione propria dell’esistenza umana) ser- vendosi di due infiniti: il tutto e il nulla. 2° La seconda concezione fondamentale del N., il cui capostipite è Platone, considera il N. come alterità o negazione. Per questa concezione non c’è un « N. assoluto » cioè un N. che sia, nella terminologia kantiana, la negazione di ogni og- getto. In questa terminologia il N. è soltanto pri- vazione di qualche cosa: come l’ombra o il freddo (nihil privativum) o un ente immaginario (ens imaginarium) o l’oggetto di un concetto che contraddice se stesso (nihil negativum) (Crit. R. Pura, Anal. dei Princìpi, Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). Da questo punto di vista il N. è un oggetto (nel senso più gene- rale della parola); e c’è una nozione del N., a differenza di ciò che pensava Wolff quando definiva il N. come «ciò a cui non corrisponde alcuna no- zione » (Ont., $ 57). In questo senso aveva ragione il vecchio Fredegiso di Tours (sec. 1x) ad affermare che il N. è qualcosa; giacchè, come egli diceva, «se qualcuno dirà che gli sembra che non sia N., questa stessa negazione lo spingerà a riconoscere che il N. è qualcosa dal momento che dire: ‘ Mi sembra che il N. sia N.” è equivalente a dire ‘ Mi sembra sia qualcosa ’» (De Nihilo et Tenebris, in P. L., 105, col. 751). Ciò significa che, dal momento che si parla del N., sia pure per dire che è N., il N. è un qualcosa di cui si parla, cioè un oggetto in gene- rale. Considerazioni di questo genere possono sem- brare puramente dialettiche, ma conservano il loro valore anche nella logica contemporanea (cfr. GEYMONAT, Saggi di filosofia neorazionalistica, Torino, 1953, pag. 101 sgg.). Questo concetto del N. non ha tuttavia avuto molta fortuna tra i filosofi, e se ne intende anche la ragione: non si presta a un uso teologico o metafisico. La migliore illu- strazione di esso nella filosofia contemporanea è quella data da Bergson: « L’idea di abolizione o di N. parziale si forma nel corso della sostituzione di una cosa ad un’altra dal momento che tale sostituzione è pensata da uno spirito che preferirebbe mantenere l’antica cosa al posto della nuova o che almeno concepisce questa preferenza come possibile. Essa implica dal lato soggettivo una preferenza, dal lato oggettivo una sostituzione, e non è altro che una combinazione o piuttosto una interferenza tra il sentimento di preferenza e questa idea di sostituzione» (Év. créatr., 88 ediz., 1911, pag. 305-06). Ciò vuol dire che si dice che « non c’è NULLIBISTI N.» quando non c’è la cosa che ci aspettavamo di trovarci o che poteva esserci, e che l’idea del N. assoluto è una « pseudo idea », altrettanto assurda di quella di un circolo quadrato (/bid., pag. 307). Si può insistere un po’ meno sull’aspetto soggettivo di questo concetto del N. e di più sull’aspetto oggettivo; si può dire, ad es., che il N. esprime la negazione o l’assenza di una possibilità determinata o di un gruppo di possibilità, senza ricorrere alla no- zione di preferenza o di sostituzione; ma l’analisi di Bergson rimane sostanzialmente corretta sia nella sua tesi positiva sia in quella negativa. Essa è d'altronde conforme al concetto che della negazione hanno i logici contemporanei; per es. a quello che Carnap espose in una critica rimasta famosa al concetto del N. di Heidegger, concetto in cui egli vide riassunte tutte le magagne della metafisica. Carnap affermò allora che la sola nozione di N. logicamente corretta è la negazione di una possibilità determinata; che dire « Non c’è N. fuori » significa «Non c’è qualcosa che sia fuori» «— (Fx) x è fuori» (* Ùberwindung der Metaphysik», in Erkenntnis, II, 1931, pag. 229 sgg.). Poichè la negazione che qualcosa sia fuori implica che qualcosa poteva esser fuori, la negazione è, in questo senso, l’esclu- sione di una possibilità determinata. NULLIBISTI (ingl. Nullibists; ted. Nullibisten). Così Henri Moore chiamò coloro che credono che l’anima non occupi spazio e non abbia perciò una sede determinata nel corpo (Enchiridion Metaphysicum, 1671, I, 27, 1). NUMERO (gr. &piduéc; lat. Numerus; inglese Number; franc. Nombre; ted. Zahl). Nella storia di questo concetto si possono distinguere quattro fasi concettuali diverse che hanno dato luogo a quattro diverse definizioni di esso, e precisamente: 1° la fase realistica; 2° la fase soggettivistica; 3° la fase oggettivistica; 4° la fase convenzionalistica. 1° La fase realistica è caratterizzata dalla tesi che il N. è un elemento costitutivo della realtà; della realtà in quanto accessibile, non ai sensi, ma alla ragione. Fu questa la tesi propria dei Pita- gorici, i quali credevano, secondo la testimonianza di Aristotele, che « le cose sono esse stesse numeri », cioè « composte di numeri come di loro elementi + (Mer., XIV, 3, 1090a 21). A questa credenza è connessa la definizione del N. come « un sistema di unità » che fu propria dei Pitagorici (STOBEO, Ecl., I, 18): una definizione sulla quale si modellò quella stessa di Euclide (« moltitudine di unità +, Z7., VII, 2) e che è rimasta per molto tempo a fondamento delle matematiche. A sua volta Platone riteneva che il N. si trovasse dovunque ci fosse un ordine, cioè un limite dell’illimitato. Tra la molteplicità illi- mitata (per es. dei suoni vocali) e l’unità assoluta, il N. si inserisce come un limite (per es. la distin- NUMERO zione ed enumerazione delle lettere dell’alfabeto): perciò si trova sempre dove c’è ordine ed intelli- genza (Fil., 18a sgg.). Dall’altro lato, il numero in questo senso non è legato a qualcosa di visibile o di tangibile: è perciò diverso dal numero di cui si avvale l’uomo nei suoi compiti pratici (Rep., 525 d). Con questa tesi (che non è quella dei pla- tonici pitagoreggianti che consideravano le idee come numeri; cfr. ARIST., Met., XIV, 3) è sostan- zialmente d’accordo lo stesso Aristotele. «Le entità matematiche, egli dice, non sono sostanze più dei corpi; precedono logicamente, ma non nell’esistenza, le cose sensibili e non possono esistere

separatamente. Ma dal momento che non possono neppure risiedere nelle cose sensibili, o non debbono essere affatto o devono essere in qualche modo speciale, che non è l’esistenza assoluta» (Mer., XIII, 3, 1077b 12). Questo modo d'’esistenza speciale proprio delle entità matematiche è definito dalle stesse proposizioni matematiche: « È stretta- mente vero, dice Aristotele, che ci sono entità matematiche e che sono tali quali le matematiche dicono che esse sono » (/bid., XIII, 3, 1077 b 31). Aristotele intende dire, che le entità matematiche hanno un’esistenza analoga alle entità della fisica, per es. al movimento: sono astratte dalle cause sensibili ma non sono separabili da esse. Da questo punto di vista, il numero è « una pluralità misurata o una pluralità di misura»; e l’unità non è un N. ma misura del N. (Mer., XIV, 1, 1088a 5): una definizione la quale ripete quella platonica, e anticipa quella euclidea già ricordata. 2° La seconda fase concettuale della nozione di N. si può far cominciare con Cartesio. «Il N. che consideriamo in generale, egli disse, senza riflettere su alcuna cosa creata, non esiste fuori del nostro pensiero come non esistono tutte le altre idee generali che gli Scolastici comprendono sotto il nome di universali » (Princ. Phil., I, 58). Il N. è in altri termini, un’idea, un atto o una manifestazione del pensiero. La definizione che ne risulta è quella di operazione: il N. è un’opera- zione di astrazione eseguita sulle cose sensibili. Questo concetto del numero si trova ripetuto molte volte nella filosofia moderna. Hobbes pose il N. tra le cose « non esistenti » che sono soltanto «idee od immagini» (De Corp., VII, $ 1). Locke vede nel N. un’idea complessa e precisamente un «modo semplice ottenuto mediante la ripetizione dell’unità » (Saggio, II, 16 2); e nello stesso senso Leibniz dice che il N. è un’idea adeguata o compiuta cioè « un’idea così distinta che tutti i suoi ingredienti sono distinti» (Nouv. Ess., II, 31, 1). Berkeley afferma che il numero «è interamente la creatura dello spirito » (Princ. of Human Knowledge, I, 12). Newton afferma che per N. bisogna intendere 627 «non tanto la moltitudine delle unità quanto il rapporto tra la quantità astratta di una qualità ed una quantità dello stesso genere che si assume come unità» (Arithmetica Universalis, cap. 2). Una definizione analoga a questa è data da Wolff secondo la quale «il N. in genere ha con l'unità la stessa relazione che una retta qualsiasi può avere con una retta data » (Ont., $ 406). Questa definizione, come quella di Newton, fa del N. l’operazione con cui si stabilisce un rapporto di misura. Kant non faceva che esprimere lo stesso concetto generale affermando che il N. è uno scherma (v.) e precisamente che esso è «la rappresentazione che comprende la successiva addizione di uno a uno (omogenei) » (Crit. R. Pura, Anal. dei Principi, cap. l). La novità del concetto kantiano è che il N. non è un’operazione empirica cioè effettuata sul materiale sensibile ma un’operazione puramente intellettuale che opera sul molteplice dato dall’in- tuizione pura (del tempo) il quale è assoluta- mente omogeneo. Questo fa del N. qualcosa di indipendente dall’esperienza e dotato di un genere di validità che non è quella empirica; ma il N. è pur sempre un’operazione del soggetto. Mentre questa concezione kantiana veniva ripresentata numerose volte nella filosofia dell’800, Stuart Mill ritornava al concetto del N. come operazione empirica di astrazione. « Tutti i numeri, egli diceva, devono essere numeri di qualcosa: non ci sono numeri in astratto ». Pertanto i numeri sono prodotti da una «induzione reale, da una inferenza reale da fatti a fatti» e tale induzione è nascosta soltanto dalla sua natura comprensiva e dalla conseguente generalità del linguaggio cui mette capo (Logic, II, 6, 2). Le posizioni di Kant e di Stuart Mill rimangono in qualche modo tipiche per questa fase soggettiva del concetto di N.: il N. è una pura operazione intellettuale per Kant; è una genera- lizzazione empirica per Stuart Mill; in ogni caso appartiene alla sfera della soggettività. All’ambito

di questa concezione del N. appartengono le dottrine di Cantor e Dedekind. Per Cantor il N. è fondato sulla facoltà del pensiero di aggruppare gli oggetti e di astrarre dalla loro natura e dal loro ordine, dando così luogo al N. cardinale, o soltanto dalla loro natura, dando così luogo al N. ordinale. Dedekind a sua volta fondò il concetto di N. sulla operazione di appaiare o accoppiare le cose insieme. Per quanto matematicamente feconde, queste nozioni mantengono il concetto di N. nell’ambito della soggettività. 3° La terza fase concettuale della nozione di N. cioè quella secondo la quale il N. è oggettivo ma non reale fu iniziata dallo scritto di Frege sui Fondamenti dell’aritmetica (1884). Frege riconosceva al N. il carattere concettuale ma col carattere con- 628 cettuale gli riconosceva anche l’oggettività. Ciò in primo luogo esclude che il N. sia un’operazione o una realtà psicologica, un’idea nel significato settecentesco del termine: «Il N. non costituisce un oggetto della psicologia né può considerarsi come un risultato di processi psichici, più che non possa considerarsi tale il Mare del Nord », egli dice. «Io faccio una netta distinzione fra ciò che è ogget- tivo e ciò che è palpabile, reale e occupa uno spazio. Per es. l’asse terrestre e il baricentro del sistema solare sono oggettivi eppure non direi che sono reali come lo è la terra » (Die Grundlagen der Arith- metik, $ 26; trad. ital., pag. 70-71). La matematica aveva già stabilito l’insufficienza della definizione di N. come collezione di unità: questa definizione infatti porterebbe ad escludere che 0 ed 1 siano numeri (e Aristotele riconosceva la cosa per ciò che riguarda l’1; Mer., XIV, 1, 1088 a 5). Frege assume come base della definizione di numero l'estensione (v.) del concetto e assume di dire che «il concetto F è ugualmente numeroso del concetto G ogni qualvolta esiste la possibilità di porre in corrispondenza biunivoca gli oggetti che cadono sotto G e quelli che cadono sotto F». Posto ciò, dà del numero la definizione seguente: «Il N. naturale che spetta al concetto F non è altro che l’estensione del concetto ‘egualmente numeroso ’ ad F+» (/bid., $ 68; pag. 134). Questa definizione di Frege è stata riespressa da Russell in termini di classi anzichè di concetti. Dice Russell: « Quando si ha una relazione di termine a termine fra tutti i ter- mini di una collezione e tutti i termini di un’altrdiciamo che le due collezioni sono simili. Noi pos- siamo allora vedere che due collezioni simili hanno lo stesso N. di termini e definire il N. di una colle- zione data come la classe di tutte le collezioni simili ad essa. Ne risulta la seguente definizione formale: ‘il N. dei termini di una classe data si definisce come la classe di tutte le classi simili alla classe data *» (Our Knowledge of the External World, 3* ediz., 1926, cap. 7; trad. franc., pag. 163). La definizione di Russell, che fu posta alla base sia dei Principles of Mathematics (1905) sia dei Principia Mathematica che egli pubblicò nel 1910 in collabo- razione con Whitehead (le due opere fondamentali della logica matematica contemporanea), ha avuto vasta accoglienza nella filosofia e nella matema- tica contemporanea. Essa tuttavia è apparsa talora troppo ristretta per le possibilità di sviluppo della matematica odierna: la quale non intende rimanere legata a un concetto di numero che risulti comunque precostituito per essa. 4° La quarta fase è quella che si è venuta realizzando in stretta connessione con l’assiomatica moderna e si può connettere con i nomi di Peano, NUMINOSO Hilbert, Zermelo, Dingler. Per essa, il N. è un segno, definito da un adatto sistema di assiomi. Dice, ad es., Dingler: « Noi ci costruiamo una serie di segni (segni grafici) sempre riproducibili che deve possedere le seguenti proprietà: a) la serie ha un primo termine; 5) la serie possiede una regola di costruzione enunciabile in modo finito tale che: a) è sempre determinato univocamente quale termine della serie viene immediatamente a destra di un termine già segnato; 8) ogni termine della serie è diverso da tutti i termini che lo precedono a sinistra + (Die Methode der Physik, 1937, cap. II, 3, $ 2; trad, ital., pag. 137-38). Questo punto di vista può essere riassunto nel modo seguente: a) non esiste un unico oggetto o entità detta « N.» di cui siano specificazioni i numeri definiti nei vari sistemi numerici; 5) la validità dei vari sistemi numerici dipende soltanto dalla consistenza intrinseca di ciascun si- stema, quale risulta definita dagli assiomi fonda- mentali; c) il concetto di N., quale risulta nell’ambito di un sistema numerico, non è legato a una inter- pretazione determinata ma è suscettibile di inter- pretazioni indefinitivamente variabili. Il N. in altri termini non è privo affatto di interpretazione (come un segno che non significhi niente) e non è legato ad un'unica interpretazione privilegiata; ma è caratterizzato dalla possibilità di interpretazioni diverse. Questa nozione del N. è quella abitualmente presupposta dai più recenti sviluppi della matema- tica (v.). NUMINOSO (ingl. Numinous; ted. Numinose). Così Rudolf Otto chiamò la coscienza di un myste- rium tremendum cioè di qualcosa di misterioso e terribile che ispira timore e venerazione: coscienza che sarebbe la base dell’esperienza religiosa dell’u- manità (Das Heilige, 1917; trad. ital., // sacro, Bologna, 1926). NYAYA. Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, caratterizzato dalla importanza in esso assunta dalla dottrina della conoscenza e dei suoi oggetti. Il N. enumera quattro mezzi di conoscenza: percezione, inferenza, analogia e testi- monianza; definisce la conoscenza vera come quella che non è soggetta a contraddizioni o a dubbi e che riproduce l’oggetto come esso è; e si ferma a deter- minare l'elenco degli oggetti conoscibili e dei loro tratti caratteristici. Tra questi include sia il mondo fisico con i suoi elementi, sia l’uomo nel suo corpo e le sue attività spirituali, sia lo spazio o il tempo, Dio e in generale le condizioni di esistenza delle cose fisiche o spirituali (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, 1957, pag. 112 sgg.). O O. Questa lettera nella Logica formale « aristo- telica » viene usata come simbolo della proposizione particolare negativa (v. A). G. P. OBBEDIENZA (lat. Oboedientia; ingl. Obe- dience; franc. Obéissance; ted. Gehorsamkeit). È, secondo Spinoza, il significato specifico della fede. Questa infatti consiste « nell’avere, intorno a Dio, quei sentimenti tolti i quali, viene anche meno lO. a Dio e che sono invece necessariamente posti quando è posta l’O.» (7ract. rheologico-politicus, cap. 14). Questa riduzione della fede all’O. è una espressione dell’indirizzo di dottrina che riduce la fede ad atto pratico (v. FEDE). OBBIETTIVO (ingl. Objective; franc. Objectif; ted. Obiektive). 1. Lo stesso che oggetto, quando la parola si adopera nel senso di fine o scopo (v. OGGETTO). 2. Nel senso specifico proposto da Meinong, è l’oggetto del giudizio, in quanto distinto dall’og- getto della rappresentazione. Per es., se si dice: « È vero che vi sono gli antipodi », l'O. è costituito da «che vi sono gli antipodi ». L’O. non è di ne- cessità esistente. Se A non è, il non-essere di A è un O. allo stesso titolo dell’essere di A (Uber Annahmen, 1902, pag. 142 sgg.). OBBIETTO. V. OgaetTO. OBBIEZIONE (ingl. Objection; franc. Objec- tion; ted. Einwurf). Un argomento la cui conclu- sione contraddice una certa tesi. Leibniz osservava già che la verità non può soffrire ad opera di « O. in- vincibili ». « Bisogna, egli diceva, cedere sempre alle dimostrazioni sia che si propongano per affermare, sia che si avanzino in forma di obbiezioni. Ed è ingiusto e inutile voler indebolire le prove degli avversari col pretesto che sono solo O.: giacchè l’avversario ha lo stesso diritto e può invertire i nomi, onorando i suoi argomenti con il nome di prove e abbassando i nostri con quello spregiativo di O.» (Théod., Discours, $ 25). OBBLIGAZIONE (lat. Obligatio; ingl. Obli- gation; francese Obligation; ted. Verpflichtung). x. Il carattere costrittivo che ad un rapporto interper- sonale è conferito da una legge giuridica o da una norma morale. Questo carattere è diverso dalla ne- cessità (v.) per la quale è impossibile che la cosa sia o accada altrimenti: 1’O. non impedisce che, in linea di fatto, il rapporto che essa regola si atteggi altri- menti; ma implica, in questo caso, l'intervento di una sanzione. Talvolta il carattere obbligatorio del rapporto si esprime con la nozione di necessità mo- rale o ideale (v. NECESSITÀ) senza che con ciò si in- tenda ridurlo alla necessità vera e propria. Soltanto Bergson ha sostanzialmente cercato di ridurre l’O. alla necessità di fatto, intendendo per O. le abitu- dini sociali e per O. in generale «l’abitudine di contrarre abitudini » (Deux Sources, cap. I). 2. Nella logica terministica medievale, l'impegno per cui l'interlocutore ammette nella discussione qualcosa che precedentemente non ammetteva. Questa è la definizione data da Ockham (Summa Log., III, 38). Ockham ammette sei specie di ob- bligazioni: l'istituzione, la petizione, la posizione, la deposizione, la dubitazione e il sit verum. L’istituzione (institutio) consiste nel dare a un vocabolo un nuovo significato per la durata della disputa e non oltre (Summa Log., III, III, 38) La petizione (petitio) consiste nell’obbligare l’inter- locutore a questo o quell’atto che concerne la sua ‘ funzione, per es. a concedere una proposizione (Ibid., III, III, 39). La deposizione (depositio) è l'obbligazione a sostenere una proposizione come falsa (Ibid., III, III, 42). La dubitazione (dubitatio) 630 è l’obbligazione di sostenere qualcosa come dubbia (Ibid., III, III, 43). Per la posizione e il sit verum vedi le rispettive voci. OBIETTAZIONE (ted. Objektation). Secondo Nicolai Hartmann, il termine significa « divenire oggetto per un soggetto» e definisce la natura della conoscenza. L’O. è il contrario della obietti- vazione: questa è la trasformazione di qualcosa di soggettivo in forma oggettiva mentre l’obietta- zione esprime il processo per cui un oggetto indi- pendente dal soggetto diventa oggetto di conoscenza (Systematische Philosophie, 1931, $ 11). OBVERSIONE (ingl. Obversion; franc. Ob- version; ted. Obversion). Questo termine di origine recente (e dovuto probabilmente a JEVONS, Ele- mentary Lessons in Logic, pag. 85) designa la trasformazione di una proposizione in una propo- sizione equipollente mediante la doppia negazione: per es., la trasformazione della proposizione « tutti gli uomini sono mortali» in « nessun uomo è non mortale ». OCCAMISMO (ingl. Ockhamism; franc. Occa- misme; ted. Ockamismus). Con questo termine è stato chiamato sin dal sec. xv l’indirizzo fatto pre- valere da Ockham nell’ultimo periodo della scola- stica medievale, indirizzo caratterizzato dai capi- saldi seguenti: 1° l’empirismo, cioè il privilegio accordato all’esperienza (o « conoscenza intuitiva +)

per la prova e il controllo della verità; 2° il nomi- nalismo, cioè la negazione della realtà degli univer- sali e la loro riduzione a segni naturali; 3° il zer- minismo, cioè la logica della supposizione (v.) per la quale i concetti sono termini che stanno in luogo delle cose reali; 4° lo scetticismo teologico per il quale si ritiene impossibile dimostrare o ra- zionalizzare le verità della fede e si attribuisce alle stesse prove dell’esistenza di Dio un valore solo probabile. Per quest’ultimo punto, Lutero si chiamò e fu chiamato occamista. Gli altri punti furono difesi e illustrati nella scolastica della se- conda metà del sec. xrv e dei primi decenni del Sec. XV. OCCASIONALISMO (ingl. Occasionalism; franc. Occasionalisme; ted. Occasionalismus). La dottrina che la causa di tutte le cose è soltanto Dio e che le cosiddette cause (seconde o finite) sono soltanto occasioni di cui Dio si avvale per mandare ad effetto i suoi decreti. Questa dottrina fu per la prima volta difesa dalla sètta filosofica araba dei Motakallimun (cfr. MAIMONIDE, Guide des égarés, I, 73); e fu poi ripresa nell’età car- tesiana, da quel gruppo di pensatori che vollero utilizzare la dottrina di Cartesio per una difesa delle credenze religiose tradizionali, cioè da Luigi De La Forge, Geraldo di Cordemoy, Giovanni Clauberg e Arnoldo Geulincx, tutti vissuti nel OBIETTAZIONE sec. xvi. Geulincx fu il migliore espositore della dottrina, che mira sostanzialmente a negare al- l’uomo ogni effettivo potere nel mondo e ad at- tribuirlo a Dio. Contro l’O. si schierarono invece Spinoza e Leibniz; mentre in sua difesa scriveva Nicolò Malebranche, traendone la conseguenza che la conoscenza umana, non potendo essere prodotta dalle cose (che non sono cause), è una visione delle cose in Dio (Recherche de la vérité, 1674-75). OCCASIONE (ingl. Occasion; franc. Occasion; ted. Gelegenheit). La situazione che provoca o fa- cilita l’intervento di un’azione libera. Cause occa- sionali: le cause considerate come occasioni per l'azione diretta di Dio (v. OCCASIONALISMO). Kierkegaard ha messo in luce il valore dell’O. come «categoria del finito » e che può essere « sia pretesto sia causa ». In questo senso l’O. è « l’ul- tima categoria, la vera categoria di transizione dalla sfera dell’idea a quella della realtà » (Aut Aut, «I primi amori»; trad. franc., Prior e Guignot, pag. 186 sgg.). OCCULTE, QUALITÀ. V. OccuLTo. OCCULTISMO (ingl. Occultism; franc. Oc- cultisme; ted. Okkultismus). La credenza in feno- meni che si ritengono prodotti da forze occulte o nella validità delle scienze occulte. Per O. si può perciò anche intendere l’insieme di tali scienze cioè la magia, l’astrologia, la metapsichica, la teosofia, ecc. (v. le singole voci). OCCULTO (ingl. Occul; franc. Occulte; te- desco Okkult). Ciò che si nasconde alla vista e perciò può essere scoperto solo da chi ha una seconda vista, nel senso di essere iniziato a una forma superiore di sapere. Scienza occulta in questo senso è, in primo luogo, la magia: Cornelio Agrippa nel De occulta philosophia (1510) includeva nella magia tutte le scienze possibili. Ma scienze O. si chiamano oggi anche la teosofia, la parapsico- logia, ecc., sia perchè hanno a che fare con feno- meni che si ritengono manifestazioni di forze O. sia perchè si ritiene che lo studio di tali fenomeni debba essere riservato a coloro che sono stati ini- ziati a un ordine superiore di conoscenze esoteriche. Qualità O. si cominciarono a chiamare, a partire dal sec. XVII, le cause formali e finali dell’aristotelismo e della scolastica, intendendosi sottolineare con questa espressione che appellarsi a tali cause equivaleva ad appellarsi a fattori più sconosciuti dei fenomeni stessi, quindi incapaci di spiegarli. « Gli aristotelici, diceva Newton, dettero il nome di qualità O. non alle qualità manifeste ma a quelle qualità che sup- ponevano esser nei corpi come cause sconosciute di effetti manifesti » (Opricks, 1704, III, 1, q. 31). OFELIMITÀ (ingl. Ophelimity; franc. Ophé- limité; ted. Ophelimitàt). Termine creato da Vil- fredo Pareto (Cours d’économie politique, Lausanne, OGGETTIVO 1896, $ 5-6), per designare la qualità fondamentale degli oggetti economici cioè il valore d’uso, che non sempre coincide con l’utilità; ad es., uno stupefacente ha O. ma non utilità. OGGETTITÀ (franc. Objectité; ted. Objektitàr). Termine di cui Schopenhauer si servi per defi- nire il corpo e le cose naturali; che sarebbero «l’O. della volontà» nel senso di essere «la volontà oggettivata ossia divenuta rappresentazione » (Die Welt, I, $ 18, 25, ecc.). OGGETTI, TEORIA DEGLI (ted. Gegen- standstheorie). Così A. Meinong chiamò la scienza che considera gli oggetti in quanto oggetti cioè prescindendo dalle loro specificazioni (realtà o ir- realtà, ecc.). Questa scienza non è la metafisica nel senso tradizionale perchè questa considera la totalità degli O. esistenti, che sono solo una piccola parte degli oggetti possibili (cfr. Uber Annahmen, 1902; Gegenstandstheorie, 1904; Zur Grundlegung der allgemeinen Werththeorie, 1923) (v. OBBIETTIVO; OGGETTO). OGGETTIVISMO (ingl. Objectivism; francese Objectivisme; ted. Objektivismus). Qualsiasi dot- trina la quale ammetta che esistano oggetti (signi- ficati, concetti, verità, valori, norme, ecc.) validi indipendentemente dal soggetto cioè indipendente- mente dalle credenze e dalle opinioni dei vari soggetti. OGGETTIVITÀ (ingl. Objectivity; francese Objectivité; ted. Objektivitàt). 1. In senso ogget- tivo: carattere di ciò che è oggetto. In questo senso Husserl parlava di una «O. primaria» che apparterrebbe alle cose e le privilegerebbe di fronte ad altri oggetti come proprietà, relazioni, stati di fatto, insiemi, ecc. (Zdeen, I, $ 10) (v. OGGETTO). 2. In senso soggettivo: carattere della consi- derazione che cerca di vedere l’oggetto così com'è prescindendo dalle preferenze o dagli interessi di chi lo considera e soltanto in base a procedure intersoggettive di accertamento e di controllo. In questo significato, l’O. è l'ideale della ricerca scien- tifica: ideale cui essa si avvicina nella misura in cui dispone di procedure adeguate. OGGETTIVO (ingl. Objective; franc. Objectif; ted. Objektiv). Ciò che esiste come oggetto o ha un oggetto o appartiene ad un oggetto. Questo aggettivo ha, a prima vista, assai più significati del corrispondente sostantivo; giacchè oltre ai si- gnificati che sono connessi a quest’ultimo, è stato usato a significare: ciò che è valido per tutti; ciò che è esterno rispetto alla coscienza o al pensiero; ciò che è indipendente dal soggetto; ciò che è con- forme a certi metodi o regole; ecc. A tali signi- ficati ha dato prevalentemente luogo la determina- zione kantiana dell’oggetto di conoscenza come oggetto reale o empiricamente dato. Si possono 631 enumerare tre significati fondamentali del termine: 1° ciò che esiste come oggetto; 2° ciò che ha un oggetto; 3° ciò che è valido per tutti. I due ultimi sono strettamente connessi tra loro e con gli altri significati elencati. 1° Il primo significato è quello corrispondente al significato fondamentale di oggetto: O. è ciò che esiste come termine o limite di un'operazione attiva o passiva. A tale definizione risponde in primo luogo l’uso che del termine fu fatto nel- l’ultima età della Scolastica da Duns Scoto in poi. Per esso infatti fu inteso ciò che esiste come og- getto dell’intelletto, in quanto è pensato o imma- ginato, senza che ciò implichi che esista anche fuori dell’intelletto stesso o nella realtà. In questo senso adoperavano il termine Duns Scoto (De An., 17, 14), Antonio Andrea (Super artem veterem, 1517, f. 87r.), Francesco Majrone (In Sent., I, d. 47, q. 4) e Durando di S. Pourgain (In Sent., I, d. 19, q. S, 7). Dice Walter Burleigh: « Sebbene l’universale non abbia esistenza fuori dell’anima, come i moderni dicono, non c’è dubbio tuttavia che, secondo il parere di tutti, l’universale ha esi- stenza O. nell’intelletto giacchè l’intelletto può in- tendere il leone in universale senza intendere questo leone » (Super artem veterem, 1485, f. S9r.) « Esistere oggettivamente » significa, in questo caso, esistere sotto forma di rappresentazione o di idea cioè come oggetto del pensiero o della percezione: un significato che ricorre identicamente in Car- tesio (Médir., III, 11), in Spinoza (Er., I, 30; II, 8 cor.; ecc.) e in Berkeley (Siris, $ 292). In tutti questi casi, l’O. non designa nè ciò che è reale nè ciò che è irreale, ma semplicemente ciò che è oggetto dell’intelletto e che può, ad una seconda considerazione, rivelarsi sia reale che irreale. 2° Corrispondentemente alla limitazione che l’oggetto di conoscenza ha ricevuto da Kant come oggetto «reale», c’è il secondo significato di O. come di ciò che ha per oggetto una realtà empiri- camente data. In questo senso Kant afferma che la conoscenza è «oggettiva» o « oggettivamente valida ». Già nelle sue distinzioni terminologiche Kant include questo significato: « Una percezione che si riferisca unicamente al soggetto, come mo- dificazione del suo stato, è sensazione; una per- cezione O. è conoscenza. Questa è o un’intuizione o un concetto. Quella si riferisce immediatamente all’oggetto ed è singolare; questo gli si riferisce mediatamente, per mezzo di una nota, che può essere comune a più cose» (Cri. R. Pura, Dialet- tica, libro I, sez. I. Da questo punto di vista, «validità O.» e «realtà» coincidono. Dice infatti Kant: «Le nostre considerazioni insegnano la realtà, cioè la validità O., dello spazio rispetto a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno 632 come oggetto» (/bid., $ 3); e analogamente dice del tempo: « Le nostre considerazioni dimostrano la realtà empirica del tempo cioè la sua validità O. rispetto a tutti gli oggetti che possono essere le- gati ai nostri sensi » (/bid., $ 6). In tal senso, O. è ciò che è empiricamente reale; e l’empiricamente reale è, per Kant, il prodotto di una sintesi che, per essere effettuata nella coscienza comune o ge- nerica, vale per tutti i soggetti pensanti e non per uno solo di essi (Pro/eg., $ 22). Kant dice: «I giu- dizi sono © soggettivi, quando le rappresentazioni vengono riferite solo ad una coscienza in un sog- getto ed in esso unificate; o sono O. quando sono collegate in una coscienza genericamente cioè ne- cessariamente +» (/bid., $ 22). Queste considerazioni servono di passaggio alla definizione di O. che Kant dette nel dominio pratico e sentimentale: chiamando O. le leggi pratiche «che possono es- sere riconosciute valide per la volontà di ogni essere razionale » (Crir. R. Prat., $ 1); e « prin- cipio O. + l'accordo universale nel giudizio di gusto (Crit. del Giud., $ 22). 3° Queste considerazioni kantiane stabiliscono il trapasso al terzo significato fondamentale di O., cioè «valido per tutti». Questo significato assai diffuso nelle scuole criticiste e idealiste contempo- ranee, fu ben espresso da Poincaré: « Una realtà completamente indipendente dallo spirito che la concepisce, la vede o la sente, è una impossibilità. Un mondo esterno in questo senso, se anche esi- stesse, ci sarebbe inaccessibile. Ma ciò che chia- miamo realtà O. è, in ultima analisi, ciò che è comune a più esseri pensanti e potrebbe essere comune a tutti» (La valeur de la science, 1905, pag. 9). Poincaré riferiva questa considerazione alle matematiche; ma quasi contemporaneamente lo stesso concetto di oggettività veniva fatto valere nella metodologia delle scienze sociali da Max Weber: il quale osservava che «la verità scientifica è quella che è valida per tutti coloro che cercano la verità » e che anche nelle scienze sociali ci sono risultati che non sono soggettivi nel senso di essere validi per una sola persona e non per le altre (« L’og- gettività nelle scienze sociali e nella politica sociale », 1904, in 7he Methodology of the Social Sciences, 1949, pag. 84). Questo tipo di oggettività si chiama oggi intersoggettività; e la condizione fondamentale di essa è riconosciuta nel possesso e nell’uso di speciali tecniche procedurali che, in un dato campo, garantiscano la messa a prova e il controllo dei risultati di un'indagine. « Valido per tutti» signi- fica perciò anche « intersoggettivamente valido » o « conforme a un metodo qualificato +». E allo stesso concetto di O. si connettono i significati di « indi- pendente dal soggetto» e di «esterno alla co- scienza +. Ciò che è O. nel senso d'esser valido OGGETTIVO, IDEALISMO per tutti è difatti indipendente da questo o quel soggetto, cioè dalle sue particolari preferenze o valutazioni; e dall’altro lato il solo mezzo che un soggetto particolare ha per disciplinare o tenere a freno le sue preferenze e valutazioni è quello di far ricorso a qualificati procedimenti di metodo. Infine l’equivalenza tra O. ed esterno è la trascri- zione di questi stessi concetti sul piano di quel linguaggio coscienzialistico nel quale le parole «esterno» ed «interno» trovano una qualche giusti- ficazione del loro uso (v. ESTERIORITÀ; REALTÀ). OGGETTIVO, IDEALISMO (ted. Objektiver Idealismus). Uno dei tre tipi fondamentali di filosofia cioè di intuizione del mondo, secondo Dilthey, e precisamente quella che è fondata sul sentimento e dominata dalla categoria del valore. In questo tipo di filosofia Dilthey comprendeva Eraclito, gli Stoici, Spinoza, Leibniz, Shaftsbury, Goethe, Schel- ling, Schleiermacher, Hegel, e riteneva proprio di essa il panteismo (Das Wesen der Philosophie, 1907, III, 2; trad. ital., in Critica della Ragione storica, pag. 469) (v. IDEALISMO DELLA LIBERTÀ; NATURALISMO). OGGETTO (lat. Obiectum; ingl. Object; fran- cese Objet; ted. Objekt, Gegenstand). Il termine di una qualsiasi operazione, attiva o passiva, pratica, conoscitiva o linguistica. Il significato della pa- rola è generalissimo e corrisponde al significato di cosa (v.). O. è il fine a cui si tende, la cosa che si desidera, la qualità o la realtà percepita, l’immagine fantasticata, il significato espresso o il concetto pen- sato. La persona è oggetto di amore o di odio, di stima, di considerazione o di studio; e in questo senso l’io stesso è o può essere oggetto. Ogni attività o passività ha come suo termine o limite un’O., qualificato in corrispondenza del carattere specifico dell'attività o della passività. Accanto a questo significato generalissimo e fondamentale, per il quale il termine è insostituibile, si riscontra talora, nel linguaggio filosofico e nel linguaggio comune, un significato più ristretto o specifico, per il quale l’O. è tale solo se provvisto di una particolare vali- dità: ad es. se è «reale» o «esterno» o « indipen- dente», ecc. (v. OGGETTIVO). Questo secondo significato tuttavia non elimina ma presuppone il primo. La parola è stata introdotta nella filosofia dagli Scolastici del sec. xm. Essa è chiaramente definita da San Tommaso il quale dice che «l’O. di una potenza o di un abito è propriamente ciò sotto la cui ragione (ratio) è compreso tutto ciò che si rife- risce alla potenza o all’abito in questione. Per es.: l’uomo e la pietra si riferiscono alla vista in quanto sono colorati: ciò che è colorato è dunque l’O. proprio della vista» (S. 7%., I, q.1, a. 7). Questa nozione di O. veniva sostanzialmente ripresa da OGGETTO Duns Scoto che definiva l’O. di un sapere come la materia (subjectum) del sapere stesso in quanto appresa o conosciuta. Una materia conoscibile diventa, secondo Duns, O. conosciuto mediante un abito intellettuale che sia relativo a questo oggetto (Op. Ox., Prol., q. 3, a. 2, n. 4). Jungius non faceva che esprimere nel modo più semplice la stessa no- zione quando affermava: « Si dice O. ciò intorno cui vertono le facoltà, gli abiti e i loro atti» (Logica, 1638, I, 9, 37). Wolff a sua volta diceva: «O. è l’ente che termina l’azione dell’agente o nel quale terminano le azioni dell’agente: sicchè è quasi un limite dell’azione » (Ont., $ 949). Questo significato è rimasto fondamentale nel- l'uso che del termine è stato fatto nella filosofia moderna e contemporanea. La questione del carat- tere reale o ideale dell’O. in generale o di una classe specifica di O. (ad es. degli O. fisici o cose), non ha influito su di esso. Così l’O. della conoscenza può essere considerato un’idea (come voleva Berkeley) o una rappresentazione (come voleva Schopenhauer) o una cosa materiale (come voleva la Scuola scozzese del senso comune) o un fenomeno (come voleva Kant), ma esso è sempre, come O., il termine o limite dell'operazione conoscitiva. Tuttavia proprio Kant inizia l’uso ristretto del termine per il quale l’O., o più esattamente l’O. di conoscenza è, di preferenza, l’O. « reale» o «empirico ». Dice Kant infatti: « C'è gran differenza tra l'essere qualcosa data alla mia ragione come O. assolutamente o solo come O. nell’idea. Nel primo caso, i miei con- cetti passano a determinare l’O.; nel secondo non c'è realmente che solo uno schema al quale non viene attribuito direttamente alcun O., neppure ipoteticamente, ma che serve soltanto a rappresen- tare altri O., nella loro unità sistematica, per mezzo della relazione loro all’idea. Così io dico: il concetto di una intelligenza suprema è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve consistere in ciò che esso si riferisca direttamente ad un O. (poichè il suo valore oggettivo non può essere giu- stificato in questo modo) ma è solo uno schema, ordinato secondo le condizioni della massima razio- nalità del concetto di una cosa in generale » (Crif. R. Pura, Dialettica, Appendice). Queste considera- zioni di Kant tornano a dire che l’idea della ragion pura, propriamente parlando, non ha O. perchè l'O. è soltanto quello empirico (la cosa naturale) e l’idea si riferisce solo indirettamente a un gruppo di tali oggetti. Tuttavia questo significato specifico dell'O. non elimina, neppure per Kant, il significato generale e fondamentale. Kant infatti non solo considera il concetto di O. come il concetto « più alto » in filosofia (v. Ia chiusa di questo articolo), ma anche parla di una « distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni» e considera 633 lo stesso noumeno come « l’O. di un’intuizione non sensibile» ammessa in linea ipotetica, in quanto potrebbe essere propria di un intelletto divino (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III). D'altronde per Kant, oltre che l’O. di conoscenza, c’è «l’O. della ragion pratica» che è «la rappresentazione di un O. come di un effetto possibile mediante la libertà » (Crif. R. Prat., I, Libro I, cap. 2): il che vuol dire che l’O. è in questo caso il termine o il risultato di un’azione libera. Ciò che in ogni caso costituisce l’O. è la sua funzione di limite o termine di un’attività o di un’operazione qualsiasi. Tale nozione non viene meno neppure nelle più radicali forme dell’idealismo: per lo stesso Fichte l'O. è infatti il limite dell’attività dell’Io. «L’Io pone se stesso come limitato dal non io +, egli dice (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, A); e il non io non è che 1’O. (/bid., $ 4, E, III; trad. ital., pag. 143). Analogamente, ogni altra determinazione che i filosofi possono dare della natura dell’O. assume come punto di partenza la definizione generale di esso. Ad es. l’O. può essere considerato come un dato (come fanno abitualmente gli empiristi) o come un problema (come hanno fatto i neocriticisti, per es. NatoRP, Platos Ideenlehre, pag. 367); ma può essere l’una o l’altra cosa solo se viene considerato come il termine o il limite dell’attività conoscitiva. Nella filosofia contemporanea, il ricorso della nozione di intenzionalità (v.) ha permesso di rico- noscere chiaramente il carattere generale della nozione di oggetto. Brentano che per primo ha reintrodotto quella nozione, dice che « ogni fenomeno psichico include in sè qualcosa come O., sebbene non sempre allo stesso modo. Nella rappresenta- zione c’è qualcosa di rappresentato, nel giudizio qualcosa di riconosciuto o negato, nell'amore qual- cosa di amato, nell’odio qualcosa di odiato, ecc. + (Psychologie vom empirischen Standpunkt, 1874, I, pag. 115). E Husserl ha ancora generalizzato il concetto, distinguendo l’O. dall’ « O. afferrato ». « Si deve notare, egli ha detto, che l’O. intenzionale di una coscienza (preso come pieno correlato di questa) non è affatto uguale all’O. afferrato (erfass- tes). Noi siamo soliti di assumere senz’altro l’essere afferrato nel concetto di O. (di O. intenzionale) in quanto, pensando ad esso o parlandone, ne facciamo un O. nel senso dell'afferrato. ...Certo non possiamo rivolgerci ad una cosa fisica se non afferrandola; e lo stesso si dica di tutte le oggettività schiettamente rappresentabili... Invece nell’atto del valutare, in quello del gioire, dell’amare, dell'agire,

noi siamo rivolti rispettivamente al valore, all’O. felicitante, all’O. amato, all’azione, senza afferrare nulla di tutto questo » (Zdeen, I, $ 37). Parallelamente ed analogamente, Meinong difendeva il significato 634 generalissimo della nozione di O. (Gegenstand) dividendola nelle due classi degli O. della rappre- sentazione od obbietti (Objekre) e degli O. del giudizio od obbiettivi (Objektive) (Uber Annahmen, 1902, pag. 142 sgg.). Quasi contemporaneamente, nel dominio della logica matematica, Frege difen- deva una nozione sostanzialmente identica dell’O., identificando l’O. con il significato. « Il significato di una parola, egli diceva, è l’O. che noi indichiamo con essa» (Uber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 3; trad. ital., pag. 222): e intendeva dire che l’O. è il termine o il limite dell’operazione linguistica, cioè dell’uso del segno. A sua volta Wittgenstein diceva «Il nome variabile ‘x’ è il segno proprio dello pseudo concetto oggetto. Ogni qualvolta il termine O. (‘ cosa ’, ‘ entità ’, ecc.) è usato corretta» mente, viene espresso nel simbolismo logico dal nome variabile» (7ract. /ogico-philos., 4.1272). Non molto lontano da questa è la nozione di O. esposta da Dewey per il quale O. è il risultato di un’opera- zione di indagine. «Il nome O., egli dice, sarà riservato alla materia trattata nella misura in cui essa è stata prodotta e ordinata in forma sistematica per mezzo dell’indagine; proletticamente, oggetti sono gli obbiettivi dell’indagine. L’ambiguità che si potrebbe riscontrare nell’uso del termine in questo senso (poichè di regola la parola si applica alle cose osservate e pensate) è soltanto apparente, giacchè le cose esistono come O. per noi solo in quanto siano state preliminarmente determinate quali risul- tati di indagine » (Logic, cap. 6; trad. ital., pag. 175). È facile vedere che la differenza tra queste defini- zioni di O. è soltanto la differenza fra le attività o le operazioni che si considerano: l’O. è il termine del significato, se si considera il linguaggio e in generale l’uso dei segni; è il termine di un’operazione di inda- gine se si considera la ricerca scientifica; e così via; ma in ogni caso è (come già ritenevano gli Scolastici) il termine o il limite di un’operazione determinata. La parola O. è perciò il termine più generale di cui disponga il linguaggio filosofico. Kant aveva ragione a questo proposito affermando che se «il più alto concetto da cui si suol prendere le mosse in una filosofia trascendentale è la divisione di possibile e impossibile», poichè ogni divisione presuppone un concetto da dividere, « dev'essere addotto un concetto ancora più alto e questo è il concetto di un O. in gezerale, assunto in modo problematico e senza decidere se esso sia qualcosa o niente» (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). È ovvio che il concetto di O. non coincide interamente con nessuna delle sue specificazioni possibili. Le cose, i corpi fisici, le entità logiche e matematiche, i valori, gli stati psichici, ecc., sono tutti O., specificati o specificabili per via di particolari modi d’essere OGNI o di particolari procedure di accertamento; ma nessuna di queste classi di O. possiede un’oggettività privilegiata e nessuna si presta ad esprimere, nel suo àmbito, la caratteristica dell'O. in generale. OGNI (gr. nic; lat. Omnis; in. Any; fr. Chaque; ted. Jeder). Nella logica contemporanea, O.» è un operatore di campo, di cui il simbolo più usato è ‘(x) *», per es. in formule come ‘(x)-f(x) ”, che si legge « per ogni x, f(x) è vero». Esso corri- sponde ad un prodotto logico (o congiunzione logica) operato nel campo di validità della (x), cioè alla congiunzione ‘f(a) e f(b) e f(c) e... *. Ove f(x) sia un predicato, questa equivale alla formula consueta ‘ O. x è f” o anche ‘tutti gli x sono f della logica tradizionale. Aristotele aveva usato «O.» nella proposizione universale afferma- tiva: «Ogni A è B» e quest’uso fu seguito dalla logica medievale. In questo uso la funzione di « O. » non si distingue da quella di «tutti». Tuttavia la logica terministica medievale distinse due significati di « tutti »: il significato collettivo per cui, ad es., sì dice « Tutti gli Apostoli sono 12» dal quale non segue che « Questi Apostoli sono 12»; e il signifi- cato distributivo per cui, ad es., si dice « Tutti gli uomini desiderano naturalmente conoscere +, dal quale segue «O. uomo desidera naturalmente co- noscere ». In quest’ultimo caso «O.» indica una disposizione della cosa che può fungere da soggetto o da predicato (Pietro Hispano, Summ. Log., 12.04-06). Nella logica moderna la distinzione tra O. e tutto è stata fatta valere da Frege (Grundgesetz der Arithmetik, 1893, I, $ 17) e da Russell. Quest’ul- timo ritiene che tale distinzione consiste nel fatto che un’asserzione contenente una variabile x, per es. ‘x = x”, può essere fatta valere o per lutti gli esempi o per uno qualsiasi degli esempi senza decidere a quale esempio si faccia riferimento. In questo secondo caso si fa uso dell’operatore ogni. Così nelle dimostrazioni di Euclide si assume, per ragionare, un triangolo qualsiasi ABC senza determinare che specie di triangolo sia. In tal caso, il triangolo ABC vale come una variabile reale: esso è qualsiasi triangolo, per quanto rimanga lo stesso attraverso la dimostrazione. L’operatore tutti invece fa leva su variabili apparenti che sono quelle le quali, comunque determinate, non mutano il valore della funzione. Russell ritiene che la distin- zione tra rutti e O. sia necessaria al ragionamento

deduttivo (Marhematical Logic as Based on the Theory of Types, 1908, in Logic and Knowledge, pag. 64 sgg.; cfr. Principles of Mathematics, $ 60-61; Principia Mathematica). OLIGARCHIA. V. Governo, FORME DI. OLISMO (ingl. Holism; franc. Totalisme; te- desco Holismus). 1. Una variante della dottrina ONIROLOGIA dell’evoluzione emergente (v.) che consiste nel capovolgimento dell’ipotesi meccanistica e nel rite- nere che non già i fenomeni biologici siano dipen- denti da quelli fisico-chimici, ma questi ultimi dai primi. Questa ipotesi non è che una forma appena mascherata di vitalismo. Cfr., J. C. SMuTs, Holism and Evolution, 1927; J. S. HALDANE, The Philoso- vhical Basis of Biology, 1931; DRIEscH, Zur Kritik es Holismus, 1936. 2. K. Popper ha chiamato O. la tendenza degli storicisti a sostenere che l’organismo sociale, come quello biologico, è qualcosa in più della semplice somma complessiva dei suoi membri ed è anche qualcosa in più della semplice somma com- plessiva delle relazioni esistenti tra i membri (The Poverty of Historicism, 1944, $ 7). OLOMERIANI (ingl. Holomerians; ted. Holo- merianer). Così Henry More chiamò coloro che credono che l’anima risieda nella totalità del corpo piuttosto che in una parte di esso (Enchiridion Metaphysicum, I, 27, 1). OMEOMERIE (gr. suotoptperar; ingl. Homeo- meries; franc. Homéomériesj ted. Homoiomerien). Con questa espressione che significa « parti simili » Aristotele chiamò i semi di Anassagora cioè le parti (che non sono elementi perchè sempre a loro volta divisibili) che secondo Anassagora com- pongono un corpo e che sono in prevalenza simili al corpo stesso. Così, per quanto in ogni corpo vi siano particelle o semi di tutti gli altri corpi, in ogni corpo tuttavia è prevalente una certa specie di particelle che è quella che dà nome al corpo stesso (ARIST., De Caelo, III, 3, 302 b 3; Met., I, 3, 984a 14; cfr. Diog. L., II, 8; Lu- crEzIO, De rer. nat., I, 830; Sesto EMPIR., Adv. Math., X, 25). OMINISMO (ted. Hominismus). Termine creato da Windelband per indicare il relativismo e cioè la dottrina che l’uomo è la misura di tutte le cose (v. RELATIVISMO). OMOGENEITÀ (ingl. Homogeneity; fran- cese Homogénéité; ted. Homogeneitàt). La relazione tra cose che appartengono allo stesso genere (per es., bianco e nero); o hanno la stessa composizione (per es., le parti di un oggetto composto dallo stesso materiale); o che hanno tra loro parti simili cioè che si corrispondono termine a termine (per es., due orologi costruiti allo stesso modo). Spencer usò il termine nel senso di indifferenziazione e definì l’evoluzione come il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, cioè da ciò che è indifferenziato a ciò che è differenziato in parti tra loro diverse (First Principles, $ 145). Kant chiamò «principio della O.» la regola della ragione di cercare unificazioni concettuali sempre più estese cioè generi sempre più alti; 635 regola che farebbe da contrapposto simmetrico a quella della specificazione (v.) e con questa conflui- rebbe nella legge dell’affinità (v.) (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica trascendentale). Hamilton ripetette sostanzialmente queste nozioni kantiane. Egli chiamò «legge di O.» l’enunciato che « Due concetti per quanto differenti tra loro possono sempre essere subordinati a un concetto più alto; o che, in altri termini, le cose più dissimili devono, in certi rispetti, essere simili». Accanto a questa, Hamilton enunciò pure «la legge di eterogeneità » secondo la quale «Ogni concetto contiene sotto di sè altri concetti; e perciò, quando venga divisa, si discende sempre ad altri concetti, mai agli indi- vidui; o che, in altri termini le cose più omogenee o simili devono in certi rispetti essere eterogenee o dissimili ». Queste due leggi governano, secondo Hamilton, tutta la classificazione delle cose in generi e specie (HAMILTON, Lectures on Logic, $ 40; vol. I, 22 ediz., 1865, pag. 209-10). OMOIUSIA-OMUSIA (gr. suorcvola, suovola). Si disse che l’intera disputa teologica che mise capo al Concilio di Nicea (325) vertesse intorno a un iota: cioè alla differenza tra l’omoiusia, la dottrina di Ario che ammetteva solo una somi- glianza tra la sostanza di Dio-Padre e quella del Logos e l’omusia cioè la dottrina di Atanasio che ammetteva l’identità della sostanza di Dio-Padre con quella del Logos. La decisione del Concilio in favore dell’omusia stabilì il principale caposaldo dogmatico della teologia cristiana. OMOLOGIA (gr. suoroyla; ingl. Homology; franc. Homologie; ted. Homologie). 1. Per gli Stoici questo era il termine tecnico per indicare l'accordo con la natura quale regola fondamentale della con- dotta (STOBEO, Ecl., II, 76, 3): termine che Cice- rone tradusse con convenientia (De Fin., III, 6, 21). 2. L’O. è oggi un concetto scientifico variamente de- finito nelle varie discipline. In geometria si dicono omologhi gli elementi di due figure simili che si corrispondono. In biologia si dicono omologhi gli organi che si corrispondono per la loro situazione nei confronti dell’intero organismo, pur non avendo la stessa funzione (com'è invece degli organi ana- loghi) (v. ANALOGIA). OMONIMIA (ingl. Homonymy; franc. Homo- nymie; ted. Homonymie). In Aristotele designa l’am- biguità di un termine, cioè il fatto che il termine stesso venga usato a denotare cose diverse. L’O, della frase si chiama anfibolia (v.) (v. EquIvoco; UNIVOCO). G. P. OMOTEISMO (ingl. Homotheism; ted. Homo- theismus). Lo stesso che antropomorfismo (v.). Ter- mine creato da Ernesto Haeckel. ONIROLOGIA. L'’interpretazione dei sogni (v. SOGNO). 636 ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA. Vedi TEODICRA. ONORE (gr. «ia; ingl. Honor; franc. Honneur; ted. Ehre). Ogni manifestazione di considerazione e di stima tributata ad un uomo da altri uomini, come pure l’autorità o il prestigio o la carica di cui venga riconosciuto investito. Gli antichi con- siderarono l’O. come uno dei beni fondamentali della vita sociale; e Aristotele riconobbe che c’è una virtù nei confronti dell'O., come c'è una virtù (la liberalità) nei confronti del denaro. Tale virtù è la magnanimità (v.), il cui eccesso è l'ambizione e il cui difetto è la piccolezza d’animo (Et. Nic., II, 7, 1107b 20). Questa accentuazione dell’im- portanza dell’O. ritenuto come «il premio della virtù e del ben fare» (/bid., VIII, 14, 1163b 3) deriva all’etica greca, dalla quale è passata nel costume e nel diritto della tradizione occidentale, dalla sua impostazione aristocratica. La « rispetta- bilità » è, nel mondo moderno, l’analogo di questo antico concetto. È abbastanza ovvio tuttavia che «il ben fare + (svepyeota) del quale, oltre che della virtù, l'O. dovrebbe essere il premio, secondo Ari- stotele, include una buona dose di conformismo ai pregiudizi dominanti nel gruppo o nella classe sociale che conferisce l’O. e l’analogo moderno dell’O., la rispettabilità, non include una dose minore di conformismo. Non fa perciò meraviglia che l’O. abbia spesso suggerito e continui a sug- gerire azioni immorali o malvagie o veri e propri delitti, sia nella vita privata, sia nei rapporti tra i popoli, nei quali 1’O. ha spesso avuto una parte predominante nel suscitare o mantenere vivi i con- flitti. ONTICO (ingl. Ontic; franc. Ontique; tedesco Ontisch). Esistente: distinto da ontologico che si riferisce all’essere categoriale cioè all’essenza o alla natura dell’esistente. Ad es., la proprietà empirica di un oggetto è una proprietà O., la possibilità o la necessità è una proprietà ontologica. La distin- zione è stata sottolineata da Heidegger: «‘ Onto- logico’ nel senso che alla parola è dato dalla volga- rizzazione filosofica (e qui si fa avanti la radicale confusione) significa ciò che invece dovrebbe venir detto O. cioè un atteggiamento verso l'ente tale da lasciarlo essere in se stesso, in ciò che è e com'è. Ma con tutto ciò non è ancora stato posto il pro- blema dell’essere, nè tanto meno raggiunto ciò che deve costituire il fondamento per la possibilità di una ‘ontologia ’» (Vom Wesen des Grundes, I, n. 14; trad. ital., pag. 23). ONTOGENESI. V. BrogENETICA, LEGGE. ONTOLOGIA. V. METAFISICA. ONTOLOGICA, PROVA. V. Dio, Prove DI. ONTOLOGISMO (ingl. Ontologism; francese Ontologisme; ted. Ontologismus). La dottrina se- ONNIPOTENZA, ONNISCIENZA condo la quale «il lavoro filosofico non comincia nell’uomo ma în Dio, non sale dallo spirito all'Ente, ma discende dall’Ente allo spirito» (GIOBERTI, Intr. allo studio della fil, 1840, II, pag. 175). L’O. si oppone allo psicologismo che segue il cam- mino opposto e si ritiene proprio della filosofia moderna a cominciare da Cartesio. La tesi fonda- mentale dell'O. è che l’uomo possiede una visione o intuizione immediata o diretta dell’ente: o del- l’ente genericamente inteso come nozione generale dell’essere, come ritiene Rosmini; o dell’ente in- teso come lo stesso Ente supremo cioè Dio, come ritiene Gioberti. Questa tesi fondamentale deriva agli ontologisti dall’agostinismo scolastico che aveva sempre insistito sulla diretta illuminazione dell’in- telletto umano da parte di Dio; e, più immediata- mente, dagli Occasionalisti e da Malebranche che avevano ridotto ogni specie di conoscenza alla vi- sione in Dio (v. AGOSTINISMO; OCCASIONALISMO). L’O. rientra tuttavia nel quadro di quel ritorno romantico alla tradizione che, nella prima metà dell’800, domina la filosofia europea e fa leva sui due concetti strettamente connessi di rivelazione e di tradizione: difatti l'intuizione dell’ente è intesa come la rivelazione che l’ente fa di se stesso al- l’uomo. L’O. di Rosmini limita questa rivelazione alla nozione generale dell’essere o «essere possibile », inteso come forma fondamentale e originaria della mente umana e come condizione di ogni conoscenza, che sarebbe sintesi tra l’idea dell'essere e un dato sensibile (Nuovo saggio sull’origine delle idee, 1830, $ 492, 537). L’atto della conoscenza così intesa è la percezione intellettiva (v.). Gioberti invece ri- tenne che Dio si rivela all'uomo (all’intuito) nella sua stessa attività creatrice; e vide l’intuito stesso espresso pienamente nella formula «l’Ente crea l’esistente » che pone in relazione tre realtà: la Causa prima, le sostanze create e l’azione crea- tiva (Intr. allo studio della fil., 1840, II, pag. 183). Sia Rosmini che Gioberti sono in polemica con la filosofia moderna che accusano di soggettivismo, di psicologismo e di nullismo; ma in realtà, come si è detto, la loro dottrina è di stampo schiettamente romantico e trova riscontro nella filosofia del se- condo Schelling, in quella di Schleiermacher e di altri epigoni romantici. Una continuazione del- l’O. nella filosofia contemporanea si può conside- rare la filosofia di P. Carabellese, che ha cercato di conciliare Rosmini con Kant. Carabellese con- sidera la coscienza, che è il punto di partenza e l’unico fondamento della filosofia, come la consa- pevolezza che il soggetto ha dell’essere; ma, a differenza di Rosmini e di Gioberti, considera l’essere come assolutamente immanente alla co- scienza stessa. Tuttavia anche Carabellese chiama OPINIONE tale essere Dio; e considera Dio come il fonda- mento dell’oggettività di tutte le cose particolari che la coscienza può attingere (Critica del concreto, 1921; 7 problema teologico come filosofia, 1931). ONTOTEOLOGIA. V. TroLogia, 2°. OPERATORE (ingl. Operator; franc. Opé- rateur; ted. Operator). In logica: un simbolo impro- prio [o sincategorematico (v.)], che può essere usato, insieme con una o più variabili e con una o più costanti o forme, per produrre una nuova costante o forma. Questa è la definizione data da A. Church (Intr. to Mathematical Logic, 1956, $ 06): ed è la definizione più generica che permette di comprendere nell’ambito del termine, oltre i quantificatori, anche: l’operatore di astrazione © astrattore (che viene indicato con una variabile preceduta dalla lettera 2) e al quale secondo taluni logici si riducono tutti gli altri; e l’O. di descri- zione o descrittore « (1) che, se è la variabile dell'O. come in (? x), si legge: «l’x tale che ». Gli O. quan- tificatori o quantificatori sono: il quantificatore uni- versale, per cui si usa la notazione «(x)» messa prima dell’operando e che si legge « per tutti gli x è vero che»; il quantificatore esistenziale, per il quale si usa abitualmente la notazione (3) che, se x è la variabile del quantificatore, come in (HA x), si legge «esiste un x tale che». L’applicazione di uno o più quantificatori a un operando si chiama quantificazione. Le notazioni citate sono quelle adoperate più comunemente nella logica contem- poranea, ma non sono le sole. Per maggiori rag- guagli, confronta la citata Insroduction di Church. OPERAZIONE (lat. Operatio; ingl. Operation; franc. Opération; ted. Operation). 1. Attività in generale. Questo è il significato che il termine ebbe nel Medioevo, quando fu usato come traduzione del greco èvépyera che vale attualità o attività. Questo è il senso in cui adoperò la parola S. Tom- maso (ad es., S. 7à., II, 1, q. 3, a. 2), e per il quale vale il principio che «il modo di operare di cia- scuna cosa segue il suo modo d’essere» (/bid., I, q. 89, a. 1). 2. Funzione nel significato 1: cioè l’attività ca- ratterizzata da un certo fine e propria di un essere determinato. In tal senso si dice, ad es., che «l’O. della fisica è quella di calcolare risultati che possono essere confrontati con l’esperimento » o che «l’O. della scienza è di dimostrare », ecc. 3. Funzione nel significato 2: relazione o corre- lazione. In questo senso si parla di O. matematiche o logiche. 4. Tecnica manuale cioè procedimento manipo- lativo da effettuarsi secondo regole determinate; per es., O. di misura, O. di produzione, ecc. OPERAZIONISMO (ingl. Operationism; fran- cese Opérationisme; ted. Operationismus). La dot- 637 trina secondo la quale il significato di un concetto scientifico consiste unicamente in un determinato insieme di operazioni. Ha proposto per primo questa dottrina P. W. Bridgman che così l’ha il- lustrata, con un esempio rimasto classico: « Noi conosciamo ciò che intendiamo per lunghezza se possiamo dire qual è la lunghezza di qualsiasi og- getto e il fisico non richiede niente di più. Per trovare la lunghezza di un oggetto dobbiamo ese- guire certe operazioni fisiche. Il concetto di lun- ghezza è perciò fissato quando le operazioni con le quali la lunghezza è misurata sono fissate: cioè il concetto di lunghezza implica niente di meno e niente di più che l’insieme delle operazioni con le quali la lunghezza è determinata. In generale con un concetto noi non intendiamo niente di più che insieme di operazioni; i/ concetto è sinonimo con il corrispondente insieme di operazioni. Se il concetto è fisico, come la lunghezza, le operazioni sono operazioni fisiche reali, per es., quelle con cui la lunghezza è misurata; se il concetto è mentale, come, per es., la continuità matematica, le opera- zioni sono operazioni mentali cioè quelle mediante le quali determiniamo se un dato aggregato di grandezze è continuo» (The Logic of Modern Physics, 1927, pag. 5). Come si vede le opera- zioni cui Bridgman faceva riferimento sono quelle di cui al significato 4 e 1; ma la sua dottrina è stata estesa in riferimento a qualsiasi specie di operazione ed è stata soprattutto utilizzata, fuori della fisica, dagli psicologi (cfr. S. S. STEVENS, « Psychology and the Science of Science », in Read- ings in Philosophy of Science, ed. P.P., Wiener, 1953, pag. 158-84). In base a quest’estensione della dot- trina dell'O. e conseguentemente del concetto di ope- razione, i soli caratteri riconoscibili al tipo di opera- zione che può valere come significato dei concetti scientifici sono quelli della pubblicità e ripetibilità: il primo esclude il carattere privato di certe attività puramente mentali, il secondo prescrive l’inter- soggettività delle operazioni stesse. Si dubita tut- tavia oggi che il criterio operazionistico possa valere per tutti i concetti scientifici (cfr., ad es., G. BERGMANN, Philosophy of Science, 1957, pa- gina 56 sgg.). OPINIONE (gr. 36ta; lat. Opinio; ingl. Opi- nion; franc. Opinion; ted. Meinung). Il termine ha due significati: nel primo, più comune e ristretto, designa ogni conoscenza (o credenza) che non includa alcuna garanzia della propria validità; nel secondo designa genericamente qualsiasi asserzione o dichiarazione, conoscenza o credenza, sia che includa sia che non includa una garanzia della propria validità. Questo secondo significato viene più spesso usato che definito esplicitamente. Nel primo significato, l’O. si contrappone alla scienza (v.). 638 Il primo significato si trova già in Parmenide che contrappone «le opinioni dei mortali» alla verità (Fr., 1, 29-30). Ma entrambi i significati si trovano già in Platone. Questi da un lato considera l’O. come qualcosa di mezzo tra la conoscenza e l’igno- ranza (Rep., 478 c), e come comprendente la sfera della conoscenza sensibile (congettura e credenza) (Ibid., VI, 510 a); e da questo punto di vista af- ferma che neppure l’O. vera sta ferma nell’anima « finchè non venga legata con un ragionamento c usale » e così diventi scienza (Men., 98 a; cfr. Fil., 59 a). Dall’altro considera come O. il discorso che l’anima fa con se stessa e in cui consiste il pen- siero (Teet., 190 a-c): nel qual senso la scienza stessa non è che una specie di opinione. I due significati si ritrovano egualmente in Aristotele, che da un lato afferma, con Platone, che le O., a dif- ferenza della dimostrazione e della definizione, sono soggette a mutare c perciò non costituiscono scienza (Met., VII, 15, 1039b 31); dall’altro dichiara: «Per principi intendo le O. comuni sulle quali tutti gli uomini fondano le loro dimostrazioni: per es., che un’asserzione dev'essere affermativa o negativa, che niente può simultaneamente essere e non essere, ecc.» (/bid., III, 2, 996 b 27). Nella tradizione posteriore, il significato generico si è perduto ed è rimasto l’altro. Gli Stoici defini- rono l’O. «un assenso debole e fallace» (SESTO EMP., Adv. math., VII, 151; cfr. Cicer., Tusc., IV, 7, 15); e nello stesso senso Epicuro chiamò l’O. « un’assun- zione a cui può capitare di essere sia vera che falsa » (Dio. L., X, 33). In altre parole, S. Tommaso esprimeva la stessa cosa dicendo: «L’O. è l’atto dell’intelletto che si porta su una parte della contrad- dizione con la paura dell’altra » (S. 7à., I, q. 79, a. 9). Wolff chiamava O. «la proposizione insuffi- cientemente provata? (Log., $ 602); e Spinoza identificava l’O. con la conoscenza del primo genere, che è la più bassa ed incerta e procede da segni (Et., IT, 40, Scol. IM. Kant parimenti dice: « L’O. è una credenza insufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente, accompagnata dalla consa- pevolezza ». La consapevolezza consiste nel fatto che « non si può presumere di opinare senza almeno sapere qualcosa per mezzo del quale il giudizio problematico abbia una certa connessione con la verità »: altrimenti, «tutto è soltanto un giuoco dell’immaginazione senza la minima relazione con la verità » (Cri. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. 2, sez. 3). Kant affermava pure (/oc. cit.) che « nei giudizi derivanti dalla ragion pura non è affatto permesso opinare»; e che pertanto non si può opinare nè nel dominio della matematica nè nel dominio morale. Ma Hegel negava che ci fossero opinioni anche nel dominio della filosofia. « Un’O. egli diceva, è una rappresentazione soggettiva, un OPPOSIZIONE pensiero casuale, un’immaginazione che io mi formo in questa o quella maniera e che altri può avere in modo diverso: l’O. è un pensiero mio, non già un pensiero in sè universale, che sia in sè e per sè. Ma la filosofia non contiene opinioni, giacchè non ci sono opinioni filosofiche » (Geschichte der Philosophie, in Werke, ed. Glockner, XVII, pag. 40; trad. ital., vol. I, pag. 21). Questo punto di vista è stato ed è condiviso da tutte le filosofie assolu- tistiche ed è in realtà il punto di vista della metafisica tradizionale. Quello espresso da Kant, circa l’im- possibilità delle opinioni in campo scientifico, è stato invece condiviso dalla scienza positivistica dell’800. Ma il fallibilismo che prevale oggi sia nella scienza che nella filosofia rende assai meno sdegnosi e sprezzanti verso l’opinione. Da un lato non si ritiene che l’O. sia così privata o incomunicabile come Hegel affermava. Un’O. scientifica o filosofica può essere condivisa da molti proprio come O. cioè senza l’illusorio o surrettizio suo camuffamento in verità purchè rappresenti, a una certa fase della ricerca, l’ipotesi più ragionevole o la teoria meglio appoggiata dai fatti. Dice Dewey: « Nella soluzione di problemi che pretendono ad una esattezza minore della trattazione dei casi giuridici, i giudizi sono chiamati O. per distinguerli dai giudizi o asserzioni veramente giustificati. Ma se l’O. professata è fondata, è essa stessa prodotto di indagine e in quanto tale è un giudizio » (Logic, 1939, VII; trad. ital., pag. 179). Dall'altro lato, le stesse ipotesi o teorie meglio stabilite presentano una certa latitudine di interpretazioni possibili che lascia vasto campo a una diversità di opinioni. Infine la ripugnanza, condivisa (e con buone ragioni) da scienziati e filosofi a considerare come assoluta o necessaria la verità scientifica o filosofica, dimi- nuisce il divario tra la verità stessa e l’O. o tra l’O. e la scienza. Il concetto di O. non è oggi mutato da quello che gli antichi definivano: un impegno debole e soggetto a revisione, l’assenza di ogni garanzia di validità, costituiscono, anche oggi, le caratteristiche che si riconoscono proprie dell’opi- nione. Il campo dell’O. si è tuttavia esteso assai di più di quanto gli antichi non ritenessero e di quanto non ritenevano nè ritengano i filosofi assolutisti; e soprattutto si è indebolita la nettezza dei confini tra scienza e O.: giacchè non c’è posto o regione della scienza in cui non si intersechino fra loro O. e verità. OPPOSIZIONE (gr. 4 dvrixetueva; lat. Oppo- sitio; ingl. Opposition; franc. Opposition; ted. Gegen- satz, Opposition). La relazione di esclusione fra ter- mini o oggetti in generale. Aristotele distinse quattro forme di opposizione: 1° l’O. correlativa come, ad es., quella che intercede tra il doppio e la metà; 2° 1°O. contraria come quella che intercede tra il bene e ORDINE il male, il bianco e il nero, ecc.; 3° l’O. tra pos- sesso e privazione come quella che intercede tra la vista e la cecità; 4° l’O. contraddittoria che è la contraddizione (Car. 10, 11 b 15 sgg.) (v. su cia- scuna di queste forme le singole voci: CONTRAD- DIZIONE; (CONTRARIETÀ; ‘CORRELAZIONE; POSSESSO; ed inoltre QUADRATO DEGLI OPPOSTI). ORA (gr. 7è vv; lat. Nunc; ingl. Now; fran- cese Instant; ted. Jetzr). Con questo termine s’in- tende nel linguaggio della tradizione filosofica, l’istante come limite o condizione del tempo, quindi diverso dall'attimo (v.) che è una specie di incontro tra l'eternità e il tempo. Secondo Aristotele, l'O. è il presente istantaneo, senza durata, che funge da limite mobile tra il passato e il futuro (Fis., IV, 11, 219 a 25). La nozione ritorna frequentemente nelle speculazioni medievali sul tempo. Talvolta l’O. fu concepita come una res fluens che subito si corrompe e manca ed è soppiantata da un’altra (cfr. PIETRO AUREOLO, In Sent., II, d. 2, q.1, a. 3). Questa concezione fu combattuta da Ockham che identificò l’istante con la posizione del mobile il cui movimento si assume come misura del tempo (Summulae in libros physicorum, IV, 8). Nella filo- sofia contemporanea, il termine è stato adoperato da Husserl per indicare l’orizzonte temporale del- l’esperienza vissuta. Poichè nessuna esperienza può cessare senza la coscienza di cessare o di essere cessata, questa coscienza è un nuovo istante pre- sente od ora. « Ciò significa che ogni O. di un’espe- rienza ha un orizzonte di esperienze che hanno anch’esse la forma originaria dell’O. e come tali costituiscono l’orizzonte originario dell’io puro, il suo complessivo originario O. di coscienza » (Ideen, I, $ 82). ORDINE (gr. t4Ec; lat. Ordo; ingl. Order; franc. Ordre; ted. Ordnung). Una qualsiasi relazione tra due o più oggetti che possa essere espressa con una regola. Questa nozione, che è la più generale, fu espressa da Leibniz per la prima volta in un passo del Discorso di metafisica (1686): « Ciò che passa per straordinario lo è solo rispetto a qualche O. particolare stabilito tra le creature perchè, quanto all’O. universale, tutto è perfettamente armonico. Ciò è talmente vero che non solo non accade nulla nel mondo che sia assolutamente fuori regola, ma non si saprebbe nemmeno immaginare qualcosa che sia tale. Supponiamo infatti che qualcuno segni una quantità di punti sulla carta in un modo qualsiasi: io dico che è possibile trovare una linea geometrica la cui nozione sia costante e uniforme secondo una certa regola, e tale che passi per tutti questi punti proprio nell’O. con cui la mano li ha tracciati. E se qualcuno traccia una linea continua, ora retta ora curva ora d'altra natura, è possibile trovare una nozione o regola o equazione comune 639 a tutti i punti di questa linea in virtù della quale i mutamenti stessi della linea risultano spiegati. Per es. non vi è alcun viso il cui contorno non faccia parte di una linea geometrica e non possa essere tracciato d’un sol tratto a mezzo di un certo movi- mento regolato. Ma quando una regola è molto complessa ciò che le appartiene passa per irregolare. Così si può dire che in qualunque modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato sempre regolare e fornito di un O. generale » (Discours de mét., $ 6). L’O. in questo senso consiste semplice- mente nella possibilità di esprimere con una regola, cioè in modo generale e costante, una relazione qualsiasi intercedente tra due o più oggetti qualsiasi. La nozione di O. in questo senso non si distingue pertanto da quella di relazione costante. Ma questo è però solo il significato generalissimo della nozione stessa. Nell'ambito di esso si possono distinguere tre nozioni specifiche: 1° L’O. seriale; 2° L’O. totale; 3° Il grado o livello. 1° L’O. seriale è quello proprio della relazione di prima e dopo. Aristotele osservò che questa rela- zione ricorre là dove vi è un principio perchè in tal caso le cose possono essere più o meno vicino al principio. Un prima o un dopo può essere deter- minato rispetto allo spazio e al tempo o al movi- mento o alla potenza o alla disposizione. Anche nella conoscenza qualcosa vien prima dell’altra o per de- finizione o nel senso in cui la sensazione vien prima del concetto. In generale di due cose vien prima quella che può stare senza l’altra: tale, è secondo Aristotele, l’espressione più generale di questa forma d’ordine (Mer., V, 11, 1018 b 9). Aristotele sembra così privilegiare come O. seriale 1’O. causale che è per l’appunto quello nel quale la causa può stare senza l’effetto, ma l’effetto non può stare senza la causa onde viene dopo di essa: un’inter- pretazione che ritorna frequentemente nella tradi- zione filosofica. Sant'Agostino diceva, per es.: «O dimostrate che qualche cosa può avvenire senza causa o credete con me che nulla avviene se non per un certo O. di cause», identificando così la nozione stessa di O. con quella di causalità (De Ord., I, 4, 11). E Spinoza faceva coincidere l’O. delle cose con la loro connessione causale; e consi- derava come sinonimi le due espressioni «1’O. di tutta la natura» e «il nesso delle cause» (Er., II, 7, Scol.). Kant non solo effettuava la stessa identificazione ma addirittura considerava l’O. causale come condizione dell’O. temporale. « Una cosa, egli diceva, può acquistare il suo posto deter- minato nel tempo solo a condizione che si presup- ponga, nello stato precedente, un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre, cioè secondo una regola; donde risulta in primo luogo che non posso capo- volgere la serie e fare che il conseguente sia ante- 640 riore al precedente; e in secondo luogo che, quando lo stato precedente è posto, un determinato avveni- mento deve immancabilmente e necessariamente seguire » (Crir. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. II, sez. 3, Analogie dell’esperienza). Analogamente, per Bergson, l’O. naturale è quello «fisico» o « geometrico» o «automatico », fuori del quale non c’è che l’O. « vitale » o « voluto » cioè l'O. dei fini (Év. créatr., 83 ediz., 1911, pag. 251-52). Tuttavia questo privilegio accordato all’O. causale non sempre oscura il concetto formale dell’ordine seriale. S. Tommaso riprendeva la definizione di Aristotele: «Si parla sempre di O., egli diceva, nei confronti di qualche principio. E poichè si parla di principio in molti modi; cioè secondo il luogo, come quando si parla del punto; secondo

l’intelletto, come quando si parla del principio della dimostrazione; e secondo le cause singole; così anche si parla dell’O.» (S. 7A., I, q. 42, a. 3). In questo passo l’O. causale è soltanto una esempli- ficazione dell’O. generale. Allo stesso modo Wolff definiva 1'’O. come «l’ovvia similitudine per la quale le cose si collocano l’una rispetto all'altra o si seguono l’un l’altra »: dove l’ovvia similitudine è la costanza della relazione (Ont., $ 472). Lo stesso Kant esprimeva chiaramente il concetto di O. seriale quando identificava l’O. con la regolarità, come fece a proposito del concetto formale di natura (Crit. R. Pura, $ 26). C. I. Lewis, osserva che 1°O. aritmetico, che viene imposto agli oggetti naturali, consente «ad una infinita molteplicità di essere sottoposta ad una finita semplicità di regole » (Mind and the World-Order, 1929; ediz. 1956, pag. 363). I matematici e i logici, da Cantor in poi, considerano come O. una relazione delimitata da certe regole. Per es., se si assume la relazione precede, bastano le regole seguenti a ottenere un O. semplice: 1° nes- sun termine precede se stesso; 2° se 4 precede 6 e b precede c, allora a precede c; 3° se a e è sono due termini differenti qualsiasi, o 4 precede 6 o b precede a. Si può infine avere quello che Cantor chiamò un «insieme ben ordinato » ammettendo una quarta regola: in ogni classe non vuota di

termini c'è un primo termine cioè un termine che precede tutti gli altri della classe (cfr. A. CHURCH, Intr. to Mathematical Logic, $ 55). 2° La seconda specie di O. è quella che consiste nella disposizione reciproca delle parti di un tutto: come notava Aristotele, questa specie di O. può concernere il luogo, la potenza o la forma (Mer., V, 19, 1022 b 1). Questo è IO. che gli Stoici defi- nivano, secondo la testimonianza di Cicerone (Tusc., I, 40, 142) come «la disposizione degli oggetti nei loro luoghi adatti ed appropriati »; una definizione la quale, come è ovvio, presuppone che sia predisposto, per ogni oggetto, il luogo adatto ORESSI ed appropriato in vista del fine che è proprio dell’og- getto; ed è perciò fondata sul concetto di fine. Se l’O. seriale è, essenzialmente, un O. causale, l’O. totale è, essenzialmente, un O. finale. È questo 1’O. che Aristotele aveva paragonato a quello di un esercito o di una casa e di cui aveva detto: «Tutte le cose sono ordinate insieme intorno ad un'unica cosa: come in una casa in cui gli uomini liberi hanno regolato tutta o la maggior parte della loro attività mentre gli schiavi contribuiscono poco al bene comune» (Mer., 12, 10, 1075a 18). È l’O. che S. Tommaso chiamava «O. dei fini» o « degli agenti » (S. 7%., I, II, q.109 a. ©, che Kant ha chiamato O. morale o regno dei fini (v.) e Bergson «O. vitale» (Év. créatr., 8° ediz., 1911, pag. 251). Ovviamente, quando quest’O. viene attribuito al mondo, si considera il mondo stesso, o almeno il suo O., come il prodotto di un agente libero. 3° Infine il terzo concetto di O. è quello di grado o livello. Già S. Tommaso faceva la distin- zione tra l’O. come gerarchia e l’O. come singolo grado della gerarchia stessa: « Nel primo senso, egli diceva, l’ordine comprende sotto di sè diversi gradi; nel secondo è un grado solo, sicchè si parla di più ordini di un’unica gerarchia » (S. 7h., I, q. 108, a. 2). In questo secondo senso l'O. è sempli- cemente il grado, il piano o il livello, di un O. totale. ORESSI. V. APPETIZIONE. ORFISMO (lat. Orphismus; ingl. Orphism; franc. Orphisme; ted. Orphismus). Una setta filoso- fico-religiosa assai diffusa nella Grecia a partire dal sec. VI a. C. e che si riteneva fondata da Orfeo. La credenza fondamentale della setta era che la vita terrena fosse una semplice preparazione per una vita più alta, che poteva essere meritata per mezzo di cerimonie e di riti purificatori, che costi- tuivano l’armamentario segreto della setta. Questa credenza passò in diverse scuole filosofiche della Grecia antica (Pitagorici, Empedocle, Platone); ma l’importanza attribuita da alcuni filologi e filosofi, nei primi decenni di questo secolo, all’O. nella determinazione dei caratteri della filosofia greca non viene riconosciuta da alcuno. Cfr. O. KERN, Orphicorum Fragmenta, Berlino, 1923; I. M. Lin- FORTH, The Arts of Orpheus, 1941. ORGANICISMO (ingl. Organicism; franc. Or- ganicisme; ted. Organizismus). Ogni dottrina che interpreti il mondo, la natura o la società per ana- logia con l'organismo. L’O. è pertanto assai antico e diffuso giacchè sotto di essi ricadono sia le an- tiche speculazioni fisiche del mondo come « grande animale» sia le speculazioni politiche dello Stato concepito per analogia con l’uomo. Ma in realtà il termine (che è recente e deriva dalla biologia) viene abitualmente riferito soltanto a dottrine re- centi; in particolare, a quella di Whitehead il quale ORGANISMO ha chiamato il suo proprio punto di vista con questo termine o con quello di «filosofia dell’or- ganismo ». La dottrina di Whitehead fa proprio il concetto classico di organismo, come totalità le cui parti non precedono il tutto, e considera l’in- tero universo come un organismo in questo senso (Process and Reality, 1929). Essa è un O. anche perchè attribuisce la sensibilità a tutto il mondo reale (/bid., pag. 249). Fuori della filosofia, il termine è stato talora adoperato per designare le teorie sociologiche che interpretano la società umana come un organismo: ad es., la dottrina di Spencer (Principles of Sociology, 1876). ORGANICO (ingl. Organic; franc. Organique; ted. Organisch). Che è un organismo o appartiene all'organismo. Oltre i significati relativi a questo termine, l’aggettivo è stato ed è talora adoperato per indicare quella subordinazione delle parti al tutto che si ritiene propria dell’organismo. Così Saint-Simon e Comte adoperarono l’aggettivo O. per indicare le epoche in cui tutte le manifestazioni della vita sono subordinate ad un unico principio, come avvenne, ad es., nel Medioevo nei confronti del principio teologico (v. CRISI). ORGANISMO (gr. èpravixdv obpa; lat. Corpus Organicum; ingl. Organism; franc. Organisme; te- desco Organismus). Il corpo vivente in ciò che specificamente lo distingue da quello non vivente. Il concetto di O. fu per la prima volta formulato da Aristotele nel modo seguente: «Se la scure deve spaccare il legno, deve di necessità essere dura; e se dev'essere dura, dev’essere di necessità di bronzo o di ferro. Ora esattamente allo stesso modo, il corpo, che è uno strumento come la scure — giacchè sia le sue singole parti sia esso stesso nella sua totalità hanno ciascuno un loro fine — deve di necessità essere fatto così e così, se deve compiere la sua funzione » (De Part. An., I, 1, 642a 10). In questa nozione il tratto fonda- mentale è che l’intera struttura dell’O. è subordi- nata alla sua funzione cioè al suo fine di sopravvivere come O.; e da questo tratto deriva l’altro, della subordinazione delle parti al tutto. Perciò Aristo- tele dice, a proposito della composizione degli ani- mali, che una casa non esiste in vista dei mattoni e delle pietre, ma mattoni e pietre esistono in vista della casa (/bid., II, 1, 646a 27); e che «la scienza della natura si occupa della composizione e della totalità della sostanza e non delle parti che non possono esistere separatamente dalla so- stanza stessa » (/bid., I, 5, 645 a 33). La subordi- nazione delle parti al tutto che, esso solo, è la so- stanza, è rimasta la caratteristica fondamentale dell'organismo. Ma questa caratteristica è ovvia- mente determinata dalla struttura finalistica del- l'organismo. Proprio perchè questo nella sua to- 41 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 641 talità dev’essere adatto al suo fine e subordinato ad esso, le parti dell'O. devono essere subordinate alla totalità dell’O. stesso. Il concetto di fine è rimasto pertanto da Aristotele in poi a fondamento della nozione di O. e rimase tale anche quando, con Cartesio, l’O. cominciò ad essere considerato come una macchina. «Coloro che sanno, diceva Cartesio, quanti automi o macchine moventi l’in- gegnosità umana può costruire senza adoperare che pochi pezzi relativamente alla grande moltitu- dine di ossa, muscoli, nervi, arterie, vene, ecc., che sono nel corpo di ciascuno di noi, considerano questo corpo come una macchina che, essendo uscita dalle mani di Dio, è incomparabilmente meglio ordinata e ha in sè movimenti più am- mirevoli di quelle che possono essere inventate dagli uomini » (Disc., V). Un orologio o una mac- china infatti non è senza scopo; ed equiparando l’O. a una macchina, Cartesio non intendeva ne- gare la sua finalità ma semplicemente presentare la tesi che la struttura finalistica dell’O. dipende, non già da una forza esterna all’O. stesso cioè dall’anima, ma dalla varietà e dalla coordinazione delle parti, cioè dalla stessa organizzazione. Del resto anche Leibniz, che insistè fortemente sull’or- dinamento finalistico dell’universo, considerò l’O. come una macchina. «Ogni corpo organico, egli disse, è una specie di macchina divina o di automa naturale che sorpassa infinitamente tutti gli automi artificiali » (Mon., $ 64). Solo da Kant la finalità di un automa o di una macchina fu per la prima volta distinta da quella dell’organismo. «In un orologio, osserva, Kant, una parte è lo strumento che serve al movimento delle altre ma non è la causa efficiente della produzione delle altre: una parte esiste bensì in vista delle altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell’oro- logio e della sua forma... sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le idee di un tutto possibile mediante la sua causalità ». Nell’O. in- vece, «ogni parte è concepita come esistente solo per mezzo delle altre e per le altre e il tutto, vale a dire come uno strumento (organo) +: come « uno strumento che produce le altre parti ed è recipro- camente prodotto da esse +. In altri termini le parti di un O. sono nello stesso tempo causa ed effetto l’una rispetto all’altra e tutte rispetto alla totalità dell’organismo. In tal senso l’O. non possiede la semplice forza motrice, come la macchina, ma ha anche « una forza formatrice tale che si comunica alle materie che non l’hanno e che perciò può or- ganizzare; una forza formatrice che si propaga e che non può essere spiegata con la sola facoltà del movimento » (Crit. del Giud., $ 65). Queste notazioni kantiane, chiarendo assai bene il finalismo intrinseco dell’O., rendono in qualche 642 modo inutile il finalismo complessivo della natura o lo fanno passare in seconda linea. L’organizza- zione finalistica dell’O. infatti può essere compresa o ammessa indipendentemente dal finalismo uni- versale della natura. Tuttavia, le speculazioni della filosofia romantica sull’organismo, pur prendendo lo spunto dai concetti kantiani, tendono appunto a risolvere la finalità intrinseca dell'O. nella finalità universale; o meglio ad estendere la prima all’in- tero universo. Dice, ad es., Schelling: « Nel pro- dotto naturale è ancora congiunto quello che, nell’operare libero, si è separato in servizio del fenomeno. Ogni pianta è interamente quello che dev'essere; il libero è in essa necessario e il neces- sario libero... Solo la natura organica dà la com- pleta immagine della libertà e della necessità riunite nel mondo esterno » (System des transzendentalen Idealismus, V; trad. ital., pag. 289). Ancora più arbitrariamente, Hegel considera come primo O. la terra perchè è « un sistema universale di corpi individuali » (Enc., $ 338); ed afferma che, nono- stante la vitalità naturale si rompa nella moltepli- cità degli animali viventi, questi « nell’idea sono una sola vita, un unico sistema organico di vita » (Ibid., $ 337). Qui l’O. non è considerato nei suoi tratti specifici ma semplicemente dissolto nel fina- lismo cosmico. E a questo stesso risultato giunge la dottrina di Bergson che vede nell’O. il risultato di uno slancio vitale (o corrente di coscienza) che penetra e assoggetta la materia bruta. Quello che dal punto di vista della scienza è una « macchina », dal punto di vista della filosofia è l’equilibrio rag- giunto dallo slancio vitale nel suo sforzo formatore. « Per noi, egli dice, l’insieme di una macchina or- ganizzata rappresenta bensì l'insieme del lavoro organizzativo (benchè anche questo non sia vero che approssimativamente) ma le parti della mac- china non corrispondono alle parti del lavoro giacchè la materialità della macchina non rappre- senta più un insieme di mezzi adoperati ma un insieme di ostacoli aggirati: è una negazione più che una realtà positiva» (Év. créatr., 8* ediz., 1911, pag. 102). La realtà positiva è soltanto lo slancio vitale, cioè la coscienza. La disputa metafisica tra finalismo e meccanismo o tra materialismo e vitalismo non influisce sul con- cetto di organismo. Quella che dopo Kant si è convenuto di chiamare « finalità interna» dell’O. non è stata messa in dubbio neppure (come si è visto) da coloro che concepivano l’O. come mac- china. Dall’altro lato la risoluzione della finalità intrinseca dell’O. nel finalismo cosmico, che è cara a tutte le forme del vitalismo e in generale a tutte le interpretazioni metafisiche dell’O., non aiuta per nulla a chiarire il concetto di O. perchè non fa che dare, con l'appello a una tesi generica, una solu- ORGANISMO zione apparente al problema di intendere le forme specifiche di azione della finalità organica. I biologi contemporanei tendono pertanto a mettersi fuori dell’antitesi fra meccanismo e finalismo. Goldstein ritiene inutile l’appello all’enselechia come quello al finalismo cosmico; ma ritiene indispensabile in- sistere sull’azione dell'O. come totalità. Questo con- duce ad ammettere il finalismo interno dell'O. stesso: « L’ipotesi di un compito determinato, egli dice, è superflua per la comprensione dell’O., ma l’ipotesi di uno scopo determinato (la realizzazione dell’essenza dell'O.) è assai feconda per la nostra comprensione dell’O. » (Der Aufbau des Organismus, 1934, pag. 264). Più recentemente Simpson ha detto: « Noi sappiamo che il fuoco non è un elemento O principio separato ma è un processo e un’orga- nizzazione della materia in cui la condotta della materia è diversa da quella che è nel non-fuoco. Allo stesso modo, la veduta materialistica non è abbandonata quando la vita viene considerata come un processo e un’organizzazione in cui la condotta della materia è diversa da quella che si riscontra negli stati non viventi » (The Meaning of Evolution, 1952, pag. 125). Dall'altro lato la capacità del- l’O. di sfruttare le possibilità o opportunità che la sua struttura o le sue proprie variazioni o l’am-biente stesso gli offrono, quello che Simpson chiama l’opportunismo della vita, non è altro che la stessa « finalità intrinseca » di cui parlano gli altri biologi. Questa era stata anche riconosciuta da uno dei fondatori del Circolo di Vienna, Moritz Schlick. «Un gruppo di processi o di organi, egli aveva detto, è chiamato finalistico rispetto a un effetto definito, se quest’effetto è l’effetto normale nella cooperazione dei processi o degli organi. L’accento qui va sulla cooperazione; in un caso specifico, questi processi, dipendenti dalle circostanze, pos- sono accadere in vari modi ma sono dipendenti l’uno dall’altro e legati insieme in modo che pro- ducono sempre approssimativamente la stessa sorta di effetti » (« Naturphilosophie », in Die Philosophie in ihren Einzelgebieten, Berlin, 1925; trad. ingl., in Readings in the Philosophy of Science, 1953, pag. 529). Questo concetto di finalismo non ha certamente nulla a che fare con la tesi del finalismo universale: si tratta di un finalismo limitato, spe- cifico, che procede per tentativi e riesce solo in certi casi: non dell’infallibile piano universale in cui tutti gli esseri trovano una loro salvaguardia. Esso è stato talvolta chiamato releonomia (v.). Da questo punto di vista l’O. può essere considerato una macchina, dotata tuttavia di unità funzionale, coerente ed integrale e, per di più, che si costruisce da sè, sul fondamento di un piano o progetto che si mantiene relativamente invariante da una gene- razione all’altra (cfr., ad es., J MonoD, Le hasard ORIZZONTE et la nécessité, 1970, cap. III). V. CIBERNETICA; SISTEMA; STRUTTURA. ORGANO (gr. 8pyavov; lat. Organum; inglese Organ; franc. Organe; ted. Organ). Nel senso spe- cifico della biologia, dalla quale il termine è pas- sato alla filosofia, l’O. fu definito da Aristotele in base alla funzione da esso compiuta e per ana- logia con lo strumento inorganico: « Ogni stru- mento, egli disse, ed ogni parte del corpo ha un suo fine cioè una sua azione specifica... Come la sega è fatta per segare ma non il segare per la sega, sicchè il segare è la sua funzione specifica così il corpo è fatto per l’anima e le parti del corpo hanno per natura ciascuna la propria funzione» (De Part. An., 1, 5, 645b 12). Questo concetto è rimasto costante, nella biologia, nella filosofia e in tutti gli altri campi in cui viene adoperato. ORGANON (gr. 3pyavov; lat. Organum). Con questo titolo fu indicato, dai commentatori greci, l'insieme delle opere logiche di Aristotele cioè: il libro delle Categorie; il libro dell’Interpretazione; i due libri degli Analitici primi; i due libri degli Analitici posteriori; gli otto libri dei Topici e il libro degli Elenchi sofistici. Due altre volte il nome di O. compare come titolo di libro: cioè col Novum Organum (1620) di Francesco Bacone che esplici- tamente contrappose la sua logica alla logica ari- stotelica; e col Neues O. (1764) di J. H. Lambert, il filosofo illuminista tedesco con il quale Kant intrattenne un’importante corrispondenza. L’uso di tale titolo tuttavia non ha un rapporto preciso con il compito attribuito alla /ogica (v). ORIENTAMENTO (ingl. Orientation; fran- cese Orientation; ted. Orientierung). Questo termine fu introdotto in filosofia da Kant che intese per esso il problema del modo in cui la ragione deve condursi fuori dei limiti, assai ristretti, del sapere empirico cioè della conoscenza effettiva: « Orien- tarsi nel pensiero in generale, disse Kant, signi- fica: data l’insufficienza dei princìpi oggettivi della ragione, determinarsi nel dominio del verosimile, secondo un principio soggettivo della ragione stessa » (Was Heisst: sich im Denken Orientieren?, 1786, A, 310). Kant escludeva che l’uomo potesse orien- tarsi in base alla fede o ad un supposto sapere intuitivo. Il termine è stato ripreso da Jaspers che ha intitolato «O. filosofico nel mondo » il primo volume della sua Philosophie (1932). LO. nel mondo, si ha secondo Jaspers quando l’uomo considera se stesso come un elemento o cosa del mondo, fra innumerevoli elementi o cose, e cerca di trovare così la sua via. L’O. però mette capo soltanto alla rottura del mondo in una molteplicità di prospet- tive cosmiche (Phil., I, pag. 69 sgg.). Fuori di questi significati specifici, il termine viene ampia- mente adoperato, con significato assai poco pre- 643 ciso, nel linguaggio comune e filosofico contem- raneo. ORIGINE (lat. Origo; ingl. Origin; franc. Ori- gine; ted. Ursprung). Il termine ha due significati che vengono spesso confusi: 1° cominciamento o atto o fase iniziale; 2° fondamento o principio. Il «ritorno alle O.» che fu il tratto caratteristico del Rinascimento (v.) è una nozione fondata sullo scambio dei due significati. E sullo stesso scambio si fondò l’importanza dei cosiddetti problemi di origine, quali furono dibattuti nel sec. xvm e nel sec. x1x: l’O. delle idee, della vita, del linguaggio, delle specie viventi, ecc.; giacchè nei problemi così posti l’O. non significava solo la nascita nel tempo ma altresì il principio o il fondamento dell'oggetto di cui si cercava l’origine. Lo stesso significato equivoco aveva la parola nel vecchio problema dell’O. del male: Se Dio c’è, donde viene il male? E se non c’è, donde viene il bene? (cfr. S. Aco- stino, Conf., VII, 5). «Giudizio di O.» chiamò H. Cohen il giudizio nel quale qualcosa è dato, non come materiale grezzo, ma come ciò che il pensiero stesso può trovare: come il segno x della matematica che significa, non l’indeterminatezza, ma la determinabilità (Logik, 1902, pag. 83). ORIZZONTE (gr. repityov; lat. Horizon; in- glese Horizon; franc. Horizon; ted. Horizont). Il li- mite che circoscrive le possibilità di una ricerca, di un pensiero o di un’attività qualsiasi: un limite che si può spostare ma si ripresenta dopo ogni sposta- mento. Il termine fu introdotto in filosofia da Anassi- mandro (sec. vi a. C.) che considerò il Principio (l’infinito o apeiron) come ciò che « abbraccia tutte le cose e le dirige » (ARIST., Fis., III, 4, 203 b 11). Nel senso moderno il concetto fu chiarito da Kant che intese per orizzonte il limite o la mi- sura dell’estensione della conoscenza e distinse un orizzonte /ogico che concerne i poteri conoscitivi in rapporto all’interesse dell’intelletto; un orizzonte estetico che concerne il gusto in rapporto all’in- teresse del sentimento e un orizzonte pratico che concerne l’utile in rapporto all’interesse della vo- lontà. In generale « l’orizzonte concerne il giudizio e la determinazione di ciò che l’uomo può sapere, riesce a sapere © deve sapere»; e può essere ogger- tivo, nel qual caso è storico oppure razionale; o soggettivo nel qual caso è universale o assoluto oppure particolare o privato (Logik, Einleitung, $ VI, A). La nozione è stata ripresa nella filosofia contem- poranea e in primo luogo da Husserl, che ha inteso per O. il limite temporale (inteso come presente o ora) in cui cade ogni esperienza vissuta (/deen, I, $ 82); poi da Jaspers attraverso il quale è passata nel corrente uso filosofico. Dice Jaspers: « Noi sempre viviamo e pensiamo in un O. circoscritto. 644 Per il fatto stesso che si tratta di un O., abbiamo il presentimento di un O. più vasto che comprenda a sua volta l’O. raggiunto: sorge così il problema di un O. che abbracci ogni altro O. (O. conglobante, das Umgreifende). L’O. conglobante è un O. nel quale si offre a noi ogni tipo determinato di realtà e di verità ma è anche ciò in cui ogni singolo O. è compreso come in quell’O. che tutto congloba e che non è neppure più pensabile come O. » (Vernunft und Existenz, 1935, pag. 29). Mentre il concetto di O. conglobante, che è quello di O. di tutti gli orizzonti possibili, rimane proprio della filosofia di Jaspers, quello di O. può essere utilmente adoperato da qualsiasi indirizzo filosofico per indicare i limiti di validità di una ricerca determinata, o il tipo di validità cui aspirano gli strumenti di cui si serve (cfr. C. D. Burns, The Horizon of Experience, 1934; ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, pa- gina 95 segg.). ORMICA, TEORIA (ingl. Hormic Theory). Così è comunemente chiamata nella letteratura an- glosassone la teoria secondo la quale le emozioni dipendono da certi istinti fondamentali (spuì = = istinto), che sarebbero alla base di tutta l’attività psichica. La teoria è stata sostenuta da G. F. Stout, J. Dewey, S. Alexander, T. P. Nunn (che per primo ha adoperato l’espressione) e principalmente da W. McDougall. Su di essa vedi J. C. FLUGEL, Studies in Feeling and Desire, London, 1955 (v. EMOZIONE). ORTOGENESI (ingl. Ortlogenesis). La dot- trina che l’evoluzione della vita segua una linea retta o tenda a seguirla. Le interpretazioni date dai biologi a questo concetto sono disparate; sostanzialmente l’O. è la tesi difesa da coloro che ammettono il finalismo della vita. Talora, ma più raramente, il punto di vista opposto all’O. si chiama poligenesi: il riconoscimento di linee di evoluzione diverse e disparate nei fenomeni della vita (con- fronta G. G. Simpson, The Meaning of Evolution, 1952, pag. 132). OSSERVAZIONE (ingl. Observation; francese Observation; ted. Beobachtung). L'accertamento o la constatazione di un fatto, sia che si tratti di un accertamento spontaneo od occasionale sia che si. tratti di un accertamento metodico o progettato. L’O. è stata talora ristretta al primo significato, nel qual caso ad essa si contrappone l’esperienza o l'esperimento come accertamento deliberato o metodico (cfr. C. BERNARD, /ntroduction è l’étude de la médecine expérimentale, 1865, I, cap. 1). E talora è stata ristretta al secondo significato, nel qual caso ad essa si contrappone l’esperienza in- genua o primitiva o comune o occasionale (in tal senso il termine è adoperato solitamente nel lin- guaggio scientifico contemporaneo). Stando ciò, si possono comprendere sotto il termine entrambi ORMICA, TEORIA i significati e distinguere: 1° lO. naturale, che è quella nella quale le condizioni dell’O. non sono progettate o progettabili; e 2° l’O. sperimentale (o esperimento) che è l’O. progettata, caratterizzata dal controllo delle variabili. In questo secondo tipo di O., si può agire sulla variabile indipendente e si può studiare il corrispondente comportamento della variabile dipendente cioè della funzione collegata. Ogni O., sia naturale che sperimentale, presenta la divisione tra sistema osservante e sistema osservato. La validità di questa divisione è stata messa a prova (e riconfermata) dalla fisica dei quanta, a proposito delle relazioni di indetermi- nazione (v.) cioè dell’azione che il sistema osser- vante esercita su quello osservato. Bohr e Heisen- berg hanno mostrato che, mentre il limite tra sistema osservante e sistema osservato non è rigido, nel senso che sono possibili descrizioni diverse di uno stesso fenomeno nelle quali quel limite è diver- samente situato (cfr. BoHR, « Wirkumsquantum und Naturbeschreibung », in Nasurwissenschaften, 1929 [26], pag. 484-85), esso non può venir meno senza che venga meno il carattere fisico del sistema. Si può infatti evitare di calcolare l’azione disturba- trice del sistema osservante includendo, nel calcolo, lo stesso sistema osservante. Ma poichè anche così l’indeterminazione rimane a proposito dell'O. di quest’ultimo, bisognerebbe includere nel sistema osservato anche i nostri occhi. In questo caso, nota Heisenberg, «si potrebbe trattare quantitati- vamente la catena di cause ed effetti solo quando si considerasse come parte del sistema osservato l’intero universo; ma allora la fisica sparirebbe e rimarrebbe soltanto uno schema matematico. La suddivisione del mondo in sistema osservante e sistema osservato impedisce così la netta formula- zione della legge causale» (Die physikalischen Prinzipien der Quantentheorie, 1930, IV, $ 1). Come nota lo stesso Heisenberg, per « sistema osservante + non si deve intendere necessariamente l’osservatore umano giacchè per esso si può intendere anche una lastra fotografica o un apparato qualsiasi. Perciò la divisione, tra sistema osservante e sistema osser- vato, che la fisica ritiene indispensabile per dare significato fisico (cioè non puramente matematico) ai suoi enunciati, non equivale alla distinzione filosofica tradizionale tra oggetto e soggetto: alla quale d'altronde contrasta anche l’asserita mobilità del limite di demarcazione fra i due sistemi. OSTACOLO (ingl. Obstacle, Hindrance; francese Obstacle; ted. Hinderniss). Il limite di una attività. Così definì l’O. Fichte: « Che significa un’attività determinata e come diviene essa tale? semplice- mente per il fatto che ad essa viene contrapposto un O.» (Sittenlehre, 1798, Intr., $ VI; Werke, IV, pag. 7). Cfr. R. Le SENNE, Obstacle et Valeur, 1934. OTTIMISMO OSTENSIVO (gr. Sewmtwés; lat. Ostensivus; ingl. Ostensive; franc. Ostensif; ted. Ostensiv). Si qualificano così le prove dirette cioè che provano positivamente la verità di una tesi, per distinguerle dalle prove indirette che tendono a provare una tesi negativamente, con la dimostrazione della fal- sità del suo contrario. Le prove indirette sono dette apagogiche (v. ABDUZIONE; RIDUZIONE). La distinzione è in Aristotele (An. Pr., I, 23, 40b 27) ed è riprodotta da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 8, 2). Secondo Kant, l’uso delle prove apagogiche do- vrebbe essere proscritto in filosofia, mentre è le- gittimo nelle scienze sperimentali (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap. 1, sez. 4). OTTIMISMO (ingl. Optimism; franc. Opti- misme; ted. Optimismus). Questo termine si cominciò a diffondere nella cultura europea durante le discus- sioni filosofiche sull’ordine e sulla bontà del mondo cui dette luogo il terremoto di Lisbona del 1755. In un Poema sul disastro di Lisbona (1755) Voltaire aveva combattuto la massima « tutto è bene » consi- derandola come un insulto ai dolori della vita; e al- cuni anni dopo nel romanzo Candido o l°O. (1759), aveva fatto una satira feroce di questa massima e del- l’intero atteggiamento su di essa imperniato. L’O. trovava però altri difensori, tra i quali Kant che, nello stesso anno 1759 pubblicava un breve scritto intitolato « Saggi di talune considerazioni sull’O. » (Versuch einiger Betrachtungen iîber den Optimismus) (in seguito da lui ripudiato) nel quale difendeva la bontà del mondo in base alla tesi leibniziana che «quando Dio fa una scelta, sceglie sempre la cosa migliore ». Come Voltaire diceva, l’O. non è altra cosa che la teoria del finalismo universale. Così nel suo romanzo fa parlare il Dottor Pangloss maestro di « metafisico-teologo-cosmolonigologia »: « È dimostrato che le cose non possono essere altri- 645 menti: giacchè essendo tutto fatto per un fine, tutto è necessariamente volto al fine migliore. Notate bene che il naso è stato fatto per portare le lenti; e così noi abbiamo le lenti, ecc. ». Leibniz aveva detto che « Dio ha scelto il mondo che è più perfetto cioè quello che è nello stesso tempo il più semplice in ipotesi e il più ricco in fenomeni » (Disc. de mét., $ 6); e che «se nel mondo non ci fosse il minimo male, non si tratterebbe più del mondo: il quale tutto considerato e sommato è stato trovato il migliore dal creatore che l’ha scelto » (7héod., I, 9). Questo può essere espresso con la frase con cui Candide costantemente conclude le sue sfortunate peripezie: « Noi vi- viamo nel migliore dei mondi possibili: frase che è rimasta come l’espressione popolare dell’ot- timismo. L’O. è sempre proprio di tutte le dottrine che ammettono il finalismo universale e specialmente: 1° delle dottrine spiritualistiche a sfondo teologico, come sono la metafisica aristotelica e quella scola- stica, il leibnizianesimo e le forme moderne e contemporanee del coscienzialismo spiritualistico; 2° delle dottrine idealistiche (nel senso romantico del termine) che condividono il principio della coincidenza tra realtà e razionalità (principio che significa ciò che Voltaire esprimeva dicendo che «le cose non possono essere altrimenti +), delle quali è tipica la dottrina di Hegel. L’opposto dell’O., non è il pessimismo che, nella formulazione data ad esso da Schopenhauer, pur predicando che «la vita è dolore + ritiene il mondo nella sua totalità finalisticamente organizzato in vista dell’ordine migliore (Die Welt, I, $ 28); ma la negazione del finalismo con il riconoscimento del carattere imperfetto, accidentale e problematico degli ordini riscontrabili nell’universo. p P, p. Nella logica contemporanea con P viene indicato un determinato calcolo delle proposizioni e con p (e le lettere che seguono in ordine alfabetico q, ”, ecc.) una singola proposizione. PACE (ingl. Peace; franc. Paix; ted. Friede). La più famosa definizione della P. è quella data da Cicerone nelle Filippiche: « Pax est tranquilla libertas » (Phil, 2, 44, 113): una definizione che è stata molte volte ripetuta. Più in generale la P. è stata definita da Hobbes come la cessazione dello stato di guerra cioè come la cessazione del con- flitto universale fra gli uomini. Pertanto « Cercare di conseguire la P.+ è, secondo Hobbes, la prima legge di natura (Leviath., I, 14). Come Hobbes, Kant riteneva che lo stato di P. fra uomini non è affatto uno stato di natura e che pertanto esso dev'essere istituito perchè «la mancanza di osti- lità non significa ancora sicurezza e se questa non è garantita da un vicino ad un altro (il che può solo aver luogo in uno stato legale) questo può trattare come nemico quello a cui tale garanzia abbia richiesto invano» (Zum ewigen Frieden, 1796, $ 2). Un concetto metafisico è invece la P. per Whitehead, che la intende come « l’armonia delle armonie che placa la turbolenza distruttiva e completa la civiltà» (Adventures of Ideas, XX, 8 2). PAIDEIA. V. CULTURA. PALINGENESI (gr. raQiryevecla; ingl. Pa- lingenesis; franc. Palingénésie; ted. Palingenesie). Secondo gli Stoici, la rinascita del mondo dopo la fine di un ciclo di vita (NEMES., De nat. hom., 38; cfr. MARC’AURELIO, Ricordî, XI, 1: «la periodica rinascita del mondo»). La parola è stata usata spesso in questo senso o in senso analogo (per es., da C. BONNET, Palingénésie philosophique, 1769, e da GiosERTI, Protologia, 1857) e talora anche in sensi ristretti o particolari: per designare la rinascita dell'anima o, in senso retorico, per indicare un qualsiasi rinnovamento radicale (v. APOCATASTASI). PAMPNEUMATISMO (ted. Panpneuma- tismus). Termine adoperato da Eduard von Hart- mann, nello stesso senso di pampsichismo (cfr. Phi- losophischen Fragmente, pag. 68). PAMPSICHISMO (ingl. Panpsychism; fran- cese Panpsychisme; ted. Panpsychismus). Il termine, che viene spesso confuso con ilozoismo (v.), designa in realtà una teoria simmetrica e opposta all’ilo- zoismo. Questo consiste nell’attribuire alla materia (o alle sue parti) poteri o attività psichiche ed è perciò materialismo; il P. consiste nel ridurre la materia stessa ad anima, cioè a proprietà o attri- buti psichici ed è spiritualismo. Con ciò la materia non viene negata (come fa l’immaterialismo [v.]); ma i suoi attributi fondamentali, per es., l’esten- sione, il movimento, ecc., vengono ridotti all’azione di forze o attributi spirituali. In questo senso la nascita del P. si può ricono- scere nei Platonici inglesi del ’600 (Scuola di Cam- bridge). Cudworth partendo dal principio che « nessun effetto può sorpassare la forza della pro- pria causa» negava che la vita e l’essere, e tanto meno la ragione e l’intelletto, potessero derivare da una materia senza vita. E concludeva che «lo spirito è l’essere primogenito, il signore naturale di tutto ciò che è» (The True Intellectual System of the Universe, I, 1, 4). Ma poichè le cose non possono essere prodotte dal meccanismo della ma- teria, e poichè Dio non produce immediatamente e miracolosamente tutte le cose, bisogna ammettere una natura plastica che sia uno strumento inferiore e subordinato di quella parte della provvidenza che consiste nel movimento regolare e ordinato della materia (/bid., I, 1, 3). A sua volta More elaborava il concetto della monade fisica cioè di una particella così piccola da non poter essere PARADOSSO ulteriormente divisa. La monade fisica non ha grandezza fisica propriamente detta, ma è tuttavia estesa e l’estensione è una qualità spirituale, in- corporea, un attributo di Dio (Enchiridion Meta- physicum, I, 9, 3; I, 8, 15). In questo modo Cud- worth e More riducevano la materia e il meccanismo, nei loro attributi fondamentali — estensione e movimento — a una manifestazione di elementi o forze spirituali. Proprio a questi autori si è probabilmente ispi- rato Leibniz, che ha dato al P. la sua forma clas- sica. Secondo Leibniz, la materia stessa è costituita da monadi nel senso di essere un aggregato di sostanze spirituali, come un gregge di pecore o come un mucchio di vermi. Gli elementi della materia perciò non hanno niente di corporeo: sono atomi di sostanza o punti metafisici, come si po- trebbero chiamare le monadi (Op., ed. Gerhardt, IV, pag. 483). Il P. di Leibniz fu riprodotto da Lotze nel Microcosmo (I; trad. ital., pag. 50) che identificò gli atomi di cui parla la teoria mecca- nistica della scienza con centri di forza spirituale, cioè con monadi nel senso leibniziano. Il P. è la caratteristica metafisica dello spiritualismo con- temporaneo (v. SPIRITUALISMO): di quello francese (Ravaisson, Lachelier, Hamelin) come di quello inglese (Ward) e italiano (Martinetti, Varisco). PANANIMISMO. Lo stesso che animismo (v.). PANCALISMO (ingl. Pancalism; franc. Pan- calisme). Termine adoperato da J. M. Baldwin per indicare la sua propria dottrina secondo la quale la bellezza, come oggetto della attività estetica, realizza la conciliazione tra l’attività conoscitiva e l’attività pratica, unificando il mondo dell’espe- rienza (cfr. Genetic Theory of Reality, being the Outcome of Genetic Logic, as Issuing in the Aesthetic Theory of Reality called Pancalism, 1915). PANCOSMISMO (ingl. Pancosmism; francese Pancosmisme).Lo stesso che materialismo. Il termine fu usato da Grote per designare la dottrina dei presocratici ilozoisti (Plaro and the Other Compa- nions of Socrates, 1, 1, 18). Il termine non ha avuto fortuna. PANENTEISMO (ingl. Panentheism; francese Panenthéisme; ted. Panentheismus). Termine creato da Christian Krause (1781-1832) per designare una sintesi tra teismo e panteismo che consisterebbe nell’ammettere che tutto ciò che è, è in Dio ed esiste come rivelazione o realizzazione di Dio (Vorlesungen iiber das System der Philosophie, 1828, pag. 254 sgg.). In realtà questo punto di vista è proprio quello del panteismo classico e pertanto non si vede l’utilità del termine, che difatti non ha avuto fortuna (v. Dio). PANLOGISMO (ingl. Panlogism; franc. Pan- logisme; ted. Panlogismus). Termine che fu adope- 647 rato da J. E. Erdmann per designare la dottrina di Hegel (Geschichte der neueren Philosophie, 1853, III, 2, pag. 853) e che viene tuttora adoperato (seppure non troppo frequentemente) per designare la stessa dottrina o dottrine analoghe, che am- mettano, cioè, l’identità del razionale e del reale. PANSATANISMO (ted. Pansatanismus). Ter- mine adoperato polemicamente da O. Liebmann per designare la dottrina di Schopenhauer, in contrapposto caricaturale con panteismo (Zur Ana- Iysis der Wirklichkeiît, 2> ediz., 1880, pag. 230). PANSOFIA (lat. Pansophia). Termine adope- rato da G. A. Comenius per designare il principio «insegnare tutto a tutti» (Pansophiae Prodromus, 1639; Schola Pansophiae, 1670). Kant chiama P. l’insieme della polistoria che è il sapere storico e della polimatia che è il sapere razionale (Logik, Intr., $ vi). PANSPERMIA (ted. Panspermie). La dot- trina sostenuta da S. Arrhenius che la vita sulla terra proviene da semi organici diffusi in tutto l’universo (Werden der Welten, 1907). PANTEISMO (ingl. Pantheism; franc. Pan- théisme; ted. Pantheismus). Il termine panteista fu usato per la prima volta da J. Toland (Socianinism Truly Stated, 1705) e quello di P. dal suo avver- sario Fay (1709). È la dottrina che considera Dio come la matura del mondo, cioè che identifica la causalità divina con la causalità naturale. Una forma di P. umanistico è la cosiddetta « teologia senza Dio ». V. Dio; Dio, MORTE DI. PANTELISMO (ted. Panthelismus). Lo stesso che volontarismo (v.). Il termine fu usato da E. von Hartmann (Philosophischen Fragmente, pa- gina 68). PARABOLA (gr. rapaBorn; lat. Parabola; in- glese Parable; franc. Parabole; ted. Parabel). Argo- mento che consiste nell’addurre un paragone o un parallelo: come quando Socrate afferma che non si devono scegliere a sorte i governanti come non si scelgono a sorte gli atleti per una gara. Così illustra Aristotele la nozione (Rer., II, 19, 1393 b 4). Un senso analogo la parola ha negli Evangeli (cfr. Marc., XII, 1). PARADIGMA (gr. rapdderyua; ingl. Paradigm; franc. Paradigme; ted. Paradigma). Modello o esempio. Platone adoperò la parola nel primo senso (cfr. Tim., 29b, 48 e; ecc.) in quanto con- sidera come P. il mondo degli esseri eterni, di cui è immagine il mondo sensibile. Aristotele nella logica usa il termine nel secondo significato (An. Pr., II, 24, 68 b 38); sul quale v. ESEMPIO. PARADOSSO (gr. rapàdotoc Xoyvos; ingl. Pa- radox; franc. Paradoxe; ted. Paradox). Ciò che è contrario alla «opinione dei più», cioè al si- stema di credenze comuni cui si fa riferimento; 648 oppure contrario a principi che si ritengono ben stabiliti o a proposizioni scientifiche. La riduzione di un discorso a un'opinione paradossale è con- siderata da Aristotele negli Elenchi sofistici (cap. 12) come il secondo dei fini che si propone la Sofistica (la prima essendo la confutazione, cioè il provar falsa l’asserzione dell’avversario). Bernardo Bol- zano intitolò Paradossi dell’infinito (1851) il libro in cui presentò per primo il concetto dell’infinito non più come limite di una serie ma come un tipo speciale di grandezza, dotato di proprie caratte- ristiche: concetto che doveva venire definitivamente stabilito nella matematica ad opera di Cantor e Dedekind (v. INFINITO). E, sul suo esempio, sono stati chiamati talvolta P. le contraddizioni che na- scono dall’uso del procedimento riflessivo, e che più comunemente si chiamano antinomie (v.). Nel senso religioso, si è chiamato P. l’afferma- zione dei diritti della fede e della verità del suo contenuto in contrasto con le esigenze della ragione. P. è, per es., la trascendenza assoluta e l’ineffabi- lità di Dio affermata dalla teologia negariva (v.); P. è il «credo quia absurdum» (v.) di Tertulliano; P. è l’intera fede secondo Kierkegaard, perchè tutte le categorie del pensiero religioso sono im- pensabili e la fede crede nonostante tutto e assume tutti i rischi (cfr. Die Krankheit zum Tode, 1849). Kierkegaard vide nel P. il rapporto stesso tra l’uomo e Dio: « Il P. non è una concessione ma una care- goria: una determinazione ontologica che esprime il rapporto tra uno spirito esistente e conoscente, e la verità eterna » (Diario, VIII, A 11). PARALLELISMO PSICOFISICO (ingl. Psy- chophysical Parallelism; franc. Parallélisme Psycho- physique; ted. Psycho-physischer Parallelismus). La espressione fu coniata da Teodoro Fechner (Zend- avesta, II, pag. 141), per designare la dottrina che gli eventi psichici e quelli fisici costituiscono due serie parallele di eventi, che non agiscono gli uni sugli altri ma sono causalmente determinati soltanto dagli eventi omogenei: gli eventi mentali dagli eventi mentali e gli eventi fisici dagli eventi fisici. Questa dottrina era suggerita dall’esigenza (o dal desiderio) di non sottoporre gli eventi mentali alla causalità degli eventi fisici e dall’impossibilità di considerare quest’ultimi dipendenti dai primi. Essa è servita per parecchi decenni come ipotesi di la- voro della psicologia sperimentale nel suo primo organizzarsi a scienza autonoma o relativamente autonoma (v. PsicoLogia). Fu pertanto ammessa e seguita da coloro che contribuirono ai primi passi di questa scienza e in particolare da Wundt. Questi intese come « principio del P. psicofisico » il prin- cipio che « tutti i contenuti empirici che apparten- gono contemporaneamente alla sfera di considera- zione mediata o scientifica e a quella immediata o PARALLELISMO PSICOFISICO psicologica stanno in relazione reciproca, in quanto ogni evento elementare del campo psichico esprime un corrispondente evento nel campo fisico » (System der Philosophie, 2% ediz., 1897, pag. 602). Questa dottrina veniva da un lato contrapposta al mo- nismo (v.) che tende a ridurre gli eventi mentali agli eventi fisici o almeno a sottoporre gli eventi mentali alla causalità degli eventi fisici; e dall’altro, allo spiritualismo (v.) che consiste nel tentativo simmetrico e opposto. Essa perciò è stata bene accettata come ipotesi di lavoro di una ricerca che non voleva ancorare la sua validità ad una deter- minata metafisica. Nel periodo in cui la dottrina del P. ha costituito il presupposto della psicologia sperimentale ed è stato il tema di numerosissime discussioni tra psico- logi e tra filosofi, si è cercato di connetterla con qualche illustre precedente storico; e il più ovvio di tali precedenti era senza dubbio la metafisica di Spinoza. Spinoza difatti aveva detto che « un modo dell’estensione e l’idea di questo modo sono una sola e medesima cosa espressa in due ma- niere » (Er., II, VII, Schol.); ed aveva negato l’in- terferenza della causalità dell’estensione e della causalità del pensiero, affermando che la causa di un pensiero è sempre un pensiero che la causa di un corpo è sempre un corpo (/bid., III, 2), mentre l’ordine e la concatenazione delle cose sono sempre le stesse (/bid., III, 2, Schol.). Queste affermazioni potevano essere interpretate come espressione della dottrina del P.: per quanto l’intento di Spinoza non fosse quello di garantire l’indipendenza cau- sale reciproca dei fatti fisici e dei fatti mentali, quanto quello di garantire la loro comune subor- dinazione alla diretta causalità di Dio. La dottrina di Spinoza non è veramente un P. ma un monismo panteistico. D'altronde, la dottrina del P. deve i suoi successi, non alla sua validità metafisica ma, all’opposto, alla limitazione dell'impegno metafisico che essa implicava, potendo essere accettata come ipotesi di lavoro indipendentemente dalla credenza monistica o da quella spiritualistica e non esclu- dendo nè l’una nè l’altra. Quando la psicologia ha abbandonato la dottrina in esame, questa è caduta da sè e ha cessato di essere un tema vivo di discussione (v. PSICOLOGIA). PARALOGISMO (gr. rapadoyionée; inglese Paralogism; franc. Paralogisme; ted. Paralogismus). Da Aristotele (Soph. E/., passim) in poi questo ter- mine viene usato per indicare un sillogismo o co- munque un argomento falso in forma (v. anche FaLLacia). In Kant « P. della Ragion pura » designa la falsa argomentazione della psicologia razionale, la quale si illude di poter dedurre dal semplice « io penso » determinazioni materiali ma @ priori del concetto (idea) di «anima». G. P. PARTE PARAPSICOLOGIA. V. METAPSICHICA. PARENETICA (gr. rapawverixà réxym; latino Praeceptiva; ingl. Parenetic; franc. Parénétique). Secondo gli Stoici, quella parte della morale che consiste nel fornire precetti pratici per la condotta della vita nelle varie circostanze: lo stesso che precettistica (cfr. SenECA, Ep., 95). Parenetico: esortatorio. PARENTESI (ingl. Parentheses; franc. Paren- thèses; ted. Parenthese). In logica e in matematica, le P. sono un segno di associazione. Cosl nell’espres- sione [n — (x — y)] le P. interne servono esclusiva- mente a mostrare l’associazione delle parti x — y dell’espressione. Nella terminologia della fenome- nologia contemporanea « mettere in P.» significa effettuare la sospensione o epoché fenomenologica (v. EPOCHE). PARIMPARI (gr. dprionépirtov; ingl. Even-0dd; franc. Pair-impair; ted. Gerade-ungerad). Così i Pitagorici antichi definirono l’unità, come principio del numero e delle cose, in quanto essa sarebbe limitata come l'impari e illimitata come il pari (ARIST., Mer., I, 5, 986 a 15). PAROLA (lat. Verbum; ingl. Word; franc. Pa- role; ted. Wort). 1. Secondo la distinzione fatta prevalere da Saussure tra P., lingua (v.) e linguag- gio (v.), la P. sarebbe la manifestazione linguistica dell’individuo. A differenza della lingua, che è una funzione sociale, registrata passivamente dall’indi- viduo, la P. è «l’atto individuale di volontà e di intelligenza nel quale conviene distinguere: 1° le combinazioni nelle quali il soggetto parlante utilizza il codice della lingua per esprimere il suo pensiero personale; 2° il meccanismo psicologico che gli permette di esteriorizzare queste combinazioni » (Cours de Linguistique Générale, 1916, pag. 31). 2. Il termine P. ha un’ambiguità, che i logici hanno messo in chiaro. La P. può essere infatti da un lato un singolo evento, che è nuovo ogni volta che si ripete; e in tale senso diciamo, per es., che un libro è composto di cinquantamila parole. Dall'altro il termine può significare la P.-significato, che è la stessa per quante volte si ripeta e in tal senso possiamo dire, dello stesso libro, che esso è composto di cinquemila parole. Nel primo senso, ad es., la P. è, se si ripete dieci volte in una pagina, è dieci parole; nel secondo senso, è una sola parola. Peirce propose di chiamare la parola nel primo significato token (segno o gettone) e nel secondo significato type (tipo) (Coll. Pap., 4.537) (v. Tipo). Altri parlano allo stesso proposito e corrispondente- mente di segno e simbolo (cfr., M. BLACK, Language and Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181 sgg.). PARONIMO (gr. napfwpoc; lat. Denomina- tivus). Così Aristotele chiamò gli oggetti che trag- gono la loro designazione da un certo nome, modifi- 649 candone il caso: come grammatico che deriva da grammatica e coraggioso da coraggio (Car., 1, la 11). I P. hanno tra di loro in comune l’essenza espressa dalla definizione (cfr. Boezio, In Car., I, P.L. 64, col. 167; Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01; JunGIUS, Logica Hamburgensis, I, 2, 16). In questo sono simili ai sinonimi o univoci. Aristotele considera i P. come una certa specie di oggetti de- signabili, accanto agli omonimi o equivoci e ai sinonimi o univoci (v. Equrvoco; UNIVOCO). PARSIMONIA, LEGGE DELLA. V. Eco- NOMIA. PARSISMO (ingl. Parsism; franc. Parsisme; ted. Parsismus). La religione dualistica degli antichi Persiani [v. MALE 1 5); Zoroastrismo]. PARTE (gr. uépoc; lat. Pars; ingl. Part; fran- cese Part; ted. Teil). Aristotele distinse tre significati principali del termine: 1° ciò cui mette capo la divisione di una quantità e in questo senso due è P. di tre, a meno che non si restringa il significato di parte all’unità di misura, nel qual caso solo uno (e non due) è P. di tre; 2° ciò a cui mette capo la divisione di un genere che non sia una quantità e in tal senso sono parti le specie di un genere; 3° ciò a cui mette capo l’analisi di una proposizione che vale da definizione; e in questo senso il genere è P. della specie (perchè è la specie che viene definita) (Met., V, 25, 1023 b 12). San Tommaso a sua volta chiamò parti quanzitative, quelle nel significato 1° di Aristotele; parti essenziali quella nei significati 2° e 3° (S. 7h., I, q.76, a.8; III, q.90, a. 2). E aggiunse ad esse: la P. subbiettiva «alla quale è presente, simultaneamente ed egualmente, l’intera virtù del tutto come l’intera virtù dell’animale in quanto tale si conserva in qualsiasi specie animale +; e la P. potenziale « alla quale è presente il tutto se- condo l’intera sua essenza, come l’intera essenza del- l’anima è presente a ognuna delle sue potenze » (S. 7h., III, q. 90, a. 3). Ma è abbastanza ovvio che queste due ultime specie di P. sono state escogitate a scopi teologici. Altre distinzioni sono state in- trodotte per altri scopi come quella tra la P. prossima e la P. remota, a seconda che tra la P. e il tutto cada o non cada un’altra P. (cfr. JuNGIUS, Log., 1, 9, 11-12); e quella tra la P. aliquota e la P. aliquanta, a seconda che la ripetizione della parte arrivi esattamente ad adeguare il tutto o risulti, a un certo punto, minore o maggiore di esso (con- fronta WOoLFF, Onf., $ 360). La maggior parte di queste distinzioni sono oggi cadute in disuso e lo stesso concetto di P., col venir meno del vecchio assioma, «la P. è minore del tutto » (v. INFINITO), ha cessato di essere definito a partire dal tutto e viene abitualmente definito mediante un certo tipo di relazione. Così Peirce dice: « Una P. di una collezione, detta il furto 650 di essa, è una collezione tale che ogni cosa che sia u della P. è « del tutto, ma qualcosa che è « del tutto non è « della P. » (Co//. Pap., 4.173). PARTECIPAZIONE (gr. pé8eE; lat. Parte cipatio; ingl. Participation; franc. Participation; ted. Teilnahme, Partizipation). 1. Uno dei due con- cetti di cui Platone si avvalse per definire il rap- porto tra le cose sensibili e le idee; l’altro è quello di presenza o parusia (rapovela). «Nient'altro rende bella una cosa, egli disse, se non la presenza o la P. del bello in sè, quali che siano la via o il modo nei quali presenza o P. abbiano luogo » (Fed., 100 d). Più tardi Platone intese la P. come imitazione: «A me pare che le idee stiano come esemplari nella natura; e che gli altri oggetti somiglino ad esse e ne siano copie; e che questa P. delle cose alle idee non consiste in altro che nell’essere imma- gini di esse » (Parm., 132 d). Platone stesso non ha dato molte altre determinazioni su questo importante concetto della sua filosofia. Ad esso tuttavia fece ricorso la metafisica medievale quando si trattò di distinguere « l’essere per essenza » che appartiene solamente a Dio dall’ « essere per P. » che appartiene alle creature: distinzione che garantiva la subordi- nazione dell’essere delle cose all’essere di Dio. «Come ciò che ha fuoco e non è fuoco, è infocato (ignitum), per P., dice San Tommaso, così ciò che ha l’essere e non è l’essere è ente per P.» (S. 7h., I, q. 3, a. 4). Ma l’uso esteso che è stato fatto di questo concetto nella metafisica tradizionale non ha molto contribuito a chiarirlo; e il concetto è rimasto indefinito ed oscuro come era già per Platone. 2. L. Lévy-Bruhl ha fatto un uso esteso del concetto di partecipazione per illustrare la menta- lità dei primitivi. Nell’ambito di questa mentalità, la partecipazione sarebbe anteriore alla distinzione tra le cose che si partecipano. « La partecipazione non si stabilisce tra un morto e un cadavere più o meno nettamente rappresentati (nel quale caso avrebbe la natura di una relazione e dovrebbe es- sere possibile chiarirla mediante l’intelletto); essa non viene dopo le rappresentazioni, non le pre- suppone, ma è anteriore ad esse o almeno simul- tanea. Ciò che è dato per primo è la partecipa- zione» (Les carnets, I; trad. ital., pag. 36-37). PARTICOLARE (gr. xatà pépoc; lat. Parti- cularis; ingl. Particular; franc. Particulier). Che è una parte o appartiene ad una parte. La proposi- zione P. fu definita da Aristotele nel modo seguente: « Chiamo P. la proposizione che esprime l’inerenza a qualche cosa o la non inerenza a qualche cosa o la non inerenza a ogni cosa» (An. Pr., I, 1, 24a 13). Il contrario della proposizione P. è quella universale (v.). La logica medievale indicò con la lettera / la proposizione P. affermativa e con lettera PARTECIPAZIONE O la proposizione P. negativa. Una proposizione P. della forma «alcuni F sono G» si può leggere in vari modi: « qualche F è G3, «qualche cosa è insieme F e G », « qualche cosa che è un F è un G?», «c’è un FG», «ci sono FG», «FG esiste», ecc. (cfr. W. v. O. QuInE, Methods of Logic, $ 12). PARTIZIONE (gr. pepiou6s; lat. Parzitio; ingl. Partition; franc. Partition; ted. Partition). Gli Stoici intesero con questo termine « l’ordina- mento di un genere nei suoi luoghi» (Diog. L., VII, 1, 62) cioè l’enumerazione delle parti che compongono il tutto, come quando si enumerano le membra del corpo umano; e la distinsero pertanto dalla divisione che è l’enumerazione delle specie appartenenti a un genere (CicER., Top., 5-7, 28, 30) (v. DIVISIONE). PARUSIA. V. PARTECIPAZIONE. PASSATO. V. Tempo. PASSIONE (ingl. Passion; franc. Passion; ted. Leidenschaft). Questo termine può significare: 1° lo stesso che affezione, cioè modificazione pas- siva nel senso più generale del greco rà$oc e del latino passio (per questo significato v. AFFEZIONE); 2° lo stesso che emozione (v.), nel qual significato esso è stato adoperato quasi universalmente sino al sec. xvi, quando si è venuto determinando il significato specifico che oggi possiede cioè; 3° l’azione di controllo e di direzione esercitata da un’emozione determinata sull’intera personalità di un individuo umano. In questo senso, che è il solo proprio e specifico, la parola viene oggi comunemente adoperata. Così l’espressione francese, divenuta internazionale, «amour-passion » indica una forma di emozione amorosa che domina la personalità ed è travolgente rispetto ad ostacoli morali e sociali (cfr. pure « Crime de passion» o « Delitto passionale +). Nelle frasi «P. del gioco» o « P. delle donne» o « P. del denaro », il significato di un indirizzo dominante e globale impresso all’intera personalità è altret- tanto chiaro, com’è chiaro nelle espressioni « P. politica », «P. religiosa», ecc. Il concetto nasce con le analisi dei moralisti del °600 e °700 che hanno messo in luce la tendenza delle emozioni a pene- trare la personalità e a dominarla. Pascal diceva «Quando si conosce la P. dominante di qualcuno si è sicuri di piacergli » (Pensées, 106). Nella quale espressione l’aggettivo « dominante » esprime bene il carattere della passione. Le Maximes di La Roche- foucauld insistono con un certo cinismo su questo carattere dominante delle passioni (« Se resistiamo alle nostre passioni, è più per la loro debolezza che per la nostra forza», 122), e Vauvenargue nel Discours sur la liberté (1737) diceva: « Per resistere alla P. bisognerebbe almeno voler resistere. Ma farà la P. nascere il desiderio di combattere la P., PASSIONE 651 nell’assenza della ragione vinta e dispersa?». E ag- giungeva: « Le passioni hanno appreso agli uomini la ragione» (Réflexions et maximes, 154). Nello stesso spirito Helvètius dichiarava: «Le passioni sono nel campo morale ciò che il movimento è nel campo fisico » (De l’esprit, III, 4); e Condillac defi- niva la P.: « Un desiderio che non permette di averne altri o che, almeno, è il più dominante » (7raité des sensations, I, 3, $ 3). Kant ci ha dato a questo pro- posito le determinazioni più precise. La P. è l’incli- nazione che impedisce alla ragione di paragonarla con le altre inclinazioni e così di effettuare una scelta fra esse (Antr., $ 80). Perciò la P. esclude il dominio di sè cioè impedisce o rende impossibile che la vo- lontà si determini in base a princìpi (Crir. del Giud., $ 29). Kant insiste, con notazioni felici, sulla capa- cità della P. di dominare l’intera condotta dell’uomo, di impadronirsi della sua personalità. A differenza dell’emozione che è precipitosa e irriflessiva, la P. prende tempo ed è riflessiva, per raggiungere il suo scopo, sebbene possa essere violenta. L’emo- zione è come un fiotto che rompe la diga; la P. è come una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. L'emozione è come un’ebrezza che si smaltisce, sebbene ne segua il mal di capo; la P. invece è come una malattia per intossicazione o per deformazione, che ha bisogno di un medico interno o esterno dell’anima, il quale, tuttavia, non sa per lo più prescrivere una cura radicale, ma, quasi sempre, solo palliativi (Antr., $ 74). Per il pericolo che la passione rappresenta per la scelta razionale e la libertà morale dell’uomo, Kant rigetta ogni esaltazione delle passioni. Egli cita la frase: « Nulla di grande nel mondo è stato mai compiuto senza violente passioni », per commen- tarla così: « Questo si può ammettere di parecchie inclinazioni, di quelle cioè delle quali la natura vi- vente (anche quella dell’uomo) non può far a meno, come di un bisogno naturale e fisico. Ma che esse possano, anzi debbano, diventar passioni, questo la Provvidenza non ha voluto. Spiegarle da questo punto di vista può esser concesso a un poeta, per es., al Pope, il quale scrisse: « Se la ragione è una bussola, le passioni sono i venti »; ma il filosofo non può ammettere questo principio neppure per valutare le passioni come un artificio provvisorio della Provvidenza la quale le avrebbe poste nella natura umana prima che gli uomini fossero arrivati ad un grado conveniente di civiltà » (Antr., $ 80). Il Romanticismo accetta e fa suo il concetto della P. che i moralisti francesi e Kant avevano elaborato; concetto secondo il quale essa non è un’emozione o uno stato affettivo particolare, ma piuttosto il dominio totale e profondo che uno stato affettivo esercita su tutta la personalità (o «soggettività +) dell’individuo. Dall’altro lato però il Romanticismo capovolge la valutazione negativa della P. che aveva data Kant. Ed è significativo che colui il quale ha espresso con più rigore il punto di vista romantico su questo punto, cioè Hegel, non ha fatto che capovolgere le valutazioni kan- tiane. Hegel definisce la P. come «la totalità dello spirito pratico in quanto si pone in una singola delle molte determinazioni limitate che sono tra loro in contrasto (Enc., $ 473)». Ed aggiunge: «La P. contiene nella sua determinazione che essa è confinata ad una particolarità della determinazione del volere, nella quale l’intera soggettività dell’in- dividuo s’immerge, quale che sia poi il contenuto di questa determinazione. Ma per questo carattere formale la P. non è nè buona nè cattiva: la sua forma esprime solo che un soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l'interesse vivente del suo spirito, dell’ingegno, del carattere, del godi- mento. Niente di grande è stato compiuto, nè può esser compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della P. in quanto tale » (Enc., $ 474). Qui, mentre s’insiste sul carattere totale della P., che limita ad un unico contenuto o determinazione « l’intera soggettività dell'individuo » e cioè «l’interesse vivente del suo spirito, ecc.» si riprende la frase criticata da Kant e si dichiara espressione di una moralità morta o ipocrita la condanna kantiana. E il curioso è che Kant aveva in anticipo criticato un altro tratto caratteristico della filosofia di Hegel: la giustificazione delle passioni come strumenti della provvidenza cosmica, come «astuzie » della Ragione infinita per realiz- zare i suoi scopi: tesi che è fra le più caratteristiche della filosofia della storia di Hegel (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 63 sgg.). Da un diverso punto di vista l’esaltazione della P. fu fatta anche da Nietzsche che vedeva un sintomo di debolezza nella « paura dei sensi, dei desideri e delle passioni, quando essa arriva a sconsigliarli +; e vedeva nella P. dominante «la forma suprema della salute » perchè in essa «la coordinazione dei sistemi interni e il loro lavoro al servizio di uno stesso fine sono meglio realizzati: il che è pressapoco la definizione della salute» (Wille zur Macht, ed. Kroner, $ 778). Un punto di vista equidistante tra la condanna e l’esaltazione della P. sembra prevalere nella cultura contemporanea. Così, ad es., si esprime Dewey: « La fase emozionale, appassionata dell’a- zione non può nè deve essere eliminata a vantaggio di una esangue ragione. Più passioni, non meno, è la risposta... La razionalità non è la forza da evocare contro impulsi ed abiti, ma piuttosto il raggiungimento di una armonia operante fra diversi desideri » (Human Nature and Conduct, pag. 195-96). 652 PASSIVO (gr. ra8ntx6c; lat. Passivus; inglese Passive; franc. Passif; ted. Passiv). Che subisce un'azione, che è affetto da qualche cosa. È l’ag- gettivo corrispondente ad affezione (v.) e contrario ad attivo (V.). PASTORALE, FILOSOFIA (lat. Pastoralis philosophia). Così chiamò Bacone quella filosofia «che contempla il mondo placidamente e quasi per ozio »: rimprovero che egli rivolge anche alla filosofia di Telesio (Phil. Works, III, $ 45). PATETICO (ingl. Parhetic; franc. Parhétique; ted. Pathetisch). F. Schiller designò con questo termine una delle specie del sublime (v.) pratico e precisamente quello che deriva da un oggetto in se stesso minaccioso per la natura fisica dell’uomo, quindi doloroso. Il sublime pratico contemplativo invece è quello nel quale non è l’oggetto ma la contemplazione di esso a istituire la sua temibilità e quindi la sublimità (Vom Erhabenen, zur weiteren Ausfuhrung einiger Kantischen Ideen, 1793; Uber das Pathetische, 1793). PATOLOGICO (ingl. Parhological; franc. Pa- thologique; ted. Pathologisch). Ciò che è una malattia o la manifestazione di una malattia. Il solo uso specificamente filosofico di questo termine è quello che Kant ne fece designando con esso tutto ciò che concerne o costituisce «la facoltà di desiderare inferiore» cioè il complesso delle inclinazioni naturali umane. Dal punto di vista kantiano, non P. è soltanto la cosiddetta «facoltà di desiderare superiore » cioè la ragion pratica in quanto indi- pendente da tutte le inclinazioni sensibili (Cri. R. Prat., $ 3, scol. I). G. Bentham chiamò patologia la considerazione e la classificazione dei moventi sensibili della condotta, indicando con quel termine «la teoria della sensibilità passiva »; mentre chia- mava dinamica « l’uso possibile, da parte del mora- lista e del legislatore di quegli stessi moventi per determinare la condotta umana in vista della mas- sima felicità possibile » (Springs of Action, 1817). PATRISTICA (ingl. Patristic; franc. Patri- stique; ted. Patristik). Si indica con questo nome la filosofia cristiana dei primi secoli. Essa consiste nell’elaborazione dottrinale delle credenze reli- giose del cristianesimo e nella loro difesa contro gli attacchi dei pagani e contro le eresie. La P. è caratterizzata dalla mancanza della distinzione tra religione e filosofia. La religione cristiana appare ai Padri della Chiesa, come l’espressione compiuta e definitiva della verità che la filosofia greca aveva solo imperfettamente e parzialmente raggiunta. Difatti la Ragione (/ogos) che si è fatta carne nel Cristo e che si è nella parola di Lui rivelata piena- mente agli uomini, è quella stessa a cui i filosofi pagani si sono ispirati e che hanno cercato di tradurre nelle loro speculazioni. PASSIVO La P. si suole comunemente dividere in tre periodi. Il primo che va sino al 200 circa è dedicato alla difesa del Cristianesimo contro i suoi avversari pagani e gnostici (Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo, Ireneo, Tertulliano, Minucio Felice, Ci- priano, Lattanzio). Il secondo periodo che va dal 200 a circa il 450 è caratterizzato dalla formulazione dottrinale delle credenze cristiane. È il periodo dei primi grandi sistemi di filosofia cristiana (Clemente Alessandrino, Origene, Basilio, Gregorio Di Na- zianzio, Gregorio di Nissa, Sant'Agostino). Il ferzo periodo che va dalla metà del v secolo sino alla fine dell’vm secolo è caratterizzato dalla rielabora- zione e sistemazione delle dottrine già formulate e dalla mancanza di formulazioni originali (Nemesio, Pseudo Dionigi, Massimo Confessore, Giovanni Damasceno, Marciano Capella, Boezio, Isidoro di Siviglia, Breda il Venerabile). L'eredità della P. fu raccolta, agli inizi della rinascita carolingia, dalla Scolastica (v.). PAURA. V. EMOZIONE. PAZZIA (gr. uopla; lat. Srultitia; ingl. Madness; franc. Folie; ted. Wahn). 1. Quella che Platone chia- mava la P. buona, cioè la P. che non è malattia o perdizione, è stata intesa in due modi diversi e cioè: 1° come inspirazione o dono divino; 2° come amore della vita e tendenza a viverla nella sua semplicità. 1° Il primo significato è quello che le attribuì Platone nel Fedro, affermando che «i maggiori beni ci sono elargiti per mezzo d’una P. che è un dono divino » (Fedr., 244 a). Questa P. si manifesta in quattro forme: a) la P. profetica, che è a fonda- mento della mantica cioè dell’arte per cui si predice il futuro; 5) la P. purificatoria che consente di allon- tanare i mali per mezzo di purificazioni e di inizia- zioni nel presente e nell’avvenire; c) la P. poetica che è ispirata dalle muse (Ibid., 244a, 245 a); e finalmente, la forma più alta cioè d) la P. amorosa alla quale l’uomo è invogliato dal ricordo della bellezza ideale risvegliato in lui dalla bellezza delle cose del mondo (/bid., 249 e). Ovviamente le prime tre forme di P. sono forme di ispirazione divina, riconducibili all’entusiasmo (v.). L'amore invece, è P. in un senso diverso cioè come aspirazione all’essere autentico, risvegliata da quella mani- festazione « più amabile e più evidente» di esso che è la bellezza. Ora questo è già il secondo signi- ficato di pazzia. 2° Nel secondo significato, la P. è infatti amore della vita nella sua semplicità, contrapposta alla saggezza artificiosa ed arcigna e alla scienza di chi sa tutto tranne che vivere ed amare. L’Elogio della pazzia (Stultiae laus, 1509) di Erasmo da Rotterdam è la più famosa difesa di questo secondo significato del termine. Ecco come Erasmo delinea il ritratto del saggio stoico: « Egli è sordo alla voce dei sensi, PECCATO ORIGINALE non sente alcuna emozione, l’amore e la pietà non fanno alcuna impressione sul suo cuore duro come diamante, nulla gli sfugge, mai non dubita, la sua vista è da lince, tutto pesa con la massima esattezza, non perdona nulla; trova in se stesso la sua felicità, si crede il solo ricco della terra, il solo savio, il solo re, il solo libero: in una parola si crede il tutto; e il più bello è che è il solo a credersi tale ». Ora, si domanda Erasmo, chi non preferirebbe a questo saggio « un uomo qualsiasi, tolto alla folla degli uomini pazzi, il quale, per quanto pazzo, sapesse comandare o obbedire ai pazzi e farsi amare da tutti; e che fosse compiacente con la moglie, buono con i figli, allegro nei banchetti, socievole con tutti quelli con i quali convive, e infine che non si credesse straniero a tutto ciò che appartiene all'umanità?» (E/, 30). La P. di cui parla Erasmo è la semplicità della vita, che si contenta di nutrire illusioni e speranze; o, nel campo della religione è la fede e la carità contrap- poste alle cerimonie esterne, ai riti meccanizzati e all’ipocrisia dei bacchettoni (Ibid, 54). Questa forma di P. non ha, ovviamente, nulla a che fare con un’ispirazione divina, ma è umana e laica e non per nulla l’elogio di essa è uno dei documenti più significativi del Rinascimento. 2. Lo stesso che psicosi (v.). PECCATO (lat. Peccatum; ingl. Sin; fran- cese Péché; ted. SuUnde). La trasgressione intenzio- nale di un comando divino. Il termine ha una con- notazione prevalentemente religiosa: P. non è la trasgressione di una norma morale o giuridica ma la trasgressione di una norma che si ritiene imposta o stabilita dalla divinità. Il riconoscimento del carattere divino di una norma e l'intenzione di violarla, sono i due elementi di questo concetto: elementi senza i quali il concetto stesso si con- fonde con quelli di colpa, delitto, errore, reato, ecc., che esprimono la trasgressione di una norma morale o giuridica. Il concetto del P. è stato in questi termini elabo- rato dalla teologia cristiana. Sant'Agostino definiva il P. come «ciò che è detto o fatto o desiderato contro la legge eterna +, intendendo per legge eterna la volontà divina che è diretta a conservare l’ordine del mondo e a far sì che l’uomo desideri di più il bene maggiore e meno il bene minore (Contra Faustum, XXII, 27). E San Tommaso non faceva che accettare questa definizione annotando che la legge eterna per l’uomo è duplice: « L’una è vicina ed omogenea, cioè la stessa ragione umana, l’altra è la regola prima, cioè la legge eterna che è quasi la ragione di Dio» (S. Th., II, 1, q.71, a. 6). San Tommaso insiste da un lato sulla volontarietà, cioè intenzionalità, del P.: volontarietà per cui si potrebbe definire il P. mediante la sola volontà 653 se non fosse che anche gli atti esterni appartengono al P. stesso e devono pertanto essere menzionati nella definizione di esso (/bid., ad 2°). Dall'altro lato insiste sul punto che ogni P. è, come tale, un P. contro Dio, per quanto i peccati contro Dio costituiscano, da un altro punto di vista, una spe- ciale categoria di peccati (S. Th., II, 1, q. 72, a. 4, ad 1°) Questo concetto del P. si può dire che sia rimasto immutato attraverso i tempi. Kant lo ripete defi- nendo il P. «la trasgressione della legge morale in quanto comando divino» (Religion, I, sez. IV; II, sez. 1, c; trad. ital., Durante, pag. 31, 68); e lo ripete Kierkegaard affermando che il P. è davanti a Dio e che esso consiste « nel voler disperatamente essere se stesso o nel non voler disperatamente essere se stesso » il che significa che consiste nella disperazione di non aver fede (Die Krankheit zum

Tode, II, cap. I; trad. ital, Fabro, pag. 300). Ciò che Kierkegaard aggiunge è il carattere eccezionale del P. che corrisponde al carattere eccezionale della fede. Il P. non è di tutti i giorni. « Essere un peccatore nel senso più rigoroso, egli dice, è ben lungi dall’es- sere un merito. Ma d’altra parte, come si può tro- vare una coscienza essenziale del P. (che è d'altronde indispensabile per il Cristianesimo) in una vita tal- mente immersa nella trivialità, così ridotta allo scim- miottamento piatto degli altri, che è quasi impossi- bile darle un nome, che è troppo priva di spirito per poterla chiamare P.? + (/bid., II, B, Aggiunta A; trad. ital., pag. 328). PECCATO ORIGINALE (lat. Peccatum Ori- ginale; ingl. Original Sin; franc. Péché originel; ted. Erbsind). Le discussioni filosofico-teologiche intorno al P. originale hanno avuto di regola per oggetto il modo in cui tale P. si è trasmesso da Adamo agli altri uomini. San Tommaso enu- merava due ipotesi principali addotte per la so- luzione di questo problema e cioè: l’ipotesi del traducianesimo (v.) secondo la quale «l’anima ra- zionale si trasmette con il seme sicché da un'anima infetta derivano anime infette »; l’ipotesi dell’eredi- tarietà secondo la quale «la colpa dell'anima del primo parente si trasmette alla prole, per quanto non si trasmette l’anima stessa, al modo in cui i difetti del corpo si trasmettono di padre in figlio ». Entrambe queste ipotesi sembravano a San Tommaso insostenibili ed egli annunciava la sua dicendo che «tutti gli uomini che nascono da Adamo possono considerarsi come un unico uomo in quanto hanno la stessa natura, che essi ricevono dal primo parente; al modo in cui nelle città tutti gli uomini che appar- tengono alla stessa comunità si ritengono un unico corpo e l’intera comunità quasi un unico uomo » (II,. 1, q.81, a. 1). Alcuni secoli dopo, nella sua Teodicea (1710) Leibniz enumerava le stesse ipotesi 654 (Théod., I, $ 86), che sono rimaste quelle tra le quali ha oscillato il pensiero teologico. D'altronde un’interpretazione filosofica (e non teologica) del P. originale si ha soltanto con Kant e Kierkegaard. Kant osservò che non bisogna confondere la questione dell’origine temporale di una cosa con quella della sua origine razionale: al problema dell’origine temporale cerca di rispon- dere la dottrina biblica del P. originale; ma al problema dell’origine razionale del male risponde la dottrina del « male radicale » secondo la quale la disposizione innata dell’uomo al male deriva dalla natura delle sue massime. « La proposizione: l’uomo è cattivo, dice Kant, non significa altro se non che l’uomo è consapevole della legge morale e che tuttavia ha accolto nella sua massima di allontanarsi occasionalmente da tale legge. Dire che egli è cattivo per natura significa che ciò vale per tutta la specie umana; non già nel senso che tale qualità si possa dedurre dal concetto della specie umana (dal concetto di uomo in generale) giacchè allora sarebbe necessaria; ma nel senso che l’uomo, così come lo si conosce per esperienza, non può essere giudicato diversamente o nel senso che si può presupporre la tendenza al male in ogni uomo, anche nel migliore, come oggettivamente necessaria » (Religion, I, 3; trad. ital, Durante, pag. 18). Sostanzialmente identica con questa è l’interpretazione che del P. originale ha dato Kier- kegaard, scorgendo la condizione e la realtà psico- logica di esso nell’angoscia. «Il divieto di Dio, egli dice, angoscia Adamo perchè sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò che nell’innocenza era il nulla dell'angoscia è ora entrato nell’innocenza stessa ed è qui di nuovo un nulla cioè /a possibilità angosciante di potere. Cosa sia ciò che egli può, egli non ne ha idea alcuna; altrimenti si presup- porrebbe, come avviene di solito, quel che segue, cioè la differenza tra il bene e il male. Non c’è in Adamo che la possibilità di potere, come forma superiore di ignoranza, come superiore espressione di angoscia, perchè in un senso più alto, questa possibilità è e non è, ed Adamo l’ama e la fugge» (Der Begriff Angst, I, $ S; trad. ital, Fabro, pag. 54). Anche qui, come si vede, non si tratta dell’origine temporale ma dell’origine razionale del P. originale; e anche qui quest’origine è vista in una possibilità: nella possibilità indeterminata o « indefinita », come Kierkegaard la chiama, che è anche la possibilità di agire contro il divieto divino. Secondo Kierkegaard, come secondo Kant, il P. originale consisterebbe pertanto nel prospettarsi di una possibilità che, come tale, può implicare l'infrazione alla norma morale o al divieto divino. PEDAGOGIA (ingl. Pedagogy; franc. Péda- gogie; ted. Pédagogik). Questo termine che in PEDAGOGIA origine significò la pratica o la professione dell’edu- catore è passato poi a significare qualsiasi reoria dell’educazione: intendendosi per reoria non solo un'elaborazione ordinata e generalizzata delle mo- dalità e delle possibilità dell’educazione ma anche una riflessione occasionale o un presupposto qualsiasi della pratica educativa. In questo senso, la pedagogia non aveva nell'antichità classica la dignità di una scienza autonoma ma era considerata come parte dell’etica o della politica ed elaborata perciò unicamente rispetto al fine che l’etica o la politica proponevano all'uomo; mentre dall’altro lato gli espedienti o i mezzi pedagogici venivano considerati soltanto nei confronti della prima edu- cazione cioè nei confronti dell’educazione dell’età infantile, perciò delle più elementari acquisizioni (il leggere, lo scrivere e il far di conto). La riflessione pedagogica appare così, fino a un certo punto, divisa in due branche, che procedono ognuna per conto suo: la prima, di natura schiettamente filo- sofica ed elaborata in vista del fine che l'etica propone per l’uomo; la seconda, di natura empirica o pratica, elaborata in vista del primo e più elemen- tare addestramento del bambino alla vita. Si può dire che questi due tronconi vengono per la prima volta a saldarsi nel sec. xvil per opera di G. A. Comenio, che ebbe la pretesa di portare nel dominio della P. quella organizzazione metodolo- gica che Francesco Bacone aveva avuto la pretesa di portare nel dominio delle altre scienze; ed elaborò pertanto un completo sistema pedagogico, fondato sul principio della pansofia (v.), che partiva dalla considerazione del fine educativo per giungere alla considerazione dei mezzi e degli strumenti didattici. A partire da Comenio, l’esperienza pedagogica dell’occidente si è andata arricchendo e appro- fondendo con i tentativi di trovare nuovi metodi dell’educazione. L’opera di Locke, di Rousseau, di Pestalozzi, di Fròbel, è molto importante sotto questo punto di vista e anche perchè cercò di accor- dare i metodi di educazione con le nuove concezioni filosofiche che via via si presentavano. Si può dire così che Locke rappresenta la P. dell’empirismo, Rousseau la P. dell’illuminismo, Pestalozzi la P. del criticismo e Fréebel quella del romanticismo. Tuttavia, l’organizzazione scientifica della P. deve molto a Herbart che per la prima volta distinse e unì i due tronconi della tradizione pedagogica in un sistema coerente. Herbart infatti distinse la considerazione dei fini dell’educazione, che la P. deve attingere dall’erica e la considerazione dei mezzi educativi che la P. deve attingere invece dalla psicologia; e cercò di elaborare distintamente e correlativamente queste due parti integranti (Allgemeine Padagogik, 1806; Umris péidagogischer Vorlesungen, 1835). PENA Da questo punto in poi la psicologia è diventata la scienza ausiliaria fondamentale della pedagogia. La sola e non felice eccezione a questa connessione è stata rappresentata da quella forma dell’idealismo romantico che è prevalsa in Italia nei primi decenni del nostro secolo. Questa forma di idealismo negava la diversità delle persone, ritenendole unite nello Spirito universale, e identificava pertanto lo svi- luppo personale dell’uomo con lo sviluppo univer- sale dello Spirito. Queste tesi venivano presentate come una risoluzione della P. nella filosofia. Diceva Gentile: « Quando per spirito non s’intende se non appunto lo svolgimento, la formazione, l’educazione, insomma dello Spirito, la filosofia stessa (tutta la filosofia, posto che la realtà sia concepita assoluta- mente come Spirito) diventa P. e la forma scientifica dei singoli problemi pedagogici diventa la filosofia » (Sommario di pedagogia, II, 1912, pag. 15). Contem- poraneamente, tuttavia, si faceva il tentativo sim- metrico e opposto di ridurre la P. a scienza mecca- nica, sul modello della fisica, cambiandole il nome in pedologia (v.): sul fondamento che con la padro- nanza del meccanismo psicologico si può dirigere la formazione mentale degli uomini al modo con cui si possono dirigere, utilizzando le leggi di natura, le forze della natura. La P. contemporanea, nella sua forma più matura, si può far cominciare proprio quando questo duplice e opposto tentativo di riduzione dell’uomo a spirito assoluto o a meccanismo viene tralasciato e l’uomo comincia ad essere inteso e considerato come natura senza essere degradato a meccanismo. La nozione di condizionamento (v. ConDIZIONE) è quella che oggi prevale nella P. e che ha espulso da essa sia l’indeterminismo idealistico sia il determinismo meccanistico. Inoltre l’esperienza pedagogica si è oggi arricchita attraverso la considerazione del fatto educativo nelle società primitive: considerazione che ha reso possibile da un lato una generalizza- zione del concetto stesso di educazione (v.) dall’altro confronti e paralleli efficaci sul terreno dei mezzi educativi. Oltre alla psicologia, l'antropologia e la sociologia concorrono oggi a fornire alla P. il suo armamentario di mezzi educativi; laddove il pro- blema dei fini rimane aperto e i fini stessi tendono a essere presentati, dal punto di vista pedagogico, in forma ipotetica piuttosto che nella forma asso- luta e dogmatica con cui venivano assunti dalla P. tradizionale (v. CULTURA; EDUCAZIONE). PEDOLOGIA (ingl. Paidology; franc. Pédo- logie; ted. Paidologie). La scienza esatta dell’educa- zione, in opposizione alla pedagogia che sarebbe l’arte empirica dell’educazione. Questo fu almeno il significato dato al termine da coloro che l’intro- dussero: il tedesco O. Chrisman (Paidologie, 1894) e il francese E. Blum (cfr. i suoi articoli in Revue 655 Philosophigue, maggio 1897, novembre 1898). La P. avrebbe dovuto avere come presupposto la psi- cologia sperimentale e da essa desumere gli strumenti dell’educazione, relativamente alle varie età del- l’uomo. Questo concetto non è venuto meno cd è anzi a fondamento di buona parte della psicologia contemporanea; ma il termine P., dopo una breve voga, è stato abbandonato. PEDOTECNICA (franc. Pédorechnique). Una «Società di P.» fu fondata nel 1906 a Bruxelles da Decroly: il termine aveva lo stesso significato di pedologia. PEIRASTICA (gr. respaotixi réxm). Secondo Aristotele, l’arte di mettere alla prova una tesi, deducendo le conseguenze di essa. È una parte della dialettica e si distingue dalla sofistica in quanto si rivolge all’avversario ignorante mentre la sofistica tende a mettere in iscacco anche colui che è dotato di scienza (E/. Sof., 8, 169b 25; 171 b 4). PELAGIANISMO (ingl. Pelagianism; francese Pélagianisme; ted. Pelagianismus). La dottrina del monaco inglese Pelagio che ai princìpi del sec. v insegnò a Roma e a Cartagine, in polemica con S. Agostino, la dottrina che il peccato di Adamo non ha indebolito la capacità umana di fare il bene, ma è solo un esempio cattivo che rende più difficile e gravoso il compito dell’uomo. S. Ago- stino combattè con molti scritti questa tesi a par- tire dal 412, sostenendo la tesi opposta: che con Adamo e in Adamo ha peccato tutta l’umanità e che quindi il genere umano è una sola « massa dannata », nessun membro della quale può essere sottratto alla punizione se non dalla misericordia e dalla non dovuta grazia di Dio (cfr. De Civ. Dei, XIII, 14) (v. GRAZIA). PENA (gr. 8; lat. Poena; ingl. Penalty; fran- cese Peine; ted. Strafe). Privazione o afflizione prevista da una legge positiva per chi si renda colpevole di una infrazione di essa. Il concetto della pena varia a seconda delle giustificazioni che sono state date di essa; e tali giustificazioni variano a seconda che si tenga presente come scopo della pena; 1° l’ordine della giustizia; 2° la salvezza del reo; 3° la difesa dei cittadini. 1° Il più antico concetto della pena è quello che le attribuisce l'ufficio di ripristinare l'ordine proprio della giustizia. Questo è il compito che le attribuisce Aristotele: il quale nega che la giustizia consista nella P. del taglione e ritiene che il fine della P. consista nel ripristinare la proporzione in cui la giustizia consiste: « Quando uno abbia rice- vuto percosse e un altro le abbia inferte oppure quando uno abbia ucciso e l’altro sia morto, il dànno e il diritto non hanno tra loro un rapporto d’uguaglianza; ma il giudice cerca di rimediare a 656 questa inuguaglianza con la P. che infligge, ridu- cendo il vantaggio carpito » (Er. Nic., V, 4, 1132 a 5; cfr. 8, 1132 b 21). Questo concetto era stato già esteso dall'uomo al mondo da Anassimandro di Mileto che aveva affermato: « Tutti gli esseri devono, secondo l’ordine del tempo, pagare gli uni agli altri il fio della loro ingiustizia» (Fr. I, Diels). La P. serve qui a ripristinare l’ordine cosmico. Questa è anche la funzione che le si attribuisce da un punto di vista religioso. Plotino dice: « Noi compiamo la funzione che è propria, per natura, dell'anima finchè non ci sviamo nel molteplice dell’universo; e se ci sviamo paghiamo la P. sia con il nostro stesso sviamento sia con la sorte di- sgraziata che ci attende più tardi » (Emn., II, 3, 8). Le stesse parole si trovano in S. Agostino (De Civ. Dei, V, 22). E S. Tommaso dice: « Poichè il peccato è un atto contrario all’ordine è ovvio che chiunque pecca agisce contro un certo ordine; e così dallo stesso ordine consegue che esso sia represso: e questa repressione è la P.» (S. 7h., I, II, q. 87, a. 1). Nello stesso spirito Kant affermava, in modo solo apparentemente paradossale: « Anche quando la società civile si dissolvesse con il consenso di tutti i suoi membri (se per es., un popolo abi- tante un'isola si decidesse a separarsi e a disperdersi per tutto il mondo), l’ultimo assassino che si tro- vasse in prigione dovrebbe prima venir giustiziato, affinchè ciascuno porti la pena della sua condotta e il sangue versato non ricada sul popolo che non ha reclamato quella punizione » (Mer. der Sitten, J, II, sez. 1, E; trad. ital., pag. 144). Dallo stesso punto di vista Hegel considerava la P. come «la vera conciliazione del diritto con se stesso », come «rispetto oggettivo e conciliazione della legge che restaura se stessa mediante l’annullamento del delitto e si realizza quindi come valida » (Fil. del Dir., $ 220). Quelle citate sono le voci principali che possono esser raccolte tra i filosofi in favore della teoria della P. come ripristino dell’ordine di giustizia. Ma queste voci hanno ispirato e tuttora

ispirano numerose dottrine giuridiche nonchè isti- tuzioni e leggi su di esse fondate. 2° Il concetto della P. come salvezza o emenda- mento del reo va spesso congiunto con quello precedente. La più celebre difesa di esso è forse il Gorgia platonico la cui tesi è che è meglio subire l'ingiustizia anzichè commetterla e che, per chi ha commesso ingiustizia, la cosa migliore è di subirne la pena. «Se una colpa viene commessa, dice Platone, bisogna al più presto recarsi colà dove si possa pagarne la P. cioè presso il giudice come presso il medico, affinchè la malattia dell’in- giustizia non diventi cronica e non renda l’anima guasta e inguaribile + (Gorg., 480 a). Difatti, « colui che paga la P. patisce un bene» nel senso che PENA «se è punito giustamente, diventa migliore» e «si libera dal male» (/bid., 477 a): sicchè la P. è una purificazione o liberazione che dev’essere voluta dallo stesso colpevole. Questo ufficio puri- ficatore è spesso riconosciuto da coloro che vedono nella P. la restituzione della giustizia. Se Kant affermava che «la P. non può mai esser decretata come un mezzo per raggiungere un bene sia a pro- fitto del criminale stesso sia a profitto della società civile, ma deve essergli applicata soltanto perchè ha commesso un delitto» (Mer. der Sitten, I, II, sez. 1, E; pag. 142) negando così ogni connessione fra le due concezioni della P., S. Tommaso stesso riconosceva invece tale connessione. « Le P. della vita presente, egli diceva, sono medicinali; e così quando una P. non basta a trattenere l’uomo, se ne aggiunge un’altra, come fanno i medici che adoperano diverse medicine quando una sola non è efficace » (S. TA., II, 2, q. 39 a. 4, ad 3°). Hegel analogamente affermava che la P. non è soltanto la conciliazione della legge con se stessa ma anche la conciliazione del delinquente con la sua legge cioè con la legge « conosciuta e valida per lui e a sua protezione »: conciliazione nella quale il delinquente trova « l’appagamento della giustizia e il suo fatto proprio » (Fil. del Dir., $ 220). 3° La terza concezione della P. è quella che le attribuisce l’ufficio della difesa sociale. Da questo punto di vista la P. è: a) un movente o stimolo per la condotta dei cittadini; 5) una condizione fisica che mette il delinquente nell’impossibilità di nuocere. I filosofi hanno soprattutto accentuato il primo carattere. Già Aristotele notava che tutti coloro che non hanno sortito da natura un’indole liberale, e sono i più, si astengono da atti vergognosi soltanto per la paura delle pene. «I più, dice egli, obbediscono alla necessità più che alla ragione e alle P. più che all’onore» (Et. Nic., X, 9, 1180 a 4; cfr. 1179b 11). Ma questo che Aristotele rite- neva un movente per le anime servili viene assunto, dalla concezione in esame della P., come il movente unico e fondamentale. Hobbes afferma che «è inefficace la proibizione che non sia accompagnata dal timore delle P. ed è quindi inefficace una legge che non contenga entrambe le parti, quella che vieta di commettere un torto e quella che punisce chi lo commette » (De Cive, 1642, XIV, $ 7). Questo concetto doveva essere fatto proprio dalla filosofia giuridica dell’illuminismo. Lo riprende Samuele Pufendorf il quale assegna alla P. il compito principale « di distogliere, con la sua acerbità, gli uomini dai peccati» (De jure naturae, 1672, VIII, 3, 4), senza escludere tuttavia l'emendamento del reo (/bid., VIII, 3, 9). Ma fu specialmente Cesare Beccaria che fece prevalere questo concetto, da lui posto a base dell’opera Dei diritti e delle pene PENSIERO (1764). Secondo Beccaria, la P. non è che il motivo sensibile per rafforzare e garantire l’azione delle leggi sicchè « le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di loro natura» (Dei diritti e delle pene, $ 2). Dallo stesso punto di vista Bentham consi- derava la P. come una delle varie specie di san- zioni (v.) che hanno la funzione di essere « stimolanti della condotta umana » in quanto « trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle spe- ranze e dei timori: delle speranze di un’eccedenza di piaceri, dei timori che prevedono per anticipazione un’eccedenza di dolore (Deontology, 1834, I, 7). Gli stessi concetti fondamentali sono stati fatti valere dalla cosiddetta «Scuola positiva italiana » (Lombroso, Ferri, ecc.) che li ha difesi, con una certa fortuna, nelle dispute filosofico-giuridiche intorno al diritto penale. Non c'è dubbio che la maggior parte dei giuristi, dei filosofi del diritto nonchè dei codici e dei diritti positivi vigenti nelle varie nazioni del mondo si ispirano a una concezione mista o eclettica della P. considerandola, il più delle volte, sotto tutti e tre gli angoli visuali qui prospettati. Questo sin- cretismo non dà nessuna difficoltà dal punto di vista teorico, anche se i tre punti di vista non hanno tra loro lo stesso grado di omogeneità. I primi due si legano abbastanza bene insieme e si trovano, anche in linea di fatto, frequentemente uniti mentre il terzo appartiene a un differente ordine di pen- siero: i primi due si ispirano a un’etica del fine, l’altro a un'etica del movente (v. ETICA). Ma le difficoltà cominciano sul terreno pratico, quando si tratta di stabilire la misura della pena. Su questo campo difatti le tre diverse concezioni manifestano la loro eterogeneità. Dal primo punto di vista, tutte le infrazioni all’ordine della giustizia sono equivalenti: un furto insignificante rompe quest'ordine come un delitto perpetrato con frode o violenza. Dal secondo punto di vista, si è portati a credere che la pena, come la purga, sia tanto più efficace quanto è più forte. Ed è solo dal terzo punto di vista, come già notava Hegel, cioè dal punto di vista della dannosità per la società civile, che le P. si lasciano graduare con una misura op- portuna (cfr. HeGEL, Fil. del Dir., $ 218). Su questo terreno pertanto la confusione o la mescolanza dei vari concetti di P. è tutt'altro che innocente ed è il motivo principale del disordine e delle sperequa- zioni esistenti nei sistemi penali vigenti. PENSANTE, PENSIERO. V. ATTUALISMO. PENSIERO (gr. vénow, duvora; lat. Cogitatio; ingl. Thought; franc. Pensée; ted. Denken). Si pos- sono distinguere i seguenti significati del termine: 1° qualsiasi attività mentale o spirituale; 2° l’atti- vità dell’intelletto, o della ragione in quanto distinta 42 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 657 da quella dei sensi e della volontà; 3° l’attività discorsiva; 4° l’attività intuitiva. 1° Il significato più vasto del termine, per il quale con esso si intende qualsiasi attività spiri- tuale o l’insieme di tali attività, fu introdotto da Cartesio. «Con la parola ‘pensare’, egli diceva, intendo tutto ciò che accade in noi in modo tale che noi lo percepiamo immediatamente da noi stessi: perciò non solamente intendere, volere, im- maginare, ma anche sentire è la stessa cosa che pensare » (Princ. Phil., I, 9; cfr. Méd., ID). Questo significato si trova conservato nei cartesiani (cfr., ad es., MALEBRANCHE, Recherche de la vérité, I, 3, 2) e accettato da Spinoza che include tra i modi del P. «l’amore, il desiderio e ogni altra affezione del- l'animo » (Et., II, assioma III). Locke accennava a questo significato, pur notando che in inglese pen- siero significa più propriamente « l’operazione dello spirito sulle proprie idee » (cioè P. discorsivo) e pre- ferendo perciò la parola « percezione» (Saggio, II, 9, 1). Lo stesso significato veniva accettato da Leibniz che definiva il P. come «una percezione congiunta con la ragione, percezione che le bestie, per quanto possiamo vedere, non posseggono? (Op., ed. Erdmann, pag. 464); e osservava che si poteva prendere il termine P. anche nel significato più generale di percezione, nel qual caso il P. ap- parterrebbe a tutte le entelechie (cioè anche agli animali) (Nouv. Ess., II, 21, 72). La tradizione di questo significato si interrompe con Kant e non viene più ripresa nella filosofia moderna. 2° Il secondo significato è quello per cui il termine designa l’attività dell’intelletto in genere, .in quanto è distinta da un lato dalla sensibilità, dall’altro dall’attività pratica. In questo significato Platone adopera talvolta la parola vénow, come quando designa con essa l’intera conoscenza in- tellettiva, che comprende sia il P. discorsivo ($wvota) sia l'intelletto intuitivo (voce) (Rep., VII, 534); talaltra la parola Suvoa, come fa quando definisce il P. in generale come il dialogo dell’anima con se stessa. «Quando l’anima pensa, egli dice, non fa altro che discutere con se stessa per via di do- mande e risposte, affermazioni e negazioni; e quando, presto o tardi o d’un subito, si determina e asserisce e non dubita più, diciamo che essa è giunta ad una opinione» (7eer., 190e, 19la; cfr. Sof., 264 e). Nello stesso senso generale Ari- stotele adopera la parola Suvowa come quando dice: « Pensabile significa ciò di cui c'è un P.» (Met., V, 15, 1021 a 31). Questo significato, che è il più esteso (dopo quello precedente), si è conservato nella tradizione e viene condiviso da tutti coloro che ammettono la nozione dell’intelletto come facoltà di pensare in generale: in realtà le due nozioni coincidono. 658 S. Agostino (De Trin., XIV, 7) e S. Tommaso (S. Th., II, 2, q. 2, a. 1) ammettono questo signi- ficato generico accanto a quello specifico di P. di- scorsivo (v. oltre). Il P., in questo senso, costituisce l’attività propria di una certa facoltà dello spirito umano in quanto distinta da altre facoltà e precisa- mente quella di cui è propria l’attività conoscitiva superiore (non sensibile). Wolff definiva in questo senso: « Diciamo di pensare quando siamo consa- pevoli di quel che accade in noi e che rappresenta le cose che sono fuori di noi» (Psychol. empirica, $ 23). Questo significato costituisce anche oggi l’uso più comune del termine nel linguaggio ordinario. 3° Il terzo significato di P. è quello che lo specifica come P. discorsivo. È questo il P. che Platone chiamava dianoia e considerava come l’or- gano proprio delle scienze propedeutiche cioè del- l'aritmetica, della geometria, dell'astronomia e della musica: P. che Platone riteneva avvicinamento e preparazione al pensiero intuitivo dell’intelletto (Rep., VI, S11 d). S. Agostino negava che il Verbo di Dio potesse chiamarsi P. in questo senso (De Trin., XV, 16); e lo negava S. Tommaso, perchè il pensare è in questo senso «una considerazione dell’intelletto accompagnata dall’indagine, anteriore, perciò, alla perfezione che l'intelletto attinge nella certezza della visione » (S. 7h., II, 2, q. 2, a. 1; cfr. I, q. 34, a. 1). Questo è, secondo S. Tommaso, il significato « più proprio » della parola « P.». E a questo significato è riconducibile l’altro che egli distingue come terzo significato (il primo essendo quello generico di cui al n. 2) del P. come «atto della facoltà cogitativa» (virtus cogitativa) o ragione particolare (ratio particularis); che è il P. che cor- risponde alla capacità valutativa degli animali e consiste nel riunire e paragonare le intenzioni par- ticolari, come la ragione intellettiva o P. discorsivo consiste nel riunire e paragonare le intenzioni universali (Ibid., I, q. 78, a. 4). Vico non faceva che esprimere gli stessi concetti affermando, nel De antiquissima Italorum sapientia (1710) che a Dio appartiene l’intendere (intelligere) che è la co- noscenza perfetta, risultante da tutti gli elementi che costituiscono l'oggetto e all’uomo solo il pensare (cogitare) che è quasi l’andar raccogliendo alcuni degli elementi costitutivi dell’oggetto (De anriquis- sima Italorum sapientia, I, 1). Alla stessa nozione di P. si riferiva l’empirismo quando affermava, per es., con Hume che tutto ciò che il P. può fare con- siste « nel potere di comporre, trasportare, aumen- tare o diminuire i materiali forniti dai sensi e dalla esperienza » (/ng. Conc. Underst., 1I; trad. ital., 1910, pag. 17). E questo è infine il concetto che del P. ebbe Kant. « Pensare, egli disse, è collegare rappre- sentazioni in una coscienza +» (Prol/., $ 22). Il che significa che « pensare è la conoscenza per con- PENSIERO cetti »; che «i concetti si riferiscono come predicati di giudizi possibili a qualche rappresentazione di un oggetto ancora indeterminato» e che pertanto, quando questo oggetto non è dato all’intuizione sensibile, si ha bensì un «P. formale» ma non una conoscenza vera e propria che consiste nella unità del concetto e dell’intuizione (Crif. R. Pura, Anal. dei concetti, sez. 1, $ 22). Al P. in questo senso si riferiva Hamilton considerandolo « l’atto o il prodotto della facoltà discorsiva o facoltà delle re- lazioni » (Lectures on Logic, V, 10; I, pag. 73). Dal punto di vista di questa nozione, l’attività del P. è definita in termini di sintesi, unificazione, confronto, coordinazione, selezione, trasformazione, ecc., dei dati che sono offerti al P., ma non da lui stesso prodotti. Pertanto la caratteristica del P. come at- tività discorsiva è in ultima analisi una caratteri- stica negativa: il P. discorsivo non si identifica mai con il suo oggetto ma verte intorno a questo og- getto cioè lo caratterizza o lo esprime. In questo senso Frege chiama P. il contenuto di una propo- sizione cioè il suo senso (v.) («Uber Sinn und Bedeu- tung», $ 5; trad. ital., in Aritmetica e logica, pag. 225). In questo stesso senso Wittgenstein diceva: « Il P. è la proposizione significante » e identificava P. e linguaggio, sul fondamento che «la totalità delle proposizioni è il linguaggio» (Tracratus logico- philosophicus, 3.5; 4; 4.001). 4° La caratteristica propria del concetto del P. come intuizione è la sua identità con l’oggetto. Il P. è in questo senso l’attività propria dell’intel- letto intuitivo: cioè di quell’intelletto che è visione diretta dell'intelligibile, secondo Platone (Rep., VI, 511 c); o che, secondo Aristotele, si identifica con l’intelligibile stesso nella sua attività (Mer., XII, 2, 1072 b 18 sgg.). Per il P. così inteso gli antichi usarono costantemente la parola inze/letto (v.) e si è visto come S. Agostino e S. Tommaso si rifiutassero di estendere ad esso il significato di « P. ». Ma nell’idealismo romantico, mentre l’in- telletto veniva degradato a facoltà dell’immobile (v. INTELLETTO), il P. veniva promosso al posto già tenuto dall’intelletto intuitivo e identificato con esso. Così fece per primo Fichte identificando il P. stesso con l’Io o Autocoscienza infinita (Wis- senschaftslehre, 1794, $ 1) e così fecero Schelling e Hegel. Schelling affermava: « Il mio io contiene un essere che precede ogni pensare e rappresentare. Esso è in quanto è pensato ed è pensato perchè è... Esso si produce con il mio P., per via di una cau- salità assoluta» (Vom Ich als Prinzip der Philosophie, 1795, $ 3). Hegel a sua volta espresse nella forma più chiara l’identificazione del P. con l’autoco- scienza creatrice cioè come attività che coincida con la sua propria produzione. Definendo la logica come «scienza del P.» egli affermava che « essa PERCEZIONE contiene il P. in quanto è insieme anche la cosa in se stessa o contiene la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro P.» (Wissenschaft der Logik, Intr., Concetto generale; trad. ital, I, pag. 32). E partendo dal concetto discorsivo del P. così Hegel giunge al concetto intuitivo di esso: « Il P. nel suo aspetto più prossimo appare anzitutto nel suo ordinario significato soggettivo, come una delle attività o facoltà spirituali accanto ad altre, alla sensibilità, all’intuizione, alla fantasia, all’appeti- zione, al volere, ecc. Il prodotto di questa attività, il carattere o forma del P. è l’universale, l’astratto in genere. Il P. come attività è perciò l’universale attivo, è propriamente quello che fa se stesso giacchè il fatto, il prodotto, è appunto l’univer- sale. Il P., rappresentato come soggetto, è il pen- sante; e la semplice espressione del soggetto esi- stente come pensante è l’io » (Enc., $ 20). In altri termini il P. è insieme l’attività produttiva e il suo prodotto (l’universale o concetto): è perciò l’es- senza o la verità di ogni cosa (Zbid., $ 21). Da Hegel in poi questa nozione intuitiva del P. è stata talora qualificata dai suoi sostenitori come il concetto «speculativo » del P. stesso: e assunto come l’unico concetto adeguato del P. inteso nella sua infinità, nella sua forza creatrice. Ma in realtà si è sempre trattato dalla vecchia nozione di in- telletto intuitivo, estesa anche all’uomo, senza più tener conto dei limiti e delle condizioni che gli antichi ponevano a questa estensione. PENTIMENTO (lat. Paenitentia; ingl. Re- pentance; franc. Repentir; ted. Reue). L'afflitto ri- conoscimento d’una propria colpa. Questa è la definizione sulla quale i filosofi si accordano, pur esprimendola con parole diverse (S. ToMMASsO, S. Th., III, q. 85, a. 1; CARTESIO, Passions de l’dme, IN, 191; Spinoza, Etica, III; Definizione delle pas- sioni, 27; HegeL, Werke, ed. Glockner, X, pa- gina 372; ecc.). I filosofi sono pure d’accordo nell’ammettere il valore morale del pentimento. Spi- noza per quanto ritenga che il P. « non è una virtù cioè non deriva dalla ragione » e che pertanto chi si pente è doppiamente misero o impotente (cioè una volta perchè ha agito male e una seconda volta perchè se ne affligge) riconosce che colui che è sottoposto al P. si può tuttavia ridurre molto più facilmente degli altri a vivere secondo ragione (Eth., IV, 54). Montaigne che dedicò al P. uno dei suoi più notevoli saggi (Essaîs, III, 2) aveva tuttavia notato che il P. non deve trasformarsi nel desiderio «di essere un altro ». « Il P., egli scrisse, non tocca propriamente le cose che non sono in nostro potere, come non le tocca il rimpianto. Io immagino infinite nature più alte e più regolate della mia; ma con ciò non miglioro le mie facoltà come il mio braccio e il mio spirito non divengono più vigorosi perchè 659 io ne concepisca un altro che lo sia » (/bid., ed. Rat, III, pag. 28). In senso analogo si esprime Kierkegaard che ha visto nel P. il punto culminante della vita etica e nello stesso tempo il segno del suo interno con- flitto. Il P. è inerente alla scelta che, nella vita etica, l’uomo fa di se stesso. « Scegliere se stessi è iden- tico al pentirsi di se stesso... Anche il mistico si pente, ma si pente fuori di sè non dentro di sè; si pente metafisicamente e non eticamente. Pentirsi esteticamente è repellente perchè è una sdolcinatura; pentirsi metafisicamente è cosa inutile e fuori posto poichè non è l’individuo che ha creato il mondo e non occorre che egli si prenda tanto a cuore }a vanità del mondo stesso » (Entweder -Oder, in Werke, II, pag. 223; Furcht und Zittern, in Werke, II, pag. 143). Cfr. M. ScHELER, Reue und Wiedergeburt, in Vom Ewigen im Menschen, 4* ediz., 1954. PER ACCIDENS (gr. xatà cvpfefyx6c). Ciò che è o accade senza connessione necessaria col soggetto dell’accadimento, come quando accade che un musico costruisce; difatti tra l’esser musico e l’esser costruttore non c'è connessione (confronta ARISTOTELE, Mer., V, 7, 1017a 10). PERATOLOGIA. Termine con cui Ardigò in- dicò la parte generale della filosofia cioè quella parte che ha per oggetto ciò che è al di là dei sin- goli campi delle scienze filosofiche speciali cioè della psicologia e della sociologia (Opere filoso- fiche, II, 1884, passim). PERCETTO (ingl. Percepi). Nel linguaggio della psicologia contemporanea, il P. è l’esperienza

privata di un oggetto cioè il modo in cui l’oggetto appare a un singolo soggetto. Il nome è stato co- niato per analogia con « concetto ». PERCEZIONE (gr. dvraiyic; lat. Perceptio; ingl. Perception; franc. Perception; ted. Wahr- nehmung, Perception). Si possono distinguere di questo termine tre significati principali: 1° un signi- ficato generalissimo per il quale designa qualsiasi attività conoscitiva in generale; 2° un significato più ristretto per il quale designa l’atto o la funzione conoscitiva cui un oggetto reale è presente; 3° un significato specifico o tecnico per il quale designa un'operazione determinata dell’uomo nei suoi rap- porti con l’ambiente. Nel primo significato, la P. non si distingue dal pensiero. Nel secondo signi- ficato, è la conoscenza empirica cioè immediata, certa ed esauriente, dell’oggetto reale. Nel terzo significato, è l’interpretazione degli stimoli. Solo nell’ambito di quest’ultimo significato, si può intendere quello che la psicologia oggi discute come « problema della percezione ». 1° Nel suo significato più generale il termine fu adoperato da Telesio, il quale disse che « la sensa- zione è la P. delle azioni delle cose, degli impulsi 660 dell'aria e delle proprie passioni e mutazioni, soprattutto di queste » (De rer. nat., VII, 3). Questa dottrina era presentata in opposizione polemica con la tesi che la sensazione consistesse sempli- cemente nell’azione delle cose o nella modificazione dello spirito: Telesio insiste che essa invece consiste nella P. dell’una o dell’altra. La stessa dottrina veniva difesa da Bacone che esplicitamente si rifaceva alla distinzione di Telesio (De Auem. Scient., IV, 3). E Cartesio a sua volta adoperava la parola per indicare tutti gli atti conoscitivi, in quanto passivi rispetto all’oggetto, nei confronti degli atti della volontà che sono attivi (Passions de l’éme, I, 17). Cartesio divise le percezioni in quelle che si rapportano agli oggetti esterni, quelle che si rapportano al corpo e quelle che si rapportano all'anima (/bid., I, 23-25). In questo senso genera- lissimo, la parola fu usata anche da Locke: «La P. è la prima facoltà dell’anima che si eserciti intorno alle nostre idee; perciò è la prima idea che noi raggiungiamo per mezzo della riflessione e la più semplice... Nella pura e semplice P., lo spirito, d’ordinario, è solamente passivo non potendo a meno di percepire ciò che in atto percepisce» (Saggio, II, 9, 1). Allo stesso modo, Leibniz intende la P. come ciò che l’anima dell’uomo e l’anima del- l’animale hanno in comune, cioè come « l’espressione di molte cose in una» e la distingue dalla apper- cezione o pensiero per il fatto che quest’ultima è accompagnata dalla riflessione (Nouv. Ess., II, 9, 1; cfr. Op., ed. Erdmann, pag. 438, 464, ecc.). Non diverso è il senso generale che Kant attribuì alla parola chiamando P. una « rappresentazione con coscienza » e distinguendola in sensazione, se essa viene riferita soltanto al soggetto e conoscenza se è oggettiva (Crit. R. Pura, Dialettica, Libro I, sez. 1). È abbastanza ovvio che P. in questo senso significa lo stesso che pensiero in generale; e lo stesso Locke notava questa identità di significato, pur preferendo per suo conto la parola P., perchè pensiero in inglese indica « l’operazione dello spirito sulle proprie idee » mentre nella P. lo spirito ordi- nariamente è passivo (Saggio, II, 9, 1). 2° Il secondo significato del termine è più ristretto ed esprime l’atto conoscitivo oggettivo, quello che afferra o manifesta un oggetto reale determinato (fisico o mentale). Questo è il significato originario del termine, quale fu usato dagli Stoici come equivalente di comprensione (xattAnpic): «Gli stoici definiscono a questo modo la sensazione: la sensazione è P. mediante il sensorio oppure comprensione » (AEzio, P/ac., IV, 8, 1; cfr. EPICURO, Fr. 250; PLoTINO, Enn., VI, 7, 3, 29; ecc.). Cicerone tradusse con perceptio il termine greco, avendo so- prattutto di mira il senso di rappresentazione catalet- tica (Acad., II, 6, 17; De finibus, III, 5, 17); e in PERCEZIONE senso analogo il termine fu usato da S. Agostino (De Trin., IV, 20) e da S. Tommaso il quale ultimo in- tendeva con esso « una certa conoscenza sperimen- tale » (S. 7A., I, q. 63, a. 5, ad 2°). La parola veniva reintrodotta nell’uso filosofico da Telesio e Bacone (come si è detto) e da essi il suo significato comin- ciava ad essere distinto da quello di sensazione. Ma soltanto Cartesio ne stabiliva il nuovo e più complesso significato. Parlando delle percezioni esterne, egli affermava che, per quanto esse siano prodotte da movimenti provenienti dalle cose esterne, « noi le riferiamo alle cose che supponiamo esser loro cause in modo tale da credere di vedere la torcia e di udire la campana, quando invece sentiamo solamente i movimenti che vengono da esse» (Passions de l’îme, I, 23). Da questo punto in poi la distinzione tra sensazione e P. diventa un teorema fondamentale della teoria della per- cezione. Questa distinzione viene espressa da C. Bonnet (Essai analytique sur les facultés de l’îame, 1759, XIV, 195-96) e dalla scuola scozzese nel senso comune, specialmente da Reid (/nquiry into the Human Mind, 1764, VI, 20). In virtù di essa la sensazione viene ridotta all’idea semplice di Locke: ad un’unità elementare prodotta diretta- mente nel soggetto dall’azione causale dell’oggetto. La P., dall'altro lato, diventa un atto complesso che include una molteplicità di sensazioni, presenti e passate, nonchè il loro riferimento all'oggetto, cioè un atto giudicativo. Già Kant identificando la P. con l’intuizione empirica (Prol., $ 10), che è la conoscenza oggettiva cioè il risultato dell'attività giudicante esercitata sul molteplice sensibile, aveva considerato incluso nella P. l’atto giudicativo. La presenza di un giudizio alla P. diviene un luogo comune nella filosofia del sec. xrx. Hegel non faceva che portare al limite questa tesi, quando considerava la P., e la cosa che ne è l’oggetto, come un prodotto dell’Universale, cioè della Coscienza o del Pensiero. « Per noi o in sè, egli diceva, l’Universale come principio è l’essenza della P., e di contro a questa astrazione i due distinti, il percipiente e il percepito, sono l’inessenziale » (Phdnomen. des Geistes, I, Co- scienza, II; trad. ital., I, pag. 97). Ma al di fuori di questa tesi estremistica (che è stata tuttavia ripe- tuta sino a qualche tempo fa dalle scuole idealistiche) la distinzione tra sensazione e P. e il riconoscimento del carattere attivo o giudicativo della P. ha avuto come base il riferimento di essa all'oggetto esterno. Così fece Hamilton, che si ispirava alla dottrina della scuola scozzese (Lectures on Metaphysics, 5® ediz., 1870, II, pag. 129 sgg.); e così fece Spencer che molto contribuì a diffondere questo punto di vista (Principles of Psychology, 1855, $ 353). Bol. zano (Wissenschaftslehre, 1837, I, pag. 161), Bren- tano (Psychologie vom empirischen Standpunkte, PERCEZIONE 1874, I, 3, $ 1), Helmoltz (Die Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879, pag. 36) sottolineavano l’azione del pensiero o dell’intelletto nella P.; e Brentano identificava la P. stessa con il giudizio o la cre- denza (/oc. cit.). In senso non diverso, Husserl distingueva la P. dagli altri atti intenzionali della coscienza in base al tratto che essa permette di « af- ferrare» l'oggetto (/deen, I, $ 37). Alla percezione la cosa stessa è presente nel suo essere, come è presente alla cosa il soggetto che percepisce (cfr. G. BRAND, Welt, Ich und Zeit, 1955, 3). Solo apparentemente diversa è la nozione bergsoniana della « P. pura ». Dice Bergson: «La P. non è che una selezione. Essa non crea nulla: il suo compito è quello di eliminare dall’insieme delle immagini tutte quelle sulle quali io non avrei alcuna presa e poi, dalle immagini ritenute stesse, tutto ciò che non interessa i bisogni di quell'immagine particolare che chiamo corpo + (Matiére et mémoire, pag. 235). In questo modo la P. delineerebbe, nello sterminato campo delle immagini conservate della coscienza, l'oggetto determinato da servire ai bisogni dell’azione e che delimita l’azione possibile del mio corpo. Ma anche cosl il compito della P. rimane quello di afferrare o delineare un oggetto. Il concetto di P. cui queste dottrine fanno riferi- mento, è sufficientemente uniforme: la P. è l’atto con cui la coscienza « afferra » o « pone + un oggetto; e quest’atto utilizza un certo numero di dati ele- mentari, cioè di sensazioni. Tale concetto suppone pertanto: 1° la nozione di coscienza come attività introspettiva o autoriflessiva; 2° la nozione dell’og- getto percepito come un’entità singola perfettamente isolabile e data; 3° la nozione di unità elementari sensibili. L'abbandono di questi tre presupposti ca- ratterizza la nuova fase del problema della P., propria della psicologia e della filosofia contemporanee. 3° Per il terzo concetto, la P. non è che l’inter- pretazione degli stimoli, cioè il ritrovamento o la costruzione del significato di essi. Questa definizione è una formula semplificata e generica per esprimere i tratti più evidenti che alla P. riconoscono le teorie psicologiche contemporanee. F. H. Allport ha enumerate (e criticamente analizzate) tredici tali teorie (Theories of Perception and the Concept of Structure, 1955). Bisogna tuttavia osservare che esse, proposte, come sono quasi tutte, da psi- cologi ricercatori che le hanno formulate come generalizzazioni sperimentali, raramente rappresen- tano alternative che si escludano mutuamente, mentre il più delle volte non fanno che porre in evidenza o considerare come fondamentali fattori o condizioni che un certo ordine di ricerche ha messo in luce. Si possono, tuttavia, distinguere due gruppi di teorie: a) quelle che insistono sull’im- portanza dei fattori o delle condizioni oggettive; 661 b) quelle che insistono sull’importanza dei fattori o delle condizioni soggettive. a) Al primo gruppo di dottrine appartiene in primo luogo la psicologia della forma (Gestalt- theorie) che è sostanzialmente una teoria della percezione. La psicologia della forma s’inizia con il lavoro di Max Wertheimer sulla P. del movimento (1912) e ha come suoi altri rappresentanti principali Wolfgang Kéhler (Gestalt Psychology, 1929) e Kurt Koffka (Beitràge zur Psychologie der Gestalt, 1919). L’obbiettivo polemico della psicologia della forma sono i presupposti 2° e 3° della concezione tradizionale della percezione. Essa ha mostrato, in primo luogo, che non esistono (salvo che come astrazione artificiale) sensazioni elementari che entrino a comporre la P. di un oggetto; e in secondo luogo che non esiste un oggetto di P. come entità isolata o isolabile. Ciò che si percepisce è una totalità che fa parte di una totalità. La psicologia della forma si è dedicata a determinare le «leggi» in base alle quali tali totalità sono costituite, cioè le «leggi di organizzazione ». Esse sono quelle della prossimità, della somiglianza, della direzione, della buona figura, del destino comune, della chiu- sura, ecc.: leggi che possono essere vedute in atto anche in esperienze semplicissime: come, ad es., quelle che rivelano la tendenza a raggruppare insieme, in un’unica percezione, segni simili o sufficientemente vicini o costituenti una figura regolare. L'affermazione fondamentale della teoria della forma è che la P. concerne sempre una totalità, le cui parti, se considerate separatamente, non presentano i suoi stessi caratteri; che sono quelli della massima semplicità e chiarezza possibile e della massima possibile simmetria e regolarità. Tali caratteri hanno convinto talvolta i gestaltisti ad ammettere la cosiddetta teoria del « tutto determinante »: cioè la teoria che il tutto tra- scende le sue parti e determina dinamicamente le parti stesse secondo leggi sue proprie. Il tutto rassomiglia così alla «cosa + di cui parla Husserl, nei confronti della P. trascendente: in quanto l'essenza della cosa integra in sè, e nello stesso tempo trascende, la totalità delle sue apparizioni. Questa è la teoria della P. che è sostanzialmente accettata nella Phénoménologie de la perception (1945) di M. Merleau-Ponty. Un'importante variante di essa è la teoria del campo topologico di Lewin secondo la quale l’individuo, ridotto a un punto privo di di- mensioni, è sottoposto all’azione delle forze che agiscono nel campo e che egli sente come estranee al suo corpo. In questa condizione l’individuo è considerato in «locomozione» cioè come moventesi verso una meta positiva o come allontanantesi da una meta negativa. Lo spazio in cui avviene questo movimento è il cosiddetto « spazio di vita » 662 cioè la regione nella quale l’individuo ha esperienza della sua azione: uno spazio che non ha proprietà metriche o direzioni determinate ed è perciò fopo- logico, nel senso che può avere ad ogni momento qualsiasi dimensione o forma geometrica, purchè conservi le proprietà che rendono possibile il movi- mento (LEWIN, Principles of Topological Psychology, 1936). Varianti di questa teoria possono essere considerate quella di Hebb che fa corrispondere al campo percettivo un campo fisiologico cioè un « meccanismo di azione neutrale selettiva » che pren- derebbe posto, per ogni particolareP., in qualche punto del sistema nervoso centrale (The Organization of Behavior, New York, 1949); e quella del « campo tonico-sensorio » secondo la quale «le proprietà percettuali di un oggetto sono una funzione del modo in cui gli stimoli provenienti dall’oggetto mo- dificano l’esistente stato tonico-sensorio dell’orga- nismo » (WERNER e WAPNER, « Toward a General Theory of Perception», in Psychological Review, 1952, pag. 324-38). Tutte le teorie qui accennate, imperniate come sono sui concetti di «totalità » o di «campo», privilegiano in qualche modo l’aspetto oggettivo della percezione. b) Un secondo gruppo di teorie tiene invece d’occhio prevalentemente l’aspetto soggettivo della P. medesima. Per tali teorie, cade anche il presup- posto 1° della concezione 2* della P., cioè quello della coscienza. Queste dottrine infatti non fanno ricorso alla nozione di coscienza e alla considera- zione introspettiva. Una mole imponente di osser- vazioni sperimentali ha messo in luce l’importanza, per la P., dello stato di preparazione o predisposi- zione del soggetto cioè di quello che si chiama solitamente l’apparecchiatura (set) percettiva. Il fatto fondamentale è che l'essere apparecchiati per un certo stimolo o per una certa reazione ad uno stimolo, facilita l’atto del percepire o lo fa compiere con maggiore prontezza, energia o intensità. L’appa- recchiatura è, in altri termini, un processo selettivo che determina preferenze, priorità, differenze quali- tative o quantitative in ciò che si percepisce. L’apparecchiatura non è qualcosa di diverso dallo stesso processo percettivo nè è un meccanismo innato o prefissato, ma uno schema variabile che è appreso o costruito, per quanto non sempre volontariamente (cfr. il cap. 9 della citata opera di Allport). Le più recenti teorie della P. tengono largamente conto di questi fatti. La teoria rransa- zionale, per es., considera, in base ad essi, la P. come una transazione cioè come un accadimento che prende posto tra l’organismo e l’ambiente e non può quindi essere ridotto nè all’azione dell’og- getto o del soggetto nè all’azione reciproca dei due. Come transazione, la P. deriva la sua natura dalla situazione totale in cui prende posto e ha le sue PERCEZIONE radici sia nell'esperienza passata dell’individuo sia nelle sue aspettazioni per il futuro (DEWEY e BENTLEY, Xnowing and the Known, 1949; CANTRIL, AMES, HAsTORF, ITTELSON, «Psychology and Scien- tific Research», in Science, 1949, pag. 461, 491, 517; ITTELSON e CANTRIL, Perception: a Trans- actional Approach, 1954). Da questo punto di vista può essere agevolmente posto in luce il ca- rattere attivo e selettivo della P., il fatto che essa si avvale di indizi, in base ai quali rico- struisce il significato dell'oggetto e infine l’altro tratto fondamentale, cioè che essa è costituita da probabilità, non da certezze. Questi tratti sono messi innanzi dal cosiddetto funzionalismo che è stato chiamato il «New.Look» della teoria della P.; ed hanno condotto alla teoria della motivazione e alla teoria delle ipotesi. La prima teoria che è detta anche teoria dello « stato direttivo » è fondata sul riconoscimento dell’infiuenza che i bisogni corporei, le aspettazioni dell’individuo (ad es., un castigo o un premio) e la personalità di lui hanno sull’oggetto percepito e sulla rapidità e intensità della P. (BRUNER e KRECH, Perceprion and Perso- nality: a Symposium, Durbam, 1950). Nella seconda teoria confluiscono tutti i dati sperimentali sui quali hanno fatto leva le teorie del presente gruppo e buona parte dei dati sperimentali sui quali si fondavano le teorie del primo gruppo. L’idea fondamentale della teoria dell’ipotesi è che le percezioni (come d’altronde anche il ricordo o il pensiero) costituiscono ipotesi che l’organismo avanza in determinate situazioni e che sono confer- mate, abbandonate o modificate a seconda della situazione stessa. L’apparecchiatura (ser) di cui parlava una delle precedenti teorie è per l'appunto l’avvio a un'ipotesi di questo genere. L’apparec- chiatura costituisce infatti l’aspettazione percettuale, che è fondata sull’esperienza precedente e anticipa quella futura. Abitualmente, nella P., le apparec- chiature sono state stabilite da lungo tempo, attraverso la precedente attività percettiva e possono essere pronte ad entrare in azione quando l’organi- smo entra in una data situazione. Attraverso tali apparecchiature, l’organismo sceglie, organizza e trasforma le «informazioni» che gli giungono dall’ambiente. Queste informazioni sono indizi o segnalazioni che servono sia a «evocare» l’ipotesi sia a confermarla o smentirla. Le principali correla- zioni funzionali tra le variabili che la teoria comporta sono le seguenti: I) Più forte è l’ipotesi, maggiore è la probabilità della sua evocazione e minore la somma di indizi richiesta per confermarla. Da ciò segue che quando l’ipotesi è debole, è richiesta per la sua conferma una mole estesa di informazioni appropriate. II) Più forte è l’ipotesi, maggiore è la somma di indizi richiesta per infirmarla; e più debole PERFEZIONE l’ipotesi, minore è la quantità di indizi contrari richiesti per infirmarla (cfr. l'art. di L. PostMAN, in Social Psychology at the Crossroads, a cura di RoHRER e SHERIF, New York, 1951; e ALLPORT, op. cit., cap. 15). Questa teoria non fa che riassu- mere, nella forma meno dogmatica, sia i dati speri- mentali raccolti da un imponente numero di osser- vatori sia i tratti essenziali che alla P. avevano riconosciuto le dottrine contemporanee della psico- logia a partire dalla Gestalttheorie. Tali tratti possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la P. non è la conoscenza esauriente e totale dell’oggetto che le teorie di cui al numero 2° vedevano in essa, ma un’interpretazione provvi- soria e incompleta, fatta in base a indizi o a segna- lazioni. 2° La percezione non implica alcuna ga- ranzia della sua validità cioè alcuna certezza. Essa si mantiene nella sfera del probabile. 3° Come ogni conoscenza probabile, la P. deriva la sua validità dall’esser messa a prova e dal riuscire confermata o rigettata dalla prova. 4° La P. non è conoscenza perfetta e immodificabile, ma possiede la caratte- ristica della correggibilità. PERCEZIONE INTELLETTIVA. Così Rosmini chiamò l’atto fondamentale della cono- scenza, in quanto è una sintesi tra l’idea dell’es- sere in generale e l’idea empirica derivante dalla sensazione (delle cose esterne) o dal sentimento (che l’io ha di sè) (Nuovo saggio sull'origine delle idee, 1830, $ 492, 537, ecc.). PERCEZIONI PICCOLE. V. Inconscio. PERCEZIONISMO (ingl. Perceptionism; fran- cese Perceptionnisme; ted. Perceptionismus). La dottrina che ammette la realtà degli oggetti della percezione. Lo stesso che realismo ingenuo (vedi REALISMO). PERFECTIHABIA. Così Ermolao Barbaro tradusse in latino il termine greco « entelechia » (cfr. LERBNIZ, Monad., $ 48). PERFETTO (gr. céews; lat. Perfectus; in- glese Perfect; franc. Parfait; ted. Vollkommen). Aristotele distingueva tre significati del termine: 1° ciò che non manca di alcuna sua parte o al di là di cui non può trovarsi alcuna parte che gli appar- tenga; 2° ciò che possiede, nella sua specie, un’ec- cellenza che non può essere sorpassata; e così è P. un flautista o un ladro di cui non ci sia il migliore; 3° ciò che ha raggiunto il suo fine, posto che si tratti di un fine buono (Mer., V, 16, 1021 b 12 sgg.). Nel primo senso è P. ciò che è completo cioè non manca di alcuna sua parte integrante. Nel secondo senso è P. ciò che è eccellente rispetto ad altro della stessa specie; nel terzo senso è P. ciò che è reale o attuale perchè ha raggiunto il suo fine. Questi significati sono rimasti propri del termine lungo la storia della filosofia. È chiaro che mentre 663 il significato 2° è relativo quindi non metafisico, perchè esprime solo l’eccellenza relativa di una cosa in un dato ordine di cose, gli altri due sono assoluti e sono rimasti propri della tradizione metafisica. PERFEZIONE (ingl. Perfection; franc. Per- fection; ted. Vollkommenheit). Questa parola è stata usata dai filosofi soltanto corrispondentemente ai significati 1° e 3° del corrispondente aggettivo: non si considera come P. la P. relativa cioè lo stato di una cosa che eccelle fra quelle della sua specie. Dice S. Tommaso: « La P. di una cosa è duplice, cioè prima e seconda. La prima P. è quella per la quale una cosa è perfetta nella sua sostanza e tale P è la forma del tutto che emerge dall’integrità delle parti. La P. seconda è quella del fine; ma il fine o è l’operazione, come il fine del citarista è quello di suonar la cetra; o è la cosa cui si perviene at- traverso l’operazione, come il fine del costruttore è la casa che costruisce. La prima P. è causa della seconda P.: la forma è infatti il principio delle operazioni » (S. 7h., I, q. 73, a. 1). Esattamente lo stesso concetto veniva esposto da Kant: « La P. indica talvolta un concetto che appartiene alla filosofia trascendentale, quello della totalità degli elementi diversi che riuniti insieme costituiscono una cosa; ma esso può intendersi anche come appartenente alla re/eologia, e allora significa l’ac- cordo delle proprietà di una cosa con un fine» (Met. der Sitten, Intr., V, A; cfr. Crit. del Giud., $ 15). Queste determinazioni riducono la P.: 1° alla integrità del tutto; 2° alla realizzazione del fine. Ma tendono in realtà a privilegiare il primo concetto che, applicato alla totalità dell’essere, ha portato nella tradizione filosofica, a identificare P. e realtà. Lo stesso S. Tommaso infatti ha descritto la P. di Dio e della creatura come consistente nel pos- sesso dell’essere: « Dio, che è la totalità del suo essere, possiede l’essere secondo l’intera virtù del- l’essere stesso e non può mancare di alcuna nobiltà che competa a una cosa qualsiasi. Come ogni nobiltà e P. inerisce a una cosa in quanto la cosa è, così ogni difetto le inerisce in quanto, in qualche modo, non è» (Contra Gent., I, 28). Da questo punto di vista una cosa è tanto più perfetta quanto più ha di essere; e poichè Dio ha tutto l'essere, è totalmente perfetto. Queste equazioni costituivano luoghi comuni della scolastica medievale. Lo stesso Duns Scoto le ripete, affermando che la forma nelle creature implica qualche imperfezione perchè è forma partecipata e parziale, mentre la forma non ha imperfezione in Dio perchè non è nè par- tecipazione nè parte (Op. Ox., I, d. 8, q. 4, a. 3, n. 22). Esattamente a questo concetto di P. faceva ricorso Cartesio affermando che le idee «che rap- presentano sostanze sono senza dubbio qualcosa di più e contengono in sè più realtà oggettiva cioè 664 partecipano per rappresentazione a più gradi d’es- sere 0 di P., di quelle che rappresentano soltanto modi o accidenti » (Med., III). Esplicitamente Spi- noza identificava realtà e P. (Zr., II, def. 6); e Leibniz dichiarava di intendere per P. « la grandezza della realtà positiva presa precisamente, mettendo da parte i limiti o i confini delle cose che la posseg- gono» (Monad., $ 41). Kant parlava in questo senso di una P. frascendentale che è «l’integrità di ogni cosa nel suo genere + e di una P. metafisica come « l'integrità di una cosa semplicemente come cosa in genere», distinguendo da esse la P. come attitudine o convenienza di una cosa a vari fini (Crit. R. Prat., I, I, cap. I, scol. II). Il concetto di P. è rimasto fissato, nel corso ulte- riore della filosofia, da queste determinazioni: come integrità del tutto o rispondenza al fine; e co- stantemente, nel primo significato, è stato iden- tificato con il concetto di essere. Fuori delle sue sopravvivenze metafisiche e teologiche, la nozione di P. viene scarsamente utilizzata nella filosofia contemporanea. Quando viene utilizzata, il riferi- mento ai significati tradizionali è evidente: così accade, ad es., in Bergson che identifica la P. con l’assoluto ed entrambi con la totalità dell’essere (‘ Introduction à la Métaphysique », in La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 204). PERFEZIONISMO (ingl. Perfectionism; fran- cese Perfectionnisme; ted. Perfektionismus, Perfekti- bilismus). La parola viene adoperata (raramente) in due significati: 1° per indicare l’ideale morale che consiste nel perseguire la propria o altrui perfezione morale, cioè la capacità di agire in conformità del dovere: capacità che implica anche la cultura delle facoltà fisiche e mentali dell’uomo. In questo senso è P. l'ideale morale espresso da Kant nella introduzione al secondo volume della Metafisica dei costumi; 2° per indicare la credenza nel progresso accompagnata dall’impegno di contribuire al pro- gresso stesso. In questo senso la parola viene talora usata nella filosofia anglosassone contemporanea. PERFORMATIVO (ingl. Performative; fran- cese Performatif). Così John L. Austin ha chia- mato una classe di enunciati che hanno la forma apparente degli enunciati descrittivi ma non sono tali e rispondono a due condizioni: 1° Non descri- vono nè riportano nè constatano nulla e non sono veri o falsi. 2° Il pronunciare l’enunciato è l’effet- tuazione di un’azione o di una parte di essa e precisamente di un’azione che non è normalmente descritta come un semplice « dire qualcosa ». Esempi di P. sono il classico «Si» con cui gli sposi ri- spondono alla domanda sacramentale nel corso di una cerimonia matrimoniale; o le frasi seguenti: «Io chiamo questo bastimento ‘ Regina Elisabetta ’ » pronunziata nella cerimonia del varo di una nave PERFEZIONISMO quando si spezza la bottiglia contro lo scafo; « Lascio in eredità il mio orologio a mio fratello » o frasi simili che ricorrono nei testamenti; « Scom- metto con te mille lire che domani pioverà » (cfr. How to do Things with Words, 1962, pag. 5). Austin ha chiamato illocuzione (illocution) il P. per distinguerlo dalla locuzione che è un’espressione fornita di denotazione e connotazione, e dalla perlocuzione, che è la forma persuasiva di un’espres- zione (/bid., pag. 98 sgg.). PERIEKON. V. ORIZZONTE. PER IMPOSSIBILE. V. Assurpo. PERIPATETISMO. V. ARISTOTELISMO. PERIPEZIA (gr. repinttea; ingl. Peripety; franc. Péripétie; ted. Peripetie). Secondo Aristo- tele, uno degli elementi fondamentali della tragedia e precisamente dell'intreccio tragico. Consiste in un cambiamento improvviso di condizioni o di fortuna che deve prodursi in modo verosimile e necessario (Poer., 11, 1452a 22). PERLOCUZIONE. V. PERFORMATIVO. PER LO PIÙ (gr. tri tè rod; ingl. Mostly; ted. Zumeist). L'espressione è adoperata da Ari- stotele per indicare ciò che accade in modo uni- forme e costante ma non sempre e di necessità; accidentale è ciò che non accade nè sempre nè per lo più (Mer., VI, 2, 1026 b 30). Ciò che è sempre o di ecessità è l'oggetto delle scienze teoretiche; ciò che è per lo più, è oggetto delle scienze pratico- poietiche; l’accidentale non può essere oggetto di scienza. Heidegger ha adoperato l’espressione per indicare l'insieme dei modi d’essere che costitui- scono la «medietà» (Sein und Zeit, $ 9) (v. ME- DIETÀ). PERMANENZA (ingl. Permanence; francese Permanence; ted. Beharrlichkeit). Secondo Kant «la P. esprime in generale il tempo come corre- lato costante di ogni esserci dell'apparenza, di ogni mutamento e di ogni concomitanza ». La P. è in altri termini il tempo come durata (Crif. R. Pura, Anal. dei princ., cap. II, sez. 3, Prima analogia) (v. ANALOGIE DELL'ESPERIENZA). PERPETUITÀ. V. ETERNITÀ. PER SÈ (gr. xad'asré; lat. Per se; ingl. By itself; franc. Par soi; ted. Fr sich). Ciò che è in virtù della sua sostanza e non per altro; o che è nella coscienza e per la coscienza. Questi sono i due significati fondamentali del termine, che risal- gono rispettivamente ad Aristotele e Hegel. A) Per suo conto, Aristotele (Mer., V, 18, 1022 a 24 sgg.) enumerava cinque significati del termine: 1° si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù della sua essenza necessaria o sostanza. Ad es., Callia è per sè ciò che egli è sostanzialmente, cioè uomo; PERSONA 2° si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù di una parte della sua essenza necessaria cioè in virtù di una parte della sua definizione (giacchè la definizione esprime l’essenza necessaria). In tal senso si dice che Callia è per sè animale perchè «animale » è parte della definizione di Callia; 3° in terzo luogo si dice che una cosa è per sè ciò che essa è in virtù di una sua qualità o deter- minazione primaria. In tal senso si dice che l’uomo è per sè vivo in quanto la vita è una sua determina- zione primaria (essendo parte dell’anima, che è sostanza dell’uomo); 4° si dice per sè quello ché non ha, o di cui non si considera, una causa esterna. In questo senso l’uomo è per sè in quanto è uomo, cioè in quanto la sua causa è la sua stessa sostanza, non in quanto è animale o bipede, ecc.; 5° si dice che è per sè la cosa che è ciò che le appartiene in proprio o appartiene a essa soltanto. In tal senso si può dire che l’anima per sè pensa. Questi cinque significati sono in realtà tutti ri- conducibili al primo cioè a quello per il quale si dice che è per sè la cosa che è in virtù della sua sostanza. Difatti il significato 2° si riferisce alle parti della sostanza, il significato 3° alle qualità o determinazioni che derivano dalla sostanza, il significato 4° e il significato 5° alla causalità propria della sostanza. Il significato fondamentale o gene- rico, per cui è per sè ciò che è in virtù della sua sostanza, è rimasto quello al quale più frequente- mente si è fatto riferimento nella storia della filo- sofia. Questo è, ad es., il significato che all’espres- sione attribuiscono sia S. Tommaso che Duns Scoto. S. Tommaso afferma che « Dio è lo stesso essere per sè sussistente » (S. 7h., I, q. 44, a. 1), in quanto l’essere appartiene all'essenza o sostanza di Dio (4bid., I, q. 3, a. 4); e che l’anima non può corrompersi perchè è «forma per sè sussistente » (Ibid., I, q. 75, a. 6). Duns Scoto riserva l’essere per sè alla forma totale e perfetta in cui entrano tutte le parti ma che a sua volta non è parte (Quodi., q. 9, n. 17). Entrambi i filosofi designano quindi come per sè l’essere sostanziale, sebbene Duns Scoto restringa, più di S. Tommaso, il significato di questo. B) Il secondo significato fondamentale del ter- mine è quello che Hegel gli ha attribuito come es- sere attuale o effettuale [in contrapposto a in sé (v.), essere possibile] e quindi come essere che si è svi- luppato attraverso la riflessione e la coscienza. Dice Hegel « Diciamo che qualcosa è per sè in quanto toglie l’esser altro, la sua relazione e la sua comu- nanza con altro, in quanto cioè ha respinta e ha fatto astrazione da esso... La coscienza contiene già in sè come tale la determinazione dell’essere per sè in quanto si rappresenta un oggetto che sente, in- tuisce, ecc., in quanto cioè ha in sè il contenuto 665 dell’oggetto stesso... Ma la coscienza di sè è l’esser per sè compiuto e posto giacchè in essa l’aspetto del riferirsi ad altro, ad un oggetto esterno, è su- perato» Wissenschaft der Logik, I, I, 3, A; trad. ital., I, pag. 173-74). In questo senso la coscienza è per sè perchè ha annullato o tolto di mezzo l’altro (l’og- getto esterno) e l’ha risolto in un suo proprio contenuto interno. Sartre ha, nella filosofia con- temporanea, ripreso questo concetto chiamando «essere per sè » o senz'altro « per sè » la coscienza in quanto è l’annullamento o « il niente » dell’oggetto, cioè dell’in sè (L’étre et le néant, pag. 115 sgg.). Lo stesso significato è attribuito all’espressione da Merleau-Ponty (Phénoménologie de la perception, 1945, pag. 423 sgg.). PERSEITÀ (lat. Perseitas; ingl. Perseity; fran- cese Perséîté). Termine adoperato nella Scolastica (ma raramente) per indicare lo stato e la condizione di ciò che è per sé (v.). PERSONA (gr. rpSowrov, èingorao; lat. Per- sona; ingl. Person; franc. Personne; ted. Person). Nel senso più comune del termine: l’uomo nelle sue relazioni con il mondo o con se stesso. Nel senso più generale (in quanto la parola è stata applicata a Dio oltre che all’uomo): un soggetto di relazioni. Si possono distinguere le seguenti fasi del concetto: 1° compito e relazione-sostanza; 2° auto-relazione (relazione con se stesso); 3° etero- relazione (relazione col mondo). 1° Il termine P. significa maschera (nel senso di personaggio: ingl. Character; franc. Personnage; ted. Rolle) e proprio in questo senso fu introdotto nel linguaggio filosofico dallo stoicismo popolare per indicare i compiti rappresentati dall’uomo nella vita. Dice Epitteto: «Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà o breve o lungo secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la P. di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è assegnata la P. di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si spetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia P. che ti è destinata: lo eleggerla si ap- partiene a un altro » (Manuale, 17, trad. Leopardi; cfr. Dissertazioni, I, 29, ecc.). Il concetto di com- pito in questo senso può essere ridotto a quello di relazione: un compito non è che un complesso di relazioni che legano l’uomo a una data situa- zione e lo definiscono nei rispetti di essa. La no- zione di P. si rivelò perciò utile quando si trattò di esprimere le relazioni che intercedono tra Dio e il Cristo (considerato come il Logos o Verbo) e tra essi e lo Spirito; ma nel contempo fu la fonte di fraintendimenti e di eresie. Difatti, da un lato la relazione sembrava alcunchè di aggiunto, e di accidentalmente aggiunto, alla sostanza della cosa; 666 tale almeno era il suo concetto nella filosofia tra- dizionale e in particolare in quella aristotelica (v. RELAZIONE). Dall’altro, il nome stesso di P., evocando la maschera da teatro, sembrava impli- care il carattere apparente o non sostanziale della persona. Di qui nacquero le lunghe dispute trini- tarie che caratterizzano la storia dei primi secoli del Cristianesimo e che portarono alle decisioni del Concilio di Nicea (325). Per evitare il riferi- mento della nozione di P. alla maschera, gli scrittori greci adottarono, invece di prosopon, la parola hypostasis, che nel suo significato di «supporto » ben rivela le preoccupazioni che ne suggerirono la scelta. Ma circa il carattere accidentale che la relazione sembra avere per sua natura, molti padri della Chiesa non trovarono di meglio che negare che la P. fosse relazione e insistere sulla sua so- stanzialità. Così faceva, ad es., S. Agostino, affer- mando che P. significa semplicemente « sostanza » e che perciò il Padre è P. rispetto a sè (ad se) non rispetto al Figlio, ecc. (De Trin., VII, 6). Boezio dava su questo fondamento la definizione di P. che rimase classica in tutto il Medioevo: «P. è la so- stanza individuale di natura razionale » (De duabus naturis et una persona Christi, 3, P. L., 64, col. 1345). Ma, come S. Tommaso notava (S. 7h., I, q. 29, a. 4, contra), lo stesso Boezio ammetteva che «ogni nome attinente alle P. significa una rela- zione »; e d’altronde non c’era altro modo di chia- rire il significato delle persone divine oltre quello di chiarire le relazioni fra di esse nonchè le loro relazioni con il mondo e con gli uomini. S. Tom- maso pertanto, in uno dei suoi testi più notevoli per chiarezza e forza filosofica (a prescindere dal significato teologico-religioso), cioè nella sua de- lucidazione del dogma trinitario, ripristina il si- gnificato del concetto di P. come relazione, pure affermando nello stesso tempo la sostanzialità della relazione in divinis. « Non c'è in Dio distinzione se non in virtù delle relazioni di origine. Ma la relazione in Dio non è come un accidente che ine- risca al soggetto, ma è la stessa essenza divina sicchè è sussistente al modo stesso in cui sussiste l’essenza divina. Come la deità è Dio così la paternità divina è Dio Padre, che è P. divina: dunque la P. divina significa la relazione in quanto sussistente; cioè significa la relazione nella forma della sostanza, che è l’ipostasi sussistente nella natura divina; sebbene ciò che sussiste nella natura divina non sia altro che la natura divina » (S. 7h., I, q. 29, a. 4). In tal modo, insieme col carattere sostanziale o ipostatico della P., veniva energicamente sottoli- neato il suo significato di relazione. Questo per ciò che riguarda le P. divine. Per ciò che riguarda la P. in generale, S. Tommaso affermava che, a differenza dell’individuo che di per sè è indistinto, PERSONA «la P., in una natura qualsiasi, significa ciò che è distinto in tale natura; come nella natura umana significa queste carni e queste ossa e quest’anima che sono i princìpi che individuano l’uomo » (/bid., I, q. 29, a. 4). Anche nel senso comune la P. perciò è, secondo S. Tommaso, distinzione e relazione. 2° A partire da Cartesio, mentre s’indebolisce o vien meno il riconoscimento del carattere sostan- ziale della P., si accentua la sua natura di relazione e specialmente di autorelazione o relazione del- l’uomo con se stesso. Il concetto di P. inquesto senso si identifica con quello di Io come coscienza e viene prevalentemente analizzato a proposito di ciò che si chiama l'identità personale cioè l’unità e la continuità della vita cosciente dell’io. Locke afferma che la P. « è un essere intelligente e pensante che possiede ragione e riflessione e può considerare se stesso, cioè la stessa cosa pensante che egli è, in diversi tempi e luoghi; il che fa soltanto mediante quella coscienza che è inseparabile dal pensare ed essenziale ad esso» (Saggio, II, 27, 11). La P. è qui identificata con l'identità personale cioè con la relazione che l’uomo ha con se stesso, e quest’ul- tima con la coscienza. Leibniz è d’accordo con Locke su questo punto; ma insiste anche sull’iden- tità fisica o reale come un’altra componente della P., oltre l’identità morale o della coscienza (Nouv. Ess., II, 27, 9). Il rapporto consapevole dell’uomo con se stesso diventa da questo punto in poi la caratteristica fondamentale della persona. Dice Wolff: «La P. è l’ente che conserva la memoria di sè cioè ricorda di essere quello stesso che prece- dentemente fu in questo o quello stato + (Psychol. rationalis, $ 741). E Kant analogamente afferma: « Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio io lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli esseri viventi sulla terra. Per questo egli è una P. e, in forza dell’unità di coscienza persistente attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, è una sola e medesima P.» (Antr., $ 1). Hegel in- tendeva per P. il soggetto autocosciente in quanto «semplice riferimento a sè nella propria individua- lità » (Fil. del Dir., 8 35). Lotze dice: « L'essenza della P. non si richiama a una passata o presente opposizione dell’io nei confronti del non io, ma con- siste in un immediato essere per sè» (Mikrokosmus, I, 1856, pag. 575). E Renouvier: «La coscienza prende il nome di P. quando è portata a quel grado superiore di distinzione e di estensione insieme, in cui essa attinge la conoscenza di sè e dell’universale e il potere di formare concetti ed applicare quelle leggi fondamentali dello spirito che sono le categorie + (Nouvelle monadologie, 1899, pag. 111). Poichè la P. è in questo senso semplicemente la relazione dell’uomo con se stesso, che è la definizione della coscienza, essa si identifica con la coscienza; e PERSONALISMO tale identificazione è l’unico dato concettuale che si può rintracciare in quella esaltazione retorica della P. che contrassegna alcune forme contem- poranee del personalismo (v.). 3° Contro la precedente interpretazione della P. stanno ovviamente le posizioni filosofiche che si rifiutano di ridurre l’essere dell’uomo alla coscienza e polemizzano contro la forma più radicale di questa interpretazione, che è lo hegelismo. In questo senso l'antropologia della sinistra hegeliana e del mar- xismo, per quanto non si sia dichiaratamente preoccupata di illustrare il concetto di P., costi- tuisce l'avvio a un rinnovamento di tale concetto o la messa in luce di un aspetto sul quale la tradi- zione filosofica era rimasta muta: cioè quello per il quale la P. umana è costituita o condizionata essen- zialmente dai « rapporti di produzione e di lavoro » cioè dai rapporti in cui l'uomo entra con la natura e con gli altri uomini per soddisfare i suoi bisogni (cfr. Marx, Deutsche Ideologie, I). Dall'altro lato, la dottrina morale kantiana aveva già dato del concetto di P. una caratterizzazione in termini di etero-relazione, cioè di relazione con gli altri. Quando Kant diceva che «gli esseri ragionevoli sono chiamate persone perchè la loro natura li indica già come fini in se stessi vale a dire come qualcosa che non può essere adoperato unicamente come mezzo » (Grundlegung zur Metaphysik der Sit- ren, IN), faceva consistere la natura della P., dal punto di vista morale, nel rapporto inter-soggettivo. Tuttavia soltanto con la fenomenologia il concetto di P. come etero-relazione fa il suo ingresso esplicito in filosofia. Già Husserl, considerando l’io come il « polo di tutta la vita intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti che essa crea » (Carr. Med., $ 44) accentuava quella relazione ad altro in cui l’inten- zionalità consiste. Ma è soprattutto con Scheler che la P. viene esplicitamente definita corne + rap- porto con il mondo». La P. è secondo Scheler definita essenzialmente da tale rapporto, come l'io è definito dal rapporto con il mondo esterno, l'individuo dal rapporto con la società, il corpo dal rapporto con l’ambiente. Secondo Scheler «il mondo non è che il correlato oggettivo della P., quindi ad ogni P. individuale corrisponde un mondo individuale» (Der Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 408). Le sfere oggettive che si possono distinguere nel mondo (oggetti interni, oggetti esterni, oggetti corporei, ecc.) diventano concrete soltanto come parti di un mondo che è il correlato di una P. cioè come dominio delle possi- bilità d'azione della P. stessa. La P. in questo senso non va confusa con l’anima, l’io o la coscienza: uno schiavo, ad es., è tutte queste cose ma non è P. perchè non ha la possibilità d’agire sul proprio corpo e un elemento del suo mondo gli sfugge 667 (Ibid., pag. 499). «La P., dice ancora Scheler, è data solo là dove è dato un poter fare per mezzo del corpo e precisamente un poter fare che non si fonda solo sul ricordo delle sensazioni occasionate dai movimenti esterni e delle esperienze attive, ma precede l’agire effettivo (/bid., pag. 499). Nono- stante i numerosi e non sempre coerenti andirivieni metafisici che Scheler ha fatto subìre alla sua dot- trina, il suo concetto della P. come di un « rapporto con il mondo » è stato fecondo anche perchè è stato assunto come punto di partenza dall’analisi esisten- ziale di Heidegger (Sein und Zeit, $ 10): la quale si è precisamente imperniata sul concetto della P. umana, cioè dell’esserci, come rapporto con il mondo. Questo concetto di P. che, come si è visto non coincide con quello di io, è stato formulato in ter- mini analoghi ed è abitualmente adoperato nelle scienze sociali. Le definizione abitualmente ricor- rente in tali scienze della P. come «l’individuo provvisto di status sociale» fa riferimento appunto alla rete dei rapporti sociali che costituiscono lo status della persona. La considerazione della P., come dell’unità individuale con cui si ha a che fare nel dominio considerato da quelle scienze, corrisponde alla stessa determinazione concettuale del termine come di un agente morale, o un soggetto di diritti civili e politici o, in generale, un membro di un gruppo sociale. L'uomo è P. in quanto, in tali suoi compiti, è essenzialmente definito dalle sue relazioni con gli altri. PERSONA CIVILE (lat. Persona Civilis; ingl. Juristic Person; franc. Personne juridique; ted. Juristische Person). Secondo Hobbes la P. in questo senso è «ciò a cui sono attribuite parole e azioni umane o proprie o altrui»: se alla P. sono attribuite azioni proprie, si tratta di una P. naturale, se le sono attribuite azioni altrui si tratta di P. artificiale (De Homine, 15, $ 1). Questa di Hobbes è la più generale e nello stesso tempo precisa definizione della P. civile e giuridica che sia stata data da filosofi. Hegel stesso non fa che definire la P. in questo senso come generica «capacità giuridica » (Fil. del dir., $ 36). PERSONALISMO (ingl. Personalism; fran- cese Personnalisme; ted. Personalismus). Il termine è stato ed è usato a designare tre dottrine diverse ma connesse, cioè: 1° Una dottrina reologica cioè quella che afferma la personalità di Dio, come causa creatrice del mondo, in polemica con il panteismo che identifica Dio e il mondo. Questo è il senso origi- nario in cui il termine è stato adoperato per le prime volte da Schleiermacher (Reden, 1799), e poi da Goethe, Feuerbach, Teichmiiller, ecc. 2° Una dottrina metafisica cioè quella se- condo la quale il mondo è costituito da una totalità 668 di spiriti finiti che costituiscono nel loro insieme un ordine ideale nel quale ognuno di essi conserva la sua autonomia. Questa concezione fu presen- tata per la prima volta con il nome di P. da G. H. Howison, in polemica con Royce e in ge- nerale con l’idealismo assoluto (nella discussione pubblicata con il titolo The Conception of God, 1897). In seguito il termine fu usato per desi- gnare la stessa concezione fondamentale da Re- nouvier (Le personnalisme, 1903) da W. E. Hocking e da altri scrittori in America dove fu creata anche una rivista destinata a difenderla (The Personalist, 1919). Il P. in questo senso non è che uno spiri- tualismo monadologico di stampo leibniziano- lotziano; e il termine P. è rimasto infatti in America a indicare la dottrina che in Europa si chiama

spiritualismo (v.). 3° Una dottrina efico-politica cioè quella che insiste sul valore assoluto della persona e sui suoi legami di solidarietà con le altre persone, in pole- mica contro il collettivismo da un lato, che tende a vedere nella persona nient'altro che un’unità numerica, e l’individualismo dall’altro che tende a indebolire i legami di solidarietà tra le persone. In questo senso il termine è stato adoperato da Eugenio Diihring nella sua Geschichte der National- Okonomie del 1899; e ripreso, dopo la seconda guerra mondiale, da E. Mounier (Le personnalisme, 1950) e, sulla sua scia, da numerosi pensatori cattolici, sostenitori del P. metafisico. Nell’ora- toria piuttosto confusa, che è la caratteristica dominante di questo indirizzo, il tratto concettuale che si riesce a scorgere è il concetto della persona come auto-relazione o coscienza. PERSONALITÀ (ingl. Personality; franc. Per- sonnalité; ted. Personlichkeit). 1. La condizione o il modo d’essere della persona. In questo senso il termine fu già usato da S. Tommaso (S. 7h., I, q. 39, a. 3, ad 4°) ed è comunemente usato dai filosofi (che spesso lo adoperano come sinonimo di persona). 2. Nel significato tecnico della psicologia con- temporanea, la P. è l’organizzazione che la persona imprime alla molteplicità dei rapporti che la costi- tuiscono. In questo senso Nietzsche parlava di persona e osservava che « alcuni uomini si compon- gono di più persone e la maggior parte non sono affatto persone. Dovunque predominano le qualità medie che importano affinchè un tipo si perpetui, essere una persona sarebbe un lusso... si tratta di rappresentanti o di strumenti di trasmissione » (Wille zur Macht, ed. 1901, $ 394). A questi concetti di Nietzsche sono vicini quelli della psicologia contemporanea. Dice H. J. Eysenck: «La P. è la più o meno stabile e durevole organizzazione del carattere, del temperamento, dell’intelletto e del PERSONALITÀ fisico di una persona: organizzazione che determina il suo adattamento totale all’ambiente. Il carattere denota il più o meno stabile e durevole sistema di comportamento conativo (volonta) della persona. Il temperamento il suo più o meno stabile e durevole sistema di comportamento affettivo (emozione); l’intelletto il suo più o meno stabile o durevole sistema di comportamento cognitivo (intelligenza); il fisico il suo più o meno stabile e durevole sistema di configurazione corporea e di dotazione neuro- endocrina » (The Structure of Human Personality, 1953, pag. 2). In questa definizione in cui entrano elementi già accertati da Roback, Allport, McKin- non, l’elemento dominante è costituito dal concetto di organizzazione, struttura o sistema: cioè dal- l'elemento che consente la previsione probabile del comportamento di una persona. Non molto diversa dalla precedente è quindi l’altra definizione, pura- mente funzionale, data della P. allo scopo di rendere possibili le ricerche ad essa relative; «P. è ciò che permette la previsione di quello che una persona farà in una data situazione » (R. B. CATTEL, Per- sonality, 1950, pag. 2). Dalla P. in questo senso, l'io si distingue come quella parte della P. stessa che è nota o aperta alla persona e a cui la persona fa riferimento con quel pronome: parte che può non coincidere, e abitualmente non coincide, con la totalità della P. (v. Io). PERSPICACIA (gr. dvyylvora; lat. Perspica- citas; ingl. Perspicacity; franc. Perspicacité; te- desco Scharfsinn). Prontezza di mente, secondo Platone (Carm., 160 a); giustezza di mira, secondo Aristotele (Er. Nic., VI, 9, 1142b 6). La prima definizione coglie la rapidità del processo intellettivo, l’altra la sua buona riuscita; e sembrano defini- zioni complementari. Kant invece ha definito la P. come «la capacità di notare le più piccole somi- glianze e dissomiglianze »: capacità che dà luogo a osservazioni che si chiamano sottigliezze o addi- rittura sofisticherie, quando sono inutili (Ansr., I, $ 44) (v. SAGACIA). PERSPICUITÀ (lat. Perspicuitas; ingl. Per- spicuity; franc. Perspicuité; ted. Perspicuitàt). È il termine latino che traduce il greco tvapyera (cfr. Cicer., Acad., II, 6, 17) (v. EvIDENZA). PERSUASIONE (gr. rei06; lat. Persuasio; in- glese Persuasion; franc. Persuasion; ted. Uberreduny). 1. Una credenza la cui certezza poggia su basi pre- valentemente soggettive, cioè private e incomunica- bili. La distinzione tra persuasione e insegnamento razionale fu stabilita già da Platone. «Il pensiero, diceva Platone, si genera in noi per via di insegna- mento, l’opinione per via di persuasione. Il primo si fonda sempre su un ragionamento vero, l’altra manca di questa base; l’uno rimane saldo di fronte alla P., l’altra se ne lascia modificare » (7im., 51, e). PESSIMISMO 669 Kant espose chiaramente questo stesso concetto: «Se la credenza ha il suo fondamento nella natura particolare del soggetto, si chiama persuasione. La P. è una semplice apparenza perchè il fondamento del giudizio, che è unicamente nel soggetto, viene considerato come oggettivo. Quindi un tal giudizio ha solo una validità privata e la credenza non si può comunicare + (Crit. R. Pura, Dottrina del me- todo, cap. II, sez. 3). Da questo punto di vista la pietra di paragone che consente di distinguere tra P. e convinzione (v.) è «la possibilità di comu- nicare la credenza e ritrovarla valida per la ragione di ogni uomo» (/bid.); la convinzione è comuni- cabile, la P. non lo è. La distinzione kantiana è stata accettata e semplificata da C. Perelmann e

L. Olbrechts-Tytecha: « Ci proponiamo di chiamare persuasiva un’argomentazione che pretende valere soltanto per un uditorio particolare e di chiamare convincente quella che si crede ottenga l’adesione di ogni essere razionale » (Traité de l’argumentation, 1958, $ 6). Talvolta, la P. è stata distinta dalla convinzione in quanto si è ritenuto che essa coin- volga il sentimento oltre che la ragione e che per- tanto essa sola possa impegnare ciò che Pascal chia- mava «l’automa », cioè i comportamenti affettivi e abituali dell’uomo. Diceva Pascal: « Noi siamo automi tanto quanto siamo spirito; di là viene che lo strumento per il quale la P. si fa non è la sola dimostrazione » (Pensées, 252). D’Alembert ha espresso molto bene questo punto di vista: «La convinzione tiene più allo spirito, la P. al cuore; si dice che l’oratore deve non solo convincere cioè provare ciò che enuncia, ma anche persuadere cioè toccare e commuovere. La convinzione suppone qualche prova, la P. non sempre... Ci si persuade facilmente di ciò che fa piacere; si è talvolta dolenti d’esser convinti di ciò che non si voleva credere » (CEuvres posthumes, 1799, II, pag. 89). Altre volte la P. è stata considerata come la forma superiore della certezza perchè connessa con la stessa verità oggettiva. Così ha fatto Heidegger che l’ha intesa come «un modo della certezza » e precisamente

quello fondato sulla testimonianza dello stesso « ente scoperto » cioè dello stesso vero (Sein und Zeit, $ 52). Analogamente Jaspers ha posto la P. al di sopra della «conferma pragmatica » e della « evi- denza costrittiva » come il terzo ed ultimo grado della verità oggettiva (Vernunft und Existenz, 1935, III, $ 3). Dall’altro lato, si è insistito sul carattere «emotivo » della P., nel senso che essa farebbe appello a motivi « non razionali » (C. L. STEVENSON, Ethics and Language, 1944, cap. 6). Ciò che emerge da queste indicazioni è il carattere privato e in una certa misura incomunicabile della P. o per meglio dire dei motivi che sono a fondamento della credenza in cui essa consiste. 2. L'atto o il procedimento del persuadere, cioè l’indurre alla persuasione. PERSUASIVO (gr. mbavév; lat. Persuasibile; ingl. Persuasive; franc. Persuasif; ted. Uberzeugend). Il criterio della verità difeso dagli scettici della Nuova Accademia e in primo luogo da Carneade. Persuasiva è la rappresentazione che appare vera, che può anche essere falsa ma è per /o più vera. Diceva Carneade: « Poichè raramente ci si imbatte nel caso di una rappresentazione vera, non ci si deve rifiutare di credere alla rappresentazione che per lo più dice il vero: infatti giudizi e azioni si regolano sul per lo più » (Sesto EMP., Adv. Math., VII, 175). La rappresentazione persuasiva, secondo i seguaci di Carneade, deve poi essere anche coerente e ponderata, sebbene questi caratteri non aggiun- gano nulla alla sua persuasività (/bid., VII, 184). PESSIMISMO (ingl. Pessimism; franc. Pessi- misme; ted. Pessimismus). In generale, la credenza che lo stato delle cose, in qualche parte del mondo o nella totalità di esso, è il peggiore possibile. Il termine cominciò ad essere adoperato in Inghil- terra, ai principi del sec. x1X, per antitesi con ot- timismo. La tesi del P. potrebbe perciò essere espressa come il rovesciamento di quella dell’ottimismo, con l’asserzione che il nostro mondo è il peggiore dei mondi possibili. Ma espresso in questa forma il P. è un’intera metafisica e si può parlare di P. solo a proposito della filosofia di Schopenhauer e dei suoi seguaci. Comunemente, però, si parla di P. anche in un senso più limitato e parziale: cioè quando ricorre almeno una delle tesi seguenti: 1° Nella vita umana i dolori superano i pia- ceri e la felicità è irraggiungibile. In questa forma il P. fu difeso dal cirenaico Egesia, detto «il per- suaditor di morte » (Dioc. L., II, 8, 94). 2° Nella vita umana i mali superano i beni, sicchè essa è un complesso di vicende malvagie, ignobili o ripugnanti. In questa forma il P. fu difeso dal Padre apologista Arnobio ai princìpi del rv secolo: la stessa esistenza dell'uomo appare ad Arnobio inutile all'economia del mondo, il quale resterebbe immutato se l’uomo non ci fosse (Adv. nationes, II, 37). 3° Ogni vita è in generale male o dolore. Questa è la tesi del P. metafisico, quale si trova sostenuta nel Buddismo antico e da Schopenhauer (Die Welt, I, $ 57 sgg.). 4° Il mondo è nella sua totalità la manifesta- zione di una forza irrazionale: secondo Schopen- hauer di una « Volontà di vita » che dilania e tor- menta se stessa (Die Welt, I, $ 61); secondo E. Hartmann, di un principio inconscio che di- ventando progressivamente consapevole distrugge le illusioni che reggono il mondo (Philosophie des Unbewussten, 1869). 670 PETITIO Tutte le forme del P. negano la possibilità del progresso e in generale di ogni miglioramento nel campo specifico in cui si fanno valere. Ciò che esse non negano è invece il carattere finalistico del mondo: che è ammesso e difeso sia da Schopenhauer (Die Welt, I, $ 28) sia da Hartmann (Op. cit.; trad. franc., II, pag. 65). La cosa è tanto più strana in quanto l’essenza dell’ortimismo (v.) sta per l’ap- punto nel finalismo; e il P. pretende di essere l’antitesi dell’ottimismo. PETITIO PRINCIPII. È la notissima fa/- lacia (v.), già analizzata da Aristotele (Top., VIII, 13, 162 b; Soph. El., 5, 167 b; An. pr., II, 16, 64 b), consistente nel presupporre per la dimostrazione un equivalente o sinonimo di ciò che si vuol dimostrare (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 7.53). G. P. PIACERE (gr. iSovh; lat. Voluptas; inglese Pleasure; franc. Plaisir; ted. Lust). P. e dolore costituiscono le tonalità fondamentali di qualsiasi tipo o forma di «emozione». La determinazione delle loro caratteristiche dipende dalla funzione che si attribuisce alle emozioni ed è perciò connessa con la teoria generale delle emozioni stesse. Qui c’è da osservare che la parola conserva, nella tradizione filosofica, un significato diverso da felicità anche quando viene collegata con questa: il P. è difatti l'indice di uno stato o condizione particolare 0 temporanea di soddisfazione, mentre la felicità è uno stato costante e duraturo di soddisfacimento totale o quasi totale (v. FELICITÀ). La più famosa definizione del P. fu quella data da Aristotele, che utilizzava d’altronde concetti platonici (Rep., IX, 583 sgg.; Fil., 53c): «Il P. è l’arto di un abito che è conforme natura » (Er. Nic., VII, 12, 1153 a 14): nella quale si deve ricordare che abito significa « disposizione costante ». Questa definizione serviva ad Aristotele a sganciare il P. dalla sua connessione con la sensibilità: giacchè un abito può essere sia sensibile che non sensibile. Dal Rinascimento in poi la funzione biologica del P. fu quella sulla quale si fondarono le defini- zioni di esso. Telesio lo considera come ciò che favorisce la conservazione dell’organismo (De rer. nat., IX, 2). Cartesio definì la gioia, ritenuta una delle sei emozioni fondamentali come « l’emo- zione piacevole dell'anima nella quale consiste il godimento del bene che le impressioni del cer- vello le rappresentano come suo» (Passions de l’éme, $ 91). Spinoza affermava: « Per gioia intendo la passione per la quale la mente sale ad una per- fezione maggiore » (Er., III, 11): che è una parafrasi della definizione aristotelica. Mentre ad una defi- nizione biologica ritornava Hobbes, vedendo nel P. il segno di un movimento giovevole al corpo, tra- smesso dagli organi senzienti al cuore (De Corp., 25, 12). Nietzsche affermava: «Il P.: sensazione PRINCIPII di un accrescimento di potenza » (Wille zur Macht, ed. Kròner, $ 660). Di fronte a queste teorie che si possono dire positive del P., sta la teoria nega- tiva di Schopenhauer secondo la quale il P. è semplicemente la cessazione del dolore, sicchè è conosciuto o sentito solo mediatamente, attraverso il ricordo della sofferenza o della privazione pas- sata (Die Welt, I, $ 58). La psicologia moderna ha conservato i tratti tradizionalmente riconosciuti al piacere. Ha cioè riconfermato la sua funzione biologica ma nello stesso tempo ha riconfermato, sulla base dell’osser- vazione, il carattere arrivo che Aristotele ricono- sceva al P. (cfr. J. C. FLugEL, Studies in Feeling and Desire, 1955, pag. 118 sgg.). Principio di P. (ingl. Pleasure Principle; tedesco Lustprinzip) ha chiamato Freud uno dei due prin- cìpi fondamentali che regolano il funzionamento mentale, e precisamente quello che dirige l’attività psichica alla liberazione dal dolore. L’altro prin- cipio sarebbe quello di rea/tà, per il quale la ri- cerca del P. non si effettua per le vie più brevi, ma obbedendo alle condizioni imposte dal mondo esterno (7riebe und Triebschicksale, 1915). PIANO (ingl. Plane; franc. Plan; ted. Schicht). Questa nozione viene adoperata in filosofia per designare gradi o livelli dell’essere caratterizzati da qualità proprie, cioè non riducibili a quelle di altri gradi o livelli. Il concetto di P. fu in questo senso introdotto da Boutroux: « Nell’universo, egli di- ceva, si possono distinguere parecchi mondi, che formano come P. sovrapposti gli uni agli altri. Al di sopra del mondo della pura necessità, cioè della quantità senza qualità, che è identico con il nulla, si possono distinguere: il mondo delle cause, il mondo delle nozioni, il mondo fisico, il mondo vivente e il mondo pensante» (De la contingence des lois de la nature, 1874, Concl.). Ogni P. è ca- ratterizzato secondo Boutroux: 1° da una certa dipendenza dal P. inferiore; 2° dalla irreducibilità delle sue qualità fondamentali e delle sue leggi spe- cifiche alla qualità o alle leggi del P. inferiore. In questo consisterebbe la contingenza della realtà. Una concezione analoga è stata ripresa da N. Hart- mann che ha distinto quattro piani della realtà: l’inorganico, l’organico, lo psichico e lo spirituale (Der Aufbau der realen Welt, 1940). Anche Hart- mann ammette che ogni P. della realtà sia regolato da leggi proprie e irreducibili; ma a differenza di Boutroux accentua la dipendenza dei P. superiori dagli inferiori. Ad es., le leggi del mondo psichico non sono riducibili a quelli del mondo organico, ma le presuppongono, aggiungendosi ad esse: rap- presentano perciò un super-dererminismo che si aggiunge al determinismo delle leggi inferiori. Perciò la conclusione cui mette capo l’analisi della stra- PLATONISMO 67) tificazione dell’essere fatta da Hartmann non è la contingenza ma la super-necessità (v. LIBERTÀ). PICNATOMI (ted. Pyknatomen). Così E. Hae- ckel chiamò gli atomi, dotati di movimento e di sensibilità, che egli riteneva elementi costitutivi di ogni forma d'essere, in quanto prodotti dal con- densarsi (picnosi) della materia primitiva (Weltratsel, 1899; trad. ital., 1904, pag. 296 sgg.). PIETÀ. V. CoMPAssIoNE. PIETISMO (ingl. Pietism; franc. Piétisme; te- desco Pietismus). Una reazione contro l’ortodossia protestante che si determinò nell’Europa setten- trionale e specialmente in Germania nella seconda metà del xvii secolo. Il capo di questo movimento fu Filippo Spener (1635-1705) e una delle sue figure più eminenti fu il pedagogista Augusto Franke (1663-1727). Il P. intendeva ritornare alle tesi ori- ginarie della Riforma protestante: libera interpreta- zione della Bibbia e negazione della teologia; culto interiore o morale di Dio e negazione del culto esterno, dei riti e di ogni organizzazione ecclesiastica; impegno nella vita civile e negazione del valore delle cosiddette « opere» di natura religiosa. Da quest’ultimo tratto deriva l’accoglimento, nelle isti- tuzioni educative del P., di molti insegnamenti di carattere pratico e utilitario (cfr. A. RITSCHL, Geschichte des Pietismus, 3 voll, 1880-86). PIGRIZIA DELLA RAGIONE. V. RAgION PIGRA. PIRRONISMO (ingl. Pyrrhonism; franc. Pyr- rhonisme; ted. Pyrrhonismus). La forma estrema dello scetticismo greco, quale fu difesa da Pirrone di Elide che visse al tempo di Alessandro Magno (che seguì nella sua spedizione in Oriente) e morì verso il 270 avanti Cristo. Conosciamo la sua dot- trina dai Si/loi (versi scherzosi) di Timone di Fliunte e dalle esposizioni di Diogene Laerzio e di Sesto Empirico. La tesi fondamentale del P. è la necessità di sospendere l’assenso. Poichè per l’uomo le cose sono inafferrabili, l’unico atteggiamento legittimo è quello di non giudicarle nè vere nè false, nè belle nè brutte, nè buone nè cattive, ecc. Il non giudicare significa anche il non preferire o il non rifuggire: sicchè la sospensione del giudizio è già di per se stessa afarassia, cioè assenza di turbamento. Dio- gene Laerzio racconta che Pirrone andava in giro senza guardare e senza scansar nulla, affrontando carri se ne incontrava, precipizi, cani, ecc. (Dog. L., IX, 62). Un ritorno al P. si ebbe più tardi, tra la fine dell’ultimo secolo a. C. e la fine del 1 secolo d. C. per opera di Enesidemo di Cnosso, che insegnò in Alessandria, di Agrippa e del medico Sesto Em- pirico. Quest'ultimo che svolse la sua attività tra il 180 e il 210 d. C. ci ha lasciato tre scritti: /po- tiposi Pirroniana, Contro i dogmatici, Contro i ma- tematici, che costituiscono la summa di tutto lo scetticismo antico. La tesi pirroniana della sospen- sione dell’assenso è mantenuta rigorosamente; ma come guida per la condotta della vita sono assunte l’apparenza sensibile e le norme della vita comune (Ip. Pirr., I, 21) (cfr. Mario DAL PRA, Lo scetti- cismo greco, 1950). PISTIS SOPHIA. Secondo la cosmogonia degli Gnostici è l’ultimo degli Eoni (v.) cioè delle emanazioni, l’eone decaduto, che dà origine alla materia (IePoLITO, Philosophumena, VI, 30 sgg.) (cfr. GNOSTICISMO). PITAGORISMO (ingl. Pythagoreanism; fran- cese Pytliagorisme; ted. Pythagoreismus). La dot- trina dell’antica scuola pitagorica, dottrina che poco o nulla deve al fondatore di essa, Pitagora, del quale ben poco si sa di certo e che probabil- mente non scrisse nulla. Le tesi caratteristiche del P. furono le seguenti: 1° la dottrina della metempsicosi (v.) sulla quale erano fondate le credenze mistiche e i riti della setta; 2° la dottrina che i numeri costituiscono i principi o gli elementi costitutivi delle cose: dot- trina, che attraverso il platonismo, ha presieduto anche agli inizi della scienza moderna; 3° la dottrina che i corpi celesti (che i Pitago- rici portavano a dieci per ragioni di simmetria) girino tutti intorno a un fuoco centrale (hesria) di cui il sole sarebbe un riflesso. Questa dottrina è il primo accenno di quello che sarà, nell’età moderna, il sistema copernicano. Cfr. I Pitagorici, Testimonianze e frammenti, a cura di Maria Timpanaro Cardini, Firenze, 1958 e la bibliografia ivi contenuta. PIÙ-VITA, PIÙ-CHE-VITA (ted. Mehr Leben, Mehr-als-Leben). Espressioni coniate da G. Simmel per indicare rispettivamente il pro- cesso della vita e le forme cui esso dà luogo. Come «P.-vita », la vita è il processo che supera con- tinuamente i limiti che pone a se stessa. Come « P.-che-vita » la vita è l'insieme delle forme finite che emergono dal processo vitale e si contrap- pongono ad esso (Lebensanschauune, 1918, pa- gine 22-23). PLASTICA, NATURA (ingl. Plastic Nature; franc. Nature Plastique; ted. Plastische Natur). La forza P. o formativa, diretta ed emanata da Dio, ma diversa da lui, cui è affidato il compito di or- dinare la materia. È il concetto della natura ectipa ammesso dai Platonici di Cambridge (v. EcTIPO). PLATONISMO (ingl. Platonism; franc. Pla- tonisme; ted. Platonismus). Gli elementi della dot- trina platonica che sono stati assunti, a partire da Aristotele, come caratteristici di tale dottrina, possono essere ricapitolati nel modo seguente: 672 1° La dottrina delle idee secondo la quale oggetto della conoscenza scientifica sono entità o valori che hanno uno status diverso da quello delle cose naturali e caratterizzato dall’unità e dalla immutabilità (v. Ipea). In base a questa dottrina la conoscenza sensibile, che ha per oggetto le cose nella loro molteplicità e mutevolezza, non ha il minimo valore di verità e può solo ostacolare l'acquisizione della conoscenza autentica. 2° La dottrina della superiorità della saggezza sulla sapienza, cioè del fine politico della filosofia: la quale ha come suo scopo finale la realizzazione della giustizia nei rapporti fra gli uomini e quindi in ogni singolo uomo (v. SAPIENZA). 3° La dottrina della dialettica come procedi- mento scientifico per eccellenza cioè come metodo attraverso il quale la ricerca associata in primo luogo giunge a riconoscere un’unica idea e in secondo luogo passa a dividere l’unica idea nelle sue articolazioni specifiche (v. DIALETTICA). Questi sono anche i tre punti sui quali Aristotele polemizzò con Platone e che, mentre segnano il distacco tra P. e aristotelismo, sono rimasti at- traverso i secoli a caratterizzare il P. stesso. Essi, com'è ovvio, non esauriscono la dottrina originale di Platone, che pertanto non coincide con il «P.». È da notare che le tesi su esposte non caratte- rizzano il cosiddetto P. del Rinascimento. Ma in realtà questo P. è un neoplatonismo, che si rifà alle tesi fondamentali del neoplatonismo antico (v.). PLEROMA (gr. r\mpwue). Secondo lo gnostico Valentino (tr secolo) la totalità della vita divina in quanto piena o perfetta (IRENEO, Adv. haer., I, 11, 1). PLURALISMO (ingl. Pluralism; franc. Plura- lisme; ted. Pluralismus). x. A partire da Wolff, questo termine è stato contrapposto ad egoismo (v.) come e quel modo di pensare per cui non si abbraccia nel proprio io tutto il mondo, ma ci si considera e comporta soltanto come cittadini del mondo» (KANT, Antr., I, $ 2). Ma mentre il termine egoismo è rimasto a designare un atteggiamento morale giacchè per la dottrina metafisica corrispondente è prevalso quello di solipsismo (v.) il termine P. nell’uso che ne è stato fatto in seguito, ha assunto un significato metafisico, passando a designare la dottrina che ammette nel mondo una pluralità di sostanze. Di tale dottrina l’espressione tipica è la monadologia di Leibniz; e in questo senso il ter- mine è stato ripreso da alcuni spiritualisti moderni (J. Warp, The Realm of Ends or Pluralism and Theism, 1912; W. JaMEs, A Pluralistic Universe, 1909). James ha soprattutto insistito sull’esigenza cui il P. viene incontro: quella di considerare l’universo, anzichè come una massa compatta in cui tutto è determinato nel bene o nel male e non PLEROMA c’è posto per la libertà, come una specie di repub- blica federale in cui gli individui siano bensì soli- dali tra loro ma conservino la loro autonomia e libertà. L’universo pluralistico è, secondo James, un pluriverso o multiverso: la sua unità non è l’implicazione universale o l’integrazione assoluta, ma continuità, contiguità e concatenazione: è una unità di tipo sinechistico, nel senso dato a questa parola da Peirce (A Pluralistic Universe, pag. 325). Un universo così fatto si differenzia dall’universo monadologico di Leibniz proprio per il carattere non assoluto nè necessitante dell’unità che lo costi- tuisce. Dio stesso, nell'universo pluralistico, è finito. 2. Nella terminologia contemporanea si indica spesso con questo nome il riconoscimento della possibilità di soluzioni diverse di uno stesso pro- blema o di interpretazioni diverse di una stessa realtà o concetto o di una diversità di fattori o di situazioni o di sviluppi nello stesso campo. Così si parla di « P. estetico » quando si ammette che un'opera d’arte possa essere trovata « bella » per motivi diversi, che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro. E si parla di P. sociologico quando si ammette o si riconosce l’azione di più gruppi sociali relativamente indipendenti gli uni dagli altri. PLUSVALORE (ingl. Surplus Value; francese Plus-value; ted. Mehrwert). Uno dei concetti fonda- mentali dell'economia di Marx. Poichè il valore si genera dal lavoro e non è altro che lavoro mate- rializzato, se l’intraprenditore corrispondesse al sa- lariato il totale valore prodotto dal suo lavoro, non si avrebbe il fenomeno, schiettamente capita- listico, del denaro che genera denaro. Ma poichè l’intraprenditore corrisponde al salariato, non il corrispondente del valore da lui prodotto, ma solo il costo della sua forza-lavoro (vale a dire ciò che basta a produrla, il minimo vitale) si ha il feno- meno del P., che non è altro, che quella parte di valore prodotto dal lavoro salariato, di cui il ca- pitalista si appropria (cfr. Kapital, I, sez. 3). PNEUMA (gr. mvedua; lat. Spiritus; inglese Pneuma; franc. Pneuma; ted. Pneuma). Il termine ha ricevuto un significato tecnico soltanto dagli Stoici che hanno inteso per esso quello spirito o soffio animatore mediante il quale Dio agisce sulle cose, ordinandole, vivificandole e dirigendole. « Pare agli Stoici, dice Diogene Laerzio, che la natura sia un fuoco artefice diretto alla generazione, cioè uno P. della specie del fuoco e dell’attività formativa (VII, 156; PLuT., De Stoic. repugn., 43, 1054). Virgilio alludeva a questa concezione con i versi famosi: « Spiritus intus alit Totamque infusa per artus, Mens agitat molem et toto se corpore miscet » (En., VI, 726): ai quali versi Giordano Bruno ricorreva per illustrare la sua concezione dell’Intel- letto artefice o «fabro del mondo» (De /a causa, POESIA 673 principio e uno, II). I maghi del Rinascimento par- lavano nello stesso senso dello spirito attraverso il quale l’anima del mondo opera in tutte le parti dell'universo visibile (AGRIPPA, De Occulta philo- sophia, I, 14). Nel senso stoico, il P. era stato inteso nel libro della Sapienza (I, 5-7, ecc.). E in senso analogo, S. Paolo aveva parlato del « corpo pneu- matico » che egli contrapponeva al « corpo psichico + o animale, come quello che è vivo e vivifica e risor- gerà dopo la morte (I Cor., XIV, 44 sgg.). P., nella tradizione cristiana, non è altro che lo Spirito Santo del quale S. Tommaso diceva: « Il nome di spirito nelle cose corporee sembra significare un certo movimento o impulso giacchè chiamiamo spirito il respiro ed il vento. Ma è proprio dell’amore di muovere e di spingere la volontà dell'amante verso l’amato. E poichè la divina persona procede per via dell'amore col quale Dio è conveniente- mente amato, essa si chiama Spirito Santo » (S. 7h., I, q.36, a. 1). Infine dalla stessa dottrina dello spirito vivificante deriva quella degli spiriti « psi- chici » « animali » 0 « corporei » che furono ammessi dalla medicina antica (v. PNEUMATICI) e da quella medievale e di cui i filosofi fanno spesso menzione. Menzionarono gli spiriti animali S. Tommaso (In Sent., IV, 49, 3; cfr. S. Th., I, q. 76, a. 7, ad 2°); e più tardi Telesio (De rer. nat., V, 5); Bacone (Nov. Org., II, 7; De Augm. Scient., IV, 2), Hobbes (De Corp., 25, 10) e specialmente Cartesio che ne riespose per conto proprio la dottrina (Passions de lame, I, 10). Nel senso comune di aria o respiro, la parola viene invece usata da alcuni filosofi che considerano l'anima come aria: per es., da Anassimene, per il quale la dottrina non è che un corollario del prin- cipio che tutto è aria (Fr. 2, Diels); e da Epicuro (Ad Herod., 63). PNEUMATICA. V. PNEUMATOLOGIA. PNEUMATICI (gr. rvevuérixor; lat. Spiritales; ingl. Pneumatics; franc. Pneumatiques; ted. Pneu- matiker). Con questo termine sono stati indicati: 1° i seguaci della scuola medica di Galeno: il quale, ispirandosi agli Stoici, aveva identificato nello pneuma (v.) il principio della vita e distingueva lo pneuma psichico che ha sede nel cervello, il pneuma zotico o animale che ha sede nel cuore e il pneuma fisico o naturale che ha sede nel fegato, attribuendo a ciascuno di essi speciali funzioni nell’organismo; 2° alcuni padri della Chiesa e alcuni gnostici che insistevano sulla distinzione, che si trova nel Nuovo Testamento (v. PNEUMA) tra corpo psichico o animale e corpo P. e sulla superiorità di quest’ultimo; 3° alcuni chimici del sec. xvn e xvin (Boyle, Black, Cavendish, ecc.) che iniziarono le ricerche sui gas e scoprirono un certo numero di elementi e composti gassosi. 43 — ABDAGNANO, Dizionario di filosofia. PNEUMATOLOGIA o PNEUMATICA (ingl. Preumatology; franc. Pneumatologie, Pneu- matique; ted. Pneumatologie, Pneumatik). Leibniz introdusse il termine pneumatica per indicare «la conoscenza di Dio, delle anime e delle sostanze semplici in generale» (Nouv. Ess., Avant-propos, Op., ed. Erdmann, pag. 199). Il termine voleva significare «scienza degli spiriti» e fu ripreso da Wolff per indicare l’insieme della psicologia e della teologia naturale (Log., 1728, Disc. Prel., $ 79). Crusius adottava il termine P. per indicare «la scienza dell’essenza necessaria di uno spirito e delle distinzioni e qualità che possono essere date a priori» (Entwurf der notwendigen Vernunft wahrheiten, $ 424). Rosmini escludeva dalla P.

la considerazione di Dio e la restringeva allo studio degli « spiriti creati » cioè dell'anima umana e degli angeli (Psico/., 1850, $ 27). D’Alembert restringeva il termine a significare « la prima parte della scienza dell'uomo + cioè «la conoscenza speculativa del- l’anima umana » che indicava anche con il nome di metafisica particolare. La conoscenza delle opera- zioni dell'anima invece costituiva per D’Alembert l'oggetto della logica e della morale (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in CEuvres, edizione Condorcet, 1853, pag. 116). Kant osservava a questo proposito che la psicologia razionale non potrà mai diventare pneumatologia cioè vera e propria scienza, allo stesso modo in cui la teologia non può diventare teosofia (Crit. del Giud., $ 89). Il termine è ora caduto completa- mente in disuso. POESIA (gr. rolnoc; lat. Poesia; ingl. Poetry; franc. Poésie; ted. Dichtung). Una forma finale dell'espressione linguistica, di cui il ritmo o la musica sia condizione essenziale. Si possono distin- guere tre concezioni fondamentali e cioè: 1° la P. come stimolo o partecipazione emotiva; 2° la P. come verità; 3° la P. come modo privilegiato di espressione linguistica. 1° La concezione della P. come stimolo emotivo fu esposta per la prima volta da Platone: « La parte dell'anima che nelle nostre private disgrazie ci sforziamo di tenere a freno e che ha sete di lacrime e vorrebbe sospirare e lamentarsi a suo agio. essendo questa la sua natura, è proprio quella cui i poeti procurano soddisfazione e compiacimento.., Riguardo all’amore, alla collera e a tutti i movimenti dolorosi o piacevoli dell'anima, che sono insepara- bili da ogni nostra azione, si può dire che gli stessi effetti produca l'imitazione poetica: giacchè mentre bisognerebbe inaridirli essa li innaffia e nutrisce e così rende padrone di noi quelle facoltà che do- vrebbero invece ubbidire affinchè noi divenissimo più felici e migliori » (Rep., X, 606 a-d). Platone osserva a questo proposito che il lato emotivo 674 dell’arte non è minore per il fatto che in essa si tratta di emozioni altrui perchè « necessariamente le emozioni altrui diventano nostre » (/bid., 606 b). Non c’è dubbio pertanto che la caratteristica fondamentale della P. imitativa (nonchè la ragione per la sua condanna) sia per Platone la partecipa- zione emotiva su cui essa è fondata e il rafforzamento delle emozioni che a tale partecipazione consegue. Giambattista Vico da un lato estese la partecipa- zione emotiva, riconosciuta propria della P., all’in- tero universo; dall’altro tolse ad essa il carattere di condanna che Platone le aveva attribuito. « Il sublime lavoro della P., egli scrisse, è alle cose insensate dare senso e passione ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate fra mani e, trastullandosi, favellarvi come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologico-filosofica ne approva che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti» (Scienza Nuova, 1744, Degn. 37). La P. è pertanto secondo Vico legata ai «robusti sensi» e alle « vigorosissime fantasie » degli uomini primitivi o bestioni; e il suo triplice scopo è quello di « ritruovare favole sublimi confa- centi all’intento popolaresco », di «perturbare all’eccesso » e di « insegnare il volgo a virtuosamente operare» (/bid., II; cfr. Lettera a Gherardo degli Angioli). Da questo punto di vista P. e filosofia stanno agli antipodi e «la fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio » (/bid., Degn. 36). Lo stesso concetto della P. come stimolo o partecipazione emotiva si trova nella teoria dell’empatia (v.) che considera l’attività estetica come la proiezione delle emozioni del soggetto nell’oggetto estetico. L’empatia è, secondo il principale sostenitore della teoria Teodoro Lipps, un atto originale, essenzialmente indipendente dall’associazione delle idee e radicato profonda- mente nella stessa struttura dello spirito umano (Aesthetik I, 1903, pag. 112 sgg.): essa è così postu- lata come una facoltà a sè alla quale è affidata, con la funzione di animare la bruta materialità del mondo esterno, quella di rendere il mondo familiare e piacevole all’uomo. Infine l’ultimo erede di questo concetto della P. è il neocempirismo contemporaneo. Sulla base della distinzione tra l’uso simbolico del linguaggio e il suo uso emotivo, nella P. è stata riconosciuta « la suprema forma del linguaggio emotivo » cioè di quel linguaggio che ha unicamente lo scopo di stimolare « emozioni e atteg- giamenti » (I. A. RICHARDS, Principles of Literary Criticism, 1924; 148 ediz., 1955, pag. 273). La funzione simbolica (o scientifica) del linguaggio consiste nel simbolizzare il riferimento all’oggetto e nel comunicare tale riferimento all’ascoltatore cioè nel causare nell’ascoltatore il riferimento allo stesso oggetto. Invece la funzione emotiva consiste nel- POESIA l’esprimere emozioni, atteggiamenti, ecc., nell’evocarli nell’ascoltatore: funzioni che possono essere com- prese in quella della «evocazione » cioè della stimola- zione dell’emozione (C. K. OGDEN, I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 1923, 10 ediz., 1952, pag. 149). Ovviamente, questo punto di vista non è che la ripetizione quasi letterale del punto di vista platonico. E non diverso significato ha la defini- zione data da C. Morris del discorso poetico come « discorso principalmente valutativo-apprezzativo » cioè diretto a «ricordare e sostenere valutazioni già raggiunte» o a «esplorare nuove valutazioni + (Signs, Language and Behavior, 1946, V, 7). 2° La concezione della P. come verità ri- monta ad Aristotele. Aristotele riportò la P. alla tendenza all’imitazione, che ritenne innata in tutti gli uomini come manifestazione della tendenza al conoscere (Poer., 6, 1448 b 5-14). L’imitazione poetica ha, secondo Aristotele, una validità cono- scitiva superiore all’imitazione storiografica, perchè la P. non rappresenta le cose realmente accadute ma «le cose ibili secondo verisimiglianza e necessità » (/bid., 1451 a 38). Perciò essa «è più filosofica e più elevata della storia perchè esprime l’universale mentre la storia esprime il particolare. Si ha l’universale infatti quando a un individuo di una certa indole accade di dire o di fare certe cose in base alla verisimiglianza e alla necessità, ed è questo a cui mira la P. che dà nome al per- sonaggio proprio in base a tal criterio. Si ha invece il particolare quando si dice, ad es., che cosa fece Alcibiade e che cosa gli capitò » (/bid., 9, 1451 b 1, 10). Queste famose determinazioni aristoteliche equivalgono a porre la P. nella sfera della verità filosofica: giacchè questa coglie l’essenza necessaria delle cose e l'essenza, nel dominio delle vicende umane, è costituita dai rapporti di verisimiglianza e necessità che sono oggetto della poesia. La P. pertanto non ha un grado di verità inferiore alla filosofia ma ha la stessa verità della filosofia nel dominio che le è proprio e che è quello dei fatti umani. Questa concezione della P. ha dominato la tradizione filosofica, nella quale possono distin- guersi di essa due interpretazioni fondamentali: A) si può scorgere nella P. una verità per grado o per natura diversa da quella intellettuale o filosofica; B) si può scorgere nella P. la verità filosofica assoluta. A) La prima posizione è quella con cui è nata l'estetica moderna. Baumgarten affermò che l’og- getto estetico, la bellezza, è «la perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale » e che perciò esso non coincide con l’oggetto dell’intelletto cioè con la conoscenza distinta (Aesthetica, 1750-58, $ 14). Come perfezione della conoscenza sensibile, la bellezza è universale, ma di un’universalità diversa da quella della conoscenza perchè astrae POESIA dall’ordine e dai segni e realizza una forma di unificazione puramente fenomenica (/bid., $ 18). In particolare la P. è, secondo Baumgarten, « un discorso sensibile perfetto» tale cioè che i suoi vari elementi (le rappresentazioni, i loro nessi, le voci o segni che le esprimono) tendono alla conoscenza delle rappresentazioni sensibili (Medi- tationes philosophicae de nonnullis ad poema perti- nentibus, 1735, $ 1-9). La determinazione « sensibile + chiarisce il carattere della P. per il quale essa ha per oggetto rappresentazioni chiare, sì, ma confuse: mentre le rappresentazioni chiare e distinte cioè com- plete e adeguate non sono sensibili e quindi neppure poetiche, sicchè filosofia e P. non si trovano insieme, richiedendo la prima quella distinzione di concetti che la seconda respinge al di fuori del suo dominio (Medit., cit., $ 14). Analogamente Vico affermava: « La sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta quale questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere di tali primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie» (Sc. Nuova, 1744, II, Della sapienza poetica). Ma fu Hegel che dette a questa tesi la migliore espressione. «La P., egli scrisse, è più antica del linguaggio prosastico artisticamente formato. Essa è la rappresentazione originaria del vero, è il sapere nel quale l’universale non è stato ancora separato dalla sua esistenza vivente nel particolare, nel quale la legge e il fenomeno, lo scopo e il mezzo non sono ancora stati contrapposti l’uno all’altro, per poi venir di nuovo connessi con il ragionamento, ma si compren- dono l’uno nell'altro e attraverso l’altro. Perciò la P. non si limita ad esprimere attraverso l’immagine un contenuto che è già conosciuto per sè nella sua universalità, ma all’apposto, conformemente al suo concetto immediato, essa rimane nell’unità sostanziale nella quale non ancora è stata fatta una tale separazione o stabilito un tale rapporto + (Vorlesungen iiber die Aesthetik, ed. Glockner, III, pag. 239). Con ciò la P. (come l’intero dominio dell’arte) rimane pur sempre, per Hegel, al di qua o al di sotto della filosofia, nella quale soltanto l’Idea si rivela o si attua nella sua vera natura, che è universalità o ragione, non immediatezza o immagine; ma appartiene tuttavia, insieme con la filosofia e con la religione (alla quale anche è subor- dinata) alla sfera della Verità assoluta. Nell’idea- lismo di derivazione romantica il concetto di P. è rimasto sostanzialmente quello espresso da Hegel. Croce, dopo avere insistito sulla priorità dell’arte rispetto alla conoscenza intellettuale vera e propria, quindi sulla sua relativa autonomia di fronte alla filosofia (con la quale però non ha mai negato 675 che l’arte condividesse lo status di conoscenza), ha finito per insistere sempre più sui caratteri di totalità e di universalità dell’espressione artistica: caratteri che ravvicinano tale espressione alla verità filosofica. « L'espressione poetica, egli scrisse, è, diversamente dal sentimento, una feorési, un conoscere e perciò stesso, laddove il sentimento aderisce al particolare e per alto e nobile che sia nella sua scaturigine, si muove necessariamente nella unilateralità della passione, nell’antinomia del bene e del male e nell’ansia del godere e del soffrire, la P. riannoda il particolare all’universale, accoglie sorpassandoli del pari dolore e piacere e di sopra il cozzare delle parti contro le parti, innalza la visione delle parti nel tutto, sul contrasto l'armonia, sull’angustia del finito la distesa dell’infinito. Questa impronta di universalità e di totalità è il suo carat- tere » (La poesia, 1936, pag. 8-9). Con ciò il valore della P. veniva posto proprio nella sua teoreticità cioè nella sua validità conoscitiva; e la P. veniva ad essere quello che già Hegel aveva detto che fosse: una verità filosofica che si manifesta nell’immediatezza dell'immagine anzichè nell’universalità del concetto. B) Accanto a questa concezione sta l’altra che, pur essendo strettamente imparentata con essa, vede nella P. non l’approssimazione alla verità assoluta ma la stessa verità assoluta. Già Schiller si era espresso, a proposito della poesia in questi termini. Nello scritto Sulla poesia ingenua e senti- mentale (1795-96) aveva affermato che il poeta o è natura egli stesso cioè sente naturalmente e quindi imita la natura; o si sente estraniato dalla natura e ne va in cerca nostalgicamente configurandola come ideale. Nel primo caso, il poeta è ingenuo come nell’antica Grecia; nel secondo caso è sentimentale, come nell'età moderna. Ma in entrambi i casi, la P. è l'assoluto. Difatti la P. ingenua è rappre- sentazione assoluta cioè conclusa, totale e definitiva; e la P. sentimentale è rappresentazione dell’assoluto cioè di un ideale compiuto, per quanto lontano, di perfezione (Werke, ed. Karpeles, XII, pag. 122 sgg.). Schiller fu ben deciso a mantenere su questo punto la superiorità della P. sulla filosofia: egli non esitava ad affermare che«l’unicoverouomo è il poeta e nei suoi confronti il miglior filosofo è solo una caricatura » (Carteggio Goethe-Schiller, 7-1-1795; trad. Santangelo). Questa tesi rappresenta indubbia- mente un filone importante e ben determinato della concezione romantica della poesia. Diceva Schelling: «La facoltà poetica è ciò che nella prima potenza è l’intuizione originaria; e viceversa, la sola intui- zione produttiva che si ripeta nella più alta potenza è ciò che noi chiamiamo facoltà poetica » (System des transzendentalen Idealismus, 1800, VI, $ 3). La facoltà poetica realizza in atto l’unità dell’attività conscia e dell’attività inconscia, che costituisce 676 la natura dell’Io assoluto. « Ciò che chiamiamo natura è un poema, chiuso in caratteri misteriosi e mirabili. Ma se l’enigma si potesse svelare noi vi conosceremmo l'odissea dello Spirito, il quale, per mirabile illusione, cercando se stesso, sfugge se stesso» (/bid.). Nella filosofia contemporanea questo punto di vista è stato riespresso da Hei- degger: « La P. è la nominazione fondatrice del- l'essere e dell’essenza di tutte le cose; non è un qualsiasi semplice dire ma è quello per il quale si trova inizialmente rivelato tutto ciò che noi dibattiamo e trattiamo in seguito nel linguaggio di tutti i giorni. In conseguenza, la P. non riceve mai il linguaggio come una materia da manipolare e che gli sarebbe presupposta ma al contrario è la P. che comincia a rendere possibile il linguaggio. La P. è il linguaggio primitivo di un popolo e l’essenza del linguaggio dev'essere compresa a partire dall’essenza della P.» (Holderlin und das Wesen der Dichtung, 1936, $ 5). Come linguaggio originario, la P. è la verità stessa vale a dire la manifestazione o svelamento dell’Essere (Holzwege, 1950, pag. 252 sgg.). 3° La terza concezione fondamentale è a prima vista meno filosofica delle altre perchè non consiste nel riconoscere alla P. un compito determi- nato in una metafisica particolare nè nel connet- terla con una determinata facoltà o categoria dello spirito o nel riservarle un posto nell’enciclopedia del sapere umano, ma soltanto nel porre in luce certi tratti che la P. possiede nelle sue più riu- scite realizzazioni storiche e nel riassumerli in una definizione generalizzante. Tuttavia questo è il solo procedimento che può dar luogo a una defi- nizione funzionale della P.: ad una definizione cioè che si presti ad esprimere e a orientare l’effettivo lavoro dei poeti. A tale definizione hanno pertanto contribuito i poeti stessi, più che i filosofi, per quanto anche questi hanno talora saputo cogliere aspetti importanti di essa. Ovviamente, da questo punto di vista, la P., almeno a prima vista, non è che un certo modo privilegiato di espressione linguistica: privilegiato in virtù di una speciale funzione che gli si riconosca. Il privilegio ricono- sciuto al modo poetico dell’espressione è frequente- mente determinato come «libertà ». Kant dopo aver detto che « le arti della parola » sono l’eloquenza e la P., afferma: «L’eloquenza è l’arte di trat- tare un compito dell’intelletto come se fosse un libero giuoco dell'immaginazione; la P. è l'arte di dare ad un libero giuoco dell’imma- ginazione il carattere di un compito dell’intel- letto » (Crit. del Giud., $ 51). Qui la nozione di « giuoco » serve a sottolineare il carattere libero del- l’attività poetica nei confronti di qualsiasi scopo uti-litario; e la nozione di « compito dell’intelletto » sta POESIA a significare la disciplina che la P. si dà pur nella libertà del suo giuoco. Da questo punto di vista la funzione dell’espressione poetica è la liberazione del linguaggio dai suoi usi utilitari e la sua elabora- zione in una disciplina autonoma. Sugli stessi carat- teri dell'espressione poetica ha insistito Dewey. Se tra prosa e P. egli dice, non c’è una differenza esattamente definibile, tra prosaico e poetico c’è un abisso in quanto sono termini estremi limitativi di tendenze dell’esperienza. Il prosaico realizza il potere delle parole di esprimere « per mezzo del- l'estensione »; il poetico quello di esprimere per mezzo dell’intensione. Il prosaico è questione di descrizione e di narrazione e accumula dettagli; il poetico, inverte il processo, « condensa e abbrevia, dando così alle parole un’energia di espansione che è quasi esplosiva ». Perciò nella P. « ogni parola è immaginativa, come fu in verità anche in prosa fino a quando, per il logorio dell’uso, le parole non furono ridotte ad essere semplici enumeratori +» e «la forza immaginativa della letteratura è un’inten- sificazione della funzione idealizzante assolta dalle parole nel linguaggio ordinario » (Art as Experience, 1934, cap. 10; trad. ital, pag. 284-85). L'inten- sione di cui parla Dewey non è un'intensità emotiva, ma un’intensità espressiva, cioè una carica maggiore del significato delle parole non consunte dall’uso. Ora che alla P. sia affidata questa funzione di conservare e ripristinare nel linguaggio la sua carica di significato, di ripulirlo e mantenerlo efficiente, di rinnovarlo e perfezionarlo, è quanto hanno detto, da un secolo a questa parte, molti poeti che hanno riflettuto sul loro proprio lavoro. Le tesi fondamentali della concezione della P. elaborata o presupposta dai poeti moderni possono essere ricapitolate nel modo seguente: 1° L'indipendenza della P. da ogni scopo interessato o utilitario. Questo carattere venne espresso con la formula dell’arte per l’arte, alla quale aderirono nel secolo scorso artisti come Flaubert, Gautier, Baudelaire, Walter Pater, Oscar Wilde e Allan Poe. L'obbiettivo contro cui questa formula è diretta è la subordinazione della P. all’emozione o alla verità o al dovere; il suo signi- ficato positivo è la libertà della P. nel senso in cui era stato affermato, per es., da Kant. « Comporre semplicemente versi, scrivere un romanzo, scal- pellare il marmo, son cose che andavan bene una volta, dice Flaubert, quando non c’era la missione sociale del poeta. Ora ogni opera deve avere il suo significato morale, il suo ben dosato insegnamento; bisogna che un sonetto abbia una portata filosofica, che un dramma pesti le dita ai monarchi e. che un acquarello ingentilisca i costumi. L’avvocatume s'insinua dappertutto insieme con la smania di discutere, di perorare e arringare» (Leftre dè POESIA Louise Colet, 18 settembre 1846). E Gautier pro- clamava nell’editoriale introduttivo del periodico L’artiste (14 dicembre 1856): «Noi crediamo nell'autonomia dell’arte; per noi l’arte non è un mezzo per un fine; un artista che persegue un

obbiettivo diverso dal bello non è, secondo noi, un artista ». La formula dell’arte per l’arte è perciò sostanzialmente la difesa della P. contro ogni tentativo di farne lo strumento di propaganda di uno scopo qualsiasi. 2° Il riconoscimento della bellezza come unico fine della poesia. Poichè l’arte non può essere subordinata al bene o al vero o a cose che pretendano avere tali caratteri, rimane, come suo unico fine, la bellezza; e precisamente la bellezza formale cioè indipendente dai contenuti che le sono offerti dall'emozione o dall’intelletto. Dice Flaubert: « Poeta della forma! Ecce la gran parola ingiuriosa che gli utilitari gettano in faccia ai veri artisti... Non ci sono bei pensieri senza belle forme e vice- versa... Si rimprovera chi scrive in buono stile di trascurare l’idea, il fine morale; come se il compito del medico non fosse di sanare, quello del pittore di dipingere, quello dell’usignolo di cantare e il fine dell’arte non fosse, anzitutto, il bello +» (Lettre à Louise Colet, 18 settembre 1846). E Poe affermava: « La P. come arte della parola è la creazione ritmica della bellezza. Il solo arbitro di essa è il gusto: con l’intelletto o con la coscienza essa ha solo relazioni collaterali. Ameno che non sia per caso, non si cura assolutamente nè del dovere nè della verità » (« The Poetic Principle », Works, ed. Har- rison, XIV, pag. 275). 3° Il carattere oggettivo della bellezza, per cui essa è al di là dell’emozione vissuta. Diceva Flaubert: « Meno si sente una cosa € più si è atti ad esprimerla qual è (qual è sempre, in sè, nella sua universalità. liberata da tutte le sue contingenze effimere), Bisogna però possedere la facoltà di farla sentire a se stessi, facoltà che non è altro che il genio » {Lettre à Louise Colet, 6 luglio 1852). E T. S. Eliot ha ribadito: «La P. non è un libero movimento dell’emozione ma una fuga dall'emozione; non è l'espressione della personalità, ma la fuga dalla personalità. Naturalmente però solo coloro che posseggono personalità ed emozione sanno che cosa s'intende dire accennando alla necessità della fuga da queste cose... L'emozione dell’arte è impersonale. E il poeta non può raggiungere questa impersonalità senza arrendersi interamente all’opera che dev'essere fatta» (7hie Sacred Wood, 1920; trad. ital., pag. 124-25). Nello stesso senso Unga- retti ha detto: « Tutta la mia attività poetica, dal 1919, si svolgeva in quel senso; un senso più obbiettivo... cioè una proiezione e una contempla- zione dei sentimenti negli oggetti, un tentare di 677 elevare a idee e miti la propria esperienza biografica » (La terra promessa, Nota di Leone Piccioni). 4° Il carattere costruttivo della P. e costruito della bellezza. Su esso hanno insistito Poe, Bau- delaire e Valéry. Il primo ha descritto la costruzione di una P. come una specie di lavoro artigiano (« The Philosophy of Composition » in Works, ed. Harrison, XIV, pag. 196). Baudelaire dal suo canto ha insistito sul concetto dell’arte come com- posizione: «Tutto l’universo visibile, egli ha detto, non è che un magazzino di immagini e di segni ai quali l'immaginazione darà un posto e un valore relativo; è una specie di foraggio che l’immagina- zione deve digerire e trasformare» («Salon de 1859 », (Euvres, ed. Le Dantec, II, pag. 232). Ma è soprattutto Valéry che ha insistito, ai nostri giorni, sul carattere dell’arte come costruzione: « Le crea- zioni dell’uomo, egli ha detto, sono fatte o in vista del proprio corpo — e tale principio egli chiama utilità — o in vista della propria anima; e questo egli cerca sotto il nome di bellezza. Ma d’altra parte colui che costruisce o che crea, impegnato com'è con il resto del mondo e col movimento della natura che tendono perpetuamente a dissol- vere, corrompere o rovesciare quel che egli fa, deve ravvisare un terzo principio che tenta di comunicare alle proprie opere e che esprima la resistenza che dev’essere da queste opposta al proprio destino di periture. Crea insomma la solidità e la durata. Ecco le grandi caratteristiche di un’opera completa. L'architettura soltanto le esige e le porta al punto più alto. Ad essa io guardo come all’arte più completa » (Eupalinos, trad. ital., pag. 141-42). Il carattere architettonico dell’arte è così condizionato dalla resistenza che essa incontra nelle forze naturali e dalla vittoria sopra questa resistenza. Dall’altro lato un corollario, del carat- tere costruttivo o architettonico dell’attività poetica è il controllo sull’ispirazione, controllo sul quale aveva già insistito Baudelaire: « Un nutrimento sostanzioso e regolare, egli aveva scritto, è la sola cosa necessaria agli scrittori fecondi. L'ispirazione è decisamente la sorella del lavoro giornaliero. Questi due contrari non si escludono più che non si escludano i contrari che costituiscono la natura. L’ispirazione obbedisce, come la fame, come la digestione, come il sonno» (« Conseils aux jeunes littérateurs +, 6, Euvres, ed. Le Dantec, II, pag. 388). 5° L’insistenza sul carattere comunicativo della poesia. Diceva Flaubert: « Il poeta deve simpatiz- zare con tutto e con tutti per comprenderli e descriverli » (Lettre à M.Ile Leroyer de Chantepie, 12 dicembre 1857). E Baudelaire: « Preferisco il poeta che si mette in comunicazione permanente con gli uomini del suo tempo e scambia con essi pensieri e sentimenti tradotti in un nobile linguaggio 678 sufficientemente corretto. Il poeta, situato su uno dei punti della circonferenza dell’umanità, rinvia sulla stessa linea, in vibrazioni più melodiose, il pensiero umano che gli fu trasmesso. Ogni vero poeta dev’essere un’incarnazione» (« Pierre Du- pont +, CEuvres, ed. Le Dantec, II, pag. 404). 6° La ricerca della perfezione formale cioè dell’esattezza o della precisione espressiva. Flau- bert voleva che la P. fosse «precisa quanto la geometria » (Lettre à Louise Colet, 14 agosto 1853) e affermava: « Più un’idea è bella e più la frase è armoniosa. La precisione del pensiero fa (anzi è, essa stessa) la precisione della parola» (Lettre à M.lle Leroyer de Chantepie, 12 dicembre 1857). Mallarmé ha insistito su quest’aspetto della P.: «L'arte suprema, egli diceva, consiste nel lasciar vedere, col possesso impeccabile di tutte le facoltà, che si è in estasi, senza aver mostrato come ci s’innalzava verso le cime» (Lettre à Henri Cazalis, 27 novembre 1863). Valéry ha scritto allo stesso proposito: «Ho cercato l’esattezza nei pensieri, sicchè, palesemente generati dall’osservazione delle cose, si mutino, come per processo spontaneo, negli atti della mia arte. Ho distribuito le mie attenzioni; ho rifatto l'ordine dei problemi; comincio dove prima finivo per andare un poco più in là... Avaro di fan- tasie, concepisco come se inseguissi » (Eupalinos; trad. ital., pag. 91). E Ungaretti ha detto nello stesso senso: «Sognavo una P. dove la segretezza dell’a- nimo, non tradita nè falsata negli impulsi, si conci- liasse a una estrema sapienza di discorso » (Quaranta sonetti di Shakespeare, Nota intr.). Mallarmé ha esteso la preoccupazione dell’esattezza allo stesso segno scritto. « L’armatura intellettuale del poema, egli ha detto, si dissimula e sostiene — ha luogo — nello spazio che isola le strofe e fra il bianco della carta: significativo silenzio che non è meno bello a comporsi degli stessi versi » (Lertre non datée à Charles Morice; cfr. Propos sur la poésie, edi- zione Mondor, pag. 164). 7° Infine, e come ricapitolazione di tutti gli aspetti precedentemente enumerati della P.: il compito ad essa attribuito di tenere in efficienza il linguaggio. Questo compito è stato illustrato con tutta l’energia e la chiarezza desiderabili da Fzra Pound. La funzione della letteratura egli ha scritto « non è la coercizione o la persuasione per via emotiva» nè il forzare la gente a una certa opinione. « Essa riguarda la chiarezza e il vigore di qualsiasi pensiero e opinione. Riguarda la preser- vazione e la pulizia stessa degli strumenti, la salute della sostanza stessa del pensiero. Tranne che nei casi rari e limitati di invenzione nelle arti plastiche o nella matematica, l’individuo non può pensare e comunicare il suo pensiero, il reggitore e il legi- slatore non possono agire efficacemente e redigere le POETICA loro leggi, senza le parole, e la solidità e validità di queste parole sono affidate alla cura dei maledetti

e disprezzati letterati » (Literary Essays; trad. ital., pag. 47). Da questo punto di vista « mantenere efficiente il linguaggio è altrettanto importante ai fini del pensiero come in chirurgia tener lontano dalle bende i bacilli del tetano » e questo compito è proprio della P. che « è semplicemente linguaggio carico di significato al massimo grado possibile + (Ibid., pag. 49). C’è un triplice modo in cui la P. esegue questo compito e perciò ci sono tre generi di P.: la melopea, per cui «le parole sono caricate, al di là del loro significato comune, di qualche qualità musicale che condiziona la portata e la direzione di quel significato »; la fanopea, che è «un proiettare le immagini sulla fantasia visiva +; e la /ogopea, per cui le parole vengono usate non solo nel loro significato diretto ma anche in vista delle consuetudini d’uso, del contesto, delle conco- mitanze abituali, delle accezioni note e del giuoco ironico (/bid., pag. 52). Non c’è dubbio che queste notazioni di Pound costituiscono il punto culminante dell’estetica contemporanea della poesia. POETICA. V. ESTETICA. POIETICO (gr. romuxés; ingl. Poietic; fran- cese Poietique; ted. Poietik). Produttivo o creativo, in quanto distinto da pratico. Secondo Aristotele l’arte è produttiva mentre l’azione non lo è (£r. Nic., VI, IV, 1140a 4). Plotino chiamava P. le cause efficienti (Enn., VI, 3, 18, 28). V. ENCICLOPEDIA. POLARITÀ (ingl. Polarity; franc. Polarité; ted. Poldritar). La connessione necessaria di due princìpi tra loro opposti. In questo senso il concetto fu adoperato da Schelling nello scritto Sull'amima del mondo (1798). L’anima del mondo, secondo Schelling, agisce nella natura mediante le due forze opposte della attrazione e della repulsione, il cui conflitto costituisce il dualismo e la cui unifica- zione costituisce la P. della natura (Werke, I, II, pag. 381). Talvolta il concetto di P. è stato genera- lizzato in un vero e proprio principio. Così ha fatto, nella filosofia contemporanea, Morris R. Cohen che l’ha inteso come « il principio non del- l’identità ma della necessaria compresenza e reci- proca subordinazione delle determinazioni opposte +. Nella fisica, questo principio sarebbe rappresentato dalla legge di azione e reazione e da quella che là dove c’è forza c’è resistenza. In biologia, sarebbe espresso dall’aforisma di Huxley che il protoplasma riesce a vivere solo morendo di continuo. Nell’etica, si esprimerebbe nella dipendenza reciproca tra sacri- ficio di sè e realizzazione di sè (/nrroduction to Logic, IV, 2; trad. ital., pag. 125). POLEMICO (ingl. Polemic; franc. Polémique; ted. Polemisch). Kant ha inteso per « uso P. della ragione » la difesa degli enunciati di essa contro POLITICA le negazioni dogmatiche. Le negazioni dogmatiche degli enunciati razionali sono le negazioni scettiche, considerate da Kant come le posizioni di un dogma- tismo negativo, semplicemente preparatorio rispetto ad una critica della ragione cioè ad un esame dei limiti e dei confini precisi della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dottrina trascendentale del metodo, cap. 1, sez. 2). POLIADICO (ingl. Polyadic). Nella logica contemporanea sono qualificati con questo termine gli enunciati (o le relazioni) costituiti da tre o più termini: per es., l’enunciato «Tizio deve a Caio mille lire» dove compaiono tre termini, Tizio, Caio e mille lire (cfr., ad es., DEWEY, Logic, XVI; trad. ital., pag. 413 sgg.). POLIGENESI. V. ORTOGENESI. POLIGONIA. Gioberti parlò di una «P. del cattolicesimo » cioè del rifrangersi della parola rivelata nell’individualità dei singoli pur mantenen- dosi una, come uno è il poligono sebbene abbia infiniti lati (Riforma cattolica, ed. Balsamo-Crivelli, pag. 147-48). Lo stesso che multilateralità. POLILEMMA (ingl. Polilemma; franc. Poli- lemme; ted. Polilemma). Termine moderno per indicare un dilemma (v.) a tre o più alternative (TRroxLER, Logik, II, 1829, pag. 102; B. ERDMANN, Logik, 1892, $ 75). POLIMATIA (gr. roQvpadia). Il saper molte cose. Disse Eraclito: «Il saper molte cose non insegna ad avere intelligenza; altrimenti l’avrebbe insegnato ad Esiodo e a Pitagora e tanto più a Senofane e ad Ecateo» (Fr. 40, Diels). Kant ha chiamato P. il possesso delle conoscenze razionali, mentre polistoria sarebbe il sapere storico o dei fatti e pansofia l'insieme dei due (Logik, Intr., $ VI). POLISEMIA (ingl. Polysemy; franc. Poly- sémie; ted. Polysemie). La diversità dei riferimenti semantici (dei « significati ») posseduti da una stessa parola (cfr. BréAL, Essai de sémantique, cap. 14; S. ULLMANN, The Principles of Semantics, 2* ediz., 1957, pag. 63, 114, 174). POLISILLOGISMO (ingl. Polysyllogism; franc. Polysyllogisme; ted. Polysyllogismus). Ter- mine settecentesco per indicare un sillogismo mol- teplice o composto, cioè una catena di sillogismi. Tale catena può essere ordinata in modo tale che ogni sillogismo sia il fondamento di quello che segue e la conseguenza di quello che precede. Il sillogismo della serie che contiene la ragione della premessa di un altro sillogismo è chiamato prosil- logismo; quello che contiene la conseguenza di un altro sillogismo è chiamato episillogismo (v.). Ogni catena di ragionamenti è perciò costituita di pro- sillogismi e di episillogismi (WOLFF, Log., $ 492-94; KANT, Logik, $ 86; HAMILTON, Leciures on Logic, $ 68; B. ERDMANN, Logik, $ 85). 679 POLITEISMO (ingl. Polytheism; franc. Po- Iythéisme; ted. Polytheismus). Sulla nozione di P., v. Dro, 3, «). Il P. è ben lungi dall’essere una cre- denza primitiva e grossolana, inconciliabile con la riflessione filosofica. Poichè esso è presente già nella distinzione tra la divinità e Dio, sono in realtà politeistiche molte filosofie talora assunte come ti- picamente monoteistiche, per es., quella di Ari- stotele. Il P. è stato talora esplicitamente difeso dai filosofi moderni. Già Hume osservava nella Storia naturale della relîgione (1757), che il pas- saggio dal P. al monoteismo non deriva dalla riflessione filosofica ma dal bisogno umano di adu- lare la divinità per tenersela buona; e che al mono- teismo si accompagna spesso l’intolleranza e la persecuzione giacchè il riconoscimento di un unico oggetto di devozione conduce a considerare as- surdo ed empio il culto di altre divinità (Essays, II, pag. 335 sgg.). Nell’età moderna sulla superio- rità del P. hanno insistito Renouvier (Psychologie rationelle, 1859, cap. 25) e James (A Pluralistic Universe, 1909); ma politeistiche sono molte altre dottrine, compresa quella di Bergson. Max Weber ha considerato il P. come la lotta fra i diversi valori o le diverse sfere di valori tra cui l’uomo deve pren- dere posizione e che non si conclude mai con la vittoria di un valore solo. In questo senso il mondo dell’esperienza non arriva mai al monoteismo ma si ferma al P. (Zwischen zwei Gesetze, 1916, in Gesammelte Politische Schriften, pag. 60 sgg.). POLITICA (gr. rormxh; lat. Politica; inglese Politics; franc. Politique; ted. Politik). Sotto questo nome sono state intese più cose e precisamente: 1° la dottrina del diritto e della morale; 2° la teoria dello Stato; 3° l’arte o la scienza del governo; 4° lo studio dei comportamenti intersoggettivi. 1° Il primo concetto è quello esposto nell’Etica di Aristotele. La ricerca intorno a ciò che dev'essere il bene e il bene supremo sembra appartenere, dice Aristotele, alla scienza più importante e più archi- tettonica. «E questa pare che sia la politica. Essa infatti determina quali scienze sono necessarie nelle città e quali, e fino a che punto, ciascun cittadino deve apprenderle» (E. Nic., I, 2, 1094a 26). Questo concetto della P. è rimasto lungamente nella tradizione filosofica. Diceva, ad es., Hobbes: «La P. e l’etica, cioè la scienza del giusto e del- l’ingiusto, dell’equo e dell’iniquo, si può dimostrare a priori in quanto i princìpi coi quali si può giu- dicare che cosa siano il giusto e l’equo o i loro contrari, cioè le cause della giustizia, cioè le leggi o le convenzioni, li abbiamo fatti noi stessi» (De Hom., X, $ 5). In questo senso Althusius intitolava il suo trattato sul diritto naturale Politica metho- dice digesta (1603): e trattati di P. furono conside- rati tutti gli scritti sul diritto naturale (v. DIRITTO). 680 2° Il secondo significato del termine è quello esposto nella Politica di Aristotele. «È chiaro, diceva Aristotele, che c'è una scienza cui spetta di cercare quale sia la migliore costituzione: quale più di ogni altra sia adatta a soddisfare i nostri ideali, quando non vi fossero impedimenti esterni; e quale si adatti alle diverse condizioni in cui può essere messa in pratica. Poichè è quasi impossibile che molti possano attuare la migliore forma di go- verno, il buon legislatore e il buon uomo politico devono sapere quale sia la migliore forma di go- verno in senso assoluto e quale sia la migliore forma di governo entro certe condizioni date + (Pol., IV, 1, 1288 b 21). In questo senso la P. ha due compiti, secondo Aristotele: 1° quello di de- scrivere la forma di uno Stato ideale; 2° quello di determinare la forma del migliore Stato possibile in rapporto a circostanze date. Ed effettivamente la P. come teoria dello Stato ha seguito o la via utopistica della descrizione dello Stato perfetto, secondo l’esempio della Repubblica di Platone, o quella più realistica dei modi e delle vie per mi- gliorare la forma dello Stato, che è quella che Aristotele stesso seguì in una parte del suo trattato. Le due parti tuttavia non sono sempre agevol- mente distinguibili e non sempre sono state di- stinte. Quando a partire da Hegel lo Stato cominciò a essere considerato come « il Dio reale + (v. STATO)

e il carattere della divinità dello Stato fu accettato dalla scuola storica, la P., come teoria dello Stato, volle avere carattere descrittivo e normativo in- sieme. Così Treitschke delineava il compito di essa in questo senso: «Il compito della P. è triplice: deve in primo luogo investigare, dall’osservazione del mondo reale degli Stati, qual'è il concetto fon- damentale dello Stato; in secondo luogo indagare storicamente ciò che nella vita politica i popoli hanno voluto, prodotto e conseguito e il perchè lo hanno conseguito; e in terzo luogo, ciò facendo, essa giunge a scoprire alcune leggi storiche e a stabilire gli imperativi morali » (Politik, 1897, Intr.; trad. ital, I, pag. 2-3). Come già nell’opera del Treitschke, la P. come teoria dello Stato è stata spesso una teoria dello Stato come forza: tale in- fatti essendo il significato di ogni divinizzazione dello Stato (v.). 3° La P. come arte o scienza di governo è il concetto che Platone espose e difese nel Politico con il nome di «scienza regia » (Pol., 259a-b) e che Aristotele assunse come rerzo compito della scienza politica. « Un terzo ramo della ricerca è quello il quale considera in che modo un governo è sorto e in che modo, una volta sorto, può essere conservato per il maggior tempo possibile » (Zbid., IV, 1, 1288 b 27). Fu questo il concetto della P. di cui Machiavelli accentuò il crudo realismo con POLITICA famose parole: «E molti si sono immaginati re- pubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero. Perchè elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piuttosto la ruina che la preservazione sua; perchè uno uomo, che voglia fare in tutte le parti professione di buono, con- viene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mante- nere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità » (Princ., XV). In questo senso Wolff definiva la P. come «la scienza di dirigere le azioni libere nella società civile o nello Stato » (Log., Disc., $ 65). E questa è la scienza o l’arte politica cui si fa più frequente rife- rimento nel discorso comune. Riferendosi appunto a questo concetto Kant diceva: « Per quanto la massima: L’onestà è la migliore P., implichi una teoria che la pratica purtroppo smentisce assai spesso, tuttavia la massima parimenti teoretica l’onestà è migliore di ogni P., è al di sopra di ogni obiezione, è anzi la condizione indispensabile della P.» (Zum ewigen Frieden, Appendice, I). E Hegel dall’altro lato diceva: « Si è discusso molto, un tempo, dell’antitesi tra morale e P. e dell’esi- genza che la seconda sia conforme alla prima. A questo punto conviene solo notare in generale che il bene di uno Stato ha un diritto del tutto diverso dal bene del singolo e che la sostanza etica, lo Stato, ha la sua esistenza, cioè il suo diritto, immediata- mente in un'esistenza non astratta ma concreta e che soltanto quest’esistenza concreta, non una delle molte proposizioni generali, ritenute per precetti morali, può essere principio del suo agire e del suo comportamento. Anzi, la veduta del torto pre- sunto che la P. deve sempre avere, in questa antitesi presunta, si fonda ancora sulla superficialità delle concezioni della moralità, della natura dello Stato e dei suoi rapporti dal punto di vista morale» (Fil. del Dir., $ 337). Queste parole di Hegel non sono che la riconferma del principio del machia- vellismo. Ciò che Hegel chiama l’esistenza dello Stato non è altro che la realtà effettuale di Ma- chiavelli che la P. dovrebbe sempre avere presente. Per quanto Hegel dichiarasse superata l’antitesi tra P. e morale, il contrasto tra le due esigenze è tuttora vivo nella pratica politica e nella coscienza comune e le forme di equilibrio, da esse raggiunte, sono tuttora provvisorie e instabili. 4° Infine il quarto significato di P. è quello che essa ha cominciato ad avere a partire da Comte e si identifica con quello di sociologia. Comte chiamò Sistema di P. positiva (1851-54) la sua massima trattazione di sociologia in quanto ri- tenne che i fenomeni politici sono soggetti, sia POSITIVISMO nella loro coesistenza sia nella loro successione, a leggi invariabili, il cui uso può permettere di in- fluenzare i fenomeni stessi. G. Mosca intese per P. proprio la scienza della società umana in questo senso. Così egli giustificava il termine: « Noi lo studio delle tendenze suddette [cioè delle « leggi o tendenze psicologiche costanti alle quali ubbidi- scono i fenomeni sociali :] chiamiamo scienza po- litica. Ed abbiamo scelta questa denominazione perchè fu la prima usata nella storia dello scibile umano, perchè ancora non è caduta in disuso ed anche perchè il nome nuovo di sociologia che, dopo Augusto Comte si è da molti scrittori adot- tato, non ha ancora una significazione ben deter- minata e precisa e, nell’uso comune, comprende tutte le scienze sociali» (Elementi di scienza poli- tica, 1922, I, I, $ II). Ma in questo senso il termine è oggi diventato improprio. POLITICISMO (franc. Politisme; ted. Poli- tismus). La prevalenza o l’importanza eccessiva che le esigenze politiche assumono talora, nella vita moderna, rispetto alle altre esigenze, cioè alle esi- genze scientifiche, artistiche, morali, religiose, ePOLITOMIA (franc. Polytomie; ted. Poly- tomie). La divisione non dicotomica. Kant osserva che la P. esige l’intuizione: o l’intuizione a priori come accade in matematica o l'intuizione empirica come nelle scienze della natura. In altri termini la P. è sempre empirica mentre la dicotomia, fon- data com'è sul principio di contraddizione, è a priori (Logik, $ 115). POLIVALENTE, LOGICA. V. Terzo ESCLUSO, PRINCIPIO DEL. POLIZETESI. V. INTERROGAZIONE MULTIPLA. PONTE DEGLI ASINI (lat. Pons asinorum; ingl. Asses’ bridge; franc. Pont aux dines; tedesco Eselsbrilcke). Così fu chiamato, per la sua appa- rente difficoltà, un diagramma costruito dal logico Pietro Tartareto (la cui attività letteraria cade fra il 1480 e il 1490), che aveva lo scopo di aiutare lo studente a trovare il termine medio nelle varie figure del sillogismo. Il diagramma è riportato da PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 206. Il termine è stato talora esteso a indicare un punto difficile di qualsiasi insegna- mento o dottrina. POPOLO (lat. Populus; ingl. People; francese Peuple; ted. Volk). Una comunità umana carat- terizzata dalla volontà degli individui che la com- pongono di vivere sotto lo stesso ordinamento giuridico. L’elemento geografico non è sufficiente a caratterizzare il concetto di P.: come Cicerone diceva, « P. non è qualsiasi agglomerato di uomini in qualsiasi modo riunito, ma un agglomerato di gente associata dal consenso allo stesso diritto e da una comunanza d’interesse » (Rep., I, 25, 39). 681 Al P. si contrappone pertanto la plebe che è l’in- sieme di quelle persone le quali, pur vivendo in- sieme con il P., non partecipano allo stesso ordi- namento giuridico. Dall’altro lato il concetto di P. si distingue da quello di razione (v.) perchè questo contiene un insieme di elementi necessitanti che si assommano nella nozione di un comune destino al quale gli individui non possano legittimamente sottrarsi. Dal concetto di P., il concetto di nazione cominciò a formarsi quando, a partire da Mon- tesquieu si misero in luce le cause naturali e tradi- zionali (clima, religione, tradizioni, usi e co- stumi, ecc.) che contribuiscono a formare quello che Montesquieu chiamò «spirito generale» o « spirito della nazione » (Esprit des lois, XIX, 4-5). La differenza tra P., nazione e plebe era abbastanza chiaramente stabilita da Kant (Antr., II, Il carat- tere del popolo): ma il concetto di P. veniva spesso confuso con quello di nazione nel nazionalismo ottocentesco (v. NAZIONALISMO; SPIRITO NAZIONALE). PORISTICO (ingl. Poristic; franc. Poristique; ted. Poristik). Da porisma = corollario. Il termine designa ciò che è un corollario o concerne un corollario. PORRE (gr. v.8va; lat. Ponere; ingl. Posit; franc. Poser; ted. Setzen). Questo verbo è stato usato nel linguaggio filosofico con due differenti significati: 1° asserire o assumere come ipotesi; 2° P. in essere, produrre. 1° Il primo significato è quello che già Platone e Aristotele usavano: il primo nel senso di stabilire un’ipotesi (Teer., 191 c): il secondo in quello di stabilire una premessa (An. Pr., I, 1, 24b 19) 0 ammettere una tesi (7op., II, 7, 113 a 28). Corrispon- dentemente, la parola posizione vale genericamente asserzione e Kant afferma che l’esistenza può es- sere posta, cioè asserita o riconosciuta, non dedotta (Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demon- stration des Daseins Gottes, I, $ 2). Il verbo è comu- nemente usato ancor oggi specialmente nel senso di assumere in via d’ipotesi o come assioma (v.). 2° Nel senso di P. in essere o produrre o creare, il verbo fu usato da Fichte: « L'essere, l’essenza del quale consiste puramente in ciò che esso pone se stesso come esistente è l’Io, come assoluto sog- getto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si pone; l’Io perciò è assolutamente e necessaria- mente per l’Io» (Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Quest’uso si conserva in tutta la tradizione del- l’idealismo romantico e in generale per ogni filo- sofia la quale identifichi ragione e realtà e così l’atto logico del P. con l’atto reale del produrre. POSITIVISMO (ingl. Positivism; franc. Posi- tivisme; ted. Positivismus). Il termine fu adoperato la prima volta da Saint-Simon per designare il metodo esatto delle scienze e l’estensione di esso

682 alla filosofia (De la religion Saint-Simonienne, 1830, pag. 3). Esso fu adottato da Augusto Comte per la sua filosofia e per opera di Comte passò a desi- gnare un grande indirizzo filosofico che, nella seconda metà del sec. xrx, ebbe numerosissime e svariate manifestazioni in tutti i paesi del mondo occidentale. La caratteristica del P. è la romanti- cizzazione della scienza: l’esaltazione di essa ad unica guida della vita singola ed associata dell’uomo, cioè ad unica conoscenza, ad unica morale, ad unica religione possibile. Come romanticismo della scienza, il P. accompagna e stimola la nascita e l’affermazione dell’organizzazione tecnico-industriale della società moderna ed esprime l’esaltazione ottimistica che ha accompagnato l’origine dell’industrialismo. Si possono distinguere due forme storiche fondamen- tali del P.: il P. sociale di Saint-Simon, Comte e Stuart Mill, nato dall’esigenza di costituire la scienza a fondamento di un nuovo ordine sociale e religioso unitario; e il P. evoluzionistico di Spencer che estende a tutto l’universo il concetto di progresso e cerca di farlo valere in tutti i rami della scienza (per il positivismo evoluzionistico, v. EvoLuzio- Nismo). Le tesi fondamentali del P. sono le seguenti: 1° La scienza è l’unica conoscenza possibile e il metodo della scienza è l’unico valido: pertanto il ricorso a cause o princìpi che non sono accessibili al metodo della scienza non dà origine a cono- scenze; e la metafisica che fa appunto tale ricorso è priva di qualsiasi valore. 2° Il metodo della scienza è puramente de- scrittivo, nel senso che descrive i fatti e mostra quei rapporti costanti tra i fatti che sono espressi dalle leggi e consentono la previsione dei fatti stessi (Comte); o nel senso che mostra la genesi evolutiva dei fatti più complessi a partire da quelli più semplici (Spencer). 3° Il metodo della scienza, in quanto è l’unico valido, va esteso a tutti i campi dell’indagine e dell’attività umana; e l’intera vita umana, singola e associata, dev’essere guidata da esso. Il P. ha presieduto alla prima attiva partecipa- zione della scienza moderna all’organizzazione sociale e costituisce tuttora un concetto della filo- sofia che rimane una delle alternative fondamentali di tale disciplina: ciò anche dopo che sono state abbandonate le illusioni totalitarie del P. romantico, cioè la sua pretesa di assorbire nella scienza ogni manifestazione dell’uomo. POSITIVISMO GIURIDICO (ingl. Juridical Positivism; franc. Positivisme juridique). Così Hans Kelsen ha chiamato la sua dottrina formalistica del diritto e dello stato (Genera/ Theory of Law and State, 1945; cfr. specialmente l’appendice « La dot- trina del diritto naturale e il P. giuridico +) (v. Di- RITTO; STATO). POSITIVISMO GIURIDICO POSITIVISMO LOGICO (ingl. Logica! Posi- tivism; franc. Positivisme logique; ted. Neupositi- vismus). V. EMPIRISMO LOGICO. POSITIVO (ingl. Positive; franc. Positif; te- desco Positiv). 1. Ciò che è posto, stabilito o rico- nosciuto come un fatto. Leibniz chiamava « verità P.» le verità di fatto, in quanto si distinguono dalle verità di ragione perchè costituiscono « leggi che Dio si è compiaciuto di dare alla natura» (Théod., Discours, $ 2). Nello stesso senso si parla di religione P., come religione che di fatto è stabilita e vige come un complesso di istituzioni storiche, a differenza della religione naturale che può non valere di fatto; e di diritto P. come diritto vigente in uno stato determinato, in contrapposizione con il diritto naturale che può non avere validità di fatto. Le espressioni «fatto P.» e «realtà P.» hanno valore analogo perchè designano il fatto o la realtà riconosciuta o riconoscibile come tale in virtù di un metodo obbiettivo. Il significato fonda- mentale del termine è pertanto, in questa accezione: ciò che vige di fatto o ha realtà effettiva. Comte non faceva che esprimere questo significato affer- mando: «Considerato nella sua accezione più antica e più comune, la parola P. designa il reale r opposizione al chimerico » (Discours sur l’esprit positif, $ 31). Il positivismo chiamò P. il metodo della scienza in quanto diretto al riconoscimento puro e semplice dei fatti e dei loro rapporti (v. Post- TIVISMO). In senso non diverso Schelling chiamò P. la conoscenza che considera l’atto con cui la realtà è posta. Egli distinse le condizioni nega- tive della conoscenza, che sono quelle senza cui la conoscenza non è possibile, dalle condizioni P. che sono quelle per cui la conoscenza diventa effettiva. Le prime sono le forme razionali del- l’essere e dicono ciò che l’essere può o dev'essere, le seconde esprimono l’esistenza stessa e consistono sostanzialmente nella volontà di Dio di manifestarsi (Werke, II, III, pag. 57 sgg.). 2. Lo stesso che affermativo. In questo senso il termine ricorre in locuzioni come « dichiarazioni P.» o « notizie P.» o anche per designare dottrine che caratterizzano i loro oggetti con affermazioni, anzichè con negazioni; per es., «teologia P.» in contrasto con teologia negativa; «esistenzialismo P.»+; ecc. 3. Lo stesso che positivista, nel senso in cui da Comte in poi si dice « filosofi positivi ». POSIZIONE (gr. Otorc; lat. Positio; inglese Posit; franc. Position; ted. Setzung, Position). 1. Assunzione non dimostrata: 1° della pre- messa di un ragionamento; 2° dell’esistenza di qualcosa. 1° Nel primo senso il termine viene costante- mente usato da Aristotele (cfr. An. Post., I, 2, POSSIBILE 72a 15)e in tutta la tradizione logica anche recente, nella quale viene talora esplicitamente ridefinito (cfr. H. REICHENBACH, The Rise of Scientific Phi- losophy, 1951, pag. 240). 2° Kant distinse per la prima volta la P. relativa che è il riconoscimento dell’essere  predicativo, cioè dell’essere espresso dalla copula, che pone in relazione due determinazioni di una cosa, dalla P. assoluta che è il riconoscimento dell’esistenza della cosa stessa. «In un esistente, diceva Kant, non è posto nulla più che nel puro possibile (si tratta infatti dei predicati di essa); ma attraverso un esistente è posto qualcosa in più che un puro possibile perchè si tratta della P. assoluta della cosa stessa » (Der einzig méògliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 1763, $ 3). Per Kant la P. è il riconoscimento (empirico) di una esistenza; nell’idealismo romantico, a partire da Fichte, la P. fu intesa come creazione. Dice Fichte: « Ciò il cui essere (o essenza) consiste solamente in questo, che esso pone se stesso come esistente, è I’Io come assoluto soggetto. In quanto esso si pone, è; ed in quanto è, si pone » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 1). Il concetto di P. in questo senso non si distingue da quello di creazione. Torna a distin- guersi da esso l’uso che invece ne ha fatto Husserl, che ha visto nella P. l'affermazione dell’esistenza del- l'oggetto intenzionale. Egli ha distinto la P. attuale che si ha quando l’oggetto intenzionale è presente, dalla P. porenziale che si ha quando non lo è (Ideen, I, $ 113). Husserl usa anche il termine posizionalità (tedesco Positionalitàt) per indicare in generale il ca- rattere, comune a tutte le esperienze vissute, di porre l'oggetto intenzionale (come esistente o come desi- derato o come voluto, ecc.). Talvolta sono chia- mati P. gli stessi oggetti fisici in quanto non defini- bili in termini di esperienza ma riconosciuti esistenti solo come utili intermediari tra l’esperienza e il lin- guaggio (QuINE, From a Logical Point of View, II, 6). 2. Nella logica terministica medievale una ob- bligazione (v.) e precisamente quella che consiste nell’obbligo di sostenere una proposizione come vera (OckHam, Summa Log., III, III, 40). POSSESSO (ingl. Possession; franc. Possession; ted. Besirz). 1. Una qualche garanzia della possi- bilità di disposizione e d’uso di una cosa. Questo è il concetto di Kant: « Ciò che è giuridicamente mio (mem juris) è ciò con cui io sono così legato che l’uso che un altro potrebbe farne senza il mio consenso mi danneggerebbe. Il P. è la condizione soggettiva della possibilità dell’uso in generale» (Met. der Sitten, I, $ 1). La nozione di P. riguarda pertanto il rapporto tra l’uomo e le cose ed esprime una certa garanzia (che può avere significati e limiti diversissimi) della possibilità d’uso che un individuo determinato ha nei confronti di una cosa 683 determinata. Solo impropriamente la nozione di P. viene riferita ai rapporti tra le persone. 2. Nel significato più generale, il termine de- signa qualsiasi relazione predicativa e esistenziale; e si dice, per es., «La cosa x possiede la qualità a » o «L'oggetto x possiede l’esistenza ». In questo senso l’uso del termine corrisponde a quello che Aristotele ne fece contrapponendolo a privazione (cfr. Met., X, 4, 1055a 33) (v. PRIVAZIONE). POSSIBILE (gr. cò Suvaréy; lat. Possibilis; in- glese Possible; franc. Possible; ted. Moglich). Ciò che può essere o non essere. Questa definizione nominale è abitualmente presupposta dalle definizioni con- cettuali che sono state date del termine, ma solo queste ultime consentono la trattazione dei pro- blemi propri della nozione. Le definizioni concettuali di possibile possono essere: A) definizioni negative, di natura logica; 8) definizioni positive. A loro volta quest'ultime possono essere: 1° definizioni della possibilità reale; 2° definizioni della possibilità oggettiva. Le tre classi di definizioni che così risul- tano corrispondono quasi perfettamente alle tre specie del P. distinte da Aristotele nella metafisica: « Il P. significa: 1° ciò che non è di necessità falso; 2° ciò che è vero; 3° ciò che può essere vero » (Mer., V, 12, 1019b 30). 1° Le definizioni negative del P. sono di natura

logica e definiscono il P. come ciò che non è neces- sariamente falso o non include contraddizione. Nel primo senso, definiva il P. Aristotele nel passo citato. Questo concetto è rimasto nella tradizione filosofica, sotto la denominazione di «P. /ogico» distinto dal «P. reale». S. Tommaso lo chiama «P. assoluto» e dice che risulta ex habitudine terminorum cioè dalla non ripugnanza del predicato col soggetto (S. 7h., I, q. 25, a. 3); Duns Scoto lo chiama P. logico e lo ritiene proprio della « compo- sizione dell’intelletto » in quanto i termini di essa non includono contraddizione (Op. Ox., I, d.2, q. 6, a. 2, n. 10). Ockham ritiene che il P. in questo senso non è altro che il non-impossibile (Summa Log., II, 25). Fu questo il concetto su cui insistette Leibniz: «Quando vi dico che c’è un'infinità di mondi P., intendo che non implichino contraddi- zioni, così come si possono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia possibili. Per essere P., basta che una cosa sia intelligibile » (Lettera a Bourguet, 1712, in Op., ed. Gerhardt, III, pag. 558). Leibniz distingueva il P. in questo senso dal compossibile (v.) che è la possibilità oggettiva. La nozione di P. in questo senso rimane fissata nella scuola wolffiana (WoLFF, Ontolog., $ 85; Crusius, Vernunftwahrheîten, $ 56; LAMBERT, Dianoiologie, $ 39); e contro di essa, che tuttavia riconosceva valida nei suoi limiti, Kant affermava la nozione di possibilità oggettiva (Der einzig mogliche 684 Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, 1763, II, 1). I due teoremi fondamentali propri di questa nozione del P. sono i seguenti: I) la riduzione del P. al non-impossibile; II l’inferenza del P. dal necessario, nel senso che ciò che è necessario deve essere possibile. Sono due teoremi stretta- mente connessi tra loro. Aristotele li espresse per la prima volta nella famosa trattazione del P. che ricorre nel De interpretatione. Il necessario deve essere P., ragionò Aristotele, perchè, se non fosse P., sarebbe impossibile: il che è contraddittorio (De Interpr., 13, 22b 28 sgg.). L’identificazione di P. con non-impossibile è già chiara in questo ragionamento; ma ad ogni modo è resa esplicita da Aristotele. Il quale osserva che sia nel caso di possibilità appartenenti a enti immutabili, sia nel caso di possibilità appartenenti a enti mutevoli è sempre vera la proposizione « non è impossibile che sia » (De Int., 13, 23 a 13). La stessa dottrina veniva ripetuta da S. Tommaso con l’esplicita limitazione al P. logico (Contra Gent., III, 86). E gli stessi teoremi ricorrono nelle dottrine contemporanee sul possibile. Peirce dice: « È essenzialmente o logica- mente P. ciò che una persona che non conosce fatti ma è a giorno del ragionamento e ha familiari

le parole che esso comprende, è incapace di dichia- rare falso » (Coll. Pap., 4, 67). Qui la nozione di falso ha sostituito quella di contraddittorio ma il P. viene sempre ridotto a ciò che non è falso. Carnap a sua volta definisce il P. come il « non impossibile » (Meaning and Necessity, $ 39-3). E tale definizione è quella più frequentemente seguita nella logica contemporanea. Ovviamente, pertanto, la nozione del P. in questo senso implica un concetto ben definito della impossibilità, cioè della contraddi- zione o falsità logica. Ma questo concetto non sembra a disposizione dei logici, stante il loro disaccordo sulla nozione contraria e complementare a quella di impossibilità, cioè sulla nozione di necessità (v.). Ovviamente da questo punto di vista l’opposto del possibile è l’impossibile. 2° La definizione del P. come possibilità reale è quella che identifica il P. stesso col potenziale (v.), e che vede nel potenziale ciò che è destinato infalli- bilmente a realizzarsi. Fu per questa interpretazione che Diodoro Crono, il famoso filosofo di Megara, af- fermava, con l'argomento vittorioso (v.), che tutto ciò che è P. si realizza e che ciò che non si realizza non è P. (ARIST., Mer., 9, 3, 1046 b 29 sgg.; EPITTETO, Diss., II, 19, 1; CicERONE, De Fato, 6 sgg.). Diodoro Crono derivava da questo principio la tesi della necessità di tutto ciò che è: nulla di ciò che è stato, è o sarà, ha potuto, può o potrà essere diverso da come è stato, è o sarà. Ma lo stesso Aristotele, che combatteva la tesi di Diodoro Crono facendo leva POSSIBILE sugli altri significati di P., ammetteva talora il teorema fondamentale proprio di questa concezione della possibilità: « Non può esser vero che qualcosa è P. ma non sarà; giacchè in tal caso non vi sarebbero impossibilità » (Mer., IX, 4, 1047 b 3). Questa concezione del P. fu fatta propria dalla Scolastica araba a partire da Avicenna. La divisione di Avi- cenna tra l’essere necessario e l’essere P. è infatti la divisione tra ciò che deriva il suo essere da se stesso (e questo è Dio) e ciò che deriva il suo es- sere da altro (e queste sono le cose create). Ciò che è P., da questo punto di vista, è tale finchè non è nulla; appena comincia ad essere, questo è segno che sono presenti futte le condizioni o le cause del suo essere ed esso è diventato necessario: s'intende, necessario per altro (Met., II, 1-2; ALGAZEL, Mer., I, 8; ecc.). Questo «necessario per altro » era il contingente (v.). Questa dottrina è stata molte volte ripetuta nella storia della filosofia. Una delle sue migliori espres- sioni fu data da Hobbes: «È impossibile l’atto per la cui produzione non ci sarà mai una potenza piena. Poichè la potenza piena è quella nella quale concorrono tutte le condizioni che si richiedono per produrre l’atto, se non ci sarà mai la potenza piena, mancherà sempre qualcuna delle condizioni senza le quali l’atto non può prodursi: sicchè questo atto non potrà mai prodursi, cioè sarà un atto impossibile. L'atto che non è impossibile, è possi- bile. Perciò ogni atto P. deve verificarsi ogni tanto: se non si verificasse mai, mai concorrerebbero tutte le condizioni che si richiedono alla produzione di esso e sarebbe quindi, per definizione, un atto im- possibile, il che è contro l'ipotesi» (De Corp., 10, $ 4). Questa elaborazione del concetto di P. non è che la ripetizione dell'argomento vittorioso di Dio- doro Crono: argomento che ricorre ogni volta che si riduce il P. a una pofenzialità cui debbano essere presenti tutte le condizioni di realizzazione e che perciò è destinata infallibilmente a realizzarsi. Questo è il concetto che del P. aveva Hegel: il quale distingueva dalla mera possibilità, che è «la vuota astrazione della riflessione in sè » cioè una semplice rappresentazione soggettiva, la possibilità reale che si ha quando si danno tutte le condizioni di una cosa sicchè la cosa deve diventare reale: possibilità reale che, come è ovvio, non si di- stingue dalla necessità (Enc., $ 147). La nozione della possibilità reale in questo senso è spesso ado- perata dai seguaci di Hegel, sia idealisti che marxisti. Spesso questa nozione è stata adoperata per desi- gnare la predeterminazione degli eventi storici nelle loro condizioni e quindi per fondare la possi- bilità di una previsione infallibile dei futuri sviluppi della storia. Così ha usato il concetto G. Lukàcs (Geschichte und Klassenbewusstsein, 1923; tradu- POSSIBILE zione francese, 1960, pag. 104 sgg.). Nello stesso significato di potenzialità il concetto viene assunto in un libro di S. Buchanan nel quale la possi- bilità è definita come «l’idea regolativa per l’ana- lisi del tutto nelle sue parti » e le parti sono defi- nite come «le potenzialità del tutto » (Possibility, 1927, pag. 81 sgg.). Infine, l’ultima illustrazione di questo concetto è la cosiddetta «legge modale fondamentale» di N. Hartmann, che comprende le sei tesi seguenti: « 1° ciò che è realmente P. è anche realmente effet- tuale; 2° ciò che è realmente effettuale è anche realmente necessario; 3° ciò che è realmente P. è anche realmente necessario e reciprocamente; 4° ciò il cui non essere è realmente P. è anche real- mente ineffettuale; 5° ciò che è realmente ineffettuale è anche realmente impossibile; 6° ciò il cui non essere è realmente possibile è anche realmente impossibile + (Moglichkeit und Wirklichkeit, 1938, pag. 126). Queste tesi non sono altro che la riduzione esplicita del concetto di possibilità reale al concetto di necessità: riduzione contro la quale veramente non si saprebbe trovare alcuna obiezione. Fa parte di questa nozione del P. la riduzione del concetto di P. o all’ignoranza o ad un fantasti- care post factum. La prima via fu seguita da Spinoza: « Chiamo P., le cose singolari, egli disse, in quanto, considerando le cause da cui debbono essere prodotte, ignoriamo se esse siano determinate a produrle » (Et., IV, def. 4; Cogit. Met., I, 3). La seconda via è quella tenuta da Bergson: «Il P. è il miraggio del presente nel passato; e giacchè sappiamo che l’avvenire finirà per farsi presente e l’effetto del miraggio continua a prodursi, noi diciamo che nel nostro presente attuale, che sarà il passato di domani, l’immagine del domani è già contenuta, sebbene non arriviamo ad attin- gerla. Qui sta precisamente l’illusione + (« Le pos- sible et le réel», 1930, in La pensée et le mouvant, 38 ediz., 1934, pag. 128). Secondo questo concetto, l’opposto del P. è il reale o attuale. 3° Il terzo concetto del P. è quello della pos- sibilità oggettiva, che risale a Platone. La possi- bilità di agire o di subire un’azione fu da Platone assunta come la stessa definizione dell’essere in generale (v. EsseRE) contro i materialisti da un lato e gli idealisti dall’altro. « Dico che esiste tutto ciò che ha per natura la possibilità di fare una cosa qualunque o di subire un’azione (e sia pure tutto ciò in misura piccolissima e per una volta sola e rispetto alla cosa più insignificante). E pongo perciò questa definizione: gli enti non sono altro che possibilità » (Sof., 247 e). Aristotele definiva la possibilità in questo senso come «ciò che può essere vero + (Mer., V, 12, 1019b 32). E S. Tom- maso difendeva questa possibilità contro il neces- 685 sitarismo arabo: « Il P. o contingente che si oppone al necessario ha questo nel suo concetto, che non deve realizzarsi necessariamente quando non è: giacchè esso non segue necessariamente dalla sua causa +» (Contra Gent., III, 86). Ockham includeva lo stesso concetto tra i significati del termine P., come « ciò che non è in atto e tuttavia può essere » o che « non è nè necessario nè impossibile » (Summa Log., II, 25). Il concetto leibniziano del compossi- bile (v.) non è che un’altra espressione di questa stessa nozione della possibilità, la quale veniva difesa da Kant fin dal periodo precritico, quando mostrava, in contrasto con la scuola wolffiana, l’insufficienza del concetto di possibilità logica. « Che vi sia una possibilità e che tuttavia non vi sia nulla di reale, è contraddittorio, osservava Kant; giacchè, se non esiste nulla, neppure è dato nulla che sia pensabile e ci si contraddice se ancora si vuole che ci sia qualcosa di P. » (Der einzig mògliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes, I, 2, 2). O, in altri termini, « col togliere il materiale e i dati a ogni P., viene anche negata ogni possibilità » (/bid., I, 2, 3). Kant sembra qui negare perfino la legittimità della nozione di P. logico. Altrove, ammette anche questa possibilità: « Il con- cetto è P. tutte le volte che non si contraddice. Questo è il carattere logico della possibilità e con ciò il suo oggetto è distinto dal niki! negativum. Ma esso non può essere un concetto vuoto... Questo è un ammonimento a non conchiudere senz'altro dalla possibilità (/ogica) dei concetti alla possibilità (reale) delle cose (Crit. R. Pura, Dialettica, II, cap. 3, sez. 4, nota [A 597, B 625]). La possibilità oggettiva o reale è dunque fondata sui dati della esperienza ed è una possibilità che l’esperienza sola, e non già il semplice concetto, autorizza ad ammettere. Non si tratta tuttavia di una possibi- lità reale nel senso di cui al 2° cioè di una poten- zialità destinata infallibilmente a realizzarsi: «Le proposizioni che le cose possono essere P. senza essere reali e che perciò non si possa concludere dalla possibilità alla realtà, valgono giustamente per la ragione umana» (Crif. del Giud., $ 76). Kant chiama reale o trascendentale la possibilità che si fonda sui dati dell’esperienza ma non la identifica con la necessità: essa significa solo che al concetto può corrispondere un oggetto (Critica R. Pura, Analitica dei Princ., cap. III [A 244, B 303)). Se Kant insisteva sulla connessione del P. og- gettivo con l’esperienza, Kierkegaard insisteva, in polemica con Hegel, sull’indeterminazione del P. stesso. Rispondendo negativamente alla domanda se il passato sia più necessario dell’avvenire, Kierke- gaard afferma che il P. non diventa necessario per il fatto che si realizza, ma rimane P.: «Il passato 686 non è necessario nel momento in cui diviene; non è divenuto necessario divenendo (che sarebbe una contraddizione); e lo diviene ancora meno attra- verso l’intendimento della persona ». In questo caso infatti il passato guadagnerebbe ciò che l’intelletto perderebbe: cioè non sarebbe inteso per quello che è, ma per un’altra cosa (Philosophische Brocken, IV, Intermezzo, $ 4; trad. franc. pag. 162 sgg.). L’in- tera speculazione di Kierkegaard è fondata su questa nozione della possibilità oggettiva e inde- terminata, mediante la quale egli illustra le nozioni di angoscia (v.) e di disperazione (v.). Talvolta tut- tavia lo stesso Kierkegaard fa uso di espressioni che non sono rigorosamente compatibili con l’in- determinazione oggettiva delle possibilità, come, ad es., «Ogni cosa è P.» o «tutte le possibilità ». Considerando le possibilità come infinite si viene ad escludere la loro indeterminazione e limitazione: difatti ciò che manca a una di esse per realizzarsi infallibilmente può essere sopperito dalle altre, se sono infinite; e le possibilità si trasformano allora in potenzialità necessarie. Nella filosofia contemporanea tuttavia il concetto di possibilità oggettiva viene inteso nel suo senso empiricamente determinato e finito. Peirce parla di « possibilità sostanziali » (in opposizione alle possi- bilità logiche) come quelle che sono fondate su informazioni che concernono i fatti e le loro leggi; e ritiene che tali possibilità coinciderebbero con la necessità solo nell'ipotesi di un’informazione onni- sciente (Coll. Pap., 4.67). Dewey intende la possi- bilità, nell’ambito della matematica e in generale della ricerca scientifica, come possibilità di operazioni o di trasformazioni (Logic, XV e XX, 3). Witt- genstein afferma che la possibilità è ciò che viene espresso da una proposizione sensata; in quanto questa è distinta dalla tautologia, la proposizione della logica o della matematica, che «non dice nulla », e dalla contraddizione (Tractatus, 5.525). In altri termini, la proposizione sensata non è altro, per Wittgenstein, che l’espressione della possibilità di un fatto. Lukasiewicz e Tarski hanno formulato i principi di una logica del P., diretta a evitare il determinismo (vedi i testi citati in TERZO ESCLUSO, PrincIPIO DEL). Reichenbach ha a sua volta distinto, dalla possibilità logica, la possibilità fisica e la possibilità tecnica: la prima significa qualcosa che non contraddice alle leggi empiriche e la seconda qualcosa che è dentro il regno dei metodi pratici conosciuti (« Verifiability Theory of Meaning », in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1951 [80°], pag. 53). Egli ha inoltre posto la possibilità fisica a fondamento della probabilità (Theory of Probability, $ 74). Ma è chiaro che questo punto di vista può essere generalizzato e che una possibilità oggettiva può essere individuata POSSIBILE soltanto in un particolare contesto, cioè sulla base delle condizioni o delle regole che vigono in un campo determinato. Ad es., per ciò che riguarda l’uomo, la possibilità fisica che egli ha di effettuare un’azione determinata non coincide necessariamente con le possibilità giuridiche o morali che gli sono offerte dal sistema sociale in cui vive. Molte possibilità che il suo organismo fisico gli consente di mandare ad effetto gli sono precluse dalle regole giuridico-morali. Per ogni possibilità oggettiva, quindi, è indispensabile il riferimento a un contesto di condizioni e di regole tecniche de- terminate e non si può parlare di possibilità senza specificare questo contesto se non dando luogo ad equivoci. Lo stesso vale, del resto, anche nel do- minio delle scienze: una possibilità logico-matema- tica non sempre è una possibilità fisica cioè tale che può essere mandata ad effetto in base alle leggi della fisica, e via dicendo (cfr. J. R. Lucas, The Concept of Probability, 1970, pag. 6 e passim). Nel campo della metodologia storiografica, la nozione di possibilità oggettiva fu chiarita indi- spensabile da Max Weber (Kritische Studien auf den Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; cfr. specialmente la seconda parte; trad. ingl., in The Methodology of the Social Sciences, pag. 164sgg.; trad. ital., in Z/ metodo delle scienze storico-sociali, pag. 207 sgg.); e viene adoperata anche nelle più recenti trattazioni (ad es., W. Dray, Laws and Explanation in History, 1957, VI, 3; cfr. STORIA; STORIOGRAFIA). Nel campo delle scienze biologiche la nozione è stata utilizzata da Goldstein (Der Aufbau des Organismus, 1934; trad. franc., 1951); e tende ad essere utilizzata nel dominio psichiatrico (cfr., ad es., M. TORRE, « La categoria del possibile in psicopatologia », in Note e Riviste di psichiatria, 1957). Inoltre la genetica e la teoria dell'evoluzione fa un uso continuo di questo concetto designandolo talvolta con altro nome (per es., con il nome di opportunità; cfr. G. Simpson, The Meaning of Evo- lution, cap. XII, « The Opportunism of Evolution »). Nella psicologia del comportamento il concetto è stato usato per definire la stessa nozione di cosa (v.). Nella sociologia, i concetti che implicitamente o esplicitamente fanno ricorso alla nozione del P. sono i più numerosi. Lévy-Bruhl ha parlato del «limite del P.» come costitutivo dell’esperienza razionale, perciò come deficiente o assente nella mentalità primitiva (Les cernets, 1949; trad. ital., pag. 98 sgg.). L’intera teoria della probabilità, comunque venga interpretata, assume a suo fon- damento questa stessa nozione del P. (cfr., ad es., REICHENBACH, Theory of Probability, $ 74; e Popper, che parla della probabilità come di un « vettore nello spazio delle possibilità »; v. PROBABILITÀ). Infine è quasi superfluo ricordare l’importanza che POTENZA la nozione di possibilità oggettiva ha per la filosofia esistenzialistica che trova in essa il suo principale strumento di analisi (v. EsISTENZIALISMO). È chiaro che secondo questa terza interpretazione l'opposto del P. non è l’impossibile ma il non-possibile. POSSIBILITÀ. V. PossIsiLe. POST HOC ERGO PROPTER HOC. Ce- lebre fallacia (v.), costituente un caso particolare della fallacia non causa pro causa (cfr. ARISTOTELE, Soph. El., 5, 167 b), la quale consiste nello stabilire una connessione causale, quindi necessaria, sulla base di una connessione meramente accidentale o secondaria. Nel caso del post hoc ergo propter hoc, il sofisma consiste nello stabilire, per il semplice fatto che B viene dopo A, una connessione di causa ed effetto tra A e B. G.P. POSTPREDICAMENTII (gr. pera tds xamr-

voplas; lat. Postpredicamenta; ingl. Postpredica- ments; franc. Post-prédicaments; ted. Postpràdika- mente). Con questo termine cominciarono ad essere chiamati dai commentatori di Aristotele (per es., da Filopono, vi secolo, In Car., 39a, 33) quei concetti che Aristotele annunziò dopo le categorie nel libro che a queste s'intitola e cioè quelli di opposizione (oppositio) di priorità (prius), di si- multaneità (simul), di movimento (motus) e di avere (habere) (Cat., 10-15). Per tali concetti vedi le relative voci. POSTULATO (gr. attua; lat. Postularum; ingl. Postulate; franc. Postulat; ted. Postulat). In generale una proposizione la quale si ammette, o si chiede che sia ammessa, allo scopo di rendere possibile una dimostrazione o un procedimento qualsiasi. Il termine è nato nelle matematiche ed è stato illustrato da Aristotele correlativamente a quello di assioma (v.). Mentre gli assiomi sono di per sè evidenti e vanno ammessi necessariamente pur non essendo dimostrabili, il P., pur essendo dimostrabile, viene assunto e utilizzato senza di- mostrazione. Il P. inoltre è una proposizione che non è già ammessa o creduta da colui al quale si rivolge (altrimenti sarebbe inutile chiedergli di am- metterla); ed in questo differisce dall’iporesi (v.) che è anch’essa una proposizione dimostrabile, non dimostrata, ma ritenuta vera da colui al quale il discorso si rivolge (An. Post., 10, 76b 24 sgg.). La distinzione tra assiomi e P. fu fatta propria da Euclide nei suoi Elementi: mentre gli assiomi esprimono verità evidenti e sono chiamati da Eu- clide nozioni comuni, i P. esprimono ciò che si richiede di ammettere e concernono l’esistenza di determinati elementi geometrici. La distinzione tra P. e assioma è venuta meno nella logica e nella matematica moderna (v. ASSIOMATICA). Kant chiamò « P. del pensiero empirico » i prin- cipi a priori corrispondenti alle categorie della mo- 687 dalità, secondo i quali ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (intuizioni pure e categorie) è possibile; ciò che si accorda con le condizioni materiali dell’esperienza (con le sensa- zioni) è reale; e ciò la cui connessione con la realtà è determinata secondo le condizioni universali del- l’esperienza è o esiste necessariamente (Cri?. R. Pura, Analitica dei principi, cap. II, sez. III, 4). Chiamò poi «P. della ragione pratica» le condizioni che ren- dono possibile la moralità, cioè la libertà, l’immor- talità e l’esistenza di Dio (Crit. R. Pratica, Dialet- tica, sez. II). POTENZA (gr. Sévapis; lat. Porentia; inglese Power; franc. Puissance; ted. Vermògen). 1. In generale il principio, o la possibilità, di un muta- mento qualsiasi. Questa fu la definizione data da Aristotele del termine. Aristotele stesso distinse questo significato fondamentale in vari significati specifici e precisamente: a) la capacità di effettuare un mutamento in altro o in se stesso, che è la P. attiva; b) la capacità di subire un mutamento, da altro o da se stesso, che è la P. passiva; c) la capacità di mutare o essere mutato in meglio piut- tosto che in peggio; d) la capacità di resistere a qualsiasi mutamento (Mer., V, 12, 1019 a 15; IX, 1, 1046 a 4). Queste distinzioni sono rimaste pressochè immutate nella tradizione filosofica (v. ATTO). L’in- tera tradizione medievale le ha ripetute senza va- riazioni e ancora nel sec. xv Wolff le ripeteva in formule epigrafiche che nulla mutano ai vecchi concetti (Ontologia, 1729, $ 716). Locke stesso, nella sua analisi famosa della nozione, non ne aveva alterato il concetto (Saggio, II, 21, 1). Il concetto implica tuttavia un’ambiguità fonda- mentale perchè può essere inteso: A) come possi- bilità; B) come preformazione e quindi predeter- minazione o preesistenza dell’attuale. In Aristotele e in tutti coloro che si rifanno alla metafisica ari- stotelica i due significati sono entrambi presenti e vengono spesso confusi. Così quando Aristotele difende il concetto della potenza contro la nega- zione che ne aveva fatto Diodoro Crono (v. Pos- SIBILITÀ), intende la P. nel senso A); mentre quando afferma « che non può essere vero dire che qualcosa è possibile ma non sarà» (Mer., IX, 4, 1047 b 3); o quando afferma la superiorità del- l’atto sulla P. in base al principio che, senza l’atto, la P. non sarebbe (non ci sarebbe l’uovo senza la gallina), egli intende la P. come preformazione e predeterminazione e la considera come un modo d'essere diminuito o preparatorio dell'atto (/bid., IX, 8, 1049 b 4). Una confusione analoga si trova nel saggio di Bergson «Il possibile e il reale» (1930), giacchè in esso Bergson, respingendo il concetto di possibile come « non impossibile » cioè come « non impedito ad essere » lo identifica invece 688 con quello di potenziale e considera il potenziale come «il miraggio del presente nel passato » (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 128-30). Poichè il concetto di potenziale fa costantemente riferimento all'attualità o realtà, mentre quello di possibile non ha necessariamente questo riferi- mento, le nozioni di preformazione, preesistenza e predeterminazione possono essere considerate stret- tamente connesse con quella di potenza. 2. Facoltà o potere dell’anima (v. FACOLTÀ). 3. Dominio o predominio, come nell’espressione «volontà di P.». POTENZIAMENTO, LOGICA DEL. Un tentativo di logica simbolica consistente nell’elimi- nazione delle leggi di tautologia e di assorbimento e nell’introduzione dei simboli di potenza e di coef- ficiente. Questo tipo di logica dovrebbe fondarsi sul principio che ogni relazione modifica gli enti rela- tivi: principio che è il contrario di quello solitamente ammesso dalla logica simbolica contemporanea (cfr. P. Mosso, Principi di logica del P., Torino, 1924; A. PASTORE, La logica del P., Napoli, 1936). POTERI DELLO STATO. V. Srato. PRAGMATICA (ingl. Pragmatics; franc. Prag- matique; ted. Pragmatik). Una delle parti della semiotica (v.) e precisamente quella che comprende l'insieme delle ricerche che hanno per oggetto la relazione dei segni con gli interpreti, cioè la situa- zione in cui il segno viene usato. Su questo aspetto della semiotica avevano già insistito C. S. Peirce e Ogden e Richards; ma è stato soprattutto Morris a considerare la P. come parte integrante della semiotica; e il punto di vista di Morris è largamente accettato nella logica contemporanea (cfr. C. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, 1938, cap. V; CARNAP, Foundations of Logic and Mathematics, 1939, $ 2). Le altre parti della semiotica sono la semantica e la sintassi (v.). PRAGMATICO (gr. rpaypatiw6c; ingl. Pragma- tic; franc. Pragmatique; ted. Pragmatisch). L'agget- tivo fu usato per la prima volta da Polibio che distinse nettamente la storia « P.», che si occupa di fatti, dalla storia che si occupa di leggende, come fa quella che parla della genealogia delle famiglie e della fon- dazione delle città (IX, 1, 4). Polibio aggiunge pure che la storia P. è la più utile a insegnare come l’uomo debba regolarsi nella vita associata. L'agget- tivo ha poi avuto un uso frequente nella storia poli- tica specialmente tedesca, a proposito di decisioni costituzionali delle quali si voleva sottolineare il carattere meritorio e che perciò erano dette «sanzioni P.+. Kant diceva: «Si chiamano P. le sanzioni che non derivano propriamente dai diritti degli stati considerati come leggi necessarie ma da sollecitudine per il benessere generale. Una storia è composta pragmaticamente quando rende POTENZIAMENTO, LOGICA DEL prudenti cioè quando insegna alla società di oggi come possa procurarsi il proprio vantaggio meglio o almeno altrettanto bene della società di ieri» (Grundlegune zur Metaphysik der Sitten, II, Nota). A sua volta Kant chiama P. gli imperativi ipotetici della prudenza, che hanno in vista il benessere (Ibid., JI, Nota). Chiama P. la fede che è fondata su un giudizio soggettivo della situazione, per es., quella di un medico che non conosce bene la malattia che deve curare (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. 2, sez. 3). E chiama P. la sua antropologia in quanto considera non ciò che l’uomo è per natura, ma ciò che l’uomo stesso fa di sè (Antr., Pref.). Nel linguaggio contemporaneo la parola ha ripreso il suo senso originario. Quando non si rife- risce a pragmatismo, designa semplicemente ciò che è azione o appartiene all’azione. PRAGMATISMO (ingl. Pragmatism, Pragma- ticism; franc. Pragmatisme; ted. Pragmatismus). 11 termine venne introdotto in filosofia nel 1898 da una relazione di W. James alla California Union nella quale James si riferiva alla dottrina esposta da Peirce in un saggio del 1878 intitolato « Come render chiare le nostre idee ». Alcuni anni più tardi Peirce dichiarava di avere inventato il nome P. per la teoria che «una concezione, cioè il significato razio- nale di una parola o di altra espressione, consiste esclusivamente nella sua portata concepibile sulla condotta della vita»; e di aver preferito questo nome a praticismo o praticalismo perchè questi ultimi, per chi conosce il senso che la filosofia kantiana attribuisce a « pratico +, fanno riferimento al mondo morale dove non ha luogo l’esperimento, mentre la dottrina proposta è per l’appunto una dottrina sperimentalistica. Tuttavia nello stesso arti- colo Peirce dichiarava che, di fronte all'estensione di significato che il P. aveva ricevuto ad opera di W. James e di F. C. S. Schiller, preferiva il termine pragmaticismo per indicare la sua propria conce- zione, strettamente metodologica, del P. (« What Pragmatism Is +, The Monist, 1905; Coll. Pap. 5. 411-37). Lo stesso Peirce veniva in tal modo a distinguere due versioni fondamentali del P. che possono essere così caratterizzate: 1° un P. meto- dologico che è sostanzialmente una teoria del signi- ficato; 2° un P. metafisico che è una teoria della verità e della realtà. 1° Il P. metodologico non intende definire la verità o la realtà ma soltanto una procedura per determinare il significato dei termini o meglio delle proposizioni. Diceva Peirce nell’articolo del 1878 che solitamente si assume come la data di nascita del P.: « È impossibile avere nella mente un’idea che si riferisca ad altro che agli effetti sensibili delle cose. La nostra idea di un oggetto è l’idea dei suoi effetti sensibili... Sicchè la regola per PRAGMATISMO raggiungere l’ultimo grado di chiarezza nell’ap- prensione delle idee è la seguente: Considerare quali sono gli effetti, i quali possono concepibil- mente aver portata pratica, che l’oggetto della nostra concezione pensiamo che abbia. La concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’og- getto » (Chance, Love and Logic, 1, 2,$3; Coll. Pap., 5.401-2). Il principio da cui discende questa regola metodologica è che « l’intera funzione del pensiero è quella di produrre abiti di azione » cioè credenze. La regola proposta da Peirce era pertanto suggerita dall’esigenza di trovare un procedimento sperimen- tale o scientifico per fissare le credenze; intendendo per procedimento scientifico o sperimentale quello che non fa ricorso al metodo dell'autorità o al me- todo a priori (Ibid., I, 1, $ 2, pag. 9 sgg.). Allo stesso tipo di P. si può dire appartenga quello di Dewey che, per evitare ogni equivoco, preferì il termine strumentalismo (v.). «L'essenza dello strumenta- lismo pragmatico, egli scrisse, è quella di concepire sia la conoscenza sia la pratica come mezzi per rendere sicuri, nell'esistenza sperimentata, i beni, cioè le cose eccellenti di qualsiasi specie» (7he Quest for Certainty, 1929, pag. 37). Da questo punto di vista Dewey condivideva lo sperimentali- smo di Peirce perchè riteneva che « la sperimenta- zione entra nella determinazione di ogni proposi- zione garantita » (Logic, 1939, pag. 461); e metteva in luce il carattere strumentale od operativo di tutti i procedimenti del conoscere, considerati come mezzi per passare da una situazione indeterminata a una situazione determinata cioè nello stesso tempo distinta e unificata (Logic, cap. VI). Sono pertanto abbastanza ovvie le parentele strettissime di questo tipo di P. da un lato con la metodologia scientifica contemporanea e in particolare con l’operazio- nismo (v.) e dall’altro lato con le impostazioni fon- damentali della logica simbolica. Su quest’ultimo aspetto, insistettero i pragmatisti italiani Giovanni Vailati e Mario Calderoni. Il primo osservava a questo proposito che il fondamentale punto di contatto tra logica e P. «sta nella loro comune tendenza a riguardare il valore, e il significato stesso, di un’asserzione come qualche cosa di inti- mamente connesso all'impiego che si può o si desi- dera farne per la deduzione e la costruzione di determinate conseguenze o gruppi di conseguenze » (« Pragmatismo e logica matematica » 1906, in // me- todo della filosofia, pag. 198). Queste parole defi- niscono bene il carattere funzionale del P. di ispi- razione metodologica. 2° La concezione del P. metafisico è quella di W. James e di F. C. S. Schiller e le sue tesi fonda- mentali consistono nel ridurre la verità a utilità e la realtà a spirito. La seconda di queste tesi, il P. metafisico la condivise con buona parte della filo- 44 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 689 sofia contemporanea; e James stesso riconobbe e vantò l’accordo sostanziale della sua filosofia con quella degli spiritualisti francesi e specialmente di Bergson. La prima tesi è quella caratteristica di questa forma di pragmatismo. Il suo presupposto è il principio che essa ha in comune col P. meto- dologico: la strumentalità del conoscere. Ma questo presupposto viene inteso e realizzato da essa in forma totalmente diversa. In primo luogo, essa cerca di mettere in luce la dipendenza di tutti gli aspetti della conoscenza (o del pensiero) dalle esi- genze dell’azione e pertanto dalle emozioni in cui tali esigenze si concretano. Anche la « razionalità » è, secondo James, una specie di sentimento (« Il sen- timento della razionalità » in The Will to Believe, 1897). Da questo punto di vista, le azioni e i desideri umani condizionano la verità: ogni tipo di verità, anche quella scientifica. Pertanto non è legittimo, da questo punto di vista, rifiutarsi di credere a dottrine che sono in grado di esercitare un’azione benefica sulla vita dell'uomo, per il fatto che queste dottrine non sono appoggiate da prove ra- zionali sufficienti. In casi come questi bisogna correre, affermava James, il rischio di credere. E F. C. S. Schiller portava alle estreme conseguenze questa dottrina riesumando il detto di Protagora «l’uomo è misura di tutte le cose» e affermando la relatività della conoscenza rispetto all’utilità per- sonale o sociale (Humanism, 1903). Mentre Schiller si fermava a questo relativismo, James dava il varco, attraverso di esso, al teismo e alle dottrine spiritua- listiche tradizionali, sul fondamento che esse sono utili all’azione e benefiche alla vita umana. E per quanto cercasse di limitare il dogmatismo di queste dottrine, insistendo $ul carattere pluralistico del- l’universo (v. PLURALISMO) e sul carattere finito della divinità (v. Dio), il P. fu per lui essenzialmente una via d’accesso alla metafisica tradizionale. Uno dei motivi che James adduceva per giustificare l’esercizio della volontà di credere è che la credenza può produrre la propria giustificazione: così ac- cade talvolta nei rapporti umani quando il credere che un tale ci sia amico, ci fa comportare amiche- volmente verso di lui e ce ne procura l'amicizia. Difficilmente si può fare un uso teologico o meta- fisico di questa proposizione; essa è tuttavia di- ventata un teorema abbastanza importante della sociologia contemporanea. Per tutto il resto, mentre il P. metodologico ha trovato la sua continuazione negli studi di logica e di metodologia e in alcune correnti del neo-empirismo, il P. gnoseologico ha confluito nelle correnti spiritualistiche (confronta H. W. ScHnemER, A History of American Phi- losophy, 2* ediz., 1957). A questo P. metafisico si riconnettono le altre manifestazioni che il P. ha avuto fuori del mondo 690 anglosassone. In primo luogo si riconnette ad esso la filosofia di Hans Vaihinger esposta nell’opera Filosofia del come se (Philosophie des Als Ob, 1911), nella quale afferma il carattere fittizio di ogni cono- scenza e il carattere biologico della preferenza ac- cordata a una conoscenza piuttosto che all’altra. Si riconnette ad esso anche il P. pluralistico di A. Aliotta (La guerra eterna e il dramma dell’esi- stenza, 1917) che ha le stesse accentuazioni spiri- tualistiche del P. di James (cfr. dell’ALIOTTA, // sa- crificio come significato del mondo, 1947). E infine ci si riconnette il fideismo pragmatistico di Michele De Unamuno quale si trova esposto nel Commento al Don Chisciotte (1905) e nel Sentimento tragico della vita (1913); e di Giuseppe Ortega y Gasset (Il tema del nostro tempo, 1923; Intorno a Galileo, 1933; Storia come sistema, 1935, ecc.); che però, soprattutto negli ultimi scritti, rivela l’influenza dell’esistenzialismo di Heidegger. PRASSIOLOGIA (ingl. Praxiology; francese Praxéologie). Termine creato da Kotarbifisky per designare «la teoria generale dell’attività efficace » che dovrebbe comprendere la totalità dei domini dell’attività utile dei soggetti agenti, dal punto di vista dell’efficacia delle loro azioni (Praxiology, An Introduction to the Science of Efficient Action, Oxford, 1965; l’opera polacca originale è del 1955). V. TECTOLOGIA. PRATICO (gr. rpaxtxéc; lat. Practicus; in- glese Practical; franc. Pratique; ted. Praktisch). In generale, ciò che è azione o concerne l’azione. Ci sono tre significati diversi: 1° ciò che dirige l’azione; 2° ciò che è traducibile in azione; 3° ciò che è razionale nell’azione. 1° Il primo significato è*quello filosofico tra- dizionale. Platone già distingueva la scienza pratica (per es., l'edilizia) che è quella «insita per sua

natura nelle azioni» da quella conoscitiva (come l’aritmetica) che è priva di riferimento all’azione (Pol., 258 d-e). Aristotele a sua volta diceva che 4 nelle scienze P. l’origine del movimento è in qualche decisione di chi agisce perchè ‘P.” e ‘ scelto * sono la stessa cosa » (Mer., VI, 1, 1025 b 22). Le scienze P. erano per Aristotele la politica, l’economia, la retorica e la scienza militare; e della politica è parte fondamentale l’etica (Ef. Nic., I, 2, 1094 b). Questo significato è rimasto uniforme nella tra- dizione filosofica. Ad es., il significato in cui S. Tommaso diceva che la teologia è parzial- mente scienza pratica (S. Th., I, q. 1, a. 4) e quello in cui Duns Scoto diceva che essa è totalmente scienza P. (Op. Ox., Prol. q. 4, n. 31) è quello tradizionale: P. è ciò che dirige l’azione. Simil- mente Wolff definiva la filosofia P. come la scienza che « dirige le azioni libere mediante re- gole generalissime» (Philos. practica, $ 3), e la PRASSIOLOGIA divideva, come Aristotele, in Etica, Economia e Politica. Questo significato prevale nell’uso filo- sofico del termine. 2° Nel secondo significato, che appartiene al linguaggio comune più che a quello filosofico, P. è ciò che è facilmente o immediatamente traduci- bile in azione, nel senso, ad es., che può aver suc- cesso 0 procurare vantaggio. In questo senso un'idea si dice « P.» perchè può avere realizzazione e può condurre al successo. Uomo P. è l’uomo che ha idee P., cioè idee facilmente realizzabili o realizza- bili con probabilità di vantaggio 0 successo. Questo significato non trova abitualmente posto nel lin- guaggio filosofico. 3° Il terzo significato è il più ristretto e fu ado- perato da Kant. Questi infatti intende per P.: « Tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà ». Ma la libertà non ha nulla a che fare con l’arbitrio animale; così «ciò che è indipendente da stimoli sensibili, quindi può esser determinato da motivi che non sono rappresentati se non dalla ragione, dicesi libero arbitrio e tutto ciò che vi si connette, o come principio o come conseguenza, è detto P. » (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. II, sez. 1). Quest'uso ristretto del termine, caratteristico di Kant, non ha avuto seguito. PRAXIS. Con questo termine (che è la tra- scrizione della parola greca che significa azione) si designa, nella terminologia marzxistica, sia l’in- sieme dei rapporti di produzione e di lavoro che costituiscono la struttura sociale, sia l’azione tra- sformatrice che l’azione rivoluzionaria deve eser- citare su tali rapporti. Marx diceva che bisogna spiegare la formazione delle idee a partire dalla « prassi materiale » e che di conseguenza le forme e i prodotti della coscienza possono essere elimi- nati non già mediante «la critica intellettuale » ma solo mediante «il rovesciamento pratico dei rap- porti sociali esistenti » (/4eologia tedesca, 2; tradu- zione ital., pag. 34) (v. MATERIALISMO STORICO). Per «rovesciamento della P.?, Engels intese la reazione dell’uomo alle condizioni materiali dell’esistenza, la sua capacità di inserirsi nei rapporti di produzione e di lavoro e di trasformarli attivamente: questa possibilità è il capovolgimento del rapporto fonda- mentale tra struttura e sovrastruttura per il quale è solo la prima (cioè la totalità dei rapporti di pro- duzione e di lavoro) che determina la seconda cioè l'insieme delle attività spirituali umane (cfr. ENGELS, Antidihring, 1878). PREAMBULA FIDEI. Così S. Tommaso chiamò l'insieme di quelle verità la cui dimostra- zione è necessaria alla fede stessa, tra le quali in primo luogo l’esistenza di Dio (In Boet. de Trinit., a. 3) (v. Dro, Prove DI; TOMISMO). PREANIMISMO. V. Animismo. PREFORMAZIONE PRECISIONE (ingl. Precision; franc. Pré- cision; ted. Pràcisione). Il procedimento per il quale si considera la singola parte di un tutto, prescin- dendo dal tutto e dalle altre parti, in modo da riu- scire a determinarla nei suoi caratteri propri. Così la P. fu definita dalla Logica di Arnauld (I, 5) che perciò la considerava come una forma particolare dell’astrazione (v.). Il risultato di questo procedimento è, ovviamente, l’esatta caratterizza- zione delle parti di un tutto; e pertanto nel linguaggio corrente, « P.» è diventato sinonimo di esattezza e « preciso » di esatto. Peirce ha parlato, nel senso proprio, di astrazione precisiva (v. ASTRAZIONE). PREDESTINAZIONE (lat. Praedestinatio; ingl. Predestination; franc. Prédestination; tedesco Pradestination). Nella teologia cristiana, è la scelta che Dio fa degli eletti cioè di coloro che si salve- ranno: scelta che, secondo Sant'Agostino, è stata fatta prima della creazione del mondo (De Prae- destinatione, 10). Per i problemi relativi, v. GRAZIA. La P. è sempre P. alla salvezza; ma è stata talora anche sostenuta (e condannata dalla Chiesa) la P. doppia cioè quella alla salvezza e alla dannazione. Tale dottrina fu sostenuta, per es., dal monaco Godescalco di Corbie e fu combattuta da Hinkmar (rx sec.). In età moderna la sostennero i Calvinisti (v. PRETERIZIONE). PREDETERMINISMO (ingl. Predeterminism; franc. Prédéterminisme; ted. Pràdeterminismus). Ter- mine adoperato da Kant per designare il determi- nismo rigoroso cioè quello secondo il quale « le azioni volontarie, in quanto avvenimenti di fatto, banno le loro ragioni sufficienti nel tempo anteriore, il quale, insieme con ciò che contiene, non è più in nostro potere» (Religion, I, cap. IV, Osserva- zione generale) (v. IDETERMINISMO). PREDICABILI (gr. xemnyopovpeva; lat. Prae- dicabilia; ingl. Predicables; franc. Prédicables; ted. Pradicabilien). Gli universali, in quanto adatti per natura ad essere predicati di più cose. Porfirio per primo enumerò i cinque universali semplici o primitivi cioè il genere, la specie, la differenza, il proprio e l’accidente (Isag., 1). Aristotele aveva enumerati come elementi di ogni proposizione o problema quattro elementi, cioè la definizione, il proprio, il genere e l’accidente (Top., I, 4, 101 b 24); ma questa enumerazione, includendo la defini- zione (che è composta del genere e della specie) non prende in considerazione la semplicità degli elementi. L’enumerazione di Porfirio rimase classica ed entrò a far parte integrante della logica tradi- zionale. Non ha avuto seguito invece la proposta kantiana di chiamare P. i concetti dell'intelletto derivati dalle categorie: come sarebbero, secondo Kant, i concetti di forza, azione, passione, derivabili dalla 691 categoria della causalità; di presenza e resistenza, derivabili dalla categoria della reciprocità; del sorgere, del perire, del mutare, derivabili dalle categorie della modalità, ecc. (Crit. R. Pura, $ 10). La nozione è sparita dalla logica contemporanea (v. le singole voci). PREDICAMENTO. V. CATEGORIA. PREDICATIVO (ingl. Predicative; franc. Pré- dicatif, ted. Pradicativ). 1. Si chiama P. l’uso del verbo essere come copula di una proposizione cioè nel suo significato non esistenziale (v. ESSERE). 2. Si chiama P. una definizione che non è impredicativa nel senso che Poincaré ha dato a questo termine (v. IMPREDICATIVA, IDEFINIZIONE) € pertanto si chiama P. anche la teoria che esclude per principio le definizioni impredicative o il calcolo proposizionale fondato su tale esclusione (cfr., ad es., CHURCH, /ntr. to Mathematical Logic, $ 58) (v. ANTINOMIA). PREDICATO (ingl. Predicate; franc. Prédicat; ted. Prédikat). Nella Logica aristotelica la proposi- zione consiste nell’affermare (o negare) qualcosa di qualcosa: essa quindi si scinde in due termini essenziali, il soggetto, ossia ciò di cui si afferma (o nega) qualcosa, e il P. (xamyopovpevov), che è appunto quello che viene affermato (o negato) del soggetto: così in « Socrate è bianco », ‘ Socrate ’ è il soggetto, ‘bianco’ il predicato. Il quale P. può essere essenziale, proprio, oppure semplice- mente accidentale. Attraverso Boezio questa dottrina è passata nella Logica medievale (cfr. Pietro Ispano, 1.07: « Subiectum est de quo aliquid dicitur; praedi- catum est quod de altero dicitur+) e attraverso questa in tutta la Logica occidentale. Nella Logica contemporanea, essendo entrata in crisi la conce- zione predicativa della proposizione (ossia quella concezione che fa consistere quest’ultima, appunto, nell’attribuzione di un P. ad un soggetto), il ter- mine « P.» ha un uso alquanto oscillante. Russell (Princ. Math. 13, pag. S1 sgg.) dà il nome di «P.» alle funzioni proposizionali di primo ordine, cioè quelle che contengono solo variabili individuali (cioè, va- riabili sostituibili solo con nomi propri, denotanti individui). Hilbert e Ackermann (Grundzilge der theoretischen Logik), ritornando in qualche modo all’uso classico, intendono propriamente con «P.» il funtore di una qualsiasi proposizione funzionale con una o più variabili. Analogamente, ma con maggiore precisione, Carnap (cfr., per es., Ein- fiihrung in die symbolische Logik, 1954, pag. 4 sgg.) usa «P.» per indicare il simbolo di proprietà o relazioni attribuite ad individui. G.P. PREDIZIONE. V. PREVISIONE. PREESISTENZA. V. METEMPSICOSI. PREFORMAZIONE (ingl. Preformation; fran- cese Préformation; ted. Praformation)i. Col nome 692 di teoria della P. (o preformismo) fu designata nel sec. xvi la teoria sulla formazione degli or- ganismi secondo la quale gli organi di esso sono già preformati nell’uovo. Già Malpighi nel 1637 aveva avanzato questa teoria, riconoscendo che gli organi si trovano preformati nell’uovo, non sotto la forma che avranno nell’embrione o nell'adulto, ma sotto la forma di filamenti o stamina ciascuno dei quali è la potenza di un organo parti-

colare (La formazione del pollo nell’uovo, 1637). Questa teoria venne accettata nel *700 da molti biologi come Haller, Spallanzani, Bonnet che si chiamavano « ovisti », per distinguersi dagli « ani- maculisti » che verso la fine del'600 avevano ri- tenuto che lo spermatozoo fosse un piccolo omiciat- tolo provvisto di tutte le parti del feto umano. La dottrina della P. veniva accettata da Leibniz il quale riteneva che «Dio ha preformato le cose in modo che i nuovi organismi non sono che la conseguenza meccanica di un organismo precedente + (Théod., pref.). Kant riteneva che, una volta am- messo il principio teleologico per la produzione degli esseri organizzati, restano solo due ipotesi per spiegare la causa della loro forma finale: o l’occa- sionalismo, secondo il quale Dio interviene diretta- mente in ogni nuova formazione organica; o il prestabilismo, secondo il quale un essere organico produce il suo simile. A sua volta il prestabilismo può essere o teoria della P. se la generazione si considera come semplice sviluppo di una forma preesistente; o teoria dell’epigenesi se la generazione si considera come produzione. Kant non nascondeva la sua simpatia per la teoria dell’epigenesi in quanto gli sembrava che riducesse di molto, rispetto all’altra, l'azione delle cause soprannaturali e si prestasse ad una prova empirica (Crir. del Giud., $ 81). La

moderna teoria dell’evoluzione ha eliminato il fondamento stesso del contrasto tra teoria della P. e teoria dell’epigenesi (v. EPIGENESI; EvOLU- ZIONE). PREFORMAZIONISMO o PREFORMI. SMO. V. PREFORMAZIONE. PRELOGICO (franc. Prélogique). Aggettivo introdotto da L. Lévy-Bruhl per caratterizzare la mentalità dei popoli primitivi in quanto ritenuta indifferente al principio di contraddizione e fondata sulla partecipazione (v.) (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, 1910, pag. 78 sgg.). In se- guito Lévy-Bruhl ha abbandonato questo concetto. «Non c'è una mentalità primitiva che si distingua dall’altra per due caratteri che le sono propri (mistico e P.). C'è una mentalità mistica più ac- centuata e più facilmente osservabile fra i primitivi che non nelle nostre società, ma che è presente in tutto lo spirito umano » (Les carnets, 1949, VI; trad. ital., pag. 161). PREFORMAZIONISMO O PREFORMISMO PREMESSA (gr. npéraow; lat. Praemissa; ingl. Premise; franc. Prémisse; ted. Pramisse). Ogni proposizione da cui si inferisce un’altra pro- posizione. PREMOZIONE (lat. Praemotio; ingl. Pre- motion; franc. Prémotion). Termine adoperato dai teologi del ’600 per indicare la determinazione fisica, da parte di Dio, della volontà umana: deter- minazione fisica, che non eliminerebbe la libertà dell’uomo. Malebranche discusse questa nozione nelle sue Réflexions sur la P. physique (1705). PRENOZIONE (ingl. Prenotion; franc. Pré- notion; ted. Vorbegriff). Termine introdotto da Durkheim per indicare i concetti prescientifici fondati su una generalizzazione imperfetta o fretto- losa, che F. Bacone chiamava anticipazioni o idoli (Régles de la méthode sociologique, pag. 23) (v. ANTICIPAZIONE). PRENSIONE (ingl. Prehension). Termine col quale Whitehead in Process and Reality (1929) ha designato la percezione in quanto con essa il soggetto apprende o afferra una «entità reale» cioè una cosa o un evento. In realtà il nome stesso di perce- zione ha già questa connotazione (v. PERCEZIONE). PREOCCUPAZIONE. V. Cura. PREPERCEZIONE (ingl. Preperceprion; fran- cese Préperception; ted. Praperzeption). Così talora è stata chiamata la funzione selettiva che l’attenzione intellettuale esercita sulla percezione sensibile (cfr., ad es., JAMES, Princ. of Psychol., I, pag. 438-45). PRESCIENZA. V. TEODICEA. PRESCISSIONE (ingl. Prescission). L’astra- zione « precisiva », che Peirce distingue dall’astrazione ipostatica, come l’operazione di scelta che è impli- cita nel più semplice fatto di percezione: in quanto, ad es., percepire un colore significa prescindere dalla forma e in ogni caso isolare questa deter- minazione « colore » dalle altre con cui il colore si presenta unito (Coll. Pap., 1.549 n; 2.428; 4.235) (v. ASTRAZIONE). PRESENTAZIONE (ingl. Presentation; fran- cese Présentation; ted. Prasentation). Conoscenza immediata o diretta: percezione o intuizione. Il termine è stato introdotto da Spencer che distin- gueva la conoscenza presentativa che si ha quando «il contenuto di una proposizione è la relazione fra due termini entrambi i quali sono direttamente presenti, come quando pungo il mio dito e sono simultaneamente conscio della pena e del posto in cui essa è » dalla conoscenza rappresentativa che è il ricordo o l’immaginazione dell’altra (Prince. of Psychology, $ 423). Il termine fu accettato da molti psicologi dell’ 800, ma è oggi caduto in disuso. PRESENTAZIONISMO (ingl. Presentatio- nism; franc. Présentationisme). Così Hamilton PREVISIONE chiamò il suo «realismo naturale» cioè la dot- trina secondo la quale la percezione è una rela- zione immediata con l’oggetto esistente (Disser- tations on Reid, pag. 825). PRESENTE. V. ATTIMO; Ora; TEMPO. PRESENZA (ingl. Presence; franc. Présence; ted. Anwesenheit). Il termine è adoperato in due significati principali: 1° l’esistenza di un oggetto in un certo luogo, per cui ad es., si dice « x era pre- sente alla riunione di ieri sera»; 2° l’esistenza dell'oggetto in un rapporto conoscitivo immediato;

e così si dice che è presente un oggetto che è visto o che è dato a una qualsiasi forma di intuizione o di conoscenza immediata. Nell'ambito del primo significato gli Scolastici distinguevano, a scopo teologico (cioè per descrivere la presenza di Dio o degli angeli nelle cose o quella del corpo di Cristo nel pane nel sacramento dell’altare) due forme di P., quella detta circum- scriptiva per la quale una cosa è tutta in tutto lo spazio che occupa e parte in ciascuna parte dello spazio; e quella definitiva per la quale una cosa è tutta nella totalità del suo spazio e tutta anche in ciascuna parte di questa totalità. La prima P. è un modo d'essere quantitativo; la seconda esclude ogni quantità (cfr., per es., S. ToMMAsO, S. 7h., I, q. 52, a. 2; OCKHAM, Quodi., VII, q. 19). Heidegger ha chiamato P. o semplice P. (Vor- handenheit) il modo d'essere delle cose, in quanto diverso dal modo d’essere dell’uomo che è l’esi- stenza (Sein und Zeit, $ 9). Sartre invece ha parlato della « P. all’essere del Per-sè » cioè della coscienza, nel senso che tale presenza implicherebbe che «il Per-sè è il testimone di sè in P. dell’essere come non essente l’essere »: il che significherebbe che la P. all’essere è « P. del Per-sè in quanto non è» (L’étre et le néant, pag. 166-67). PRESTABILISMO. V. PREFORMAZIONE. PRESUNZIONE (lat. Praesumptio; ingl. Pre- sumption; franc. Présomption; ted. Prasumtion). I. Un giudizio anticipato e provvisorio, che si ritiene valido fino a prova in contrario. Per es., « P. di colpa » è un giudizio di colpevolezza che viene mantenuto finchè non sia stata addotta una prova in contrario; e significato analogo hanno espressioni «P. di verità» o «P. pro» o «P. contro» una pro- posizione qualsiasi. 2. Fiducia eccessiva nelle proprie possibilità; e in questo senso si dice presuntuoso colui che nutre tale fiducia. PRESUPPOSTO (ingl. Presupposition; fran- cese Présupposition; ted. Voraussetzung). 1. La premessa non dichiarata di un ragionamento: cioè la premessa di cui si fa uso nel corso di un ragiona- mento ma che non è stata preventivamente enun- ciata e nei cui confronti pertanto non esiste un 693 impegno definito. Il P., a differenza della premessa, del postulato, dell’ipotesi, ecc., è introdotto surret- tiziamente nel corso di un ragionamento e limita o dirige il ragionamento stesso in modo subdolo o nascosto. Esso si può anche definire come una regola surrettizia di inferenza. Pertanto il principio dell’eliminazione dei P. è fondamentale per tutti i campi della ricerca nel mondo moderno. L’espres- sione « eliminazione dei P.» (ted. Voraussetzungslo- sigkeit) pare sia stata coniata soltanto da Fr. Strauss (Leben Jesu, 1836, pag. IX): ma l'esigenza che tale espressione racchiude è quella con la quale è nata sia la scienza moderna, che con Galilei ha cercato di liberarsi dei P. metafisici, sia la filosofia moderna che con Bacone e Cartesio ha affermato l’esigenza di una ricerca radicale cioè fondata soltanto su premesse dichiarate. L'eliminazione dei P. è anche diretta a evitare che nell’ambito di un certo campo di ricerche agiscano credenze che appartengono a campi diversi e che queste limitino in modo incon- trollabile la ricerca stessa. Un uso più ristretto e tecnico ha fatto, del principio dell’eliminazione dei P., Husserl il quale si è avvalso di esso per la delimi- tazione della sfera fenomenologica (Logische Unter- suchungen, II, Intr., $ 7). 2. Lo stesso che premessa o postulato o ipotesi. Questo secondo significato può condurre a con- fusioni. PRETERIZIONE (ingl. Preterition; franc. Pré- térition). Concetto di cui la teologia calvinista si è avvalsa per attenuare la dottrina della doppia predestinazione: i reprobi sono tali perchè Dio li ha «trascurati» nella sua scelta (cfr. CALVINO, Institutions de la religion chrétienne, III, cap. 24). PREVISIONE (gr. rpéyvwer; ingl. Prediction; franc. Prévision; ted. Voraussage). Uno degli scopi fondamentali della spiegazione scientifica o questa stessa spiegazione. Nella scienza antica, l’impor- tanza della P. fu accentuata soltanto nell’ambito della medicina (IPPOCRATE, Prognostikon, I). Ga- lileo ne esponeva il concetto affermando che «la cognizione di un solo effetto acquistata per le sue cause ci apre l’intelletto ad intendere ed assicurarsi d’altri effetti senza bisogno di ricorrere all’espe- rienza » (Discorsi intorno a due nuove scienze, in Opere, ed. Utet, II, pag. 799). La P. fu utilizzata da Hume nella sua critica della causalità: « Essendo costretti dalla consuetudine a trasferire il passato al futuro, in tutte le nostre inferenze, quando il passato si è manifestato del tutto regolare e uni- forme, noi aspettiamo l’avvenimento con la mas- sima sicurezza e non lasciamo posto per qualche supposizione contraria » (Ing. Conc. Underst., VI). Fu messo in primo piano da Comte con la sua formula «Scienza, donde P.; P., donde azione» (Cours de phil. pos., 1830, I, pag. 51). E fu espresso 694 da Hertz nella parole con cui si apre l’Introduzione dei Prinzipien der Mechanik (1894): « Il più diretto e in un certo senso il più importante problema che la nostra consapevole conoscenza della natura ci rende capaci di risolvere è l’anticipazione degli eventi futuri, sicchè poi possiamo ordinare le nostre faccende presenti in accordo con tali anticipazioni ». Peirce fondava sulla P. la verità pratica dell’ipotesi scientifica: « Nell’induzione non è il fatto previsto che in qualche misura necessiti la verità dell’ipotesi o la renda probabile. Ma è il fatto che esso è stato previsto con successo e che è un campione scelto a caso di tutte le P. che possono essere basate sul- l'ipotesi e che costituiscono la verità pratica di essa » (Coll. Pap., 6.527). Nel neoempirismo contemporaneo, alcuni filosofi tendono a ridurre la P. alla spiegazione altri a ridurre la spiegazione alla previsione. Nel primo senso si esprime Carnap secondo il quale «la na- tura di una P. è la stessa, rispetto alla conferma e all’attestazione, di quella di un enunciato circa un evento presente non direttamente da noi osser- vato, per es., circa un processo che ora è in corso nell’interno di una macchina o un evento politico in Cina (« Testability and Meaning », in Readines in the Phil. of Science, 1953, pag. 87). Nel secondo senso, si esprime Quine il quale dichiara di pen- sare che lo schema concettuale della scienza è da ultimo uno strumento per prevedere l’esperienza futura alla luce dell’esperienza passata (From a Logical Point of View, II, 6). L'identità della logica della P. con quella della spiegazione è stata asse- rita da Feigl (in Readings, cit., pag. 417-18); mentre Hempel ha sostenuto la tesi della identità struttu- rale (o della simmetria) di spiegazione e P. nel senso «che ogni spiegazione adeguata è potenzial- mente una P. e inversamente ogni P. adeguata è potenzialmente una spiegazione + (Aspects of Scien- tific Explanation, 1965, pag. 367). Popper, dopo aver asserito che tutte le scienze teoretiche, anche quelle sociali, sono scienze di P., ha insistito sulla distinzione tra la P. scientifica e la profezia sto- rica perchè quest’ultima manca del carattere con- dizionale della prima. « Le P. ordinarie della scienza, egli ha detto, sono condizionali. Esse asseriscono che certi mutamenti (per es., della temperatura dell’acqua in un bollitoio) sarà accompagnato da altri cambiamenti (per es., il bollire dell’acqua)» (Conjectures and Refutations, 1965, pag. 339). Reichenbach usò il termine post-vedibilità (post dictability) per indicare la possibilità di determi- nare «i dati passati in termini di osservazioni date » (Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, 1944, pag. 13). Il termine postvisione o retrovisione (postdiction or retrodiction) è stato poi adoperato per indicare l’inverso logico di una P. cioè l’in- PRIMALITÀ ferenza che procede da un evento presente all’in- dietro, verso una condizione iniziale già conosciuta (Hanson, The Concept of the Positron, 1963, pag. 193). V. SPIEGAZIONE. PRIMALITÀ (lat. Primalitas; ted. Primalitàt). Il principio costitutivo dell’essere, secondo Cam- panella. Ci sono tre P.: il potere (potentia) il sapere (sapientia) e l’amore (amor) che in Dio sono infinite e nelle cose sono invece limitate dai loro contrari, l’impotenza, l’insipienza e l’odio, che costituiscono il non essere (Metaphysica, 1638, VI, Proem.). Il termine vale lo stesso che principio (v.). PRIMARIE E SECONDARIE, QUALITÀ. V. QUALITÀ. PRIMARIO (lat. Primarius; ingl. Primary; franc. Primaire; ted. Primàr). 1. Ciò che è primo o più importante in un campo qualsiasi; o ciò che è primo nel senso che condiziona ciò che vien dopo, senza essere condizionato da esso. Questo era uno dei sensi, e il senso fondamentale, che Aristotele attribuiva alla parola «prima» (Mer., V, 11, 1019a 2), ed è quello che più frequentemente è connesso con l’uso del termine. « Qualità P.+, ad es., sono le qualità di cui i corpi non possono mancare e che condizionano le « qualità secondarie ». « Scuola P. + è quella che tutti debbono frequentare e che prepara agli altri tipi di scuola. « Attenzione P.» è stata detta da alcuni psicologi l’attenzione primitiva o originaria, ecc. Si dice pura «importanza P.» per dire importanza fondamentale o condizionante. 2. Lo stesso che primitivo (v.). PRIMATO (ingl. Primacy; franc. Primauté; ted. Primat). L'importanza primaria o condizionante di una cosa rispetto alle altre. Dice Kant: « Per P. tra due o più cose legate mediante la ragione, intendo la superiorità di una di esse in quanto è il primo motivo determinante del legame con tutte le altre ». Più precisamente « P. della ragion pratica » significa la prevalenza dell’interesse pratico sull’in- teresse teoretico nel senso che la ragione ammette, in quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico e che non costi- tuiscono una sua estensione conoscitiva: i postulati della ragion pratica (Crit. R. Pratica, II, cap. 2, sez. 3). La parola P. è stata usata nel campo politico per indicare la funzione predominante che un certo elemento (popolo, nazione, classe, gruppo sociale, ecc.) ha o deve avere nella totalità cui appartiene. Gioberti ha parlato in questo senso del P. morale e civile degli Italiani (1843). In questa sua estensione il termine acquista significati anche più vaghi e arbitrari che nel primo. PRIMITIVISMO (ingl. Primirivism; franc. Pri- mitivisme). 1. L'atteggiamento o la mentalità dei popoli primitivi specialmente nel suo aspetto per cui l’individuo si conforma, presso di essi, alle PRINCIPIO valutazioni dell’ambiente. In questo senso il termine è usato, per es., da Scheler (Sympathie, cap. III; trad. franc., pag. 362, n. 2). 2. La credenza che la forma più perfetta della vita umana è quella che essa ebbe nel primo periodo dell’umanità (mito dell’età dell’oro); o quella che essa riveste nei popoli primitivi, ritenuti più gio- vani (mito del « buon selvaggio +). Per questo signi- ficato di P., vedi LovEJsoy e Boas, Primitivism and Related Ideas in Antiquity, 1935; Boas, Essays on Pri- mitivism and Related Ideas in the Middle Ages, 1948). PRIMITIVO (ingl. Primitive; franc. Primitif; ted. Primitiv). 1. Lo stesso che originario (v. ORIGINE) nel duplice senso di questo termine cioè: a) come ciò che appartiene alla fase iniziale di uno sviluppo o di una storia e in questo senso si dice « la nebu- losa P.», «l’umanità P.», o anche «le P. popola- zioni italiche »; 5) come ciò che funge da condizione, principio o premessa e perciò determina altre cose mentre non è determinato da esse; in questo senso si dice « proposizione P. », « funzione P.» e si chia- mano «simboli P. » quelli introdotti direttamente, cioè senza l’aiuto di altri simboli. 2. Ciò che è semplice nel senso che costituisce la forma più elementare che un certo oggetto può assumere e in questo senso si parla di « uomini P. » o semplicemente de «i P.». Durkheim si è servito per definire i P. di questo significato e insieme di quello di cui in a) (Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1937, pag. 1). Ma Lévy-Brubl ha scritto: «Con questo termine improprio, ma di uso quasi indispensabile, intendiamo semplicemente designare i membri delle società più semplici che conosciamo » (Les fonctions mentales dans les so- ciétés inférieures, 1910, pag. 2). Nello stesso senso si adopera oggi la parola primario (v.). Per ciò che concerne le interpretazioni del mondo P., esse possono essere raggruppate in due classi: a) la classe di quelle interpretazioni che conside- rano il mondo P. come prelogico, preempirico e mistico, quindi completamente diverso, quanto alla sua costituzione, dal mondo della società civile. È questa l’interpretazione che è stata specialmente difesa da Lévy-Bruhl (del quale oltre lo scritto citato, vedi: La mentalité primitive, 1922; L’éme primitive, 1927; L’expérience mystique et les sym- boles chez les primitifs, 1938); ma che dallo stesso Lévy-Bruhl è stata corretta nel senso di sfumare o attenuare la differenza tra la mentalità P. e quella non P., considerandola come differenza di grado più che di qualità (Les carnets, 1949); b) la classe di quelle interpretazioni le quali am- mettono che anche le comunità P. sono in possesso di un considerevole patrimonio di conoscenze fon- date sull’esperienza e sulla ragione e che l’uomo P. tende a ricorrere alla magìa o al misticismo solo 695 quando le conoscenze da lui possedute non aiu- tano più. Questa è l’interpretazione specialmente sostenuta da Bronislaw Malinowski (Magic, Science, and Religion, 1925) e seguita oggi da quasi tutti i sociologi. PRIMO MOBILE. V. MosiLe, Primo. PRIMO MOTORE. V. Dro, Prove DI. PRIMORDIALE (ingl. Primordial; franc. Pri- mordial). Lo stesso che originario (v.). PRINCIPIO (gr. &pyh; lat. Principium; inglese Principle; franc. Principe; ted. Prinzip, Grundsat2). Il punto di partenza e il fondamento di un processo qualsiasi. I due significati di « punto di partenza » e di «fondamento» o «causa» sono strettamente connessi nella nozione di questo termine, che fu introdotto in filosofia da Anassimandro (SIMPLICIO, Fis. 2A, 13), cui Platone faceva ricorso frequente- mente nel senso di causa del movimento (Fedr., 245 c) o di fondamento della dimostrazione (Teet., 155 d) e di cui Aristotele fu il primo a enumerare esaurientemente i significati. Tali significati sono i seguenti: 1° punto di partenza di un movimento, per es., di una linea o di una strada; 2° punto di par- tenza migliore, per es., quello che rende più facile im- parare una cosa; 3° punto di partenza effettivo di una produzione, per es., la chiglia di una nave o i fondamenti di una casa; 4° causa esterna di un pro- cesso o di un movimento, per es., un insulto che pro- voca una zuffa; 5° ciò che con la sua decisione deter- mina movimenti o mutamenti, per es., il governo 0 le magistrature di una città; 6° ciò da cui parte un processo di conoscenza, per es., le premesse di una dimostrazione. Aristotele aggiunge a questa elen- cazione: « Anche ‘causa’ ha gli stessi significati: giacchè tutte le cause sono princìpi. Ciò che tutti i significati hanno in comune è che, in tutti, P. è ciò che è punto di partenza o dell’essere o del divenire o del conoscere + (Mer., V, 1, 1012 b 32-1013 a 19). Queste notazioni di Aristotele contengono pres- sochè tutto quel che la tradizione filosofica posteriore ha detto intorno ai princìpi. Solo un altro significato occorre forse distinguere: come punto di partenza e causa, il P. è talora assunto come l’elemento costi- tutivo delle cose o delle conoscenze. Questo probabil- mente era uno dei sensi în cui la parola era usata dai presocratici: un senso che Aristotele stesso talvolta adopera (Mer., I, 3, 983 b 11; ITI, 3, 998 b 30, ecc.). In questo senso Lucrezio chiamava P. gli atomi (De nat. rer., II, 292, 573, ecc.); e gli Stoici distinguevano elementi e P. solo per il fatto che i P. sono ingenerabili e incorruttibili (Dog. L., VII, 1, 134). Nel sec. xvi, Cristiano Wolff definendo il P. come « ciò che contiene in sè la ragione di qualche altra cosa» (Onf., $ 866) osservava che questo significato era conforme alla nozione aristotelica 696 e che da questa nozione non si erano allontanati gli Scolastici (Onr., $ 879). Baumgarten, al quale tanto deve la terminologia filosofica moderna, ripe- teva la definizione di Wolff (Mer., $ 307). Kant da un lato restringeva l’uso del termine al campo della conoscenza, intendendo per P. «ogni proposizione generale, anche desunta per induzione dall’espe- rienza, che possa servire da premessa maggiore in un sillogismo », ma dall'altro introduceva la nozione di «P. assoluto » o «P. in sè» cioè di conoscenze sintetiche originarie e puramente razionali, cono- scenze che egli riteneva insussistenti, ma alle quali pensava che la ragione facesse appello nel suo uso dialettico (Crir. R. Pura, Dialettica, II, A). Nella filosofia moderna e contemporanea la no- zione di P. tende a perdere la sua importanza. Essa infatti include la nozione di un punto di par- tenza privilegiato: e privilegiato non relativamente, cioè rispetto a certi scopi, ma assolutamente ed in sè. Un punto di partenza di questo genere diffi- cilmente potrebbe oggi essere ammesso nel dominio delle scienze. Poincaré a giusto titolo osservava che un P. non è che una legge empirica che si trova comodo sottrarre al controllo dell’esperienza me- diante opportune convenzioni: un P. perciò non è nè vero nè falso ma soltanto comodo (La valeur de la science, 1905, pag. 239). Nel dominio matematico e logico, in cui opportunità di questa natura non si presentano, il termine è caduto in disuso per indicare le premesse di un discorso ed è stato sosti- tuito da assioma o postulato. Frequentemente si chiamano P., in questi campi, particolari teoremi di cui si voglia sottolineare l’importanza per lo sviluppo ulteriore di un sistema simbolico. Peirce ha chiamato P. guida (Leading Principle) il P. che « dev’essere supposto vero per sostenere la validità logica di un argomento qualsiasi » (Coil. Pap., 3.168; cfr. Dewey, Logic, I; trad. ital., pag. 46). PRINCIPIO ATTIVO (gr. rò rorotv). Così gli Stoici chiamarono la Ragione o la Causa o Dio, in quanto informa la materia (che è il P. passivo) producendo in essa i singoli esseri (DioG. L., VII, 134); principio che essi identificarono col Fuogo inteso come calore o spirito animatore (/bid., VII, 156; CiceR., De nat. deor., II, 24). PRINCIPIO DI AZIONE MINIMA; DI CAUSALITÀ; DI CONTRADDIZIONE; DI IDENTITÀ; DEGLI INDISCERNIBILI; DI INDIVIDUAZIONE; DI RAGION SUFFI- CIENTE; DEL TERZO ESCLUSO; ecc. V. i relativi termini. PRIORITÀ (ingl. Priority; franc. Priorité; te- desco Prioritàt) 1. Precedenza nel tempo. 2. Carattere di ciò che è primario (v.). PRIVAZIONE (gr. otépnow; lat. Privatio; in- glese Privation; franc. Privation; ted. Privation). La PRINCIPIO ATTIVO mancanza di ciò che, a qualsiasi titolo, potrebbe o dovrebbe essere. Questo è il senso della definizione che Wolff dette del termine: «Il difetto di una realtà che poteva essere o a cui l’essere di per sè non ri- pugna» (Onr., $ 273). Aristotele aveva incluso tra i significati del termine (tutti riducibili a quello ora enunciato) anche la mancanza di un attributo che non appartiene naturalmente alla cosa come quando si dice che una pianta è priva di occhi (Mer., V, 22, 1022 b 22). Ma questa generalizzazione eccessiva rende il concetto pressocchè inutile. Wolff stesso di- stingueva le entità privative che consistono in una mancanza (come cecità, morte, tenebre, ecc.) e i nomi relativi, dalle entità positive e dai loro nomi (Ont., $ 273-274); una distinzione che fu riprodotta da Stuart Mill, il quale osservava a questo proposito: «I nomi cosiddetti privativi connotano due cose: l’as- senza di certi attributi e la presenza di altri a partire dai quali la presenza dei primi poteva naturalmente attendersi » (Logic, I, 2, $ 6). Queste distinzioni si sono conservate nella logica ottocentesca di stampo tradizionale (cfr., per es., SIGWART, Logik, 1889, I, 822). PROBABILE (ingl. Probable; franc. Probable; ted. Wahrscheinlich). 1. Un evento o una proposi- zione con un sufficiente grado comparativo di con- ferma o di credibilità (v. PROBABILITÀ, 1). 2. Una classe o sequenza di eventi dotata di un certo grado di frequenza relativa (v. PROBABILITÀ, 2). 3. Ciò che viene ritenuto vero dai più o dai com- petenti. Questo è il concetto dell’endoxor che Ari- stotele pose a base della dialettica (v.) e ha poco o nulla a che fare con le due precedenti nozioni. PROBABILISMO (ingl. Probabilism; francese Probabilisme; ted. Probabilismus). 1. Lo scetticismo della Nuova Accademia in quanto, pur negando l’esistenza di un criterio di verità, riconosceva un criterio sufficiente a dirigere la condotta della vita, in ciò che Arcesilao chiamava il plausibile (Sesto E., Adv. Math., VII, 158) e Carneade il probabile (Ibid, VII, 166; Ip. Pirr., I, 33, 226). 2. La dottrina, cui faceva frequentemente appello la casistica dei Gesuiti del sec. xv, che basti, per non peccare, nei casi in cui l’applicazione della regola morale è dubbia, attenersi ad una opinione probabile, intendendosi per opinione probabile quella sostenuta da qualche teologo. Leibniz osservava a questo proposito: « Il difetto dei moralisti rilas- sati è stato in buona parte quello d’aver avuto una nozione troppo limitata e troppo insufficiente del probabile che essi hanno identificato con l'opina- bile di Aristotele » mentre il probabile è, secondo Leibniz, un concetto assai più esteso (Nouv. Ess., IV, 2, 14). Il P. ebbe, specialmente nel sec. xvu, innumerevoli varianti tra le quali si possono ricor- PROBABILITÀ dare: il probabiliorismo, secondo il quale, nei casi in cui l’applicazione di una regola morale è incerta, bisogna seguire non una qualsiasi opinione proba- bile ma la più probabile; e il tuziorismo secondo il quale bisogna attenersi alla opinione che si con- forma alla legge. Si tratta di dottrine e dispute che non hanno significato fuori della casistica gesuitica del xvi secolo (cfr. A. SCHMITT, Zur Geschichte des Probabilismus, 1904). 3. L'indirizzo della scienza contemporanea per il quale il carattere di probabilità viene riconosciuto ad un numero esteso di conoscenze od a tutte (v. CAUSALITÀ; CONDIZIONE; DETERMINISMO). PROBABILITÀ (gr. 16 etx6c; lat. Probabdilitas; ingl. Probability; franc. Probabilité; ted. Warh- scheinlichkeit). Il grado o la misura della pos- sibilità di un evento o di una classe di eventi. La P. in questo senso suppone sempre un’al- ternativa ed è la scelta o preferenza accordata ad una delle alternative possibili. Se si dice, ad es., « probabilmente domani pioverà » si esclude come meno probabile l’alternativa « domani non pioverà »; se si dice «la P. che una moneta cada di testa è di una metà +», questa determinazione desume il suo significato dal confronto con l’altra alternativa possibile, che essa cada di croce. Si può esprimere questo carattere della P. dicendo che essa è sempre la funzione di due argomenti. Un altro carattere generale della P. (comunque intesa) è che essa, dal punto di vista quantitativo, viene espressa con un numero reale i cui valori vanno da 0 a 1. Il problema cui la nozione di P. dà luogo è quello del significato cioè del concetto stesso di probabilità. Quanto al calcolo delle probabilità esso, finchè non venga interpretato, non dà luogo a problemi: i matematici sono d’accordo su tutto ciò che può venire espresso in simboli matematici, mentre il disaccordo comincia, anche tra essi, dove si tratta di interpretare tali simboli. Carnap (The Two Concepis of Probability, 1945, ora in Readings in the Phi- losophy of Science, 1953, pag. 441 sgg.) e Russell (Human Knowledge, 1948, V, 2) hanno entrambi insistito sull’esistenza di due concetti diversi e irreducibili di P., che il primo ha chiamato rispetti- vamente P. induttiva (o grado di conferma) e P. statistica (o frequenza relativa), e il secondo grado di credibilità e P. matematica. Altri nomi sono stati proposti per questi due tipi di probabi- lità. Kneale ha chiamato accettabilità il primo tipo e caso (chance) il secondo (Probability and Induction, 1949, pag. 22); Braithwaite ha chiamato il primo ragionevolezza e il secondo P. (Scientific Expla- nation, 1953, pag. 120). I due concetti si sono fronteggiati negli ultimi quarant'anni, cercando ognuno di eliminare l’altro; e si possono vedere tipicamente rappresentati nelle 697 posizioni di Von Mises e di Jeffreys. Il primo rigetta come soggettivistico il concetto di P. indut- tiva e ritiene che sia privo di senso l’uso del termine P. al di fuori del suo concetto statistico (Probability. Statisties and Truth, 1928, ed. 1939, lect. I, III), Il secondo invece ritiene che la definizione cosid- detta oggettiva della P. è inutilizzabile e che neppure gli statistici la usano perchè « tutti usano la nozione di grado di credenza ragionevole, abitual- mente senza neppure notare che la usano » (Theory of Probability, 1939, pag. 300). Poichè le osserva- zioni di Carnap e Russell tolgono significato a questa polemica ma nello stesso tempo confermano l’esistenza di due concetti diversi di P., si possono assumere tali concetti per costituire un prospetto delle dottrine relative. E per evitare qualificazioni polemiche (e inesatte) come quelle di « sogget- tivo» e «oggettivo», ecc., si può semplicemente assumere come tratto distintivo dei due concetti di P. la funzione che ognuno di essi adempie e parlare conseguentemente di 1° P. singolare; 2° P. collettiva. 1° Il primo concetto di P. può essere in- fatti caratterizzato dicendo che esso ha in vista il grado di possibilità di un evento singolo: pertanto i suoi argomenti sono per l’appunto eventi o fatti o stati di cose o circostanze ed essa è espressa in proposizioni del tipo « Domani pro- babilmente pioverà ». L’antecedente storico remoto di questa nozione è il concetto neo-accademico di rappresentazione persuasiva (v.): della quale Car- neade enumerava i gradi, determinati o da prove o da indizi negativi o positivi (v. PERSUASIVO). I fondatori del calcolo delle P. ebbero in vista appunto questo concetto di probabilità. Giacomo Bernouilli intitolò il suo trattato, che fu il primo scritto importante in proposito, Ars conjectandi (1713). Allo stesso concetto si ispirava la grande opera di Laplace intitolata Théorie analytique des pro- babilités (1812). Nell’introduzione di quest'opera Laplace affermava che «la P. degli eventi serve a de- terminare il timore o la speranza delle persone inte- ressate alla loro esistenza » (Essai philosophique sur les probabilités, I, 4); e tutta la sua opera non si oc- cupa di statistica ma di metodi per stabilire l’accet- tabilità delle ipotesi. Da questo punto di vista, la P. era definita come « il rapporto dei numeri dei casi favorevoli a quello di tutti i casi possibili ». E il principio fondamentale per valutare le P. era il cosiddetto principio di indifferenza o di equiproba- bilità, secondo il quale, in mancanza di ogni altra informazione, si assume che i vari casi sono ugual- mente possibili: sicchè ad es., quando un dado è gettato, si assume che ognuna delle sue facce ha uguali P. di apparire, sicchè ciascuna faccia ha la stessa P. di 1/6 (op. cit., I, 3). 698 Per quanto questa teoria sia stata sottoposta a critiche accanite, essa è stata ripresa nel 1921 dal- l'economista inglese John Maynard Keynes nel suo Trattato sulla P. e più tardi riesposta da F. P. Ramsey (The Foundations of Mathematics, 1931) e da H. Jef-

freys (Theory of Probability, 1939). Tutti questi scrittori definiscono la P. come un « grado di cre- denza razionale» ed ammettono la validità del principio di indifferenza ma, come ha notato lo stesso Carnap, il carattere soggettivistico di quella definizione è solo apparente; giacchè ciò che essi hanno cercato di determinare sono i gradi di con- ferma che possono essere stabiliti in favore di un’ipotesi determinata. E difatti i gradi di credenza potrebbero essere soltanto stabiliti con metodi psicologici mentre in realtà i metodi proposti da quegli autori non hanno nulla di psicologico ma sono logici e si riferiscono alla disponibilità e alla natura delle prove che possono confermare un’ipo- tesi. Fondandosi su questo concetto oggettivo della P. singolare, Carnap ha costruito un sistema di logica quantitativa induttiva, sul fondamento del concetto di conferma assunto nelle sue tre forme: positiva, comparativa e quantitativa (Logica! Foun- dations of Probability, 1950). Il concetto positivo di conferma è la relazione tra due enunciati i (ipotesi) e p (prova) che può essere espressa da enunciati di questa forma: « i è confermato da p»; « i è appog- giato da p »; « p è una prova (positiva) per i+; « p è una prova che sostanzia (o corrobora) l'assunzione di i». Il concetto comparativo (topologico) di conferma è usualmente espresso in enunciati che hanno la forma «i è più fortemente confermato (o appoggiato o sostanziato o corroborato, ecc.) da p che i’ da p'». Infine il concetto quantitativo (o metrico) di conferma cioè il concetto di grado di conferma può essere, nei vari campi, determinato da procedure analoghe a quelle con cui si è introdotto il concetto di temperatura per spiegare quelli di «più caldo» o «meno caldo» o il concetto di quoziente intellettuale per determinare i gradi com- parativi di intelligenza. Carnap ha anche difeso, intendendolo tuttavia in forma limitata, il principio di indifferenza, applicandolo alle distribuzioni sta- tistiche anzichè alle distribuzioni singole. La teoria di Carnap è stata in proposito largamente discussa e accettata. Altre determinazioni del concetto di grado di conferma sono state proposte (cfr., ad es., HELMER e OPPENHEIM, « A Syntactical Definition of Probability and Degree of Confirmation» in Journal of Symbolic Logic, 1945, pag. 25-60). Soltanto il concetto di P. singola, cioè di grado di conferma, è quello a cui si fa comunemente riferimento nelle faccende della vita e che viene assunto, esplicitamente o implicitamente, come guida dei comportamenti individuali. C'è da osser- PROBABILITÀ vare che tra gli indizi o prove che possono essere assunti a conferma di un’ipotesi qualsiasi cioè a fondamento di un giudizio di P. nulla vieta che rientri la considerazione delle frequenze statistiche cui il secondo concetto di P. riduce la P. stessa. Ma talvolta la P. statistica entra nella determinazione della P. singola con segno invertito: ad es., per un giocatore del lotto la frequenza con cui un certo numero è uscito negli ultimi tempi è un indice di P. negativa: i numeri « buoni » sono per lui quelli che, in un periodo di tempo abbastanza lungo, sono stati i meno frequenti. Per una difesa di questo concetto di P., proprio in rapporto ai limiti e alle possibilità della conoscenza umana, cfr. J. R. Lucas, The Concept of P., Oxford, 1970. 2° Il secondo concetto fondamentale della P. è quello della P. collettiva o statistica, i cui argomenti non sono mai eventi o fatti individuali ma classi, specie o qualità di eventi e che quindi possono essere espressi soltanto con funzioni proposizio- nali (v.) e non con proposizioni. L’antecedente storico più lontano di questa nozione è il concetto aristotelico del verisimile (v.): « Probabile è ciò che tutti sanno come per lo più accada o non accada, sia o non sia» (An. Pr., II, 27, 70a 3; Ret., I, II, 1357 a 34). Ma la formulazione rigorosa del con- cetto è stata effettuata solo recentemente da Fischer (in Philosophical Transactions of the Royal Society, serie A, 1922), von Mises (Probability, Statistics and Truth, 1928), Popper (Logik der Forschung, 1934) e Reichenbach (Wakrscheinlichkeitslehre, 1935; Theory of Probability, 1948). Come illustrazione di questa nozione di P. si può scegliere l’elaborazione che di essa ha dato von Mises con il concetto della frequenza-limite. Se per n osservazioni l’evento esaminato ha luogo m volte il quoziente m/n è la frequenza rela- tiva della classe di eventi in questione: relativa, s'intende, al numero n di osservazioni. Ma se si vuol parlare di frequenza semplicemente, senza limitare l’estensione delle osservazioni, si può supporre che la funzione m/n, quando numeratore e denominatore divengono via via maggiori, tenda a un valore limite; e si può assumere questo valore- limite come misura della frequenza, cioè come misura della P. nel senso proposto. Così, per es., se gettando una moneta 1000 volte si ha per la testa una frequenza di 550; gettandola 2000 volte si ha, sempre per la testa, una frequenza di 490; gettandola 3000 volte, una frequenza di 505; gettandola 4000 volte una frequenza di 497; gettandola 10.000 volte una frequenza di 5003; e così via; poichè il valore limite di queste serie è 05, si assumerà questo valore limite come valore della P. dell’accadimento in questione. Ma tale accadimento non è mai un accadimento singolo; e pertanto la P. così PROBLEMA calcolata non servirà a prevedere il risultato della prossima gettata della moneta e a consentire, per es., a un giocatore di scegliere la sua scommessa. La P. del genere vale per classi di eventi e non per eventi singoli. Non si può, ad es., parlare della P. che un individuo qualsiasi ha di morire entro l’anno anche quando si conosce il limite di frequenza della mortalità nel gruppo a cui egli appartiene (cfr. anche di von Mises, Kleines Lehrbuch des Positivismus, $ 14). Reichenbach ha affermato a questo proposito: «L’asserzione concernente la P. di un caso singolo ha un significato fittizio, costruito attraverso il trasferimento di significato dal caso generale a quello particolare. L’adozione dei significati fittizi è giustificabile non per motivi conoscitivi ma perchè serve agli scopi dell’azione considerare tali asserzioni come provviste di signi- ficato » (Theory of Probability, pag. 377). L’altra caratteristica fondamentale della teoria è l’elimina- zione del principio di indifferenza cioè della P. a priori. La teoria statistica della P. infatti non può dire nulla circa la P. di una classe di eventi senza prima aver determinate le frequenze dell’evento stesso e quindi un grado di P. qualsiasi può essere determinato solo a posteriori, cioè dopo avere effettuato la determinazione delle frequenze (REI- CHENBACH, 0p. cit., $ 70, pag. 359 sgg.). La teoria collettiva o statistica della probabilità è stata largamente accettata nella filosofia contem- poranea (si vedano, oltre gli scritti citati, quello di J. O. Wispom, Foundations of Inference in Natural Science, 1952, e quello di BRAITAWAITE, Scientific Explanation, 1953). Un’ulteriore determinazione di questa dottrina è stata data da Popper, specialmente in vista della sua utilizzazione nella teoria dei quanti. Come si è detto, la P. statistica non concerne eventi singoli ma classi o sequenze di eventi. Popper pro- pone di considerare come decisive le condizioni sotto le quali la sequenza è prodotta cioè di consi- derare le frequenze stesse come dipendenti dalle condizioni sperimentali e pertanto come costituenti una qualità disposizionale dell’ordinamento speri- mentale. Dice Popper: « Ogni ordinamento speri- mentale è adatto a produrre, se ripetiamo l’esperi- mento più volte, una sequenza con frequenze che dipendono da questo particolare ordinamento. Queste frequenze virtuali possono essere dette probabilità. Ma poichè le P. vengono a dipendere dall’ordinamento sperimentale, esse possono essere considerate proprietà di questo ordinamento. Esse caratterizzano la disposizione o propensione del- l'ordinamento sperimentale a dare origine a certe frequenze caratteristiche, quando l’esperimento è ripetuto più volte » (« The Propensity Interpretation of the Calculus of Probability, and the Quantum Theory », in Observation and Interpretation, A_sym- 699 posium of Philosophers and Physicists, ed. by Kérner, 1957, pag. 67). Il vantaggio di questa interpretazione sarebbe quello di considerare come fondamentale «la P. del risultato di un singolo esperimento rispetto alle sue condizioni, piuttosto che la frequenza dei risultati in un seguito di esperi- menti » (/bid., pag. 68). Popper avvicina questo con- cetto a quello di campo (v.) e osserva che in questo caso una P. può essere considerata come « un vet- tore nello spazio delle possibilità » (Ibid.). Questa in- terpretazione tende ovviamente a diminuire la di- stanza tra i due concetti fondamentali di probabilità. PROBLEMA (gr. rpéfimua; lat. Problema; ingl. Problem; franc. Problème; ted. Problem). In generale, ogni situazione che includa la possibilità di un’alternativa. Il P. non ha necessariamente ca- rattere soggettivo; non è riducibile al dubbio per quanto anche il dubbio sia, in un certo senso, un problema. Esso è piuttosto il carattere proprio di una situazione che non ha significato unico o che in- clude comunque alternative di qualsiasi specie. Un P. è la dichiarazione di una situazione di questo genere. La nozione di P. fu elaborata dalla matematica antica nella distinzione da quella di teorema (v.). Per problema fu intesa una proposizione che da certe condizioni note muove alla ricerca di qual- cosa di ignoto. Alcuni geometri (probabilmente quelli della scuola platonica) ritenevano che la loro scienza fosse costituita essenzialmente da problemi; altri, da teoremi (PRocLo, Comm. al I di Euclide, 77, 7-81, 22, Friedlein). Aristotele definiva il P. come un procedimento dialettico che tende alla scelta o al rifiuto oppure alla verità e alla cono- scenza + (Top., I, 11, 104b): nella quale le parole «scelta + o « rifiuto » stanno a indicare le alternative che si presentano ai problemi di ordine pratico mentre «verità» e «conoscenza» designano le alternative teoretiche. Aristotele esemplifica la sua definizione dicendo che un P. del primo genere è se il piacere sia un bene o no; e un P. del secondo genere è se il mondo sia eterno (/bid., 104b 8). Poichè, dove ci sono P., ci sono anche sillogismi contrari, i P. possono nascere, secondo Aristotele, solo dove manca un discorso concludente: il P. in altri termini appartiene al dominio della dia- lettica cioè dei discorsi probabili, non a quello della scienza. Comunque, il P. conserva per Ari- stotele il carattere di indeterminazione, che gli è dato dall’alternativa. Nell’uso matematico del termine, questo carattere è andato tuttavia atte- nuandosi. La logica medievale aveva trascurato l’analisi e la definizione di questa nozione; e quando essa comincia ad attrarre di nuovo l’attenzione dei logici, cioè nel sec. xvii, il significato che essi le attribuiscono è desunto dalle matematiche. Così Jungius dice che «Il P. o la proposizione proble- 700 matica è una proposizione principale che enuncia che qualcosa può essere fatto o mostrato o trovato » {Logica Hamburgensis, 1638, IV, 11, 7). Leibniz no- tava che « per P. i matematici intendono le questioni che lasciano in bianco una parte della proposizione » (Nouv. Ess., IV, II, 7). E proprio appellandosi all'uso matematico, Wolff definiva il P. come «una proposizione pratica dimostrativa » intendendo per « proposizione pratica » quella «per la quale si afferma che qualcosa può o deve essere fatta » ed escludendo esplicitamente il significato aristo- telico del termine (Log., $ 276, 266). Non molto diversa da questa è la definizione di Kant: «P. sono proposizioni dimostrabili bisognose di prove o tali che esprimano un’azione il cui modo d’effettuazione non è immediatamente certo? (Logik, $ 38). Anche nel pensiero moderno la nozione di P. è stata ed è tra le più trascurate. I filosofi, pur parlando continuamente di P. e ritenendo come loro compito la soluzione di un certo numero di essi e specialmente di quelli che essi stessi defini- scono «massimi», non si sono troppo curati di analizzare la corrispondente nozione. Il più delle volte il P. è stato considerato come una condizione o situazione soggettiva e confuso con il dubbio. Lo stesso Mach lo definiva in questo senso, come «il disaccordo tra i pensieri e i fatti o il disaccordo dei pensieri tra loro» (Erkenntniss und Irrtum, cap. XV; trad. franc., pag. 252-53). Solo recente- mente è stato riconosciuto il carattere di indeter- minazione oggettiva, che definisce il P.: questo è accaduto nella Logica (1939) di Dewey. Nel P. Dewey ha visto la « proprietà logica primaria ». Il P. è la situazione che costituisce il punto di par- tenza di qualsiasi indagine cioè la situazione inde- terminata. «La situazione indeterminata diventa problematica nello stesso processo di assoggetta- mento all’indagine. Essa si produce per cause reali, come avviene, per es., nello squilibrio orga- nico della fame. Non c’è di nulla di intellettuale o di conoscitivo nell’esistenza di situazioni del genere, salvo che esse sono la condizione necessaria di operazioni o indagini conoscitive. Il primo risul- tato del promuovere l’indagine è che la situazione è riconosciuta come problematica (Logic, cap. VI; trad. ital., pag. 161). L’enunciazione del P. consente l’anticipazione di una soluzione possibile che è l’idea; e l’idea esige quello sviluppo dei rapporti inerenti al suo significato che è il ragionamento. Infine, la soluzione effettiva è la determinazione della situazione iniziale cioè il raggiungimento di una situazione unificata nelle sue relazioni e distin- zioni costitutive. Un’analisi analoga a questa nella sua struttura fondamentale è quella data da G. Boas, che definisce il P. come «la coscienza di una devia- zione dalla norma» (The Inquiring Mind, 1959, PROBLEMATICA pag. 56). All’analisi di Dewey va tuttavia aggiunta una determinazione fondamentale: cioè il ricono- scimento del fatto che un P. non viene eliminato o distrutto dalla sua soluzione. Un «P. risolto » non è un P. che non si presenterà mai più come tale, ma è un P. che continuerà a presentarsi con pro- babilità di soluzione. La scoperta di un medicamento che guarisce una malattia è la soluzione di un P.; con essa il P. non risulta eliminato giacchè la malattia continuerà a presentarsi; ciò che la soluzione consente è pertanto la possibilità, entro certi limiti garantita, di risolvere il P. tutte le volte che si presenta. Proprio in base a questo carattere del P., si parla della problematicità dei campi in cui il P. si presenta. E in questo senso il P. è di- verso non solo dal dubbio che, una volta risolto viene eliminato e soppiantato dalla credenza, ma anche dalla questione che, una volta trovata la sua risposta, perde il suo significato. PROBLEMATICA (ted. Problematik). Una raccolta ordinata o sistematica di problemi. PROBLEMATICISMO. Termine diffuso in Italia da Ugo Spirito per designare la dottrina della « vita come ricerca »: una vita condannata a cercare la verità senza trovarla e perciò a oscillare fra dogma- tismo e scetticismo (La vita come ricerca, 1937). PROBLEMATICITÀ. Carattere di un campo di indagine nel quale la soluzione dei problemi non elimina i problemi stessi. Ad es., «P. dell'esperienza + è il carattere per il quale nell'esperienza i problemi cosiddetti risolti non sono che possibilità di solu- zioni prospettate in anticipo, con qualche garanzia di successo, dei problemi che via via insorgono. Il termine viene adoperato frequentemente nella filo- sofia contemporanea senza chiarimenti espliciti. PROBLEMATICO (ingl. Problematic; fran- cese Problématique; ted. Problematisch). 1. Ciò che è un problema o concerne un problema. 2. Ciò che non implica contraddizioni ma neppure garanzia della sua verità, sicchè può essere affermato o negato ad arbitrio. Questo è il significato che Kant attribuì al termine: «La proposizione P. è quella che esprime solo una possibilità logica (non oggettiva) ossia una libera scelta di assumere tale proposizione come valida + (Crit. R. Pura, $ 9). « Chiamo P. un concetto che non contiene contraddizioni e che, come limitazione di concetti dati, si connette con altre conoscenze, ma la cui verità oggettiva non può essere in alcun modo conosciuta » (/bid., Anal. dei Princ., cap. III). PROCESSIONE (gr. rp6080g; lat. Processio; ingl. Procession; ted. Procession)i. La derivazione delle cose da Dio, secondo i Neoplatonici: in quanto tale derivazione dà luogo a realtà di rango inferiore, che somigliano a quelle da cui provengono. « Ogni P. si compie per via di simiglianza delle cose seconde PROGETTO rispetto alla prime » dice Proclo (/st. Theol., 29; cfr. PLoTINO, Enn., IV, 2, 1, 44; V, 2, 2; SCOTO ERIUGENA, De divis. nat., III, 17, 19, 25). La teologia cristiana ha adoperato la stessa nozione per determinare il rapporto tra le persone divine. S. Tommaso distin- gueva a questo proposito una processio ad extra, nella quale l’azione tende verso qualcosa di esterno e la processio ad intra per la quale l’azione tende a qualcosa di interno come accade nella P. che va dall’intelletto all'oggetto dell’intendere, che rimane dentro l’intelletto stesso. In questo secondo senso è da intendersi, secondo S. Tommaso, la P. delle persone divine da Dio padre (S. Th., I, q. 27, a. 1). PROCESSO (lat. Processus; inglese Process; franc. Processus; ted. Process). 1. Procedimento, modo d’operare o d’agire. Per es., «il P. di com- posizione e di risoluzione » per indicare il metodo che consiste nel discendere dalle cause all’effetto o nel risalire dall’effetto alle cause (cfr., ad es., S. Tommaso, S. Th., III, q. 14, a. 5); «P. all’infinito » per indicare il risalire da una causa all’altra senza fermarsi (/bid., I, q. 46, a. 2). 2. Divenire o sviluppo, per es., « il P. della storia ». In questo senso il termine è adoperato da Whitehead per indicare il divenire del mondo (Process and Reality, 1929). 3. Una qualsiasi concatenazione di eventi, per es., il « P. della digestione » o « il P. chimico ». PRODOTTO LOGICO. È la figura (a-5) ri- sultante da una moltiplicazione logica (v.). G.P. PRODUZIONE (gr. roleoc; lat. Productio; ingl. Production; franc. Production; ted. Production). Porre in essere qualcosa che potrebbe non essere. Platone definiva arte produttiva «ogni possibilità che diventi causa di generazione di cose che prima non erano + (Sof., 265 b) e Aristotele vedeva nella P. il compito proprio dell’arte e la distingueva dall’azione e dal sapere: «Ogni arte concerne la generazione e cerca gli istrumenti tecnici e teorici per produrre una cosa che potrebbe essere e non essere e il cui principio risiede in colui che la pro- duce e non nell’oggetto prodotto » (Eric. Nic., VI, 4, 1140 a 10). Da questo punto di vista la P. si distingue dall’azione che è l’operazione che ha in se stessa il suo fine: una differenza sulla quale insi- stette S. Tommaso (v. Azione). Il platonismo aveva tuttavia sminuito questa differenza. Plotino aveva affermato che per la natura « essere ciò che è significa produrre; essa è contemplazione e oggetto di con- templazione perchè è ragione; e poichè è contempla- zione e oggetto di contemplazione e di ragione, essa produce. La P. non è che contemplazione» (Enn., III, 8, 3). Queste considerazioni sono state spesso ripetute da un punto di vista idealistico: il che non toglie che la migliore definizione del termine in questione sia rimasta quella aristotelica. 701 PROERESI. V. SCELTA. PROFONDO (ingl. Profound, Deep; franc. Pro- fond; ted. Tief). Ciò che ha un significato nascosto e inesprimibile. Ii termine ha acquistato un signifi- cato tecnico nella filosofia e nella psicologia contem- poranea per indicare ciò che nell’ambito dei problemi rimane fuori dall’esplicita formulazione dei problemi stessi pur costituendo una sfera che può in qualche modo essere « sentita » o «intuita » e perciò inter- pretata o espressa metaforicamente; o ciò che nel- l'ambito di un campo d'indagine si sottrae alla portata dei procedimenti propri del campo stesso ma fa sentire la sua presenza nel modo oscuro che si è detto. Già Husserl polemizzava contro la nozione del P. in filosofia. «La scienza vera e propria, egli diceva, non conosce, per tanto che si estende la sua dottrina autentica, alcun senso profondo. Ogni momento di una scienza perfetta è un tutto di ele- menti di pensiero, ciascuno dei quali è inteso imme- diatamente e non possiede perciò alcun senso P.» (Phil. als strenge Wissenschaft, 1910, in fine; tradu- zione ital., pag. 81). La nozione di P. prevale oggi soprattutto nel dominio di certi indirizzi psicologici e antropologici come la psicanalisi, l’intuizionismo, l’esistenzialismo; e nonostante la ricchezza delle analisi cui ha dato luogo comincia oggi a suscitare una reazione critica salutare. « Le psicologie abis- sali, ha scritto Y. Belaval, e le filosofie che si ispi- rano ad esse non hanno fatto nascere nuovi feno- meni: hanno supposto processi e intenzioni nascoste, hanno avanzato nuove idee sull’uomo, ma a queste ipotesi e idee manca sempre d'esser formulate nella lingua delle conoscenze progressive in cui ciascuna parola designa univocamente un fenomeno deter- minato e ciascuna regola di sintassi un’operazione tecnica precisa» (Les conduites d’échec, 1953, pag. 274). PROGETTO (ingl. Plan; franc. Projet; tedesco Projekt, Entwurf). In generale, l’anticipazione delle possibilità: cioè qualsiasi previsione, predizione, predisposizione, piano, ordinamento, predetermina- zione, ecc., nonchè il modo d'essere o d’agire che è proprio di chi fa ricorso a possibilità. In questo senso, nella filosofia esistenzialistica il P. è il modo d’essere costitutivo dell’uomo 0, come dice Heidegger (che per primo ha introdotta la nozione) la sua « costi- tuzione ontologico-esistenziale » (Sein und Zeit, $ 31). Heidegger ha insistito pure sulla tesi che ogni pro-

gettazione, in quanto anticipa possibilità che di fatto son tali, ricade sul fatto stesso e non procede al di là: sicchè la massima dell’uomo che progetta se stesso è: « Divieni ciò che sei» (/bid.). Altrove Heidegger ba detto che il P. del mondo in cui propriamente consiste l’esistenza umana è antici- patamente dominato dallo stato di fatto che esso cerca di trascendere e perciò finisce per ridursi 702 e appiattirsi a questo stato di fatto (Vom Wesen des Grundes, 1929, 3; trad. ital., pag. 67 sgg.). Sartre ha sostanzialmente ripetuto questi concetti di Hei- degger insistendo tuttavia sulla gratuità perfetta dei «P. di mondo» in cui l’esistenza consiste. Egli ha chiamato « P. fondamentale » o « iniziale » quello costitutivo dell’esistenza umana nel mondo e ha considerato tale P. continuamente modifica- bile ad arbitrio: « L’angoscia, che, quando è svelata, manifesta alla nostra coscienza la nostra libertà, testimonia la modificabilità perpetua del nostro P. iniziale» (L’érre et le néant, 1943, pag. 542). Per quanto caratteristica della filosofia esistenzia- listica, la nozione di P. è entrata a far parte della terminologia filosofica e scientifica contemporanea. Essa si è dimostrata utile a esprimere aspetti im- portanti delle situazioni umane, sia di quelle più generali analizzate dalla filosofia sia di quelle spe- cifiche che costituiscono l’oggetto delle scienze an- tropologiche: psicologia, sociologia, ecc. V. STRUT- TURA e MODELLO, PROGRESSO (ingl. Progress; franc. Progrès; ted. Fortschrift). Il termine designa due cose: 1° una qualsiasi serie di eventi che si svolga in un senso desiderabile; 2° la credenza che gli eventi nella storia si svolgano nel senso più desiderabile, realizzando una perfezione crescente. Nel primo senso, si parla, ad es., del « P. della chimica » o del «P. della tecnica»; nel secondo senso, si dice semplicemente « il P.». In questo secondo senso la parola designa non soltanto un bilancio della storia passata ma anche una profezia per l’avvenire. Il primo senso ristretto del termine non fa na- scere problemi e si incontra dappertutto. Anche gli antichi lo possedettero; e specialmente gli Stoici lo adoperarono per indicare l’avanzare dell’uomo sulla via della saggezza o della filosofia (STOBEO, Ecl., II, 6, 146: il termine è rpoxor). Il secondo senso del termine fu sconosciuto all’antichità clas- sica e al Medioevo. La concezione generale che gli antichi ebbero della storia fu quella della decadenza a partire da una perfezione primitiva (età dell’oro) o quella di un ciclo di eventi che si ripete identica- mente senza limiti (v. StorIA). Solitamente la prima enunciazione della nozione di P. si attribuisce a Francesco Bacone che così la espose in un passo famoso del Novum Organum (1620): « Per antichità dovrebbe intendersi la vecchiezza del mondo che va attribuita ai nostri tempi e non a quella giovinezza nel mondo che fu presso gli antichi. E come da un uomo anziano possiamo aspettarci una conoscenza molto maggiore delle cose umane e un più maturo giudizio che da un giovane, per via dell’esperienza e del gran numero di cose da lui vedute, udite e pensate, così dell’età nostra (se avesse coscienza delle sue forze e volesse sperimentare e comprendere) PROGRESSO sarebbe giusto aspettarsi assai più gran cose che dai tempi antichi essendo la nostra per il mondo l’età maggiore, arricchita da innumerevoli esperi- menti e osservazioni » (Nov. Org., I, 84). Bacone conclude facendo suo il motto di Aulo Gellio (o meglio che Aulo Gellio attribuiva a un vecchio poeta): veritas filia temporis (Noct. Att., XI, 11). Alcuni decenni prima concetti simili a questi erano però stati esposti da Giordano Bruno nella Cena delle Ceneri (1584). Nel sec. xvn la nozione di pro- gresso fa i suoi primi passi soprattutto attraverso la disputa sugli antichi e i moderni (v. ANTICHI); mentre nel sec. xvi, con Voltaire, Turgot e Con- dorcet prevaleva nella concezione della storia. Ma solo il sec. xx vide l’affermazione totale del concetto che nei primi decenni diveniva il vessillo del romanti- cismo e assumeva il carattere della necessità. Il

concetto della necessità del piano progressivo della storia veniva espresso da Fichte nel modo più energico: «Qualsiasi cosa realmente esista, egli diceva, esiste per assoluta necessità: ed esiste neces- sariamente nella precisa forma in cui esiste ». Questa necessità è razionalità pura: « Nulla è come è perchè Dio vuole arbitrariamente così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti che così... Comprendere con chiara intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno ed immutabile, in quanto guida la specie umana, è compito dei filosofi. Fissare di fatto la sfera sempre cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia della specie umana è compito dello storico, le cui sco- perte sono solo casualmente ricordate dal filosofo (Grundziige des gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, 9). L’identica concezione veniva difesa dal positi- vismo che con Augusto Comte, esalta il P. come l’idea direttiva della scienza e della sociologia, considerandolo come «lo sviluppo dell'ordine» ed estendendolo anche alla vita inorganica e animale (Politique positive, 1851, I, pag. 64 sgg.). On the Origin of Species (1859) di Darwin, dava una base positiva o scientifica al mito del P. adducendo prove in favore di un trasformismo biologico interpretato in senso ottimistico o progressivo. E l'opera di SPENCER, First Principles (1862), utilizzava la no- zione di P. per una interpretazione metafisica, che intendeva essere positiva o scientifica, dell’in- tera realtà. Queste sono soltanto le tappe salienti dell’affer- mazione di un concetto che ha dominato tutte le manifestazioni della cultura occidentale ottocentesca e che ancora rimane sullo sfondo di molte concezioni filosofiche e scientifiche. Le implicazioni principali della nozione sono le seguenti: 1° il corso degli eventi (naturali e storici) costituisce una serie uni- lineare; 2° ogni termine di questa serie è necessario nel senso che non può essere diverso da quello PROPOSIZIONE che è; 3° ogni termine della serie realizza un incre- mento di valore sul precedente; 4° ogni regresso è apparente o costituisce la condizione di un P. ulteriore. Talvolta, come nella filosofia di Hegel, si limitano le condizioni di validità della proposi- zione 3° perchè si ammette che la storia costituisca un circolo nel quale le fasi più alte, già realizzate, costituiscano le condizioni di quelle più basse, sì che queste posseggono la stessa razionalità o perfe- zione del tutto (cfr. HEGEL, Wissenschaft der Logik, I, I, I, cap. II, nota I, «Il progresso infinito»; Croce, La storia come pensiero e come azione, 1938, pag. 25). Ma nessuna di quelle quattro tesi può trovare un appoggio nelle regole della meto- dologia storiografica che consentono di delimitare, oggi, il campo detto «storia +; e nessuna di esse è compatibile con tali regole. L'idea del P. cade perciò fuori del dominio della storiografia scienti- fica; e dall’altro lato la credenza nel P. è stata fortemente indebolita, nella cultura contemporanea, dall’esperienza delle due Guerre e dal mutamento che esse hanno prodotto nel dominio della filosofia, smantellando quell’indirizzo romantico del quale costituiva un caposaldo. Quest’idea può pertanto, allo stato attuale degli studi, essere considerata va- lida soltanto come una speranza o un impegno morale per l’avvenire, non come un principio di- rettivo dell’interpretazione storiografica. Sul periodo aureo della credenza nel P. cfr. J. B. Bury, The Idea of Progress, 1932 (v. STORIA). PROIEZIONE (ingl. Projection; franc. Pro- jection; ted. Projektion). Con questo termine veniva frequentemente indicato, nella psicologia dell’800, il riferimento della sensazione all’oggetto, riferimento per il quale l’oggetto viene localizzato nello spazio circostante, per quanto la sensazione si verifichi solo nell’organodi senso. Alla fortuna del termine contribuì soprattutto Helmbholtz (Physiologische Optik, 1867, pag. 602). Il termine è ora caduto in disuso giacchè il problema stesso non sussiste più negli stessi termini, dato il nuovo concetto di percezione (v.). Tecniche proiettive si chiamano oggi quelle tec- niche di accertamento psicologico che consistono nel presentare al soggetto un materiale (special- mente figure) di significato ambiguo che il soggetto può interpretare secondo le sue tendenze o bisogni o repressioni e la cui interpretazione può rivelare perciò lo stato del soggetto. Il più conosciuto di questi artifici proiettivi è quello introdotto nel 1921 dallo svizzero Rorschach (cfr. H. H. ANDERSON, e G. L. ANDERSON, An Introduction to Projective Techniques, 1951). Nella psicanalisi il concetto di P. è usato per descri- vere il processo mediante il quale un soggetto attribuisce a un altro soggetto gli atteggiamenti o 703 sentimenti di cui si vergogna o che comunque trova difficile o penoso riconoscere a se stesso (confronta J. R. SMITHIES, « Analysis of Projection » in British Journal of Philosophy of Science, 1954, pag. 120). PROLEGOMENI (ingl. Prolegomena; francese Prolégomènes; ted. Prolegomena). Trattazione preli- minare, introduttiva e semplificata. Il termine ricorre nel titolo di alcune opere di filosofia come quella di Kant, P. a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza (1783). PROLEPSI. V. ANTICIPAZIONE. PROPEDEUTICA (gr. rporadela; ingl. Pro- paedeutics; franc. Propédeutique; ted. Propàdeutik). Insegnamento preparatorio. Così Platone chiamò l’insegoamento delle scienze speciali (aritmetica, geometria, astronomia e musica) rispetto alla dialet- tica (Rep., VII, 536 d). E così si chiama anche oggi la parte introduttiva di una scienza o un corso di studi che faccia da preparazione ad un altro corso. PROPENSIONE (lat. Propensio; ingl. Pro- pensity; franc. Propension; ted. Neigung). Tendenza, nel significato più generale. Hume usava il termine per definire l'abitudine: « Ovunque la ripetizione di un atto o di un’operazione particolare produce una P. a rinnovare l’atto o l’operazione senza la costrizione di un ragionamento o di un processo intellettuale, diciamo che questa P. è effetto dell’abi- tudine » (Ing. Conc. Underst., V, 1). PROPORZIONE. V. ANALOGIA. PROPOSIZIONALE CALCOLO, FUN- ZIONE. V. CALCOLO; FUNZIONE PROPOSIZIONALE. PROPOSIZIONE (gr. rpéraow; lat. Propositio; ingl. Proposition; franc. Proposition; ted. Satz). Un enunciato dichiarativo o ciò che è dichiarato, espresso o designato da un tale enunciato. I due usi del termine sono stati nettamente distinti da Carnap conformemente ad una lunga tradizione (Intr. to Semantics, 1941, $ 37) ma vengono ancora spesso confusi, per quanto la distinzione sia stata largamente accettata nella logica contemporanea (cfr. CHURCH, Intr. to Mathematical Logic, $ 04; W. KnEALE e M. KNEALE, The Development of Logic, p. 49 sg.). I due usi sono comandati da due concetti diversi della P. e precisamente dai seguenti: 1) La P. come espressione verbale di un'operazione mentale, detta spesso giudizio. 2) La P. come entità oggettiva o valore di verità di un enunciato. 1. La dottrina che la P. è l’espressione verbale di un’operazione mentale fu formulata per la prima volta da Aristotele: il quale ritenne che il complesso (ovurdoxt) dei termini (nome e verbo) del discorso dichiarativo (16106 &ropavrixèc) corrisponda a un pensiero (vinua) cui inerisce necessariamente l’es- sere vero o falso e che pertanto « il vero e il falso » vertono sulla composizione e sulla divisione (oivdears 704 xal Bratprorc) (De Interpr., 1, 16 a 9 sg.). Il discorso dichiarativo è così l’espressione di un pensiero che procede componendo e dividendo: la composizione dà origine all’affermazione, la divi- sione alla negazione (/b., 6, 17 a 23). Negli Analitici (cioè nella teoria del sillogismo) Aristotele chiamò il discorso dichiarativo « prorasis» (il cui equiva- lente latino è « propositio ») cioè « premessa del ragionamento », e definì la protasis come « il discorso che afferma o nega qualcosa di qualcosa» (An. Pr., I, 1, 24 b 16); o come «l'’asserzione di uno dei membri della contraddizione» (Zb. II, 12, 77 a 37). Da questo punto di vista, la P. differisce dal problema (v.) soltanto per la forma: giacché mentre il problema consiste nel chiedersi ad es.: « È l’uomo animale terrestre bipede o non lo è??, la P. consiste nell’asserzione «L'uomo è animale terrestre bipede» o nell’asserzione contraddittoria (Top., I, 4 101 b 28). Ma in ogni caso, la verità o falsità di una P. dipende dal fatto che la composi- zione o divisione dei termini, nella quale essa con- siste, corrisponda o meno a quella che l’intelletto trova nelle stesse cose esistenti. « Tu non sei bianco, dice Aristotele, perché noi crediamo con verità che tu sei bianco ma, perché tu sei bianco, noi diciamo la verità asserendo questo. Se alcune cose stanno sempre insieme e non possono essere divise ed altre son sempre divise e non possono stare insieme e altre cose ancora possono essere o com- poste o divise, l’« essere » consisterà nell’essere com- binato o nell’essere diviso e il « non essere » nell’esser diviso o nell’esser più cose» (Mer., IX, 10, 1051 a 34). La P., nel combinare i suoi termini, esprime l’azione combinante o dissociante dell’intelletto che segue la combinazione e dissociazione delle cose esistenti. Questa dottrina è rimasta sostanzialmente im- mutata nella tradizione antica, fatta eccezione per gli Stoici (e per il filone da essi iniziato) che intro- dussero la nozione di enunciato (v.). La tradizione medievale e buona parte della logica moderna l’ha conservata. San Tommaso diceva che la verità e la falsità sono nell’intelletto in quanto precede componendo e dividendo: « infatti, aggiungeva, in ogni P. una forma significata dal predicato o si ap- plica a qualche cosa significata dal soggetto o si allontana da questa cosa » (S. Th., I, q. 16, a. 2). Nello stesso indirizzo della logica terministica, Ockham ammetteva una « P. mentale », che iden- tificava con l’atto dell’intelletto (Liber periermenias, proemium), per quanto facesse dipendere la verità della P. dalla suppositio (v. oltre, 2). A partire dall’età carteziana, il termine «P.» è sostituito dal termine «giudizio» perché l’attenzione della logica filosofica si concentra sempre di più sull’opera- zione intellettuale che trova espressione nella P. (v. Giupizio, 4). PROPOSIZIONE Ma ad un atteggiamento mentale riduce la P. anche Russell, che tuttavia la distingue da enunciato. Egli infatti la considera come « credenza + o « atteg- giamento proposizionale » ed afferma pertanto che le P. devono essere definite come eventi psicologici (o fisiologici) di una certa specie: immagini com- plesse, aspettazioni, ecc. Ciò è reso evidente, secondo Russell, dal fatto che le P. possono essere false (An Inquiry into Meaning and Truth, cap. XIII, A; ed. Pelican Books, p. 172; cfr. Human Knowledge, p. 449-50) v. Giupizio, 3. 2. La dottrina che la P. costituisce il designato dell’enunciato assume forme diverse a seconda della

natura che si attribuisce al designato stesso. Tal- volta il designato è inteso come « P. in sé» o «en- tità» di qualche tipo, tal’altra come oggetto o situazione oggettiva o stato di cose o carattere. In ogni caso, questa interpretazione della P. pre- scinde da ogni riferimento ad atti o ad operazioni mentali. Gli stoici, che introdussero la nozione di enun- ciato (v.), ritennero che esso esprime una condi- zione o uno stato di cose. Essi affermavano che «chi dice ‘È giorno’ mostra di ritenere che è giorno. Ora se è giorno realmente, l’enunciato che sta dinnanzi a noi è vero, se non è giorno è falso » (Dro. L., VII, 65). Da questo punto di vista, il fatto che è giorno è il significato o il valore di verità dell’enunciato « È giorno ». La logica termi- nistica medievale indicò il significato denotativo dei termini della P. con il concetto della supposizione (v.), secondo la quale una P. è vera se i termini da cui essa risulta stanno per il medesimo oggetto esistente (cfr. OckHaM, Summa Logicae, Il, 2). Nelle Laws of Thought (1854) Boole distingueva le P. primarie che esprimono una relazione tra cose e le P. secondarie che esprimono una relazione tra P. (Cap. IV, $ 1). Ma già Bolzano aveva oppo- sto alla P. verbale la P. in sé (Satz un sich), che è quella valida indipendentemente dal fatto di essere o non essere espressa O pensata e costituisce l’ele- mento delle matematiche pure (Wissenschaftslehre, 1837, $ 19). Riprendendo la polemica di Husserl contro lo psicologismo, Meinong distingueva in ogni « giudizio » (termine per lui equivalente a P.) l’obiettivo (Objektiv) che è il contenuto interno del giudizio e l’obietto (Objekt) che è l’entità esterna al quale il giudizio si riferisce (Uber Annahmen, 1902, p. 52). Questa distinzione equivale, a tutti gli effetti, a quella che Frege aveva stabilito tra senso e significato (Ueber Sinn und Bedeutung, 1892) (v. SIGNIFICATO). A proposito della P., Frege aveva detto che mentre il senso (Sinn) della P. è un « pen- siero +, non inteso però soggettivamente ma come « contenuto oggettivo che può costituire il possesso comune di molti», il significato (Bedeutung) della PROPOSIZIONE FUNZIONALE P. stessa è il suo « valore di verità » cioè «la circo- stanza che essa è vera o falsa ». In tal modo la P. può essere considerata come un nome proprio e il vero o falso è l’oggerto della P. stessa. Ma poiché tutte le P. vere avranno lo stesso significato (il vero) e così tutte le proiezioni false (il falso), ne segue che una P. non può ridursi né al suo solo significato né al suo solo senso (che sarebbe un puro pensiero) ma deve risultare dall'insieme dei due (Ueber Sinn und Bedeutung, $ 5, in Phil. Wri- tings of G. F., ed. Geach and Black, p. 63 sg.). Nelle proposizioni indirette od oblique in cui en- trano verbi come «dire», «udire», «pensare», « credere », «concludere » e simili, come ad es. in questa: « Copernico credeva che le traiettorie dei pianeti fossero circolari», la P. secondaria intro- dotta dal clte vale solo come il nome di un pensiero e perciò può essere variata senza compromettere il valore di verità della P. intera (/b., $ 6; in Geach, p. 66 sg.). Su questi concetti di Frege s’imperniano le discus- sioni della logica contemporanea intorno alla natura della proposizione. Delle due dimensioni della P. ammesse da Frege, Wittgenstein ha cercato di eli- minare il senso (Sinn, come « pensiero » o « conte- nuto oggettivo ») ed ha usato la parola senso (Sinn) per intendere ciò che Frege intendeva per significato (Bedeutung), usando quest’ultima parola solo per la denotazione dei nomi e dei segni. La P., egli dice è una raffigurazione (Bild, picture) della realtà. lo infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata appena comprendo la proposizione. E comprendo la P. senza che il suo senso mi venga spiegato » (Tractatus, 4.021). Da questo punto di vista, « la forma universale della P. è: le cose stanno così e così » (/b., 4.5). Perciò comprendere una P. significa semplicemente sapere «come stanno le cose nel caso che essa sia vera » (/b., 4.024), e non c'è bisogno pertanto di ricorrere a un pensiero o a un qualsiasi contenuto oggettivo. Il « senso » di cui parlava Frege è quindi inutile secondo Witt- genstein perché il senso della P. è lo stesso suo significato; e «la P. mostra il proprio senso » (/b., 4.022). Dall’altro lato, Wittgenstein afferma che «la P. ha un senso indipendentemente dai fatti » (4.061) e che «le P. ‘p’ e “non p’ hanno un senso opposto per quanto in esse si esprime una unica e sola realtà » (4.0621): il che implicherebbe, nella terminologia di Frege, un senso indipendente dal significato. Contrariamente a Wittgenstein, alcuni logici con- temporanei tendono a ridurre il significato al senso e perciò adoperano il termine « significato » (Mea- ning) a indicare quello che Frege chiamava senso. Così Ayer ha definito la P. come la «classe di enunciati che hanno lo stesso significato (signifi- 45 — ABDBAGNANO, Dizionario di filosofia. 705 cance) intenzionale per ognuno che li capisce» (Language Truth and Logic, [1936], 1948, p. 88). Nello stesso senso Quine ha considerato le P. come «ia significati degli enunciati» (From a Logical Point of View, VI, 2; p. 109; Word and Object, 1960, $ 42). Più vicini alla posizione di Frege sono quelle di Carnap e Church. Carnap ha distinto l’estensione di un enunciato che è il suo valore di verità, dall’intensione di esso che è la P. che esso esprime. Nel senso di Carnap tuttavia la P. è un’entità oggettiva come la « proprietà », per quanto soltanto di natura logica. Si può par- lare, secondo Carnap, di P. anche a proposito di enunciati falsi perché le P. sono entità com- plesse, composte da altre entità; e se anche si ammette che i componenti ultimi di una P. devono essere «esemplificati» (cioè devono essere veri), non è detto che la P. nel suo complesso debba esserlo (Meaning and Necessity, $ 6; p. 26-30). Church, che ha accettato la terminologia di Frege, usa il termine « P.» come equivalente del « senso » di Frege e afferma che è per una decisione in qualche modo arbitraria che neghiamo il nome di P. ai sensi degli enunciati (dei linguaggi naturali) in quanto esprimono un senso ma non hanno valore di verità (Zntr. to Mathematical Logic, $ 04, op. 27). Dall’altro lato Bergmann si è servito del termine di Brentano e Husserl «intenzione» per reinter- pretare il «significato» di Frege. L'intenzione è l’oggetto degli atti intenzionali e la P. è il « carat- tere» corrispondente all’intenzione stessa. « Nel paradigma, egli dice, l’intenzione è un fatto es- presso da ‘questo è verde *. Chiamo carattere cor- rispondente “la P. questo è verde’; e uso P. come un nome generale per questa specie di ca- rattere» (Logic and Reality, 1964, p. 32). Le discussioni in corso tra i logici sulle P., nonché sulle loro equivalenze o sinonimie e su altri problemi relativi, rimangono imperniate sulla distinzione tra senso e significato o su distinzioni corrispondenti. PROPOSIZIONE ATTRIBUTIVA; ATO. MICA; COMPARATIVA; DICHIARATIVA; DISCRETIVA; SECONDARIA. V. i relativi aggettivi. PROPOSIZIONE FUNZIONALE (inglese Functional Proposition; franc. Proposition fonctionelle; ted. Funktionellsatz). Con questo termine si designano le P. molecolari (ossia P. complesse, composte di P. semplici mediante i semplici connettivi logici ‘non ’,‘0’,‘e’, ‘implica ’) la cui verità (o falsità) sia funzione unicamente della verità o falsità delle componenti. La questione se esistano P. molecolari non funzionali è stata largamente discussa nella Logica contemporanea: contro la tesi estensionale, principalmente sostenuta dal Wittgenstein, secondo 706 cui tutte le P. molecolari sono funzioni-verità delle componenti, Russell e altri hanno sostenuto la possibilità di P. composte che non fossero funzioni, come, per es., « A crede p» (dove ‘A * è un nome di persona e ‘p’ una P.). G. P. PROPRIETÀ (ingl. Property; franc. Propriété; ted. Eigenschaft). 1. La determinazione o caratteri- stica propria di un oggetto in uno dei sensi del ter- mine proprio (v.). 2. Qualsiasi qualità, attributo, determinazione che serva a contrassegnare un oggetto o a distinguerlo dagli altri. PROPRIETÀ COMMUTATIVA, DISTRI- BUTIVA. V. COMMUTATIVO, DISTRIBUTIVO. PROPRINCIPIA. Termine adoperato da Cam- panella per indicare i due princìpi che entrano a costituire le cose finite, cioè l’Essere e il Non-essere (Mer., II, 2, 2) (v. PRIMALITÀ). PROPRIO (gr. t3uov; lat. Proprium; ingl. Proper; franc. Propre; ted. Eigene). 1. Una determinazione che appartiene a tuffa una classe di oggetti ed appar- tiene sempre e solo a questa classe, pur non facendo parte della definizione di essa. Questo è il senso fondamentale del termine, quale fu chiarito da Aristotele (Top., I, 5, 102 a 18) e che entrò a far parte della tradizione logica (cfr. ARNAULD, Log., I, 7; Jungius, Logica Hamburgensis, I, 1, 33). In questo senso il P., pur non facendo parte dell’es- senza sostanziale di una cosa, è strettamente con- nesso con tale essenza o deriva in qualche modo da essa. L'esempio addotto da Aristotele è il poter apprendere la grammatica: questa determinazione è un P. dell’uomo nel senso che chi è capace di apprendere la grammatica è uomo ed è uomo chi è capace di apprendere la grammatica: le due determinazioni « uomo +» e «capace di apprendere la grammatica » sono reciprocabili. In questo senso il P. è una determinazione privilegiata che sta tra l’essenza e le determinazioni accidentali. 2. Lo stesso Aristotele tuttavia chiama proprie

anche le determinazioni accidentali quando di- stingue dal P. per sè «che viene stabilito rispetto a tutti gli oggetti e separa l’oggetto in questione da ogni altro, come nel caso in cui il P. dell’uomo sia l’essere un animale mortale che può accogliere il sapere » dal P. rispetto ad altro « che è quello che di- stingue l'oggetto non da ogni altro oggetto ma solo da qualche oggetto dato » (Top., V, 1, 128b 34). Il «P. per sè» è il P. nel senso stretto cioè la deter- minazione che appartiene sempre a tutto un oggetto dato e solo ad esso, mentre il P. « rispetto ad altro » fu distinto da Porfirio (sulla base delle stesse consi- derazioni aristoteliche) in tre altre determinazioni e cioè: 1° ciò che appartiene ad una sola specie ma non a tutti gli individui della specie: in questo senso l’esser filosofi è P. dell’uomo; 2° ciò che appar- PROPRIETÀ tiene a tutti gli individui di una specie ma non ad una sola specie; e in questo l’essere bipede è P. dell’uomo; 3° ciò che appartiene a tutti gli individui di una sola specie ma non sempre; e in questo senso l’incanutire è P. dell’uomo. Porfirio enumerava come quarto significato quello più ri- stretto (/sgg., 12, 12 sgg.). I quattro significati di Porfirio vennero abitualmente riprodotti dalla logica medievale (cfr., ad es., Pietro IspaNO, Summ. Logi- cales, 2.13); ma a partire dalla Logica di Arnauld (I, 7), pur facendosi menzione delle quattro distin- zioni di Porfirio, si preferì limitare il concetto di P. a quello più ristretto. Ed in realtà, nel suo signi- ficato esteso, il concetto di P. può includere qualsiasi determinazione, a qualsiasi titolo attribuita ad un oggetto: perciò perde ogni caratteristica o utilità spe- cifica. Comunque, la nozione è strettamente legata all'impianto della logica aristotelica e alla stretta connessione di questa con la teoria della sostanza, sicchè essa è caduta nella logica contemporanea. PROSILLOGISMO. V. PoLISILLOGISMO. PROSPETTIVA (ingl. Prospect; franc. Per- spective; ted. Perspektive). Una qualsiasi anticipa- zione dell’avvenire: progetto, speranza, ideale, illu- sione, utopia, ecc. Il termine esprime lo stesso concetto di possibilità (v.) ma da un punto di vista più generico e meno impegnativo, giacchè possono apparire come prospettive cose che non hanno ab- bastanza consistenza per essere possibilità autentiche. Nella filosofia contemporanea il termine è stato ado- perato specialmente da Ortega y Gasset, Blondel, Mannheim, senza tuttavia una chiara formulazione concettuale. Per prospertivismo (ted. Perspektvismus) Nietzsche intese la condizione per la quale « ogni centro di forza — e non l’uomo soltanto — co- struisce tutto il resto dell’universo partendo da se stesso cioè prestando all’universo dimensioni, forma e modello commisurati alla propria forza » (Werke, ed. Kriner, XVI, $ 636). Il termine è stato talora usato per designare la filosofia di Ortega y Gasset. PROSSIMO. (gr. tè v rainolov; lat. Proximus; ingl. Neighbour; franc. Prochain; ted. Néchste). Nell’interpretazione che il Vangelo di Luca (X, 29-37) dà della massima biblica « Ama il P. tuo come te stesso » (Levitico, XIX, 18), P. è l’altro uomo in generale, indipendentemente da ogni legame di razza, di amicizia o di parentela, in quanto usa a noi misericordia o noi la usiamo a lui. Il che vuol dire che la misericordia va usata a qualsiasi uomo in quanto tale, che comunque si incontri con noi e non ristretta a una cerchia predeterminata di persone. PROTASI. V. PROPOSIZIONE. PROTENSIONE (ingl. Prorensity; ted. Pro- tention). Durata di coscienza. Termine introdotto PROVA da Kant il quale osservava: « La felicità è l’appa- gamento di tutte le nostre propensioni tanto exten- sive nella loro molteplicità, quanto intensive cioè rispetto al grado e anche protensive rispetto alla durata + (Crift. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. II, sez. II). Husserl ha chiamato P. «il prericordo riproduttivo in senso proprio» cioè lo stato di aspettazione che prepara la riproduzione del ri- cordo (/deen, I, $ 77). PROTOCOLLO (ingl. Protocol; franc. Protocol; ted. Protokoll). Termine introdotto dal Circolo di Vienna per indicare la registrazione del dato imme- diato o esperienza diretta (sensazione, percezione, emozione, pensiero, ecc.). Le « proposizioni proto- collari» sono quelle che contengono unicamente P. e perciò fanno diretto riferimento ai dati imme- diati. Le proposizioni protocollari, mentre sono lo strumento di ogni verificazione empirica, non hanno a loro volta bisogno di verifica perchè la loro verità è garantita dal P. che contengono e che le fa corri- spondere immediatamente al dato empirico (con- fronta R. CARNAP, in Erkenntnis, II, 1931, pag. 437 seguenti). La nozione di P. rimane legata alla fase del neopositivismo che esigeva, per dichiarare signifi- cante una proposizione, la verifica diretta della pro- posizione mediante protocolli. Ma Carnap stesso a partire dallo scritto Testability and Meaning (1936) li- mitava questa esigenza, affermando che gli enunciati, per essere significativi, debbono essere confermabili cioè contenere soltanto « predicati-cosa osservabili ». Questi predicati-cosa non sono più P., cioè dati dell’esperienza immediata, ma piuttosto nomi di qualità elementari (per es., « rosso +). Per una critica del concetto di P., nello stesso ambito del positivismo logico, cfr. K. PoPPER, Logik der Forschung, 1934; trad. ingl., 1958, $ 26 (v. ESPERIENZA). PROTOFILOSOFIA (ingl. Protophilosophy; franc. Protophilosophie; ted. Protophilosophie). Ter- mine adoperato soprattutto da sociologi per indi- care la filosofia dei popoli primitivi cioè quella che si esprime nella forma del mito (v.). PROTOLOGIA (ingl. Protology; franc. Proto- logie; ted. Protologie). Termine adoperato da alcuni scrittori italiani del primo ’800 specialmente da Ermenegildo Pini (P., 3 voll., 1803) per indicare quella che Fichte chiamava dottrina della scienza o scienza delle scienze. Il termine fu adottato da Vincenzo Gioberti per l’ultima sua opera, pubblicata postuma (P., 1857). Gioberti definisce la P. come «la scienza dell’ente intelligibile intuita per via del pensiero immanente» scienza che è la base di ogni altra scienza ed è anteriore anche all’on- tologia. L’uso di questo termine si è fermato a Gioberti. PROTON PSEUDOS (gr. mpétov yessoc). La falsità della premessa maggiore in quanto 707 determina la falsità del sillogismo (ARISTOTELE, An. Pr., II, 18, 66 a 16). PROTOTESI (ingl. Protothesis; franc. Proto- thèse; ted. Protothese). Termine adoperato da W. Ostwald per indicare le ipotesi che sono suscetti- bili di verifica sperimentale allo stato attuale della scienza e che perciò si distinguono da quelle che non lo sono (Die Energie und ihre Wandlungen, 1888, $ 68). In realtà, nessuna ipotesi è come tale diret- tamente verificabile (v. IPOTESI; TEORIA). PROTOTIPO (gr. rpwrérurog; lat. Prototypus; ingl. Prototype; franc. Prototype; ted. Prototyp). Modello originario. Lo stesso che archetipo (v.). PROTRETTICO (gr. rporpertxéc). Esorta- zione alla filosofia (cfr. PLAT., Eutid., 278 c; Crr- sippo, Stoicorum Fragmenta, III, 189). La parola fu adoperata come titolo di libro da Aristotele, Epicuro, Cleante ed altri. PROVA (gr. texuipuov; lat. Probatio; ingl. Proof; franc. Preuve; ted. Beweis). Un procedimento adatto a stabilire un sapere cioè una conoscenza valida. Costituisce P. ogni procedimento del genere, qualunque sia la sua natura: il mostrare ad oculos una cosa o un fatto, l’esibire un documento, il riportare una testimonianza, l’effettuare un’indu- zione sono P. come sono P. le dimostrazioni della matematica e della logica. Il termine è pertanto più esteso di dimostrazione (v.): le dimostrazioni sono P. ma non tutte le P. sono dimostrazioni. Il concetto fu stabilito nel senso ristretto da Ari- stotele. «Dicono che la P. è ciò che produce il sapere» egli scrisse; e perciò distinse la prova dall’indizio o segno, che dà soltanto una conoscenza probabile (An. Pr., II, 27, 70 b 2). E nella Retorica aggiunse: «Quando si pensa che ciò che si è detto non può essere confutato, si pensa che si è portata una P., in quanto una P. è sempre dimostrata e perfetta 1; e il sillogismo stesso è una P. necessaria in questo senso (Rer., I, 2, 1357 b 5). Lo stesso concetto di un procedimento che stabilisce o scopre una cono- scenza fu espresso dagli Stoici nella definizione del segno indicativo come di « un enunciato che proce- dendo in sana connessione scopre ciò che consegue + (Sesto E., Jp. Pirr., II, 104); o del ragionamento dimostrativo come di quello che, «per mezzo di premesse convenute scopre, per via di deduzione, una conclusione non manifesta» (/bid., II, 135). I procedimenti cui si fa allusione in queste defini- zioni sono P. in quanto sono « discopritivi +, cioè in quanto producono (e giustificano) conoscenze. Nel sec. xvi Locke riproduceva a suo modo, cioè sul presupposto cartesiano della superiorità dell’in- tuizione, questo concetto di P.: « Quelle idee inter- medie che servono a dimostrare la concordanza fra due altre idee sono chiamate P.; e quando con questo mezzo è chiaramente ed evidentemente 708 percepita la concordanza o discordanza, questa è detta una dimostrazione; poichè allora la cosa è mostrata all’intelletto e lo spirito è portato a vedere che essa sta così » (Saggio, IV, 2, 3). Ma la dottrina di Locke segna una svolta importante nella storia del concetto di P. perchè ammette, per la prima volta, la possibilità di P. probabili. «La probabilità, diceva Locke, non è che l’apparenza della concor- danza o discordanza tra due idee mediante l’inter- vento di P. il cui legame non è costante e immutabile o almeno non è percepito come tale, ma è o appare tale per lo più ed è sufficiente a indurre lo spirito a giudicare che la proposizione è vera o falsa, piuttosto che non il contrario » (/bid., IV, 15, 1). Wolff dal suo canto pur identificando la P. con il sillogismo distingue da essa la dimostrazione in quanto sarebbe un sillogismo « che si avvale soltanto di premesse che sono definizioni, esperienze indu- bitabili e assiomi» (Logica, $ 498). Ma furono soprattutto Hume e Kant che stabilirono le distin- zioni fondamentali in questo campo. Hume propose di distinguere tutti gli argomenti in dimostrazioni, P. e probabilità, intendendo per P. « quegli argomenti tolti dall'esperienza che non soffrono dubbio ed obiezioni » (Ing. Conc. Underst., VI, nota): nella quale distinzione le dimostrazioni sarebbero limi- tate al dominio delle pure connessioni di idee. Kant a sua volta distinse quattro specie di P.: 1° la P. logica rigorosa, che va dal generale al particolare ed è la dimostrazione vera e propria; 2° il ragiona- mento per analogia; 3° l’opinione verosimile; 4° l’ipotesi cioè il ricorso a un principio esplicativo semplicemente possibile (Crir. del Giud., $ 90). Egli affermò che le P. dimostrative o apodittiche si trovano soltanto nel dominio delle matematiche giacchè queste procedono mediante la costruzione dei concetti: e che i principi di P. empirici non possono dare nessuna P. apodittica (Crit. R. Pura, Dottrina del Metodo, cap. I, sez. II). Questa era sostanzialmente un’accettazione del punto di vista di Hume. Dewey ha anch’egli accettato questo punto di vista, osservando che c’è « da un lato la dimostrazione razionale, che è questione di rigorosa consequenzialità nel discorso, dall’altro la dimo- strazione puramente ostensiva» (Logic, cap. XII; trad. ital., pag. 327). La distinzione tra dimostra- zione o « P. logica» o « deduttiva » o « necessaria + e la P. in generale ricorre frequentemente (cfr., ad es., W. HAMILTON, Lectures on Logic, 1866, II, pag. 38; G. BERGMANN, Philosophy of Science, 1957, pag. 4). Ma mentre l’analisi dei procedi- menti di P. usati dalle singole scienze (e quindi della nozione di P. in generale) ha ricevuto poca attenzione dai filosofi metodologici e non ha fatto progressi, la nozione di P. logica è stata ripetu- tamente claborata da matematici e logici. I prin- PROVA cìipi della «teoria della P.» furono stabiliti da D. Hilbert nel modo seguente: « Una P. è una figura che ci deve stare come tale davanti; essa consiste di conseguenze derivate secondo lo schema seguente N 3 T T nel quale ognuna delle premesse cioè le formule Se S-+T o è un assioma, cioè posta direttamente come tale, o coincide con la formula finale 7 di un ragionamento precedentemente giunto alla P. cioè consiste nell’assunzione di tale formula finale. Una formula si dice suscettibile di P. se essa o è un’as- sioma cioè assunta come un’assioma con un atto di posizione, o è la formula finale di un’altra P. + (« Die logischen Grundlagen der Mathematik », in Mathematische Annalen, 1923, pag. 152). In altri termini una P. logica è un procedimento che con- siste in una manipolazione di formule: manipola- zione che è a sua volta un insieme di formule. Dice Church, « Una sequenza finita di una o più formule ben formate è una P. se ciascuna delle formule ben formate della sequenza o è un assioma o è immediatamente inferita dalle precedenti for- mule della sequenza per mezzo di una delle regole di inferenza » (Intr. to Mathematical Logic, 1956, $ 07). Wittgenstein aveva già detto a questo propo- sito: « La P. in logica è solo un espediente mecca- nico per riconoscere più facilmente la tautologia quando è complicata» (Tractatus logico-philoso- phicus, 6.1262). La teoria matematica della P. è sostanzial- mente la riduzione della P. alla P. della non contradditorietà. Ora un teorema stabilito da K. Gédel nel 1931 afferma che si può sol- tanto provare, con l’aiuto di una parte delle matematiche, la non contraddizione di una parte più ristretta delle matematiche stesse; ma non si può provare la non contraddizione dell’insieme delle matematiche o di una parte più estesa di esse. Si può, ad es., dimostrare la non contraddizione della teoria dei numeri interi partendo dalla teoria dei numeri reali, non reciprocamente (cfr. CARNAP, Logical Syntax of Language, 1937, $ 35-36; QUINE, Mathematical Logic, 1940, cap. 7). Il teorema di Gédel porta, come osserva Quine, alla maturità una nuova branca della teoria matematica cioè la branca conosciuta come metamatematica o « teoria della P.», il cui oggetto è la stessa teoria mate- matica (Me:rhods of Logic, $ 41). Questo teorema stabilisce tuttavia che una P. della coerenza è sempre relativa perchè il risultato di essa vale soltanto finchè si ammette la coerenza del sistema in base al quale essa viene effettuata (cfr. Quine, From a Logical Point of View, pag. 99 sgg.). Cfr. pure E. NAGEL e J. R. NEWMANN, Gòdel’s Proof., 1958 (v. MATEMATICA), PSICANALISI PROVVIDENZA (gr. mpévota; lat. Providentia; ingl. Providence; franc. Providence; ted. Vorsehung). Il governo divino del mondo: che viene abitual- mente distinto dal destino, in quanto è considerato come esistente in Dio stesso mentre il destino è questo governo visto attraverso le cose del mondo (v. Destino). La nozione di provvidenza fa parte integrante del concetto di Dio come creatore dell’or- dine del mondo o come quest'ordine stesso (v. Dio). Per i problemi connessi col concetto di P., vedi MALE; TEODICEA. PROVVIDENZIALISMO (ingl. Providentia- lism). 1. La fiducia nell’azione della provvidenza. 2. La dottrina che vede nella storia un ordine o un piano provvidenziale. In quest’ultimo senso il termine è adoperato in italiano (v. STORIA). PRUDENZA (lat. Prudentia; ingl. Prudence; franc. Prudence; ted. Klugheit). V. SAGGEZZA. PSEUDOCONCETTO. P. o « finzioni con- cettuali » 0 « concetti finiti » chiamò Croce le nozioni che comunemente si dicono concetti, in contrapposto al «concetto puro» o « autentico concetto » con il quale egli intese la stessa Ragione universale nella sua forma conoscitiva. I P. servirebbero a conser- vare e a classificare le conoscenze acquistate (Logica, 1920, cap. II. PSEUDOPROPOSIZIONI (ingl. Pseudosta- tement; ted. Pseudosdizen). Termine adoperato da Carnap per indicare « espressioni che sono erronea- mente considerate come proposizioni ma non hanno contenuto conoscitivo, per quanto possano avere componenti di significato non cognitivo, per esempio emotivo » (Meaning and Necessity, $ 4). Secondo Carnap, molte proposizioni della metafisica classica sono P. in questo senso (cfr. Erkenntnis, II, 1931). PSICANALISI (ingl. Psychoanalysis; francese Psychanalyse; ted. Psychoanalyse). Sotto il nome di P. vanno: 1° un metodo di cura per certe malattie mentali; 2° una dottrina psicologica; 3° una dottrina metafisica; infine, e più spesso, una certa disordinata mescolanza di queste tre cose. I fondamenti della psicanalisi sono stati dallo stesso fondatore Sig- mund Freud così riassunti nell’introduzione di una delle sue opere maggiori: 1° i processi psichici sono in se stessi incoscienti e i processi coscienti sono soltanto atti isolati, frazioni della vita psichica totale; 2° i processi psichici incoscienti sono in buona parte dominati da tendenze che possono essere qualificate «sessuali» nel senso stretto o largo del termine. Quest’ultimo presupposto è in realtà la caratteristica fondamentale della P.; la quale è essenzialmente il tentativo di spiegare l’intera vita dell’uomo, e non solo quella privata o indivi- duale ma anche quella pubblica o sociale, con il ricorso a una sola forza che è l’istinto sessuale o libido (v.) nel senso tecnico di questo termine (Ein- 709 fiihrung in die Psychoanalyse, 1917, Intr.). Dal con- trasto tra gli impulsi sessuali dell'inconscio e le soprastrutture morali e sociali costituite da proi- bizioni e censure accumulate e consolidate dall’in- fanzia, nascono i seguenti fenomeni: a) i sogni, che sarebbero espressioni deformate e simboliche dei desideri repressi (cfr. Die Traumdeutung, 1900); b) gli arti mancati cioè i lapsus, le sviste, che sono falsamente attribuite al caso; e perfino gli scherzi e l’umorismo (cfr. Zur Psychopathologie des All- tagslebens, 1901; Der Witz und seine Bedeutung zum Unbewussten, 1905); c) le malattie mentali che pertanto possono essere curate portando il paziente, attraverso la confessione e la conversazione, a ri- conoscere i conflitti da cui emergono. A questo proposito, il sintomo di una malattia dev’essere considerato come «il segno e la sostituzione di una soddisfazione istintuale rimasta latente, il ri- sultato di un processo di rimozione» (Hemmung, Symptom und Angst, 1926, cap. 2; trad. ital., pa- gina 29). Uno dei fenomeni caratteristici della cura psicanalitica è il cosiddetto transfert cioè il tra- sferimento dei sentimenti del malato (positivi o negativi, cioè di amore o di odio) alla persona del medico (Einflihrung cit., cap. 27; trad. franc., pa- gina 461 sgg.); d) la sublimazione cioè il trasferi- mento dell’impulso sessuale ad altri oggetti, tra- sferimento che darebbe luogo ai fenomeni cosiddetti spirituali: arte, religione, ecc.; e) i cosiddetti com- plessi cioè sistemi o meccanismi associativi, rela- tivamente costanti in tutti gli uomini e cui vanno attribuiti i maggiori turbamenti mentali. La nozione e il termine di complesso fu introdotta da un se- guace di Freud, C. G. Jung (Wandlungen und Symbole der Libido, 1912). Ma Freud aveva già, nell’Inter- pretazione dei sogni, adombrato tutti i fatti fonda- mentali del cosidetto « complesso di Edipo +, che è quello per cui il bambino include nell’amore per la madre una certa gelosia o avversione verso il padre. Nel 1923 nello scritto L’Ego e Es (Das Ich und das Es) Freud dava una teoria psicologica che è stata largamente accettata dalla psicologia contemporanea. Egli divideva lo spirito in tre parti: l’Ego che è organizzazione e consapevolezza, perciò è in contatto con la realtà e cerca di asservirla ai suoi fini; il Super Ego che è ciò che comunemente si chiama coscienza morale, cioè l’insieme delle proibizioni che sono state instillate all'uomo nei primi anni di vita e che poi lo accompagnano sempre, anche in forma inconsapevole; e 1°Es che è costituito dagli impulsi molteplici della libido, di- retta costantemente verso il piacere. Questa dot- trina su cui lo stesso Freud è ritornato più tardi (cfr. Hemmung, Symptom und Angst, 1926) si è rivelata abbastanza utile sia per la descrizione e 710 l'interpretazione delle malattie mentali sia nella teoria della personalità. Freud e i suoi seguaci hanno presentato e presen- tano i loro concetti non come ipotesi o strumenti di spiegazione ma come realtà assolute, di natura metafisica. Ma una vera e propria metafisica, anzi una mitologia Freud ha formulato in uno dei suoi ul- timi scritti Das Unbehagen in der Kultur (1930, tradu- zione inglese, col titolo Civilisation and its Discon- tents, 1943), nel quale ha considerato tutta la storia dell’umanità come la lotta tra due istinti, l’istinto della vita o Eros e l’istinto della Morte. « Questa lotta, egli ha scritto, è ciò in cui ogni vita essenzial- mente consiste e perciò lo sviluppo della civiltà può essere descritto come la lotta della specie umana per l’esistenza. Ed è questa battaglia di titani che le nostre nutrici e governanti tentano di comporre con le loro filastrocche sui cieli » (Civilisation and its Discontents, 1943, pag. 102). Questa dottrina non è che un’espressione, non molto aggiornata, del dualismo manicheo. L’importanza della P. consiste in primo luogo nell’avere sottolineato la funzione del fattore ses- suale in tutte le manifestazioni della vita umana. Per la prima volta, con la P., questo fattore ha cessato di essere una zona d’ignoranza obbligata per la scienza e per la filosofia e ha potuto essere studiato nei suoi effettivi modi d’azione. In secondo luogo, la P. ha fornito un insieme di concetti che, per quanto non molto compatibili tra loro, si prestano ad essere utilizzati da varie branche della psicologia contemporanea, soprattutto sc sottratti al dogmatismo con cui alcuni seguaci di Freud li hanno trattati. Questo secondo aspetto positivo ha però una controparte negativa: la P. fornisce a molti orecchianti il modo di apprestare spie- gazioni apparentemente plausibili e molto a buon mercato dei fenomeni umani più disparati, scam- biando anche, talora, questa spiegazione per una giustificazione morale 0 metafisica. In terzo luogo, la P. ha avuto il merito di apprestare uno stru- mento curativo che continua a dimostrarsi efficace, anche se molte delle illusioni ottimistiche che esso aveva suscitato ai suoi inizi sono andate perdute. Tra i molti indirizzi interpretativi, che hanno più o meno modificato le dottrine fondamentali della P., se ne possono ricordare due, quella di Jung e quella di Adier. Jung ha concepito l’istinto fon- damentale dell’uomo non già come di natura ses- suale ma come una Energia originaria e creativa che si identifica con il concetto generico della divi- nità e costituisce l'inconscio collettivo che è il fondo comune della natura umana (Psicologia dell’in- conscio, 19425): Alfred Adler invece ha identificato l’istinto fondamentale dell’uomo con la volontà di potenza di cui parlava Nietzsche cioè come uno PSICANALISI ESISTENZIALE spirito di aggressione e di lotta che è in conflitto con l’altro istinto, il sentimento della comunità umana che lega l’individuo a tutti gli altri. Il gioco di queste due forze determinerebbe il carattere di ogni singolo uomo e le sue manifestazioni patolo- giche (La conoscenza dell’uomo, 1927). PSICANALISI ESISTENZIALE (franc. Psy- chanalyse existentielle). Sartre ha chiamato con questo nome l’analisi filosofico-esistenziale in quanto cerca di determinare la «scelta originaria » che è alla base di ogni umano « progetto di vita ». Il prin- cipio di questa psicanalisi è che « l’uomo è una tota- lità e non una collezione +; e il suo scopo è quello di « decifrare i comportamenti empirici dell’uomo », Inoltre il suo punto di partenza è l’esperienza e il suo metodo è quello comparativo (L’étre er le néant, 1943, pag. 656). La P. esistenziale si differenzia da quella di Freud che Sartre chiama « empirica » perchè cerca di determinare non già i « complessi » ma la scelta originaria (/bid., pag. 657). PSICHE (ingl. Psyche; franc. Psyché; ted. Psy- che). Anima o coscienza (v. questi due termini). PSICHEDELICO (ingl. Psychedelic). Aggettivo che dovrebbe significare « manifestante la psiche », coniato recentemente per qualificare le esperienze prodotte dall’uso dell’acido lisergico (LSD) o di altre droghe, in quanto assunte o credute come rivelazioni di una realtà più profonda di quella che si manifesta nell’esperienza comune e che è di natura divina o è la divinità stessa immanente nel mondo (cfr. W. BRADEN, The Private Sea, London, 1967). PSICOFISICA. V. PsicoLOGIA, b). PSICOGENESI (ingl. Psychogenesis; francese Psychogénèse; ted. Psychogenese). Lo sviluppo dei processi mentali, o la considerazione di tale sviluppo. PSICOGNOSI (ingl. Psychogrosy). Termine adoperato da Peirce per indicare il complesso delle scienze psichiche (Coll. Pap., 1.242). PSICOGRARFIA (ingl. Psychography; francese Psychographie; ted. Psychographie). Descrizione dei processi o dei caratteri psichici di un individuo. PSICOIDE (ingl. Psychoid; franc. Psychotd; ted. Psycholde). Nome dato dal biologo vitalista H. Driesch alla forza psichica che presiede alla forma- zione e allo sviluppo degli organismi (v. VITALISMO). PSICOLOGIA (ingl. Psychology; franc. Psy- chologie; ted. Psychologie). La disciplina che ha per oggetto l’anima o la coscienza o gli eventi caratteristici della vita animale ed umana, comunque tale eventi siano poi caratterizzati al fine di deter- minarne la natura specifica. Talvolta infatti tali eventi si considerano come puramente «mentali» cioè come «fatti di coscienza»; talaltra come eventi oggettivi od oggettivamente osservabili, cioè come movimenti, comportamenti, ecc.; ma in ogni caso PSICOLOGIA l’esigenza cui queste definizioni rispondono è quella di delimitare il dominio dell’indagine psicologica alla cerchia ristretta dei fenomeni caratteristici degli organismi animali e specialmente dell’uomo. Dal

punto di vista dell’impostazione concettuale (che è quello che interessa la filosofia) si possono distin- guere i sei indirizzi fondamentali seguenti: a) P. ra- zionale; 5) P. psicofisica; c) P. gestaltistica; d) P. com- portamentistica; e) P. del profondo; f)P. funzionale. a) La P. razionale o filosofica è quella fondata da Aristotele che per primo raccolse nel suo libro De Anima le opinioni che i suoi predecessori ave- vano espresso intorno a questo soggetto. Questa P. ha per oggetto « la natura, la sostanza, e le deter- minazioni accidentali dell'anima », intendendosi per anima «il principio degli esseri viventi» (De An., I, 1, 402 a 6). Il presupposto fondamentale di questa P. è esplicito in queste notazioni: essa presuppone negli eventi che prende a studiare un principio unico e semplice, una sostanza necessaria, dalla quale si lascino dedurre le determinazioni che quegli eventi posseggono costantemente o per lo più. La P. è in questo senso una scienza deduttiva del- l'anima nella quale i fenomeni particolari entrano soltanto come conferme occasionali dei singoli teoremi che la costituiscono. Ben a ragione nel sec. Xvili Wolff dava a questa P. il titolo di « razio- nale » in quanto per essa si tratta di « derivare a priori dall’unico concetto dell'anima umana tutte le cose che si osservano a posteriori competere ad essa» (Log., Disc. prel., $ 112). Ma fu merito di Wolff aggiungere a tale P. una P. s empirica + definita come «la scienza che stabilisce attraverso l’esperienza i princìpi con i quali si possa rendere ragione di ciò che accade nell’anima umana» (/bid., $ 111; Psy- chologia empirica, 1732, $ 1). La P. razionale in questo senso rimane un indirizzo proprio delle filosofie che si ispirano alla metafisica tradizionale, ma ha cessato di avere qualsiasi efficacia sullo sviluppo scientifico della psicologia. b) La P. psicofisica o più semplicemente la psicofisica ha costituito il primo indirizzo empirico o sperimentale o scientifico della psicologia. Wolff aveva già prescritto per essa il procedimento indut- tivo o sperimentale proprio di tutte le scienze empi- riche; Maine di Biran, ai princìpi dell’800, le pre- scriveva il suo campo d’azione: la coscienza (Essai sur les fondements de la psychologie, 1812). Con ciò tuttavia non c’erano ancora tutte le condizioni per la fase scientifica della psicologia. Ne manca- vano due, strettamente connesse tra loro; in primo luogo, il riconoscimento dello stretto rapporto tra gli eventi psichici e gli eventi fisici mediato dal- l’azione del sistema nervoso; in secondo luogo, l’introduzione di un qualche procedimento di mi- sura. La realizzazione di queste due condizioni 711 condusse la P. a costituirsi come psicofisica. Ciò avvenne per opera di Helmholtz, Weber, e Fechner: il primo dei quali riusciva a misurare nel 1850 la velocità dell’impulso nervoso; mentre il secondo enunciava la cosiddetta « legge » concernente il rap- porto tra lo stimolo e la sensazione (e secondo la quale l’aumento dello stimolo necessario per es- sere percepito come tale è proporzionale all’inten- sità dello stimolo originario); e l'ultimo stabiliva la «legge psicofisica fondamentale » che consisteva nella formula matematica esprimente la legge di Weber. Nel 1860 Fechner pubblicava gli Elementi di psicofisica che definivano la psicofisica come «la scienza esatta delle relazioni funzionali o re- lazioni di dipendenza fra lo spirito e il corpo». Questo fu e rimase il programma della P. scien- tifica in questa prima fase della sua organizzazione: un programma nel quale trovarono posto agevol- mente i risultati delle analisi dell’empirismo inglese da Locke a Spencer. Quest'ultimo nei Principi di P. (1855) aveva anch’egli definito come psico- fisica il compito della P. asserendo che «la P. si distingue dalle scienze sulle quali poggia [dall’ana- tomia e dalla fisiologia] perchè ciascuna delle sue proposizioni prende in considerazione sia il feno- meno interno connesso sia il fenomeno esterno connesso, al quale si riferisce » (Principles of Psy- chology, 3* ed., 1881, pag. 132). Dall’empirismo inglese, la P. desunse due tratti fondamentali che l’accompagnarono in questa prima fase della sua costituzione cioè l’atomismo (v.) e l’associazio- nismo (v.): sicchè le sue strutture teoretiche fon- damentali possono ricapitolarsi nel modo seguente: 1° La P. ha per oggetto i « fenomeni interni » o « fatti di coscienza » e il suo principale strumento di indagine è l’introspezione o riflessione. Per questo aspetto l’indirizzo in esame della P., fu spesso chia- mato P. soggettiva o riflessiva o, più raramente, ‘ critica ’. 2° I fatti di coscienza o fenomeni interni sono studiati dalla P. nella loro connessione funzio- nale con i fenomeni esterni cioè fisiologici o fisici. Per quest’aspetto che è il più proprio della fase in questione tale P. fu chiamata psicofisica o anche (da Wundt) P. fisiologica. A questo aspetto si collega l’ipotesi che ha sorretto in questa fase il lavoro sperimentale della P.: il parallelismo psicofisico (v.). 3° La tendenza a risolvere il fatto di coscienza in elementi ultimi (sensazioni, emozioni elementari, riflessi o istinti elementari) e a spiegare i fenomeni più complessi con la combinazione di tali elementi: (atomismo, associazionismo). 4° Il carattere scientifico della P. è costituito dal ricorso ai procedimenti dell’induzione, dell’espe- rimento e del calcolo matematico; il ricorso a tali 712 procedimenti stabilisce il carattere descrittivo che la P. rivendica per sè, analogamente a quanto fanno

le altre discipline empiriche. c) La P. della forma o gestaltismo o configurazio- nismo batte in breccia il caposaldo 3° della P. psico- fisica cioè l’atomismo e l’associazionismo. Essa consiste nell’assumere come punto di partenza il principio simmetrico e opposto a quello della P. associativa: non già l’elemento, ma la forma totale è il fatto fondamentale della coscienza, giacchè questa forma non è mai riducibile ad una somma o combinazione di elementi. La P. della forma ebbe come suoi fondatori Wertheimer, Kéhler e Koffka; e pur mantenendo sostanzialmente immutato il caposaldo 2° della psicofisica cessò di parlare di fatti o fenomeni di coscienza per considerare forme o configurazioni o campi, colti nella loro struttura totale. La P. della forma si è occupata soprattutto della percezione, rispetto alla quale ha accumulato una mole ingente di lavoro speri- mentale (v. PERCEZIONE, 3, @). d) La P. obiettiva o comportamentismo batte in breccia il caposaldo 1° della P. psicofisica, negando che lo strumento fondamentale della P. sia l’intro- spezione o riflessione e che i fatti di coscienza o fenomeni interni siano l’oggetto di questa scienza; e asserendo che costituiscono invece oggetto della P. le reazioni degli organismi agli stimoli: inten- dendosi per reazioni, movimenti o fenomeni ogget- tivamente osservabili, che si producono in rapporto agli eventi dell'ambiente che funzionano da stimoli. Nel 1907 il fisiologo russo Bechterev pubblicava una P. obiettiva (che fu poi tradotta in inglese e francese) che sosteneva appunto questa tesi; che più tardi gli studi di Pavlov sui riflessi condizionati difesero e diffusero (v. AZIONE RIFLESSA). Da quella data si può pertanto far cominciare il comporta- mentismo; che tuttavia ebbe il suo nome alcuni anni più tardi, dall’americano J. B. Watson, in un articolo del 1913 e poi in un libro intitolato Compor- tamento, introduzione alla P. comparativa (Behavior. An Introduction to Comparative Psychology, 1914). In questa prima fase il comportamentismo assumeva il carattere di un necessitarismo rigoroso; la reazione dell’animale era considerata come l’effetto causale necessario dello stimolo, perciò come infallibilmente prevedibile a partire da esso. L'abbandono di questo necessitarismo e il riconoscimento del carattere sem- plicemente statistico o probabilistico delle costanti riscontrabili nelle reazioni di risposta degli organismi agli stimoli costituisce la fase più moderna del com- portamentismo stesso (v. COMPORTAMENTISMO). e) Le cosiddette P. abissali o P. del profondo battono in breccia il caposaldo 4° della P. scientifica classica, considerando la P. come scienza non di descrizione ma di interpretazione. Per la psicanalisi

PSICOLOGIA infatti, che è la maggiore e più coerente espressione delle P. abissali, l’interpretazione desume il suo punto di partenza non già da fatti come fa la descri- zione, ma da sintomi e la nozione di sintomo è difatti uno dei concetti fondamentali della psicanalisi (v. Inconscio). Nell’interpretazione dei sintomi la psicanalisi segue una sola regola fondamentale: quella di ridurre il sintomo stesso a simbolo o espres- sione deformata di un bisogno o di un conflitto di natura vagamente sessuale, attinente cioè alla libido (v. Lramo; PSICANALISI; SESSUALITÀ). Va- rianti della psicanalisi sono la cosiddetta P. indi- viduale di Alfred Adler, la quale insiste soprattutto sul carattere finalistico dei procedimenti psichici (Praxis und Theorie der Individualpsychologie, 1924); e la P. analitica di C. G. Jung che in realtà è molto poco analitica (nel senso proprio del termine) perchè non fa che riconoscere il carattere simbolico a molti sintomi che lo stesso Freud considerava come aventi un significato diretto (Collected Papers on Analy- tical Psychology, 1916) (v. Inconscio; PROFONDO). f) La P. funzionale o funzionalismo è quell’in- dirizzo il quale ritiene che l’oggetto della P. sia costituito dalle funzioni od operazioni dell’orga- nismo vivente, considerate come unità minime indi- visibili. Il funzionalismo si fa iniziare da uno scritto di Dewey del 1896 sul Concerto dell’arco riflesso in P. nel quale si sosteneva che l’arco riflesso non si può dividere in stimolo e risposta ma dev'essere considerato come un’unità dalla quale soltanto stimolo e risposta traggono significato. Per indicare l’unità della funzione lo stesso Dewey adoperò in seguito la parola transazione (v.): che serviva a sotto- lineare l’impossibilità di considerare come entità per sè stanti, e indipendenti dalla relazione in cui entrano, gli elementi di una funzione qualsiasi (cfr. Knowing and the Known, 1949, in collaborazione con A. F. Bentley). L’indirizzo funzionalistico abbandona i presupposti 1°, 2° e 3° della P. tradi- zionale. Abbandona il presupposto 1° perchè l’og- getto che prende a studiare non è un fatto di coscienza ma una funzione cioè un’operazione con la quale l’organismo entra in rapporto con l’ambiente. Abbandona il caposaldo 2° perchè il metodo di cui esso si avvale non è quello introspettivo ma piut- tosto quello oggettivo o comportamentistico: le fun- zioni devono essere studiate mediante procedimenti di osservazione oggettiva. Infine il funzionalismo ha in comune con la P. della forma l’abbandono del caposaldo 3°. Ma il carattere del funzionalismo che costituisce la sua maggiore novità nei confronti degli altri indirizzi della P. è il suo probabilismo: che consiste nel negare non solo ai procedimenti

della scienza ma anche a tutte le funzioni conoscitive umane (compresa la percezione immediata), il carat- tere della certezza infallibile e nel riconoscere a tutte PSICOLOGISMO queste funzioni la possibilità di raggiungere solo validità probabile. Per questo probabilismo, il fun- zionalismo costituisce l’inserzione della P. nel circolo delle idee fondamentali della scienza contempo- ranea (cfr. BRUNSWIK, Psychology in Terms of Objects, 1936; CANTRIL, AMES, HASTORF, ITTELSON, « Psychology and Scientific Research», in Science, vol. 110, 1949; CANTRIL, The ‘ Why° of Man's Experience, 1950; trad. ital, Le motivazioni del- l’esperienza, 1958; v. pure le opere citate nella bibliografia di quest’ultimo libro). PSICOLOGICO (ingl. Psychological; franc. Psy- chologique; ted. Psychologisch). 1. Ciò che concerne la psicologia; e in questa accezione il termine ha tanti significati diversi quanti sono i diversi indirizzi concettuali della psicologia stessa. 2. Ciò che concerne la coscienza dell’individuo cioè gli atteggiamenti o le valutazioni individuali. In tal senso si dice, per es., che «si tratta di una questione puramente P.» quando si tratta di una questione cui non si può trovare una base nei fatti o nell’ambito di un determinato universo di discorso (per es., scientifico, logico, ecc.). PSICOLOGISMO (ingl. Psychologism; francese

Psychologisme; ted. Psychologismus). 1. Termine di origine ottocentesca che designa in primo luogo qualsiasi filosofia che assuma a suo fondamento i dati della coscienza cioè della riflessione dell’uomo su se stesso. In questo senso lo P. fu inteso, in pole- mica con l’idealismo hegeliano, da G. F. Fries (1773-1844) e da F. E. Beneke (1798-1854) che en- trambi assunsero esplicitamente come metodo e compito della filosofia l’auto-osservazione o co- scienza. Da questo punto di vista la psicologia, come descrizione dell’esperienza interna, diventa l’unica filosofia possibile (cfr. FrIEs, Neue oder an- thropologische Kritik der Vernunft, 1828; BENEKE, Die Philosophie în ihrem Verhdltnis zur Erfahrung, zur Speculation und zum Leben, 1833). Più generica- mente, e polemicamente, V. Gioberti intendeva per P. il procedimento filosofico che va dall’uomo a Dio, in quanto contrapposto a quello che va da Dio al- l'uomo. Quest'ultimo è l’onrologismo (v.). Lo P. è da Gioberti considerato come la caratteristica di tutta la filosofia moderna da Cartesio in poi (/ntr. allo studio della filosofia, 1840, II, pagina 175). 2. Nel suo uso polemico, il termine è costante- mente usato per designare la confusione tra la genesi psicologica della conoscenza e la sua validità; o la tendenza a ritenere giustificata la validità di una conoscenza quando si è invece spiegata soltanto il suo accadimento nella coscienza. In questo senso, colui che ha chiarito per primo il concetto di P. (per quanto non ne abbia adoperato il nome) e ha iniziato la polemica contro di esso, è stato Kant il quale distingueva, a proposito dei concetti a priori, 713 la quaestio facti della loro « derivazione fisiologica + cioè del loro accadere nella mente o nella coscienza dell’uomo, dalla quaestio juris che consiste nel chiedersi il fondamento della loro validità e che esige come risposta la deduzione (v. DEDUZIONE TRASCENDENTALE) (Crift. R. Pura, $ 12). Questa distinzione che è sempre presente nell’opera di Kant, significa la scoperta della dimensione /ogico- oggettiva della conoscenza: una dimensione, la cui irreducibilità alla coscienza o alle condizioni sog- gettive del conoscere è stata sostenuta da molte scuole kantiane: dalla scuola del Baden (Windel- band, Rickert) dalla scuola di Marburgo (Cohen, Natorp) dalla fenomenologia (Husserl) che hanno, nella filosofia degli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nostro, costantemente combattuto lo psicologismo. Herman Lotze nella Logica del 1874 aveva sistematicamente fatto valere il punto di vista antipsicologistico distinguendo costante- mente l’atto psichico del pensare, che esiste solo come un determinato evento temporale, dal con- tenuto del pensiero che ha altro modo d'essere, quello della validità. G. Frege aveva fatto valere nel dominio della logica matematica lo stesso punto di vista. « Non si prenda come definizione mate- matica, egli diceva, la semplice descrizione del modo in cui si forma in noi una certa immagine nè come dimostrazione di un teorema il resoconto delle condizioni fisiche o psichiche che devono trovarsi in noi soddisfatte perchè ne possiamo com- prendere l’enunciato. Non si confonda la verità di una proposizione con il suo venir pensata! Oc- corre ricordarsi bene di questo: che una propo- sizione non cessa di essere vera allorchè io non la penso più, come il sole non cessa di esistere al- lorchè io chiudo gli occhi» (Die Grundlagen der Arithmetik, 1884, Intr.; trad. ital, in Arifmetica e logica, pag. 23). Queste considerazioni venivano quasi alla lettera ripetute da Husserl (Logische Untersuchungen, 1900, I, $ 17 sgg.), il quale ribadiva più tardi che « se designiamo un numero come una formazione psichica cadiamo in un assurdo, urtiamo contro il senso intrinseco del discorso aritmetico, che sta prima di tutte le teorie ed è in ogni momento chiaramente contemplabile nella sua piena validità + (Ideen, I, 1913, $ 22) e metteva in guardia contro la tendenza a « psicologizzare l’eidetico » cioè a identi- ficare le essenze con la coscienza che si ha di volta in volta di esse (/bid., $ 61). L’indirizzo antipsicolo- gistico in questo senso è oggi alla base di filosofie ap- parentemente disparate: dell’esistenzialismo, per es., nella forma che ha assunto nell’opera di Heidegger in quanto è analisi delle situazioni umane nella loro essenza e non nel loro accadere psichico (cfr. Sein und Zeit, $ T); come dell’empirismo logico il cui principale rappresentante, R. Carnap, ha costante- 714 mente polemizzato contro lo P. (cfr. Der /ogische Aufbau der Welt, 1928, $ 151 sgg.; « Empiricism, Semantics and Ontology +, 1950, in Readines in Phil. of Science, 1953, pag. 514). La polemica contro lo P. è d’altronde frequente nell’empirismo logico (cfr., per es., A. Pap, Elements of Analytic Philosophy, 1949, pag. 406). PSICOMETRIA (ingl. Psychometry; francese Psychométrie; ted. Psychometrie). La misura della fre- quenza, dell'intensità o della durata degli eventi psi- chici. Il termine (psycheometria) nonchè l’esigenza della applicazione della misura a fatti psichici furono proposti da Wolff (Psychol. empirica, $ 522, 616). Il ter- mine fu molto adoperato dalla psicofisica che talvolta si identificò con la psicometria. Ora è caduto in disuso. PSICOPATIA (ingl. Psychopathy; franc. Psy- chopathie; ted. Psychopathie). Qualsiasi disordine o malattia mentale; o le forme meno gravi di tali malattie. In quest'ultimo senso la P. sarebbe diversa dalla psicosi (v.). PSICOSI (ingl. Psychosis; franc. Psychose; ted. Psychose). Nel significato ora in uso: malattia mentale grave che implica perdita o disordine di processi mentali. Psiconevrosi o semplicemente nevrosi: malattia o disturbo mentale meno grave. In generale s’intende per P. l’indebolimento o la perdita del rapporto verificabile con le cose o con gli altri, rapporto che è costitutivo della persona- lità (v.) e la cui alterazione quindi comporta lo squilibrio della personalità stessa. Per rapporto verificabile si può intendere un rapporto che può essere controllato o non smentito dai criteri comu- nemente riconosciuti validi o che comunque non equivalga alla negazione di ogni rapporto possibile. PSICOSOMATICO (inglese Psychosomatic; franc. Psychosomatique; ted. Psychosomatik). Che concerne l'influenza degli atteggiamenti mentali (cioè del modo di pensare e di sentire di una persona) sui processi organici. Si chiama psicosomatica la branca della medicina che studia tali influenze (con- fronta F. ALEXANDER, Psychosomatic Medicine, 1949). PSICOTECNICA (ingl. Psychotechnic; fran- cese Psychotechnique; ted. Psychotechnik). L'appli- cazione della psicologia ai problemi del lavoro e della produzione: l’ingegneria psicologica. PSICOTERAPIA (ingl. Psychotherapy; francese Psychothérapie; ted. Psychotherapie). La soluzione dei conflitti sia individuali sia di gruppo, o la cura di stati mentali patologici mediante consigli, chiarimenti o suggerimenti verbali, senza ricorso a mezzi mate- riali. La psicanalisi è la più nota e diffusa forma di psicoterapia. Una forma più aggiornata è la cosid- detta «P. non direttiva» secondo la quale il procedi- mento di cura consiste nel cercare di trovare, mediante una conversazione amichevole con il paziente, l’imma- gine che egli si fa di se stesso e dei suoi fini nella vita, PSICOMETRIA aiutandolo a liberarsi dai conflitti (cfr. C. R. RoGERS, Counseling and Psychotherapy, 1937) (v. PSICANALISI). PSITTACISMO (ingl. Psittacism; franc. Psit- tacisme; ted. Psittazismus). L’uso delle parole senza il loro riferimento agli oggetti, come fanno i pappagalli. Diceva Leibniz: « Si ragiona spesso con le parole senza quasi aver l’oggetto nello spirito... +; e in questo caso «i nostri pensieri e i nostri ragionamenti, contrari al sentimento, sono una specie di P.» (Nouv. Ess., II, 21, 35). Sul lin- guaggio oratorio considerato come una specie di P. cfr. C. K. OGpEN-I. A. RICHARDS, The Meaning of Meaning, 10* ed., 1952, pag. 218. PUBBLICITÀ (ingl. Publicity; franc. Publicité; ted. Offentlichkeit). Secondo Kant è il criterio per riconoscere immediatamente la legittimità di una pretesa giuridica. Kant chiama formula tra- scendentale del diritto pubblico il seguente principio: «Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è suscettibile di P., sono ingiuste + (Zum ewigen Frieden, appendice II. PUBBLICO (ingl. Public; franc. Publique; ted. Offentlich). L’aggettivo è usato in senso filo- sofico (specialmente da scrittori anglosassoni) per designare quelle conoscenze o quei dati o elementi di conoscenza che sono disponibili a chiunque in condizioni adatte e non appartengono alla sfera privata e incontrollabile della coscienza. P. in questo senso è ciò che Kant chiamava oggettivo (v.): ciò che può essere partecipato ugualmente da tutti e perciò anche espresso o comunicato con il linguaggio (cfr. B. RusseLL, Human Knowledge, II, 1; tradu- zione ital., pag. 81). PUNIZIONE. V. Pena. PUNTO (lat. Punctum; ingl. Point; franc. Point; ted. Punkt). Leibniz ammise accanto al P. matema- tico e al P. fisico il P. metafisico che è la sostanza spirituale come elemento costitutivo del mondo. Egli così distingueva le tre specie di P.: « I P. fisici sono indivisibili solo in apparenza; i P. matematici sono esatti ma sono solo modi; soltanto i P. metafisici o di sostanza, costituiti dalle forme o anime, sono nello stesso tempo esatti e reali; e senza di essi non ci sarebbe nulla di reale perchè nelle vere unità non ci sarebbe molteplicità 1 (Sy- stème nouveau de la nature, 1695, $ 11). I P. metafisici non sono che le monadi (v.). PURIFICAZIONE. V. CATARSI. PURISMO (ingl. Purism; franc. ‘Purisme; te- desco Purismus). 1. In senso morale: «specie di pedanteria relativa all’osservazione del dovere considerato nel senso più largo + (KANT, Met. der Sitten, Dottrina della virtù, I, $ 7). a. In senso linguistico: specie di pedanteria relativa alla pretesa di conservare a una lingua la sua forma classica © originaria. PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS, EDENTULI 3. In senso metafisico: specie di pedanteria relativa alla troppo rigorosa separazione di una facoltà umana dall'altra. In questo senso la parola fu usata da G. C. Hamann nel titolo del suo scritto Metacritica del P. della ragione (1788, postumo) nel quale rimproverava a Kant questa specie di pedanteria nei rispetti della ragione. PURO (ingl. Pure; franc. Pur; ted. Rein). x. Ciò che non è mescolato con cose d'altra natura; o, più esattamente, ciò che è costituito in modo rigo- rosamente conforme alla propria definizione. Questa seconda definizione spiega l’amplissimo uso che i filosofi fanno di questo aggettivo; in quanto, definito un oggetto, si trovano spesso a dover distinguere tra le condizioni in cui l'oggetto appare rigorosamente conforme alla propria definizione e le condizioni in cui invece si allontana in qualche misura da essa: nelle prime condizioni, l’oggetto è detto puro. Anassagora chiamava P. l'intelletto perchè esso « solo fra tutti gli enti è semplice e non mescolato » (ARIsT., De an., 405a 16). Platone parlava di un piacere « P.» cioè non mescolato di dolore (Fi/., 51 a, 52 c). Cartesio della matematica «P.» (Med., VI). Leibniz della « P.+ ragione (Op., ed. Erdmann, pag. 229-230, ecc.). E così Wolff (Psychol. empirica, $ 495). « Atto P. » è stato detto il primo motore di Aristotele in quanto è attività per- fetta, priva di potenza; ma l’espressione non è ari- stotelica (cfr. Met., XIT, 6, 1071 b 22; 8, 1074 a 36). 2. Kant chiamò P. o « assolutamente P.» una conoscenza « nella quale in generale non si trova mescolata alcuna esperienza o sensazione e che perciò è possibile completamente a priori» (Crit. R. Pura, Intr., $ vu). In questo senso la ragion P. «è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa assolutamente a priori ». Una scienza della ragion P. è, non una dottrina, ma una critica, in quanto non può dare un sistema compiuto della ragion P. e può avere funzione solo negativa « ser- vendo a epurare, non ad allargare, la nostra ragione e a liberarla dagli errori » (/bid.). In questo senso il 715 contrapposto di P. è empirico. L'aggettivo fu usato nello stesso senso da Fichte che chiamò P. l’Io assoluto (o la sua attività) in quanto è diverso dall’io empiricamente condizionato ed in quanto la sua attività prescinde completamente dall’espe- rienza (Wissenschaftslehre, 1794, III, $ 5, ID. Quest’uso è rimasto costante nell’idealismo di ispi- razione romantica. Gentile chiamò arto P. il pen- siero pensante in quanto indipendente da ogni condizione o contenuto empirico (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1920). 3. Nel linguaggio comune si dice P. una scienza o una disciplina trattata teoreticamente cioè senza riguardo alle sue applicazioni possibili; e P. è divenuta così il contrario di applicato. Già Hamilton notava l’improprietà di questo uso (Lectures on Logic, I, 1866, pag. 62). PURPUREA, ILIACE, AMABIMUS, EDENTULI. Termini mnemonici della logica tradizionale per esprimere l’equivalenza delle quattro proposizioni modali rappresentate ognuna da una sillaba nell’ordine seguente: possibile, contingente, impossibile, necessario. La vocale che si trova in ciascuna sillaba cioè 4 o E 0 7 o U indica se il modo dev'essere affermato o negato e se la proposizione dev'essere affermata o negata. A significa l’afferma- zione del modo e l’affermazione della proposizione; E l’affermazione del modo e la negazione della proposizione; / la negazione del modo e l’afferma- zione della proposizione; U la negazione del modo e la negazione della proposizione. In tal modo tutte le quattro proposizioni indicate dalla medesima parola sono equipollenti, sicchè se l’una è vera, le altre sono anche vere (ARNAULD, Log., II, 8). Per es., se p è una proposizione qualsiasi, per la parola Purpurea si ha: Possibile —="U= Non è possibile che non p. Contingente = U = Non è contingente che non p. Impossibile = E = È impossibile che non p. Necessario = A = È necessario che p. Analogamente per le altre parole. Q QUACCHERISMO (ingl. Quakerism; francese Quakerisme). Il più radicale e liberale fra gli indirizzi religiosi della Riforma. Il movimento fu iniziato nel 1649 in Inghilterra da George Fox e il vero nome dei quaccheri fu «Società degli Amici» (Friends Society). Il nome quaccheri fu coniato dal giudice Bennet perchè durante un lungo interro- gatorio di George Fox questi gli ingiunse di « tre- mare alle parole del Signore». Tra le maggiori personalità religiose che aderirono a questo movi- mento fu W. Penn, che nel periodo delle persecu- zioni emigrò in America e fondò la colonia di Penn- sylvania; e Robert Barkley che fu il teorico del movimento. Il Q. è caratterizzato: 1° dalla risoluta avversione a ogni forma di culto esterno, di rito, di predicazione, ecc.; 2° dal riconoscimento che l’unica guida dell’uomo è la luce interiore che viene direttamente da Dio; 3° dal carattere attivo e otti- mistico che tale fede interiore acquista nei quaccheri i quali ritengono lo stesso peccato originale come una corruzione naturale superabile; 4° dalla condanna di ogni violenza e quindi dall’avversione alla guerra. Nelle Lertere sugli inglesi (1734) Voltaire esaltava la ragionevolezza e la validità della religiosità propria dei quaccheri (Left., I-IV) (cfr. ELFRIDA Vipont, The Story of Quakerism, 1652-1952, Lon- don, 1954). QUADRATO DEGLI OPPOSTI. Indicando, secondo l’uso scolastico, con A, E, /, O rispettiva- mente la proposizione universale affermativa (« ogni uomo corre +), l’universale negativa (« nessun uomo corre +), la particolare affermativa (« qualche uomo corre +) e infine la particolare negativa (s qualche uomo non corre +) e disponendole in Q. in questo modo: A contrarie E 2uI9)|eqns subalterne I subcontrarie (0) se ne ottengono le relazioni logiche fondamentali. A ed E sono contrarie: possono essere entrambe false, ma non entrambe vere; A ed O, E ed / sono invece contradittorie: non possono essere nè en- trambe vere nè entrambe false: / ed O sono sub- contrarie: possono essere entrambe vere, ma non entrambe false; A ed /, E ed O subalternate, nel senso che A si subalterna (implica) /, E si subalterna (implica) O (ma non viceversa). L’origine di questo celebre artificio didattico, certamente medievale, è oscura. Fu erroneamente attribuita dal Prantl al platonico bizantino M. Psello, e perciò il Q. vien detto anche «Q. di Psello »; ma se ne ha la documentazione più antica sinora conosciuta nelle Introductiones în Logicam di Guglielmo di Shyres- wood (seconda metà del sec. xim), sebbene in testi anteriori non mancassero esempi di paradigmi e schemi del genere. G. P. QUALITÀ QUADRIFARMACO (gr. tetpapdppaxov). Con questo termine (che propriamente significa una medicina composta di quattro elementi) Filodemo (Herc. Vol., 1005, 4) indicò l’insieme delle quattro massime fondamentali dell’etica epicurea e cioè: 1° non temere la divinità che non si occupa del- l’uomo; 2° non temere la morte; 3° tener presente la facilità del piacere; 4° tener presente la brevità del dolore (cfr. EPICURO, Ep. a Menec., 123, 124, 133). QUADRIVIO. V. CULTURA, ARTE. QUAESTIO. Il metodo di trattazione proprio della scolastica medievale a partire dal sec. xu. Il primo esempio del metodo è il Sic et Non di Abelardo: una raccolta di opinioni (sententiae) di Padri della Chiesa, disposte per problemi, in modo da far apparire le varie sentenze come risposte positive o negative del problema proposto (donde il titolo, che suona sì e no). Nella sua forma matura, la Q. è costituita dalle parti seguenti: 1° l’enunciato (es.: « Utrum deum esse sit per se notum +); 2° l'elen- cazioni delle ragioni che stanno in favore della tesi che sarà rigettata dall’autore (Ad primum sic pro- ceditur. Videtur quod deum esse sit per se notum); 3° l’elencazione delle ragioni che militano in favore della tesi opposta (Sed contra; ...); 4° l'enunciazione della soluzione scelta dall’autore (Conclusio); 5° l’il- lustrazione di tale soluzione; 6° la confutazione delle tesi addotte per la soluzione respinta, nell’or- dine in cui sono state addotte (Ad primum ergo dicendum... Ad secundum... +). L'ordine con cui le questioni venivano trattate era fornito da qualche testo a cui l’intera raccolta serviva da commentario: da qualche libro della Bibbia, da qualche opera di Boezio o di Aristotele o, più frequentemente, dalle Sentenze di Pietro Lombardo. Quaestiones quod- libetales o più semplicemente Quodlibeta erano le raccolte delle questioni che gli aspiranti alla laurea in teologia dovevano discutere due volte all’anno (prima di Natale e prima di Pasqua) su temi qual- siasi, de quolibet. Le quaestiones disputatae erano invece il risultato delle disputationes ordinariae che i professori di teologia tenevano durante i loro corsi sui più importanti problemi filosofici e teologici (cfr., su questi argomenti, MARTIN GRABMANN, Die Geschichte der scholastischen Methode, 1911, nuova ed., 1956). QUALCHE (ingl. Some; franc. Quelque; te- desco Einige). Nella Logica contemporanea, « Q. » 0 «alcuni » è un operatore di campo, di cui il simbolo più usato è «(4x)»., per es., in formule come «(Ax).f(x)», che si legge «esiste almeno un x tale che f(x) è vero». Esso corrisponde ad una somma o disgiunzione logica operata nel campo di validità della (x), cioè alla disgiunzione «f(a) o f(5) o f(c) 0 ...». Ove f(x) sia un predicato, questa equivale 717 alla formula consueta «qualche x è f» o anche «alcuni x sono f» della Logica tradizionale. Già negli Ana- litici di Aristotele, rìc (di solito al dativo rwì nella formula rò A tì té B breépyei, «A inerisce a qual- che B +) viene usato con questo preciso valore, come segno della proposizione particolare affermativa. Nel latino medievale, subentrando come forma nor- male di proposizione la formula «homo currit », il tlc greco, che già in Aristotele veniva riferito sempre al soggetto logico della proposizione, viene tradotto con l’aggettivo aliguis e grammaticalmente concordato col soggetto (così aliguis homo currit, ma aliqui homines currunt, sebbene le due forme, in Logica, siano perfettamente sinonimiche): donde il nostro 4Q.» e «alcuni». Tuttavia è nella Logica medievale che ne viene chiaramente riconosciuta la funzione di operatore, cioè di segno non significante che ha solo il compito di modificare la denotazione del termine che funge da soggetto. G. P. QUALCOSA (gr. x; lat. Aliquid; ingl. Some-

thing; franc. Quelque chose; ted. Etwas). Un oggetto indeterminato. Dice Wolff «Q. è ciò a cui risponde una determinata nozione » (On?., $ 59): il che vuol dire che è ciò cui corrisponde una nozione che non includa contraddizione. Di quest’ultimo tratto si avvale Baumgarten per definire il Q. (Met., $ 8). E Kant diceva: «La realtà è Q., la negazione è niente » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., Nota alle anfibolie dei concetti della riflessione). Ed Hegel: 4 L'essere determinato, riflesso in sè in questo suo carattere, è quel che c’è, il Q. » (Enc., $ 90). Il con- cetto è ora di pertinenza della logica (cfr. Quan- TIFICATORE). QUALIFICAZIONE. V. QuALITÀ. QUALITÀ (gr. nom; lat. Qualitas; inglese Quality; franc. Qualité; ted. Qualitàt). La deter- minazione qualsiasi di un oggetto. In quanto deter- minazione qualsiasi la Q. si distingue dalla pro- prietà (v.) che (nel suo significato specifico) indica la Q. che caratterizza o individualizza l’oggetto stesso ed è perciò propria di esso. La nozione di Q. è estesissima e può difficilmente essere ridotta ad un concetto unitario. Si può dire piuttosto che essa comprende una famiglia di concetti che hanno in comune la funzione puramente formale di poter essere adoperati come risposte alla domanda quale? Di questa famiglia Aristotele distinse quattro mem- bri; e questa è ancora la migliore esposizione che si possa dare del concetto di qualità. x. In primo luogo s’intendono per Q. gli abiti e le disposizioni: che si distinguono tra loro perchè l’abito è più stabile e duraturo della disposizione. Sono abiti la temperanza, la scienza e in generale le virtù; sono disposizioni la salute, la malattia, il caldo, il freddo, ecc. (Car., 8, 8 b 25; cfr. Met., V, 14, 1020a 8-12). Il ricorso ad abiti disposi- 718 zionali si fa talora anche nella filosofia contempo- ranea (cfr., ad es., C. L. STEVENSON, Ethics and Language, III, $ 4, 1950, 5* ed., pag. 46 sgg.): ma il precedente aristotelico viene abitualmente ignorato. 2. Una seconda specie di Q. è quella che con- siste in una capacità o incapacità naturale; e in questo senso si parla di pugili, di corridori, di sani, di malati, ecc. (Car., 8, 9 a 14). Questa è la Q. che gli Scolastici chiamarono Q. attiva (cfr., ad es., S. Tommaso, .S. 7h., III, q. 49, a. 2). 3. Il terzo genere di Q. è costituito dalle affe- zioni e dalle loro conseguenze: queste sono le Q. sensibili vere e proprie (colori, suoni, sapori, ecc.) (Cat., 8, 9a 27; cfr. Met., V, 14, 1020a 8). Gli Scolastici chiamarono queste specie di Q. qualità passive (cfr. S. ToMmMaso, loc. cit.). 4. La quarta specie di Q. è costituita dalle forme o determinazioni geometriche, per es., dalla figura (quadrato, circolare, ecc.) o dalla forma (rettilinea, curvilinea) (Car., 8, 10a 10). Poco o nulla è stato aggiunto, nel corso ulteriore della storia della filosofia a queste notazioni e distinzioni aristoteliche a proposito della qualità. Se si vuole eliminare da esse ciò che è dovuto alla loro più stretta connessione con la metafisica aristo- telica, si può ottenere un’ulteriore semplificazione e ridurre a tre i quattro gruppi precedenti caratte- rizzandoli nel modo seguente: a) determinazioni disposizionali che compren- dono disposizioni, abiti, abitudini, capacità, facoltà, virtù, tendenze, o come altro si vogliano chiamare le determinazioni costituite da possibilità dell'oggetto; b) determinazioni sensibili cioè le determina- zioni semplici o complesse che sono fornite da strumenti organici: colori, suoni, sapori, ecc.; c) determinazioni misurabili cioè le determina- zioni che si prestano ad essere sottoposte a metodi oggettivi di misura: numero, estensione, figura, movimento, ecc. Con questa modifica la partizione aristotelica cor- risponde esattamente a quella di Locke: difatti le Q. A sono quelle che Locke incluse sotto la terza specie di Q., cioè tra quelle « che tutti sono concordi a considerare soltanto come mere capacità che i corpi hanno di produrre certi effetti, sebbene si tratti di Q. altrettanto reali nell’oggetto quanto quelle che, per adattarmi al modo comune di parlare ho chiamate Q., pur distinguendole dalle altre con il nome di Q. secondarie » (Saggio, II, 8, 10). Dal- l’altro lato le Q. B e C corrispondono a quelle che Locke chiamava rispettivamente qualità primarie e secondarie (v. oltre). Così rettificata, la distinzione tra le varie specie di Q. copre l’intero campo delle discussioni e dei problemi cui essa ha dato luogo nella tradizione filosofica. QUALITÀ a) La nozione di determinazione disposizionale è quella cui fa riferimento non soltanto la nozione di Q. occulta, ma anche quelle di forza che la sop- piantò agli inizi della scienza moderna. Diceva Newton: «Gli aristotelici dettero il nome di Q. occulta, non a qualità manifeste ma a Q. che essi supposero al di là dei corpi, come cause sconosciute di effetti manifesti: come sarebbero le cause della gravità o dell'attrazione magnetica ed elettrica o delle fermentazioni, se supponessimo che si trattasse di forze o azioni derivanti da Q. a noi sconosciute e incapaci di essere scoperte e rese manifeste. Tali Q. occulte impediscono il progresso della filosofia naturale, perciò sono state abbandonate in questi ultimi anni» (Opricks, 1704, III, 1, 31). Nello stesso spirito, Wolff definiva come Q. occulta quella « che è priva di ragion sufficiente» ed aggiungeva: « Una Q. occulta è, per es., la gravità se viene concepita come una forza primitiva o come una forza im- pressa alla materia da Dio, della quale non si possa dare a priori nessuna ragione naturale. Tale è anche la forza motrice se si assume come una forza primi- tiva impressa da Dio alla materia al momento della creazione. Certamente Aristotele e i suoi seguaci, che ammisero le Q. occulte, usarono questo termine in questo stesso significato » (Cosm., $ 189). La notazione di Wolff è più chiara di quella di Newton: una forza è una Q. occulta se di essa non si dà una ragione sufficiente naturale, non lo è se si dà una tale ragione. Ma da questo appare anche che sia la nozione di Q. occulta sia quella di forza sono riconducibili alla stessa nozione di Q., cioè alla Q. come disposizione. Lo stesso significato di Q. è presente nel concetto di qualificazione. « Qualificarsi per + o « essere quali- ficato per» significa possedere la capacità o la competenza, cioè la qualità disposizionale, per effet- tuare un dato compito o raggiungere un dato scopo. Talvolta tuttavia il termine + qualificato » significa soltanto « limitato » o « caratterizzato da date condi- zioni +, come avviene nel linguaggio giuridico. b, c) Le Q. nel senso 2 e quelle nel senso C sono le Q. tradizionalmente distinte come primarie e secondarie. I termini « primario » e « secondario » rimontano a Boyle; ma la distinzione è assai antica e rimonta a Democrito (Fr. 5, Diels). Dopo molti secoli essa fu ripresa da Galilei (cfr. Opere, ed. naz., VI, pag. 347 sgg.), da Hobbes (De Corp.,

25, 3), da Cartesio (Princ. Phil., I, S7; Med., VI) e da Locke (Saggio, II, 8, 9), che la diffuse nella filosofia europea. La base della distinzione è la possibilità di quantificazione che le Q. nel senso C hanno rispetto a quelle nel senso 8: per questa possibilità esse si sottraggono alle valutazioni indi- viduali e appaiono come indipendenti dal soggetto € pienamente « oggettive + o « reali». In seguito la QUANTITÀ distinzione fu combattuta (per es., da Berkeley) soprattutto allo scopo di mostrare che neppure le Q. primarie sono oggettive ma che tutte sono ugualmente soggettive cioè consistono in «idee» (Principles of Human Knowledge, I, $ 87). Secondo Husserl il significato della distinzione sarebbe il seguente: «La cosa sperimentata fornisce il sem- plice hoc, un vuoto x, che diventa portatore delle determinazioni matematiche e delle formule ine- renti e che esiste non già nello spazio percettivo ma in uno spazio oggettivo di cui il primo è solo un indizio, cioè in una varietà euclidea tridimen- sionale di cui è possibile una rappresentazione solo simbolica» (/deen, I, $ 40). In questo senso le Q. oggettive delineerebbero la natura di un og- getto trascendente rispetto alla percezione sensibile e al quale la percezione sensibile accennerebbe come a un di là. QUALITÀ DELLE PROPOSIZIONI (la- tino Qualitas propositionum; ingl. Quality of Proposi- tions; franc. Qualité des propositions; ted. Qualitàt des Urteils). Fu probabilmente il neoplatonico Appuleo, contemporaneo di Galeno, ad adoperare per primo le parole Q. e quantità per indicare rispettivamente la distinzione delle proposizioni in affermative e negative e quella in universale e particolare (De Int., pag. 266; cfr. PRANTL, Ge- schichte der Logik, I, pag. 581). Kant aggiunse ai due tradizionali giudizi di Q. il giudizio infinito (v. INFINITO, GIUDIZIO). QUANTA, FISICA DEI. V. COMPLEMENTA- RITÀ; CONDIZIONE; DETERMINISMO; FIsicA; INDE- TERMINAZIONE. QUANTIFICATORE. V. OPERATORE. QUANTIFICAZIONE (ingl. Quantification; franc. Quantification; ted. Quantifikation). In Logica si designa con « Q. » l’operazione mediante la quale, usando appositi simboli detti quantificatori, si determina l’ambito o estensione di un termine della proposizione. Nella Logica di Aristotele, e in tutta la Logica classica derivatane, si conosceva solo la Q. del soggetto della proposizione: in Aristotele mediante gli operatori «tutto » e «in parte» (s[il predicato] B appartiene a furto [il soggetto] A»; « B appartiene in parte ad A +); nella Logica medie- vale o moderna mediante gli operatori «omnis? e «aliquis» («omnis A est B»; «aliquis A est B3). La proposizione quantificata con «tutto » era detta universale; quella quantificata con «in partes (s qualche ») era detta particolare; quella non quanti- ficata era detta indefinita. Nel sec. xx l’esigenza di assoggettare la tradizionale sillogistica ad una specie di calcolo matematico indusse alcuni logici inglesi (Bentham, 1827; Hamilton, 1833) a quantifi- care anche il predicato, interpretando, per es., la proposizione universale affermativa «tutti gli 719 A sono B» come «tutti gli A sono alcuni B». In tal modo però la proposizione veniva unilateral- mente interpretata come una relazione di inclusione o esclusione, parziale o totale, tra classi. La Logica contemporanea ha ripreso ma integrato quella concezione. In essa però i quantificatori, che ora sono il quantificatore universale [nella notazione russelliana, «(x).» = «tutti»] e il quantificatore esistenziale [c. s., «(Hx).» = «esiste almeno un x tale che... »]), di nuovo si riferiscono soltanto agli argomenti o variabili di una funzione proposizionale, trasformando queste in variabili apparenti e le funzioni in vere e proprie proposizioni (universali o particolari): per es., «x è mortale» è una funzione; « (x). ‘x è mortale ’ » (= « tutti gli x sono La 1) è una proposizione universale. QUANTIFICAZIONE DEL PREDICATO (ingl. Quantification of Predicate). W. Hamilton fece prevalere, in polemica con la logica tradizionale, il principio della Q. del predicato, asserendo: 1° che il predicato è così estensivo come il soggetto; 2° che il linguaggio ordinario quantifica ogni volta che occorra il predicato o direttamente mediante l’uso dei quantificatori (ad es., « Pietro Giovanni Giacomo, ecc., sono tuffi gli apostoli ») o indiretta- mente attraverso la limitazione e l’eccezione, come quando si dice « La virtù è la sola nobiltà » oppure « Sulla terra 3% vi è niente di grande se non l’uomo » (Lectures on Logic, Il, pag. 257 sgg.). QUANTITÀ (gr. moody; lat. Quantitas; inglese Quantity; franc. Quantité; ted. Quantitàt). In gene- rale, la possibilità della misura. È questo il concetto che di essa ebbero Platone e Aristotele. Platone affermò che la Q. sta tra l’illimitato e l’unità e che solo essa è l’oggetto del sapere; per es., è esperto di suoni non chi ammette che i suoni sono infiniti nè chi cerca di ridurli ad un unico suono, ma chi conosce la Q., cioè il numero di essi (Fil., 17a, 18 b). Aristotele a sua volta definì la Q. come ciò che è divisibile in parti determinate o determina- bili. Una Q. numerabile è una pluralità, che è divisi- bile in parti discrete. Una Q. misurabile è una gran- dezza che è divisibile in parti continue in una o due o tre dimensioni. Una pluralità finita è un numero, una lunghezza finita una linea, un’estensione finita un piano e una profondità finita un corpo (Met., V, 13, 1027a 7). Queste notazioni aristoteliche furono ripetute nella scolastica ed entrarono anche a far parte delle nozioni comunemente accettate ai princìpi dell’Età Moderna. Che la matematica potesse defi- nirsi, come l’aveva definita Aristotele, « la scienza della Q. + non parve cosa dubbia finchè gli sviluppi della matematica stessa non fecero apparire troppo ristretta ed impropria questa definizione (v. MATE- MATicA). Tenendo appunto l’occhio alle matematiche 720 Wolff, nel sec. xvi, definiva la Q. come «ciò per cui le cose simili, rimanendo salva la loro somiglianza, possono differire intrinsecamente » (Cosm., $ 348): una definizione che si potrebbe agevolmente capo- volgere dicendo che la Q. è ciò per cui le cose dissimili, rimanendo salva la loro dissimiglianza, possono essere simili. Ma in questa forma che sa- rebbe più rispondente ai concetti matematici mo- derni, si definirebbe non la Q. ma la grandezza (v.). Nella matematica infatti il termine Q. è divenuto sinonimo di quello di grandezza, che è specifico di un certo campo di indagine e che dipende dalla scelta opportuna dell’unità di misura. Pertanto la Q. come categoria o concetto generalissimo cade oggi fuori dell'ambito delle scienze e tutt'al più si può dire che essa costituisca il tratto generalissimo in cui coincidono gli oggetti disparati delle scienze positive: cioè la loro possibilità di esser sottoposti a misura. La tendenza generale del pensiero scientifico a ridurre la qualità a Q. fu interpretata in modo singolare da Hegel, che parlò di una « linea nodale dei rapporti di misura». Il mutamento graduale della Q. porterebbe a un certo punto (« punto » o «linea nodale +) a un mutamento della qualità; e il mutamento graduale di questa nuova qualità porterebbe ad un altro punto nodale, e così via. Hegel osservava che dal lato qualitativo, il passaggio a una nuova qualità «è un salto: le due qualità sono poste completamente estrinseche l’una al- l’altra ». E che perciò la gradualità del mutamento quantitativo non lascia comprendere il divenire (Wissenschaft der Logik, I, sez. 3*, cap. 2, B; tradu- zione ital., I, pag. 446-47). Con questo egli negava che il passaggio dalla Q. alla qualità o viceversa servisse a qualcosa. Questo tuttavia non impedì a F. Engels di considerare come legge fondamentale della dialettica «la conversione della Q. in qualità » e di vedere in Hegel lo scopritore di questa legge (Dialektik der Natur, trad. ital., pag. 57 sgg.) (v. Dia- LETTICA; NODALE, LINFA; SALTO). QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI. Fu il neoplatonico Appuleo (v. QUALITÀ DELLE PRO- POSIZIONI) a chiamare per primo Q. la divisione delle proposizioni in universali e particolari, indi- viduali e indefinite (ARIST., De Int., 7; An. Pr., I, 1). Kant ridusse a tre le classi dei giudizi secondo la Q. e precisamente alle proposizioni universali particolari e individuali (Crit. R. Pura, 89). Hamilton parlò pure della Q. dei concetti, distinguendo la Q. intensiva, che è l’intensione o comprensione dalla Q. estensiva che è l’estensione o denotazione (Lectures on Logic, I, pag. 140 sgg.). QUANTOFRENIA (ingl. Quantophrenia; fran- cese Quantophrènie). Così P. Sorokin ha chiamato la «mania della quantificazione a tutti i costi » nel campo delle scienze psicologiche e sociali (Fads and QUANTITÀ DELLE PROPOSIZIONI Foibles in Modern Sociology and Related Sciences, 1956, cap. VII-VIII). QUATERNIO TERMINORUM. Espres- sione usata a indicare il tipo più comune di fallacia logica cioè la duplicità di significato di uno dei ter- mini impiegati nel ragionamento: come nell’esempio tratto da Seneca « Mus (il topo) è una sillaba; il topo rosicchia il formaggio; dunque la sillaba ro- sicchia il formaggio » (Ep., 48) (v. EQUIVOCAZIONE). QUIDDITÀ (lat. Quidditas; ingl. Quiddity; franc. Quiddité; ted. Quidditàt). Termine introdotto dalle traduzioni latine (dall’arabo) delle opere di Aristotele del sec. x1 come corrispondente della espressione aristotelica +6 71 fiv elvar (quod quid erat esse). Il termine significa essenza necessaria (0 sostanziale) o sostanza (v. ESSENZA; SOSTANZA).

QUIETISMO (ingl. Quietism; franc. Quiétisme; ted. Quietismus). La credenza che lo stato di grazia o di unione con Dio si può ottenere con l’abban- dono totale della propria volontà alla volontà di Dio, al di fuori di ogni rito o pratica religiosa. I Q. è proprio di molti indirizzi religiosi, ma il termine fu coniato a proposito della forma che esso assunse nel seno del cattolicesimo per opera di Michele Molinos (1627-1696) le cui tesi furono condannate dal Papa Innocenzo XI nel 1687. QUIETIVO (ingl. Quietive; franc. Quiétif; ted. Quietiv.. Così Schopenhauer chiamò, per analogia ed antitesi con motivo, la conoscenza filosofica in quanto porta alla negazione della Volontà di vivere cioè all’ascetismo: quella nega- zione infatti « subentra dopo che la compiuta cono- scenza del proprio essere è diventata Q. d'ogni volere» (Die Welt, I, $ 68). Un Q. in questo senso è anche l’arte come contemplazione disin- teressata delle idee platoniche (/bid., I, $ 70). QUINQUE VOCES. Sono i cinque concetti generalissimi, o cinque tipi di predicato universale (perciò dette anche « predicabili +) della Logica classica: genere, specie, differenza, proprio e acci- dente. La loro distinzione e relativa problematica ha il suo nocciolo nei Topici di Aristotele: ma la trattazione formale ed esplicita di esse come cate- gorie fondamentali di tutta la scienza della Logica

si trova nella Zsagoge di Porfirio. È soprattutto dalla versione e commenti boeziani di quest'opera che esse passarono nella Logica medievale. G.P. QUINTA ESSENZA (lat. Quinta essentia; ingl. Quintessence; franc. Quintessence; ted. Quin- tessenz). 1. L’etere cioè la sostanza che secondo Aristotele, compone i cieli, in quanto diversa dai quattro elementi che compongono i corpi sublunari (v. ETERE). 2. L’estratto corporeo di una cosa ottenuto mediante l’analisi alchimistica della cosa stessa con la separazione dell'elemento dominante dagli QUOTIDIANITÀ altri elementi che sono mescolati in essa. Secondo Paracelso, nella Q. essenza sono riposti gli arcani cioè le forze operanti di un minerale, di una pietra preziosa, di una pianta; e di esse si serve perciò la medicina per operare le guarigioni (De Mysteriis naturalibus, I, 4). In questo senso si adopera anche oggi il termine per indicare il principio attivo di una cosa o la sua parte più pura. QUODLIBETA. V. QuAESTIO. 46 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 721 QUOTIDIANITÀ (ted. Alltaglichkeit). Ter- mine introdotto da Heidegger per indicare «il modo d'essere in cui l’esserci (cioè l’uomo) si man- tiene innanzi tutto e per lo più». Tale modo d’es- serci è il punto di partenza dell’interpretazione ontologica: il che vuol dire che tale interpretazione fa riferimento alle situazioni in cui l’uomo viene più frequentemente a trovarsi nelle comuni faccende della vita (Sein und Zeit, $ 9) (cfr. MEDIETÀ). R RADICALISMO (ingl. Radicalism; franc. Ra- dicalisme; ted. Radikalismus). 1. Il positivismo sociale che si sviluppò in Inghilterra tra la fine del sec. xvi e la prima metà del sec. xIx e che ebbe tra i suoi rappresentanti filosofici Geremia Bentham (1748-1832), Giacomo Mill (1773-1836) e Giovanni Stuart Mill (1806-1873). Questo indirizzo si avvalse del positivismo filosofico, dell’utilitarismo morale e delle dottrine economiche di Malthus e Ricardo per sostenere riforme « radicali » nell’ordinamento dello stato e nel sistema di distribuzione delle ric- chezze (v. LIBERALISMO). 2. Più genericamente, il termine viene oggi usato a designare qualsiasi tendenza filosofica o politica che proponga un rinnovamento radicale dei sistemi vigenti cioè un mutamento nei princìpi su cui poggiano i sistemi delle credenze o delle istituzioni tradizionali. RADICE (gr. pi&wpa; ingl. Roof; franc. Racine; ted. Wurzel). Termine col quale frequentemente si è indicato, nel linguaggio filosofico, un principio primo o un elemento ultimo. Empedocle chiamò R. i quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) di cui le cose sono composte (Fr., 6, Diels); e spesso d'allora in poi i filosofi si sono serviti dello stesso termine per indicare elementi o princìpi. Scho- penhauer, per es., intitolò una delle sue disserta- zioni La quadruplice R. del principio di ragion sufficiente (1813). Di qui l’aggettivo radicale passato a indicare ciò che concerne un principio o costituisce un principio. « Male radicale» chiamò Kant la tendenza dell’uomo al male che è inerente alla sua stessa struttura morale (cfr. Religion, cap. I). E radicale si chiama oggi un’analisi che rimonta ai princìpi, o alle prime origini. Husserl, per es., insisteva sulla radicalità della filosofia in quanto scienza dei veri princìpi e delle prime origini, «La scienza di ciò che è radicale, dev'essere radi- cale anche nel suo metodo e sotto ogni riguardo » (Phil. als strenge Wissenschaft, 1911; trad. ital., pag. 83). RAGIONAMENTO (gr. 2oyioués; lat. Ratioci- natio; ingl. Reasoning; franc. Raisonnement; tedesco Vernunftschluss). Qualsiasi procedimento di infe- renza o di prova; perciò qualsiasi argomento, conclu- sione, inferenza, induzione, deduzione, analogia, ecc. Diceva Stuart Mill: « Inferire una proposizione da una o più proposizioni precedenti; credere o pre- tendere che si creda ad essa come conclusione da qualcosa d’altro, significa ragionare nel più esteso senso del termine» (Logic, II, I, 1). Stuart Mill escludeva dall’ambito del R. soltanto «i casi nei quali la progressione di una verità all’altra è solo apparente perchè il conseguente è una mera ripeti- zione dell’antecedente » (/bid., II, 1, 3): e identificava ragionamento e inferenza. Ma questa restrizione è venuta meno nell'uso corrente del termine, che oggi comprende anche le inferenze tautologiche che si ritengono proprie della matematica e della logica (cfr. P. F. StraWSON, /ntr. to Logical Theory, 1952, pag. 12 sgg.). Pertanto la illustrazione dei significati del termine si può trovare sotto le singole voci che costituiscono l’estensione del termine in questione e specialmente sotto le seguenti: dedu- zione, induzione, prova, dimostrazione, inferenza, sillogismo, argomento, analogia. Tuttavia la classificazione fondamentale dei R. è quella che la divide in R. deduttivi e R. indut- tivi. Questa distinzione, già stabilita da Aristotele (An. Pr., II, 23, 68 b 13) viene solitamente conser- vata anche oggi, talvolta con nomi appena mutati. Peirce, ad es., parlava di R. esplicativi analitici o RAGIONEdeduttivi da un lato; e dall’altro di R. amplificativi, sintetici o induttivi (Chance Love and Logic, I, 4, 3; trad. ital., pag. 67): che sono appunto i nomi che più frequentemente ricorrono per indicare le due specie fondamentali del ragionamento. RAGIONAMENTO APAGOGICO. V. Apa- GOGICO. RAGIONAMENTO PER ANALOGIA. V. ANALOGIA. RAGION DI STATO. Giovanni Botero che introdusse l’espressione come titolo di un suo libro (Della R. di Stato, 1589) intese per essa « la notizia dei mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare uno Stato » cioè « un dominio fermo sopra i po- poli ». Ma in realtà l’espressione è passata a indi- care il principio del machiavellismo volgare; e ciò ad opera dello stesso Botero che, pur polemizzando contro Machiavelli, faceva suo il principio del fine che giustifica i mezzi in materia politica (v. MAcHIA- VELLISMO). RAGIONE (gr. 26y06; lat. Ratio; ingl. Reason; franc. Raison; ted. Vernunft). Il termine ha i seguenti significati fondamentali: 1° Guida autonoma dell’uomo in tutti i campi nei quali un’indagine o una ricerca è possibile. In questo senso si dice che la R. è una « facoltà » propria dell’uomo e che distingue l’uomo dagli altri animali. 2° Fondamento o R. d’essere. Poichè la R. d’essere di una cosa è la sua essenza necessaria o sostanza, espressa nella definizione, si assume tal- volta per «R.» la sostanza stessa o la sua definizione. Questo è un significato frequente nella filosofia aristotelica o che si ispira a quella aristotelica. Per esso v. i termini ESSENZA ; FONDAMENTO; FORMA; SOSTANZA. 3° Argomento o prova. In questo senso si dice « Ha avanzato le sue R. + o « Bisogna sentire le R. dell’avversario ». A questo significato si riferisce pure l’espressione « Aver R.+: che significa avere argomenti o prove sufficienti, quindi esser nel vero. Per questo significato v. ARGOMENTO; PROVA. 4° Rapporto in senso matematico. In questo senso si parla anche oggi di «R. diretta» o «R. inversa » (in italiano e in francese) mentre il termine latino ratio è adoperato in questo senso in inglese. Per questo significato v. RELAZIONE. Nel significato di guida della condotta umana nel mondo, la R. può essere intesa in due significati subordinati e cioè: 4) come facoltà generale di guida; 8) come procedimento specifico di cono- scenza. A) Questo è il senso fondamentale, dal quale la parola desume quella potenza di significato che ha fatto di essa, da secoli, l'emblema della ricerca libera. La R. è la forza che libera dai pregiudizi, 723 dal mito, dalle opinioni radicate ma false, dalle appa- renze e consente di stabilire un criterio universale o comune per la condotta dell’uomo in tutti i campi. Dall’altro lato, come guida propriamente umana, la R. è la forza che consente all’uomo di liberarsi dagli appetiti che ha in comune con gli animali, sottoponendoli a controllo e mantenendoli nella giusta misura. Questa è la duplice funzione che è stata attribuita alla R. sin dai primordi della filosofia occidentale. La polemica di Eraclito e Parmenide contro le opinioni dei più, cioè contro le credenze stabilite, discordi tra loro e fallaci, è condotta in nome di una R. che sia l’unico criterio di guida per tutti gli uomini. Dice Eraclito: « Bisogna che si segua ciò che è universale, cioè comune a tutti; e solo la R. è comune; ma i più vivono come se ciascuno avesse una sua mente privata» (F7., 2, Diels). E Parmenide: « Allontana il tuo pensiero da questa via di ricerca e non ti spinga su di essa l’abitudine di lasciarti guidare da un occhio che non vede, da un orecchio che rimbomba e dalla parola: giudica invece con la R.» (Fr., 1, 33-37, Diels). Platone e Aristotele dall’altro lato oppongono la R. sia alla sensibilità in quanto fonte delle comuni credenze (PLATONE, Fed., 83 a; ARISTOTELE, Mef., I, 1, 980b 26), sia agli appetiti che l’uomo ha in co- mune con gli animali (PLATONE, Tim., 70 a; ARI- STOTELE, Er. Nic., I, 13, 1102 b 15). Nell’un caso e nell’altro, la ragione ha nello stesso tempo una fun- zione negativa e positiva: negativa nei confronti delle credenze infondate e degli appetiti animali; positiva nel senso di dirigere le attività umane in modo uni- forme e costante. Ma furono soprattutto gli Stoici che fecero prevalere la dottrina che la R. è l’unica guida degli uomini. Essi infatti stabilivano una specie di divisione simmetrica tra gli animali e gli uomini: agli animali è stato dato come guida l’istinto che li porta a conservarsi e a cercare ciò che è vantaggioso; agli uomini è stata data come più perfetta guida la R., sicchè per essi vivere secondo natura significa vivere secondo R. (Dio. L., VII, 1, 85-86). Questi concetti costituirono uno dei cardini della cultura classica. Cicerone diceva: « La R., per la quale sola ci differenziamo dai bruti, per mezzo della quale possiamo congetturare, argomentare, ribattere, di- scutere, condurre a termine e concludere, è certa- mente comune a tutti, differente per preparazione, ma eguale quanto a facoltà di apprendere + (De Legibus, I, 10, 30). E Seneca esaltava la R. per la sua immutabilità e universalità. «La R., diceva, è immutabile e ferma nel suo giudizio perchè non è schiava ma signora dei sensi. La R. è uguale alla R. come il giusto al giusto: dunque anche la virtù è uguale alla virtù perchè la virtù non è altro che la retta R. » (Ep., 66). Da questo punto di vista anche la metafisica stoica della R. per cui essa è, come 724 dice lo stesso Seneca (/bid.), «una parte dello spirito divino infusa nel corpo dell’uomo? non toglie l’autonomia di essa ma la esalta e conferma. A questi concetti s’ispirava senza dubbio S. Ago- stino in quell’elogio della ragione che forma gli ultimi capitoli del De Ordine: «La R., egli dice, è quel moto della mente che può distinguere e colle- gare tutto ciò che si apprende » (De Ord., II, 11, 30). Essa è la forza creatrice del mondo umano: ha inventato il linguaggio, la scrittura, il calcolo, le arti, le scienze, ed è quanto di immortale c’è nell'uomo (/bid., II, 19, 50). L’entusiasmo di S. Agostino per la ragione si spiega facilmente: per S. Agostino la vita è ricerca e la R. è il principio che istituisce e dirige la ricerca e la rende feconda. Il neoplatonismo aveva tuttavia già subordinato la R. all’intelletto, ritenuto superiore alla R. perchè dotato di quel carattere intuitivo o immediato che fa di esso la diretta visione del vero. Secondo Plo- tino la R. emana dall’intelletto « in quanto questo è presente in tutte le cose che sono » (Enn., III, 2, 2). Essa è in altri termini la funzione formatrice e plasmatrice dell’intelletto; e per disporre tutte le cose del mondo (buone e cattive) nel loro ordine proprio, deve adattarsi alla materia (/bid., III, 2, 11-12). In questo senso la R. è la tecnica della creazione e del governo del mondo: giacchè fa sì che gli esseri creati non si distruggano a vicenda ma si accordino e si combinino tra loro nel modo mi- gliore. «La R., dice Plotino, fa sì che ciascun essere patisca o agisca, non a caso o disordinatamente, ma secondo necessità » (/bid., II, 3, 16). Questo concetto della superiorità dell’intelletto viene ereditato dalla scolastica medievale. R. e intelletto vengono iden- tificate nel significato generale di guida (cfr., ad es., S. ToMMAsO, S. Th., I, q. 29, a. 3, ad 49; q. 79, a. 8). Ma la R. viene poi subordinata all’intelletto per il suo carattere discorsivo che appare inferiore al carattere intuitivo di esso (v. oltre). Più tardi, lo stesso Bacone considerava la R. come una parti- colare attività dell’intelletto (assieme alla memoria e alla fantasia) e precisamente quella il cui compito consiste nel dividere e comporre le nozioni astratte «secondo la legge della natura e l'evidenza delle cose stesse » (De Aupm. Scient., II, 1). Sicchè solo con Cartesio la R. ritorna ad essere la guida fonda- mentale dell’uomo. Identificando la R. con il buon senso, Cartesio ripristina il concetto classico della R. e su tale concetto imposta il problema nuovo del metodo. «La capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso, che è propriamente ciò che si chiama il buon senso o la R., è naturalmente uguale in tutti gli uomini; perciò la disparità delle nostre opinioni non viene da ciò che le une sono più ragionevoli delle altre ma solamente da ciò, che RAGIONE conduciamo i nostri pensieri per diverse vie e non consideriamo le stesse cose. Non è sufficiente aver lo spirito sano ma la cosa principale è applicarlo bene » (Discours, I). Queste parole famose hanno reintrodotto nel mondo moderno il concetto antico (e specialmente stoico) della R. come guida comune del genere umano. Sicchè Spinoza poteva meravi- gliarsi che si volesse talvolta «sottomettere la R., massimo dono di Dio e luce veramente divina, alle parole + e che non si stimasse un delitto « par- lare indegnamente della R. che è la vera testi- monianza del Verbo di Dio e dichiararla corrotta, cieca ed impura» (Traci. theologico-politicus, cap. 15). Leibniz a sua volta insisteva sulla vecchia tesi che la R. appartiene all'uomo e all’uomo soltanto (Nouv. Ess., IV, 17, 2). E Locke riconosceva alla R. una determinazione fondamentale che costituisce la sola autentica innovazione che il concetto moderno di essa presenta nei confronti del concetto classico: l’essere cioè essa strumento della conoscenza pro- babile oltre che della certa. « Come la R., diceva Locke, percepisce la connessione necessaria e indubitabile che tutte le idee o prove hanno l’una con l’altra, in ciascun grado di una qualunque dimostrazione che produca conoscenza, così analo- gamente essa percepisce la connessione probabile che unisce tra loro le idee o prove in ciascun grado di una dimostrazione cui giudichi sia dovuto l’assenso + (Saggio, IV, 17, 2). Con questa determi- nazione, la R. era qualificata per la funzione che l’illuminismo settecentesco le affidava di valere come principio di critica radicale della tradizione e di un rinnovamento altrettanto radicale del mondo umano. Kant cercava di realizzare piena- mente l’ideale illuministico della ragione. Da un lato identificava la R. con la stessa libertà di critica (« Sulla libertà di critica riposa l’esistenza della R. che non ha autorità dittatoriale ma la cui sentenza è sempre nient’altro che l’accordo di liberi cittadini ciascuno dei quali deve poter formulare i suoi dubbi e persino il suo veto senza impedimenti +); dall’altro intendeva portare la R. stessa davanti al suo proprio tribunale e istituire quella « critica della R. pura + che « non s’immischia nelle contro- versie che si riferiscono immediatamente agli oggetti ma è istituita per determinare e giudicare i diritti della R. in generale» (Crit. R. Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap. I, sez. II). È in accordo con il concetto illuministico della R. la definizione di Whitehead: «la funzione della R. è il promuovere l’arte della vita »: nel senso che la R. avrebbe il compito di agire sull'ambiente per promuovere forme di vita più soddisfacenti e perfette (The Function of Reason, 1929, cap. I; trad. ital., Cafaro, pag. 6 sgg.). Mentre quella che a prima vista sembra la massima garanzia offerta all’efficacia della R. RAGIONE cioè il credere che essa abiti la realtà e la domini, sicchè non ci sia realtà che non sia razionale nè razionalità che non sia reale, costituisce piuttosto l'abbandono della funzione direttiva della ragione. Hegel, che ha affermato nel modo più rigoroso questo punto di vista, ha anche negato la funzione direttiva della R.: « Ciò che sta tra la R. come spirito autocosciente e la R. come realtà presente, ciò che differenzia quella R. da questa e non lascia trovare l’appagamento in questa, è l’impaccio di qualche astrazione che non si è liberata e non si è fatta concetto. Riconoscere la R. nel presente, quindi godere di esso, questo riconoscimento razio- nale è la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli i quali hanno avvertito l’interna esigenza di comprendere » (Fi/. del dir., Pref.; tradu- zione ital., Messineo, pag. 17). Ciò significa che la R. non dirige ma giunge post factum a comprendere la realtà, cioè a giustificarla. B) Il riconoscimento della R. come guida costante, uniforme e (talvolta) infallibile di tutti gli uomini in tutti i campi della loro attività è accompagnato il più delle volte dalla determinazione di un procedimento specifico nel quale si riconosce l'operazione propria della ragione. Si possono ridurre ai seguenti concetti fondamentali le deter- minazioni che sono state date o si dànno della tec- nica specifica della ragione: a) il discorso; 5) l’auto- coscienza; c) l’autorivelazione; d) la tautologia. a) Il procedimento discorsivo è la tecnica che più frequentemente è stata ritenuta propria della ragione. Al procedimento discorsivo fa appello Platone per segnare la differenza tra l’opinione vera e la scienza: le opinioni vere possono dirigere

l'azione egualmente bene che la scienza, ma tendono a sfuggire da ogni parte, come le statue di Dedalo, finchè «non siano legate con un ragionamento causale » (Men., 98 a). Questa legatura o connessione è la tecnica discorsiva. Tecnica discorsiva è l’intero procedimento sillogistico di Aristotele, al di fuori della determinazione dei primi princìpi che sono intuiti dall’intelletto; discorsiva è sia la sillogistica necessitante sia quella dialettica (An. Posr., I, 33, 89 b 7; Er. Nic., VI, 11, 1143b 1). Nello stesso senso gli Stoici definivano la R. come « un sistema di premesse e di conclusioni» (Diog. L., VII, 1, 45). L’ufficio frequentemente attribuito alla ragione di distinguere, collegare, paragonare, ecc. [cfr. i passi di Cicerone e S. Agostino riportati in A)] non è che l’espressione dello stesso procedimento. S. Tom- maso diceva: « Gli womini giungono a conoscere la verità intelligibile procedendo da una cosa all'altra, perciò si chiamano ragionevoli. È evidente che il ragionare sta all’intendere nello stesso rapporto in cui il muovere sta allo star fermi o l’acquisire all’avere: delle quali cose, la prima è propria di 725 ciò che è imperfetto, la seconda di ciò che è per- fetto » (S. 7A., I, q.79, a. 8). Ai princìpi dell’Età Moderna Cartesio prendeva a modello lo stesso procedimento per determinare le sue regole del metodo: «Quelle lunghe catene di ragioni, tutte semplici e facili, di cui i geometri hanno l’abitudine di servirsi per giungere alle loro più difficili dimo- strazioni m’avevano dato occasione di immaginare che tutte le cose che possono venire a conoscenza degli uomini si connettono nello stesso modo » (Discours, II. La Logica di Portoreale esprimeva diversamente gli stessi concetti (ARNAULD, Lop., III, 1), che anche Locke poneva a base della sua dottrina della ragione: « Nella R. possiamo consi- derare questi quattro gradi: il primo e più alto consiste nel trovare e scoprire la verità; il secondo nel disporle in modo regolare e metodico e siste- marle in un ordine chiaro e adatto, in modo che siano percepite con evidenza e facilità la loro forza e le loro connessioni reciproche; il rerzo consiste nel percepire tali connessioni; il quarto nel trarre una giusta conclusione » (Saggio, IV, 17, 3). La di- stinzione che Spinoza stabiliva tra il secondo genere di conoscenza, che egli appunto chiamava R., e il terzo genere che chiamava scienza intuitiva è la distinzione tradizionale tra il procedimento discor- sivo e l’intelletto intuitivo (Er., II, 40, schol. 2). E Leibniz non faceva che trovare l’espressione più semplice per lo stesso concetto della R. asserendo che la R. è «il concatenamento delle verità + (Op., ed. Erdmann, pag. 479, 393). Wolff chiamava «giudizio discorsivo» l’operazione della R. in

quanto consiste nel collegamento delle proposizioni (Log., $ 50-51). Il concetto della R. come discorso entra in crisi con Kant. Kant, mentre riconosce il carattere discor- sivo a tutta l’attività conoscitiva umana, ritenendo che solo Dio possiede la conoscenza intuitiva (v. Di- scorsivo) distingue nettamente la R. dall’intelletto, nonostante il loro comune carattere discorsivo. La R.è la facoltà «che produce da sè i concetti » e perciò si può chiamare facoltà dei principi. Ma i concetti che la R. produce non hanno alcuna base nell’espe- rienza perciò sono semplicemente fittizi. « Se l’in- telletto può essere una facoltà dell’unità dei feno- meni mediante le regole, la R. è la facoltà dell'unità delle regole dell’intelletto mediante i princìpi. Essa perciò non si indirizza mai immediatamente all’espe- rienza o a un oggetto qualsiasi ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un’unità a priori per mezzo di concetti: unità che può dirsi razionale ed è di tutt’altra specie di quella che può essere prodotta dall’intelletto » (Crit. R. Pura, Dia- lettica trascendentale, Intr. II, a). La R. procede, come l'intelletto, discorsivamente; ma considera i procedimenti discorsivi dell’intelletto come compiuti 726 in idee di totalità e di unità (l’anima, il mondo, Dio) che sono perfette ma inconfrontabili con l’espe- rienza, quindi puramente fittizie e fonti solo di ragionamenti dialettici, cioè sofistici (v. IDEA, ANTI- NOMIE). Il risultato di questa distinzione kantiana è che il procedimento discorsivo valido è solamente quello dell'intelletto, i cui concetti sono immedia- tamente derivati dall’esperienza; e che il proce- dimento discorsivo razionale, con le sue pretese totalitarie, non dà luogo che a nozioni fittizie. Dopo Kant pertanto diventa difficile mantenere la defi- nizione della ragione come tecnica discorsiva. Il concetto della R. come discorso consente la considerazione formale del procedimento razionale: cioè rende possibile una /ogica, che è difatti la logica tradizionale così come è stata elaborata dai filosofi a partire da Aristotele sino alla fine del sec. xx. La logica intesa in questo senso è nello stesso tempo descrittiva e normativa: descrittiva dei procedimenti propri della R., normativa nel senso che questa stessa descrizione vale come regola per il retto uso della stessa ragione. In questo senso la logica tra- dizionale era esattamente definita come «arte di ragionare ». b) Il concetto della R. come autocoscienza rimonta a Fichte. Esso è caratterizzato dall’identi- ficazione di R. e realtà e presuppone il concetto della R. come discorso. Come discorso, la R. è deduzione; e come deduzione ha un unico prin- cipio che è l'Io. Dall’Io deriva, con necessità infal- libile, l’intero sistema del sapere che è nello stesso tempo il sistema della realtà. « Fonte di ogni realtà è l'Io. Solo per e con l’Io è dato il concetto della realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere sono una sola e medesima cosa » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 4, C; trad. ital., pag. 92). Le equazioni su cui questa dot- trina si fonda sono le seguenti: R. = sapere dedut- tivo; sapere deduttivo = realtà; realtà + sapere = au- tocoscienza. Schelling non faceva che esprimere queste equazioni asserendo: « La natura attinge il suo più alto fine, che è quello di divenire interamente oggetto a se stessa, con l’ultima e più alta riflessione che non è altro se non l’uomo o più generalmente ciò che noi chiamiamo ragione. In tal modo per la prima volta si ha il completo ritorno della natura a se stessa e appare evidente che la natura è origi- nariamente identica a ciò che in noi si rivela come principio intelligente e cosciente (System des trans- zendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 1; trad. ital., pag. 9). Ed Hegel esprimeva lo stesso concetto nel modo seguente: «L’autocoscienza, ossia la cer- tezza che le sue determinazioni sono tanto ogget- tive — determinazioni dell’essenza delle cose — quanto suoi propri pensieri, è la R.; la quale, in quanto è siffatta identità. è non solo la sostanza RAGIONE assoluta, ma la verità come sapere» (Enc., $ 439). In altri termini per Hegel la R. è l’identità dell’auto- coscienza come pensiero con quelle sue manifesta- zioni o determinazioni che sono le cose o gli eventi; è l’identità di pensiero e realtà. In forma epigrafica questo concetto veniva espresso da Hegel nel modo seguente; «la R. è la certezza della coscienza di essere ogni realtà: così l’idealismo esprime il con- cetto della R.» (Phdnomen. des Geistes, I, V, l; trad. ital., pag. 209). Ovviamente, da questo punto di vista, la R. non è discorsiva nel senso di conca- tenare tra loro espressioni linguistiche ed effettuare la derivazione di una di esse dall’altra mediante regole determinate o determinabili; ma è piuttosto la derivazione (pretesa) di tutte le determinazioni del pensiero e della realtà l’una dall’altra in un unico processo di cui si asserisce la perfetta « neces- sità ». Questo punto di vista rende impossibile la considerazione formale delle procedure razionali che è invece collegata con la concezione a della ragione. Come autocoscienza, la R. non è mai formale: è sempre identica con la realtà: « L’intel- letto, dice Hegel, determina e tien ferme le deter- minazioni. La R. è negativa e dialettica perchè risolve in nulla le determinazioni dell’intelletto. Essa è positiva perchè genera l’universale e in esso comprende il particolare» (Wissenschaft der Logik, Pref. alla 1* ediz.; trad. ital, pag. 5). « Com- prende il particolare » significa che comprende le cose o determinazioni reali che non sono altro, in ultima analisi, che le sue manifestazioni parti- colari. La negazione della logica formale fa parte integrante di questo punto di vista, perciò ritorna ogni volta che questo si presenta. Basti qui ricordare soltanto il rifiuto di Croce della logica formale, fondata sullo stesso presupposto hegeliano dell’iden- tità di R. e realtà, espresso nella forma dell’identità di filosofia e storia: « La ricchezza della realtà, dei fatti, dell’esperienza che parrebbe sottratta al con- cetto puro e quindi alla filosofia a cagione del dichiarato distacco delle scienze empiriche, le viene invece ridata e riconosciuta; e non più nella forma diminuita e impropria che è dell’empirismo sibbene in modo totale o integrale. Il che si effettua mercè il congiungimento, che è unità, di filosofia e storia » (Logica, 1920, pag. 392). c) Il concetto della R. come autorivelazione o evidenza è stato stabilito da Husserl. Per Husserl la R. è lo stesso manifestarsi fenomenologico degli oggetti (che possono essere cose Oo essenze), sia che tale manifestarsi sia dotato del carattere neces- sario o apodittico sia esso solo assertorio. Dice Husserl: « La visione per così dire assertoria di una individualità, ad es., il percepire una cosa o uno stato di fatto individuale si distingue nel suo carat- tere razionale dalla visione apodittica della compren- sione di un'essenza o di un rapporto di essenze» (Ideen, 1, $ 137). Il termine più comprensivo cioè il concetto che comprende sia la visione assertoria, che è data di fatto ma può essere diversa, sia la visione apodittica che è necessaria, è la coscienza razionale che Husserl chiama pure, in generale, evidenza (Ibid., $ 137). Da questo punto di vista il carattere fondamentale della razionalità è la validità dell’atto di posizione: se l'oggetto è veramente posto, l’atto è valido e la posizione ha carattere razionale (/bid., $ 139). Ma ciò che dal punto di vista dell’atto noetico è la posizione dell’oggetto, dal punto di vista oggettivo è il manifestarsi evidente dell’og- getto stesso, il suo darsi o il suo rivelarsi (Ibid., $ 139). E poichè in ogni sfera dell’essere il modo di autorivelarsi degli oggetti è diverso, ogni tipo di realtà porta con sè «una nuova concreta dottrina della R.» (/bid., $ 152). Questo concetto della R. come autorivelazione o autoevidenza è senz’altro accettato da Heidegger: « Proprio perchè la fun- zione del /ogos è un puro lasciar vedere qualcosa, un lasciar intuire l’ente, /ogos può significare R.» (Sein und Zeit, $ 7, B). In forma più mitica lo stesso concetto è presentato da Jaspers: «La R. non è affatto una vera e propria sorgente originaria ma, poichè è la connessione di tutto, è simile a una sor- gente originaria nella quale vengono alla luce tutte le sorgenti» (Vernunft und Existenz, 1935, II, 5; trad. ital, pag. 50). La direzione verso cui la R. muove è un'infinita chiarezza; e ciò che in essa cerca di chiarirsi è l’esistenza: « l’esistenza raggiunge la chiarezza solo attraverso la R.: la R. ha un contenuto solo in virtù dell’esistenza » (/bid., II, 6; pag. 53). È ovvio che anche da questo punto di vista una considerazione formale del procedimento razio- nale è impossibile. La R. non è mai formale perchè è sempre riempita dal contenuto che in essa si mani- festa evidente o si chiarisce. d) Il concetto della R. come tautologia trova la sua origine in Hume che per primo distinse netta- mente le « relazioni di idee » dalle « cose di fatto ». «Alla prima classe appartengono le scienze quali la geometria, l’algebra e l’aritmetica e in breve ogni proposizione certa intuitivamente [nel senso lockiano] o dimostrativamente... Le proposizioni di questa classe si possono scoprire con una pura operazione del pensiero e non dipendono da cose che esistono in qualche luogo dell’universo » (/ng. Conc. Underst., IV, 1). Hume veramente non af- fermò esplicitamente il carattere tautologico o (come si dice con termine kantiano) analitico delle pro- posizioni che esprimono semplici rapporti delle idee fra loro; ma in qualche modo lo presuppose insistendo sul fatto che le proposizioni che esprimono cose di fatto non sono logicamente derivabili l’una dall’altra. Tuttavia a formare la concezione in 721 esame della R. è intervenuta anche un’altra compo- nente concettuale che era stata per la prima volta esposta da Hobbes; la riduzione della R. a calcolo delle proposizioni verbali. «La R., aveva detto Hobbes, non è altro che il calcolo — cioè l’addi- zione e la sottrazione — delle conseguenze dei nomi generali usati per contrassegnare e significare i nostri pensieri: per contrassegnarli quando calco- liamo per noi stessi, per significarli quando dimo- striamo o approviamo i nostri calcoli per gli altri uomini » (Leviathan, I, 5). Quest’idea di Hobbes trovò la sua realizzazione soltanto a partire dalla metà del sec. xx con la fondazione della logica matematica da parte di G. Boole (Laws of Thought, 1854) che per la prima volta mostrò l’impossibilità di ridurre il ragionamento matematico alle forme di ragionamento descritte da Aristotele e cominciò a costruire una logica in stretta connessione con i procedimenti del calcolo. I successi che questa logica registrò in seguito, ad opera soprattutto di Frege e Russell (v. Logica), costituiscono un ante- cedente storico indispensabile del concetto in esame della ragione. Che tale procedimento avesse carat- tere tautologico apparve chiaro soltanto più tardi, cioè nell’ambito del Circolo di Vienna, con l’opera di Wittgenstein (1922). Il fondamento di quest’opera è la riduzione della R. al linguaggio. Wittgenstein asseriva che « le proposizioni della logica sono tau- tologie» (Tractatus logico-philosophicus, 6.1); che « le proposizioni della logica non dicono nulla (sono le proposizioni analitiche) » (/bi4., 6.11) e che «le teorie che fanno apparire fornita di contenuto una proposizione della logica sono sempre false » (/bid., 6.111). E aggiungeva: «La caratteristica speciale delle proposizioni logiche è che dal solo simbolo si può riconoscere che sono vere e questo fatto rac- chiude in sè tutta la filosofia della logica. Parimenti uno dei fatti più importanti è che la verità o falsità delle proposizioni non logiche non si può ricono- scere soltanto dalla proposizione » (Tract., 6.113). In tal modo il procedimento razionale ritenuto proprio di quelle discipline che Hume diceva avere per oggetto soltanto relazioni di idee (cioè della logica e della matematica) è stato ridotto alla tautologia. Wittgenstein dice che le proposizioni della logica, come quelle della matematica (/bid., 6.21) non dicono nulla. Ciò non vuol dire tuttavia che esse sono inutili perchè rivelano l’identità di significato che c’è sotto forme proposizionali diverse e possono pertanto essere usate per la trasformazione di una proposizione in un’altra che abbia lo stesso significato ma una forma diversa. Tuttavia, nessuna delle proposizioni della logica e della matematica fornisce alcuna informazione intorno al mondo. La riduzione della R. a procedimento tautologico ha quindi i seguenti risultati: 1° sono razionali, nel senso proprio del termine, solo i procedimenti formali della logica e della matematica (come parte o tutto della logica); perciò razionalità e logicità coincidono; 2° razionalità e logicità non hanno nulla a che fare con la realtà. Pertanto questo con- cetto della R. costituisce l'inversione simmetrica del concetto 5) che ha invece identificato razionalità e realtà ed ha opposto entrambe le concezioni alla pura formalità logica, dichiarata priva di valore (cfr., sulla concezione in esame, R. von MISES, Kleines Lehrbuch des Positivismus, 1939, $ 10; trad. ital., pag. 164 sgg.; J. R. WeINBERG, An Exa- mination of Logical Positivism, 1950, cap. II; tradu- zione ital, pag. 86 sgg.). Le quattro alternative tipiche che la teoria della R. ha finora seguite sono chiaramente insufficienti di fronte al compito che alla R. si assegna come guida autonoma dell’uomo in tutti i campi. La prima di esse si è storicamente esaurita e l’abbandono della logica in cui essa si esprimeva non è che un segno di quest’esaurimento. La 5) e c) rendono impossibile la determinazione di procedimenti rigorosi; e la 5) mette in pericolo la stessa funzione direttiva della ragione. La d) rende possibile lo sviluppo di una disciplina autonoma che è la moderna logica mate- matica ma è troppo ristretta per esprimere i compiti della R. in tutti i campi. È possibile bensì, in tutti i campi, servirsi delle tecniche logico-matematiche costruite sul fondamento della nozione di R. come tautologia; ma non tutti i procedimenti che possono definirsi razionali possono ridursi a tali tecniche. Un procedimento razionale è in generale quello che consente all’uomo di dominare una situazione, di affrontare i mutamenti di essa e di correggere gli errori eventuali del procedimento stesso. Pertanto la razionalità di un procedimento si può determinare soltanto nei confronti della situazione specifica che esso consente di affrontare. E la considerazione della R. rinvia subito (come voleva Husserl) alla considerazione delle sfere o dei campi specifici, rispetto ai quali soltanto si può decidere la razio- nalità di un procedimento. Da questo punto di vista, la teoria della R. può essere oggi fornita, non da una metafisica della R., ma dalle ricerche metodologiche e critiche che, dall'esame dei proce- dimenti autonomi, di cui l’uomo dispone nei singoli campi di ricerca, risalgano alle condizioni generali della loro progettabilità. RAGIONE SUFFICIENTE.V. FONDAMENTO. RAGIONEVOLE (lat. Rationabilis o Rationalis; ingl. Reasonable; franc. Raisonnable; ted. Verniinftig). 1. Chi ha la possibilità d’uso della ragione; e in questo senso si dice che l’uomo è un animale ragionevole. S. Agostino afferma che i dotti «chiamarono R. (rationabilis) chi usa o può far uso della ragione, razionale (rationalis) ciò che è fatto o detto dalla ragione +; e pertanto ritiene che bisogna chiamare razionale, per es., i discorsi o i bagni e R. colui che li fa (De Ordine, XI, 31). Ma questa distinzione non regge molto perchè gli antichi chiamarono razionale anche l’uomo (cfr., ad es., QuinTILIANO, /nsf., V, 10, 56). E d’altronde chia- miamo oggi R. anche ciò che è conforme a ragione. 2. Ciò che è conforme alla ragione o alle regole che essa prescrive in un determinato campo d'indagine o in generale. In questo senso Locke parlava della «ragionevolezza del cristianesimo ». E si parla di una « R. certezza » per designare quella certezza che si può desumere dalle regole del campo cui si fa riferimento, ma non è assoluta. Dewey dice: «La ragionevolezza è questione di relazione tra mezzi e risultati... È R. ricercare e scegliere i mezzi che con ogni probabilità produrranno gli effetti ai quali si tende » (Logic, I; trad. ital., pag. 41-42). In entrambi i significati il termine R. (come quello correlativo di ragionevolezza) implica una connotazione limitativa, la quale in primo luogo esclude l’infallibilità della ragione; ed in secondo luogo include la considerazione dei limiti e delle circostanze in cui la ragione stessa si trova ad agire. Pertanto « esser R. » significa, nella lingua corrente, rendersi conto delle circostanze e delle limitazioni che esse comportano con la rinuncia ad un atteggia- mento, teoretico o pratico, di assolutismo. RAGIONI SEMINALI (gr. 26yor oreppa- tixol; lat. Rariones seminales). Quelle parti della R. divina da cui le cose si originano. Secondo gli Stoici, come ogni vivente è prodotto da un seme, così ogni cosa è prodotta da una particella della R. divina, che perciò è un seme razionale. La nozione sottolinea la predeterminazione di ciò che si genera (Azzio, Plac., I, 7, 33; cfr. STOBEO, Ecl., I, 17, 3). La nozione fu fatta propria dai neoplatonici (con- fronta PLOTINO, Enn., II, 3, 16) e da S. Agostino (De diversis quaestionibus 83, q. 46). RAGION PIGRA (gr. &pydc Asyoc; lat. Jenava ratio; ted. Faule Vernunft). Il ragionamento o l’ar- gomento che persuade all’inerzia. Platone già chia- mava pigro l’argomento sofistico che è inutile cercare perchè non si può cercare nè quello che si sa (dal momento che si sa) nè quello che non si sa, dal momento che non si sa che cosa cercare (Men., 86 b). Ma sotto il nome di R. pigra ci è stato specialmente tramandato un argomento di pro- babile origine megarica, esposto dallo stoico Cri- sippo (PLUTARCO, Moralia, II, pag. 574 e; cfr. Stoi- corum Fragmenta, II, pag. 277) che Cicerone ha così riportato: « Se per te è destino di guarire da questa malattia, guarirai sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Ora il tuo destino è l’una o l’altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico » (De Fato, 12, 28). Leibniz fece talora riferimento a questo vecchio argomento megarico o stoico (Théod., I, 55). Più genericamente, Kant chiama R. pigra «ogni principio il quale porti a considerare come assolutamente compiuta la pro- pria ricerca sicchè la R. si metta tranquilla come se abbia pienamente terminato il suo compito » (Crit. R. Pura, Dialettica; Appendice alla Dialet- tica trascendentale: Dello scopo finale, ecc.). In questo senso più generale, l’espressione è adoperata frequentemente anche oggi. RAGION PURA. V. Puro. RAMIFICATA TEORIA DEI TIPI. Vedi ANTINOMIA. RANGO (ingl. Range; franc. Rang; ted. Rane). Termine talvolta adoperato dai logici per indi- care l'insieme delle entità i cui nomi possono essere sostituiti alla variabile di una formula. Il R. di una proposizione è l'insieme degli stati di cose nei cui rispetti la proposizione è vera. // R. del significato di un predicato P è l’insieme dei valori di x per i quali «Px» è vero o falso (cfr., specialmente per quest’uso, A. Pap, Semantics and Necessary Truth, 1958, passim). RAPPORTO. V. RELAZIONE. RAPPORTO DI COSE. V. STATO DI cose. RAPPRESENTATIVO (ingl. Representative; franc. Représentatif; ted. Vorstellend). 1. Il senso di questo aggettivo è più ristretto di quello del corrispondente sostantivo giacchè contiene costan- temente il riferimento al carattere di « similitudine » o di «quadro», che rimane escluso da alcuni si- gnificati del sostantivo. Così «idea R.» è l’idea che si concepisce come immagine o riproduzione del suo oggetto. E si dice che la conoscenza ha natura R., se si ritiene che essa costituisca l’immagine o la copia dell'oggetto. 2. Emerson chiamò uomini R. quelli che Hegel chiamava « individui della storia universale » o altri romantici chiamavano « eroi »: cioè quelli che sono i simboli e nel contempo gli strumenti di realizza- zione delle aspirazioni di tutti gli uomini (Repre- sentative Men, 1850). 3. Nel senso politico: sistema R., è il sistema che si fonda sul principio della delega, da parte dei cittadini a un gruppo ristretto di essi, di certi specifici poteri politici. RAPPRESENTAZIONE (lat. Repraesen- tatio; ingl. Representation; franc. Représentation; ted. Vorstellung). Termine di origine medievale per indicare l’immagine (v.) o l’idea ([v.] nel senso 2), o entrambe le cose. L’uso del termine fu suggerito agli Scolastici dal concetto di conoscenza come di una «similitudine» dell’oggetto. « Rappresentare qualcosa, diceva S. Tommaso, significa contenere la similitudine della cosa» (De Verit., q. 7, a. 5). Ma fu soprattutto l’ultima scolastica che mise in voga il termine, talvolta per indicare il significato delle parole (cfr., ad es., GRAZIADIO DI ASCOLI, Perihermenias, 2). Ochkam distingueva tre signi- ficati fondamentali. « Rappresentare, diceva, ha parecchi sensi. In primo luogo, si intende con questo termine ciò con cui si conosce qualcosa e in questo senso la conoscenza è rappresentativa e rappresentare significa esser ciò con cui si conosce qualcosa. In secondo luogo si intende per rappre- sentare il conoscer qualcosa, conosciuta la quale si conosce un’altra cosa; e in questo senso l’imma- gine rappresenta ciò di cui è l’immagine, nell’atto del ricordo. In terzo modo s’intende per rappre- sentare il causare la conoscenza al modo in cui l’oggetto causa la conoscenza » (Quodl., IV, q. 3). Nel primo senso la R. è l’idea nel senso più gene- rale; nel secondo senso, è l’immagine; nel terzo, è l’oggetto stesso. Questi sono in realtà tutti i possi- bili significati del termine: il quale fu reso di nuovo significativo dalla nozione cartesiana dell’idea come «quadro » o «immagine» della cosa (Méd., III); e fu diffuso soprattutto da Leibniz che considerava ogni monade come una R. dell’universo (Mon., $ 60). Proprio per suggestione di questa dottrina Wolff introduceva il termine Vorstellung, per in- dicare la cartesiana idea, nell’uso filosofico della lingua tedesca (Verninftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, 1719, I, $ 220, 232, ecc... A Wolff si deve la diffusione dell’uso del termine nelle altre lingue europee. Kant fissava il significato generalissimo di esso, da lui considerato come il genere di tutti gli atti o manifestazioni conoscitive indipendentemente dalla sua natura di quadro o di similitudine (Crit. R. Pura, Dialettica, libro I, sez. I). In tale significato gene- ralissimo il termine è stato poi costantemente ado- perato nel linguaggio filosofico. Hamilton difendeva l’uso della parola anche in inglese (Lectures on Logic, 2* ed., 1866, I, pag. 126). Ma in questo senso i problemi inerenti alla R. sono quelli inerenti o alla conoscenza in generale (v. ConosceENZA) o alla realtà che costituisce il termine oggettivo della conoscenza (v. REALTÀ) 0, in un’altra direzione, quelli relativi al rapporto tra le parole e gli oggetti significati (per i quali V. SEGNO; SIGNIFICATO). RASOIO DI OCCAM. V. Economia. RAZIOCINIO. V. RAGIONAMENTO. RAZIONALE (gr. 2oyixéc; lat. Rationalis, Ra- tionabilis; ingl. Rational; franc. Rationnel; tedesco Verniinftig). 1. Ciò che costituisce la ragione o concerne la ragione, in uno qualsiasi dei signifi- cati di questo rermine (v.). 2. Lo stesso che ragionevole: ad es., « animale R. », «comportamento R. ». 3. Che ha per oggetto la ragione cioè la sua forma o i suoi procedimenti. In questo senso Se- neca (Ep., 89, 17) e Quintiliano (/rsr., XII, 2, 10) chiamarono « filosofia R.+ la logica, come fecero poi anche Wolff (Philosophia rationalis sive logica, 1728) e altri. RAZIONALISMO (ingl. Rationalism; francese Rationalisme; ted. Rationalismus). In generale, l’at- teggiamento di chi si affida ai procedimenti della ragione per la determinazione di credenze o di tecniche in un dato campo. Il termine fu usato fin dal sec. xvII per designare tale atteggiamento nel campo religioso: « C'è una nuova sètta diffusa fra di essi [Presbiteriani e Indipendenti] ed è quella dei razionalisti: ciò che la loro ragione gli detta, essi lo tengono per buono nello Stato e nella Chiesa, finchè non trovano di meglio » (CLARENDON, State Papers, II, pag. xL, alla data del 14-x-1646). In questo senso Baumgarten diceva: «Il R. è l’errore di chi elimina nella religione tutte le cose che sono al di sopra della propria ragione» (Ethica philo- sophica, 1765, $ 52). Kant fu il primo ad assumere il termine come insegna della propria dottrina ed a estenderlo dal campo religioso agli altri campi d’indagine. Egli chiamò R. la propria filosofia trascendentale (nello scritto del 1804 sui « Progressi della metafisica », Werke, V, 3, pag. 101): mentre chiamava noolo- gisti o dogmatici i filosofi che la storiografia tedesca dell’800 ha chiamato poi razionalisti cioè da un lato Platone e dall’altro i wolfiani (Crit. R. Pura, Dottr. del Metodo, cap. IV). Nel campo morale difendeva « il R. del giudizio, il quale dalla natura sensibile non prende nient’altro che ciò che anche la Ragion pura per sè può pensare, cioè la confor- mità alla legge » e che perciò si oppone sia al mi- sticismo sia all’empirismo della Ragion pratica (Crit. R. Pratica, I, cap. II, Della tipica del giudizio puro pratico). Nel campo estetico analogamente parlava di un « R. del principio del gusto » (Critica del Giud., $ 58). E infine caratterizzava come R. il suo punto di vista in materia religiosa. « Il razio- nalista, egli diceva, in virtù del suo stesso titolo, si deve mantenere dentro i limiti della capacità umana. Quindi non prenderà mai il tono deciso del naturalista e non contesterà nè la possibilità nè la necessità di una rivelazione... giacchè su questi punti nessun uomo può, mediante la sua ragione, decidere cosa alcuna» (Religione, IV, sez. I; tra- duzione italiana Durante, pag. 169). Dall’altro lato, Hegel fu il primo a caratteriz- zare come R. l’indirizzo che va da Cartesio a Spinoza e Leibniz, contrapponendolo all’empirismo dell’indirizzo che fa capo a Locke. Per R. egli intese la « metafisica dell’intelletto » cioè «la ten- denza alla sostanza, per cui si afferma, contro il dualismo, un'unica unità, un solo pensiero, al modo stesso in cui gli antichi affermavano l’essere » (Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, III, pa- gina 329 sgg.; trad. ital., III, 2, pag. 68 sgg.). La contrapposizione tra razionalismo ed empirismo è rimasta poi fissata negli schemi tradizionali della storia della filosofia, per quanto lo stesso Hegel ne avvertisse il carattere approssimativo. In quanto al R. religioso, Hegel affermava che esso è « l’op- posto della filosofia» perchè pone «il vuoto al posto del cielo» e perchè «la sua forma è un ra- gionare senza libertà non già un intendere concet- tualmente » (/bid., I, pag. 113; trad. ital., I, pag. 95). In base a queste notazioni storiche si può dire che il termine in questione può essere inteso nei se- guenti significati: 1° come R. religioso, designa alcuni indirizzi protestanti o un punto di vista sulla religione si- mile a quello di Kant; 2° come R. filosofico, il termine designa pro- priamente la dottrina di Kant (che lo fece suo); oppure l’indirizzo metafisico della filosofia moderna da Cartesio a Kant; 3° nel suo significato generico, può essere adoperato a designare qualsiasi indirizzo filosofico che faccia appello alla ragione. Ma in questa ac- cezione così vasta il termine può indicare le filosofie più disparate e manca di ogni capacità indivi- duante. RAZIONALIZZAZIONE (ingl. Rationaliza- tion; franc. Rationalisation; ted. Rationalisierung). 1. Così è stato talora chiamato il processo per il quale le scienze della natura tendevano a costituirsi come discipline teoretiche adottando i procedimenti della matematica: processo che si supponeva rea- lizzato perfettamente nella meccanica razionale (cfr. HussERL, /deen, I, $ 9). L’ideale della R. è stato ora sostituito da quello della assiomatizzazione (v. ASSIOMATICA). 2. Termine di cui si avvalgono spesso psicologi e sociologi per indicare la tendenza a cercare ar- gomenti e giustificazioni per credenze che ricavano la loro forza non già da essi, ma da emozioni, interessi, istinti, pregiudizi, abitudini, ecc. RAZZISMO (ingl. Racialism; franc. Racisme; ted. Rassismus). La dottrina che tutte le manife- stazioni storico-sociali dell’uomo e i suoi valori (o disvalori) dipendano dalla razza e che esista una razza superiore («ariana » o « nordica +) de- stinata ad essere la guida del genere umano. Il fondatore di questa dottrina è stato il francese Gobineau nel suo Essai sur l’inégalité des races humaines (1853-55) che era diretto a difendere l’aristocrazia di fronte alla democrazia. Verso il principio del ’900 un inglese tedeschizzato, Houston Stewart Chamberlain diffuse il mito dell’arianesimo in Germania (Die Grundlagen des XIX Jahrhunderts, 1899) identificando la razza superiore con quella ger- manica. L’antisemitismo era antico in Germania e perciò la dottrina del determinismo razziale e della razza superiore trovò qui facile diffusione risolvendosi nell’appoggio del pregiudizio anti- ebraico e della credenza che esiste una congiura giudaica per la conquista del dominio del mondo e che pertanto il capitalismo e il marxismo e in generale quelle manifestazioni culturali e politiche che indeboliscono l’ordine nazionale sono feno- meni giudaici. Dopo la prima guerra mondiale il R. apparve ai Tedeschi come un mito consola- torio, un’evasione dalla depressione della sconfitta; e Hitler ne fece il caposaldo della sua politica. La dottrina fu elaborata da Alfredo Rosenberg nel Mito del XX secolo (1930). Rosenberg affer- mava un rigoroso determinismo razziale. Ogni ma- nifestazione culturale di un popolo dipende dalla sua razza. La scienza, la morale, la religione, e i valori che esse scoprono e difendono dipendono dalla razza e sono le espressioni della forza vitale della razza. Perciò pure la verità è sempre tale soltanto per una razza determinata. La razza su- periore è quella ariana che dal nord si è diffusa nell’antichità in Egitto, in India, in Persia, in Grecia e in Roma e ha prodotto le antiche civiltà: civiltà che decaddero perchè gli ariani si mescola- rono con razze inferiori. Tutte le scienze, le arti, le istituzioni fondamentali della vita umana sono state create da questa razza. Di fronte ad essa sta l’anti-razza parassitica ebraica, che ha creato i veleni della razza: la democrazia, il marxismo, il capitalismo, l’intellettualismo artistico e anche gli ideali di amore, di umiltà, di uguaglianza dif- fusi dal cristianesimo, il quale rappresenta una corruzione romano-giudaica dell’insegnamento del- l’ariano Gesù. L'insieme di questa dottrina venne esplicitamente dal nazismo presentato come un mito, creato, diffuso e mantenuto dalla stessa forza vitale della razza. Il che non vuol dire che non si cercò di razionalizzarla, dando una base scien- tifica al concetto di razza che ne era il fondamento. Ma in realtà proprio l’uso che il R. fa della nozione di razza rivela, dal punto di vista scientifico e filo- sofico, l’inconsistenza della dottrina. Il concetto di razza è oggi unanimemente con- siderato dagli antropologi come un espediente classificatorio adatto a fornire lo schema zoologico entro il quale possono essere situati i vari gruppi del genere umano. La parola perciò deve essere riservata solo per quei gruppi umani contrasse- gnati da differenti caratteristiche fisiche che pos- sono essere trasmesse per eredità. Tali caratteri- stiche sono principalmente: il colore della pelle, la statura, la forma della testa e della faccia, il colore e la qualità dei capelli, il colore e la forma degli occhi, la forma del naso e la struttura del corpo. Si distinguono, tradizionalmente (e conven- zionalmente) tre grandi razze che sono la bianca, la gialla e la nera, cioè la caucasica, la mongolica e la negroide. Pertanto i gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e culturali non possono es- sere chiamati, a nessun titolo, « razze »j} non sono una razza nè gli Italiani, nè i Tedeschi, nè gli In- glesi, non lo furono i Latini o i Greci, ecc. Non esiste alcuna razza «ariana» o «nordica». Nè esiste alcuna prova che la razza o le differenze razziali influiscano in un modo qualsiasi sulle ma- nifestazioni culturali o sulle possibilità di sviluppo della cultura in generale. Non vi è prova neppure che i gruppi, in cui si può distinguere il genere umano, differiscano nella loro capacità innata di sviluppo intellettuale ed emozionale. Al contrario, gli studi storici e sociologici tendono a rafforzare la veduta che le differenze genetiche sono fattori insignificanti nella determinazione delle differenze sociali e culturali fra gruppi diversi di uomini. Vasti mutamenti sociali si sono verificati senza

essere in nessun modo connessi con mutamenti del tipo razziale. Nè vi è prova che le mescolanze di razza producano risultati svantaggiosi da un punto di vista biologico. È molto probabile che non ci siano e non ci siano mai state, per quanto si può rimontare nel tempo, razze «pure». I ri- sultati sociali delle mescolanze di razze, sia buoni che cattivi, possono essere attribuiti a fattori so- ciali. Una dichiarazione sulla razza fu emessa nel 1951 a Parigi, presso l’UNESCO da una commis- sione composta da cinque cultori di genetica e sei antropologi appartenenti a sei nazioni diverse. Essa consiste nell’esposizione dei capisaldi che si sono or ora ricordati (e sui quali cfr. RUTH BE- NEDICT, Race, Science and Politics, 1940; e RALPH Linton, The Science of Man in the World Crisis, 7» ed., 1952). Ma in realtà il R. dovunque si riscontri e comunque lo si giustifichi appartiene al rango di quella che Veblen chiamava psichiatria applicata; cioè all'arte di sfruttare per scopi parti- colari un certo pregiudizio esistente. Si tratta in questo caso di un pregiudizio estremamente perni- cioso perchè contraddice ed ostacola la tendenza morale dell’umanità verso l’integrazione universa- listica e perchè fa dei valori umani, a cominciare dalla verità, fatti arbitrari che esprimono la forza vitale della razza e così non hanno sostanza propria e possono essere manipolati arbitrariamente per i fini più violenti od abbietti. REALE (lat. Realis; ingl. Real; franc. Réel; ted. Real). 1. Che si riferisce alla cosa. Ad es., «definizione R. + è la definizione della cosa e non del nome di essa. 2. Ciò che esiste di fatto o attualmente: v. cor- rispondentemente ai vari sensi del termine REALTÀ. 3. Herbart chiamò Reali gli enti effettivamente esistenti «la cui natura semplice e propria ci è sconosciuta ma sulle cui condizioni interne ed esterne possiamo acquistare una somma di cono- scenze che può aumentare all'infinito ». Tali enti sono tra loro irrelativi sicchè ogni loro rapporto dev'essere considerato come una veduta acciden- tale (2uféllige Ansicht) che non qualifica e non modifica la loro natura (Einleitung in die Philo- sophie, 1813, $ 152 sgg.). REALI, SCIENZE. V. SCIENZE, CLASSIFICA- ZIONE DELLE. REALISMO (lat. Reglismus; ingl. Realism; franc. Réalisme; ted. Realismus). Il termine co- minciò ad essere adoperato verso la fine del se- colo xv per indicare l’indirizzo più antico della Scolastica in contrapposto all’indirizzo detto « mo- derno » dei nominalisti o terministi. Il primo ad adoperarlo fu probabilmente Silvestro Mazolino di Prieria nel Compendium dialecticae del 1496 (cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 292). Il R. affermava la realtà degli universali (generi e specie) intendendo tuttavia in modi diversi questa realtà stessa (v. UNIVERSALE). Nel senso più generale e moderno, il termine fu ripreso da Kant nella prima edizione della Critica della Ragion Pura, per indicare, da un lato, la dottrina, opposta a quella da lui difesa, che considera lo spazio e il tempo indipendenti dalla nostra sensibilità, che è il R. trascendentale; e dall'altro, la dottrina, sua propria, che ammette la realtà esterna delle cose ed è il R. empirico. « L’idealista trascendentale, diceva Kant, è un rea- lista empirico e riconosce alla materia, come fe- nomeno, una realtà che non ha bisogno di essere dedotta ma è immediatamente percepita » (Critica R. Pura, 13 ed., Dialettica trascendentale. Critica del quarto paralogismo della psicologia trascenden- tale). Con Kant il termine entrava nell’uso filo- sofico per designare dottrine di interesse attuale e non semplicemente storico. Fichte affermava che «la dottrina della scienza è realistica» perchè « mostra che è assolutamente impossibile spiegare la coscienza delle nature finite se non si ammette l’esistenza di una forza indipendente da esse, ad essa opposta, e dalla quale esse dipendano nella loro esistenza empirica » (Wissenschaftslehre, 1794, $ V, II; trad. ital., pag. 231). Schelling parlava a sua volta di un idealismo realistico (Real-/dea- lismus) o di un R. idealistico (/deal-Realismus) (Werke, I, X, pag. 107) nello stesso senso di Fichte. Da allora in poi il R. è stato qualificato e definito nei modi più diversi; e quasi sempre le dottrine che l’hanno assunto come insegna hanno anche qualificato come realiste le dottrine del passato che erano in accordo con il loro punto di vista. Così, ad es., Platone è stato classificato realista perchè ammette la realtà delle idee (qualsiasi cosa ciò possa significare); ma è stato anche definito idealista in quanto si tratta, per l’appunto, di idee. Simili notazioni (e le dispute che fanno sor- gere) non sono altro che perdite di tempo. Meno inutile forse è chiarire il significato delle più note forme che il R. ha assunto nella filosofia moderna. In tal caso, oltre a quelle già ricordate, si possono richiamare le seguenti: a) Il R. empirico di Kant ha assunto vari nomi rimanendo sostanzialmente lo stesso cioè il ricono- scimento dell’esistenza delle cose indipendente dal- l’atto del conoscere. W. Hamilton chiamò questo punto di vista R. naturale o presentazionismo e lo ritenne proprio della Scuola scozzese da cui deri- vava la sua filosofia (v. PRESENTAZIONISMO). L’arti- colo famoso di G. E. Moore pubblicato nel Mind del 1903, « La confutazione dell’idealismo », si ispira a un identico punto di vista: difende l'indipendenza dell'oggetto conosciuto dall’atto psichico con cui viene conosciuto. Questa indipendenza veniva rico- nosciuta come la tesi del R. ingenuo (ted. Naiven Realismus) da G. Schuppe (Grundriss der Erkenntnis- theorie und Logik, 1910, pag. 1-2). O. Kiilpe chia- mava lo stesso punto di vista R. scientifico (Die Realisierung, II, 1920, pag. 148). Mentre J. Ma- ritain che ha difeso la stessa forma di R. come meglio rispondente alla tradizione tomistica, l’ba chiamata R. critico (Distinguer pour unir, 1932, pag. 149). Infine lo stesso tipo di R. è chiamato materialismo dai filosofi sostenitori del materia- lismo dialettico: così fa, per es., Lenin (Materia- lismo e empiriocriticismo, 1909; trad. ital., pag. 75). Questa stessa forma di R., senza aggettivi o con aggettivi vari, ricorre frequentemente nella filosofia contemporanea e si può riconoscere agevolmente nell’esistenzialismo, nello strumentalismo, nell’em- pirismo logico e in tutte le correnti filosofiche che assumono come loro punto di partenza il pensiero scientifico. b) Il R. trasfigurato (Transfigured Realism) di H. Spencer: « Il R. a cui siamo impegnati è quello che asserisce semplicemente che l’esistenza ogget- tiva è separata e indipendente dall'esistenza sog- gettiva. Ma esso non afferma che ognuno dei modi dell’esistenza oggettiva è in realtà quello che sembra nè che le connessioni fra i modi sono oggettiva- mente quello che sembrano. Perciò questo R. è nettamente distinto dal R. crudo; e per segnare la distinzione si può propriamente chiamarlo R. tra- sfigurato » (Principles of Psychology, $ 472). c) Il nuovo R., difeso in volume collettivo da un gruppo di pensatori americani (E. B. HOLT, W. T. MARWIN, W. P. MONTAGUE, R. B. PERRY, W. B. PITKIN, E. G. SPAULDING, The New Realism, 1912). Questa forma di R. è fondata sul principio che la relazione conoscitiva non modifica gli enti tra i quali intercorre e che pertanto il fatto che gli enti conosciuti ci appaiono solo in relazione con noi non implica che il loro essere si esaurisca in questa relazione. Enti oggettivi sono, secondo il nuovo R., anche i concetti astratti di cui si avvale la scienza e l’errore stesso è un fatto oggettivo dovuto a una distorsione fisiologica. Un punto di vista analogo a questo e come questo ispirato dalle correnti della fenomenologia e del logicismo è stato difeso da Nicolai Hartmann in una serie di opere a partire dai Grundziige einer Metaphysik der Erkenntnis (1921). Sono costitutive del R. di Hart- mann le due tesi seguenti: 1° il rapporto conoscitivo è estrinseco all'essere, che non risulta modificato o qualificato da esso; 2° l’essere è costituito non solo da cose ma anche da oggetti ideali o astratti o da valori. d) Il R. critico difeso in un volume collettivo da un gruppo di pensatori americani (D. DRAKE, A. O. Lovejoy, J. B. PRATT, A. K. RogERs, G. SAN- TAYANA, R. W. SeLLARS, C. A. STRONG, Essays in Critical Realism, 1920) che difendeva fondamen- talmente il punto di vista sostenuto da Santayana secondo il quale l’oggetto immediato della cono- scenza è un'essenza (v.), mentre l’esistenza non è mai afferrata immediatamente o intuita ma sem- plicemente affermata o posta o riconosciuta per esigenze emozionali e pratiche che Santayana chia- mava con il nome di fede animale (Scepticism and Animal Faith, 1923). REALTÀ (ingl. Reality; franc. Réalité; tedesco Realitàt, Wirklichkeit). 1. Nel suo significato proprio e specifico il termine designa il modo d’essere delle cose in quanto esistano fuori dalla mente umana © indipendentemente da essa. La parola realitas fu coniata nella tarda Scolastica e precisamente da Duns Scoto. Questi l’adoperò per definire l’in- dividualità: che consisterebbe nell’ ultima R. del- l’ente» la quale determina e contrae la natura comune ad esse hanc rem, alla cosa singola (Op. Ox., II, d. 3, q. 5, n. 1). Questa realitas fu chiamata da Duns stesso o dagli scolari di Duns di preferenza haecceitas. Il termine doveva poi passare a signi- ficare l’esse in re della scolastica nel senso, per es., in cui S. Anselmo intendeva passare, con la prova ontologica, dall’esse in intellectu dell’ Ente di cui non si può pensare niente di maggiore» al suo esse in re (Prosl. 2); oppure nel senso in cui gli Scolastici parlavano dell’universale in re cioè in- corporato nelle cose. L’opposto di R. è perciò idealità che indica il modo d’essere di ciò che è nella mente e non è o non può essere o non è ancora incorporato o attuato nelle cose. Il riferi- mento alle cose è evidente anche in espressioni come « definizione reale » per indicare la definizione della cosa e non del nome; e «diritti reali» per indicare diritti che concernono le cose e non le persone. Il problema cui direttamente ha dato luogo la nozione di R. è quello dell’esistenza delle cose o del « mondo esterno ». Questo problema è nato con Cartesio cioè col principio cartesiano che og- getto della conoscenza umana è soltanto l’idea. Da questo punto di vista, diventa immediatamente dubbia l’esistenza di quella R. cui l’idea sembra accennare ma di cui non è prova come non è prova un dipinto della R. della cosa rappresentata. Per giustificare la R. delle cose Cartesio aveva fatto ricorso alla veridicità di Dio: nella sua perfezione Dio non può ingannarci e non può permettere che ci siano in noi idee che non rappresentino nulla (Med., IV). Ma all’esistenza di Dio, Cartesio era pervenuto, oltrecchè attraverso la rielaborazione della prova ontologica, anche ammettendo il prin- cipio che «ci dev'essere nella causa efficiente © totale almeno tanta R. quanta ce n’è nell’effetto »: un principio in base al quale l’idea di Dio, che è l’idea della perfezione massima, deve avere come causa un essere che ha tanta « R.» quanta è quella che l’idea rappresenta: cioè Dio stesso (/bid., IM). Lo sviluppo ulteriore del problema portò alla ne- gazione della realtà. L'empirismo inglese con Ber- keley e Hume riconduceva la R. delle cose al loro essere percepito e perciò la negava come un modo d’essere autonomo. Dall'altro lato, il razionalismo risolveva, con Leibniz, le cose in elementi o atomi (monadi) di natura spirituale e con ciò negava ugualmente il carattere specifico della loro R. (vedi IMMATERIALISMO). La R. delle cose veniva in qualche modo riaf- fermata da Kant. Kant conserva al termine R. (Realitàt) il suo significato specifico di R. delle cose o, come egli anche dice, cosalità (Sachheit) (Crit. R. Pura, Analitica, II, cap. I): al quale con- trappone la «idealità» dello spazio e del tempo che sono forme dell’intuizione e non delle cose (Ibid., $ 3). Ma il problema concerne per lui l’esi- stenza (Dasein) delle cose stesse. Questo è il pro- blema che egli esamina nella « Confutazione del- l’idealismo ». La soluzione qui prospettata è che «la coscienza della mia propria esistenza è insieme coscienza immediata dell'esistenza di altre cose fuori di me». La prova di questa asserzione è che la coscienza del tempo, cioè del mutamento, non sarebbe possibile senza la coscienza di qualcosa di permanente; e questo qualcosa di permanente, non potendo esser dato dalla stessa coscienza del tempo, può esser dato soltanto dalla cosa esterna alla coscienza. Valida o no che fosse questa dimo- strazione, è chiaro che Kant da un lato riteneva valido il primato della coscienza stabilito da Car- tesio, per il quale appunto la R. delle cose diventa un problema ed esige una dimostrazione; dall’altro, tendeva a distruggere questa impostazione, con- nettendo la coscienza della propria esistenza con la coscienza delle cose (v. Coscienza). Egli tuttavia non si proponeva neppure il problema del modo d’essere specifico delle cose cioè del tipo d’esistenza che ad esse è proprio. Eppure questo problema è strettamente connesso con quello dell’« esistenza » delle cose e solo una qualche risposta ad esso può dare significato alla soluzione positiva di questo ultimo; giacchè, se le cose esistono nasce subito la domanda: qual’è il senso della loro esistenza? Il problema della R. si deve pertanto ritenere composto di questi due problemi, non separabili l'uno dall’altro: quello dell’esistenza e quello del modo d’essere specifico delle cose. L’idealismo post-kantiano si soffermò più sul secondo che sul primo di questi due problemi. Secondo Fichte, la R. consiste in generale nell'attività dell’Io che « pone l’oggetto limitandosi» e trasporta nell’og- getto una parte della sua attività. « Fonte di ogni R. (Realitàt) è l’Io, dice Fichte. Solo per e con l’Io è dato il concetto della realtà. Ma l’Io è perchè si pone e si pone perchè è. Perciò porsi ed essere sono una sola e medesima cosa. Ma il concetto del porsi e quello dell’attività in generale sono, a loro volta, una sola e medesima cosa. Dunque, ogni R. è attiva ed ogni cosa attiva è R. » (Wissen- schaftslehre, $ 4, C). Questa idea della R. come attività entrò a costituire il bagaglio del Romanti- cismo e influenzò il corso ulteriore del problema, « L’attività è la vera e propria R. +, diceva Novalis (Fragmente, 190). Schopenhauer affermava decisa- mente «che l’essenza degli oggetti intuibili è la loro azione; che proprio nell’azione consiste la R. dell’oggetto e la pretesa di un’esistenza dell’oggetto fuori della rappresentazione del soggetto e anche di un’essenza della cosa reale diversa dalla sua azione, non ha senso alcuno, anzi è una contraddi- zione » (Die Welt, I, $ 5). Come si vede, la riduzione della R. ad attività ha, in origine, un senso ideali- stico. Essa è tuttavia servita ad avviare una nuova alternativa nella soluzione del problema: quella che vede nella R. stessa non un semplice oggetto di conoscenza, ma un modo d'essere che si rivela meglio ad altre forme di esperienza. La nozione di attività che era rimasta cara al Romanticismo fornisce il primo modello di questa soluzione. Dall’altro lato il sensismo di Condillac aveva mostrato la derivazione dell'idea di R. dal senso del tatto; ma il senso era stato in generale inteso da Condillac in modo attivo e dinamico come guidato e sorretto dal bisogno e dai desideri (Trairé des sensations, 1754, I, 3, 1; I, 7, 3; II, 5, 5). Più tardi Destut de Tracy aveva messo in relazione l’idea di R. con l’esperienza della resistenza che le cose oppongono al movimento (/déologie, 1801, cap. 8). Nella filosofia contemporanea un’idea analoga è stata ripresa da Dilthey (Contributo alla soluzione del problema dell'origine della nostra cre- denza nella realtà del mondo esterno, in Gesammelte Schriften, 1890, V, 1, pag. 90 sgg.). La resistenza definirebbe il modo d'essere della R., cioè delle cose; e l’esperienza di questa R. sarebbe, corri. spondentemente, volitiva e pratica, più che cono- scitiva. Scheler ha accettato questa interpretazione della R. (Die Wissensformen und die Gesellschaft, pag. 455 sgg.). Una tesi sostanzialmente analoga fu presentata da Santayana nel libro Scerricismo e fede animale (1923) nel quale egli mostrava come la credenza nella R. è dovuta a esperienze puramente animali (la fame, la lotta, ecc.) ed è giustificabile solo sulla base di tali esperienze. Lo stesso San- tayana aveva presentato questa stessa nozione della R. nei Essays in Critical Realism (1920), pubblicati da sette filosofi americani (v. REALISMO). Nella filosofia più recente il problema della R. ha cessato quasi del tutto di essere il problema del- l’« esistenza » delle cose per diventare, sempre più esclusivamente, il problema del modo d’essere specifico delle cose stesse. Le elaborazioni di questo problema seguono l’alternativa aperta dalle dottrine che riconoscono il carattere non semplice- mente conoscitivo dell’esperienza della realtà. Hei- degger ha esplicitamente negato il primato della coscienza dal quale nasceva il problema dell’esi- stenza delle cose. «Il credere nella R. del ‘mondo esterno” con diritto o meno, il dimostrare questa R., sufficientemente o no, il presupporla, esplici- tamente o no, sono tutti tentativi che presuppon- gono innanzi tutto il soggetto senza mondo, cioè non consapevole del proprio mondo, il quale deve perciò incominciare col fondare la sicurezza del suo mondo » (Sein und Zeit, $ 43, a). Il problema dell’esistenza del mondo esterno o delle cose si eli- mina quindi da sè quando si sia eliminato il pre- supposto fallace del « soggetto senza mondo » cioè il presupposto che l’uomo non sia già sempre, e prima di tutto, un essere nel mondo. Ripristi- nato questo che è il carattere fondamentale del modo d’essere dell’uomo, che perciò appunto è un « Esserci » (indicando il ci la sua relazione con il mondo), il problema della R. diventa il problema del modo in cui le cose del mondo si presentano all'uomo o sono in rapporto con lui. Secondo Heidegger, questo modo d’essere è la « semplice presenza +; giacchè l’esistenza è il modo d’essere riservato all’esserci cioè all'uomo. «Se l’espres- sione R. significa l’essere dell’ente (res) sempli- cemente presente dentro il mondo (e nient’altro viene infatti con essa pensato) ne consegue allora per l’analisi di questo modo di essere: l’ente intra- mondano è concepibile ontologicamente solo se è stato chiarito il fenomeno della intramondanità. Ma questo si fonda nel fenomeno del mondo, il quale, da parte sua, in quanto essenziale momento della struttura dell’essere-nel-mondo, appartiene alla costituzione fondamentale dell’Esserci. L’es- sere-nel-mondo, di nuovo, è ontologicamente arti- colato nella totalità dell’essere dell’Esserci, che venne caratterizzata come Cura» (/bid., $ 43, b). Proprio perchè l’essere dell’Esserci cioè l’esistenza umana è Cura, gli enti diversi da sè di cui questa esistenza si prende cura cioè le cose (il cui modo d’essere è la R.) sono caratterizzati dall’utilizza- bilità. «Il modo d’essere di questo ente è l’uti- lizzabilità; questa non deve però essere vista come una visuale considerativa... L’utilizzabilità è deter- minazione ontologico-categoriale dell’ente così come esso è in sè » (/bid., $ 15). In tal modo Heidegger ha messo in luce il carattere strumentale delle cose: quel carattere per cui esse possono valere come mezzi per l’uomo. Ma Heidegger ritiene che questo carattere non appartenga alle cose relativamente al loro rapporto con l’uomo ma costituisca il loro essere «in sè», la loro essenza. A prescindere da questa pretesa, l’analisi di Heidegger può essere assunta come una caratterizzazione del modo d’essere delle cose o della « R.+, intesa nel suo significato proprio e specifico. Dall’altro lato, questa stessa analisi ha mostrato il carattere arbi- trario del «problema della R.» qual’era inteso da Cartesio in poi come problema di una R. «esterna » alla coscienza. Essa ha infatti mostrato come tale problema sorga dal presupposto di una tesi filosofica infondata cioè dalla tesi di un « sog- getto senza mondo » o in altre parole di una esi- stenza dell'uomo che non consista nel rapporto con il mondo. È significativo notare che quasi contempora- neamente a queste analisi di Heidegger lo stesso problema della R. esterna veniva dichiarato uno «pseudo problema» da un punto di vista total- mente diverso, cioè da quello del Circolo di Vienna. Carnap (Scheinsprobleme in der Philosophie; das Fremdpsychische und der Realismus-streit, 1928) e Schlick (Positivismus und Realismus, rist. in Gesam- melte Aufsdtze, 1938) rigettavano sia la tesi della irrealtà del mondo esterno sia quella della sua R. come pseudo-asserzioni, in quanto nè l’una nè l’altra si prestano ad una verifica sperimentale. Ma il Circolo di Vienna non presentava alcuna nuova soluzione del secondo aspetto, assai più legittimo, del problema della R.: cioè del pro- blema del modo d'essere delle cose. Su questo punto esso si limitava, e i suoi continuatori tut- tora si limitano, a riproporre la vecchia tesi di Mach (Analyse der Empfindungen, 1900) che le cose sono composte di quegli stessi elementi ultimi, le sensazioni, che compongono l’io e che questi elementi ultimi sono in sè neutrali, cioè nè oggettivi nè soggettivi. Questa tesi ovviamente non dà conto del carattere specifico della R. delle cose: non dà conto cioè del perchè un insieme di tali elementi neutri assuma a volta a volta le caratteristiche di una «cosa» o di un «io». Oltre al significato fin qui seguito nelle sue varie interpretazioni, la parola R. è usata comunemente anche negli altri significati seguenti, che devono tuttavia essere ritenuti secondari perchè designati più opportunamente con altri termini del dizio- nario filosofico. 2. In contrasto con apparenza, illusione e simili, R. significa talora l’essere in uno qualsiasi dei suoi significati esistenziali. Così nell’opera di BRADLEY, Appearance and Reality (1893) il contrasto annun- ciato nel titolo è il contrasto tra l’apparire e l’es- sere giacchè esso non viene limitato alla R. nel suo senso specifico cioè al modo d’essere delle cose. Nello stesso senso ma con accentuazione critica ha inteso il termine Dewey: « Nella sua più breve formula la R. diventa l’esistenza quale noi desideriamo che sia, dopo che abbiamo analiz- zato i suoi difetti e deciso quelli da eliminare; la ‘R.’ è ciò che l’esistenza sarebbe se le nostre preferenze razionalmente giustificate fossero così completamente stabilite nella natura da esaurire e definire il suo essere intero, e perciò da rendere la ricerca e la lotta non necessarie. Ciò che vien tagliato fuori (dal momento che il turbamento, la lotta il conflitto e l’errore ancora esistono empi- ricamente, qualcosa è tagliata fuori) essendo escluso per definizione dalla piena R., è assegnato a un grado o ordine dell’essere che si afferma metafisi- camente inferiore: un ordine variamente chiamato: apparenza, illusione, spirito mortale o puramente empirico, in contrapposto a ciò che realmente e veramente è » (Experience and Nature, cap. II, pag. 54). 3. In contrasto con possibilità, potenzialità e talora anche con necessità, la parola significa attua- lità o effettualità o ciò che si è attuato od effet- tuato e possiede l’esistenza di fatto. Il termine tedesco Wirklichkeit, in distinzione da Realitàt, ha questo senso specifico, per quanto non sempre i filosofi si attengono strettamente a questa distin- zione. In questo senso la parola designa una delle categorie della logica di Hegel: « La R. è l’unità immediata, che si è prodotta, dell’essenza e del- l’esistenza o dell'interno e dell’esterno» (Enc., $ 142): con che Hegel intende dire che la R. è l’essenza che si è attuata come esistenza o l’interno che si è manifestato effettivamente nell’esterno. Sulla distinzione di Wirklichkeit da Realitat insistette Lotze (Mikrokosmos, III, pag. 535). N. Hartman ha a sua volta utilizzato la distinzione, scorgendo nella effettualità (Wirklichkeit) il senso primario dell’essere (Mòoglichkeit und Wirklichkeit, 1938) (v. ESSERE). REALTÀ PRESUNTIVA (ted. Prasumptive Wirklichkeit). Così ha chiamato Husserl la R. delle cose nei confronti della « R. assoluta » cioè neces- saria, della coscienza (/deen, I, $ 46). REAZIONE (ingl. Reaction; franc. Réaction; ted. Reaktion). 1. Un’azione uguale e di senso con- trario ad un’azione determinata. In questo senso il termine è usato nella fisica newtoniana. 2. In psicologia: qualsiasi risposta ad uno sti- molo. Tempo di reazione: l'intervallo di tempo tra lo stimolo e la risposta. 3. In politica: il movimento che tende ad annul- lare o neutralizzare gli effetti di una rivoluzione o di un mutamento qualsiasi; o anche a rendere preventivamente impossibile ogni mutamento. RECETTIVITÀ (ingl. Receptivity; francese Reéceptivité; ted. Receprivitàt). La capacità di su- bire un'azione o di registrare l’effetto dell’azione subita. Kant chiamò R. la capacità di rice- vere le impressioni e la contrappose al carattere attivo della conoscenza che è fondato sulla « spon- taneità dei concetti» (Crit. R. Pura, Logica tra- scendentale, Intr., I). RECETTORE (ingl. Receptor). Termine della psicologia contemporanea per indicare qualsiasi organo o struttura con cui l’organismo riceva gli stimoli. Sono R. tanto gli organi di senso (per es., l’occhio, l’orecchio, ecc.) quanto le strutture ner- vose che ricevono stimoli dalla pelle, dai muscoli, dalle articolazioni, ecc. I primi sono chiamati esterocettori, i secondi propriocettori. Talvolta si parla anche di enterocertori per indicare i R. situati nei visceri. RECIPROCAZIONE (lat. Reciprocatio; inglese Reciprocation). Nella logica del ’600, un modo di confutazione che consiste nell’usare contro l’av- versario lo stesso argomento di cui l’avversario si è avvalso: col che l’argomento stesso si dimostra vizioso (cfr. JunGIUs, Logica Hamburgensis, 1638, VI, 16, 20). RECIPROCITÀ D'AZIONE (ingl. Recipro- city; franc. Reciprocité; ted. Wechselwirkung). È il principio della connessione universale delle cose nel REALTÀ PRESUNTIVA mondo, principio per il quale esse costituiscono una comunità, un tutto organizzato. L'azione reci- proca non ha perciò nulla a che fare col principio di azione e reazione enunciato da Newton. Kant fa dell’azione reciproca un principio puro dell’in- telletto e vede in esso la terza analogia dell'espe- rienza (v.), la quale si esprime dicendo « Tutte le sostanze, in quanto possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in un’azione reciproca universale ». Come la succes- sione temporale trova il suo fondamento nella connessione causale, così la simultaneità temporale trova il suo fondamento nella R. d’azione tra le sostanze. Kant dice: «Senza comunità ogni per- cezione (dei fenomeni nello spazio), sarebbe stac- cata dalle altre, e la catena delle rappresentazioni empiriche, cioè l’esperienza, dovrebbe ricominciare daccapo ad ogni nuovo oggetto, senza che la pre- cedente potesse minimamente collegarsi o trovarsi con esso in rapporto temporale» (Crif. R. Pura, Analitica dei princìpi, III, 3). Il senso della con- nessione reciproca è poi così chiarito da Kant (loc. cit.): «La parola Gemeinschaft [= comunità] ha un doppio significato, cioè può significare tanto communio, quanto commercium. Qui ce ne serviamo nel secondo senso, come comunità dinamica, senza

la quale, anche quella spaziale (communio spatii) non potrebbe mai essere conosciuta empiricamente ». Non c’è da meravigliarsi che la filosofia della natura del Romanticismo abbia fatto tesoro di questa nozione, di carattere così nettamente metafisico e spiritua- stico. Schelling afferma (System des transzendentalen Idealismus, pag. 228) che « La relazione di causalità non è costruibile senza l’azione reciproca +; e Hegel (Enc., $ 154 sgg.) vede nel passaggio dalla causalità all’azione reciproca il passaggio dalla necessità allo svelamento della necessità, cioè alla libertà. Ciò che questo significa è espresso con tutta chia- rezza da Lotze nel suo Microcosmo (III°, pag. 482): « L’azione reciproca delle sostanze finite nel mondo si può intendere soltanto se esse sono parti di una Sostanza infinita che le abbraccia tutte in se stessa ». Questa nozione ricorre frequentemente nelle conce- zioni spiritualistiche del mondo, e non è che la trascrizione, in termini più moderni, di quella sim- patia universale (v. Simpatia) che le concezioni magiche (v. MAGIA) ammettevano tra le cose del mondo. Non fa meraviglia pertanto che Schope- nhauer affermasse che «l’azione reciproca non esiste »; giacchè « essa presupporrebbe che l’effetto sia a sua volta la causa della sua causa e che ciò che segue sia nello stesso tempo ciò che precede » (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom zurei- chenden Grunde, 1813, $ 20). RECIPROCO (ingl. Reciprocal; Converse; franc. Réciproque; ted. Reziprok). In logica si chiama reciproca la proposizione ottenuta me- diante la conversione della proposizione data, cioè mediante lo scambio del soggetto con il predi- cato. Il termine latino tradizionale per tale pro- posizione è conversa, che fu adoperato da Boezio (De syllogismo categorico, P. L., 64, col. 804; cfr. HAMILTON, Lectures on Logic, II, pag. 259). Per «inversa» si intende invece comunemente la negativa di una proposizione (v. CONVERSIONE). REDUPLICAZIONE (gr. iravadiràwa; la- tino Reduplicatio; ingl. Reduplication; franc. Rédu- plication). Con questo termine che significa predica- zione ripetuta, venivano indicate in logica alcune parole usate per connettere il predicato al sog- getto quali come, in quanto, nella qualità di, ecc. Ad es.: «l’uomo come animale è mortale». Le proposizioni in cui ricorre la R. si chiamano redu- plicative (ARISTOTELE, An. Pr., I, 38, 49 a 26; Duns Scoro, In An. Pr., I, 35, in Opere, I, pag. 327 a; Jungius, Logica Hamburgensis, II, 11, 22). REFERENTE. V. RIFERIMENTO. REGIME (lat. Regimen). In generale, guida o direzione; o in particolare la guida e la direzione dello Stato, il governo. REGIONE (ted. Region). 1. Termine adoperato da Husserl per indicare «la superiore e completa unità di genere alla quale appartiene un concreto » cioè «la totalità ideale di tutti gli individui pos- sibili di un'essenza concreta » (/deen, I, $ 16). Ad es., «ogni oggetto empirico concreto si inserisce, con la sua essenza materiale, in un genere mate- riale superiore, cioè in una R. di oggetti empi- rici » (/bid., $ 9). Una regione in questo senso è la natura (/bid., $ 10). Corrispondentemente, Husserl] parla di «ontologia regionale » cioè ontologia che concerne le strutture di una determinata regione. 2. In senso diverso, e connesso con la corri- spondente nozione topologica (v. ToPoLoGia), il concetto è stato adoperato dalla psicologia della forma. K. Lewin intende per R.: 1° ogni cosa in cui un oggetto dello spazio di vita, per es., una persona, ha il suo posto o in cui si muove; 2° ogni cosa in cui si possono distinguere diverse posizioni o parti allo stesso tempo o che è parte di un tutto più vasto. In base a questa definizione la persona stessa è una R. nello spazio di vita e anche lo spazio di vita, come un tutto, è una R. (Principles of Topo- logical Psychology, 1936, pag. 93). REGNO (lat. Regnum; ingl. Realm; francese Royaume; ted. Reich). Termine introdotto in filo- sofia da Bacone per indicare il dominio dell’uomo sulla natura (cfr. il titolo della prima parte del Novum Organum: « Aforismi sull’interpretazione della na- tura e sul R. dell’uomo »). Leibniz adoperò il ter- mine in un senso diverso, come dominio o campo di validità di un principio; e parlò di un «R. 47 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofiafisico della natura » e di un « R. morale della grazia » (Mon., $ 87). Nello stesso senso Kant, parlò di un R. dei fini (v. Fin), di un R. della libertà (cfr. Re- ligion, II, sez. ID; di un R. della grazia e di un R. della natura (Crif. R. Pura, Dottrina trasc. del metodo, cap. II, sez. II). Più recentemente G. Santayana ha adoperato il termine in signi- ficato analogo (Rea/ms of Being, 4 voll.: The Realm of Essence, The Realm of Matter, The Realm of Truth, The Realm of Spirit, 1927-40). REGOLA (lat. Regula; ingl. Rule; franc. Régle; ted. Regel). Si chiama R. qualsiasi proposizione pre- scrittiva. Il termine è generalissimo e comprende le nozioni più ristrette di norma, massima e legge. In questo senso definì la regola Wolff come «una pro- posizione che enunci una determinazione conforme a ragione» (Onrol., $ 475). E Kant analogamente affermava: « La rappresentazione di una condizione generale cui un certo molteplice può essere sotto- posto si dice R.; e, quando deve esservi sotto- posto, legge » (Crit. R. Pura, 1% ed., Deduzione dei concetti puri dell’intelletto, 4). Questo signifi- cato generalissimo è rimasto a caratterizzare la R. (v. Legge; Massima; NORMA). REGOLARITÀ (ingl. Regularity; franc. Régu- ralité; ted. Regelmàssigkeit). In generale, confor- mità alla regola. Kant vide nella R. la condizione nello stesso tempo del pensiero e della realtà: « La R. che conduce al concetto di un oggetto è la con- dizione indispensabile (conditio sine qua non) per percepire l’oggetto in un’unica rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma» (Crit. del Giud., $ 22, nota). Kant considera la stessa na- tura in generale come «R. dei fenomeni nello spazio e nel tempo » (Crif. R. Pura, $ 26) (v. Na- REGOLATIVO (ingl. Regulative; franc. Régu- latif; ted. Regulativ). Kant chiamò R. l’uso delle idee della ragion pura che le fa valere come semplici regole del lavoro intellettuale, in contrapposto all’uso costi- tutivo di esse per il quale sono considerate come co- stitutive dell’oggetto stesso dell’attività intellettuale. «Io affermo che le idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo sicchè per mezzo di esse possono essere dati i concetti di certi oggetti e che se sono intese a questo modo sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Esse hanno invece un uso R. eccellente e indispensabile: quello di indirizzare l’in- telletto a un certo scopo in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole convergono come in un punto: il quale sebbene non sia altro che un'idea (focus imaginarius) cioè un punto da cui in realtà i concetti dell’intelletto non muovono perchè esso è fuori dei limiti dell'esperienza possibile, serve nondimeno a conferire a tali concetti la mag- giore unità con la maggiore estensione possibile » (Crit. R. Pura, Appendice alla dialettica, Dell’uso regolativo, ecc.) (v. IDEE). REGRESSIONE (ingl. Regression; franc. Ré- gresslon; ted. Regression). In generale movimento inverso o ritorno. Spesso con significato peggio- rativo di regresso cioè di un movimento opposto al progresso. Talvolta è stato chiamato regressivo il metodo analitico e progressivo quello sintetico (cfr. HamiLtoN, Lectures on Logic, II, pag. 7) (v. ANALISI). REGULA FIDEI. 1. Con questa espressione si designa in teologia la regola che determina l’oggetto della fede cioè il contenuto autentico della rivela- zione. Nella filosofia patristica e scolastica, fu assunto come tale regola il « Simbolo degli apostoli » (Symbolum Apostolorum) che comprendeva, oltre che il contenuto della Bibbia, anche l’insieme della tradizione ecclesiastica (decisioni conciliari e pa- pali, le opinioni degli scrittori approvati dalla Chiesa, ecc.) (cfr. M. GRABMANN, Die Geschichte der scholastischen Methode, I, pag. 76 sgg.). Questa regola è rimasta valida per il cristianesimo catto- lico mentre dal cristianesimo protestante è stata ristretta al contenuto della Bibbia. La differenza tra cattolicesimo e protestantesimo s’impernia ap- punto sulla differenza della regula fidei (v. RIFORMA). 2. Con la stessa espressione si designa talora il principio che fa della fede la regola della verità. Così questo principio viene espresso da S. Tom- maso: « Poichè la fede si fonda sulla verità infalli- bile e poichè è impossibile dimostrare il contrario del vero, è evidente che gli argomenti che si ad- ducono contro la fede non sono dimostrazioni ma argomenti confutabili » (S. Th., I, q. 1, a. 8). REIFICAZIONE (franc. Réification; ted. Ver- dinglichung). Termine adoperato da scrittori marxisti per designare il fenomeno, sul quale Marx stesso aveva insistito per il quale, nell’economia capita- listica, il lavoro umano diventa semplicemente l’attributo di una cosa: «L’arcano della forma della merce consiste semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini, come uno specchio, i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasfor- mati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali delle cose pro- dotte e quindi rispecchia anche il rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo come un rap- porto sociale di cose, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi. Mediante questo qui pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibil- mente sopra sensibili, cioè cose sociali » (Kapiral, I, I, $ 4). Il termine R. per indicare questo processo è stato usato e diffuso da G. Lukacs (cfr. Geschichte und Klassenbewusstsein, 1922; traduzione francese, 1960, pag. 110 sgg.). RELATIVISMO (ingl. Relativism; franc. Relati- visme; ted. Relativismus). La dottrina che afferma la relatività della conoscenza, nel senso che fu dato a questa espressione nel sec. xIx e cioè: 1° come azione condizionante del soggetto sui suoi oggetti di conoscenza; 2° come azione condizionante reci- proca degli oggetti di conoscenza. Questo duplice condizionamento d’ogni oggetto di conoscenza fu per la prima volta assunto come fondamento del R. da W. Hamilton: che insisteva da un lato sul fatto che tutti gli oggetti esistenti pos- sono essere conosciuti solo in rapporto con le facoltà umane e sotto condizioni determinate da queste facoltà stesse (Lectures on Metaphysics, I, 1870, 5* ed., pag. 148); dall'altro sulla condizio- nalità che gli oggetti di conoscenza esercitano l’uno sull’altro (Discussion on Philosophy, 1852, pag. 13). Sul fondamento di questi due punti (che non avevano niente di originale, perchè possono essere agevol- mente riconosciuti come le tesi più generiche del- l’empirismo e del criticismo) Hamilton affermava, nello stesso tempo, l’inconoscibilità dell’Assoluto e l’esistenza di esso, giacchè si può credere anche in ciò che non si conosce (Lectures, cit., II, pag. 530- 531). Queste tesi venivano utilizzate per un’apolo- getica religiosa da E. L. Mansel (Philosophy of the Conditioned, 1866). Ma a diffonderle fu soprattutto il positivismo che, con Spencer, accettava il punto di vista di Hamilton ammettendo la relatività della conoscenza umana, l’inconoscibilità dell’Assoluto, e l’esistenza di esso (First Principles, 1862, $ 23 sgg.). AI di fuori del positivismo, il R. è stato accet- tato da alcune correnti del neo-criticismo e del prag- matismo. Nell’ambito del primo C. Renouvier nei Essais de Critique Générale (1854-64) insisteva sulla relatività del fenomeno, che non sussiste se non in rapporto ad altri fenomeni e in rapporto al sog- getto conoscente (Essais, I, pag. 50 sgg.); e G. Simmel affermava che « il R. si può formulare così, in rife- rimento ai princìpi della conoscenza: i principi costi- tutivi fondamentali, esprimenti una volta per tutte l’essenza delle cose, diventano princìpi regolativi, i quali sono soltanto punti di vista per il progre- dire del conoscere » (Philosophie des Geldes, 1900, pag. 68). Nell’ambito del pragmatismo, il R. veniva difeso da F. C. S. Schiller; e diventava, da questo punto di vista, la negazione di ogni verità « asso- luta » o «razionale» e il riconoscimento che la verità è sempre relativa all'uomo cioè valida perchè utile a lui: onde Schiller vedeva nel detto di Pro- tagora «l’uomo è misura di tutte le cose» la più grande scoperta della filosofia (Studies in Humanism, 1902, pag. x sgg.). L’antica sofistica, lo scetticismo e (parzialmente) l’empirismo e il criticismo diven- tavano da questo punto di vista manifestazioni di un R. che andava in cerca dei suoi precedenti e tentava di crearsi una tradizione. Ma in realtà il R. è stato fenomeno moderno, legato alla cul- tura del sec. xrx, ed ha costituito una specie di capovolgimento della filosofia dogmatica di questo secolo, capovolgimento che ha gli stessi presup- posti di essa. Ciò si vede assai bene nella mani- festazione estrema (la sola autentica) del R., cioè nella dottrina esposta da O. Spengler nel suo libro Il tramonto dell'Occidente (1918-22): nel quale si af- ferma la relatività non solo della conoscenza ma di tutti i valori fondamentali della vita umana alle epoche della storia, considerate come entità orga- niche ognuna delle quali cresce, si sviluppa e muore senza rapporto con l’altra. Da questo punto di vista, la relatività investe non solo la verità reli- giosa e filosofica ma anche quella morale e scien- tifica «Ogni cultura, diceva Spengler, ha il suo proprio criterio, la cui validità comincia e finisce con esso. Non vi è alcuna morale umana univer- sale » (Der Untergeane des Abendlandes, I, cap. I, pag. 55). In questa forma, che è la sola rigorosamente coerente, il R. afferma la relatività dei valori solo perchè considera necessario il rapporto tra i valori stessi e l’epoca storica cui appartengono negando la possibilità che essi possano relativizzarsi ad altri uomini, epoche e circostanze, riuscendo così ad ottenere una autonomia parziale che smentirebbe il relativismo. Lo stesso punto di vista si trova spesso difeso in quello che oggi si chiama il R. culturale, il cui punto di partenza è il riconosci- mento della diversità dei costumi e delle norme che vigono nell’ambito di culture diverse. Questo R. ha radici remote (Erodoto, Protagora, e i Di- scorsi doppi, un testo di ispirazione sofistica, forse della prima metà del sec. Iv a. C.); ma è ora ap- poggiato dal riconoscimento, pressochè universale, della pluralità e della eterogeneità delle culture. Ha difeso questo R. nella sua forma estrema Herskovits (Cultural Anthropology, 1955); su di esso vedi il volume collettivo Relativism and the Study of Man, a cura di ScHOECK e WicciNS, 1961). RELATIVITÀ, TEORIA DELLA (inglese Theory of Relativity; franc. Théorie de la relativité; ted. Relativitàtstheorie). Con questo termine s’in- tendono due corpi di dottrina formulati da Ein- stein di cui il primo nel 1905 col nome di R. spe- ciale e il secondo nel 1913 con il nome di R. generale. La relatività speciale s’impernia sul rico- noscimento che la scelta di un sistema di riferi- mento, indispensabile per effettuare misure, può influenzare i risultati di queste misure; e che non essendoci un sistema di riferimento privilegiato (o «assoluto 1), come aveva creduto la fisica clas- sica, è indispensabile da un lato specificare il sistema rispetto al quale la misura viene eseguita, dall’altro trovare formule di trasformazione che rendano valide tali misure anche per altri sistemi. La R. generale è sostanzialmente l’estensione del principio di R. a tutti i sistemi, oltre che a quelli inerziali per i quali vale la R. speciale; ed è perciò, sostanzialmente una teoria della gravitazione che riduce la gravitazione stessa a una deformazione del continuo quadri- mensionale dello spazio-tempo (cfr. A. EINSTEIN, L. INFELD, The Evolution of Physics, 1938; tradu- zione italiana, 1950; e, per la bibliografia, il volume dedicato a Einstein nella collezione « Living Philosophers » di Schilpp, 1949). La teoria della R. ha avuto numerose interpre- tazioni filosofiche. Una di esse è quella relativi- stica, che l’ha intesa come una conferma del re- lativismo filosofico (cfr., ad es., A. ALIOTTA, // relativismo, l’idealismo e la teoria di Einstein, 1948). Un'altra è quella idealistica o spiritualistica che è stata difesa specialmente da A. Eddington (The Nature of the Physical World, 1928; The Philosophy of Physical Science, 1939). Ma in realtà la teoria della R. si presta a interpretazioni filosofiche meno ancora delle teorie classiche. La R. di cui essa parla non ha niente a che fare con la R. del relativismo: una misura è bensì relativa ma non all’uomo o al soggetto conoscente, bensì al sistema di riferimento e può essere espressa anche in base ad altri sistemi. Nè la teoria della R. è più soggettivistica o ideali- stica della fisica classica. La più importante lezione che la filosofia può trarre da essa è una lezione di metodo, e può essere desunta dalle seguenti parole di Einstein: « Per il fisico, un concetto ha valore soltanto quando è possibile discernere se esso nel caso concreto conviene o no. Ci occorre perciò una definizione della contemporaneità la quale fornisca il metodo per riconoscere mediante espe- rimenti se i due colpi di folgore sono stati contem- poranei o no. Finchè questa condizione non sia adempiuta, io come fisico (e anche come non fisico) mi affido a un'illusione se credo di poter annettere un significato alla espressione di contemporaneità + (Uber die spezielle und die allgemeine Relativitàts- theorie, 1917, $ 8; trad. ital., pag. 18). Queste parole esprimono l’esigenza generale che una proposizione qualsiasi, per essere valida, deve poter essere attestata o provata con metodo adatto (v. SIGNIFICATO). RELATIVO (lat. Relativus; ingl. Relative; fran- cese Relatif; ted. Relativ). 1. Ciò che entra in una relazione o funge da termine di una relazione. In questo senso si dice «il fenomeno x è R. a y come a sua causa ». 2. Un termine che non ha significato, o non ha significato esatto, se non in riferimento ad un altro termine. In questo senso « maggiore +, « minore », « doppio », ecc., sono R. perchè si dicono sempre in riferimento a qualche altra cosa. 3. Ciò che vale soltanto in determinate circo- stanze o condizioni e non vale fuori di esse. In questo senso si dice che la conoscenza è R. o che sono R. i valori; e che l’opposto di R. è l’« asso- luto » o 1° incondizionato ». 4. Ciò che è una relazione o concerne una re- lazione. In questo senso si dice, ad es., che «la conoscenza è R.» intendendo che essa consiste nello stabilire relazioni tra dati. Ma l’aggettivo relazionale (v.) è in questo caso più adatto. 5. Come sostantivo il termine è usato da Schroder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce (Coll. Pap., 3.456-526: «The Logic of Relatives», 1897). In questo senso il termine è sinonimo di relazione. RELAZIONALE (ingl. Relational; tedesco Relational). Ciò che è una relazione o concerne una relazione. L'aggettivo esclude il significato re- lativistico che il termine relativo (v.) può avere. Esso è pertanto usato di preferenza dai filosofi che, pur insistendo sull’importanza della relazione, non intendono giungere a conclusioni relativistiche. N. Hartmann ha distinto a questo proposito re- lazionalità da relatività: i valori, ad es., sono in relazione con l’uomo e con il suo mondo senza perdere la loro irrelativa assolutezza (Erhik, 1949, pag. 140). Il termine relazionismo è stato usato in Italia per indicare una filosofia che consideri la relazione come il fatto essenziale dell’universo e dell'uomo, ma senza implicazioni relativistiche (cfr. E. Paci, Dall’esistenzialismo al relazionismo, 1957, pag. 45 e passim). RELAZIONE (gr. tò npéc ni; lat. Ad aliquid, Relatio; ingl. Relation; franc. Relation; ted. Re- lation). Il modo d’essere o di comportarsi degli oggetti tra loro. Questa definizione non è che un semplice chiarimento verbale del termine, che non può essere altrimenti definito in generale, cioè fuori delle interpretazioni specifiche che i filosofi ne hanno dato. Questa è d'altronde la definizione rettificata che Aristotele dette della R.: come ciò «il cui essere consiste nel comportarsi in un certo modo verso qualcosa » (Car., 7, 8 a 33); che so- stanzialmente coincide con quella di Peirce: «La R. è un fatto circa un numero di cose » (Coll. Pap., 3.416). I due problemi fondamentali ai quali il con- cetto di R. ha dato origine e dalle cui soluzioni dipendono le determinazioni del concetto stesso, sono i seguenti: 1° Devono essere considerate in- cluse, nel concetto di relazione, le determinazioni sostanziali (essenziali e qualitative) o tali deter- minazioni devono essere escluse dal concetto stesso? 2° Costituiscono le R. entità reali o sono soltanto entità mentali? I problemi sono, ovviamente, inter- dipendenti e sul fondamento delle risposte colle- gate che essi hanno ricevuto nel corso della storia si possono distinguere tre dottrine fondamentali: A) quella che ammette l’oggettività e la realtà delle R.; 8) quella che nega la realtà e l’ogget- tività delle R.; C) quella che ammette l’ogget- tività delle R. ma non la loro realtà. A) Platone ammise certamente l’oggettività delle R. ma è dubbio se ne ammettesse la realtà. «Io credo che tu ammetta, egli disse, che di alcuni degli enti si debba dire che sono unicamente per sè e di altri invece che sono sempre in R. con altri » (Sof., 255 c-d). Però gli enti in R., come il diverso e l’identico, non sono l'essere (/bid., 255 c-d): il che potrebbe anche voler dire che non hanno esistenza o realtà, come tali. La dottrina di Ari- stotele è ugualmente confusa su questo punto. Aristotele distinse tre specie di R.: 1° le R. quan- titative, come quelle espresse da doppio, metà, ecc.; 2* le R. potenziali che consistono in una potenza attiva o passiva, come l’esser causa o causato, il tagliare o l’essere tagliato, ecc.; 3* le R. che hanno il loro termine in un oggetto reale, come la mi- sura rispetto al misurabile, il conoscere rispetto al conoscibile, la sensazione rispetto al sensibile (Met., V, 15, 1020 b 25). Questa distinzione sembra già implicare l’esistenza di R. reali, quelle della specie 2* e 38; e infatti Aristotele stesso dice che: «alcune R. si trovano di necessità dentro o in- torno alle cose cui sono riferite » e che «tale è il caso della disposizione, del possesso e della sim- metria » (Top., IV, 4, 125 a 33). Tuttavia buona parte del capitolo delle Caregorie dedicato alle R. dibatte il problema se fra le R. ci siano sostanze; e la conclusione, sebbene non categorica, è nega- tiva: certamente non ci sono fra le R. sostanze prime e anche le sostanze seconde difficilmente si può dire che siano R. (Car., 7, 8 b 15). Inoltre uno degli argomenti addotti da Aristotele contro la dottrina delle idee è che essa condurrebbe ad ammettere la realtà delle R.: laddove «la R. è meno di tutte le cose o natura o sostanza, vien dopo la qualità e la quantità ed è piuttosto una de- terminazione della quantità, come è stato detto, ma non materia +» (Mer., XIV, 1, 1088 a 21). In questo caso Aristotele considera ovviamente soltanto le R. di specie 1*; ma la sua affermazione non è condizionata da alcuna limitazione. Non fa me- raviglia perciò che ad Aristotele si siano in se- guito appellati sia coloro che negavano sia coloro che affermavano la realtà delle relazioni. Plotino riprodu- ceva la dottrina di Aristotele con le stesse confusioni (Enn., VI, 1, 6). La scolastica cristiana la stiliz- zava nella distinzione tra R. di ragione, R. poten- ziale e R. reale, distinzioni che corrispondono esat- tamente allespeciedistinte da Aristotele. Ma la scolastica cristiana aveva interesse per motivi teo- logici, dovendo utilizzare il concetto di R. per il chiarimento del dogma della trinità, ad ammettere la realtà delle R.; e questa era la tesi difesa da S. Tommaso contro «coloro che affermarono la R. non esser cosa di natura ma solo di ragione »; tesi che S. Tommaso dichiarò falsa perchè « le stesse cose hanno l’una rispetto all’altra un ordine o una disposizione naturale » (S. 7%., I, q. 13, a. 7). Su questa base S. Tommaso riesponeva le distinzioni aristoteliche, difendendo il carattere reale delle R. in cui la scienza e la sensibilità consistono, in quanto tali R. «sono ordinate a conoscere o a percepire le cose» (/bid.). Le R. di ragione sono soltanto quelle nelle quali entrambi i termini sono enti di ragione, cioè quelle che si hanno « quando l'ordine o la disposizione non ci può essere se non secondo l’apprensione della ragione come nel caso in cui si dice che una cosa è identica all’altra » (Ibid.). Ma affermare la realtà delle R. significa privi- legiare un certo tipo di R. cioè modellare tutte le R. sulle relazioni delle specie 22 e 3* aristoteliche o più precisamente significa considerare ogni tipo di R. come una potenzialità o disposizione o una condizione o uno stato dei termini relativi. Su questa natura della R. insistette, alla fine del se- colo x, Duns Scoto, che avanzò la dottrina della R. come respectus: un termine che intende tra- durre la parola greca oytow (usata, per es., da SimpLICIO, Ad Car., 61 B) e significa disposizione. L'argomento principale addotto da Duns Scoto in favore della sua teoria era che, se non si ammette un tale respecius non si riesce a comprendere la composizione degli enti: giacchè se l’unione di a e b non è che gli stessi a e 5 assoluti, il composto di a e b non differisce in nulla da a e 5 separati, perciò non è un composto (Op. Ox., II, d. 1, q. 4, n. 5). La dottrina veniva seguita da tutti gli scrittori sco- tisti, ma combattuta da Ockham e dai nomina- listi e terministi del sec. x1v (v. oltre). Nel sec. XVII Jungius ancora faceva appello a tale dottrina, con- siderando la R. come habitudo o respectus (Logica Hamburgensis, I, 8, 4). In epoca moderna, al pro- blema delle R. è stata data un’impostazione ana- loga a quella di Duns da F. H. Bradley, il quale ha mostrato che le R. non possono essere intese se non come attributi del relativo e quindi come consistenti in una qualità o modificazione dei ter- mini relativi. Ma in un modo o nell’altro la relazione è incomprensibile perchè non fa che pre- dicare l’identico del diverso o il diverso dell’iden- tico (Appearance and Reality, 1902, 2* ediz., pag. 21 seguenti). Questa dottrina cosiddetta delle « R. in- terne » è stata specialmente combattuta dai logici matematici. B) La seconda dottrina fondamentale della R. è quella che nega l’oggettività e la realtà di esse e le considera accidentali o soggettive. Tale dottrina fu presentata per la prima volta da Avicenna, che riproduceva un punto di vista difeso dalla setta maomettana dei Motakallimun e si avvaleva di corrispondenti tesi aristoteliche. Diceva Avicenna: « Se si pone che una R. esista, subito bisogna dire che essa è un accidente, giacchè non vi è dubbio che non si può intendere di per sì ma sempre di qualcosa rispetto a qualcosa » (Mer., III, 10). Af- fermare il carattere accidentale delle R. equivaleva per Avicenna a negarne la realtà: giacchè, come accidenti, le R. non sono sostanze. Quando nel sec. xIV questa dottrina fu ripresa da filosofi nomi- nalisti e terministi, assunse la forma di una ridu- zione della R. a pura sentità di ragione», priva di realtà o fondamento fuori dell'anima umana. Tale è la dottrina sostenuta da Enrico di Gand (Quodl., IX, q. 3; V, q. 6), Herveus Natalis (Quodi., I, q. 9) e Pietro Aureolo. Quest'ultimo affermava: «La R. non ha esistenza nelle cose, prescindendo da ogni apprensione intellettivo-sen- sibile, ma esiste oggettivamente solo nell’anima poichè nelle cose non ci sono se non fondamenti e termini: l’abitudine e la connessione delle cose deriva dall'anima conoscitiva » (Z1 Sent., I, d. 30, q. 1). Questo fu pure il punto di vista difeso da Ockham il quale istituì una critica minuziosa della dottrina del respectus. Secondo Ockham questa dottrina moltiplicherebbe le entità all’infinito: «Col movimento del mio dito riempirei tutto l’universo, il cielo e la terra, di nuovi accidenti: giacchè mutando la posizione del dito rispetto alle altre parti del cielo vi sarebbero altrettanti nuovi respectus in queste parti che sono infinite e quindi infiniti nuovi accidenti» (Quod!. VII, q. 8; In Sent., II, q. 2, Y). Ogni corpo conterrebbe per motivi analoghi infinite realtà: giacchè ogni corpo può essere considerato doppio rispetto alla sua metà e questa metà doppia della sua metà e così via (Quodl., VI, q. 10; Summa Log., I, 50). Ockham tuttavia non afferma il carattere puramente men- tale delle R., come aveva fatto Avicenna (v. oltre). Questa dottrina si riaffacciò nell’ambito del carte- sianesimo. Fu difesa da Locke che considerò le R. come idee complesse, consistenti « nel considerare e confrontare un’idea con un’altra» (Saggio, II, 12, 7); e riconobbe esplicitamente il carattere soggettivo di esse, pur non escludendo il loro rife- rimento alle cose. « Poichè i modi misti e le R. non hanno altra realtà da quella che posseggono nello spirito umano, a rendere reali questa specie di idee altro non si richiede se non che siano così foggiate che vi sia la possibilità di un'esistenza conforme ad esse » (/bid., II, 30, 4). Leibniz a sua volta affermava che la realtà delle R. è mentale o fenomenica (Nouv. Ess., II, 12, 7) e che pertanto esse «hanno una realtà dipendente dallo spirito, come le verità, ma non dallo spirito degli uomini, perchè c’è un'intelligenza suprema che le determina tutte in tutti i tempi » (/bid., II, 30, 4). In conformità di questo stesso concetto, Wolff definiva la R. come «ciò che non conviene alla cosa assolutamente ma che s'intende solo quando essa viene riferita ad altro» (Logica, $ 856); e aggiungeva che la R. « non aggiunge alcuna realtà all’ente » (/bid., $ 857). La soggettività delle R. è poi il principio fondamen- tale del kantismo (« Se sopprimessimo il nostro sog- getto o anche solo la natura soggettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutte le R. fra gli og- getti nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero» Crit. R. Pura, $ 8); e sullo stesso principio (il più delle volte assunto implicitamente) è fondata buona parte della filo- sofia contemporanea. C) La terza concezione fondamentale delle R.

è quella che le considera come non reali ma og- gettive. Ockham che è stato il più deciso critico della realtà delle R. ne aveva anche affermato, a suo modo, il carattere oggettivo. « Non è l’intel- letto, egli diceva, che rende Socrate simile a un altro, più che non sia l’intelletto a renderlo bianco » (In Sent., I, d. 30, q. 1 P): il che vuol dire che la relazione, come intenzione o concetto dell’anima, si riferisce a più cose isolate o è più cose isolate «come il popolo è più uomini e nessun uomo è popolo » (/bid.). Tuttavia in queste affermazioni, come in quelle di Locke e di altri che insistevano sul riferimento oggettivo della R. (come concetto o idea) tale riferimento è inteso come riferimento alla realtà. La caratteristica della dottrina moderna in pro- posito è che la oggettività della R. non implica la sua realtà: cioè che il riconoscimento che la R. sia oggettiva non significa che essa interceda in ogni caso tra cose o entità reali. Questo senso della R. è strettamente connesso col significato che l’essere predicativo ha assunto nella logica contemporanea (v. EsseRE). Da questo punto di vista l’intera mate- matica e l’intera logica sono state definite « scienze delle R.+ (v. Logica; MATEMATICA). In partico- lare, per ciò che riguarda la logica, sia il ca/colo proposizionale sia quello delle classi possono essere considerati come vertenti esclusivamente su R.: dal momento che R. sono i connettivi: e, o, non, se... allora di cui si occupa il calcolo proposizionale; e R. sono le entità di cui si occupa l’algebra delle classi. Tuttavia il calcolo delle R. costituisce anche una branca specifica della logica contemporanea, branca che è stata fatta avanzare specialmente da E. Schròder (Algebra der Logik, 1895) e da Peirce {The Logic of Relatives, 1897, Coll. Pap., 3.456-526) In questo senso ristretto, si intendono per R. le funzioni proposizionali diadiche o poliadiche cioè a due o più variabili, che sono scritte nella forma f (x, }) 0, più frequentemente, nella forma xRy. Le caratteristiche più generali della R. in questo senso sono le seguenti: 1° Se R è tale che intercede non solo tra x e y ma anche tra y e x, la R. si dice simmetrica. È, ad es., simmetrica la R. fra due fratelli. Nel caso contrario la R. si dice asimmetrica. Le R. « prima», « dopo », «a sinistra di» sono asimmetriche. 2° Se R è tale che quando x ha la R. R ayeyhalaR. Ra z, anche x halaR. Raz, si dice transitiva. Sono transitive le R. « minore », 4 precede », «a sinistra»; è intransitiva la R. di paternità. 3° Se R è tale che nessun termine sta nella R. R con se stesso, la R. si dice aliorelativa. Sono aliorelative le R. « fratello +, « marito », « padre », ecc. 4° Se R è tale che, dati due diversi termini del campo, x e y, può intercedere tra x e y o tra yexotraxe yetra yex, la R. si dice coerente. È coerente la R. «maggiore o minore», non è coerente la R. «antenato ». 5° Il termine x che ha la R. R ad uno 0 più termini (y, z...) si chiama dominante; mentre si chiamano dominanti inversi i termini con cui il termine x ha la R. R cioè i termini y, z, ecc. Nella R. di « paternità », padre è il dominante, figli sono i dominanti inversi. 6° Il campo di una R. consiste nell’insieme del dominante e dei dominanti inversi. Nel caso della R. di paternità, il campo è l’insieme padre-figli. 7° Si dice che una R. ne implica un’altra, se questa è valida ogni qualvolta che la prima è valida. Queste nozioni elementari definiscono la natura oggettiva, tuttavia non reale, delle R. così come sono costantemente adoperate dalla logica e dalla matematica contemporanee. Si tratta di caratte- ristiche che generalizzano al massimo la nozione di R., permettendo di includere in essa, e di chia- rire con essa, i concetti più disparati (cfr. WHI- TEHEAD and RUSSELL, Principia mathematica, vol. I, 1925). Per un’esposizione sommaria della nozione delle R. in ordine ai concetti fondamentali della matematica cfr., dello stesso RUSSELL, Introduction to Mathematical Philosophy, 1918; trad. ital., 1947. Per gli aspetti matematici cfr. W. v. O. QuInE, Me- thods of Logic, 1952, specialmente $ 40. RELIGIONE (lat. Religio; ingl. Religion; fran- cese Religion; ted. Religion). La credenza in una garanzia soprannaturale offerta all'uomo per la propria salvezza; e le tecniche dirette a ottenere o conservare questa garanzia. La garanzia, cui la R. fa appello, è soprannaturale nel senso che va al di là dei limiti cui possono giungere i poteri ri- conosciuti propri dell’uomo; che agisce 0 può agire anche là dove tali poteri sono riconosciuti impotenti; e che il suo modo d’azione è misterioso o imperscrutabile. L'origine soprannaturale della garanzia non implica necessariamente che essa sia offerta da una divinità e che pertanto il rapporto con la divinità sia necessario alla R.: in realtà esistono R. atee; e tale fu il buddismo pri- mitivo, ripreso o difeso in questo suo carattere anche da scuole posteriori (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, pag. 71 sgg.; 312 sgg.). Inoltre la determinazione del rapporto dell’uomo con la divinità, quindi il compito di dimostrare l’esistenza di essa e di chiarire i suoi caratteri e le sue fun- zioni nei confronti dell’uomo e del mondo, è stato spesso ritenuto proprio della filosofia più che della R.; e l’assolvimento di quel compito può anche avere carattere anti-religioso, come è accaduto nel- l’epicureismo che ha inteso stabilire nello stesso tempo l’esistenza della divinità e la sua indifferenza al mondo e agli uomini, regolando su questa base i rapporti di essa con l’uomo (EPICURO, Lettera a Meneceo, 123-24; FILODEMO, De pietate, pag. 122; fr. 38, Usener). Dall'altro lato questo stesso rap- porto tra l’uomo e Dio è oggi, da alcuni teologi, ritenuto proprio della fede anzichè della R. perchè indipendente dalle forme mitiche che la R. ha as- sunto ed è costitutivo dell’esistenza umana nel mondo (v. FepE; Dro; Dio, MORTE DI). In ogni caso, la salvezza di cui la R. intende essere la garanzia, non è necessariamente la sal- vezza da questo o quel male o dai mali del mondo: può anche essere una salvezza dal mondo consi- derato come un male nella sua totalità, come in- fatti accade nello stesso buddismo. Nella definizione proposta, inoltre, occorre sottolineare la differenza tra la credenza nella garanzia soprannaturale e le tecniche dirette a ottenere o conservare tale ga- ranzia. Per tecniche s’intendono tutti gli atti o le pratiche del culto: preghiera, sacrificio, rito, ceri- monia, servizio divino o servizio sociale. La cre- denza nella garanzia soprannaturale è l’atteggia- mento religioso fondamentale che può anche essere semplicemente interiore o privato e costituisce la religiosità individuale; le tecniche dirette a ottenere e conservare quella garanzia costituiscono invece il lato oggettivo e pubblico della R., il suo aspetto istituzionale. Una R. naturale è costituita sempli- cemente da quell’atteggiamento; una R. positiva è costituita essenzialmente da queste tecniche. Il concetto di R. comprende tuttavia entrambi gli aspetti. Etimologicamente, la parola significa probabilmente « obbligazione +; ma Cicerone la fece derivare da relegere: « Quelli che compivano con accortezza tutti gli atti del culto divino e per così dire li rileggevano attentamente, furono detti religiosi da relegere, come eleganti da elegere, diligente da dili- gere e intelligenti da intelligere; infatti in tutte queste parole si nota il medesimo valore di /egere che c’è in R.» (De nat. deor., JI, 28, 72). Lattanzio invece (/nsr. Div., IV, 28) e S. Agostino (Retract., I, 13) fanno derivare la parola da religare; e Lattanzio cita a questo proposito l’espressione di Lucrezio « scio- gliere l'animo dai nodi della R.» (De nat. rer., I, 930). È pure da notare che il greco non possiede l’esatto equivalente della parola latina e moderna. Aarpela significa servizio divino e si riferisce per- tanto solo al secondo degli elementi della reli- gione. S. Agostino (De Civ. Dei, X, 1) stabiliva la corrispondenza tra religio e Opnorele; ma anche questa parola si riferisce esclusivamente alle tecniche della religione. Le diverse definizioni che sono state date della R. possono essere classificate sul fondamento dei due fondamentali problemi cui esse rispondono cioè: I. Sul fondamento del problema dell’origine della R. che è poi in realtà il problema del tipo di validità propria della R.; II. Sul fondamento del problema della funzione riconosciuta propria della R. cioè del carattere specifico della garanzia che essa offre alla salvezza dell’uomo. I. Come accade anche in altri casi, il problema dell’origine è in realtà il problema del tipo di vali- dità che s’intende riconoscere alla R. stessa. Si possono distinguere tre soluzioni di questo pro- blema cioè: 1° la dottrina dell’origine divina della R.; 2° la dottrina dell’origine politica della R.; 3° la dottrina dell’origine umana della religione. 1° La dottrina dell’origine divina della R. esprime il riconoscimento del valore assoluto (0 infinito) della R. stessa. Ovviamente, la pretesa di un’origine soprannaturale o divina è intrinseca ad ogni R. giacchè ogni R. pone a suo fondamento una rivelazione originaria che ne garantisca la verità oppure considera come continuamente con- fermate da testimonianze soprannaturali le credenze e le istituzioni con cui si identifica: il che vale lo stesso. Perciò, dal punto di vista della filosofia il riconoscimento dell’origine divina o del valore assoluto della R., si effettua mediante la tesi che la R. è rivelazione. Questa tesi è, si può dire, nien- t’altro che l’espressione filosofica del valore asso- luto che la R. riconosce a se stessa. Questo punto di vista è stato espresso con tutta chiarezza da Hegel: « Nel concetto della vera R., egli ha detto, cioè di quella il cui contenuto è lo Spirito asso- luto, è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, cioè rivelata da Dio» (Enc., $ 564). Ed Hegel ag- giunge che «se a Dio si nega la rivelazione non resterebbe altro contenuto da attribuirgli che l’in- vidia. Ma se la parola spirito deve avere un sensoesso significa la rivelazione di sè» (/bid., $ 564). Non diverso da questo è il concetto che della R. dette Schleiermacher: «L'universo è un'attività ininter- rotta e ci si rivela in ogni momento. Ogni forma che esso produce, ogni essere al quale dà, per la pienezza della sua vita, un'esistenza particolare, ogni avvenimento che esso partorisce dal suo seno sempre ricco e fecondo, è un’azione che esso eser- cita su di noi; e così accettare ogni cosa partico- lare come una parte del Tutto, ogni cosa finita come un’espressione dell’Infinito, in ciò consiste la R. + (Reden iiber die Religion, 1799, II; traduzione ital., pag. 39). La stessa dottrina si può esprimere dicendo che la R. è l’esperienza del divino e che essa, come ogni esperienza, rivela la realtà del suo oggetto. Questo è il concetto che Bergson dette della R. autentica cioè del misticismo: «Se le so- miglianze esteriori tra i mistici cristiani possono dipendere da una comunanza di tradizioni e di insegnamenti, il loro accordo profondo è segno di una identità di intuizione che si può spiegare più semplicemente con l’esistenza reale dell’essere con cui si credono in comunicazione» (Deux sources, III; trad. ital., pag. 270-71). 2° La dottrina dell’origine politica della R. riduce la R. stessa ad uno stratagemma politico: perciò riduce a zero il valore intrinseco di essa. Questa dottrina fu per la prima volta sostenuta da Critia, uno dei trenta tiranni di Atene. Secondo Critia «gli antichi legislatori finsero la divinità come una specie di ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, affinchè nessuno recasse ingiuria o tra- dimento al suo prossimo, per paura di una vendetta degli dèi ». Questo stratagemma fu reso necessario dal fatto che « le leggi distoglievano bensì gli uomini dal compiere aperte violenze ma che essi le com- mettevano di nascosto » sicchè « un qualche uomo ingegnoso ed esperto inventò per gli uomini il timore degli dèi onde ci fosse uno spauracchio per i mal- vagi anche per quello che di nascosto facessero, di- cessero o pensassero » (Sesto EMmP., Adv. Math., IX, 54). Concezioni analoghe ricorrono di tanto in tanto nella storia della filosofia: si possono riconoscere nel libertinismo e in talune correnti del- l’illuminismo e del marxismo. 3° La dottrina dell’origine umana della R. è quella che la considera come una formazione umana, che ha le sue radici nella situazione del- l’uomo nel mondo. Questa dottrina non è impe- gnata ad attribuire alla R. una validità determinata: è piuttosto impegnata a comprenderla come un fe- nomeno umano ed a esprimerla in un concetto abbastanza esteso da comprendere le sue manife- stazioni disparate. La considerazione della R. da questo punto di vista si è orientata verso due tipi di spiegazione. Il primo ha considerato la religione come una forma di appagamento del bisogno feo- retico cioè del bisogno di conoscenza. Il secondo ha considerato la religione come suggerita all’uomo dalla situazione in cui egli viene a trovarsi nel mondo e cioè, sostanzialmente, dai suoi bisogni pratici. Una soluzione del primo tipo fu quella data da Epi- curo che vedeva l’origine della R. nelle immagini dei sogni e nel bisogno dell’uomo di spiegare la regola- rità dei movimenti celesti (LUCREZIO, De nat. rer., V, 1167 sgg.). La R. sarebbe contemplativa più che pratica. Fu Hobbes il primo a riconoscere la sua origine pratica. Facendo proprio il detto di Stazio -« Primus in orbe deos fecit timor + (Theb., III, 661), Hobbes riconosceva la causa principale del sorgere della R. nel timore che deriva all'uomo dalla sua incertezza per il futuro. «Dal momento che è sicuro che vi sono cause di tutte le cose che sono state o saranno, è impossibile per l’uomo che cerca con- tinuamente di garantirsi contro i mali che teme e di procurarsi i beni che desidera, di non vivere nella perpetua preoccupazione del tempo a ve- nire cosicchè ogni uomo, e specialmente quello più previdente, vive in uno stato simile a quello di Prometeo ». Da questo stato di timore nonchè dalla speranza di vedersi assicurati i beni di cui ha bi- sogno e dal desiderio di raggiungere una cono- scenza completa del mondo, nasce, secondo Hobbes, la R. (Zeviath., I, 12). Una dottrina analoga, ma esposta in modo più articolato fu ripresentata da Hume nella Storia naturale della religione (1757). La R. non sorge dalla contemplazione ma dall’in- teresse dell’uomo per gli eventi della vita e quindi dalle speranze e dai timori incessanti che lo agitano. Sospeso fra la vita e la morte, tra la salute e la malattia, tra l'abbondanza e la privazione, l’uomo attribuisce a cause segrete e sconosciute i beni di cui gode e i mali da cui è continuamente minac- ciato (Natural History of Religion, II, in Essays, II, pag. 316). Voltaire così esponeva lo stesso con- cetto: «È naturale che un paese, spaventato dal tuono, afflitto dalla perdita delle sue messi, maltrat- tato dal paese vicino, sentendo tutti i giorni la sua debolezza, sentendo dappertutto un potere invisibile, abbia infine detto: ‘ C’è qualche essere al di sopra di noi che ci fa del bene e del male » (Dicrionnaire philosophique, 1764, art. Religion, Il). Questa dottrina ha subìto un’eclissi sino ai primi decenni del sec. xx. Da un lato infatti il concetto ro- mantico della R. come rivelazione o sentimento del- l’infinito fu partecipato anche da filosofi che nega- vano la validità della religione. Feuerbach, ad es., trasformando la teologia in antropologia, affermava: «La R. è la coscienza dell’infinito: perciò essa non è e non può essere altro che la coscienza che l’uomo ha, non della limitazione, ma dell’infinità del suo essere » (Wesen der Christenthum, 1841, $ 1). Max Miiller analogamente vedeva l’essenza della R. nella potenziale capacità umana di « afferrare l’in- finito » (Vorlesungen iber den Ursprung und die Entwicklung der Religion, 1880, pag. 28). Per quanto con queste espressioni si intendesse sotto- lineare l’origine umana della R., si faceva tut- tavia uso di concetti che erano meglio serviti ad esprimere l’origine divina e il valore assoluto della R. stessa. Dall’altro lato, anche nel campo dell’in- dagine sociologica, la quale cominciava a prendere in esame le forme che la R. assume presso i popoli primitivi, si manifestava la tendenza a considerare la R. sotto l'angolo visuale della contemplazione, interpretandola come una concezione del mondo (o filosofia) grossolana bensì ma non priva di una certa coerenza. E. B. Tylor vedeva l’essenza della R. primitiva nell’animismo (v.) cioè nella credenza in esseri spirituali assunti come presenti in tutte le cose e come cause di tutti gli eventi (Primitive Culture, 1871). La R. sarebbe così una metafisica della natura. Una metafisica della società essa sarebbe invece secondo Durkheim, per il quale essa « è il mito che la società fa di se stessa » nel senso che « quella realtà che le mitologie si sono rappre- sentate sotto tante forme differenti, ma che è la causa obbiettiva universale ed eterna di quelle sen- sazioni sul generis di cui è fatta l’esperienza reli- giosa, è la società » (Formes élémentaires de la vie religieuse, 1937, pag. 597). Ciò vuol dire che la R. primitiva consiste nell’attribuire a una supposta realtà i caratteri stessi della società primitiva: cioè quei caratteri che la società primitiva ritiene essen- ziali a se stessa. Queste tesi di Durkheim si fonda- Vano soprattutto su una interpretazione del rfore- mismo. Il totem è secondo Durkheim il simbolo della forza che sostiene l’individuo: forza che è la società stessa; e da questa veramente la mente primitiva attinge tutte Je sue categorie per l’inter- pretazione del mondo. In tal modo, la R. conserva per Durkheim un carattere contemplativo: carat- tere che viene ad essa anche riconosciuto dall’altro grande sociologo francese Lucien Lévy-Bruhl, che esprime questa tesi identificando con il misticismo non soltanto la R. ma l’intera vita dei popoli primitivi (L’expérience mystique et les symboles chez les primitifs, 1938). Per tutti questi indirizzi filosofici e sociologici la R. è, alla sua origine, un fatto cono- scitivo: è un tentativo di spiegarsi il mondo o di formarsene un’idea in base a un certo numero di esperienze più frequentemente ricorrenti nella vita degli uomini. Il ritorno alla concezione settecentesca della R. cioè alla concezione che vede la radice di essa nella situazione dell’uomo nel mondo, si effettua soltanto negli indirizzi più moderni e critici della sociologia. Cominciò W. Robertson Smith a in- 745 sistere sull’importanza che, nella R. primitiva, ha il secondo dei due elementi della R. cioè le tec- niche. «La R. nei tempi primitivi non fu un si- stema di credenze con applicazioni pratiche; fu un corpo di pratiche tradizionalmente fissate alle quali ogni membro della società si conformava naturalmente. Gli uomini formano regole generali di condotta prima di cominciare ad esprimere in parole i princìpi generali; le istituzioni politiche sono più vecchie delle teorie politiche e in ma- niera simile le istituzioni religiose sono più vecchie delle teorie religiose » (Lectures on the Religion of the Semites, 1907, pag. 16). Più tardi l’opera di G. Frazer (The Golden Bough, 1911-14) mostrava la stretta connessione tra R. e magia, partendo dalla considerazione che l’uomo è dominato in primo luogo dalla preoccupazione di controllare gli eventi naturali allo scopo di piegarli alle esi- genze della vita. La differenza tra la magia e la R. consiste, secondo Frazer, in questo: che la prima tende al diretto controllo degli eventi naturali mentre la seconda cerca le vie di propiziarsi le potenze su- periori che presiedono alla natura. Questa dot- trina è quella che ha avuto la migliore accoglienza da sociologi e filosofi. A. Loisy sosteneva un punto di vista assai vicino a quello di Frazer (Essai hi- storique sur le sacrifice, 1920) e B. Malinowski portava nuove prove alla stessa tesi. Secondo Ma- linowski la R. e la magia sorgono e funzionano entrambe in situazioni di tensione emozionale: crisi della vita, riuscite infelici, morte e iniziazione ai misteri della tribù, amori infelici e odii insoddi- sfatti. R. e magia concordano anche nell’offrire una via d’uscita da tali situazioni mediante credenze e pratiche che si riferiscono al dominio del sopran- naturale. Si distinguono tuttavia tra di loro, in quanto la magia ba una tecnica limitata e semplice, la R. comprende un insieme di tecniche; la magia è limitata a una classe di persone che fa di essa la sua professione; la R. invece è una faccenda di tutti e ogni individuo vi ha parte attiva. E infine le funzioni dell’una e dell’altra sono diverse: la fun- zione della magia è quella di sopperire, con stru- menti soprannaturali, alla mancanza o all’imper- fezione degli strumenti naturali, mentre la funzione della R. è quella di rafforzare certi speciali atteggia- menti: il coraggio e la fiducia nella lotta contro le difficoltà (Magic, Science and Religion, 1925). Non molto diversa da questa, sebbene espressa in termini teologici e mistici, fu la tesi difesa da Rudolf Otto nel suo libro intitolato // sacro (1917). Dalla paura, secondo Otto, deriva il sentimento di essere davanti a un potere superiore, che si cristallizza in ciò che egli chiama il tremendum o la maiestas; dal senso di disperazione, di impotenza e di insignificanza deriva il sentimento creaturale descritto nell’Antico testamento, e dalle fantasie compensatrici nasce in- fine il concetto di ciò che è completamente altro, che si mescola con gli eventi più familiari senza cessare di apparire nuovo ed estraneo. Gli ingre- dienti costitutivi del soprannaturale erano così ri- condotti, anche da Otto, alla situazione dell’uomo nel mondo. La quale rimane il punto di partenza delle più moderne teorie della religione. Secondo Freud la R. «dà agli uomini informazioni circa la sorgente e l’origine dell’universo, garantisce ad essi la protezione e la felicità finale fra le mutevoli vicende della vita e guida i loro pensieri e le loro azioni per mezzo di precetti che sono appoggiati dall’intera forza della sua autorità » (A New Series of Introductory Lectures on Psycho-Analysis, 1933, pag. 220). Su questi fondamenti Freud pensa che la R. consista nella credenza in un padre sopran- naturale che salvaguarda gli uomini dai pericoli e li compensa e punisce a seconda dei casi. Il rap- porto fra l’uomo e la divinità si modellerebbe così sul rapporto tra figlio e padre (/bid., pag. 222 sgg.). Prescindendo dallo sfondo psicanalitico di questa concezione, i suoi caratteri non sono diversi da quelli delle altre cui si è fatto riferimento: la R. è intesa come un correttivo, una difesa o una pro- testa nei confronti della situazione di incertezza e di pericolo in cui l’uomo è nel mondo. Tale è anche il concetto che Bergson ha dato della R. statica, al quale egli ha contrapposto la R. dinamica cioè il misticismo. La R. statica sarebbe infatti «la reazione difensiva della natura contro il po- tere disgregatore dell’intelligenza »; nel senso che l’intelligenza fa vedere chiaramente all’uomo l’in- certezza e pericoli della vita e l’inevitabilità della morte, mentre la R. sarebbe l’insieme delle rea- zioni difensive contro le rappresentazioni intellet- tuali della condizione umana nel mondo (Deux sources, 1932, cap., II; trad. ital, pag. 131 sgg.). Limitatamente alla R. primitiva, una tesi analoga è stata difesa sulla base di un vasto materiale docu- mentario da P. Radin nel suo libro sulla R. dei pri- mitivi(Primitive Religion, its Nature and Origin, 1937). II. Il secondo problema del quale le definizioni proposte della R. intendono costituire risposte è quello della funzione specifica della religione. Questo problema può essere inteso in due sensi. In primo luogo, come problema della garanzia che la R. pretende offrire alla salvezza dell’uomo e di questo problema si possono addurre tre soluzioni prin- cipali: 1° la R. come liberazione dal mondo; 2° la R. come verità; 3° la R. come moralità. In secondo luogo, il problema stesso può essere inteso dal punto di vista della funzione che la R. esercita nella so- cietà o nell'economia generale della vita umana (4°). 1° La garanzia che la R. pretende di of- frire all'uomo può essere innanzitutto quella della liberazione dal mondo, considerato nella sua tota- lità come un male. Questa è la dottrina propria del buddismo: « Non c’è da godere di ciò che è nato e diventato, di ciò che si è formato e costituito, che è instabile, dipendente dalla vecchiezza e dalla morte, nido di malattie, fragile, sorto per il transito di cibo. Fuggire da questo stato vuol dire trovare un altro stato tranquillo, al di là del dominio del pensiero, stabile, non nato, non formatosi, senza dolore, senza passione, gioia che pon fine ad ogni condizione di miseria e distrugge per sempre ogni elemento di esistenza » (Ztivuttaka, 43; trad. Pavolini). Questo stato in cui l’esistenza stessa è distrutta è il nirvana. Ma secondo lo stesso buddismo il nirvana è anche lo stato di beatitudine di chi già in questa vita ha eliminato da sè il desiderio e quindi il germe della futura esistenza. Sotto questo aspetto, dallo stesso buddismo, la salvezza è concepita non solo come liberazione dal mondo ma anche come liberazione dai mali del mondo. Questi due aspetti sono in realtà presenti in molte R. tranne che nella R. d'Israele che ignora il primo: la promessa di una beatitudine che è al di là del mondo o che si rag- giungerà solo dopo la morte va abitualmente con- giunta con la promessa di una felicità, di una pace o di un benessere nella stessa esistenza mondana. Quando la felicità o la pace si può raggiungere in questa esistenza solo oltrepassando la condizione umana e deificandosi cioè unendosi con Dio o col principio cosmico, si ha il misticismo (v.). Nel misticismo, Bergson ha visto la R. dinamica, la continuazione super organica dello slancio vitale, l’impulso verso la creazione di una società nuova fondata sull’amore universale (Les deux sources, 1932, cap. III). In realtà il misticismo non è che una determinata soluzione del problema della salvezza ed è la soluzione propria di una religiosità pri- vata, contemplativa e solitaria cui ogni attività e i rapporti stessi fra gli uomini risultano estranei e insignificanti. 2° Che la R. contenga la garanzia infal- libile della propria verità e di ogni verità che possa essere collegata con essa, è pretesa implicità in ogni R. come tale. Dal punto di vista filosofico questa stessa tesi si presenta nella forma dell’iden- tità tra R. e filosofia e della differenza puramente formale tra esse. Questa fu, per es., la dottrina sostenuta da Hegel: « La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la R. perchè oggetto di entrambe è la verità, e nel senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la verità » (Enc., $ 1). La R. tuttavia si distingue dalla filosofia in quanto esprime la verità non nella forma del con- cetto ma in quella della rappresentazione e del sen- timento. «La R., dice Hegel, è il rapporto con l’Assoluto nella forma del sentimento, della rap- presentazione, della fede; e nel suo centro onni- comprensivo, tutto è soltanto come qualcosa di accidentale e di evanescente » (Fi/. del Dir., $ 270). Il che vuol dire che ciò che la R. intuisce in modo accidentale, approssimativo e confuso, la filosofia dimostra con necessità (Enc., $ 573). È chiaro tuttavia che la dottrina dell’identità tra R. e filosofia può anche essere affermata dal punto di vista della superiorità della R. come forma o ri- velazione della verità: così fa quella filosofia della fede di Haman, Herder e Jacobi contro la quale lo stesso Hegel polemizza (v. FEDE, FILOSOFIA DELLA). È tuttavia evidente che in tal caso non è alla R. che si affida la garanzia della verità, ma ad un organo, la fede, dalla quale dipendono, quanto alla loro validità, sia la filosofia sia la R. sia ogni altro sapere. Perciò l’attribuire alla R., come og- getto specifico, la verità significa il più delle volte, dal punto di vista filosofico, attribuirle la funzione di manifestare la verità in una forma, che è bensì infallibile e certa, ma inferiore a quella che la verità stessa può assumere nella filosofia. Così secondo Gentile, la R. è «l’esaltazione dell’og- getto sottratto ai vincoli dello spirito, in cui con- siste l’idealità, la conoscibilità e razionalità del- l'oggetto stesso » (Teoria gen. dello spirito, 1913, XIV, 7). L'essenza della R. è perciò il misti cismo che è l’annullamento del soggetto nell’og- getto e per cui l'essere di Dio è il non essere del soggetto (Discorsi di religione, 1920, pag. 78). La R. trova la sua verità solo nella filosofia che risolve Dio nell’atto del pensiero. « Questo Dio come può essere volontà da riconoscere e pregare e deprecare e a cui subordinarsi, se Dio è dentro all'uomo, al suo io, ed è propriamente il suo io nel suo attuarsi? » (Sistema di logica, II, 1922, IV, 8, 4). In modo più chiaro e sbrigativo Croce ha detto che la R. è una forma provvisoria e im- perfetta della filosofia, per cui il filosofo dovrebbe

vedere nell’uomo religioso « il suo fratello minore, il suo se stesso di un momento prima » (Fil. della pratica, 1909, pag. 314). 3° Che la R. offra una garanzia ai valori morali dell’uomo, intendendosi per morali i valori che presiedono all’ordine della vita associata, è credenza assai antica. Era questo il compito fon- damentale che Platone attribuiva alla R.: «La di- vinità che, secondo la tradizione, regge il principio e la fine e il corso di tutti gli esseri, procede secondo la sua natura nel suo andamento circolare; e ad essa tien dietro sempre la giustizia punitiva per coloro che hanno abbandonato la legge divina» (Leggi, 715 e, 716 a). Nel mondo moderno questo punto di vista è stato assunto e difeso da Kant. «La R., egli ha detto, considerata dal punto di vista soggettivo, è la conoscenza di tutti i nostri doveri come co- mandi divini. Quella in cui io devo prima sapere che qualcosa è un comando divino per riconoscerla poi come mio dovere, è la R. rivelata (o che esige una rivelazione); quella invece in cui io devo sa- pere che qualcosa è un dovere prima che la possa ri- conoscere come un comando divino è la R. naturale + (Religion, IV, sez. I). Kant osserva che questa de- finizione della R. previene parecchie interpretazioni false del concetto di essa. In primo luogo, infatti, esclude che la R. richieda una scienza di Dio e include che per essa basta possedere la semplice idea di Dio. In secondo luogo quella definizione previene «la falsa idea che la R. sia un insieme di doveri speciali che si riferiscono immediata- mente a Dio» e perciò impedisce di ammettere, oltre i doveri umani etico-sociali, «i servizi da cortigiani con i quali potremmo tentare di com- pensare le nostre mancanze ai doveri della prima specie » (/bid., IV, sez. I, Nota). In questa inter- pretazione tuttavia ciò che la R. garantirebbe è l’assolutezza del comando morale: non garantirebbe invece (perchè rientra nella sfera della libertà umana) l'effettuazione del comando morale cioè la vera e propria realizzazione dei valori morali nel mondo. Alla R., tuttavia, si chiede o si attribuisce il più delle volte proprio questa seconda specie di ga- ranzia: la garanzia cioè che i valori morali, e in generale quelli che interessano l’uomo e la sua vita spirituale, non siano unicamente affidati alla buona volontà degli uomini ma trovino nella prov- videnza divina una loro salvaguardia infallibile che ne garantisca il trionfo finale. In questo senso H. Héffding ha affermato che la R. è «la credenza nella conservazione dei valori » (Religionsphilo- sophie, 1902, pag. 13): la fede religiosa sarebbe la convinzione « della saldezza, certezza e della inin- terrotta connessione della relazione fondamentale dei valori con la realtà» (/bid., 1902, pag. 105). Questo è proprio quell’ottimismo provvidenzialistico che molti indirizzi filosofici, idealistici e spiritua- listici desumono o credono di desumere dalla R. e in nome del quale istituiscono più o meno inte- ressate apologetiche religiose. 4° Considerando la funzione della R. non già nei confronti della garanzia soprannaturale che essa pretende di offrire ma nei confronti dei rap- porti inter-umani, tra i quali essa si inserisce come sistema di credenze e di istituzioni, si può agevol- mente mettere in luce l’utilità biologica e sociale della R. stessa. Non che l’accordo tra i filosofi sia unanime su questo punto. Sostenendo la non ingerenza della divinità nelle faccende umane gli Epicurei avevano di mira l'eliminazione del timore degli dèi e consideravano pertanto la R. come fonte aggiuntiva di preoccupazione e paura e non come aiuto (cfr. EricuRro, Ep. a Meneceo, 123; Ep. a Erodoto, T7; Mass. Cap., 1). Anche qualche sociologo contemporaneo non manca di osservare che spesso i riti religiosi e le credenze con essi associate sono fonti di angoscia sicchè l’effetto psicologico del rito sembra quello di creare nel- l’uomo un senso di insicurezza e di pericolo (cfr. A. R. RADCLIFFE-BROWN, Structure and Func- tion in Primitive Society, 1952, pag. 148-49). Ma anche in questo caso si può riconoscere la funzione sociale della R. e cioè il rafforzamento ad essa dovuto dei vincoli sociali, soprattutto nella società primitiva (Ibid., pag. 157 sgg.). A. Loisy diceva: « Abbandonato alla mercè degli elementi, delle sta- gioni, di ciò che la terra gli dà e gli rifiuta, delle buone o cattive possibilità della sua caccia o della sua pesca, delle vicende delle sue lotte con i suoi simili, l’uomo crede trovare il mezzo per regolariz- zare con simulacri di azione le sue possibilità più o meno incerte. Ciò che egli fa non serve a niente rispetto allo scopo che si propone, ma egli acquista fiducia nelle sue imprese, in se stesso, osa e osando ottiene realmente più o meno ciò che vuole. Fiducia rudimentale e attraverso un’umile strada; ma è il cominciamento del coraggio morale » (Essai histo- rique sur le sacrifice, 1920, pag. 533). Questo punto di vista fu più tardi sviluppato da Malinowski (Magic, Science and Religion, ed. Anchor Books, 1925, pag. 89). Ed è come si è visto più o meno il punto di vista di Bergson. È un punto di vista che i sociologi hanno riscontrato soprattutto nei confronti delle società primitive; ma è pur noto (v. PRIMITIVI) che la sociologia contemporanea tende a eliminare l’abisso tra mentalità primitiva e mentalità secondaria o civile. AI di là dei limiti in cui le tecniche razionali gli consentono il con- trollo degli eventi che lo interessano, limiti, nono- stante tutto, assai ristretti, l’uomo rivendica di fatto la sua libertà di fede e si affida a credenze libera- trici o consolatrici e a tecniche che gli promettono una salvezza immancabile. Che egli possa o non possa ottenere da queste tecniche ciò che promet- tono, la loro funzione è ben chiara: quella di dargli speranza e coraggio e di consolidarlo nel suo rap- porto con gli altri uomini e con il mondo. RES DE RE NON PRAEDICATUR. La massima di Abelardo (riferita da GIOVANNI DI SA- LIsBuRY, Metalogicus, II, 17), secondo la quale l’universale non può essere nè una cosa nè una voce ma soltanto un’espressione (sermo) giacchè solo l’espressione può essere predicata di più cose (v. UNIVERSALE). RESIDUI E DERIVAZIONI (ingl. Residues and Derivations; franc. Résidus et dérivations). Con questi termini Vilfredo Pareto designò i due fattori delle teorie non scientifiche che corrispondono ai due fattori delle teorie scientifiche, cioè alle affer- mazioni sperimentali e alle deduzioni logiche. I residui sono gli istinti, i sentimenti, gli inte- ressi, ecc., che costituiscono i materiali delle teorie non scientifiche; e le derivazioni sono le sistemazioni logiche o pseudologiche date a tale materiale (Traf- tato di sociologia generale, 1916, $ 803, 850, 870, 1397). Cfr. la discussione di questa dottrina in TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action, 2* ediz., 1949, pag. 196 sgg. RESIDUI, METODO DEI (ingl. Method of Residues; franc. Méthode des résidus; ted. Rilck- standsmethode). Uno dei quattro metodi della ri- cerca sperimentale enumerati da Stuart Mill e pre- cisamente quello espresso dalla regola: « Sottratta da un fenomeno la parte che si è riconosciuta, per precedenti induzioni, come l’effetto di certi ante- cedenti, il residuo del fenomeno è l’effetto dei rima- nenti antecedenti » (Logic, III, 8, $ 5) (v. Concomi- TANZA; (CONCORDANZA; DIFFERENZA). RESIDUO FENOMENOLOGICO (tedesco Phanomenologische Residuum). Così Husserl ha chia- mato l’essere proprio della coscienza in quanto «non viene toccato nella sua assoluta essenza dalla neutralizzazione fenomenologica » cioè dall’epoché (Ideen, I, $ 33). RESPONSABILITÀ (ingl. Responsibility; franc. Responsabilité; ted. Verantwortlichkeit). La possibilità di prevedere gli effetti del proprio com- portamento e di correggere il comportamento stesso in base a tale previsione. La R. è cosa diversa dalla semplice imputabilità (gr. alzia; lat. Imputatio; in- glese Imputability; franc. Imputabilité; ted. Zure- chenbarkeit) che significa l’attribuzione di un’azione a un agente come alla sua causa. Alla nozione di imputabilità faceva riferimento Platone quando, a proposito della scelta che le anime fanno del proprio destino affermava: « Ciascuno è la causa della propria scelta, la divinità non ne è imputabile» (Rep., X, 617e; cfr. Timeo, 42 d). Wolff definiva l'imputazione come « il giudizio con il quale l’agente è dichiarato causa libera di ciò che consegue dalla sua azione cioè del bene o del male che da essa derivano sia a lui stesso sia agli altri » (Phi/osophia practica, I, $ 527). E questa definizione era sempli- cemente ripetuta da Kant: «L’imputazione (im- putatio) nel significato morale è il giudizio per mezzo del quale qualcuno è considerato come au- tore (causa libera) di un’azione che è sottomessa a leggi e si chiama fatto » (Mer. der Sitten, I, Intr., IV). L’imputabilità così intesa è un concetto com- pletamente diverso da quello di responsabilità. Il concetto e il termine di R. sono recenti e compaiono per la prima volta in inglese e in fran- cese nel 1787 (precisamente compaiono in inglese nel Federalist di Alessandro Hamilton, folio 64; cfr. R. McKron, in Revue Internationale de Phi- losophie, 1957, n. 1, pag. 8 sgg.). Il primo signi- ficato del termine fu quello politico, in espres- sioni come «governo responsabile» o «R. del governo » che esprimevano il carattere per cui il governo costituzionale agisce sotto il controllo dei cittadini ed in vista di questo controllo. In filosofia, il termine fu usato nelle dispute sulla libertà; e tornò utile soprattutto agli empiristi

inglesi che vollero mostrare l’incompatibilità di un giudizio morale con la libertà e con la ne- cessità assolute (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst., VIII, 2; STUART MILL, nota alla Analysis of the Phenomena of the Human Mind di J. Mit, 1869, II, pag. 325). La nozione di R. è infatti fondata su quella della scelta e la nozione di scelta è essen- ziale al concetto della libertà limitata (v. LIBERTÀ). È chiaro infatti che nel caso della necessità, la previsione degli effetti non potrebbe influire sul- l’azione; e che tale previsione non potrebbe influire sull’azione nel caso della libertà assoluta, che fa- rebbe il soggetto indifferente alla previsione stessa. Il concetto di R. si inscrive pertanto in un deter- minato concetto della libertà; ed anche nel lin- guaggio comune si dice « responsabile » una per- sona o si apprezza il suo «senso di R.» quando si vuole indicare che la persona in questione include, nei motivi del suo comportamento, la previsione degli effetti possibili del comportamento stesso (cfr. il fascicolo citato della Revue Internationale de Philosophie e specialmente gli articoli di McKeon, Abbagnano e Weil. Per la distinzione tra imputa- bilità e R., cfr. SCHELER, Der Formalismus in der Ethik, 1913, pag. 504 sgg.) (V. INTENZIONE). RESTRIZIONE (lat. Restrictio; ingl. Restric- tion; franc. Restriction; ted. Restriktion). A partire dalla logica del xm secolo, la limitazione dell’esten- sione o denotazione di un termine comune in modo che esso si riferisca a un numero minore di oggetti designati (cfr. Lamberto di Auxerre, in PRANTL, Geschichte der Logik, III, pag. 31, n. 130). Pietro Hispano distinse quattro specie di R.: quella fatta col nome, come quando si dice « uomo bianco » per cui il termine uomo non sta per (non supponit pro) i negri; con il verbo, come quando si dice « l’uomo corre » e la proposizione si riferisce solo ai presenti; quella fatta per participio come quando si dice «l’uomo correndo discute »; e quella fatta per im- plicazione come nel caso «l’uomo, che è bianco, corre + (Summ. Log., 11.02). Il processo inverso è l'ampliamento o estensione. Hamilton ha chiamato R. il rapporto di subalternazione (v.). RETORICA (ingl. Rhetoric; franc. Rhétorique; ted. Rhetorik). L’arte di persuadere mediante l’uso di strumenti linguistici. La R. fu la grande inven- zione dei Sofisti e Gorgia di Leontini (sec. v a. C.) fu uno dei suoi fondatori. Il dialogo di Platone che s’intitola a lui insiste sul carattere fondamentale della R. sofistica: la sua indipendenza dalla dispo- nibilità di prove o argomenti che producano un reale sapere o una convinzione razionale. Scopo della R. è quello « di poter persuadere con discorsi i giudici nei tribunali, i consiglieri nel consiglio, i membri dell’assemblea nell’assemblea e in ogni altra riunione pubblica» (Gorg., 452 e). Il retore pertanto è abile « nel parlare contro tutti e su ogni argomento, sicchè riesce, alla maggior parte delle persone, più persuasivo di ogni altro, rispetto a tutto ciò che vuole» (/bid., 457 a). La R. così intesa apparve a Platone più vicina all’arte culi- naria che alla medicina: più diretta ad appagare il gusto che a migliorare la persona (/bid., 465 c). Ad essa Platone contrappose una R. pedagogica o educativa che fosse «l'arte di guidar l’anima per via di ragionamenti, non solo nei tribunali e nelle assemblee popolari ma anche nelle conversazioni private » (Fedr., 261 a): ma la R. così intesa si identifica con la filosofia. Platone pertanto non riservò alla R. una funzione specifica. Riconobbe invece tale funzione Aristotele che considerò la R. in stretta connessione con la dialettica e come la controparte di essa (Rer., I, 1, 1354 a 1). La R. è, secondo Aristotele, «la facoltà di considerare in ogni caso i mezzi disponibili di persuasione + (/bid., I, 2, 1355 b 26). Mentre ogni altra arte può istruire o persuadere soltanto intorno ai suoi propri og- getti, la R. non è limitata da una speciale sfera di competenza ma considera i mezzi di persuasione che si riferiscono a tutti gli oggetti possibili (/bid., I, 2, 1355 b 26). La R. pertanto desume dalla Topica la considerazione degli argomenti probabili (che sono appunto quelli che hanno la capacità di per- suadere) e fornisce le regole per l’uso strategico di tali argomenti. Questo concetto della R. stabilito da Aristotele è prevalso per molti secoli. L’umanesimo sotto- lineò l’importanza della R. cui però intese rico- noscere, sull’esempio platonico e ciceroniano, un valore sostanziale (cfr. Testi umanistici sulla R. di M. Nizolio, F. Patrizi, P. Ramo, a cura di E. GARIN, P. Rossi, C. VasoLI, 1953). Con Pietro Ramo, il compito della R. ritorna ad essere sostan- zialmente quello aristotelico: «La tecnica della persuasione che Ramo indaga nei testi ciceroniani, questa capacità di volgere il linguaggio alle espres- sioni più compiute e tecnicamente elaborate dev’es- sere però sempre unita all’esercizio della filosofia, alla quale resta affidata, per mezzo della dialettica, la costruzione essenziale di tutti i princìpi cono- scitivi. Perciò alla R. intesa nel significato più tecnico e particolare, il Ramo concederà soltanto 750 le due funzioni propedeutiche della e/ocutio e della pronunciatio... laddove invece affiderà alla dialettica contro le pretese di Quintiliano e di Ci- cerone il compito di organizzare la vera sostanza del discorso logico » (C. VasoLI, Op. cit., pag. 117- 118). Dopo la fioritura del Rinascimento le sorti della R. decaddero sino alla quasi completa eclissi che essa subì nel sec. xIx. Il dogmatismo razio- nalistico iniziato da Cartesio e diventato massiccio nell’800, fu la causa maggiore della decadenza della retorica. Dove la ragione è tutto e può tutto, un’arte che voglia cercare gli strumenti della per- suasione è ovviamente fuori luogo. Perciò non fa meraviglia che con l’abbandono del dogmatismo razionalistico la R. torna oggi agli onori della ri- balta nel senso classico di arte della persuasione ma con l’avvertimento moderno della molteplicità delle condizioni a cui l’arte della persuasione deve guardare. Il Traité de l’argumentation di Perelman e Olbrechts-Tyteca (1958) s’inizia con le seguenti parole: «La pubblicazione di un trattato consa- crato all’argomentazione e il suo riattaccarsi a una vecchia tradizione, quella della R. e della dialettica greca, costituiscono una rottura con una conce- zione della ragione e del ragionamento, originata da Cartesio, che ha impresso il suo sigillo sulla filosofia occidentale dei tre ultimi secoli ». Non c’è alcun dubbio sulla correttezza di questa osserva- zione. Se la ragione è infallibile e la ricerca umana può essere affidata in ogni campo alle sue infalli- bili regole, non c’è posto per la R. che è l’arte della persuasione. Ma se nella sfera del sapere umano la parte dell’incerto, del probabile, dell’approssi- mativo è assai grande, la persuasione può avere la sua funzione e l’arte di essa può essere coltivata. RETRODUZIONE (ingl. Retroduction). Ter- mine introdotto da Peirce per indicare il primo stadio della ricerca, che procede, come l’induzione, dal conseguente all’antecedente ma è compiuto in modo spontaneo cioè senza un metodo rigoroso («Reality of God», in Values in a Universe of Chance, pag. 368 sgg.) (v. ABDUZIONE). RETROSPEZIONE (ingl. Retrospection; fran- cese Rétrospection). Bergson ha indicato con questo termine la tendenza a «rigettare nel passato, allo stato di possibilità o di virtualità, le realtà attuali » (La pensée et le mouvant, 3° ediz., 1934, pag. 26). RETTITUDINE (gr. èp96mne, xarépwor; lat. Rectitudo; ingl. Rectitude; franc. Rectitude; ted. Rechtlichkeit). Il criterio o la misura razionale delle cose, cioè il principio per giudicarle. Platone dice, ad es., che «La R. del nome è quella che mostra quale la cosa sia » (Crat., 428 e), intendendo che questo è il criterio per giudicare della giustezza del nome. Aristotele usa nello stesso senso l’espres- sione retta ragione (èp8dc Xbyoc) e identifica la retta ragione con la saggezza (Er. Nic., VI, 13, 1144 b 23). Ma furono soprattutto gli Stoici a dare un significato tecnico al termine intendendo per essa «la convenienza o il bene stesso, che consiste nel raggiungere l’accordo con la natura » (Cicer., De Fin., III, 14, 45). Poichè l’accordo con la natura è il criterio di ogni valutazione la R. non è che questo criterio. In un senso analogo, Duns Scoto chiamò rectitudines le proposizioni teologiche in quanto forniscono la conoscenza del retto com- portamento dell’uomo di fronte a Dio (Op. Ox., Prol., q. 4, n. 31). Ai nostri giorni Heidegger ha contrapposto la R. alla verità intesa come rivelazione dell’essere. Se- condo Heidegger, fu Platone a far prevalere per la prima volta il concetto della verità come R. cioè come criterio del giudizio umano ed è stato per- tanto Platone a preparare il terreno per la nascita del soggettivismo moderno (« Die Zeit des Welt- bildes », 1938, in Holzwege, 1950, pag. 84). REVERSIBILE (ingl. Reversible; franc. Ré- versible; ted. Umkehrbar). Si qualificano con questo termine i processi che non hanno un senso definito (v. IRREVERSIBILE). RICERCA (gr. tnenows; lat. Investigatio, Inqui- sitio; ingl. Inquiry; franc. Recherche; ted. Unter- suchung). Per quanto il concetto di R. si connetta spesso strettamente con quello di filosofia (come accade in Platone, cfr. ad es., Teet., 196 d; Men., 81 e), difficilmente la R. stessa è stata fatta oggetto di indagine filosofica. Nel mondo moderno Dewey ha considerato la logica come teoria della ricerca. « Tutte le forme logiche, egli ha detto, con le loro proprietà caratteristiche, nascono attra- verso il lavoro di R., e concernono il controllo della R. in vista della attendibilità delle asserzioni prodotte +». In questo senso «la R. sulla R. è causa cognoscendi delle forme logiche mentre l’indagine primitiva è causa essendi delle forme rivelate da quell’indagine » (Logic, 1939, I; trad. ital., pag. 34). La R. è definita da Dewey come «la trasforma- zione controllata o diretta di una situazione indeter- minata in altra che sia determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da con- vertire gli elementi della situazione originaria in una totalità unificata » (Logic, VI; trad. ital., pa- gina 157). RICETTIVITÀ (ingl. Receptivity; franc. Ré- ceptivité; ted. Receptivitàt). La possibilità delle af- fezioni (v.) cioè di accogliere o subire azioni. In questo senso Kant considera la sensibilità come «la R. del nostro animo a ricevere rappresentazioni cioè a subire affezioni in un modo qualunque » (Crit. R. Pura, Log. trasc., Intr., I). Lo stesso che passività. È il contrario di spontaneità (v.) o atti- vità (v.). RIFLESSIONE RICONCILIAZIONE. V. Sintesi. RICONOSCIMENTO (ingl. Recognition; franc. Reconnaissance; ted. Anerkennung). 1. In generale, conoscere qualcosa per quella che è. In questo senso si dice, per es.: «L'ho riconosciuto per un ladro» Oppure «Riconosco la giustezza di questa osservazione ». 2. Uno degli aspetti costitutivi della memoria in

quanto ad essa gli oggetti sono dati come già pre- cedentemente conosciuti (v. MEMORIA). RICORDO. V. MEMORIA. RICORRENZA (ingl. Recurrence; franc. Récur- rence; ted. Recurrenz). 1. Ciò che torna ad accadere o si ripete a intervalli, regolari o irregolari. In questo senso si dice ricorrente un evento che si ripete pressapoco allo stesso modo, ad intervalli di tempo. 2. Si chiama anche con questo termine il ragio- namento riflessivo o auto-referentesi che dà luogo alle antinomie logiche (v. ANTINOMIE). 3. In matematica, s'intende per « ragionamento per R. » il principio dell’induzione matematica (vedi INDUZIONE MATEMATICA). RICORSO. Vico intese con questo termine il ritorno della storia sui suoi passi che si verifica quando i rimedi che la Provvidenza dispone contro la corruzione degli stati vengano meno o non agi- scano efficacemente. Il R. consiste nel rinselvati- chirsi degli uomini, nel loro ritorno alla durezza della vita primitiva che li disperde e falcidia, finchè il poco numero degli uomini rimasti e l'abbondanza delle cose necessarie alla vita rendono possibile la rinascita di un ordine civile, di nuovo fondato sulla religione e la giustizia (Scienza Nuova, 1744, Conclusione). RIDUCIBILITÀ, ASSIOMA DI. V. ANTI- NOMIE. RIDUZIONE (ingl. Reduction; franc. Réduc- tion; ted. Reduktion). 1. La trasformazione di un enunciato in un altro equipollente più semplice o più preciso o tale che riveli la verità o la falsità dell’enunciato originario. Si parla pure di «R. della scienza ai termini dell’esperienza immediata» (Quine, From a Logical Point of View, II, 5), o di R. delle estensioni alle intensioni o delle classi a proprietà (CARNAP, Meaning and Necessity,$ 23, 33). 2. La spiegazione che consiste nel considerare certi ordini di fenomeni come soggetti alle leggi, meglio stabilite o più precise, di un altro ordine di fenomeni; per es., quella che consiste nel con- siderare i fenomeni organici come soggetti alle leggi dei fenomeni fisici e questi ultimi come soggetti alle leggi dei fenomeni meccanici. Su questo tipo di spiegazione, cfr. E. NAGEL, « The Meaning of Reduction in the Natural Sciences», 1949, in Science and Civilisation, ed. R. T. Staufer, 1949, pag. 99-138). 3. Per R. fenomenologica Husserl intese la stessa epoché fenomenologica cioè la neutralizzazione del- l’atteggiamento naturale o la messa in parentesi del mondo (/deen, I, $ 56 sgg.). Talvolta, più parti- colarmente, intese per R. il momento positivo dell’epoché cioè quello della riflessione interna sul- l’atto, che cerca di cogliere l’atto stesso nella sua intenzionalità (cfr. specialmente Die XKrisis der europàischen Wissenschaften, 1954, pag. 247). 4. Per R. ai principi, v. RITORNO, 2. RIFERIMENTO (ingl. Reference; franc. Ré- férence; ted. Bericht). x. In generale l’atto di porre un oggetto qualsiasi in una relazione qualsiasi con un altro oggetto. In questo senso il termine ha un significato assai esteso: uno stesso oggetto, per es., un comportamento può essere riferito al suo au- tore, ai suoi effetti, al suo fine, alle sue intenzioni, alle sue condizioni, ecc. Il senso specifico del R., cioè della relazione che esso stabilisce, è di volta in volta chiarito o suggerito dal contesto. 2. Più particolarmente, si chiama R. l’atto che stabilisce il rapporto tra il simbolo e il suo oggetto, cioè l’atto dell’interpretazione (v.). Sono stati so- prattutto Ogden e Richards a diffondere in questo senso l’uso del termine. Essi identificarono addi- rittura il R. con il pensiero ed entrambi con quello che essi chiamarono il significato conoscitivo (The Meaning of Meaning, 103 ediz., 1952, pag. 9 sgg.). Nell'ambito di questo significato, gli stessi autori hanno chiamato referendo (referend) il veicolo o lo strumento di un atto di R. e referente (referent) l’oggetto verso il quale l’atto di R. è diretto. RIFIUTO, GRAN (ingl. Great Refusal; fran- cese Grand Refus). Il R. della realtà in favore dell’immaginazione, e delle possibilità che essa scopre, nell’arte. In tal senso l’espressione fu ado- perata da André Breton nel primo manifesto dei surrealisti (1924) (Les manifestes du surréalisme, 1946). L'espressione è stata fatta propria da H. Mar- cuse per indicare « la protesta contro la repressione superflua, la lotta per la forma definitiva di libertà: il vivere senza angoscia» (Eros and Civilization, 1954, cap. VII). V. UTOPIA. RIFLESSA, AZIONE. V. AZIONE RIFLESSA. RIFLESSIONE (ingl. Reffection; franc. Ré- flexion; ted. Reflexion). In generale l’atto o il pro- cedimento con il quale l’uomo prende a considerare le sue stesse operazioni. Questo concetto è stato determinato in tre modi e cioè: 1° come cono- scenza che l’intelletto ha di sè; 2° come coscienza; 3° come astrazione. 1° Aristotele, per quanto non usi il termine R., ammette il fatto ovvio che l'intelletto « può pen- sare se stesso» (De An., III, 429 b 9). Gli Scola- stici espressero questa possibilità con il termine «R.s. S. Tommaso dice: « Poichè l’intelletto ri- flette sopra se stesso, esso intende, secondo questa R., sia il suo intendere sia la specie mediante la quale intende » (S. Th., I, q. 85, a. 2). Egli attribuisce anche alla R. una funzione specifica giacchè l’in- telletto che ha per suo oggetto proprio l’universale, non può intendere il particolare se non riflettendo su se stesso e considerando ciò da cui astrae l’uni- versale (/bid., I, q. 86, a. 1). La R. tuttavia non è dagli Scolastici ritenuta fonte autonoma di cono- scenza. Ciò accade per la prima volta solo con Locke. 2° Con Locke, s°inizia il concetto della R. come coscienza. Secondo Locke, la seconda delle due fonti principali (la prima essendo la sensazione) dalle quali l’intelletto trae le sue idee è la R., in- tesa come «la percezione delle operazioni che l’anima nostra compie dentro di sè sulle idee che ha ricevuto mediante i sensi: operazioni che, di- ventando l’oggetto delle R. dell’anima, producono nell’intelligenza un’altra specie di idee che gli og- getti esterni non le avrebbero potuto fornire e tali sono le idee di ciò che si chiama percepire, pensare, dubitare, credere, ragionare, conoscere, volere, ecc. ». (Saggio, II, 1, 4). Locke chiama pure senso interno la R.: la quale, in questo senso non è altro che la coscienza, col quale nome fu spesso chiamata dai filosofi inglesi posteriori. La definizione di Vauve- nargues « La R. è la potenza di ripiegarsi sulle idee, di esaminarle, di modificarle o di combinarle in diversi modi: essa è gran principio del ragionamento, del giudizio, ecc. » (Intr. à la connaissance de l’esprit humain, 1746, I, 2) e quella di Leibniz «La R. non è altro che l’attenzione a ciò che è in noi, mentre i sensi non ci danno affatto ciò che noi portiamo già con noi» (Nouv. Ess., Avant- propos) danno lo stesso significato: la R. è coscienza. Con questo termine, appunto, essa veniva definita da Kant. «La R. (reffexio), egli diceva, non mira agli oggetti stessi per acquistarne direttamente i con- cetti, ma è quello stato dello spirito in cui comin- ciamo a disporci a scoprire le condizioni soggettive che ci rendono possibile arrivare ai concetti. Essa è la coscienza della relazione tra le rappresentazioni date e le varie fonti di conoscenza » (Crit. R. Pura, Analitica dei Principi. Anfibolia dei concetti della riflessione). Kant distingueva inoltre la R. /ogica, che è il semplice confronto delle rappresentazioni fra di loro, dalla R. trascendentale che si dirige agli oggetti stessi e contiene « la ragione della possibilità del paragone oggettivo delle rappresentazioni tra loro. La R. trascendentale ha perciò per oggetto i concetti di identità-diversità, di concordanza- posizione, di interno-esterno, di materia-forma, che per l’appunto forniscono il fondamento di ogni possibile confronto tra le rappresentazioni » (/bid.). Il carattere attivo e creativo della R., che porta alla luce la vera natura di ciò su cui indaga e perciò in qualche modo produce tale natura, fu uno dei punti fondamentali della filosofia di Hegel: « Poichè nella R. si ottiene la vera natura e questo pensiero è mia attività, così quella vera natura è parimenti il prodotto del mio spirito, cioè del mio spirito come Soggetto pensante, di me nella mia semplice uni- versalità, come Io che è senz’altro da sè, ossia della mia libertà » (Enc., $ 23). Una funzione me- tafisica fu attribuita alla R. anche da Maine de Biran: «Chiamo R., egli disse, la facoltà per la quale lo spirito appercepisce in un gruppo di sensazioni o in una combinazione di fenomeni i rapporti comuni di tutti gli elementi con una unità fondamentale, per es., di più modi o qualità con l’unità di resi- stenza, di più effetti diversi con una medesima causa, di modificazioni variabili con lo stesso io o soggetto, ecc.» (Fondements de la psychologie, ed. Naville, II, pag. 225). Nè molto diverso da questo significato è quello attribuito al termine da Husserl quando afferma: « Ogni cogifatio può di- ventare oggetto di una cosiddetta percezione in- terna e successivamente oggetto di una valutazione riflessa, di approvazione o disapprovazione, ecc.» (Ideen, I, $ 68). In questo senso la R. è quella che Husserl chiama la percezione immanente, cioè la percezione che costituisce un’unità immediata con il percepito, ed è la coscienza stessa (/bid., $ 68). Husserl ha pure distinto la R. naturale, che si ef- fettua nella vita comune dalla R. fenomenologica o trascendentale che si fa praticando l’epoché (v.) universale quanto alla esistenza o alla non-esistenza del mondo (Carr. Med., $ 15). 3° Il terzo concetto della R., è quello che la considera come astrazione e precisamente astra- zione falsificatrice. Questo concetto della R. fu

proprio dell’idealismo romantico. Cominciò con Fichte, che vide nella R. l’atto con cui l’io con- sidera se stesso come limitato dall’oggetto: « L’Io ha in sè la legge di riflettere sopra se stesso come riempiente l’infinito. Ma esso non può riflettere sopra se stesso, e in generale su nulla, se ciò su cui riflette non è limitato. Il compimento di questa legge è dunque condizionato e dipende dall’og- getto » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 8). Come Schel- ling chiariva, la R. è in questo senso un’astrazione perchè porta a separare l’oggetto dell'Io dall’Io stesso, mentre in realtà l'oggetto non è altro che un prodotto dell’Io. « Quella separazione dell’atto dal prodotto si chiama nell’uso ordinario del lin- guaggio astrazione. Come prima condizione della R. compare dunque l’astrazione » (System des trans- zendentalen Idealismus, III, epoca III, I; trad. ital., pag. 179). Hegel a sua volta, mentre esaltava (come si è visto) la R. come attività che non solo mette in luce ma produce la natura razionale delle cose che investiga, riteneva falsificatore l’intelletto ri- flettente. « Per l’intelletto riflettente o riflessivo è da intendere in generale l'intelletto astraente, e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Volto contro la ragione, codesto intelletto si com- porta come l’ordinario intelletto umano o senso comune e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile; che i pensieri siano soltanto pensieri, nel senso che la percezione sen- sibile dia loro sostanza e realtà; e che la ragione in quanto resta in sè e per sè non produca altro che sogni » (Wissenschaft der Logik, Intr.; trad. ital., I, pag. 27). In altri termini la R. è caratterizzata dalla separazione tra concetto e realtà, separazione che è una falsa astrazione; mentre la ragione è ca- ratterizzata dalla identità di concetto e realtà. In tal modo, per Hegel, la filosofia della R. è quella del senso comune, che culmina nella filosofia di Kant la quale afferma l’inconoscibilità della cosa in sè. Nella filosofia contemporanea il termine è usato prevalentemente nel significato 2° ed ha perciò come sinonimi i termini «consapevolezza », « co- scienza », « introspezione », « senso interno +, « osser- vazione interiore ». RIFLESSIVA, PSICOLOGIA. V. Psico- LOGIA, B). RIFLESSIVITÀ (ingl. Reflectivity; franc. Ré flexivité; ted. Reflectivitàt). Il carattere di una re- lazione non aliorelativa: cioè tale che un termine può averla con se stesso. Per es., la relazione non più grande di è riflessiva (v. RELAZIONE). RIFLETTENTE E DETERMINANTE (ingl. Reflecting and Determinant; franc. Réfléchis- sant et déterminant; ted. Reflectierend und Bestim- mend). Giudizio determinante e giudizio R. sono, secondo Kant, i due modi d’azione della facoltà

del giudizio (v. GIUDICATIVA, FACOLTÀ). In genere, secondo Kant, il giudizio è «la facoltà di pensare il particolare come contenuto nel generale ». Se è dato il generale (la regola, il principio, la legge) il giudizio che opera la sussunzione del particolare è determinante. Se invece è dato il particolare e il giudizio vi vede trovare il generale, esso è sempli- cemente R. (Crit. del Giud., Intr., $ Iv). « Giudizio determinante » significa giudizio che determina o costituisce l’oggetto: come fa, secondo Kant, il giudizio intellettuale (considerato nella Critica della Ragion Pura) il quale per l’appunto forma l’oggetto empirico unificando secondo le categorie il materiale dell’esperienza. « Giudizio R.» significa giudizio che trova già costituito l’oggetto e perciò deve limitarsi a riflettere su di esso per trovare il modo di subordinarlo ad una unità o legge che è però semplicemente soggettiva: come fa da un lato il giudizio di gusto, che giudica gli oggetti secondo il criterio del bello, e dall’altro il giudizio te- 48 — ABBAGNANO, Disionarin di filosofia. leologico che giudica gli oggetti secondo il criterio de fine. RIFORMA (ingl. Reformation; franc. Réfor- mation; ted. Reformation). Il rinnovamento della vita religiosa avvenuto nell’Europa del sec. xvi mediante il ritorno alle origini del Cristianesimo. Preparata dall’umanista Erasmo da Rotterdam

(1466-1536) la R. fu iniziata dall’opera del monaco agostiniano Martin Lutero (1483-1546) che nel 1517 affiggeva, alle porte della Cattedrale di Wittenberg, 95 tesi contro la vendita delle indulgenze. Nel suo indirizzo complessivo la R. protestante appare come una delle vie di realizzazione di quel ritorno ai principi che fu l’emblema del Rinascimento (v.). Nel dominio religioso, il ritorno ai principi por- tava a negare il valore della tradizione e quindi della Chiesa che se ne riteneva la depositaria e l’interprete. Nello scritto Contro Enrico VIII d'In- ghilterra (1522) Lutero contrapponeva alla tradi- zione ecclesiastica, e a tutti i riti e le glosse che essa aveva accumulato nei secoli, il ritorno diretto alla parola di Cristo, cioè al Vangelo. L’insegna- mento fondamentale del Vangelo è secondo Lutero la giustificazione per mezzo della fede la quale im- plica due corollari fondamentali: 1° la negazione del valore delle opere cioè delle tecniche religiose (riti, sacrifici, cerimonie) e la riduzione dei sacra- menti a quelli di cui la Bibbia fa menzione cioè battesimo, penitenza ed eucarestia, anch'essi però sottratti a ogni giurisdizione sacerdotale e consi- derati come espressione del diretto rapporto del- l’uomo con Dio. Al culto sacerdotale, Lutero con- trappose l’esercizio dei doveri civili come l’unico «servizio divino » che abbia valore religioso; 2° la

negazione della libertà umana e il riconoscimento della predestinazione da parte di Dio. La fede è il segno sicuro di questa predestinazione e quindi l’indizio della salvezza (De Libertate Christiana, 1520). Su questo punto nacque la polemica tra Erasmo e Lutero: alla Diatribe de libero arbitrio (1524) di Erasmo, Lutero rispondeva col De servo arbitrio (1525) nel quale ribadiva il carattere imper- scrutabile della scelta divina (cfr. PREDESTINAZIONE). Delle altre due principali figure della R. prote- stante Ulrico Zuinglio (1484-1531) e Giovanni Cal- vino (1509-64), il primo si spinse al di là di Lutero nella negazione delle forme religiose tradizionali, attribuendo allo stesso sacramento dell’eucarestia un valore puramente simbolico e negando l’obbe- dienza passiva all’autorità politica; il secondo con- siderò il ritorno ai princìpi specialmente come ri- torno alla religiosità del Vecchio Testamento. Nella sua /stituzione della religione cristiana (pubblicata in latino nel 1536 e in francese nel 1541: questa traduzione è il primo testo letterario della prosa francese) Calvino si propose infatti di mostrarel’unità del Vecchio e del Nuovo Testamento e riprese specialmente da esso il principio che la buona riuscita nelle faccende della vita è una prova evidente del favore di Dio, un segno della sua pre- dilezione. Fu specialmente questo principio a fare

dell’etica calvinista l’ispiratrice della nascente bor- ghesia capitalistica; del suo spirito attivo e aggres- sivo, sprezzante d’ogni sentimento e teso alla buona riuscita degli affari. RIGORISMO (ingl. Rigorism; franc. Rigorisme; ted. Rigorismus). Nella terminologia religiosa del sec. xvili R. si oppose a /assismo e designò il punto di vista di coloro (specialmente Giansenisti e Padri dell’oratorio) che maggiormente erano ostili al prin- cipio della morale rilassata (cfr. BAYLE, Dictionnaire historique et critique, art. « Rigoristes +). Secondo Kant si chiamano di solito rigoristi coloro che non ammettono « alcuna neutralità morale (adiaphora) nè negli atti, nè nei caratteri umani» mentre si chiamano latitudinari gli altri (Religion, I, Osservazione). Lo stesso Kant però (nello stesso passo) mostra di ac- cogliere per conto suo il principio rigoristico: sicchè non a torto si è parlato e si parla di «R. morale» a proposito della dottrina morale kantiana. RILEVANTE (ingl. Relevant; franc. Relevant; ted. Bedeutend). Si chiama R. un enunciato signifi- cante, specie se è importante per il significato com- plessivo del contesto in cui ricorre. Si chiamano talora R. anche gli elementi di fatto importanti per il giudizio di una situazione determinata. RIMORSO (ingl. Remorse; franc. Remords; ted. Reue) (v. PENITENZA). RINASCIMENTO (ingl. Renaissance; fran- cese Renaissance; ted. Renaissance). S’intende con questo termine il movimento letterario, artistico e fi- losofico che va dalla fine del sec. x1v alla fine del se- colo xvi e che si diffuse dall’Italia negli altri paesi d'Europa. La parola e il concetto di R. hanno ori- gine religiosa, come è stato accertato dagli studi di Hildebrand, Walser e Burdach: rinascita è la seconda nascita, la nascita dell’uomo nuovo o spi- rituale di cui parlano l’Evangelo di S. Giovanni e le Lettere di S. Paolo. Concetto e parola si con- servano per tutto il Medio Evo a indicare il ritorno dell’uomo a Dio, la sua restituzione a quella vita che egli ha perduto con la caduta di Adamo. A partire dal sec. xv la parola viene invece usata per indicare un rinnovamento morale intellettuale e politico ottenuto attraverso il ritorno ai valori di quella civiltà in cui si ritiene che l’uomo abbia trovato la sua realizzazione migliore, cioè alla ci- viltà greco-romana. Il R. fu pertanto portato a sottolineare polemicamente la sua propria dif- ferenza di orientamento dall’età medievale, nel suo tentativo di rapportarsi all’età classica e di desumere direttamente da essa l'ispirazione delle RIGORISMO proprie attività. D’altra parte però non mancano gli elementi di continuità tra il R. e il Medio Evo; e molti dei problemi preferiti da umanisti e filo- sofi del R., sono gli stessi di quelli dibattuti nel Medio Evo come sono le stesse le soluzioni. Si spiega quindi perchè l’interpretazione del R. è oscillata fra i due estremi di una contrapposizione radicale tra Medio Evo e R. o di una loro intrinseca continuità. La prima posizione fu assunta da Jacopo Burckhardt (Die Kultur der Renaissance in Italien, 1860) e ripetuta e amplificata da Gentile e dai suoi scolari. Laseconda concezione si ispira soprattutto all’opera di K. Burdach (Vom Mittelalter zu Refor- mation, Renaissance, Humanismus, 1926*), ed è stata portata alla sua forma estrema da G. Toffanin (Storia dell’ Umanesimo, 1933). I caratteri fondamen- tali dell’età del R. possono essere brevemente rica- pitolati nel modo seguente: 1° L’umanesimo cioè il riconoscimento del va- lore dell’uomo e la credenza che l’umanità si è realizzata nella sua forma perfetta nell’antichità classica (v., su questo punto, UMANESIMO). 2° Il rinnovamento religioso effettuato o con il tentativo di ricollegarsi a una rivelazione originaria cui si sarebbero ispirati gli stessi filosofi classici, come fa il platonismo (Cusano, Pico, Ficino); o mediante il tentativo di rifarsi alle fonti originarie del Cri- stianesimo saltando a piè pari la tradizione medie- vale, come fa la Riforma protestante (v. RIFORMA). 3° Il rinnovamento delle concezioni politiche ef- fettuato col riconoscimento dell’origine umana o naturale delle società e degli stati (Machiavelli) o col tentativo di ritornare alle forme storiche ori- ginarie o alla natura delle istituzioni sociali [giusna- turalismo (v.)]. 4° Il naturalismo cioè il risorto interesse per l’indagine diretta della natura che si manifesta sia nell’aristotelismo, negli indirizzi magici, sia nella metafisica della natura (Campanella e Bruno) sia nel primo affermarsi della scienza moderna. Sul R. cfr. la Bibliografia di H. BARON, « Renais- sance in Italien», in Archiv fiir Kulturgeschichte, 1927, 1931. Cfr. specialmente E. Cassirer, Indi- viduo e cosmo nella filosofia del R., e gli scritti di E. Garin (in particolare: Medio Evo e R., 1954). RIPETIZIONE (ingl. Repetition; franc. Ré- pétition; ted. Wiederholung). 1. Termine introdotto nella terminologia esistenzialistica da Kierkegaard che, per chiarirne il significato lo avvicinava alla espressione aristotelica quod quid erat esse (v. Es- SENZA; Sosranza). Tale espressione che alla let- tera significa ciò che l’essere era esprime infatti la necessità e immutabilità dell’essere, il suo ripetersi. Kierkegaard si è servito del concetto soprattutto per descrivere la natura della vita etica: a diffe- renza della vita estetica, la quale cerca di evitare la R. e vuole ad ogni istante la novità (perciò è simbolizzata da Don Giovanni) la vita etica si fonda sulla continuità, sulla scelta ripetuta che l’individuo fa di se stesso e del proprio compito, perciò è simboleggiata dal matrimonio (Die Wieder- holung, 1843; cfr. Diario, IV, A, 156). Heidegger a sua volta ha utilizzato il concetto per caratterizzare l’esistenza autentica, quale si realizza nell’angoscia. L’angoscia, in quanto libera l'uomo « dalle possi- bilità nulle e lo fa libero per quelle autentiche » consiste nel riprendere, per l'avvenire, le possibilità che sono già state nel passato: il che è appunto la R. (Sein und Zeit, $ 68b). R. è da questo punto di vista la decisione autentica. « La R. è l’esplicito tramandamento cioè il ritorno su possibilità del- l’Esserci che è già stato. L’autentica R. di una possibilità di esistenza già stata, il fatto che l’Es- serci si scelga i suoi eroi, si fonda esistenzialmente nella decisione anticipatrice; perchè è in essa che viene primariamente scelta la scelta la quale rende liberi per la lotta successiva e per la fedeltà a ciò che è da ripetere » (/bid., $ 74). Ciò vuol dire che la decisione autentica, in cui consiste la storicità dell’esistenza umana, è una R. o almeno (come Heidegger dice nello stesso luogo) una replica di possibilità passate. 2. Nella filosofia della scienza, il concetto di R. viene adoperato per esprimere il fondamento di ogni proposizione induttiva: la quale sarebbe (se- condo la dottrina di Hume) l’espressione di una R. di casi (cfr. Hume, Ing. Conc. Underst., V, 1). Da questo punto di vista, la R. è stata assunta spesso come la giustificazione delle proposizioni universali. K. Popper ha fatto la critica di questa dottrina che egli chiama «dottrina del primato della R.» (The Logic of Scientific Discovery, 1959, pag. 420 segg.) (v. INDUZIONE; TEORIA). RISCHIO (gr. xivòuvoc; ingl. Risk; francese Risque; ted. Wagniss, Gefahr). In generale, l’aspetto negativo della possibilità, il poter non essere. La no- zione ricorre frequentemente nelle filosofie in cui il riconoscimento del possibile come tale trova posto: come in quella di Platone e degli esistenzialisti con- temporanei. Aristotele considerava il R. come «l'avvicinarsi di ciò che è terribile » (Rer., II, 5, 1382 a 33). Platone considerava il R. come inerente all'accettazione di certe ipotesi o credenze e lo considerava « bello » (Fed., 114 d). Nell’esistenzia- lismo il R. è considerato inerente alla scelta che l'io fa di se stesso, e ad ogni decisione esistenziale (cfr. Jaspers, Phil., II, pagina 180, 403, ecc.) L’accettazione del R. implicito in questa scelta è uno dei punti cardini dell’esistenzialismo con- temporaneo: «La pretesa implicita nella decisione è fondata su di una indeterminazione effettiva cioè sulla possibilità che le cose si svolgano diver- samente da ciò che io decido; ma è anche fondata sull’assunzione, da parte di me che decido, di questo R. e sulla considerazione di tutte le possibili garanzie che posso conseguire + (ABBAGNANO, /ntro- duzione all’esistenzialismo, 4* ediz., 1957, I, 3). RISENTIMENTO (ingl. Resentment; fran- cese Ressentiment; ted. Ressentiment). L’odio im- potente contro ciò che non si può essere o non si può avere. La nozione è stata per la prima volta introdotta da Nietzsche nella Genealogia della mo- rale (1887): « La rivolta degli schiavi nella morale contemporanea, dice Nietzsche, comincia quando il R. stesso diviene creatore e genera valori; il R. di quegli esseri ai quali la vera reazione, quella del- l’azione, è negata e che perciò non trovano com- penso che in una vendetta immaginaria » (Genealogie der Moral, I, $ 10). La morale cristiana è, secondo Nietzsche, frutto del R. in questo senso: è una manifestazione dell’odio contro i valori propri della casta superiore aristocratica, inaccessibili agli in- dividui inferiori. Un’altra manifestazione del R. è, secondo Nietzsche, la rabbia segreta dei filosofi contro la vita per cui la filosofia è stata finora « la scuola della calunnia »: la calunnia s'intende del mondo reale o sensibile al quale i filosofi hanno cercato di sostituire il mondo ideale della meta- fisica e della morale (Wille zur Mackht, ediz. 1901, $ 259, 287). A sua volta Scheler ha insistito sulla azione del R. nel campo morale, pur negando che esso possa applicarsi alla concezione cristiana cui Nietzsche si riferiva. Non l’amore cristiano, ma l’umanitarismo e l'altruismo moderni sono, se- condo Scheler, un prodotto del risentimento. Il concetto di uguaglianza fra gli uomini, l’afferma- zione del soggettivismo dei valori e la subordinazione di tutti i valori a quelli di utilità sono, secondo Scheler altri tre prodotti del R. nella vita moderna (Uber Ressentiment, 1912; trad. franc., 1958) (cfr. R. K. MERTON, Social Theory and Social Structure, 2% ediz., 1957, pag. 155 sgg.). RISERVA (lat. Reservatio; ingl. Reservation; franc. Restriction; ted. Reservation). Uno dei punti tipici della casistica cattolica del xvi secolo e del probabilismo o lassismo: la tesi che una deliberata menzogna non impegna chi la pronunzia e non è peccato. Nella IX delle sue Lettere provinciali (1656) B. Pascal faceva una critica famosa di questa tesi. RISPETTO (gr. alc; lat. Respectus; inglese Respect; franc. Respect; ted. Achtung). Il riconosci» mento della dignità propria o altrui e il compor- tamento fondato su questo riconoscimento. Demo- crito per primo ha fatto del R. il principio dell’etica: « Non devi aver R. per gli altri uomini più che per te stesso nè agir male quando nessuno lo sappia più che quando tutti lo sappiano; ma devi avere per te stesso il massimo R. e imporre alla tua anima questa legge: non fare ciò che non si deve fare » (Fr., 264, Diels). Nel discorso con cui Pro- tagora espone, nel dialogo omonimo di Platone, l’origine della società umana è detto che «Zeus, temendo che l’intera nostra stirpe si estinguesse, mandò Ermes a portare fra gli uomini il R. reci- proco e la giustizia affinchè fossero princìpi ordi- natori delle città e creassero fra i cittadini vincoli di benevolenza » (Prot., 322 c). Il R. reciproco e la giustizia, sono, così intesi, i due ingredienti fonda- mentali dell’« arte politica» cioè della tecnica del vivere insieme. Aristotele aveva invece incluso il R. fra le emo- zioni, escludendolo dalle virtù (Ef. Nic., II, 7, 1108 a 32), e lo aveva contrapposto al timore (/bid., 10, 9, 1179b 11). E alla sfera delle emo- zioni lo riduce anche Kant considerandolo tuttavia come un sentimento sui generis, anzi come il solo sentimento morale e non patologico. Il sentimento del R. «è prodotto soltanto dalla ragione. Esso non serve al giudizio delle azioni, nè a fondare la legge morale oggettiva ma semplicemente come movente a fare in sè di questa legge la massima ». Il R. si riferisce sempre alle persone mai alle cose; ed è proprio di un essere razionale finito perchè suppone l’azione negativa della ragione sulla sen- sibilità, quindi la sensibilità. Perciò «a un essere supremo oppure a un essere libero da ogni sensi- bilità, al quale perciò la sensibilità non può essere un ostacolo per la ragion pratica, non può essere attribuito il R. alla legge» (Crir. R. Prat., I, I, cap. II). La nozione di R. è stata, anche fuori della filosofia, fortemente influenzata da queste os- servazioni di Kant. Per R. comunemente s’intende l'impegno a riconoscere negli altri uomini, o in se stesso, una dignità che si è in obbligo di salva- guardare. RITMO (ingl. R&ythm; franc. Rythme; tedesco Rhythmus). L’alternarsi di fenomeni opposti nello stesso processo. Questo è il significato che il ter- mine ha ricevuto nel positivismo il quale per la prima volta ne ha fatto un uso specifico, estenden- done il significato originario di movimento regolar- mente ricorrente. Spencer ha parlato così di una legge del R. secondo la quale il massimo e il minimo, la caduta e l’elevazione, si alternano nello sviluppo di tutti i fenomeni: legge che è uno dei princìpi fondamentali dell’evoluzione (First Principles, II, cap. 10). Su questa stessa legge ha insistito Ardigò (Op., II, pag. 227; V, pag. 232, ecc.). E più re- centemente Whitehead: « Nel modo del R., una serie di esperienze che formano una determinata successione di contrasti raggiungibili nell’ambito di un metodo preciso, è regolato in modo che la fine di un ciclo è lo stadio antecedente adatto per l’inizio di un altro ciclo simile. Il ciclo è tale che il suo proprio completamento produce le condizioni per la sua semplice ripetizione » (The Function of Reason, 1929, cap. I; trad. ital., pag. 25; cfr. The Aims of Education, 1929, cap. II, III). RITO (ingl. Rite; franc. Rite; ted. Ritus). Una tecnica magica o religiosa: cioè diretta o ad otte- nere un controllo delle forze naturali che le tecniche razionali non possono offrire o ad ottenere che sia mantenuta o conservata per l’uomo una certa ga- ranzia di salvezza nei confronti di queste forze. Il concetto del R. come «pratica relativa alle cose sacre » è stato chiarito da Durkheim (Formes élémentaires de la vie religieuse, 1912, passim) (cfr. T. Parsons, 7he Structure of Social Action, 23 ediz., 1949, pag. 420 sgg.; 673 sgg., ecc.; cfr. RE- LIGIONE). RITORNO (gr. èriorpoph; lat. Conversio; in- glese Return; franc. Retour; ted. Riickgang). 1. Nel neoplatonismo antico, il movimento per cui l’anima ripercorre a ritroso il processo dell’emanazione, ri- congiungendosi, mediante la contemplazione, alla sua origine: Bene, Causa, Dio, Unità. Diceva Plotino: «La purificazione è necessaria all’unione: l’anima si unisce al Bene ritornando verso di esso. Ma dunque la conversione segue alla purificazione? Proprio così, il R. accade dopo la purificazione. Il R. è dunque la virtù dell’anima? Sì, è la virtù che risulta e deriva all’anima dal ritorno. E che cosa è il R.? È la contemplazione e l'impronta che gli oggetti intelligibili producono nell’anima allo stesso modo in cui la visione è prodotta dagli oggetti visibili » (Enn., I, 2, 4). Proclo generalizzava il concetto del R. attribuendolo a tutte le mani- festazioni dell’essere, delle quali ognuna effettue- rebbe il R. a suo modo. «Ogni essere compie il suo R. o soltanto rispetto alla sostanza o anche rispetto alla vita o alla conoscenza: giacchè o ha acquistato dalla Causa soltanto l’essere o ha avuto anche la vita o ha avuto anche la facoltà conosci- tiva. In quanto solo è, effettua un R. alla Sostanza; in quanto vive, ritorna alla Vita e in quanto conosce, alla Conoscenza. Difatti allo stesso modo in cui è proceduto dalla Causa prima, così vi ritorna; e le misure del R. sono determinate dalle misure della processione (Ist. Teol., 39). 2. Il Rinascimento ricollegandosi a questa con- cezione generalizzata di Proclo considerò il R. ai principi come l’unica via per effettuare un rinnova- mento radicale della vita singola e associata del- l’uomo. Pico della Mirandola univa il vecchio concetto neoplatonico del R. ai princìpi con quello nuovo di via del rinnovamento (De Ente et uno, VII, Proem.). Machiavelli considerava la « ridu- zione ai princìpi » come il solo modo in cui le co- munità umane potessero rinnovarsi e sfuggire alla decadenza e alla rovina: in quanto, egli diceva, tutti i princìpi hanno in sè qualche bontà dalla

quale le cose possono riprendere la loro vitalità e la loro forza primitiva (Discorsi, III, 1). E Cam- panella vedeva la via del rinnovamento religioso nello stesso principio che egli riteneva espresso dal salmo XXII: Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae, le cui prime due parole egli poneva come titolo dello scritto con cui annunciava il rinnovamento religioso (Quod reminiscentur, 1615). D'altronde la stessa Riforma protestante obbediva all'esigenza di ritornare ai princìpi, rifacendosi direttamente alla fonte pri- mitiva della religiosità cristiana cioè alla Bibbia; e dall’altro lato la Controriforma intese ricondurre la Chiesa alla forza espansionistica che essa posse- deva nel periodo delle sue origini. Un’altra forma in cui si presentò lo stesso principio è quella del R. alla natura: la natura essendo considerata il più delle volte come principio o l’origine degli esseri. In questa forma il R. ai princìpi è un’esi- genza frequente nel pensiero dei secoli xv e xvi. RITSCHLIANISMO (ingl. Ritschlianism; fran- cese Ritschlianisme; ted. Ritschlianismus). Una cor- rente del cristianesimo protestante del xrx secolo che fa capo ad Alberto Ritschl (1822-89), secondo la quale la religione si fonda esclusivamente sul sentimento e la rivelazione interiore: rivelazione che si concreta specialmente nei giudizi di valore, che sono indipendenti dai fatti e sollevano l’uomo a una sfera superiore a quella della sua limitazione empi- rica. La comunità dei fedeli, mentre rafforza la rivelazione del sentimento interno, ne attua le esi- genze; il regno di Dio si realizza per l'appunto in essa (cfr. K. BARTH, Die protestantische Theo- logie in 19. Jahrhundert, 1947). RIVELAZIONE (ingl. Revelation; franc. Révé- lation; ted. Offenbarung). La manifestazione della verità o della realtà suprema agli uomini. La R. è stata intesa in due modi: 1° come R. storica; 2° come R. naturale. 1° La R. storica è quella che ogni religione positiva assume a suo fondamento. Essa consiste nella illuminazione di cui sono stati gratificati uno o più membri della comunità che hanno avuto come compito quello di incamminare la comunità stessa sulla via della salvezza. La R. in questo senso è un fatto storico, cui si attribuisce l’ori- gine della tradizione religiosa. 2° La R. naturale è la manifestazione di Dio nella natura e nell’uomo. Talvolta questa formaR. viene ammessa insieme alla prima, talaltra viene negata o subordinata alla prima. Soltanto il concetto di R. naturale ha valore filosofico, l’altro essendo specificatamente religioso. Tuttavia il concetto della realtà naturale ed umana come manifestazione di un Principio soprannaturale o divino è stato attinto dalla filosofia alla stessa religione ed è proprio delle filosofie che hanno carattere o finalità religiosa. Nell’antichità, quel concetto fu proprio dei neo- platonici per i quali il mondo, come prodotto del- l'emanazione divina, rivela, almeno parzialmente © imperfettamente, la stessa natura divina che lo produce. Da questo punto di vista Scoto Eriugena chiamava reofania (v.) il processo che da Dio discende all’uomo e dall'uomo ritorna a Dio; e chiamava teofania anche tutta l’opera della crea- zione in quanto manifesta la sostanza divina che in essa e attraverso di essa diventa visibile (De divis. nat., I, 10; V, 23). Questo concetto è ritornato frequentemente nella storia della filosofia; ma la sua massima ricorrenza è stata la filosofia del romanticismo (v.). Diceva Fichte, ad esempio: «Il sapere è l’esistenza, la manifestazione, la per- fetta immagine della forza divina » (Grundziige der gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, IX). Questo pensiero domina anche le filosofie di Schelling e Hegel. Bisogna tuttavia osservare che in esse la R. non è soltanto manifestazione: è anche, come diceva Fichte, esistenza (cioè realizzazione) di Dio. È questo il tratto specifico che il concetto di R. assume nel romanticismo e che conserva in forma più o meno decisa in quelle filosofie della R. che costituiscono il secondo romanticismo e che hanno come insegna la difesa della tradizione. Le filosofie di Maine De Biran, di Rosmini, di Gioberti, di Mazzini muovono tutte dal principio che la coscienza sia la R. di Dio. Maine De Biran non faceva che esprimere a questo proposito una convinzione assai comune asserendo che la R. non è soltanto quella esterna della tradizione orale o scritta ma anche quella interna o della coscienza giacchè l'una e l’altra vengono direttamente da Dio ((Euvres, ed. Naville, III, pag. 96). Senza la tonalità religiosa che essa aveva nel secolo scorso, il concetto di R. è stato assunto a fondamento della filosofia di Heidegger. La R. dell’essere non è tuttavia mai perfetta ed esauriente, secondo Heidegger, perchè l’essere si nasconde nello stesso tempo che si rivela: « L’es- sere sottrae se stesso mentre si rivela nell’ente. Così l’essere, illuminando l’ente, nel contempo lo svia e lo avvia verso l’errore » (Holzwege, pag. 310). La R. dell’essere accade, secondo Heidegger, at- traverso il linguaggio: il quale per Heidegger non è strumento umano ma l’essere stesso nella sua R. (Brief tiber den Humanismus, pag. 81). D'altrondla concezione del linguaggio come R. non è oggi soltanto di Heidegger (v. LinguaGGio): il che è un’altra prova della persistenza in filosofia del con- cetto teologico di rivelazione. RIVOLUZIONE (ingl. Revolution; franc. Ré- volution; ted. Revolution). La violenta e rapida distruzione di un regime politico; oppure il mu- tamento radicale di una qualsiasi situazione cul- turale. In questo secondo senso si parla di « R. filosofica » o « artistica » o « letteraria » o «del co- stume ?, ecc. o anche di « R. copernicana». Ma è chiaro che in questo senso l’uso della parola è diretto soltanto a sottolineare l’importanza del mu- tamento intervenuto e non ha un significato pre- ciso. L'unico significato preciso del termine è quello politico, che esso ha incominciato ad acquistare nel sec. xvmi. Le vere e proprie R. sono state quella inglese, quella americana, quella francese e quella russa; ma talvolta si chiamano R. anche le tra- sformazioni politiche che hanno avuto minore im- portanza nella storia generale del mondo ma se- gnano date fondamentali nella storia di un paese determinato. ROMANTICISMO (ingl. Romanticism; fran- cese Romantisme; ted. Romanticismus). Si indica con questo nome il movimento filosofico letterario e artistico che si iniziò negli ultimi anni del sec. xvm, ebbe la sua massima fioritura nei primi decenni del sec. xIx e costituì l’impronta propria di questo secolo. Il significato corrente del termine « roman- tico » che significa « sentimentale » deriva da uno degli aspetti più appariscenti del movimento roman- tico cioè dal riconoscimento del valore da esso attribuito al sentimento: una categoria spirituale che l’antichità classica aveva ignorato o disprez- zato, che il ’700 illuministico aveva riconosciuto nella sua forza e che nel R. acquista un valore predominante. Questo valore predominante è la principale eredità che il R. riceve dal movimento dello Sturm und Drang (v.), il quale costituisce il tentativo di superare i limiti che l’illuminismo aveva riconosciuti propri della ragione umana con l’appello all’esperienza mistica e alla fede. Ciò che la ragione non può dare, può darlo invece, secondo i filosofi dello Sturm und Drang, Haman, Herder, Jacobi, la fede intesa pertanto come fatto di sentimento o di esperienza immediata. Ma, proprio per questo, la ragione continuava ad essere per i seguaci dello Sturm und Drang (tra i quali ci furono Goethe e Schiller nella loro giovinezza) ciò che era per l’Illuminismo: una forza umana finita, capace bensì di trasformare gradualmente il mondo, ma non assoluta nè onnipotente, e perciò sempre più o meno in contrasto con il mondo stesso ed in lotta con la realtà che essa è destinata a trasformare. Dallo Sturm und Drang si passa al R. solo quando questo concetto della ragione viene abbandonato e per ragione comincia ad intendersi una forza infinita (cioè onnipotente) che abita il mondo e lo domina e perciò costituisce la sostanza stessa del mondo. Il principio dell’auto- coscienza (v.) cioè dell’infinità della coscienza che è tutto e fa tutto nel mondo, è il principio fonda- mentale del R. e da esso derivano i tratti salienti del movimento. Fichte identificò per la prima volta la ragione con l’Io infinito o Autocoscienza assoluta e ne fece la forza dalla quale l’intero mondo è prodotto. L’infinità in questo senso era un'infinità di coscienza o di potenza, non un'infinità di esten- sione o di durata; e trovava il suo modello in concetti della filosofia neoplatonica e specialmente in Plo- tino. Hegel contrapponeva a questo proposito al falso infinito o cattivo infinito, che è diverso dal finito cioè dalla realtà o dal mondo e si contrappone a esso e cerca di trasformarlo o di superarlo, il vero infinito, che si identifica con il finito stesso cioè con il mondo e si realizza in esso e per esso. Questo infinito è un Principio spirituale creativo: quello che Fichte chiamò /o, Schelling Assoluto, e Hegel Idea. Ma l’infinito o meglio l’infinità di coscienza può essere intesa in due modi. In primo luogo, come attività razionale che si muove da una determi- nazione all’altra con necessità rigorosa sì che ogni determinazione può essere dedotta dall’altra asso- lutamente e a priori. È questo il concetto che del- l’infinità di coscienza ebbero Fichte, Schelling ed Hegel (il secondo tuttavia solo in una prima fase della sua filosofia). In secondo luogo, l’infinità di coscienza può essere intesa come un'attività libera,

amorfa cioè priva di determinazioni rigorose e tale che si pone continuamente al di là di ogni sua determinazione: e in questo senso l’infinità di coscienza è sentimento. ll sentimento è l’infinito nella forma dell’indefinito e in questa forma rico- nobbero l’infinità di coscienza Schleiermacher e la cosiddetta scuola romantica (F. Schlegel, Novalis, Tieck, ecc.). Il R. letterario si iniziava infatti con l’opera di Federico Schlegel (1772-1829) che pubblicava, dal 1798 al 1800, in collaborazione con il fratello Au- gusto Guglielmo, il periodico Arhenaeum che fu il primo organo della scuola romantica. Federico Schlegel esplicitamente additava in Fichte l’inizia- tore del movimento romantico cioè lo scopritore del concetto romantico dell’infinito. Ma interpre- tava l’infinito come al di fuori e al di sopra della razionalità, come infinità di sentimento. Lo stesso concetto dell’infinito ricorre nel poeta e letterato Ludovico Tieck e in Novalis: il quale sosteneva un idealismo magico, secondo cui il mondo non è che una grande opera di poesia. A questa stessa corrente appartiene il teologo Federico Schleier- ROMANTICISMO macher (1768-1834) che definì la religione come «il sentimento dell’infinito ». Su questa interpretazione del principio infinito, si fonda la supremazia che talvolta il R. attribuisce all’arte. Se infatti l'infinito è sentimento, esso si rivela meglio nell’arte che nella filosofia: giacchè la filosofia è razionalità e l’arte invece appare airomantici come « espressione del sentimento +. Schel- ling, che inclinava verso questa interpretazione ritenne appunto che la migliore manifestazione dell’Assoluto si avesse nell’arte; che il mondo fosse una specie di poema o di opera d’arte il cui autore è l'Assoluto; e che l’esperienza artistica fosse per l’uomo il solo mezzo efficace per avvicinarsi all’Assoluto cioè al modo in cui l'Assoluto ha dato origine al mondo. Quando il movimento romantico si diffonde al di fuori della Germania, è proprio quest’aspetto del R. che viene assunto come bandiera. Il R. di Madame de Staél e di Chateaubriand consiste appunto prevalentemente nell’esaltazione dei valori del sentimento; e in questa stessa forma il R. trovò la sua espressione in Italia. Queste due interpretazioni dell’autocoscienza fu- rono spesso in contrasto; ed Hegel specialmente condusse la polemica contro il primato del senti- mento. Ma è proprio il loro contrasto e la loro polemica che costituisce il tratto fondamentale del movimento romantico nel suo complesso. Tuttavia appartiene soltanto alla scuola romantica del senti- mento uno dei tratti più appariscenti del R., l’îronia: che è l’impossibilità, per Ja coscienza infinita, di prender sul serio e considerare come cosa salda i suoi prodotti (la natura, l’arte, l’io stesso) nei quali non può vedere altro che le proprie manifesta- zioni provvisorie. Sono invece caratteri comuni e fondamentali di tutte le manifestazioni del R. l’ottimismo, il provvi- denzialismo, il tradizionalismo e il titanismo. L’of- timismo è la convinzione che la realtà è tutto ciò che dev'essere ed è, ad ogni momento, razionalità e perfezione. È per questo ottimismo che il R. tende a esaltare il dolore, l’infelicità e il male. L'’infinità dello spirito infatti si manifesta egual- mente in questi aspetti della realtà ma li supera e li concilia nella sua perfezione. Hegel ci presenta il mondo romantico nella felicità della sua perfetta pacificazione razionale. Schopenhauer ce lo presenta nell’infelicità dei suoi contrasti irrazionali e pur tuttavia soddisfatto di riconoscersi in questo con- trasto. La volontà irrazionale di Schopenhauer è un principio non meno ottimistico della ragione assoluta di Hegel. Con l’ottimismo metafisico del R. si connette il suo provvidenzialismo storico. La storia è un processo necessario nel quale la ragione infinitamanifesta o realizza se stessa, sicchè in essa non c’è nulla di irrazionale o d’inutile. Il R. si pone, su questo punto, nel più radicale contrasto con l’il- luminismo. L’illuminismo contrappone tradizione e storia: alla forza della tradizione che tende a con- servare e a perpetuare pregiudizi, ignoranze, violenze e frodi, l’illuminismo oppone la storia come rico- noscimento di queste cose per quelle che sono e sforzo razionale di liberazione da esse. Per il R. invece tutto ciò che è tramandato è manifestazione della Ragione infinita: è verità e perfezione. Pertanto lo spirito illuministico è critico e rivoluzionario; lo spirito romantico è esaltativo e conservatore. Il con- cetto della storia come piano provvidenziale del mondo domina tutta la filosofia dell’800; e la stessa filosofia del ’900 non arriva a liberarsene se non attraverso amare esperienze storiche e cul- turali. È in questa concezione della storia che si manifesta meglio l’affinità tra l’idealismo e posi- tivismo nel senso comune del romanticismo. Comte ha lo stesso concetto che della storia avevano Fichte e Schelling e che più tardi ebbero Croce e gli epi- goni novecenteschi del romanticismo. La storia, come manifestazione di un principio infinito (Io, Autocoscienza, Ragione, Spirito, Umanità o co- munque si chiami) è razionalità intera e perfetta e non conosce nè l’imperfezione nè il male. Il colmo di questo concetto della storia si ha in Hegel (ripetuto da Croce): la storia non è progresso al- l’infinito, giacchè, se fosse tale, ogni suo momento sarebbe meno perfetto dell’altro; essa è infinita perfezione di ogni suo momento. La contrappo- sizione hegeliana del «vero infinito » al «cattivo

infinito» non significa altro. Ovviamente, in un simile concetto della storia, non c’è posto per l'individuo e le sue libertà, per le quali l’illumi- nismo si era battuto. C'è posto solo per gli « eroi » o «individui della storia cosmica» che sono gli strumenti di cui la provvidenza storica si avvale per realizzare astutamente i suoi fini. Un aspetto importante del provvidenzialismo romantico è il rradizionalismo: l'esaltazione della tradizione e delle istituzioni in cui essa si incarna è difatti uno degli aspetti tipici del movimento romantico. A questo atteggiamento fu dovuta la rivalutazione del Medio Evo che è caratteristica del romanticismo. Il Medio Evo era apparso all’illu- minismo (come già all’umanesimo) un’epoca di decadenza e di barbarie: cioè come l’epoca in cui fossero andati smarriti i valori umani e razionali che l’antichità classica aveva creati. Per il R. non esistono epoche di decadenza o di barbarie giacchè tutta la storia è razionalità e perfezione. Nel Me- dio Evo anzi, secondo il R., si possono e si debbono scorgere le origini del mondo moderno meglio che nel mondo classico: sicchè il ritorno al Medio Evocostituisce una delle parole d'ordine dell’atteggia- mento romantico. In virtù dello stesso atteggia- mento il R. tedesco cominciò ad esaltare le tradi- zioni originarie della nazione tedesca; e nacque la prima forma del nazionalismo che doveva diffon- dersi e diventare uno dei tratti salienti della cultura europea nel sec. xx. Il concetto di nazione è difatti composto di elementi tradizionali: la razza, la lingua, il costume, la religione: elementi che non possono essere negati o rinnegati senza tradimento perchè costituiscono ciò che la nazione è stata già da sempre. Il concetto settecentesco di popolo era invece definito dalla volontà e degli interessi comuni degli individui. Tradizionalismo e nazionalismo affondano le loro radici nel comune terreno del provvidenzialismo romantico. Infine, uno degli aspetti fondamentali del R., e tra i più appariscenti, è il rifanismo. Infatti il culto e l’esaltazione dell’infinito hanno, come loro con- troparte negativa, l’insofferenza o l’insoddisfazione del finito. E in questa insofferenza (o insoddisfazione) si radica l’atteggiamento di ribellione verso tutto ciò che appare o è un limite o una regola e la sfida incessante a tutto ciò che, per la sua finitudine, appare impari o inadeguato nei confronti dell’in- finito. Prometeo è assunto come il simbolo di questo titanismo, con una interpretazione che è molto distante dallo spirito dell’antico mito greco. Per questo Prometeo era colui che aveva infranto, per rendere possibile la sopravvivenza del genere umano, la legge del fato e che giustamente subiva le conse- guenze di questa infrazione. Per il R., invece, è il simbolo della sfida e della ribellione al finito: di una sfida e di una ribellione, cioè, che non traggono la loro ragione da ciò cui s'oppongono ma solo dal fatto che ciò a cui s’oppongono non è l'infinito. L'atteggiamento del titanismo non conduce alla critica delle situazioni di fatto e allo sforzo di tra- sformarle, perchè non ritiene che una situazione di fatto sia o possa essere superiore o preferibile all’altra; ma si esaurisce in una protesta univer- sale e generica e non può impegnarsi in alcuna decisione concreta. Il culto e l’esaltazione dell’infinito, il non con- tentarsi di meno dell’infinità, costituiscono i tratti salienti dello spirito romantico. Come già si è detto, lo stesso positivismo rientra in questo spirito. Esso estende il concetto di progresso a tutta la storia del mondo: questo significa, infatti, « evoluzione ». Esso fa della storia umana un progresso neces- sario e infallibile. Infine esso fa della scienza, che è la manifestazione umana da esso prediletta, l’in- finito stesso della verità e la elegge ad unica guida degli uomini in tutti i campi. Gli aspetti che il R. rivestì nella politica, nel- l’arte e nel costume sono strettamente collegati con i caratteri ora chiariti. Nella politica, il R. è di- fesa ed esaltazione delle istituzioni umane fonda- mentali, come son quelle nelle quali s’incarna il Principio infinito: lo stato e la chiesa, con tutto ciò che implicano. Nell'arte, esso cerca la realiz- zazione dell’infinito in forme grandiose e dram- matiche in cui i contrasti sono portati all’estremo per poi conciliarsi e pacificarsi in forma altret- tanto estrema e definitiva. Nel costume, l’amore romantico va in cerca dell'unità assoluta fra gli amanti, della loro identificazione nell’infinito; e a questa unità o identificazione sacrifica il senso au- tentico del rapporto amoroso e la sua possibilità di costituire la base di una vita comune (v. AMORE). ROSMINIANESIMO. S’intendono con questo termine i tratti salienti della filosofia di Antonio Rosmini Serbati (1797-1855) e specialmente: 1° il tradizionalismo cioè la preoccupazione di difendere i valori tradizionali e di giustificare la tradizione come prodotto o manifestazione di Dio; 2° l’on- tologismo cioè la tesi che lo spirito umano fruisce di una immediata e certissima, per quanto par- ziale, conoscenza dell’essere e che tale conoscenza è la base di tutto il sapere (v. OnToLOGIA); 3° lo scolasticismo cioè la concezione della filosofia come strumento diretto a giustificare le verità della re- ligione. ROTTURA (ted. Zerrissenheit). Termine intro- dotto dalle filosofie esistenzialistiche. Per Jaspers, la R. del mondo si ha quando la ricerca diretta a trovare una totalità assoluta e onnicomprensiva mette capo a una molteplicità di prospettive, ognuna delle quali è relativa a un certo punto di vista e nessuna delle quali perciò può valere come un mondo (Phi/., I, pag. 64 sgg.). Secondo Heidegger, la R. del mondo si ha con la scienza e con la tec- nica che organizzano il distacco dell'uomo dalla natura (Erlduterungen zu Hòlderlin, pag. 271 sgg.).SABELLIANISMO (ingl. Sabellianism; fran- cese Sabellianisme; ted. Sabellianismus). La dottrina trinitaria sostenuta da Sabellio nella prima metà del n secolo d. C.: dottrina che insistendo sull’unità della Sostanza divina riduceva le Persone divine a tre modi o manifestazioni dell’unica Sostanza. La dottrina fu chiamata perciò anche modalismo (v.). SACERDOTALISMO (ingl. Sacerdotalism). Termine adoperato soprattutto da scrittori anglo- sassoni per designare la tendenza ad accordare, nella religione, la massima importanza all’aspetto ecclesia- stico e sacramentale a scapito di quello interiore o spirituale. SACRIFICIO (ingl. Sacrifice; franc. Sacrifice; ted. Opfer). La distruzione di un bene o la rinuncia ad esso, in onore della divinità. Il S. è una delle più diffuse tecniche religiose. Il suo scopo è o la purificazione cioè la liberazione da qualche colpa o peccato: nel qual caso il S. appare come disinte- ressato e cioè senza un immediato fine utilitario; 0 la consacrazione che ha sempre un fine più o meno utilitario consistendo nel persuadere la divinità a concedere la sua garanzia alla cosa o alla persona che si consacra. Sia la purificazione che la consacra- zione banno il più delle volte carattere simbolico: nel senso che il dono sacrificato non ha soltanto il valore economico che la comunità gli attribuisce ma anche una certa relazione simbolica con lo scopo purificatorio o consacrativo della cerimonia sacrificale. Questi tratti sono riconoscibili nelle tec- niche sacrificali di tutte le religioni, quali che sia il loro grado di sviluppo o di raffinamento intel- lettuale (cfr. S. REINACH, Cultes, mythes et religions, 1905; E. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912; A. Loisy, Essai historique sur le sacrifice, 1920; P. RADIN, Primitive Religion, 1937). SACRO (gr. tepéc; lat. Sacer; ingl. Sacred; fran- cese Sacré; ted. Heilig). L’oggetto religioso in ge- nerale: cioè tutto ciò che è l’oggetto di una garanzia soprannaturale o che concerne tale garanzia. Poichè questa garanzia può essere talvolta negativa o proi- bitiva, il S. ha il duplice carattere di ciò che è santo e di ciò che è sacrilego cioè di ciò che è S. perchè prescritto o esaltato dalla garanzia divina o di ciò che è S. perchè proibito o condannato dalla stessa garanzia (cfr. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912). R. Otto ha chiamato questi due aspetti rispettivamente quelli del fascinoso e del tremendo (Das Heilige, 1917). Heidegger, interpretando una poesia di Hélderlin che identifica la natura con il S., ha considerato il S. stesso come la radice del destino degli uomini e degli dèi. «Il S., egli ha detto, decide inizial- mente intorno agli uomini e agli dèi, se siano, chi siano, come siano e quando siano » (Er/auter- ungen zu Holderlin, 1943, pag. 73-74). Heidegger afferma pure che «il S. non è S. perchè divino, ma il divino è divino perchè è S.» (/bid., pag. 58). SAGACIA (gr. edovveola; lat. Sagacitas; inglese Sagacity; fran. Sagacité; ted. Sagazitàt). La perspi- cacia nell’indagine. Aristotele identificò la S. con l’apprendere (Et. Nic., VI, 10, 1143 a 17). E Kant la definì come «il dono naturale che consiste nel giu- dicare in precedenza (iudicium praevium) dove si può trovare la verità e di utilizzare le più piccole circo- stanze per scoprirla » (Antr., I, $ 56). SAGGEZZA (gr. ppémot; lat. Sapientia, Pru- dentia; ingl. Wisdom; franc. Sagesse; ted. Weisheit). In generale, la disciplina razionale delle faccende umane: cioè il comportamento razionale in ogni campo o la virtù che determina ciò che è bene o male per l’uomo. Il concetto di S. fa tradizional- mente riferimento alla sfera propria delle attività umane ed esprime la condotta razionale nell’am- bito di questa sfera, cioè la possibilità di dirigerla nel modo migliore. La S. non è la conoscenza di cose alte e sublimi, remote dalla comune umanità, come la sapienza (v.): è la conoscenza delle fac- cende umane e del miglior modo di condurle. Il primato accordato alla S. o alla sapienza denuncia l’interpretazione fondamentale che si dà della filo- sofia: il primato accordato alla sapienza è proprio del concetto della filosofia come contemplazione pura; il primato accordato alla S. esprime il con- cetto della filosofia come guida dell’uomo nel mondo (v. FILOSOFIA, JI). La netta distinzione tra S. e sapienza è stata fatta da Aristotele. Platone non distingue nep- pure tra i due termini.|Egli chiama sapienza (vogla) la scienza che presiede all’azione virtuosa (Rep. IV, 443 e; cfr. 428b) che è lo stesso di saggezza! E della S. dice che «la più alta e di gran lunga la più bella è quella che si occupa degli ordinamenti politici e domestici e a cui si dà il nome di prudenza e di giustizia » (Conv., 209 a). Un sapere fine a se stesso è estraneo all’impostazione della sua filo- sofia. Questo sapere viene invece esaltato da Ari- stotele come la forma più alta e divina del sapere stesso (v. SAPIENZA): di fronte ad esso la S. si ab- bassa a cosa meramente umana, che perciò ha minor pregio. Da questo punto di vista, essa è definita come «l’abito pratico razionale che con- cerne ciò che è bene o male per l’uomo » (Er. Nic., VI, 5, 1140 b 4). Ma «l’uomo non è l’essere mi- gliore del mondo » (Zbid., VI, 7, 1141 a 21). È un essere mutevole; e la S. che lo concerne è mutevole anch'essa, mentre la sapienza è sempre la stessa (Ibid., 1141 a 20 sgg.). Aristotele pertanto pone al di sopra di tutto la sapienza il cui oggetto è ciò che non può mutare nè essere diverso da com'è: il necessario. Questa distinzione e contrapposizione di Aristo- tele si sono mantenute nei secoli; e il modo di intendere la sapienza o S. (che in alcune lingue sono indicate dalla stessa parola) rivela l’orienta- mento generale di una determinata filosofia verso la contemplazione o verso l’azione. La filosofia post-aristotelica fece prevalere l’ideale della sag- gezza. Epicuro diceva che la S. «da cui nascon tutte le virtù è anche più preziosa della filosofia » (Lett. a Menec., 132). Gli Stoici identificavano con la S. la virtù intera, dalla quale tutte le altre di- pendono (Diog. L., VII, 125-26). Il neoplatonismo dall’altro lato, tornava all’esaltazione della sapienza (PLOTINO, Enn., V, 8, 4). Mentre S. Tommaso ripro- duceva la distinzione aristotelica chiamando la S. prudentia e considerandola «la consigliera intorno alle cose che concernono l’intera vita dell’uomo e anche l’ultimo fine della vita umana» (S. 7à., II, 1, q. 57, a. 4). Il mondo moderno si riattacca di pre- ferenza all’ideale pratico della S., che ritorna in Cartesio (Princ. Phil., pref.) ed in Leibniz. Que- st’ultimo unisce nella sua definizione l’aspetto teo- retico e l'aspetto pratico: «la S. è la perfetta cono- scenza dei princìpi di tutte le scienze e dell’arte di applicarli» (De /a sagesse, Op.,ed. Erdmann, pag. 673): ma l’inclusione dell’aspetto pratico significa il rifiuto dell’ideale della sapienza. Allo stesso ambito appar- tiene la definizione di Kant: «La S. consiste nel- l’accordo della volontà di un essere col suo scopo finale » (Mer. der Sitten, II, $ 45). Hegel accentuava il carattere umano e mondano della S., parlando di una S. mondana (Weltweisheit) che il Rinascimento avrebbe contrapposto, come ragione umana, alla ragione divina cioè alla reli- gione (Geschichte der Philosophie, ed. Glockner, I, pag. 92 sgg.). E Schopenhauer accentua ancora di più il carattere mondano della S. intendendo per essa «l’arte di trascorrere la vita nel modo più piacevole e felice possibile » (Aphorismen zur Lebensweisheit, Pref.). Ai filosofi contemporanei la parola S., come ‘sapienza’, sembra troppo solenne perchè essi si soffermino a chiarirne il concetto. La S. rimane tuttavia legata, per loro come per gli antichi, alla sfera delle faccende umane e si può dire costituita dalle tecniche vecchie o nuove di cui l’uomo di- spone per la migliore condotta della sua vita. SAGGIO (gr. copéc; lat. Sapiens; ingl. Sage; franc. Sage; ted. Weise). La figura stereotipa del S. fu delineata nella filosofia greca dell'età ales- sandrina da Epicurei, Stoici e Scettici, ma soprat- tutto dagli Stoici, e rimase fissata nella tradizione con certe caratteristiche fondamentali. Il carattere primo e fondamentale che tutt’e tre le scuole attri- buiscono al S. è la serenità o l’indifferenza alle vicende o ai movimenti umani: serenità che esse chiamano con i nomi ararassia, aponia, o aparia (v.). Gli altri caratteri sono i seguenti: 1° L’isolamento, cioè la netta separazione del S. dagli altri mortali, con i quali non ha nulla in comune. Gli Stoici portavano questa separazione all'estremo limite ammettendo due specie di uomini, quelli che praticano la virtù e quelli che non la pra- ticano e ritennero che i primi sono S. tutti gli altri pazzi (StoBEO, Ecl., II, 7, 11; 65, 12). 2° L’improgredibilità, per la quale chi non è S. è stolto o pazzo e non può esserci un S. che sia più S. di un altro. « Chi è immerso nell'acqua, dice Cicerone esponendo questa dottrina, se non è lontano dalla superficie tanto da poter quasi affio- rare, non può respirare più che se fosse ancora sul fondo ...: allo stesso modo chi si è avanzato al- quanto verso l’abito della virtù non è soggetto all’infelicità meno di chi non si sia avanzato af- fatto » (De Fin., III, 14, 48). 3° L’autarchia. Questo carattere è stato già esaltato da Aristotele: «Il giusto ha ancora bi- sogno di persone che egli possa trattare giusta- mente e con le quali essere giusto, similmente anche l’uomo moderato e il coraggioso e ciascuno degli altri uomini virtuosi: il S. invece può contemplare da sè solo, tanto più quanto più è S.; forse è meglio se ha collaboratori, tuttavia egli è del tutto auto- sufficiente » (Er. Nic., X, 7, 1177a 30). Aristotele tuttavia si riferiva all’attività contemplativa, cui li- mitava l’attività propria del S.; le scuole post-ari- stoteliane estendono il carattere di auto-sufficienza del S. a tutte le manifestazioni della sua vita, non limitata necessariamente alla contemplazione. 4° La rinuncia. Fu questo il carattere del S. sul quale insistettero soprattutto gli Stoici latini, Epitteto, Seneca e Marco Aurelio. La distinzione stabilita da Epitteto tra le cose su cui l’uomo ha potere e che sono i suoi stessi stati d’animo e le cose su cui non ha potere, che sono le cose esterne, fa sì che il S. deve prescindere dalle cose esterne e riporre il bene e il male solo in quelle che sono in suo potere (Manuale, 31). Questo im- plica la rinuncia del S. ad occuparsi delle cose stesse e la sua accettazione della massima « sop- porta e astieniti» (A. GELLIO, Noct. Att., XVII, 19, 6). 5° La coscienza. Questo tratto fu aggiunto alla figura del S. dal neoplatonismo che esaltò soprattutto in lui la facoltà di guardare in sè stesso e di trarre tutto da sè. Dice Plotino: «Il S. trae da se stesso ciò che egli manifesta agli altri: egli guarda solo a se stesso: non solo tende a unifi- carsi e a isolarsi dalle cose esterne ma è rivolto a se stesso e trova dentro di sè tutte le cose + (Enz., III, 8, 6; cfr. I, 4, 4). Questo movimento per cui il S. guarda se stesso e trova tutto in se stesso è la coscienza (v.); e da questo punto di vista solo nel S. la coscienza si realizza e vive. SALTO (lat. Saltus; ingl. Leap; franc. Saut; ted. Sprung). Termine adoperato da Kierkegaard per indicare il « passaggio qualitativo » cioè il pas- saggio brusco e senza mediazione da una categoria al- l’altra o da una forma di vita all’altra (per es., dalla vita etica alla vita religiosa) o in genere da uno stato all’altro (per es., dall’innocenza al peccato, dal peccato alla fede, ecc.). Kierkegaard contrap- pose questa nozione di S. alla nozione hegeliana di mediazione (v.) e la illustrò ravvicinandola: 1° Al- l’entimema (v.) cioè al sillogismo contratto nel quale si omette una premessa e si passa direttamente dalla promessa maggiore alla conclusione (« Tutti gli animali sono mortali, perciò l’uomo è mor- tale +) (Diario, VIA, 33). La parola S. si trova a questo proposito adoperata da Kant: « Un S. (saltus) nella deduzione o nella prova è la connes- sione di una premessa con la conclusione, sicchè l’altra premessa viene tralasciata » (Logik, 1800, $ 91). 2° All’analogia e all’induzione: la prima delle quali stabilisce un rapporto tra cose qualitativa- mente diverse, la seconda delle quali passa dal particolare all’universale (Diario, V A, 74). 3° Alla dottrina hegeliana del passaggio dal mutamento quantitativo a un mutamento qualitativo. Questa è la fonte autentica del concetto kierkegaardiano. Diceva Hegel: « L'acqua, con il cambiare tempe- ratura, non diventa semplicemente più o meno calda, ma passa attraverso gli stati solido, gas- soso o liquido. Questi diversi stati non nascono a poco a poco, ma il semplice processo graduale del mutamento di temperatura viene interrotto da essi e il subentrare di un altro stato è un salto. Ogni nascita e ogni morte, invece di essere un continuo a poco a poco, è anzi un troncarsi dell’a poco a poco e un S. dal mutamento quanti- tativo nel mutamento qualitativo » (Wissenschaft der Logik, I, sez. III, cap. II, B; trad. ital., pag. 418- 419). Kierkegaard rimprovera a Hegel di aver confinato questo concetto nel dominio della logica (Der Begriff Angst, I, $ 2; trad. ital., pag. 35 e nota). Jacobi aveva adoperato l’espressione S. morrale (in italiano) per caratterizzare il passaggio dalla fede alla conoscenza filosofica (Werke, IV, pag. xL sgg.); mentre Kant adoperava la stessa espressione per indicare il passaggio dalla ragione alla fede cieca (Religion, B 158). SALVEZZA (ingl. Salvation; franc. Salut; te- desco Heil). La liberazione da un male mortale che minacci il corpo o l’anima dell’uomo. La S. può essere intesa: 1° come liberazione da questo 0 quel male particolare che incomba sull’uomo nel mondo. In questo senso il termine è inteso anche fuori della religione; 2° come liberazione dal mondo, inteso nella sua totalità come un male; pertanto come interruzione definitiva della catena delle nascite (bud- dismo); o come liberazione da ogni sofferenza o do- lore o punizione. Ed in questo senso il termine ha significato specificatamente religioso (v. RELIGIONE). SAMSARA. V. Buppismo. SANKHYA. Uno dei grandi sistemi di filosofia indiana secondo il quale esistono due sostanze op- poste ma entrambe eterne e infinite: le anime (pu- rusa) che sono molteplici semplici e inattive e la na- tura (prakrri) che è unica, complessa e dinamica. Il sistema non ammette l’esistenza della divinità re- golatrice del mondo. Ogni cosa nasce dalla natura e ritorna ad essa con un movimento circolare che continuamente si ripete (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, 1957, cap. V, e relativa biblio- grafia). 764 SANSIMONISMO (ingl. Saint-Simonism; fran- cese Saint-Simonisme; ted. Saint-Simonismus). La dot- trina del Conte Claudio Enrico di Saint-Simon (1760-1825) esposta in numerosi scritti dei quali i principali sono /ntroduction aux travaux scien- tifigues du XIX° siècle, 1807; L’industrie, 1816-18; Nouveaux christianisme, 1825, ecc. Saint-Simon è il vero fondatore del positivismosociale cioè di quella dottrina che vuol porre la scienza, e la filosofia fon- data sulla scienza, a fondamento di una riorganizza- zione radicale della società umana. Nella nuova società il potere spirituale sarà affidato agli scien- ziati e il potere temporale agli industriali. Nel Nuovo cristianesimo Saint-Simon definì l’avvento della so- cietà tecnocratica come il ritorno al cristianesimo primitivo. Il S. contribuì a formare la coscienza dell'importanza sociale e spirituale delle conquiste della scienza e della tecnica e incoraggiò potente- mente lo sviluppo industriale: ferrovie, banche, in- dustrie, anche l’idea dei canali di Suez e di Panama furono dovuti a sansimonisti (v. POSITIVISMO). SANTITÀ (gr. dowbmg; lat. Sanctitas; inglese Holiness; franc. Sainteté; ted. Heiligkeit). Questo termine ha due significati fondamentali: 1° un significato oggettivo per cui significa inviolabilità e designa in generale un valore che va in ogni caso riconosciuto o salvaguardato; 2° un signi- ficato soggettivo per cui designa il grado ec- cellente e superiore della virtù o della religione come virtù. Nel primo senso si dice santo ciò che è sancito o garantito da una legge umana o divina: per es., la santità delle leggi o del giuramento, ecc. Nel secondo senso si dice santo l’essere che realizza in sè la vita morale o religiosa nel suo grado più alto. Nel primo senso Platone dice « assegnare rettamente a tutti ciò che è giusto ed è santo » (Pol., 301 d); nel secondo senso egli nega che la S. consista nel «far cosa gradita agli dèi» (Eut., 6 e) e identifica la S. col grado supremo della virtù cioè con la giu- stizia (Rep., X, 615b; Leggi, II, 663 b, ecc.). Sempre in questo secondo senso, S. Tommaso identificava la S. con la religione cioè con la virtù più alta (S. 7A., II, 2, q. 81, a. 8); e Kant definiva la S. come «la conformità completa della volontà alla legge mo- rale ». In questo senso, secondo Kant, la S. è « una perfezione di cui non è capace nessun essere ra- zionale del mondo sensibile in nessun momento della sua esistenza ». Perciò si può ammettere sol- tanto come il limite di un progresso all’infinito verso la perfezione morale (Crit. R. Prar., I, II, cap. II, $ 4). Dall'altro lato Kant ammette pure la S. nel senso oggettivo, che definisce come inviolabilità. Così egli dice che «la legge morale è santa (in- violabile) » (Zbid., $ 5), e che «l’umanità deve essere santa per noi stessi nella nostra persona +» (/bid., $ 5): nei quali casi ovviamente la nozione di S. è quella di un valore supremo, che non si può disconoscere. Queste notazioni kantiane sono state largamente ripetute nella filosofia moderna. SANZIONE (lat. Sanctio; ingl. Sanction; fran- cese Sanction; ted. Sanktion). Del termine ci sono due concetti fondamentali che corrispondono ai due fondamentali indirizzi dell’erica (v.): 1° Per il primo, che corrisponde all’etica del fine, la S. è la conseguenza piacevole o dolorosa (ricompensa o pena) che un’azione determinata pro- duce in un determinato ordinamento (naturale, mo- rale o giuridico). In questo caso, la natura della S. dipende dalla natura dell’ordinamento cui si fa riferimento ed esistono S. naturali, morali, giuri- diche a seconda che è l’ordinamento della natura o quello morale o quello statuale a determinare la sanzione. 2° Per il secondo significato, la S. è in gene- rale, uno stimolo della condotta. Fu questo il con- cetto della S. stabilito da Bentham: « Gli stimolanti della condotta, egli disse, trasferiscono la condotta e le sue conseguenze nella sfera delle speranze e dei timori: delle speranze che ci offrono un ecce- dente di piaceri, dei timori che prevedono per anti- cipazione un eccedente di dolore. Questi stimolanti possono opportunamente ricevere il nome di S.» (Deontology, 1834, I, 7). Questo stesso concetto di S. fu accettato dagli utilitaristi inglesi (cfr. STUART MILL, Urilitarianism, cap. III) (v. PENA). SAPERE (ingl. Knowing; franc. Savoir; tedesco Wissen). Questo verbo sostantivo viene usato in due significati principali: 1° Come conoscenza in generale e in questo caso designa ogni tecnica ritenuta adatta a dare informazioni intorno a un oggetto; o un insieme di tali tecniche; o l’insieme più o meno organiz- zato dei loro risultati. W. James accettò la distin- zione stabilita da J. Grote (Exploratio philosophica, 1856, pag. 60) tra conoscere una cosa o una persona o un oggetto qualsiasi, che significa avere una certa familiarità con questo oggetto; e S. qualcosa in- torno all’oggetto, il che significa averne una cono- scenza, magari limitata, ma esatta, di natura intel- lettuale o scientifica (The Meaning of Truth., 1909, pag. 11-12). Ma questa distinzione si diffuse so- prattutto nella forma che a essa dette Russell in un famoso articolo del 1905. «La distinzione tra esperienza diretta (acquaintance) e conoscenza circa (Knowledge about) è la distinzione fra le cose che ci sono immediatamente presenti e quelle che noi raggiungiamo solo per mezzo di frasi denotanti +» (sOn Denoting», 1905, in Logic and Knowledge, 1956, pag. 41). Tale distinzione costituì uno dei capisaldi della dottrina del Circolo di Vienna; e per quanto Carnap ne abbia riconosciute presto le difficoltà («Testability and Meaning», in Readines in the Philosophy of Science, 1953, pag. 48 sgg.) essa ha continuato e continua ad essere il presupposto di molte dottrine, quella di Carnap compresa (v. ESPERIENZA). 2° Come scienza, cioè come conoscenza in qualche modo garantita nella sua verità (per questo significato v. SCIENZA). SAPERE AUDE. Il motto di Orazio (£pist., XII, 40) fu assunto nel sec. xvi come l’insegna dell’illuminismo (« Osa conoscere +) e in questo senso fu richiamato da Kant, nel suo scritto sull’illumi- nismo (Was ist Aufkldrung?, 1784, in Werke, edi- tore Cassirer, IV, pag. 169), che lo traduceva di- cendo: « Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto ». Già nel 1736 il motto era stato assunto come emblema da una « Società degli Aletofili » di Berlino che si ispirava a Wolf (cfr. sulle vicende del motto: FRANCO VENTURI in Rivista Storica Ita- liana, 1959, pag. 119 sgg.). SAPIENZA (gr. copia; lat. Sapientia; inglese Wisdom; franc. Sagesse; ted. Weisheit). La più alta conoscenza delle cose più eccellenti. La S. è caratte- rizzata: 1° dall’essere il grado di conoscenza più alto, cioè più certo e più completo; 2° dall’avere per oggetto le cose più alte e sublimi cioè le cose divine. Questo fu almeno il concetto che si ebbe della S. quando si cominciò a distinguerla dalla saggezza (v.), il che accadde con Aristotele. Sino ad Ari- stotele e nello stesso Platone, S. e saggezza signi- ficarono la stessa cosa e cioè la saggezza: la condotta razionale della vita umana (cfr. PLATONE, Rep., 428 b; 443 e). Aristotele distinse e contrappose le due cose. «La S., egli disse, è la più perfetta delle scienze. Il sapiente deve sapere non solo ciò che deriva dai princìpi ma essere nel vero anche in- torno ai princìpi. Sicchè la S. può dirsi insieme intelletto e scienza, ed essendo a capo delle scienze sarà la scienza delle cose più eccellenti » (Er. Nic., VI, 7, 1141 a 16). Intelletto e scienza stanno qui nel senso specifico definito da Aristotele: l’intel- letto (vods) come conoscenza diretta dei princìpi della dimostrazione (/bid., VI, 6, 1141 a 7); e la scienza come « abito della dimostrazione » o facoltà dimostrativa (/bid., VI, 3 1139b 31). La S. è perciò la conoscenza più certa e perfetta perchè è insieme conoscenza dei princìpi e delle dimostra- zioni che da essi seguono. Inoltre, come tale, è anche la scienza delle cose più alte e sublimi. «Vi sono altre cose molto più divine dell’uomo per natura, come gli astri luminosi di cui si compone il mondo... Perciò si dice che Anassagora e Talete e siffatti uo- mini sono sapienti e non saggi giacchè non cono- scono ciò che giova a se stessi ma cose eccezionali, meravigliose, difficili e divine, ma inutili giacchè essi non indagano intorno ai beni umani» (/bid., VI, 7, 1041b 1). L’oggetto specifico della S. è pertanto il necessario, ciò che non può essere altri- menti (/bid., 1041 b 11); mentre la saggezza ha per oggetto le faccende umane che sono mutevoli e contingenti. Questa dottrina aristotelica costituisce uno dei punti in cui il distacco polemico tra Ari- stotele e Platone è più accentuato: Platone avendo di mira nella sua filosofia la saggezza umana e contrapponendo Aristotele a tale saggezza la divina sapienza. L’affermazione del primato della S. carat- terizza le filosofie di tipo contemplativo come l’af- fermazione del primato della saggezza caratterizza la filosofia del tipo orientativo o pratico (v. FiLo- sora, Il). Stante il riconosciuto carattere « divino » della S. non fa meraviglia che nelle filosofie a sfondo re- ligioso dell’età alessandrina e posteriori la S. sia stata sostanzializzata e intesa come una specie di intermediaria fra Dio e il mondo: un’equivalente del /ogos (v.). Secondo Plotino c'è una S. che è sostanza e della quale nessun’altra S. è migliore; ed essa «crea tutti gli esseri, che tutti emanano da essa ed è essa stessa gli esseri che nascono insieme con essa e si identificano con essa, sicchè un’unica cosa sono S. e sostanza » (Enn., V, 8, 4). Questa concezione si trovava già nel libro biblico della Sapientia, dove è detto di essa: « È un vapore della virtù divina e una emanazione sincera della luce di Dio onnipotente. È splendore della luce eterna, è lo specchio immacolato della maestà di Dio e l’immagine della Sua bontà. Pur essendo una, può tutto; e permanendo in sè innova tutte le cose e si trasporta di nazione in nazione nelle anime sante, costituendo gli amici di Dio e i profeti» (Sap., VII, 25-27). Gli Gnostici avevano, dall'altro lato, personificata la S. e fatto di essa l’ultima emanazione o eone che vuol uscire dal suo stato di desiderio e raggiungere la conoscenza diretta del Padre (IRENEO, Adv. Haer., II, 5). Gli Stoici stessi avevano chiamato Dio, come anima del mondo, « la perfetta sapienza » (Cicer., Acad., I, 29). La filosofia medievale ritorna, con S. Tommaso, al concetto aristotelico della sapienza. La S. ha, secondo S. Tommaso, in comune con tutte le scienze la capacità di dedurre le conclusioni dai princìpi; ma anche qualche cosa in più delle altre scienze « in quanto giudica di tutte le cose, non solo quanto alle conclusioni ma anche quanto ai primi princìpi: sicchè è una virtù più perfetta della scienza» (S. 7h., III, q. 57, a. 2, ad 1°). Nella filosofia mo- derna, il termine ha conservato il suo significato di conoscenza perfetta sia per la sua completezza che per la natura del suo oggetto. SAPIENZA POETICA. Così Vico chiamò nel secondo libro della Scienza Nuova (1744) la cultura primitiva del genere umano, in quanto fondata sulla sensibilità più che sull’intelligenza: «La S. poetica che fu la prima S. della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata ed astratta qual è questa or degli addottrinati, ma sen- tita ed immaginata quale dovette essere di tai primi uomini, siccome quelli che erano di niuno razio- cinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie ». Vico parla di una logica poetica, di una morale poetica, di un’economia poetica, di una politica poe- tica, di una storia poetica, di una fisica poetica, di una cosmografia poetica, di un’astronomia poetica, di una cronologia poetica, di una geografia poetica, come parti della S. poetica. SARCASMO (gr. capxao 6g; ingl. Sarcasm; fran- cese Sarcasme; ted. Sarkasmus). L'ironia congiunta all’amara presa in giro di colui contro il quale è diretta. Il concetto è di origine stoica (cfr. STOBEO, Ecl., II, 6, 222). SAVI, SETTE (gr. Zopiotal; ingl. Seven Sqges; franc. Sept Sages; ted. Sieben Weisen). Così furono chiamati alcuni personaggi dell’antichità greca che espressero la loro saggezza in sentenze o motti bre- vissimi, onde ebbero anche il nome di Gnomici. Essi furono variamente enumerati dagli scrittori antichi. Talete, Biante, Pittaco e Solone sono com- presi in tutte le liste. Platone, che per primo li enumerò, aggiunse ad essi Cleobulo, Misone e Chi- lone (Pror., 343 a). A Talete si attribuisce il motto « Conosci te stesso » (Dioc. L., I, 40). A Biante il motto «I più sono malvagi » (/bid., I, 88): e l’altro motto « La carica rivela l’uomo + (ARIST., Et. Nic., V, 1, 1029 b 1). A Pittaco il motto « Sappi cogliere l'opportunità » (Dioc. L., I, 79). A Solone i motti «Prendi a cuore le cose importanti?, e « Nulla troppo + (/bid., I, 60, 63). A Cleobulo il motto «Ottima è la misura » (/bid., I, 93). A Misone il motto «Indaga le parole a partire dalle cose, non le cose a partire dalle parole» (/bid., I, 108). A Chilone i motti « Bada a te stesso + e « Non desi- derare l’impossibile » (/bid., I, 70). SCACCO (franc. Échecj tedesco Scheitern). Secondo Jaspers, è l’esperienza dell’impossibilità dell’esistenza, nei suoi aspetti particolari o nel suo insieme; e specialmente l’esperienza dell’im- possibilità di superare le sifuazioni-limite (v.). Il valore positivo dello S. consiste nel fatto che esso manifesta o rivela (negativamente) la trascendenza dell'essere; ed è pertanto una cifra (v.) di questa trascendenza (Philosophie, III, pag. 219 sgg.) (v. EsI- STENZIALISMO). SCANDALO (ingl. Scandal; franc. Scandale; te- desco Skandal). Kierkegaard ha fatto dello S. una categoria religiosa, definendola come «il peccato di disperare della remissione dei peccati +. Che il peccato possa essere perdonato è, per l’intelletto umano, la cosa più impossibile di tutte: la reli- gione è da questo punto di vista la « possibilità dello scandalo +» (Die Krankheit zum Tode, Il, B, B; trad. ital., Fabro, pag. 347; cfr. Diario, X! A, 133). SCELTA (gr. alpeow, rmpoalpeo; lat. Electio; ingl. Choice; franc. Choix; ted. Wahl). Il procedi- mento con cui una possibilità determinata, a pre- ferenza di altre, viene assunta o fatta propria o decisa o realizzata in modo qualsiasi. Il concetto di S. è strettamente legato a quello di possibilità (v.), sicchè non solo non c’è S. dove non c’è possibilità (giacchè la possibilità è per l'appunto ciò che si offre ad una S.) ma neppure c’è possibilità dove non c’è S. giacchè l’anticipazione, la progettazione o la semplice previsione delle possibilità sono scelte. Dall’altro lato il concetto di S. è una delle determinazioni fondamentali del concetto di /i- bertà (v.). Il concetto di S. è continuamente presente a Platone che, nel mito di Er, fa dipendere il destino dell’uomo dalla S. che ciascuno fa del proprio modello di vita: «Non c’era, egli dice, nulla di necessariamente preordinato per l’anima perchè ciascuna doveva cambiare secondo la S. che essa faceva » (Rep., X, 618 b). Ma solo Aristotele ci ha dato la prima esauriente analisi della S. distinguen- dola: 1° dal desiderio che è comune anche agli esseri irragionevoli, mentre la S. non lo è (Er. Nic., III, 2, 1111 b 3); 2° dalla volontà, perchè si pos- sono volere anche le cose impossibili, per es., l’im- mortalità, ma non si possono scegliere (/bid., 1111 b 19); 3° dall’opinione, che anch'essa può ri- guardare le cose impossibili, per es., quelle eterne, che non dipendono da noi (/bid., 1111 b 30). A queste determinazioni negative, Aristotele aggiunse la determinazione positiva che la S. «è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero + (/bid., 1112 a 15); alla quale si può aggiungere l’altra fondamentale, che si desume dalle determinazioni negative: la S. concerne solo le cose possibili. Quest’ultima determinazione, che è quella fon- damentale, veniva esplicitamente sottolineata da S. Tommaso, che ripeteva sostanzialmente l’analisi aristotelica (S. Th., II, 1, q. 13, a. 5). La nozione di S. è stata sempre ampiamente utilizzata dai filosofi, specialmente nella discussione del problema della libertà (v.) ma non è stata fre- quentemente sottoposta ad analisi. A partire da Kierkegaard, la filosofia dell’esistenza ha sottoli- neato il valore della S., per ciò che concerne la personalità stessa dell’uomo o la sua esistenza. E ha considerato la S. soprattutto sotto l’angolo vi- suale della sua stessa possibilità: cioè come S. della scelta. Dice Kierkegaard: «La S. è decisiva per il contenuto della personalità: con la S. essa spro- fonda nella cosa scelta e se essa non sceglie, appas- sisce in consunzione» (Werke, II, pag. 148). Da questo punto di vista la S. importante non è quella tra il bene e il male ma quella tra scegliere e non sce- gliere. « Con questa S., scelgo non tra il bene e il male ma scelgo il bene; ma in quanto scelgo il bene, scelgo con ciò la S. tra il bene e il male. La S. originaria è sempre presente in ogni S. ul- teriore » (/bid., II, pag. 196). Questo concetto è stato frequentemente ripetuto nell’esistenzialismo contemporaneo. Secondo Heidegger, la S. auten- tica è la S. di ciò che è stato già scelto cioè la S. di quelle possibilità che sono già proprie dell’uomo. « Ripetizione della S. significa sceglimento di questa stessa S., decidersi per una possibilità che ba la radice nel proprio se stesso. Nello scegliere la S., l’Esserci si rende per la prima volta possibile il suo autentico poter essere» (Sein und Zeit, $ 54). Ma in questo senso la « S. della S. » è semplicemente l'accettazione o il riconoscimento di ciò che si è, con la rinuncia ad ogni pretesa di mutamento o di liberazione. E nello stesso senso Jaspers dice: «Io non posso rifarmi da capo e scegliere tra l’esser me stesso e il non esser me stesso come se la libertà fosse soltanto uno strumento. Ma in quanto scelgo io sono, se non sono non scelgo » (Phil., Il, pag. 182). Ciò vuol dire che ciò che posso scegliere è soltanto il mio me stesso: quel me stesso che è identico con la situazione, col luogo della realtà in cui mi trovo (/bid., I, pag. 245). La S. della S. è in realtà la S. di ciò che già si è e non si può non essere. Questo concetto di S. della S. finisce per eliminare la S. stessa: la quale, come Aristotele aveva riconosciuto, e sempre le- gata al possibile. Dall’altro lato, Sartre ha insi- stito sulla perfetta arbitrarietà della S., ha identi- ficato S. e coscienza e ha pertanto visto un atto di S. in ogni atto di coscienza (L’étre et le néant, pag. 539 sgg.). Ciò può essere vero, ma in qualche modo è opportuno rintracciare un senso più spe- cifico di S., un senso per il quale non tutti gli atti siano scelte. Questo senso può essere appunto quello di S. della S.; ma non come S. di ciò che è già stato scelto, bensì come S. di ciò che può ancora essere scelto. In tal senso la 4 S. possibile » è non soltanto la S. che si offre come una possi- bilità, ma la S. che, una volta effettuata, si ripre- senta ancora possibile. Inteso in questo senso, il concetto di S. diventa suscettibile di trattamento oggettivo e diventa capace di orientare l’analisi delle tecniche di scelta. Da questo punto di vista, è indispensabile determinare in primo luogo il con- testo delle S. cioè il campo delle possibilità (v.) oggettive in cui la S. deve operare. Per es., a un uomo che ha subito un torto le S. che gli si of- frono per vendicarsi del suo avversario ricorrendo alla forza o alla violenza sono diverse da quelle che gli sono offerte dal sistema giuridico in cui vive. Inoltre, sempre in riferimento a uncontesto determinato, si può distinguere il grado delle S. che è il numero delle possibilità offerte da un determinato contesto, dall’estensione delle S., che è il numero di individui che hanno accesso a una S. determinata in un dato contesto. Estensione e grado possono stare fra loro in tutti i rapporti possibili, perchè l’aumento del grado può influire su quello dell’estensione e reciprocamente. Il cri- terio della ripetibilità delle S., sul fondamento delle considerazioni precedenti, e specialmente sulla base delle regole tecniche del contesto, è universalmente (per quanto implicitamente adoperato) da tutte le discipline: sicchè, per es., un assioma matematico o logico continua ad essere ammesso (cioè la sua S. viene ripetuta) finchè non conduce a una con- traddizione; una tecnica scientifica o produttiva rimane in uso (cioè è continuamente S.) finchè non da luogo a inconvenienti o non se ne trova una migliore; e via dicendo. Della nozione di S. si fa oggi un uso larghissimo in tutte le scienze e specialmente nella matematica, nella logica, nella psicologia e nella sociologia. Ma, come si è detto, raramente essa viene sottoposta ad analisi da queste scienze, che ne presuppongono il significato corrente. Dall'altro lato le analisi istituite dai filosofi non sempre rendono conto dei caratteri fondamentali della S. stessa. Bergson, ad es., ha considerato le alternative davanti alle quali ogni S. si trova situata come false « spazia- lizzazioni » degli stati interiori di esitazione; e per- tanto ha concepito la S. come distaccantesi «al modo di un frutto maturo» dagli stati successivi dell’io (Les données immédiates de la conscience, 1889, pag. 134). Ma è chiaro che se le alternative sono fittizie, fittizia è la S. stessa la quale vive solo nel possibile, che è costituito da alternative. Un tratto più autentico della S. umana è stato messo in luce da Dewey: « La S. non è l'emergere di una preferenza dall’indifferenza: è l'emergere di una preferenza unificata da un insieme di preferenze competitive ». Pertanto la S. ragionevole è soltanto quella che unifica e armonizza differenti tendenze che sono in concorrenza fra loro (Human Nature and Conduct, 1929, pag. 193). Dewey ha così fatto cadere fuori della S. il criterio della ragionevolezza della S., mettendosi su un piano sul quale si pos- sono suggerire innumerevoli criteri. Egli ha tuttavia il merito di avere sottolineato l’importanza della S. e la sua onnipresenza. « L'operazione della S., ha detto, è inevitabile in qualsiasi intrapresa entri la riflessione. In se stessa, non è falsificatrice. L'’illu- sione giace nel fatto che la sua presenza è nascosta, camuffata, negata. Un metodo empirico ritrova e mette in chiaro l'operazione della S., come fa per qualsiasi altro evento» (Experience and Nature, 1926, pag. 35). SCELTE, ASSIOMA DELLE (ingl. Axiom of Choice; franc. Axiome de choix; ted. Auswahl- prinzip). Va con questo nome un principio enun- ciato da Zermelo nel 1904 secondo il quale: data una classe XK i cui membri sono classi non vuote a, b, c, ... esiste una funzione f che fa corrispondere ad ogni classe a, d, c, un elemento e uno solo della classe stessa f (a), f (5), f (c), ... Questo postulato nella forma di un assioma moltiplicativo, fu rie- sposto da Russell nella forma seguente: data una classe X i cui membri sono classi non vuote, che non hanno alcun membro in comune, esiste una classe A, i cui membri sono tutti membri dei membri di X e che ha solo un membro in comune con ciascun membro di X. I due assiomi sono stati dimostrati equivalenti dallo stesso Zermelo. Un’assunzione del genere era frequentemente utilizzata dai matema- tici, ma la sua enunciazione esplicita ad opera di Zermelo suscitò dubbi e discussioni: dubbi e di- scussioni che vertono sostanzialmente sul concetto di «esistenza » dei membri di un insieme. Il postu- lato di Zermelo, se applicato agli insiemi infiniti, significa semplicemente che si può parlare della esistenza di un membro dell’insieme anche se non è data una regola precisa che consente di costruire o riconoscere il membro stesso (cfr. K. GODEL, The Consistency of the Axiom of Choice and of the Generalized Continuum Hypothesis with the Axioms of Set Theory, 1940; L. GevMonaT, Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, 1948). SCETTICISMO (gr. oxertiyà dyoyh; inglese Scepticism; franc. Scepticisme; ted. Skepricizmus). Con questo termine, che significa ricerca, s'intende la tesi che è impossibile decidere sulla verità o falsità di una proposizione qualsiasi. Lo S. non ha nulla a che fare col relativismo o con le dottrine che tutto è vero o che tutto è falso, giacchè tali dottrine intendono per l’appunto fornire quel cri- terio di decisione che lo S. nega che ci sia. Sesto Empirico ha definito con molto rigore la natura dello S. affermando che il principio fondamentale dello S. è questo: « A ogni ragione si oppone una ragione di egual valore ». Tale principio infatti im- pedisce di prender partito per un’affermazione qual- siasi o la sua negazione e perciò consente di mante- nere l’imperturbabilità (/p. Pirr., I, 12). Lo S. fu difeso nell’antichità da tre scuole filosofiche diverse: 1° dalla scuola di Pirrone alla quale esplici- tamente si riattaccava Sesto Empirico (1 secolo) (v. PIRRONISMO); 2° dalla terza Accademia o nuova Accademia, il cui indirizzo scetticheggiante fu iniziato da Car- neade di Cirene (i secolo a. C.), che, pur ammet- tendo l’impossibilità di decidere sul vero o sul SCELTE, ASSIOMA DELLE falso, riteneva legittimo l’uso di criteri di credibilità puramente soggettivi; 3° da un gruppo di pensatori fioriti dall’ul- timo secolo a. C. al I secolo d. C. di cui i principali furono Enesidemo (1 secolo a. C.), Agrippa e Sesto Empirico. Questi pensatori ripresero lo S. rigoroso di Pirrone. Enesidemo enunciava dieci modi per giungere alla sospensione del giudizio ed Agrippa ne aggiungeva altri cinque (v. TROPI). Sesto Empi- rico, infine, le cui opere ci sono state conservate, ha fatto valere le sue istanze scettiche sui principali temi della filosofia antica e ha riaffermato il carat- tere investigativo, sospensivo e dubitativo dello S. (Ip. Pirr., I, 7. Il vero precedente storico dello S. antico è la scuola eleomegarica (v. MegaRICI) la quale si com- piacque di enunciare quegli argomenti insolubili che rappresentano casi tipici dell’impossibilità di de- cidere sulla falsità o verità di una tesi (v. ANTI- NOMIE). Nella storia ulteriore della filosofia lo S. non è mai ritornato nella sua forma classica. Il Medio Evo lo ignora completamente. Nel Rinasci- mento esso riaffiora nella meditazione di Mon- taigne, come una delle esperienze fondamentali alle quali Montaigne fa più frequente riferimento. « Noi non abbiamo comunicazioni con l’essere perchè l’intera natura umana è sempre in mezzo tra la nascita e la morte e non attinge di sè che una apparenza oscura ed umbratile, un’incerta e de- bole opinione» (Essais, ed. Plattard, I, pag. 399). Montaigne ha in vista soprattutto quel carattere dello S. che gli antichi scettici chiamavano investi- gativo e che per lui è sperimentativo: « Se la mia anima potesse prender piede io non mi sperimenterei ma mi risolverei; ma essa è sempre in tirocinio ed in prova » (/bid., III, 2, pag. 29). E lo stesso signi- ficato fondamentale ha lo S. di P. Charron che nel libro Sulla saggezza fa derivare da esso una saggezza naturale e razionale che rende serena la vita e non è in contrasto con la religione. Queste stesse cose erano dette da Francesco Sanchez nel Quod nihil scitur (1581). Ma queste non sono, come si vede, forme di autentico scetticismo. Nè un tale S. si ritrova in colui che, nel °700, si fece esplicito di- fensore della « filosofia accademica o scettica » cioè in D. Hume. «Il grande avversario del pirronismo o dei princìpi esagerati dello S. è l’azione, l’atti- vità e le occupazioni della vita comune» diceva Hume (/ng. Conc. Underst., XII, 2). Hume contrap- poneva pertanto allo S. esagerato o eccessivo lo S. mitigato che consiste nella «limitazione delle nostre ricerche a quegli oggetti che meglio si adat- tano alla ristretta capacità della mente umana » (Ibid., XII, 3). Ma tale S. non si distingue dalla tendenza critica della filosofia e pertanto non può essere propriamente chiamato scetticismo. Nella filosofia moderna la funzione dello S. è stata duplice. In primo luogo è servito spesso, come bersaglio polemico o ipotesi da ridurre all’assurdo, ai filosofi che si proponevano di fondare una qualsiasi dot- trina dogmatica. In secondo luogo è servito come insegna di battaglia contro determinate filosofie. Così A. E. Schulze contrappose lo S. di Hume al razionalismo di Kant in un’opera che intitolò al nome dello scettico antico Enesidemo (1792). In modo analogo G. Rensi si appellò allo S. contro l’idealismo hegeliano italiano nei primi decenni del sec. xx (Lineamenti di filosofia scettica, 1917). Ma quello di Rensi fu un curioso S., mescolato con il materialismo (// materialismo critico, 1934) e perfino con il misticismo (Testamento filoso- fico, 1939). Sullo S. antico, cfr. DAL PRA, Lo S. greco, 1950. Sullo S. rinascimentale, cfr. R. Hoopes, in Hunt- ington Library; R. H. PoPKIN, in Review of Meta- physics, 1953, e relative bibliografie. SCHEBLIMINI. Termine che ricorre nel titolo di uno scritto di J. G. Hamann (Golgotha und S., 1784) diretto contro Mendelssohn. Il termine, probabilmente desunto da uno scritto di Lutero, significa l’ispirazione divina e l’esaltazione che essa comunica, donde la sua opposizione simmetrica a «Golgotha» che è il simbolo dell’umiliazione. (Cfr. i chiarimenti di L. SCHREINER nel vol. II degli I. G. Hamanns Hauptschriften erklart, 1956; e V. VERRA, Dopo Kant. Il criticismo nell’età pre- romantica, 1957, pag. 147 sgg.). SCHEMA (gr. oxfua; ingl. Scheme; fran- cese Schéma; ted. Schema). Nel significato comune di forma o figura, la parola viene comunemente usata dai filosofi. Un senso specifico fu dato al termine solamente da Kant che intese per esso l’intermediario tra le categorie e il dato sensibile, intermediario la cui funzione sarebbe quella di eli- minare l’eterogeneità dei due elementi della sintesi, essendo generale come la categoria e temporale come il contenuto dell’esperienza. In questo senso lo S. o più precisamente lo S. trascendentale è «la rappresentazione di un procedimento generale per cui l’immaginazione offre ad un concetto la sua immagine » (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. I). Kant distingue vari tipi di S. secondo i quattro gruppi delle categorie; e pone tra essi il numero (S. della quantità) e la cosalità (S. della qualità). In generale gli S. sono determinazioni del tempo e costituiscono perciò fenomeni o concetti sensibili di oggetti in accordo con una categoria determinata (/bid., Anal. dei Princ., cap. I). In modo analogo lo S. fu inteso da Schelling, che lo distingueva dall’immagine (rispetto alla quale è più generale) e dal simbolo; Schelling intendeva per S. «l'intuizione della regola secondo cui l’og- getto può essere prodotto » e pertanto ne chiariva la nozione con l’esempio dell’artigiano che deve creare un oggetto di forma determinata in con- formità di un concetto (System des transzenden- talen Idealismus, 1800, III, cap. II, 3* epoca- trad. ital., pag. 183). Questo significato kantiano e schellinghiano è l’unico significato tecnico della parola che talora ancora ricorre (cfr., ad es., LEWIS, An Analysis of Knowledge and Valuation, pag. 134). AI di fuori di essa, il termine significa semplicemente modello o immagine generale o forma (come av- viene, per es., in BERGSON, Matière et mémoire, pag. 130 sgg.; Énergie spirituelle, pag. 161; La pensée et le mouvant, pag. 216) o progetto ge- nerale. SCHEMATISMO (gr. cynuariopée; ingl. Sche- matism; franc. Schématisme; ted. Schematismus). 1. Configurazione o struttura. Questo è il signifi- cato comune del termine greco, al quale fece riferimento Bacone parlando dello S. latente come di uno dei due aspetti fondamentali dei fenomeni naturali (l’altro è il processo latente o processo alla forma). Per S. latente Bacone intese la con- figurazione o struttura dei corpi considerati stati- camente (De Augm. Scient., II, 1), sicchè lo studio dello S. fu da lui paragonato a ciò che è l’anatomia per i corpi organici (Nov. Org., II, 7). 2. Kant intese per S. «il modo di comportarsi dell’intelletto con gli schemi» (Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. I). E in senso analogo usava la parola Schelling (System des transzendentalen Idealismus, III, cap. II, 3* epoca). Sulla dottrina kantiana dello S., cfr. E. Paci, « Critica dello sche- matismo trascendentale », in Rivista di Filosofia, 1955, n. 4; 1956, n. 1. SCHIAVITÙ (gr. sovàela; lat. Servitus; in- glese Slavery; franc. Esclavage; ted. Sklavereì). La giustificazione della S., presso i filosofi, ha rivestito sempre la stessa forma: la S. è cosa utile non solo al padrone ma allo schiavo stesso. Questo è il motivo per cui Aristotele ritiene la S. come una delle divisioni naturali della società pari a quella tra femmina e maschio. Infatti poichè c’è «chi è naturalmente disposto al comando » e « chi è naturalmente disposto ad essere comandato » la loro unione è «ciò per cui entrambi possono so- pravvivere ». La stessa cosa (cioè la S.) è quindi « vantaggiosa sia per il padrone che per lo schiavo + (Pol., I, 2, 1252 a). Lo stesso S. Tommaso ripe- teva, citando Aristotele, questa considerazione: « Che quest'uomo sia servo, a preferenza di un altro è cosa che da un punto di vista assoluto non ha una ragione naturale ma solo la ragione di una qualche utilità, in quanto è utile allo schiavo che egli sia governato da uno più saggio ed è utile a costui che egli si giovi dello schiavo » (S. Tà., II, 2, q. 57, a. 3, ad 2°). L’illustrazione che della figura servo-padrone ha dato Hegel nella Fenome- nologia dello spirito obbedisce allo stesso spirito di giustificazione. Il signore è l’autocoscienza del servo e il servo è lo strumento che elabora gli oggetti affinchè il signore ne goda e affinchè, in questa maniera egli stesso partecipi, per mediazione, al godimento dell’oggetto come il padrone partecipa per mediazione alla produzione di esso (Phanom. des Geistes, I, IV, A; trad. ital., pag. 168 sgg.). D'altronde il cristianesimo aveva reso insigni- ficante la S.; e, in un certo senso, anche la sua condanna. Poichè sia il giudeo che il greco, sia il servo che il libero, sia il maschio che la femmina « fanno una sola cosa in Gesù Cristo » (Ga/., III, 28) non è importante che si sia schiavi o liberi, ma basta essere «liberto del Signore» (/ Cor., VII, 21-22). Nel mondo antico soltanto gli Stoici con- dannarono senza riserve la S.: « Solo il sapiente è libero e i malvagi sono schiavi: giacchè la libertà non è che l’autodeterminazione e la S. è l’assenza dell’autodeterminazione. C’è poi un’altra S. che consiste nella soggezione o nella compera e nella soggezione, cui si contrappone la padronanza, che è malvagia anch'essa » (Diog. L., VII, 121). Accanto alla negazione della S. come istituzione sociale, gli Stoici fecero prevalere il concetto della S. come

stato o situazione morale. Diceva Seneca: « ‘Sono schiavi *. Sì, ma anche uomini. ‘ Sono schiavi ”. Sì, ma anche compagni di abitazione. ‘ Sono schiavi ’. Sì, ma anche umili amici. ‘ Sono schiavi ’. Sì, ma anche compagni di schiavitù, se rifletterai che gli uni e gli altri sono soggetti ai capricci della fortuna » (Ep., 47): concetti che sono variamente ripetuti nella letteratura romana, per quanto non trovas- sero alcun riscontro nel diritto romano codificato, che faceva dello schiavo la «cosa? del padrone. Nel mondo moderno, è stata la filosofia illumini- stica a rendere assurda e ripugnante la nozione stessa di S.: la difesa che essa fece della nozione di eguaglianza significa appunto la condanna della S. in tutte le sue forme e gradi (cfr., ad es., VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, 1764, arti- colo « Egalité +). SCIENTISMO (ingl. Scientism; franc. Scien- tisme; 1. L'atteggiamento proprio di chi si av- vale dei metodi e dei procedimenti della scienza. Questo è il significato che il termine ha spe- cialmente in inglese (cfr. però anche LE DANTEC, Contre la métaphysique, 1912, pag. 51). 2. L’atteggiamento di chi dà importanza prepon- derante alla scienza nei confronti delle altre attività umane o ritiene che non ci siano limiti alla validità e all’estensione della conoscenza scientifica. In questo senso il termine equivale a positivismo ma con una connotazione peggiorativa. Dice Bergson: SCIENTISMO « Noi abbiamo soltanto domandato alla scienza di restare scientifica, di non avvolgersi in una meta- fisica incosciente che si presenta allora agli igno- ranti, o ai semidotti, sotto la maschera della scienza. Durante più di mezzo secolo questo S. ha ingombrato la strada della metafisica» (La SCIENZA (gr. ètriomhun; lat. Scientia; in- glese Science; franc. Science; ted. Wissenschaft). Una conoscenza che includa, in modo o misura qualsiasi, una garanzia della propria validità. La limitazione espressa con le parole «in modo o mi- sura qualsiasi » è qui inclusa per rendere la defini- zione applicabile alla S. moderna che non ha pretese di assolutezza. Ma il concetto tradizionale della S. è quello per il quale la S. include una garanzia assoluta di validità ed è perciò, come conoscenza, il grado massimo della certezza. L’op- posto della S. è l'opinione (v.), caratterizzata per l'appunto dalla mancanza di garanzia circa la sua validità. Le differenti concezioni della S. si pos- sono distinguere a seconda della garanzia di vali- dità che le si riconosce. Questa garanzia può consistere: 1° nella dimostrazione; 2° nella descri- zione; 3° nella correggibilità. 1° La dottrina che la S. provvede a garantire la propria validità dimostrando le sue affermazioni, cioè connettendole in un sistema o in un orga-

nismo unitario nel quale ciascuna di esse sia ne- cessaria e nessuna possa essere tolta, aggiunta o mutata, è l’ideale classico della scienza. Platone paragonava l’opinione (v.) alle statue di Dedalo che sono sempre in atto di fuggire: le opinioni difatti « disertano dall'anima umana sicchè non hanno gran pregio finchè qualcuno non riesce a legarle con un ragionamento causale +. Ma « quando siano legate diventano S. e rimangono fisse. Ecco perchè la S. (conclude Platone) è più valida della retta opinione e differisce da essa per la sua con- nessione » (Men., 98 a). La dottrina della S. di Aristotele è molto più ricca e circostanziata, ma obbedisce allo stesso concetto. La S. è « conoscenza dimostrativa ». Per conoscenza dimostrativa s’in- tende quella per cui «si conosce la causa di un oggetto cioè si conosce perchè l’oggetto non può esser diverso da com'è» (An. Pr., I, 2, 71b 9 sgg.). Di conseguenza, l’oggetto della S. è il necessario (v.); e perciò la S. si distingue dall'opinione e non coincide con essa: se coincidesse, « si sarebbe con- vinti che un medesimo oggetto possa comportarsi diversamente da come si comporta e si sarebbe, al tempo stesso convinti che non possa compor- tarsi diversamente» (An. Posr., I, 33, 89a 38). Perciò Aristotele esclude che ci possa essere S. del non necessario: della sensazione (/bid., 31, 87 b 27) e dell’accidentale (Mer., VI, 2, 1027 a 20); mentre identifica la conoscenza scientifica con la conoscenza dell’essenza necessaria o sostanza (/bid., VII, 6, 1031 b 5). La più perfetta realizzazione di questo ideale della S. furono gli Elementi di Euclide (sec. Im a. C.). Quest'opera, che ha voluto realiz- zare la matematica come S. perfettamente deduttiva, senza nessun appello all’esperienza o all’induzione, è rimasta per molti secoli (e sotto certi aspetti rimane a tutt'oggi) il modello stesso della scienza. Attraverso gli E/ementi di Euclide la concezione della S. di Platone e di Aristotele si trasmise più efficacemente che attraverso la delineazione teorica di Aristotele. Da tale delineazione gli antichi non si scostarono. Gli Stoici la ripetettero affermando che «la S. è la comprensione sicura, certa e im- mutabile fondata sulla ragione» (Sesto E., Adv. Math., VII, 151) o che essa «è una compren- sione sicura o un abito immutabile ad accogliere rappresentazioni, fondato sulla ragione» (Droc. L., VII, 47). S. Tommaso ripeteva le notazioni aristo- teliche (S. 77., II, 1, q. 57, a. 2) e Duns Scoto accentuava il carattere dimostrativo e necessario della S. escludendo da essa ogni conoscenza priva di quei caratteri, quindi l’intero dominio della fede (Op. Ox., Prol., q. 1, n. 8). Anche l’ultima sco- lastica, con Ockham, manteneva in piedi l’ideale aristotelico della S. (In Sent., III, q. 8). Il sorgere della S. moderna non ha messo in crisi questo ideale. Da un lato il necessitarismo degli aristotelici viene condiviso anche dai loro avversari; dall’altro persiste la suggestione della matematica come S. perfetta per la sua organizza- zione dimostrativa; e Galilei stesso poneva le « di- mostrazioni necessarie » accanto alla « sensata espe- rienza » come fondamento della S. (Opere, V, pag. 316). L’ideale geometrico della S. domina pure le filosofie di Cartesio e Spinoza. Cartesio voleva organizzare tutto il sapere umano sul mo- dello dell’aritmetica e della geometria: le sole S. che egli riconosceva «prive di falsità e di incer- tezza » perchè fondate interamente sulla deduzione (Regulae ad directionem ingenii, IL E Spinoza chiamava S. intuitiva la estensione del metodo geo- metrico all'intero universo, estensione per il quale «dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi di Dio si procede alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose + (Er., II, 40, scol. 2°). Kant contrassegnava questo vecchio ideale con un nuovo termine, quello di sistema (v.). « L’unità sistematica, egli diceva, è ciò che prima di tutto fa di una cono- scenza comune una S. cioè di un semplice aggregato un sistema +; e aggiungeva che per sistema bisogna intendere « l’unità di molteplici conoscenze rac- colte sotto un’unica idea » (Crif. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. III; cfr. Meraphysische Anfangs- griinde der Naturwissenschaft, Vorrede). Questo concetto della S. come sistema, introdotto da Kant, è diventato un luogo comune della filosofia dell’800 ed è ancora quello cui fanno oggi ricorso le filosofie di carattere teologico o metafisico. Ciò è accaduto soprattutto perchè il Romanticismo lo ha fatto suo e lo ha ripetuto fino alla nausea. Diceva Fichte: « Una S. dev’essere una unità, un tutto... Le singole proposizioni in generale non sono S., ma diventano S. solo nel tutto, mercè il loro posto nel tutto, la loro relazione con il tutto » (Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ I) Schelling ripeteva: « Si ammette generalmente che alla filosofia convenga una forma sua particolare che si dice sistematica. Presupporre una tal forma non dedotta tocca ad altre S. che già presuppongono la S. della S., ma non già a questa che si propone per oggetto la possibilità di una S. siffatta » (System des transzendentalen Idealismus, 1800, I, cap. I; trad. ital., pag. 27). E Hegel affermava perentoria- mente: « La vera forma nella quale la verità esiste può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla forma della S. — cioè alla meta, raggiunta la quale essa sia in grado di abbandonare il nome di amore del sapere per essere vero sapere — ecco ciò che io mi sono proposto» (Phanom. des Geistes, Prefa- zione, I, 1). Fichte, Schelling e Hegel ritenevano che il solo sapere sistematico, quindi la sola S., fosse la filosofia. Ma il concetto di sistema è ri- masto a caratterizzare la S. in generale, quindi anche la S. della natura, per molti filosofi dell’800. H. Cohen vedeva nel sistema la categoria più alta della natura e della S. (Logik, 1902, pag. 339). Husserl poneva il carattere essenziale della S. nella « unità sistematica » che in essa trovano le singole conoscenze e i loro fondamenti (Logische Unter- suchungen, 1900, I, pag. 15); e additava nel sistema l’ideale stesso della filosofia, se essa vuole organiz- zarsi come «S. rigorosa» (Philosophie als strenge Wissenschaft, 1910-11; trad. ital., pag. 5). L'ideale della S. come sistema ha continuato a vivere anche molto tempo dopo che le S. naturali si sono allon- tanate da esso e hanno cominciato a polemizzare contro «lo spirito di sistema ». Se si può oggi considerare tramontato l’ideale classico della S. come sistema compiuto di verità necessarie o per evidenza o per dimostrazione, non si possono tuttavia considerare tramontate tutte le caratteristiche di esso. Che la S. sia, o tenda ad essere, un sistema, un’unità, una totalità organiz- zata, è pretesa che viene talora condivisa anche dalle altre concezioni della S. stessa. Ciò che questa pretesa conserva in ogni caso di valido è l’esigenza che le proposizioni che costituiscono il corpo linguistico di una S. siano tra loro compa- tibili cioè non contraddittorie. Questa esigenza in- dubbiamente è assai più debole di quella che vorrebbe che tali proposizioni costituissero una unità o un sistema; anzi, parlando a rigore, è un’esigenza totalmente diversa giacchè la non con- traddittorietà non implica in alcun modo l’unità sistematica. Tuttavia, nel corrente linguaggio scien- tifico o filosofico, spesso l’esigenza sistematica vicne ridotta a quella della compatibilità. 2° La concezione descrittiva della S. si è ve- nuta formando a partire da Bacone e per opera di Newton e dei filosofi illuministi. Il suo fonda- mento è la distinzione baconiana tra anticipazione e interpretazione della natura: l’interpretazione con- sistendo nel «condurre gli uomini davanti ai fatti particolari e ai loro ordini » (Nov. Org., I, 26, 36). Newton stabiliva il concetto descrittivo della S. contrapponendo il metodo dell’analisi al metodo della sintesi. Quest’ultimo consiste « nell’assumere che le cause sono state scoperte, nel porle come princìpi e nello spiegare i fenomeni procedendo da tali principi e considerando come prova questa spiegazione ». L'analisi consiste invece «nel fare esperimenti ed osservazioni, nel trarre conclusioni generali da essi per mezzo dell’induzione e nel non ammettere contro le conclusioni obiezioni che non siano derivate dagli esperimenti o da altre verità certe» (Opricks, III, 1, q. 31). La filosofia del- l’illuminismo esaltò e diffuse l’ideale scientifico di Newton. « Questo grande genio, diceva D’Alembert, vide che era tempo di bandire dalla fisica le con- getture e le ipotesi vaghe o almeno di darle solo per quel che valgono e di sottoporre questa S. sol- tanto alle esperienze e alla geometria » (Discours préliminaire de l’Encyclopédie, in (Euvres, ed. Con- dorcet, pag. 143). Nello stesso tempo D’Alembert dichiarava ormai inutile, per la S. e per la filo- sofia, lo spirito di sistema. « Tutte le S., egli diceva, rinchiuse, per quanto è possibile, nei fatti e nelle conseguenze che si possono da essi dedurre, non accordano nulla all’opinione, salvo quando vi sono costrette ». La S. si riduce così all’osservazione dei fatti e alle inferenze o ai calcoli fondati sui fatti. Il positivismo ottocentesco non faceva che appel- larsi allo stesso concetto della scienza. Diceva Comte: « Il carattere fondamentale della filosofia positiva è quello di considerare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili, la cui scoperta precisa e la cui riduzione al minimo nu- mero possibile sono lo scopo di tutti i nostri sforzi, mentre consideriamo come assolutamente inaccessibile e priva di senso la ricerca di quelle che si chiamano cause, sia primarie sia finali» (Cours de phil. positive, I, $ 4; vol. I, pag. 26-27). Ma il positivismo insistette anche su quel carattere della S. che già Bacone aveva messo in luce: il carattere attivo od operativo, per cui essa permette all’uomo di agire sulla natura e dominarla mediante la previsione dei fatti resa possibile dalle leggi (Ibid., II, $ 2; pag. 100). L’ideale descrittivo della S. non implica pertanto che la S. consista nel rispec- chiamento o nella riproduzione fotografica dei fatti. Da un lato, il carattere anticipatorio della cono- scenza scientifica per il quale essa si concreta in previsioni fondate sui rapporti accertati tra i fatti le toglie il carattere fotografico: non si può infatti fotografare il futuro. Dall'altro lato, la stessa S. positivistica ha messo in luce il carattere attivamente orientato della descrizione scientifica. Le considera- zioni di Claude Bernard a questo proposito sono particolarmente importanti: « La semplice constata- zione dei fatti, egli dice, non potrà mai giungere a costituire una scienza. Si possono moltiplicare i fatti e le osservazioni, ma questo non farà appren- dere nulla. Per istruirsi bisogna necessariamente ragionare su ciò che si è osservato, paragonare i fatti e giudicarli con altri fatti che servono di controllo » (Zntr. à l’étude de la médecine expéri- mentale, 1865, I, 1, $ 4). Da questo punto di vista, una S. di osservazione sarà una S. che ragiona sui fatti dell’osservazione naturale cioè sui fatti puramente e semplicemente constatati; mentre una S. sperimentale o di esperimento ragionerà sui fatti ottenuti nelle condizioni che lo sperimentatore ha creato e determinato lui stesso (2bid., 1865, I, 1,84). La dottrina della S. di Mach non potrebbe chia- marsi descrittiva se per descrizione si intendesse la riproduzione fotografica degli oggetti, ma si può chiamare descrittiva nel senso ora chiarito. Dice Mach: « Se escludiamo ciò che non ha senso ri- cercare, vedremo apparire più nettamente ciò che possiamo realmente attingere mediante le S. par- ticolari: tutte le relazioni e i differenti modi di relazione degli elementi tra loro » (Erkenntniss und Irrtum, cap. I; trad. franc., pag. 25). L’innovazione di Mach consiste nel suo concetto degli elementi: tali elementi essendo per lui comuni sia alle cose che alla coscienza e diversi nella coscienza e nella cosa solo in quanto appartenenti ad insiemi diversi (1bid., cap. I; trad. franc., pag. 25; cfr. Die Analyse der Empfindungen, 9* ediz., 1922, pag. 14). La fun- zione economica che Mach attribuì alla S. o, più precisamente ai concetti scientifici, non toglie per- tanto il carattere descrittivo della S., riconoscibile nella tesi che la S. ha per oggetto i rapporzi fra gli elementi. Appunto perchè la S. considera i rapporti tra i fatti, essa è una descrizione abbreviativa ed economica dei fatti stessi (Die Mechanik; trad. ingl., 1902, pag. 481 sgg.). Allo stesso modo Bergson riconosce il carattere convenzionale ed economico della S. dal fatto che essa, che ha come suo organo l’intelligenza, si ferma non sulle cose ma sui rap- porti tra le cose o le situazioni (Év. créarr., 83 ediz., 1911, pag. 161, 356). L’ideale descrittivo della S., ricorre ancora in scrittori recenti. Dewey afferma: « Nella S., poichè i significati sono deter- minati sulla base della loro relazione reciproca come significati, le relazioni divengono gli oggetti dell’indagine e le qualità vengono assai sminuite di importanza, rivestendo una funzione soltanto in quanto siano d’aiuto nello stabilire relazioni » (Logic, VI, $ 6; trad. ital., pag. 171). Ora le re- lazioni non sono che un altro nome per /eggi giacchè la legge non è che l’espressione di una relazione: sicchè lo stesso concetto della S. si può riscontrare in tutti gli scrittori che riconoscono nella formulazione della legge il compito della scienza. Diceva H. Dingler: «Il compito principale della S. consiste nel raggiungere leggi nel maggior numero possibile » (Die Methode der Physik, 1937, I, $ 9). E più recentemente R. B. Braithwaite ha affermato: «Il concetto fondamentale della S. è quello della legge scientifica e lo scopo fondamen- tale di una S. è lo stabilimento di leggi. Per capire il modo in cui una S. opera e il modo in cui essa fornisce spiegazioni dei fatti che investiga, è ne- cessario capire la natura delle leggi scientifiche c il modo di stabilirle » (Scientific Explanation, Cam- bridge, 1953, pag. 2). 3° Una terza concezione è quella che riconosce come unica garanzia della validità della S. la sua autocorreggibilità. Si tratta di una concezione che si è affacciata nelle avanguardie più critiche o meno dogmatiche della metodologia contemporanea e non ha ancora raggiunto gli sviluppi assunti dalle due concezioni precedenti; ma che è tuttavia significa- tiva, sia perchè muove dall’abbandono di ogni pre- tesa alla garanzia assoluta, sia perchè apre nuove prospettive allo studio analitico degli strumenti di indagine di cui le S. dispongono. Il presupposto di questa concezione è il fallibilismo (v.) che Peirce riconosceva proprio di tutta la conoscenza umana (Coll. Pap., I. 13, 141-52). Ma la tesi in questione è stata per la prima volta espressa da Morris R. Cohen: « Noi possiamo definire la S. come un sistema autocorrettivo.. La S. invita al dubbio. Essa può svilupparsi 0 progredire non solo perchè è frammentaria ma anche perchè nessuna sua pro- posizione è in se stessa assolutamente certa e così il processo di correzione può operare quando tro- viamo prove più adeguate. Ma bisogna notare che il dubbio e la correzione sono sempre in accordo con i canoni del metodo scientifico così che questa ultima è il suo legame di continuità » (Srudies in Philosophy and Science, 1949, pag. 50). M. Black ha più recentemente adottato un punto di vista analogo: «I princìpi stessi del metodo scientifico devono a loro volta essere considerati come provvi- sori e soggetti a ulteriori correzioni, in modo che una definizione di ‘ metodo scientifico * sarebbe verifica- bile in qualche esteso senso del termine » (Problems of Analysis, 1954, pag. 23). In termini apparente- mente paradossali ma equivalenti, K. Popper aveva affermato nella Logica della ricerca (1935) che l’ar- mamentario della S. è diretto, non alla verifica, ma alla falsifica delle proposizioni scientifiche. « 11 nostro metodo di ricerca, egli diceva, non è diretto a difendere le nostre anticipazioni per provare che abbiamo ragione, ma al contrario è diretto a di- struggerle. Usando tutte le armi del nostro arma- mentario logico, matematico e tecnico, noi tentiamo di provare che le nostre anticipazioni sono false, per avanzare, al loro posto, nuove ingiustificate e ingiustificabili anticipazioni, nuovi ‘frettolosi e pre- maturi pregiudizi’ come Bacone derisoriamente le chiamava » (The Logic of Scientific Discovery, 23 edi- zione, 1958, $ 85, pag. 279). Con questo Popper ha voluto segnare l’abbandono dell’ideale classico della S.: « Il vecchio ideale scientifico dell’episteme, della conoscenza assolutamente certa e dimostra- bile, si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’obbiet- tività scientifica rende inevitabile che ogni asser- zione scientifica rimanga per sempre come un tentativo ». L'uomo, non può conoscere ma solo congetturare (/bid., pag. 278, 280). Affermare che gli strumenti di cui la S. dispone siano diretti a dimostrar false le asserzioni della S. è un altro modo per esprimere il concetto dell’autocorreggibi- lità della S.: provar falsa un’asserzione significa infatti sostituirla con un’altra asserzione, non an- cora provata falsa, quindi correttiva della prima. La nozione dell’autocorreggibilità costituisce indub- biamente la garanzia meno dogmatica, che la S. può esigere, della propria validità. Essa consente un’analisi meno pregiudicata degli strumenti di ac- certamento e di controllo di cui le singole S. di- spongono (cfr. Beyond the Edge of Certainty, a cura di R. C. Colodny, 1965). SCIENZA, DOTTRINA DELLA (inglese Science of Science; franc. Doctrine de la science; ted. Wissenschaftslehre). Espressione con cui Fichte designò «la S. delle S. in generale » cioè la S. che espone in modo sistematico il principio fondamen- tale su cui poggiano tutte le altre scienze. « Ogni possibile S. ha un principio fondamentale che in

essa non può essere dimostrato ma dev'essere già certo prima di essa. Ora dove dev'essere dimo- strato questo principio fondamentale? Senza dubbio in quella S. la quale deve fondare tutte le possi- bili S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital., pag. 11-12). Fichte identificava la dottrina della S. con la filosofia e vedeva il suo principio fondamentale nell’Io. L’espressione viene tuttora usata prevalentemente in riferimento a Fichte. Tuttavia B. Bolzano l’ado- però come titolo di un’opera per indicare la dottrina che espone le regole per la divisione del campo del sapere nelle singole S. e per l’apprendimento del sapere stesso (Wissenschaftslehre, 1837, I, $ 6; cfr. IV, $ 392 sgg.). Ma per la disciplina che con- sidera le forme o i procedimenti della conoscenza scientifica sono state più frequentemente adoperate le parole gnoseologia (v.) e metodologia (v.). SCIENZA NUOVA. Espressione con cui G. B. Vico designò la sua opera maggiore, pub- blicata per la prima volta nel 1725 e in nuove edizioni nel 1730 e nel 1744. Il titolo completo Principi di una scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni dice l’intento dell’opera. Vico si proponeva di instaurare una S. che avesse per suo compito la ricerca delle leggi che sono proprie del mondo della storia umana, al modo in cui la S. naturale ricerca leggi del mondo naturale. Vico vuol essere il Bacone del mondo della storia e si propone di rintracciare l’ordine di tale mondo e di esprimerlo in leggi. Le fondamentali caratte- rizzazioni che egli dà della S. nuova sono le seguenti (cfr. specialmente S. N. del 1744, I, Del metodo): 1° la S. nuova è una « teologia civile ragionata della provvidenza divina »: cioè la dimostrazione dell’ordine provvidenziale che si va attuando nella società umana a misura che l’uomo si solleva dalla sua caduta e dalla sua miseria primitiva. Vico contrappone questa teologia civile alla teo- logia fisica della tradizione, la quale dimostra l’azione provvidenziale di Dio nella natura; 2° la S. nuova è «una storia delle umane idee sulla quale sembra dover procedere la metafisica della mente umana»: essa è cioè la determinazione dello sviluppo intellettuale umano dalle rozze ori- gini fino alla «ragione tutta spiegata +. In questo senso essa è anche una « critica filosofica che mostra l’origine delle idee umane e la loro successione +; 3° in terzo luogo la S. nuova tende a descri- vere «una storia ideale eterna, sopra la quale cor- rano in tempo le storie di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini ». Come tale, la S. nuova è anche una S. dei principi della storia universale e del diritto naturale universale; 4° la S. nuova è inoltre « una filosofia dell’au- torità » cioè della tradizione, giacchè dalla tradizione desume le prove di fatto (o filologiche) che accer- tano l’ordine di successione delle età della storia. Sul concetto della storia di Vico, v. STORIA. SCIENZE, CLASSIFICAZIONE DELLE (ingl. Classification of Sciences; franc. Classification des sciences; ted. Klassifikation der Wissenschafte). Mentre un'enciclopedia (v.) è il tentativo di dare il quadro completo di tutte le discipline scientifiche e di fissare in modo definitivo i loro rapporti di coordinazione e subordinazione, una classificazione delle S. ha solo l’intento più modesto di dividere le S. in due o più gruppi secondo l’affinità dei loro oggetti o dei loro strumenti d’indagine. È ovvio che anche le enciclopedie delle S. possono essere considerate come semplici classificazioni; ma molto più efficaci sono state nei confronti dello stesso la- voro scientifico alcune semplici classificazioni pre- sentate dai filosofi dell’800. La più famosa di tutte è quella proposta da Ampère di S. dello spirito o noologiche e S. della natura o cosmologiche (Essai sur la philosophie des sciences, 1834). Questa classificazione è stata estesamente accettata e ta- lora riespressa con altri termini, per es., come distinzione tra S. culturali e S. naturali (Du Bols- ReyMonp, Kulturgeschichte und Naturwissenschaften, 1878). Alla sua diffusione contribuì soprattutto Dil- they che nella Introduzione alle scienze dello spirito (1883) insistette sulla differenza tra le scienze che mirano a conoscere causalmente l’oggetto, che ri- mane esterno, cioè le S. naturali e quelle che invece mirano a comprendere l’oggetto (che è l’uomo), e a riviverlo intrinsecamente, cioè le S. dello spirito. Windelband a sua volta distingueva tra S. nomo- tetiche che cercano di scoprire la legge e concernono la natura; e S. idiografiche che hanno invece di mira il singolo nella sua forma storicamente de- terminata e hanno per oggetto la storia (Geschichte und Naturwissenschaften, 1894, poi nei Praludien). In modo più riuscito Rickert esprimeva la stessa differenza affermando che le S. della natura hanno carattere generalizzante mentre le S. dello spirito hanno carattere individuante (Die Grenzen der na- turwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1896-1902, pa- gina 236 sgg.) (v. STORIOGRAFIA). Da un altro punto di vista, Comte aveva di- stinto due specie di S. naturali: le S. astratte o generali che hanno per oggetto la scoperta delle leggi che regolano le diverse classi dei fenomeni e le S. concrete, particolari, descrittive, che consi- stono nell’applicazione di queste leggi alla storia effettiva dei differenti esseri esistenti (Cours de phil. positive, 1830, I, II, $ 4). Spencer riprendeva questa distinzione e a sua volta divideva tutte le S. in astratte (logica formale e matematica), astratto- concrete (meccanica, fisica, chimica) e concrete (astronomia, mineralogia, geologia, biologia, psico- logia, sociologia) (The Classification of the Sciences, 1864). E Wundt semplificava questa classificazione riducendola a due gruppi soltanto: quello delle S. formali (logica e matematica) e quello delle S. reali (le S. della natura e dello spirito) (System der Philosophie, 1889). Poco diversa da questa è la classificazione triadica di Ostwald in S. formali, S. fisiche e S. biologiche (Grundriss der Naturphilo- sophie, 1908). La distinzione tra S. formali e S. reali è ancora largamente accettata. R. Carnap l’ha riproposta sul fondamento che le S. formali conter- rebbero solo asserzioni analitiche e le S. reali o fattuali conterrebbero anche asserzioni sintetiche (in Erkenntniss, 1934, n. 5; ora in Readiîngs in the Philosophy of Science, 1953, pag. 123 sgg.). Così interpretata la classificazione lascia, come nota Carnap, intatta l’unità della S. giacchè «le S. formali non hanno oggetto affatto: sono sistemi di asserzioni ausiliarie senza oggetto e senza con- tenuto » (/bid., pag. 128). Queste ultime parole di Carnap si spiegano tenendo presente che alla distinzione tra le varie S. non si può dare oggi un carattere assoluto 0 rigoroso. Le seguenti parole di von Mises esprimono bene il punto di vista più diffuso sull’argomento:

«Ogni ripartizione e suddivisione delle S. ha solo un’importanza pratica e provvisoria, non è siste- maticamente necessaria e definitiva, cioè dipende dalle situazioni esterne in cui si compie il lavoro scientifico e dalla fase attuale di sviluppo delle singole discipline. I progressi più decisivi hanno spesso origine dal chiarimento di problemi che si trovano al confine di settori sino ad allora trattati separatamente » (K/eines Lehrbuch des Positivismus, 1939, V, 7). SCOLASTICA (ingl. Scholasticism; franc. Sco- lastique; ted. Scholastik). x. Propriamente, la filo- sofia cristiana del Medio Evo. Si chiamò scholasticus nei primi secoli del Medio Evo l'insegnante di arti liberali ed in seguito il docente di filosofia o teologia che teneva le sue lezioni prima nella scuola del chiostro, o della cattedrale, poi nell’Università. S. significa perciò, alla lettera, la filosofia della scuola. Poichè le forme dell’insegnamento medie- vale erano due, la /ecrio, che consisteva nel com- mento di un testo e la disputatio, che consisteva nell’esame di un problema fatto con la discussione degli argomenti che si possono addurre pro e contra, l’attività letteraria assunse nella S. prevalentemente la forma di Commentari o di raccolte di questioni (v. QUESTIONE).Il problema fondamentale della S. è quello di portare l’uomo alla comprensione della verità rive- lata. La S. è l’esercizio dell’attività razionale (0, in pratica, l’uso di una qualche determinata filosofia, che è quella neoplatonica o quella aristotelica) allo scopo di accedere alla verità religiosa, di dimostrarla o chiarirla nei limiti in cui questo è possibile e di approntare per essa un armamentario difensivo contro l’incredulità e le eresie. La S. pertanto non è una filosofia autonoma, come, ad es., la filosofia greca: il suo dato o il suo limite è l’insegnamento religioso, il dogma. Nel suo stesso compito essa non si fida delle sole forze della ragione ma fa appello, per aiuto, alla stessa tradizione reli- giosa o filosofica con l’uso delle cosiddette aucio- ritates. Auctoritas è la decisione di un concilio, un detto biblico, la sentenzia di un padre della chiesa o anche di un grande filosofo pagano, arabo o giudaico. Il ricorso all’autorità è la manifestazione tipica del carattere comune e super-individuale della ricerca S., nella quale il singolo vuole conti- muamente sentirsi appoggiato dalla responsabilità collettiva della tradizione ecclesiastica. La S. medievale si suole distinguere in tre grandi periodi: 1° l’alta S. che va dal rx secolo alla fine del x secolo, che è caratterizzata dalla fiducia nell’armonia intrinseca e sostanziale di fede e ra- gione e nella coincidenza dei loro risultati; 2° il fiorire della S. che va dal 1200 ai primi anni del 1300, che è l’epoca dei grandi sistemi nel quale l’accordo tra fede e ragione viene ritenuto solo parziale, senza che tuttavia si ritenga possibile il loro contrasto; 3° la dissoluzione della S. che va dai primi decenni del 1300 sino al Rinascimento durante la quale il tema fondamentale è per l’ap- punto il contrasto tra fede e ragione. Questo concetto della S. è stato avviato dall'opera fondamentale di M. GRABMAN, Die Geschichte der scholastischen  Methode (1909, rist. 1956). Non sono mancati i tentativi di considerare la S. come una sintesi dottrinale completa nella quale con- fluissero e si fondessero i contributi individuali (per es., da parte di De WuLF, Histoire de la philosophie médiévale, 1900 e successive ed.); ma questi tentativi non hanno base storica e si riducono a mettere fuori dalla S. un gran numero di autori S. e a stabilire, tra gli altri, concordanze e unifor- mità fittizie (cfr. AsBagnANO, Storia della fil., 2% ed., 1958, I, $ 171, e relativa bibliografia). 2. Per estensione si può chiamare S. ogni filosofia che si assuma il compito di illustrare e difendere razionalmente una determinata tradi- zione o rivelazione religiosa. In questo compito di regola una S. si avvale di una filosofia già stabilita e famosa: sicchè in questo senso la S. è l’utilizza- zione di una filosofia determinata per la difesa e l’illustrazione di una determinata tradizione reli- giosa (v. FiLosoria). In questo senso generalizzato le S. sono molte, sia nell’antichità che nel mondo moderno. Nell’antichità furono S. il neoplatonismo, il neopitagorismo, ecc. Nel Medio Evo furono S. la filosofia degli arabi e dei giudei. Nel mondo moderno è una scolastica la filosofia di Malebranche, quella di Berkeley, della destra hegeliana, di Ro- smini, di molti spiritualisti, ecc. SCOMMESSA (ingl. Wager; franc. Pari; tede- sco Wette). Viene così chiamato il famoso argomento di Pascal in favore della fede. Poichè l’esistenza di Dio non si può dimostrare, Pascal dimostra che è conveniente scommettere sull’esistenza di Dio. « La vostra ragione non riceve maggior danno scegliendo l’uno che scegliendo l’altro perchè bisogna scegliere necessariamente. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita dando a croce il senso che Dio esiste. Valutiamo i due casi: Se guadagnate, guada- gnate tutto; se perdete, non perdete niente. Scom- mettete dunque che egli esiste, senza esitare» (Pensées, 233). Pascal aggiunge che, una volta decisi a scom- mettere, sarà facile credere, « facendo tutto come se si credesse, prendendo l’acqua benedetta, facendo dir messe, ecc. Ciò vi farà credere e vi abbrutirà (abétira) (Ibid.).» L'argomento fu ripetuto da W. James nella sua Volontà di credere (1897). James interpreta il passo pascaliano come se dicesse che è irrazionale correre il rischio di perdere la verità, pur di non incorrere eventualmente in errore (The Will to Believe, cap. I). L’argomento pascaliano non è suscettibile di molte interpretazioni e tutte le discussioni intorno ad esso tendono piuttosto a difenderlo o a confutarlo. È soprattutto riuscita sconcertante l’espressione ado- perata da Pascal «vi abbrutirà» (vous abérira). E non è mancato chi ha cercato espungerla dal testo pascaliano, leggendo invece a/lestira che significhe- rebbe « vi renderà pronto » (GAILLARD, « Une nou- velle leson d’un mot célèbre de Pascal», in Annales de l'Université de Grenoble, XXI, 13). Ma in realtà l’espressione pascaliana non intende ridurre la fede all’abbrutimento, ma si riferisce ad uno dei punti fondamentali della dottrina di Pascal, per cui la fede deve investire non soltanto lo spirito dell’uomo ma anche la macchina, l’auroma che è nell'uomo (Pensées, 250) cioè il complesso delle abitudini che fissano la fede stessa e la sottraggono al dubbio. L’abétira si riferisce a questo secondo aspetto, senza il quale la fede stessa è incompleta. SCOPRIMENTO (ted. Entdecktheit). Secondo Heidegger, «la possibilità dell’essere di ogni ente non conforme all’Esserci » [cioè di ogni cosa del mondo] di essere rintracciata e determinata « attra- verso un particolare processo che la scopre mo- vendo dall'ente che per primo s'incontra nel mondo ». È, secondo Heidegger, uno dei caratteri fondamentali delle cose, in quanto utilizzabili, quindi della mondità in generale (Sein und Zeit, $ 18). SCOTISMO (ingl. Scorism; franc. Scotisme; ted. Scotismus). La dottrina di Giovanni Duns Scoto (1266-1308) e dei suoi seguaci caratterizzata dai seguenti punti: 1° la dottrina del carattere pratico della scienza teologica, che non conterrebbe verità tco- retiche ma solo regole per la condotta umana in vista della salvezza ultramondana; 2° l’affermazione della indimostrabilità di un numero rilevante di proposizioni filosofiche e teo- logiche. Già Duns Scoto riteneva impossibile dimostrare, ad es., tutti gli attributi di Dio o l’im- mortalità dell'anima. Nello scritto a lui attribuito ma di dubbia autenticità intitolato Theoremara nu- merose altre proposizioni teologiche sono dichiarate indimostrabili; 3° la dottrina dell’univocità dell’essere, che lo S. sostiene in polemica con il tomismo, e per la quale la metafisica è la scienza suprema, avendo per oggetto l’essere in generale, cioè sia quello delle creature sia quello di Dio; 4° la dottrina dell’individuazione, che fa con- sistere l’individuazione stessa nell’ultima determi- nazione della forma, della materia e del loro com- posto cioè nella Aaecceitas (v. INDIVIDUAZIONE). Questa dottrina fu interpretata dalla scuola di Scoto, in polemica con la dottrina tomistica che l’individuazione dipende dalla materia signata, nel senso che l’individuazione dipende dalle forme e precisamente dal sovrapporsi di un numero inde- finito di forme nello stesso composto; 5° il volontarismo, cioè la dottrina del primato della volontà, che Duns Scoto condivide con Enrico di Gand (v. VOLONTARISMO). SCOZZESE, SCUOLA (ingl. Scottish School; franc. École écossaise; ted. Schortische Schule). Un gruppo di filosofi scozzesi che comprende Tom- maso Reid (1710-96), Dugald Stewart (1753-1828), Tommaso Brown (1778-1820), Guglielmo Hamilton (1788-1856) ed Enrico Mansel (1820-71), le cui dottrine fondamentali sono: 1° l’appello al senso comune per garantire alcune verità teoretiche e morali che si ritengono fondamentali per l’uomo (v. SENSO COMUNE); 2° il realismo naturale cioè la teoria che l’oggetto immediato del conoscere non è l’idea (come da Cartesio a Hume si era ritenuto) ma la stessa cosa esterna (v. REALISMO). SCRUPOLO (ingl. Scruple; franc. Scrupule; ted. Skrupel). Esitazione ad agire per una incerta valutazione della situazione cioè perchè non si sa se l’azione progettata sia corretta o meno. Tale è il significato della parola in frasi come «Gli è venuto uno S.» oppure « Agire senza S.». Scrupolosità significa dall’altro lato l’atteggia- mento di chi suscita a se stesso S. al fine di eseguire meglio un lavoro o di svolgere più accuratamente un'attività qualsiasi. SECONDARIA, PROPOSIZIONE (ingl. Secondary Proposition; franc. Proposition secondaire; ted. Sekundàr Satz). Boole indicò con questa espressione le proposizioni che hanno per oggetto altre proposizioni, mentre chiamò pri- marie le proposizioni che hanno per oggetto le relazioni tra cose (Laws of Thought, 1854, cap. XI). SECONDARIE E PRIMARIE, QUALITÀ. V. QUALITÀ. SECUNDUM QUID ET SIMPLICITER (FALLACIA). Identificata già da Aristotele (Soph. El., 5, 167 a), è la fallacia (v.) che consiste nel pas- sare da una premessa in cui un certo termine è preso in senso relativo ad una conclusione in cui il termine stesso è preso in senso assoluto (« Se il non-essere è oggetto di opinione, il non-essere è 1). (Cfr. Pietro Ispano, Sunm. Log., 7.46 sgg.). G.P. SEGNALE (ingl. Signal; franc. Signal; te- desco Signal). 1. Lo stesso che segno (v.). Morris intende la parola nel senso di segno naturale (Signs, Language and Behavior, I, 8). 2. Lo stesso che simbolo (v.). In questo secondo senso la parola è usata quando si parla, per es., di un «S. di pericolo +: S. qui è un segno conven- zionale cioè un simbolo. SEGNO (gr. omuetov; lat. Signum; ingl. Sign; franc. Signe; ted. Zeichen). Qualsiasi oggetto od

evento, usato come richiamo di altro oggetto od evento. Questa definizione che è quella general- mente adoperata o presupposta nella tradizione filosofica antica e recente, è generalissima e consente di comprendere sotto la nozione di S. ogni possi- bilità di riferimento: per es., quello dell’effetto alla causa o viceversa; della condizione al condi- zionato o viceversa, dello stimolo di un ricordo al ricordo stesso; della parola al suo significato; del gesto indicativo (per es., un braccio teso) alla cosa indicata; dell’indizio o del sintomo di una situazione alla situazione stessa, ecc. Tutte queste relazioni possono essere comprese nella nozione di segno. In senso proprio e ristretto, tuttavia, questa nozione dev’essere assunta come la possibilità del riferimento di un oggetto o evento presente ad un oggetto o evento non presente o la cui presenza o non presenza è indifferente. In questo senso più ristretto la possibilità d’uso dei S. o semiosi è la caratteristica fondamentale del comportamento umano perchè consente l’utilizzazione del passato (di ciò che « non è più presente ») per la previsione e la progettazione del futuro (di ciò che «non è ancora presente +). In tal senso si può dire che l’uomo è per eccellenza un animale simbolico, in questo suo carattere venendo a radicarsi la possi- bilità di scoperta e d’uso di quelle recniche, in cui consiste propriamente la sua ragione (v.). La dottrina del S. quale fu per la prima volta formulata dagli Stoici conserva ancor oggi la sua validità. Gli Stoici chiamavano S. in generale « ciò che sembra rivelare qualcosa »; ma in senso proprio chiamavano S. «ciò che è indicativo di una cosa oscura » cioè non manifesta (Sesto Emp., Adv. Math., VIII, 143; /p. Pirr., I, 99 sgg.). Considera- vano pertanto i S. di due specie fondamentali: S. rammemorativi che si riferiscono a cose solo occasionalmente oscure, per es., il fumo che è S. del fuoco; e S. indicativi che non vengono mai osservati insieme con la cosa indicata che è oscura per natura; e in questo senso i movimenti del corpo si dicono S. dell’anima (/bid., VIII, 148-155). Sappiamo pure che gli Stoici vedevano nella capa- cità dell’uomo di usare i S. la sua differenza dal- l’animale (/bid., VIII, 276); e consideravano il S. come un prodotto intellettuale, identificandolo con « una proposizione costituita da una connessione valida e rivelatrice del conseguente » (/bid., VIII, 245). Gli Epicurei invece consideravano il S. di natura sensibile e tale da consentire e fondare l’in- duzione (Ibid, VIII, 215 sgg.; cfr. INDUZIONE). In seguito, sul modello della dottrina stoica, il S. veniva sempre definito come la relazione di riferimento fra due termini connessi. S. Tommaso non escludeva che si potesse chiamar S. la causa sensibile di un effetto occulto (.S. Th., I, 70, a. 2, ad 2°). La logica terministica distinse il riferimento del S. al suo denotato, che è il rapporto di significa- zione istituito ad arbitrio, dalla supposizione (v.) che è il rapporto per il quale il termine compreso in una proposizione sta in luogo di qualcosa (confronta Pretro Ispano, Summ. Log., 6.03). Ockham defi- niva il S. come « tutto ciò che, una volta appreso, fa venire a conoscere qualche altra cosa » (Surmna Logicae, I, 1); e distingueva il S. naturale ch: è il concetto (o intenzione dell'anima) in quanto è prodotto dalla cosa stessa al modo in cui il fumo è prodotto dal fuoco, dal S. convenzionale, cioè istituito ad arbitrio che è la parola (/bid., I, 14). La filosofia inglese del 6-700 si servi ampiamente della nozione di S. ma non lo definì in modo nuovo. Hobbes diceva: « Un S. è l'antecedente evidentedelconseguente o, al contrario, il conseguente dell’an- tecedente quando conseguenze simili sono state osservate prima; e più spesso sono state osservate, meno incerto è il S. » (Leviarh., I, 3). Berkeley si servì della nozione di S. per definire la funzione delle idee generali, che sarebbero idee particolari «assunte a rappresentare o a stare per altre idee particolari della stessa sorta + (Principles of Human Knowledge, Intr., $ 12). E Wolff dava nell’ultimo capitolo della sua Ontologia una lucida e stringata dottrina del S. definendolo come « un ente da cui si inferisce la presenza o l’esistenza passata o futura di un altro ente » (Onr., $ 952) e distinguendo con- seguentemente il S. dimostrativo che indica un designato presente, il S. prognostico il cui designato è futuro e il S. rammemorativo o memoriale il cui designato è passato (/bid., $ 954). In base a questi concetti, ogni procedimento conoscitivo può ov- viamente essere considerato un procedimento se- gnico. Kant invece, da un lato considerò le parole e i S. visibili (algebrici, numerici, ecc.) come sem- plici espressioni dei concetti cioè come « caratterisensibili » che designano concetti e servono solo come mezzi soggettivi di riproduzione; dall'altro considerò i simboli come rappresentazioni analo- giche, cioè infra-intellettuali, degli oggetti intuiti (Crit. del Giud., $ 59; Antr., I, $ 38). Pertanto, secondo Kant, «chi sa esprimersi sempre soltanto in modo simbolico ha pochi concetti intellettuali e ciò che spesso si ammira nella vivace espressione che i selvaggi (e talvolta anche i pretesi sapienti di un popolo rozzo) usano nei loro discorsi, non è che povertà di idee, e quindi anche di parole per esprimerle» (/bid., $ 38). I kantiani tuttavia non fu- rono così alieni come il loro maestro dal ridurre tutta la conoscenza all’uso dei segni. H. Helmholtz considerava le sensazioni come segni prodotti nei nostri organi di senso dall’azione delle forze esterne; e riponeva la validità di questi S., non n lla loro somiglianza con le cose, ma nel fatto che essi hanno tra loro un ordine che riproduce quello che c’è tra le cose (Die Tatsachen in der Wahrnehmung, 1879). Nella stessa linea di pensiero E. Cassirer ha studiato le forme simboliche della vita umana nonchè il loro significato concettuale (Die Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll., 1923-29) ed ha chiamato l’uomo animal symbolicum (Essay on Man, 1944, cap. II; trad. ital., pag. 49). Quando la teoria dei S., per influenza della logica matematica, viene ripresa nella filosofia contempo- ranea, i suoi tratti fondamentali non mutano; ma ad essa viene aggiunta un altro ordine di consi- derazioni, precisamente quelle che cadono sotto la cosiddetta pragmatica (v.): cioè le considerazioni che concernono il rapporto del S. coi suoi inter- preti. Si può dire che da questo punto di vista non già il S. ma la semiosi (v.) cioè l’uso dei S. o il comportamento segnico, sia il proprio oggetto della semiotica cioè della teoria dei segni. Questo indirizzo è stato inaugurato da C. S. Peirce. Dopo aver dato la definizione tradizionale del S. (come «qualcosa conoscendo la quale conosciamo qual- cos’altro »), Peirce aggiunge che « un S. è un oggetto che è da un lato in relazione con il suo oggetto e

dall’altro in relazione con un interpretante in modo tale da portare l’interpretante in una relazione con l’oggetto corrispondente alla sua propria relazione all’oggetto ». Il S. è pertanto una relazione triadica tra il S. stesso, il suo oggetto e l’interpretante (Coll. Pap., 2.243 sgg.; 8.332). Conseguentemente Peirce classificava i S. sotto tre punti di vista diversi: di per se stessi cioè come S.; nella loro relazione al- l'oggetto; nella loro relazione all’interpretante. Con- siderati in se stessi i S. possono essere apparenze o qualisegni; od oggetti o eventi individuali, cioè sinsegni (nella quale parola la sillaba sin è la prima sillaba di semel, simul, similar, ecc.); o tipi generali o legisegni (Ibid., 8.334). Considerati in rapporto all’oggetto rappresentato, un S. può essere: una icona, per es., una percezione visiva o un’audizione musicale; un indice come sarebbe un nome proprio o il sintomo di una malattia; o un simbolo che è un S. convenzionale (/bid., 8.335). Rispetto all’oggetto immediato il S. può essere S. di una qualità, di un ente o di una legge. Rispetto al suo interpretante, infine, il S. può essere un rema, un dicente o un argomento, cioè un termine, una proposizione o un ragionamento (/bid., 8.337). Questa classificazione di Peirce è stata da lui riespressa con un’altra ter- minologia che ha avuto più fortuna. Egli ha chia- mato ripo una forma definitamente significante, che non è una singola cosa o un singolo evento e non esiste da sè ma determina le cose che esistono; gettone (token) un evento singolo che accade una volta sola, come questa o quella parola che si trova su una sola linea di una sola pagina di una sola copia di un libro; e fono (tone) un carattere indefinitamente significante come un tono di voce (Coll. Pap., 4.537). Queste tre specie corrispondono rispettivamente a legisegno, sinsegno, qualisegno della classificazione precedente (v. PAROLA; TIPO). Molta fortuna ha avuto (e non meritata) la clas- sificazione dei S. che Ogden e Richards dettero in The Meaning of Meaning (1923). Essi distinsero un uso simbolico e un uso emotivo dei S.: l’uso sim- bolico è l’asserzione cioè il riferimento del S. a un oggetto; l’uso emotivo tende invece a esprimere e a produrre sentimenti e atteggiamenti. « Sotto la funzione simbolica sono incluse sia la simbolizza- zione del riferimento sia la comunicazione di esso all’ascoltatore, cioè la produzione nell’ascoltatore di un riferimento simile. Sotto la funzione emotiva sono incluse sia l’espressione di emozioni, atteg- giamenti, umori, intenzioni, ecc., del parlante sia la loro comunicazione cioè la loro evocazione nel- l’ascoltatore » (The Meaning of Meaning, 10* ediz., 1952, pag. 149). Questa classificazione è stata utiliz- zata (specialmente da C. L. STEVENSON, Ethics and Language, 1944) per l’analisi del linguaggio della morale e in generale del linguaggio normativo, ma ha deboli fondamenti, soprattutto per l’impos- sibilità in cui si trova di fornire un criterio semplice e sufficientemente sicuro per effettuare nei casi particolari la distinzione proposta. Una più arti- colata e spregiudicata classificazione dei segni è quella di C. Morris che distingue gli identificatori che significano la localizzazione nello spazio e nel tempo; i designatori che significano le caratteristiche dell'ambiente; gli apprezzatori che significano uno status preferenziale e i prescrittori che significano la richiesta di risposte specifiche (Signs, Language and Behavior, 1946, II, 2; trad. ital., pag. 97). Da questi S. che complessivamente chiama /essicali Morris distingue i S. formatori i quali significano che «la situazione significata in altro modo è una situazione di alternative» (/bid., VI, 1). Questi ultimi sono distinti in dererminatori, come « tutti », « alcuni », « nessuno »; connettori come le virgole, le parentesi, la copula, le congiunzioni e € 0, ecc., e i manieratori, che sono i S. di interpunzione. Morris ha fatto prevalere nella filosofia contem- poranea la teoria dei S. stabilita da Peirce intro- ducendo un'utile terminologia: chiamando veicolo segnico l’oggetto o evento che serve da S.; designato l’oggetto cui il S. si riferisce, interpretante l’effetto del S. sull’interprete cioè il senso del S.; ed infine interprete il soggetto del processo segnico (Foundations of the Theory of Signs, 1938, II, 2). Morris ha pure insistito, sulle orme di Peirce, sul carattere comportamentistico del processo segnico; ha cercato anzi di definire il S. in termini puramente comportamentisti. La definizione cui è giunto è la seguente: « Se qualcosa A guida il comportamento verso un fine in un modo simile (ma non necessa- riamente identico) a quello in cui qualche altra cosa, B, guiderebbe il comportamento verso quel fine nel caso che B fosse osservata, allora A è un S.» (Ibid., I, 2; trad. ital., pag. 21). L’infiuenza della teoria dei riflessi condizionati su questa definizione è evidente (v. AZIONE RIFLESSA). Carnap, e con lui molti altri, hanno accettati i fondamenti della teoria di Morris, come pure la divisione della semiotica generale nelle tre parti da lui proposte (cfr. R. CaRNAP, Foundations of Logic and Mathe- matics, 1939, I, 2; trad. ital., pag. 6-7) (v. SEMIOTICA). SELEZIONE (ingl. Selection; franc. Sélection; ted. Selektion). Scelta: sia intesa come procedi- mente deliberato sia intesa come risultato di un procedimento non deliberato. In questo secondo senso C. Darwin parlò di S. naturale come nel procedimento attraverso il quale la lotta per la vita assicura la sopravvivenza del più adatto (Origin of Species, IV, $ 1). SEMANTICA (ingl. Semantics; franc. Séman- tique; ted. Semantik). Propriamente, la dottrina che considera il rapporto dei segni con gli oggetti cui si riferiscono, cioè il rapporto di designazione. Il termine, che fu proposto per tale dottrina da Bréal (Essais de sémantique. Science des significations, 1897), trova la sua giustificazione etimologica nel verbo greco anualvew, introdotto da Aristotele per indicare quella specifica funzione del segno lin- guistico per cui questo «significa», «designa» qualche cosa. La S. sarebbe quindi quella parte della linguistica (e in particolare della Logica) che studia, analizza, la funzione significatrice dei segni, i nessi tra i segni linguistici (parole, frasi, ecc.) e i loro significati. Sebbene questa ne sia l’accezione più generalmente diffusa, tuttavia nella filosofia e nella Logica contemporanea il termine viene im- piegato anche in altre. Per es., A. Korzybski (Science and Sanity) adopera « S. » per indicare una teoria relativa all'uso del linguaggio, soprattutto nei rapporti delle nevrosi che secondo questo autore sono provocate da, o sono causa di, certi abusi linguistici. I logici polacchi in genere (e in parti- colare Chwistek), che pure hanno contribuito po- tentemente a far nascere questo ultimo ramo della Logica formale, non essendo soliti distinguere tra proposizione ed enunciato, tra significato logico e forma linguistica di una proposizione, usano questo termine per indicare in genere la Logica formale. Ciononostante fu proprio sotto la spinta degli studi dei logici polacchi che verso il 1956 si cominciò a delimitare il campo di questa nuova disciplina. Fu per opera di Ch. W. Morris e R. Carnap che si cominciarono a distinguere in seno alla semiotica (teoria dei segni in generale, dei segni linguistici in particolare) alcuni aspetti fondamentali: la pragmatica, che studia il comportamento segnico di esseri umani che si scambiano segni per deter- minate cause, per certi scopi, ecc. (e quindi è un ramo della psicologia e/o della sociologia); la S., la quale, prescindendo dalle circostanze concrete (psicologiche e sociologiche) del comportamento linguistico, restringe il suo campo all’analisi del rapporto tra segno e referente (significatum, desi- gnatum, denotatum); e infine la sintattica, la quale, facendo astrazione anche dai significati, studia i rapporti intercorrenti tra i segni in se stessi entro un dato sistema linguistico. S. e sintattica vengono di fatto a costituire due grandi capitoli in cui si spezza la Logica formale pura. Però di quest’ultima fa parte non tanto la S. descrittiva, ricerca empi- rica rivolta alla descrizione di un determinato si- stema semantico (o gruppo di sistemi affini) e quindi pertinente piuttosto alla Linguistica che alla Lo- gica, quanto invece la S. pura, la quale costituisce a priori le regole di un sistema sintattico generale. Questa pertanto, piuttosto che una dottrina dei significati, appare come una teoria generale della verità e della deduzione nei sistemi sintattici in- terpretati, e perciò la sua distinzione dalla sintattica diviene molto sottile e problematica (cfr. MORRIS, Foundations of the Theory of Signs, 1938, cap. IV; CARNAP, Foundations of Logic and Mathematics, 1939, I, 2; Meaning and Necessity, 1957, pag. 233; Introduction to Semantics, 1942; 2 ediz., 1958; Linskvy, editor, Semantics and the Philosophy of Language, 1952). Quine ha recentemente insistito sulla diversità del riferimento semantico vero e proprio, che sa- rebbe il significare, dal riferimento del nominare. Tale diversità risulta, per es., dal fatto che si può no- minare lo stesso oggetto, come quando si dice «Scott» e «l’autore di Waverley », mentre i signi- ficati sono diversi. La S. conterrebbe così due parti: una teoria del significato alla quale apparterrebbe l’analisi dei concetti di sinonimia, significanza, ana- liticità, implicazione; e una teoria del riferimento alla quale apparterrebbe l’analisi dei concetti di nomi- nazione, verità, denotazione, estensione. Ma Quine stesso osserva che finora la parola S. è stata ado- perata soprattutto per la teoria del riferimento,

sebbene il nome sarebbe più adatto alla teoria del significato (From a Logical Point of View, 1953, VII, 1; II, 1). V. SIGNIFICATO. SEMASIOLOGIA. Lo stesso che semantica (v.). SEMI (gr. oréppata; lat. Semina). Così sono stati spesso chiamati gli elementi ultimi delle cose. Anassagora usò per primo il termine per designare le particelle che Aristotele chiamò omeomerie (Fr., 4, Diels). Il termine fu poi adoperato da Epicuro (Fr., 250, Uesener) e da Lucrezio (De nat. rer., VI, 201 sgg.; VI, 444, ecc.). La stessa metafora è nella nozione stoica di ragioni seminali (v.). SEMIOSI (ingl. Semiosis). Il processo in cui qualcosa funziona come segno, che è l’oggetto proprio della semiotica, nel senso di Morris (Foun- dations of the Theory of Signs, 1938, II, 2). L’espres- sione è equivalente a quella di comportamento segnico dallo stesso Morris preferita nel volume Signs, Language and Behavior, 1946, I, 2 (v. SEGNO). SEMIOTICA (gr. tò muiwrxéy; lat. Semioric; franc. Sémiotique; ted. Semiotik). Il termine ado- perato dapprima per indicare la scienza dei sin- tomi nella medicina (cfr. GaLENO, Op., ed. Kiin, XIV, 689) fu proposto da Locke per indicare la dottrina dei segni, corrispondente alla logica tra- dizionale (Saggio, IV, 21, 4); e in seguito adope- rato da Lambert come titolo della terza parte del suo Nuovo organo (1764). Nella filosofia contem- poranea, C. Morris ha fatto prevalere, il concetto della S. come teoria della semiosi (v.) più che del segno; e la divisione della S. stessa in tre parti, che corrispondono alle tre dimensioni della semiosi: la semantica che considera il rapporto dei segni con gli oggetti cui si riferiscono; la pragmatica che considera la relazione dei segni con gli interpreti; e la sintattica che considera la relazione formale dei segni tra loro (Foundations of the Theory of Signs, 1938, II, 3). Accettata da Carnap (Founda- tions of Logic and Mathematics, 1939, I, 2), questa distinzione si è largamente diffusa nella filosofia e nella logica contemporanea (v. PRAGMATICA; SE- MANTICA; SINTASSI). SEMPLICE (gr. arà60g; lat. Simplex; inglese Simple; franc. Simple; ted. Einfach). Ciò che manca di varietà o di composizione: vale a dire ciò che esiste in un unico modo o che è privo di parti. Nel primo senso, come mancanza di varietà, intese il S. Aristotele: « Nel senso pri- mario e fondamentale è necessario ciò che è S.: giacchè non è possibile che questo sia in modi diversi o che sia ora in un modo ora in un altro » (Met., V, 5, 1015 b 12). Nel secondo senso ado- però la parola Leibniz che definì la monade una sostanza S. perchè senza parti (Monadologia, $ 1). TI concetto rimase fissato in questo senso per opera di Wolff (Onrol., $ 673). Nella logica terministica medievale era adoperato nello stesso senso il ter- mine incomplexum (= non composto), come con- trario a complesso (v.): cioè o nel senso di un ter- mine che è costituito da una sola parola o nel senso del termine di una proposizione, sia esso costituito da una o più parole (cfr. OckHAM, Expositio aurea, foglio 40 b). Per semplicità come caratteristica delle ipotesi 0 delle teorie scientifiche s'intende l’esigenza dell’eco- nmomia (v.) cui esse devono obbedire (v. TEORIA). Corrispondentemente, per semplificazione s'intende ogni procedura atta a rendere economica la con- cettualizzazione o la teorizzazione, cioè ogni pro- cedura che riduca il numero o la complessità dei concetti adoperati. SENSAZIONE (gr. atomo; lat. Sensus, Sensio; ingl. Sensation; franc. Sensation; ted. Emp- findung). Il termine ha due significati fondamentali: 1° un significato generalissimo per cui designa la totalità della conoscenza sensibile cioè tutti e ognuno i suoi costituenti; 2° un significato speci- fico per cui designa gli elementi della conoscenza sensibile cioè le parti ultime indivisibili da cui essa si suppone costituita. Questo secondo significato ricorre soltanto nella filosofia moderna. 1° Aristotele intende sotto il termine S.: a) le qualità elementari come il bianco, il nero, il dolce, ecc. (De An., III, 2, passim); b) la perce- zione dell’oggetto reale, che chiama S. in arto e che fa coincidere con la realtà stessa dell’oggetto: onde una S. uditiva in atto è identica col suono in atto (/bid., III, 2, 425b 26); c) la facoltà di sentire in generale o senso comune (v.), al quale attribuisce la funzione di percepire i sensibili co- muni e le S. stesse (cioè il sentir di sentire) (De Somno, 2, 455a 17; De An., III, 2, 426b 11; 415 b 12); d) il senso particolare o proprio come l’udito, la vista, ecc. (De Somno, 2, 455 a 14; De An., III, 2, passim); e) l’organo di senso, più frequentemente detto sensorio (De Part. An., II, 10, 657a 3; IV, 10, 686a 8; De Sensu, 3, 440 a 19). Questa terminologia si mantiene lunga- mente nella storia del pensiero occidentale cioè sino a quando, con Cartesio, il concetto di S. comincia ad essere nettamente distinto da quello di percezione. 2° Nel suo più specifico significato il concetto di S. fu delimitato da Cartesio che intese per essa il semplice avvertimento dei « movimenti che ven- gono dalle cose » e la distinse dalla percezione che è invece il riferimento alla cosa esterna (Passions de l’îme, I, 23). Da questa distinzione, che si consolidò sempre più dopo Cartesio, specialmente per opera della Scuola scozzese, la S. veniva ri- dotta ad essere l’unità elementare della conoscenza sensibile, quel che Locke chiamò «idea semplice », e considerata come il materiale della conoscenza; mentre la funzione conoscitiva vera e propria, cioè il riferimento all’oggetto, veniva assunta dalla percezione (v.). È questo il concetto che fu accettato e diffuso da Kant: « La S., egli disse, è l’elemento puramente soggettivo della nostra rappresentazione delle cose che son fuori di noi; ma è propriamente l’elemento materiale della rappresentazione stessa, il reale, ciò con cui è dato alcunchè di esistente » (Crit. del Giud., Intr., $ VII; cfr. Crit. R. Pura, $ I; Dialettica trascendentale, libro I, sez. I: « Una percezione che si riferisca unicamente al soggetto come modificazione del suo stato, è S. »). Il carat- tere primordiale o elementare della S. veniva egualmente accentuato da Hegel, per quanto in forma arbitraria e fantastica: «La S. è la forma dell’agitarsi ottuso dello spirito nella sua indivi- dualità priva di coscienza e di intelletto ». In un certo senso è vera, secondo Hegel, l’asserzione che «tutto è nella S.» nel senso che tutto ha la fonte e l’origine in essa; ma fonte e origine significano solo la maniera prima e più immediata in cui qualcosa appare e la S. non si giustifica da sè (Enc., $ 400). Il concetto di S. come elemento semplice ed ultimo della conoscenza fu dapprima accettato e illustrato da filosofi, poi posto a fondamento della nascente psicologia dai primi cultori di questa scienza. Condillac fu il primo a realizzare la por- tata di questo concetto. Se la S. è l’elemento ultimo della conoscenza, si deve poter ricostruire, a partire da essa, l’intero mondo della conoscenza o dell’attività spirituale umana. Questa è la dimo- strazione che egli si accinse a dare nel 7ratfato delle S. (1754), nel quale assumeva a fondamento il principio che «il giudizio, le riflessioni, le pas- sioni e in una parola tutte le operazioni dell’anima non sono che la S. stessa che si trasforma varia- mente » (7raité des sensations, Compendio della prima parte). Pur nella sua polemica contro il sensismo, Maine de Biran riconosce il carattere semplice ed elementare della S. (CEuvres, ed. Na- ville, II, pag. 115); come le riconosce tale carattere Herbart (Allgemeine Metaphysik, 1828, II, pag. 90). Il concetto del carattere elementare della S. fu posto a base della psicologia da H. Spencer che affermava che «le S. sono stati di coscienza pri- mariamente indecomponibili » (Principles of Psy- chology, 1855, $ 211). Il principio veniva consacrato da G. Fechner nei suoi E/emente der Psychophysik (1860) e da Wundt il quale esplicitamente definiva le S. come « quegli stati di coscienza che non si trali e quindi come i componenti semplici di ogni oggetto sia fisico sia psichico (Analyse der Emp- findungen, 1903, 48 ediz., pag. 14, 17, ecc.). Le esperienze elementari di cui R. Carnap parlava nella Costruzione logica del mondo sono ancora le S. (Die logische Aufbau der Welt, 1928, $ 67). Quando la psicologia della forma (v. PSICOLOGIA) ba eliminato l’atomismo e l’associazionismo della vecchia psicologia, il concetto di S. è diventato pressochè inutile. Ancora la psicologia parla di S. per indicare i suoni, colori, ecc. Ma poichè questo materiale viene dato all’uomo soltanto nel suo ri- ferimento all’oggetto esterno, cioè nella percezione, la percezione stessa diventa l’oggetto proprio della psicologia; e il concetto della S. come unità psi- chica elementare diventa inutile. SENSIBILE (gr. alo@nt6<; lat. Sensibilis; in- glese Sensible; franc. Sensible; ted. Sensibel). 1. Ciò che può essere percepito dai sensi. In questa acce- zione « il S. » è l’oggetto proprio della conoscenza S. come « l’intelligibile » è l'oggetto proprio della co- noscenza intellettiva (ARIST., De An., II, 6, 418 a 7; KANT, Crit. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. III, Nota). Aristotele aveva distinto i S. propri e i S. co- muni (v. SENSO COMUNE); e il S. accidentale dal S. per sè, in quanto il primo si percepisce acci- dentalmente, come accade quando si percepisce il bianco percependo una persona che è bianca (De An., II, 6, 418a 16). 2. Ciò che ha la capacità di sentire. In questa accezione si chiamano «esseri S.» gli animali o si dice che «x è particolarmente S. a qualcosa ». In corrispondenza del significato 4° di senso (v.), si chiama talora S., specialmente in inglese, chi pos- siede buon senso o in generale è capace di giudicare rettamente. 3. Chi ha la capacità di partecipare alle emozioni altrui o di simpatizzare (v. SIMPATIA). SENSIBILITÀ (ingl. Sensibility, Feeling; fran- cese Sensibilité; ted. Sinnlichkeit). 1. L’intera sfera delle operazioni sensibili dell’uomo, comprensiva sia della conoscenza sensibile sia degli appetiti, degli istinti e delle emozioni. 2. La capacità di ricevere sensazioni e di reagire agli stimoli. Per es., «La S. delle piante». 3. La capacità di giudizio o di valutazione in un campo determinato. Per es., «S. morale», «S. artistica 1, ecc. 4. La capacità di partecipare alle emozioni altrui o di simpatizzare. In questo senso si dice sensibile chi si commuove con gli altri e insensibile chi resta indifferente alle emozioni altrui (v. SIMPATIA). SENSISMO (ingl. Sensationalism; franc. Sen- sualisme, Sensationisme; ted. Sensualismus). La dot- trina che riduce tutta la conoscenza alla sensazione € tutta la realtà all'oggetto della sensazione. Kant chiamava sensista Epicuro (Crit. R. Pura, Dottrina del Metodo, cap. IV). Il nome è stato, nella filosofia moderna, riservato a quelle dottrine che ammet- II, 5, 416b 33) e così è rimasto costantemente definito nella tradizione filosofica (S. ToMmMaso, S. Th., I, q. 78, a. 3; Duns Sooro, /n Sent., I, d. 3, q. 8; WOLFF, Psychol. empirica, $ 67; KANT, Antropologia, I, $ 7; ecc.). Il S. in questa accezione comprende sia la capacità di ricevere le sensazioni sia la consapevolezza che si ha delle sensazioni stesse e in generale delle proprie operazioni: capa- cità che nella filosofia moderna è detta più spesso S. interno o riflessione (cfr. Locke, Saggio, II, 1, 4; KANT, Crit. R. Pura, Estetica, $ 1); e talora S. intimo (MAINE DE Biran, Journal intime, I, pag. 13-14; (Euvres, ed. Tisserand, pag. 15, ecc.) o coscienza (v.). 2. La sensazione o il complesso delle sensazioni, come quando si dice «Il S. testimonia che... a. Oppure: gli appetiti sensibili e in particolare i de- sideri sessuali. 3. L’organo di S., ciò che più propriamente si chiama il sensorio o, nella terminologia moderna, il recettore. 4. La capacità di giudicare in generale. In questo significato la parola viene adoperata nelle seguenti espressioni: buon S., che Cartesio ritiene sinonimo di ragione e definisce come «la facoltà di giudicar bene e di distinguere il vero dal falso » (Disc., I). S. morale, che Shaftesbury (Characteristics of Men, 1711) e Hutchinson (System of Moral Philosophy, 1755) assunsero come una capacità istintiva di va- lutazione morale e quindi come guida infallibile dell’uomo. S. razionale o S. logico, che Romagnosi assunse come l’attività che giudica e ordina le sensazioni (Che cos'è la mente sana, 1827, $ 10). A questa stessa accezione del termine si connette l’espressione S. comune sulla quale v. la voce a parte; nonchè altre espressioni come S. pratico, S. degli affari, S. artistico, ecc., che designano egualmente la capacità di giudicare o di orientarsi nei campi particolari indicati dall’aggettivo o dal genitivo. 5. Lo stesso che Significato (v.). SENSO COMPOSTO E DIVISO, FAL- LACIA DEL. V. Composizione; DIVISIONE. SENSO COMUNE (gr. xowà aloBnos; latino Sensus communis; ingl. Common Sense; franc. Sens commun; ted. Gemeinsinn). 1. Aristotele intese con questa espressione la capacità generale di sentire, alla quale attribuì una duplice funzione: 1° quella di costituire la coscienza della sensazione cioè il «sentir di sentire» giacchè tale coscienza non può appartenere ad un organo particolare di S., per es., alla vista o al tatto (De Somno, 2, 455a 13); 2° quella di percepire le determinazioni sensibili co- muni a più S., come il movimento, la quiete, la figura, la grandezza, il numero e l’unità (De An., III, 1, 425 a 14). La nozione fu ammessa anche dagli Stoici che affidavano al S. comune le stesse funzioni (StoBEO, Ecl., I, 50). Ripresa da Avicenna (De An., III, 30), passò nella scolastica medievale (cfr.S. ToMm- Maso, S. Th., I, q. 78, a. 4) ed anche in seguito fu comunemente accettata da tutti gli aristotelici e dagli scrittori che comunque si ispirarono alla psi- cologia aristotelica. 2. Nell’uso degli scrittori classici latini, il termine ha il significato di consuetudine, gusto, modo di vivere o di parlare comune. In questo senso, Cice- rone avverte che per l’oratore è difetto gravissimo «aborrire dal genere volgare del discorso e dalla consuetudine del S. comune» (De Or., 1, 3, 12; cfr. 2, 16, 68); e Seneca afferma che la filosofia intende sviluppare il S. comune (Ep., 5, 4; cfr. 105, 3). Vico non faceva che esprimere in una formula la- pidaria la tradizione degli autori latini, quando af- fermava: « Il S. comune è un giudizio senza alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un or- dine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano » (Sc. Nuova, 1744, De- gnità 12), e quando affidava al S. comune l’ufficio di accertare e determinare «l’umano arbitrio, di sua natura incertissimo,... d’intorno alle umane necessità o utilità » (/bid., Degnità 11). Allo stesso significato si riconnette l’uso del termine presso la Scuola scozzese. Nella Ricerca sullo spirito umano secondo i principî del senso comune (1764) T. Reid adopera l’espressione per designare le credenze tra- dizionali del genere umano, ciò che tutti gli uomini credono o devono credere. Il S. comune è, per tutta la Scuola scozzese, il criterio ultimo di giu- dizio e il principio dirimente di tutti i dubbi filosofici. L’espressione ricorre ora comunemente in un significato analogo, per quanto privo dell’accentua- zione elogiativa di cui la privilegiavano i filosofi scozzesi. Dewey, ad es., sottolinea il carattere pratico del S. comune. «Poichè i problemi e le indagini del S. comune riguardano le interazioni che si stabiliscono da parte degli esseri viventi con l’ambiente al fine di realizzare oggetti d’uso e di fruizione, i simboli impiegati sono quelli che si sono determinati nella cultura corrente di un gruppo sociale. Essi formano un sistema, ma si tratta di un sistema di carattere pratico piuttosto che intel- lettuale. Questo sistema è costituito dalle tradizioni, occupazioni, tecniche, interessi ed istituzioni stabi- lite del gruppo. Le significazioni che lo compon- gono sono un portato del comune linguaggio quo- tidiano col quale i membri del gruppo comunicano tra loro» (Logic, VI, 6; trad. ital., pag. 170). 3. Nella dottrina di Kant il S. comune è il prin- cipio del gusto cioè della facoltà di giudicare degli oggetti del sentimento in generale. « Un tal prin- cipio, dice Kant, non potrebbe esser considerato che come un S. comune, che è essenzialmente diverso dall’intelligenza comune la quale talvolta si chiama anche S. comune (sensus communis); perchè questa giudica, non secondo il sentimento, ma secondo con- cetti sebbene si tratti ordinariamente di concetti oscu- ramente rappresentati » (Crif. de/ Giud., $ 20). L’in- telligenza comune (Gemeine Verstand) di cui qui parla Kant è il S. comune degli scrittori latini e della Scuola scozzese che Kant ritiene inutile in filo- sofia (Prol., A 197); seguito in ciò da Hegel e da altri (cfr. R. CANTONI, Tragico e senso comune, pag. 35 sg.). SENSORIALE (ingl. Sensory; franc. Senso- riel; ted. Sensorisch). Che concerne il sensorio, cioè l’organo di senso. SENSORIO (gr. alo@hpiov; lat. Sensorium). Nella terminologia aristotelica, un organo di senso (De An., II, 9, 421b 32; De Part. An., II, 10, 657 a 3; ecc.): ciò che oggi si chiama un recettore. SENSUALISMO (franc. Sensualisme). 1. L’at- teggiamento che consiste nell’attribuire importanza eccessiva ai piaceri dei sensi. In tale significato adopera la parola Berkeley (A/ciphron, II, 16). 2. Lo stesso che sensismo (v.). Quest’uso, che si presenta solo raramente in taluni scrittori francesi e italiani del secolo scorso è dovuto alla suggestione del termine tedesco corrispondente a sensismo, Sensualismus. SENSUALITÀ (lat. Sensualitas; ingl. Sensua- lity; franc. Sensualité; ted. Sinnlichkeit). La tendenza a indulgere ai piaceri sensibili. e, cioè all'amore. « Vicende S.+, «crisi S.+, ecc., sono espressioni che si riferiscono a situazioni in cui è in giuoco l’amore e precisamente l’amore sessuale. Spesso l’aggettivo S. include anche un riferimento all'amore nel senso romantico (v.): come accade nel titolo di due romanzi famosi: // viaggio S. di STERNE e L'educazione S. di Flaubert. In senso specifico adoperò l’aggettivo F. Schiller per indicare una specie di poesia in contrapposto alla poesia ingenua (v. INGENUITÀ). SENTIMENTALITÀ o SENTIMENTA- LISMO (ingl. Sentimentalism; franc. Sentimenta- lisme; ted. Sentimentalitàt). È l’abbandonarsi alle emozioni proprie o altrui, l’esaltarsi in esse e per esse senza rapporto con la loro forza effettiva, il loro limite e la loro funzione. Kant vide nel senti- mentalismo la debolezza di lasciarsi dominare, anche contro la propria volontà, dalla partecipa- zione allo stato emotivo degli altri. La contrappose perciò alla padronanza di sè: la quale rende possi- bile quella finezza di sentimento per cui si giudica dell’emozione degli altri, non secondo la propria forza, ma secondo la loro debolezza. Di fronte alla padronanza di sè, è ridicolo e puerile il lasciarsi do- minare dall’emozione altrui, abbandonandosi senza discrezione a partecipare a tale emozione (Antr., I, $ 62). In realtà però si ha sentimentalismo anche quando ci si abbandona alle proprie emozioni o alla loro manifestazione esterna illudendosi sulla loro forza e consistenza o amplificandone l’importanza. SENTIMENTO (ingl. Sentiment; franc. Sen- timent; ted. Geftihl). Il termine può significare: 1° lo stesso che emozione nel significato più gene- rale o qualche tipo o forma superiore di emozione. Per questo significato v. EMOZIONE; 2° opinione, nel senso in cui si dice « ho il S. che qualcosa non va » per significare un’opinione che si ritiene esatta ma di cui non si saprebbe al momento dare giusti- ficazione. Per questo significato v. OPINIONE; 3° la fonte delle emozioni cioè il principio, la facoltà o l’organo che presiede alle emozioni stesse e da cui esse dipendono; ovvero la categoria nella quale esse rientrano. In questo senso la parola viene ora adoperata nell’uso corrente, quando, per es., si contrappone il «S.» alla «ragione» (considerata invece come l'organo o la facoltà delle conoscenze obiettive) e in frasi come questa: «La politica non si fa col sentimento ». Quest’uso trova la sua giustificazione in una tradizione filosofica relativamente recente cioè in quella della filosofia moderna. Difatti la filosofia antica e medievale non conosce il S. come fonte o principio di affezioni, affetti o emozioni e pertanto non adopera questa nozione come ca- tegoria per ordinare e classificare le affezioni del- l'anima. Nè la psicologia platonica, che distingue un'anima razionale, un’anima concupiscibile e una anima irascibile (Rep., IV, 12-15); nè la psicologia aristotelica che distingue un principio vegetativo, un principio sensitivo e un principio intellettivo (De An., II, 2) riconoscono una fonte e un prin- cipio autonomo delle emozioni, le quali vengono ripartite tra le varie partizioni o princìpi ammessi, non esclusa quella razionale o intellettiva. Lo stesso accade nella filosofia medievale che segue le orme della psicologia aristotelica. In realtà, il riconosci- mento di una fonte o principio autonomo delle emozioni è connesso col riconoscimento della sog- gettività umana come alcunchè di irreducibile a un complesso di elementi oggettivi od oggettivabili o a modificazioni passive prodotte da tali elementi. Questo riconoscimento caratterizza gl’inizi della fi- losofia moderna ed è, come si sa, un portato del cartesianesimo. I presupposti di questo riconoscimento vanno ricercati in quella linea di pensiero che va da Pascal ai moralisti francesi e inglesi (La Rochefoucauld, Vauvenargue, Shaftesbury e Hume) sino a Rousseau SENTIMENTO e a Kant e culmina in quest’ultimo: quello stesso in- dirizzo che ha portato all’elaborazione del concetto moderno di passione, come emozione dominante, e a quella nozione di gusto (v.) che è strettamente collegata con quella di sentimento. Il «S.», il «cuore ?, lo «spirito di finezza » furono le espres- sioni adoperate da Pascal per indicare il principio o l’organo delle emozioni, in quanto distinto dal principio o dall’organo dei ragionamenti e irriducibile ad esso. «Quelli che sono avvezzi a giudicare col S., dice Pascal, non capiscono niente nelle cose di ragionamento perchè vogliono penetrar subito la questione con un colpo d’occhio e non sono avvezzi a cercare i princìpi. E gli altri, al con- trario, che sono avvezzi a ragionare per princìpi, non capiscono niente delle cose di S. perchè ricer- cano i princìpi e non possono coglierli con un sol colpo d’occhio » (Pensées, 3). Al S. o al cuore è dovuta la stessa certezza che i primi princìpi del ra- gionamento hanno («I princìpi si sentono, le propo- sizioni si deducono e in ciascuna di queste due forme vi è certezza, quantunque raggiunta per vie di- verse »); e al S. e al cuore è affidata la vera reli- giosità cui il ragionamento può solo avvicinare e di cui solo può dare l’attesa (/bid., 282). All’elabo- razione e al riconoscimento della categoria del S. hanno poi contribuito i moralisti inglesi e francesi sopra accennati con la loro accentuazione della parte dominante delle emozioni nella vita dell’uomo. Infine bisogna ricordare che il « ritorno alla natura » bandito da Rousseau come lo strumento adatto a liberare l’uomo dai mali prodotti dagli artifici sociali e a riportarlo alla bontà originaria, è inteso da lui come ritorno al primitivo S. naturale. Il S. naturale è un istinto, una tendenza originaria, che porta l’uomo al bene; e che quando non è alterata, sofisticata o bloccata, lo mantiene e lo fa progredire nel bene stesso. In queste famose tesi di Rousseau sta forse la prima nascita della cate- goria del S. come principio a sè della vita spirituale. Ma il primo che ha teorizzato, filosoficamente, questa categoria e l’ha inclusa in una nuova tri- partizione dei poteri o delle facoltà spirituali, è stato probabilmente Kant. Mentre Wolff (e sulle sue orme i wolffiani) ammetteva soltanto due atti- vità fondamentali dello spirito umano, il conoscere e il volere, oggetti delle due branche fondamentali della filosofia, la teoretica e la pratica, Kant ha riconosciuto un terzo potere o facoltà, quello del sentimento. « Tutti i poteri o le facoltà dell’anima, dice Kant (Crir. d. giud., Intr., $ III) possono essere ricondotte a tre, che non si lasciano ulteriormente ridurre a un principio comune: il potere conoscitivo, il S. del piacere o del dolore e il potere di desi- derare +. Il S. del piacere o del dolore deve essere inserito tra il potere conoscitivo e il potere di desi- derare e gli deve essere riconosciuto un proprio principio autonomo, che Kant chiama facoltà del giudizio (v.). Il S. è così il campo proprio della critica della facoltà del giudizio, come la facoltà di desiderare è il campo proprio della critica della ragion pratica. Kant contrassegna il S. come l’aspetto irriducibilmente soggettivo di ogni rappresentazione. Egli dice (/bid., $ VIN): «Quello che vi è di soggettivo in una rappresentazione e che non può affatto diventare un pezzo di conoscenza è il piacere o il dolore che è legato con la rappresentazione; giacchè attraverso di essi io non conosco nulla dell'oggetto della rappresentazione sebbene essi possano essere l’effetto di una qualche conoscenza ». Conformemente a questa rivendicazione dell’auto- nomia del S. come categoria spirituale, Kant divide la prima parte della sua Antropologia pragmatica, parte destinata al « modo di conoscere interno ed esterno dell’uomo» in tre libri rispettivamente dedicati al potere conoscitivo, al S. del piacere e del dolore e al potere appetitivo. A sua volta, il secondo libro è diviso in due parti principali, la prima dedicata al «S. del piacevole e del piacere sensibile nella sensazione di un oggetto »; la seconda dedicata al « S. del bello, cioè al S. in parte sensibile, in parte intellettuale proprio dell’intuizione riflessa o del gusto». Questa seconda parte ricapitola in forma popolare i risultati della Critica del giudizio, la prima contiene una serie di osservazioni sul S. del piacere e del dolore in connessione con i dati dei sensi (cfr. pure, Mer. der Sitten, Intr., 1, nota) (v. EMOZIONE). Con ciò il S. aveva fatto il suo ingresso ufficiale come categoria indipendente nella considerazione filosofica dell’uomo. Hegel stesso lo accoglie come una determinazione dello spirito soggettivo e lo definisce come «un’affezione determinata», ma determinata in modo semplice cioè tale che, anche se il suo contenuto è solido e vero (e non sempre lo è) esso assume la forma di « particolarità acci- dentale ». Hegel aggiunge: «Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa o almeno alla ragione, all’universalità dell’intelletto, ma al suo S., non c'è altro da fare che lasciarlo stare; perchè egli in tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione e si rinchiude nella sua soggettività isolata, nella sua particolarità » (Enc., $ 447). Hegel era su questo punto in polemica con l’indirizzo letterario del Romanticismo. Questo infatti fece della scoperta e dell’esaltazione del S. la propria bandiera, scorgendo nel S. stesso la forma più intima e nello stesso tempo più libera della vita spirituale. Per i Romantici artista può essere solo colui che, come dice Federico Schlegel (/deen, $ 13), «ha una sua religione, un’intuizione originale 30 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. dell’infinito ». Questa intuizione originale dell'in- finito è ciò che i Romantici chiamano sentimento. Il S., in altri termini, è la manifestazione dell’In- finito, cioè di Dio stesso, all’intimità della coscienza. I tratti che definiscono il S. nella concezione ro- mantica sono perciò due: 1° il suo carattere di intimità estrema, per cui esso costituisce quanto di più soggettivo c’è nel soggetto; 2° la sua capacità di rivelare il Principio infinito della realtà. Per questo secondo aspetto il S. viene inteso dai Roman- tici, alternativamente o contemporaneamente, come l’organo proprio dell’arte, della filosofia e della religione. Come organo della religione lo considerò Schleiermacher in quanto ritenne che « il S. soltanto rivela l’Infinito » (Reden, II; trad. ital., pag. 43): una tesi che è stata poi ripresentata e difesa frequen- temente. In tempi recenti come organo dell’arte il S. è stato considerato da Gentile (Filosofia del- l’arte, 1931) in quanto l’arte è la « pura, intima, e farà quindi una parte importante alle donne, che rappresentano per l’appunto l’elemento affettivo del genere umano (Politique positive, I, pag. 204 sgg.). Questo accadrà perchè la morale di questa futura società sarà l’altruismo, ma un altruismo sviluppato al punto di creare inclinazioni o istinti benevoli, che agiscano, come fa appunto il S., senza più bisogno della riflessione. Le preoccupazioni reli- giose e morali di Comte lo condussero ad insistere sul valore del S. e ad esaltare il S. stesso in modo romantico. Ma al di fuori e contro il Romanticismo, il S. fu accolto come categoria fondamentale della vita spirituale e cioè come una delle « facoltà » o « poteri + dello spirito. Ed è curioso che mentre Kant aveva, come si è visto, ammessa la tripartizione di cono- scenza, S. e volontà, solo in base a un modesto ma valido motivo metodologico, cioè per la ragione che i tre gruppi di fenomeni non si lasciano ricon- durre ad un principio comune, subito dopo Kantquesta tripartizione comincia ad essere dogma- tizzata: a Fries essa già appare come un risultato immediato dell’osservazione di sè (Anthropologie, T, 1837, $ 4). Herbart, per quanto negasse la dottrina delle facoltà dell'anima e ritenesse che esse sono piuttosto «concetti di classe +, secondo i quali si ordinano i fenomeni osservati, incluse tuttavia tra tali concetti di classe quello di sentimento. E Be- necke vedeva nel S. le basi della morale e della religione, la quale ultima si originerebbe appunto dal S. di dipendenza dell’uomo da Dio, S. giusti- ficato dalla frammentarietà della vita umana e dall’esigenza di un completamento che può venirle solo da Dio (System der Metaphysik und Religions- philosophie, 1840). Rosmini considerò il S. come la coscienza di sè che è il punto di partenza e la base per ogni conoscenza dell’anima (Psicologia, $ 69). La tripartizione delle facoltà dello spirito in conoscenza, sentimento e volontà rimase come uno schema pressochè costante nella filosofia del se- colo xtx. Alla sua diffusione molto contribuì l’opera di Cousin che a quella tripartizione fece corrispon- dere tre valori assoluti: il Vero, il Bello e il Bene (Du vrai, du beau et du bien fu il titolo della più nota opera di Cousin, 1853). E se si prescinde dalle critiche di carattere metodologico sull’oppor- tunità di simili rigidi schemi di ripartizione per la considerazione dei fenomeni spirituali, quella ripar- tizione è tuttora la più diffusa e si è incorporata con il modo comune di pensare. Una eccezione è rappresentata da Croce, che ha ridotto le forme dello spirito alle due ammesse già da Wolff: la teoretica e la pratica con una critica del S. consi- derato come categoria spuria ed ambigua. Nel S., Croce ha visto una parola « adoperata a deno- minare una classe di fatti psichici costituita secondo il metodo naturalistico e psicologico »: una no- zione che ha esercitato varie volte nell’estetica, nella storiografia, nella logica e nell’etica una fun- zione negativa e critica, contrapponendo a inter- pretazioni troppo limitate ed anguste ciò che di « indeterminato » e «semi-determinato + rimaneva fuori di tali interpretazioni. La testimonianza a cui egli fa appello per rigettare questa categoria, è quella dell’osservazione interiore: « Cerchi chi vuole nel suo spirito; e si provi a indicare un atto solo che sia a differenza dei sopra indicati [cioè degli atti teoretici e pratici] qualcosa di nuovo e originale e meriti la speciale denominazione di S. » (Fil. della pratica, I, I, c. 2). Ma questo genere di testimonianza è oltremodo variabile e fuori di qualsiasi controllo; a Fries, per es., e a molti altri, la distinzione del S. dalle altre attività spirituali parve così lampantemente sostenuta dalla testi- monianza interiore come a Croce è parsa da essa smentita. E in realtà l’uso di tali categorie, come S., attività teoretica, attività pratica, può essere discusso e quindi limitato e regolato, solo in base all’analisi precisa di un gruppo delimitabile di feno- meni: analisi che Croce non ha neppure tentato. Nella filosofia contemporanea, tuttavia, tali analisi non mancano e sono tra i contributi meno discu- tibili che essa ha portato ad una positiva conoscenza dell’uomo nel suo mondo. Uno di questi contributi e fra i più importanti è quello di Max Scheler; il quale si è rifatto alle parole di Pascal, « Il cuore ha ragioni che la ragione non conosce +, interpre- tandole non nel senso, abbastanza frequente della filosofia moderna e contemporanea (v. CUORE), che la ragione debba avere una certa condiscendenza per il S. e cercare di rispondere alle sue esigenze, ma nel senso che il S. ha sue proprie leggi e suoi propri oggetti e costituisce così un mondo rispetto

a quello della conoscenza razionale. Scheler co- mincia col distinguere, dai semplici stati emotivi che non hanno carattere intenzionale, non si rife- riscono cioè immediatamente ad un loro proprio oggetto (v. EMOZIONE), il S. originario e intenzionale che è invece una particolare reazione allo stato emotivo e consiste nel modo estremamente vario e mutevole di atteggiarsi di fronte allo stato emotivo cioè di affrontarlo, tollerarlo, goderlo, soffrirlo, ecc. Per es., uno stato emotivo è il piacere sensibile corrispondente al carattere gradevole di un pranzo, di un profumo, di un lieve contatto. Il S. puro consiste invece nelle reazioni dell’io a tale stato emotivo: per es., nel goderlo più o meno o nel tollerarlo, ecc. Sicchè mentre uno stato emotivo rientra nel contenuto fenomenico, un S. puro rientra nelle funzioni destinate ad apprendere tale contenuto. Da questo punto di vista l'attitudine a soffrire e a godere non ha nulla a che fare con la sensibilità nei riguardi del piacere e del dolore. Il grado del piacere o del dolore può essere lo stesso, eppure la sofferenza o il godimento che hanno di tale piacere o dolore due individui o lo stesso in- dividuo in momenti diversi può essere completa- mente diverso. Ora mentre gli stati emotivi si pos- sono riferire solo indirettamente agli oggetti o fatti che li provocano o di cui sono considerati i segni, i sentimenti puri si riferiscono immediatamente ad un loro oggetto specifico, che è il valore. Il S. ha quindi col valore l'identica relazione che si riscontra fra la rappresentazione e il suo oggetto: la relazione intenzionale (v. INTENZIONALITÀ). Mentre occorre un atto di riflessione per connet- tere uno stato emotivo con l’oggetto di cui è segno o che riteniamo l’abbia provocato, il S. è connesso col suo oggetto specifico, il valore, in modo immediato, come accade, per es., quando sentiamo la bellezza dei monti nevosi al tramonto. La connessione intenzionale tra S. e valore non ha quindi nulla a che fare con un legame causale tra S. ed oggetto ed è anche indipendente con la causa- lità psichica individuale cioè dalle leggi che regolano la vita psichica dell’individuo. E difatti quando le esigenze dei valori non sono sodisfatte, noi sof- friamo, ad es., di non poterci rallegrare di un avvenimento quanto il suo valore meriterebbe, oppure di non poterci rattristare come, ad es., la morte di una persona amata lo richiederebbe (Formalismus, pag. 260 sgg.). In tal modo, secondo Scheler, il S. apre l’accesso ad un mondo di oggetti, che sono altrettanto reali come le cose o i fatti che sono gli oggetti della rappresentazione, ma non hanno nulla in comune con essi perchè non sono nè cose nè fatti, ma valori. Scheler è pertanto d’accordo con Kant nel ritenere che il S. non sia «un pezzo di conoscenza »; ma non è d’accordo con lui nel ritenere che esso non abbia alcun oggetto e sia quindi privo di carattere intenzionale. Sono privi di oggetti e sono quindi puri stati emotivi solo le emozioni sensibili, mentre i senti- menti vitali e quelli psichici possono sempre rive- lare un carattere intenzionale (cioè riferirsi ad un oggetto-valore) e quelli spirituali lo rivelano necessariamente (per la distinzione dei gradi emo- zionali, v. EMOZIONE). L'analisi di Scheler è molto importante perchè getta nuova luce sulla vita emozionale dell’uomo. Essa tuttavia è stata fatta servire, da Scheler stesso, alla fondazione di una vera e propria metafisica dei valori, nella quale i che sia suscettibile di controllo (v. REALTÀ) e non c’è ragione d’identificare l’intenzionalità emotiva con l’intenzionalità conoscitiva; anzi Scheler stesso dà buone ragioni in contrario. Se le cose stanno così, se cioè l’intenzionalità del S. è differente dall’inten- zionalità della conoscenza, e sono così diversi i rispettivi oggetti, la critica mossa da Scheler all’in- dirizzo della psicologia contemporanea di negare « la funzione conoscitiva » dei S., perde la sua base. La psicologia contemporanea ammette infatti la funzione dei S. nel comportamento vitale dell’or- ganismo e vede in essi l’annunzio di situazioni presenti o future, annunzio che permette di af- frontare tali situazioni al modo in cui un dispo- sitivo d’allarme mette in opera i mezzi per affron- tare un pericolo. Come Scheler, Heidegger ha riconosciuto l’importanza fondamentale del S., che egli ritiene radicato nella sostanza stessa dell’uomo, cioè nella struttura ontologica della sua esistenza. Heidegger chiama situazione affettiva (Befindlichkeit) la tonalità emotiva dell’affaccendarsi quotidiano dell’uomo e vede in questa tonalità una manifesta- zione essenziale dell’essere dell'uomo nel mondo. « L’emotività propria della situazione affettiva, egli dice (Sein und Zeit, $ 29) costituisce essenzialmente l’essere aperto del mondo da parte dell’Esserci, cioè dell’uomo esistente ». Il poter essere colpito dalla minaccia delle cose o degli eventi del mondo e il reagire a questa minaccia con la paura o con l’intrepidezza, è, secondo Heidegger, la situazione fondamentale di un ente, che come l’uomo vive in un ambiente che gli fornisce le cose da utilizzare e che perciò lo può minacciare con la non utiliz- zabilità, con la resistenza delle cose stesse. Anche qui, se si prescinde dal linguaggio specifico dell’on- tologia di Heidegger, l’analisi risulta fondamental- mente concordante con quella della psicologia contemporanea; e la nozione del S. come capacità di apprendere il valore che un fatto o una situa- zione presenta per l’essere (animale o uomo) che la deve affrontare, ne esce riconfermata. Infine bisogna ricordare che il riconoscimento del S. come « sede primaria della datità dei valori » è stato effettuato anche da Nicolai Hartmann, che l’ha posto a base della sua etica (Ethik, 1926). SENTIMENTO FONDAMENTALE. Con questo termine Rosmini ha indicato la coscienza che l’uomo ha del proprio io e della connessione, costitutiva di esso, di anima e corpo. « Nell'uomo, quale è naturalmente al primo istante del viver suo, vi è: 1° un sentimento unico costante-fonda- mentale, animale-spirituale; 2° una percezione razionale, immanente, del sentimento animale » (Psicologia, 1850, $ 256). SEPARAZIONE (gr. Bwxpiow; lat. Sepa- ratio; franc. Séparation; ted. Trennung). La riso- luzione di un composto nelle sue parti o nei suoi elementi. Il termine fu usato da Anassagora (Fr., 10, Diels) e da Empedocle (#7., 58, Diels) (cfr. PLAT., Sof., 243b; ArRIsT., Met., I, 4, 985 a 25). SEQUENZA (lat. Sequentia; ingl. Sequence; franc. Séquence; ted. Folge). Un insieme di termini tra i quali intercede una relazione di prima e dopo (cfr. PelrcE, Coll. Pap., 3. 562 B). SERIE (ingl. Series; franc. Série; ted. Reihe). 1. Un insieme di termini tra i quali intercorre una qualsiasi relazione definibile. 2. Una relazione asimmetrica, transitiva e coerente. In questo senso la S. non è l’insieme dei termini cioè il campo della relazione, ma la relazione stessa; e, per es., le S.: 1, 2, 3; 1, 3, 2; 2, 3, 1, sono diverse per quanto abbiano lo stesso campo (cfr. B. RussELL, Introduction to Mathematical Philosophy, IV; trad. ital., pag. 47) (v. RELAZIONE). SERIETÀ (ingl. Earnestness; franc. Sérieux; te- desco Ernst). Kierkegaard ha fatto della S. una specie di categoria morale definendola come « l’ori- ginalità conquistata dal sentimento, conservata nella responsabilità della libertà e affermata nel godi- mento della beatitudine». La S. consiste nella ripeti- zione (v.) ed è la condizione affinchè la ripetizione stessa non diminuisca il valore degli atti ripetuti (Der Begriff Angst, IV, $ 2, 0). SESSO (ingl. Sex; franc. Sexe; ted. Sex). 1. I fi- losofi si sono solo raramente occupati del sesso come di un costituente dell’uomo. Nel Convivio platonico Aristofane espone, sulle origini del sesso, il mito degli androgini, dai quali per separazione vo- luta da Zeus a scopi punitivi sarebbero derivati i due sessi complementari (Conv., 189 e). Ma le spe- culazioni platoniche vertono propriamente, non sul S., ma sull’amore. E così fanno quelle di altri filosofi, compreso Schopenhauer che nella sua Metafisica del- l’amore sessuale considera l’amore sessuale come il semplice espediente di cui «il genio della specie », cioè la Volontà di vita, si servirebbe per favorire

l’opera oscura e problematica della propagazione della specie. Nel mondo moderno, l’azione della psi- canalisi (v.) ha richiamato l’attenzione dei filosofi sul S.; e specialmente i fenomenologici e gli esisten- zialisti si sono occupati dei fenomeni relativi. Una valorizzazione dell'atto sessuale come forma di espressione della personalità umana è stata tentata da Max Scheler nel libro sulla Wesen und Formen der Sympathie (1923; trad. franc., pag. 168 sgg.). E mentre Heidegger ha considerato come privo di sessualità il Dasein, Sartre ha considerato la sessualità stessa come una struttura fondamentale dell’esi- stenza. Dice Sartre: « Benchè il corpo abbia un com- pito importante, bisogna riportarsi all’essere nel mondo e all’essere per altri: io desidero un essere umano, non un insetto o un mollusco e lo desidero in quanto esso è, ed io sono, in situazione nel mondo, e in quanto è un altro per me e io sono un altro per esso » (L’étre et le néant, 1943, pag. 452-53). Il sesso sarebbe la struttura fondamentale dell’esi- stenza umana in quanto esistenza nel mondo (cfr. pure ABBAGNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 55) (v. AMORE; PSICANALISI). 2. I filosofi hanno invece spesso insistito sulla differenza sessuale. Aristotele ritenne che la donna costituisce una mostruosità naturale, resa tuttavia inevitabile dalla conservazione della specie (De

Gen. An., 7, 775 a 15-17). La donna differisce dal- l’uomo per il grado minore in cui partecipa dei poteri della ragione (Po/., 1260 a 11-14): pertanto il suo posto è subordinato a quello dell’uomo e a le funzioni biologiche entra poco o nulla. SETTA (lat. Secta; ingl. Sect; franc. Secte; ted. Sekte). 1. Scuola o indirizzo filosofico. In questo senso la parola è usata dagli scrittori latini (CIcER., Brut., 31, 120; Quint., /st. Or., V, 7, 35, ecc.). 2. Gruppo di persone che difendono con fana- tismo o intolleranza una credenza qualsiasi. In questo senso si adopera oggi l'aggettivo sertario. SFERA (gr. cpaipo, opatpoc; lat. Globus; in- glese Globe; franc. Globe; ted. Sphdre). Secondo gli antichi la figura perfetta, che comprende in sè tutte le altre figure ed è l’immagine dell’omogeneità e della perfezione (cfr. PLAT., Tim., 33 b). Parmenide paragonava ad una «S. perfettamente rotonda » l’essere in quanto è definito da ogni parte, uguale a se stesso e tale che in nessuna sua parte sia maggiore O minore di se stesso (Fr., 8, 41, Diels). Ed Empedocle chiamava sfero la fase perfetta dell’essere, quella nella quale domina l’amicizia: « Ma da ogni parte era uguale e per tutto infinito, lo sfero rotondo che gode della sua avvolgente solitudine» (F7., 28, Diels). Nel Rinascimento, Nicolò Cusano ripren- deva queste speculazioni, insistendo sulla perfe- zione della figura circolare (De docta ignorantia, I, 21) e attribuendo la forma sferica all’anima stessa (De ludo globi, I). SFORZO (ingl. Effort; franc. Effort; ted. Stre- ben). L'attività diretta a vincere un ostacolo o una resistenza qualsiasi. La nozione fu introdotta in filosofia da Fichte che se ne avvalse per mostrare la derivazione della realtà dall’Io: « L’attività pura dell’io, rientrante in se stessa, è, in relazione ad un oggetto possibile, uno S.; anzi, uno S. infinito. Questo S. infinito è all’infinito la possibilità di ogni oggetto: senza S., non c’è oggetto» (Wissenschafts- lehre, 1794, $ 5, II; trad. ital., pag. 213-14). Maine de Biran si avvalse della nozione e identificò con l’esperienza immediata dello S. sia il principio metafisico di causalità sia la libertà dell’io. Preso nella sua sorgente, lo S. è libertà cioè è l’io come libertà; nei confronti della resistenza che gli si oppone, è necessità (Fondements de la psychologie, in CEuvres, ed. Naville, II, pag. 284). Si può consi- derare questo concetto come una continuazione del più antico concetto di corato (v.). SI (ted. Man). V. ANONIMIA. SIGNIFICANZA (ingl. Significance; ted. Be- deutsamkeit). 1. Lo stesso che significato (v.). 2. Importanza o valore. Da questo punto di vista si chiamano, per es., significanti gli eventi di importanza storica. SIGNIFICATO (gr. rexrév; lat. Significatio; ingl. Meaning; franc. Signification; ted. Bedeutung). Si intende con questo termine la dimensione se- mantica del procedimento segnico cioè la possibilità di riferimento del segno al suo oggetto. Gli aspetti (o condizioni) fondamentali del S. sono due: 1° un nome o un concetto o una essenza (per es., « Ales- sandro Manzoni», «uomo», «l’autore dei Pro- messi Sposi »), usato allo scopo di delimitare e orientare il riferimento; 2° l’oggetto (per es., rispettivamente, Alessandro Manzoni, gli uomini, Alessandro Manzoni) al quale il nome o il concetto o l’essenza è riferito. I due aspetti del S. sono inscindibili; il secondo è una funzione del primo perchè è il nome o concetto che determina a quale oggetto il riferimento possa o non possa indiriz- zarsi. Ma i due aspetti non si identificano tra loro giacchè l’oggetto può essere lo stesso, mentre il nome o concetto adoperato per il riferimento è diverso: come nel caso di « Alessandro Manzoni + e «l’autore dei Promessi Sposi» che si riferiscono allo stesso oggetto ma sono nomi diversi. Nè le determinazioni che hanno lo stesso oggetto possono essere ritenute equivalenti perchè non sono sosti- tuibili l’una all’altra; e, per es., chiedere « se Ales- sandro Manzoni è l’autore dei Promessi Sposi + non è lo stesso che chiedere « se Alessandro Manzoni è Alessandro Manzoni». La differenza tra i due aspetti del S. (o la relazione tra di essi) costituisce la base dei problemi cui il termine ha dato luogo e delle diverse definizioni che ha ricevuto. Gli Stoici, che hanno fondato la dottrina del S., riconobbero entrambi gli aspetti di esso. « Tre sono gli elementi che si collegano, il S., ciò che significa e ciò che è. Ciò che significa è la voce, per es., ‘ Dione ’. Il S. è la cosa indicata dalla voce, che noi cogliamo pensando alla cosa corrispondente. Ciò che è, è il soggetto esterno, per es., lo stesso Dione» (Sesto EMP., Adv. Math., VIII, 12). Più particolarmente, il S. è per essi « una rappresenta- zione razionale cioè una rappresentazione grazie alla quale e possibile esporre con un discorso ciò che è rappresentato » (/bid., VIII, 70; Dio. L., VII, 63). In queste notazioni i due aspetti del S. sono chiamati rispettivamente « voce » o « rappre- sentazione razionale » e « ciò che è » o «soggetto ». «Ciò che è» o «il soggetto » è il S. come oggetto; la «voce» o la «rappresentazione razionale » è il S. come nome, concetto o essenza. Gli Stoici riser- vano particolarmente a quest’ultimo il nome di S.; e in ciò (come vedremo) sono seguiti da alcuni autori moderni. Nella logica medievale, la distin- zione tra i due aspetti del S. fu espressa come distinzione tra significazione e supposizione. Dice Pietro Ispano: « La supposizione e la significazione differiscono perchè la significazione è fatta mediante l'imposizione di una voce per significare un og- getto, ma la supposizione è l’accezione di un termine già significante per qualcosa d'altro, e, per es., quando si dice ‘l’uomo corre’, questo termine ‘l’uomo ’ sta per Socrate e per Platone. La significazione perciò è precedente alla suppo- sizione e le due cose non sono identiche giacchè il significare è proprio della voce e la supposizione è propria del termine che è già composto di voce e S.» (Summ. Log., 6.03). Qui per significatio viene inteso ciò che gli Stoici intendevano per lecton: il concetto o la rappresentazione che è adoperata per il riferimento obbiettivo, mentre il riferimento obbiettivo stesso è designato come suppositio. Ma in più degli Stoici questa dottrina include la separazione dei due aspetti del S., attri- buendo il primo ai termini isolatamente presi, il secondo ai complessi cioè alle proposizioni. Una dottrina identica veniva esposta nel Medio Evo da Ockham (Summa Logicae, I, 63), da Buridano (Sophismata, 2) e da Alberto di Sassonia (Logica, II, 1); mentre S. Tommaso accennava a una dottrina diversa solo terminologicamente, per la quale il S. e la supposizione coincidono nei termini singolari ma non in quelli generali, per i quali il S. è l’essenza (S. Th., I, q. 39, a.4, in principio). Sulla distinzione fra i due aspetti del S. si fonda la distinzione che la logica moderna di stampo tradizionale ha stabilito tra i due elementi del con- cetto: chiamati talora comprensione ed estensione {v. COMPRENSIONE); talaltra intensione ed estensione (v. INTENSIONE): talaltra ancora connotazione e denotazione (v. ConnoTazIoNE). La prima coppia di termini fu introdotta dalla logica di Portoreale (I, 6); la seconda da Leibniz (Nouv. Ess., IV, 17, $ 9); la terza da Stuart Mill (Logic, I, 1,8 59). Quest'ultimo proponeva di restringere il significato di S. alla connotazione, chiamando denotazione il riferimento obbiettivo. Egli diceva: « Ogni volta che i nomi dati agli oggetti apportano qualche informazione cioè ogni volta che essi, propriamente, hanno un S., il S. risiede non in ciò che essi denotano ma in ciò che essi connotano. I soli nomi di oggetti che non connotano niente sono i nomi propri; e questi, strettamente parlando, non hanno signi- ficato » (/bid., I, 2, $ 5). Ciò che egli intendeva con connotazione appare chiaro dal seguente passo: «La parola uomo, per es., denota Pietro, Gianna, Giovanni e un numero indefinito di altri individui, dei quali, presi come una classe, esso è il nome. Ma quella parola viene applicata ad essi in quanto essi posseggono, e per significare che posseggono, certi attributi » (/bid.). Gli attributi che costituiscono l’uomo e cioè ad es., la corporeità, l’animalità, la razionalità, ecc. formano pertanto la connotazione del nome « uomo »: ciò che nella tradizione filoso- fica si chiamava «essenza» o, più tardi, «concetto». G. Frege non faceva pertanto che dare espressione ad una vecchia e nuova tradizione distinguendo senso e significato. « Pensando a un segno, diceva, (sia esso un nome o un nesso di più parole o una semplice lettera) dovremo collegare ad esso due cose distinte: cioè non soltanto l’oggetto designato che si chiamerà S. (Bedeutung) di quel segno, ma anche il senso (Sinn) del segno, che denota il modo in cui quell’oggetto ci viene dato ». Frege avvertiva che per senso o nome intendeva « una qualunque indicazione che compiesse ufficio di un nome pro- prio cioè fosse un oggetto determinato (prendendo la parola oggetto nel modo più ampio)» (Uber Sinn und Bedeutung, 1892, $ 1; trad. ital., in Arit- metica e logica, pag. 218-19). La stessa distinzione veniva effettuata da Peirce con una terminologia diversa: Peirce parlava dell’oggerto del segno e dell’interpretante del segno stesso, che è il senso di Frege. Diceva Peirce: « Il segno crea qualche cosa nello spirito dell’interprete e questo qualche cosa, in quanto è stato creato dal segno è stato anche creato, in modo mediato e relativo, dall’oggetto del segno, per quanto l’oggetto sia essenzialmente altro dal segno. Questa creatura del segno è detta l’inter- pretante » (Coll. Pap., 8.179; lo scritto è del 1903). Questa terminologia è stata sostanzialmente accet- tata da Morris, che ha chiamato designato (desi- gnatum) l’oggetto e interpretante il concetto (Foun- dations of the Theory of Signs, 1938, $ 2). Vero è che Morris ritiene inutile il termine stesso di S., sembrandogli esso ricco di confusioni e pretende farne a meno nella sua trattazione (/bid., $ 12). Ma in realtà ne può fare a meno soltanto perchè ha introdotto nella sua analisi del segno, sotto altri nomi, i due componenti del S. che la tradizione ha costantemente distinto. I logici contemporanei mani- festano la tendenza, già presente in Stuart Mill, a restringere la parola S. alla sfera della connota- zione. Lewis, riservando il termine S. per entrambi gli aspetti, distingue la significazione (signification) del termine (cioè la connotazione) dal suo riferi- mento obbiettivo che egli distingue in denotazione e comprensione: la prima essendo la classe di tutte le cose reali alle quali il termine si applica, la seconda essendo la classe di tutte le cose possibili alle quali si applica (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, cap. III, pag. 39 sgg.). Dalla stessa significa- zione, Lewis poi distingue il «S.-senso» (sense meaning) che si distinguerebbe da essa per essere il modo in cui lo spirito si riferisce alla significazione stessa (/bid., pag. 133 e nota 3). Ma queste distin- zioni non modificano sostanzialmente la dicotomia tradizionale del significato di significato. La stessa dicotomia viene espressa da Quine come quella tra S. (o connotazione o intensione) e nominazione (naming) che sarebbe l’estensione o denotazione (From a Logical Point of View, 1953, II, 1); e da Carnap che fonda su di essa la dicotomia di due operazioni fondamentali possibili rispetto a una data espressione linguistica: quella di « analizzare l’espressione stessa con lo scopo di capirla, di affer- rarne il S. e quella che invece consiste in ricerche concernenti la situazione di fatto alla quale l’espres- sione si riferisce » (Meaning and Necessity, 1947, $ 45). Ed ha inoltre insistito sul fatto che il concetto di si- gnificato intensionale, come condizione generale che un oggetto deve adempiere affinchè un parlante XY predichi quel significato dell’oggetto stesso, è privo di qualsiasi riferimento psicologico e può essere ap- plicato anche a un robot (/bid., pag. 246 e n. 5). A sua volta Church ha adottato la terminologia di Frege chiamando senso la connotazione e signi- ficato la denotazione; e in più introducendo la parola concetto: « Diremo che un nome denota o nomina la sua denotazione ed esprime il suo senso. Meno esplicitamente possiamo parlare di un nome che ha una certa denotazione ed fa un certo senso. Del senso diciamo che derermina la denotazione o è un corcetto della denotazione » (/ntroduction to Mathematical Logic, 1956, $ 01). Di fronte a questa salda e, salvo la varietà della terminologia, uniforme tradizione stanno i tentativi di modificarla o ridu- cendo l’una all'altra le due dimensioni del S. (A) o aggiungendo nuove specie di significati (2). A) Il tentativo di ridurre una delle dimensioni del S. all’altra è stato effettuato in entrambe le dire- zioni: cioè riportando sia il senso al S. sia il S. al senso. Il primo tentativo è quello proprio di Rus- sell e Wittgenstein. L’intera teoria esposta nell’arti- colo di Russell del 1905 («On Denoting» ora in Logic and Knowledge, 1956, pag. 41 sgg.) nonchè nel I capi- tolo dei Principia Mathematica di Russell e White- head (1910) e nell’altro libro di Russell, An /nquiry into Meaning and Truth (1940), è, nelle stesse parole di Russell, che « non c’è alcun significato, ma solo talvolta una denotazione » (Logic and Knowledge, pag. 46, nota). E difatti per Russell il S. di un sim- bolo si riduce unicamente ai componenti del fatto cui il simbolo stesso si riferisce. «I componenti del fatto che fa una proposizione vera o falsa, a seconda dei casi, sono i S. dei simboli che noi dobbiamo capire per capire la proposizione» (Logic and Know- ledge, pag. 196). È proprio da questo punto di vista che il linguaggio ideale è quello che ha la sola sin- tassi e nessun vocabolario: giacchè il vocabolario è perchè costituisce una ridu- zione all’assurdo della eliminazione del senso (Sinn) dal S.: il riferimento all'oggetto, non essendo guidato o limitato dal concetto, è sempre legittimo e, dove non appare tale, è solo perchè non è stato effet- tuato.La riduzione inversa del S. al senso cioè il ten- tativo di ridurre l’intero S. alla connotazione o concetto è stato effettuato da Husserl. Questi ha negato che l’oggetto costituisse il S. o coincidesse con esso (Logische Untersuchungen, II, pag. 46). La sua tesi è che «il S. logico è un'espressione » nel senso che esso solleva «al regno del /ogos, del concettuale, quindi dell’universale » il senso (Sinn) percettivo della cosa. In altri termini Husserl sosti- tuisce alla dicotomia oggetto-concetto la dicotomia senso (percepito)-concetto: nella quale il concetto è l’essenza della cosa, la sua concettualizzazione o espressione compiuta (/deen, I, $ 124). Un tentativo di riduzione analogo a questo è stato quello di Royce il quale, dopo aver distinto il S. esterno di un’idea, che è la corrispondenza dell'idea con l'oggetto, dal S. interno di essa che è «lo scopo consapevole incor- porato nell’idea», riduce a quest’ultimo lo stesso S. esterno, sul fondamento che è « l’idea stessa che sceglie l’oggetto con il quale vuole essere confron- tata » (The World and the Individual, 1901, II, cap. 1). B) 1 principali tentativi di presentare nuove specie di S. in aggiunta o in concorrenza con le due consacrate dalla tradizione sono i seguenti: 1° La definizione del S. come uso. Questa è la tesi delle Philosophical Investigations (1953) di Wittgenstein. « Per un’estesa classe di casi — seb- bene non per tutti — nei quali adoperiamo la pa- rola ‘ S. * essa può essere definita così: il S. di una parola è il suo uso nel linguaggio. E il S. di un nome è qualche volta spiegato indicando il suo portatore» (Op. cit., $ 43). Ma per quanto pre- sentata, dallo stesso Wittgenstein e da altri, in con- correnza con la definizione semantica di S., la nozione di uso appartiene ad un'altra sfera di problemi e ad un altro livello di indagine. Il pro- blema cui essa risponde è difatti quello della for- mazione dei significati nelle lingue naturali. L’uso non è il S., ma lo determina: nel senso che ad esso è dovuta la connessione tra un oggetto e una voce (o in generale un veicolo segnico). Le definizioni di un dizionario sono senza dubbio stabilite dal- l’uso; esse tuttavia esprimono la connotazione e la denotazione dei termini. Pertanto la teoria dell'uso non è una teoria del S., ma piuttosto una teoria circa l’origine e la formazione delle lingue naturali. 2° La proposta di un S. emotivo accanto al S. « simbolico » o « descrittivo». Questa proposta, fatta da Ogden e Richards (Meaning of Meaning, 1923, ediz. 1952, pag. 149 e passim) è stata espressa da C. L. Stevenson nel modo seguente: « Il S. emo- tivo è un S. nel quale la risposta (dal punto di vista dell’ascoltatore) o lo stimolo (dal punto di vista del parlatore) è un complesso di emozioni» (Ethics and Language, 1944, pag. 59). Il S. emo- tivo così inteso sarebbe distinto dal significato sim- bolico che consisterebbe nel suo riferimento all’og- getto; e il significato stesso potrebbe in generale definirsi come la qualità disposizionale di un segno a produrre l’una o l’altra di queste reazioni, cioè o un insieme di emozioni o il riferimento all’og- getto (/bid., pag. 53 sgg.). Prescindendo dal fatto che l’uso del termine emotivo per indicare norme di leggi, prescrizioni tecniche o comandi (tutte cose che rientrerebbero nella categoria dei signifi- cati emotivi) può a buon diritto ritenersi barbarico (v. EMOZIONE), la dottrina in questione sembra suggerita dal fatto che il significato denotativo viene ristretto al riferimento a cose reali, sicchè molti segni semplici o composti sembrano non avere denotazione perchè non si riferiscono a cose. In realtà il riferimento denotativo si rivolge a og- getti in generale (v. OGGETTI) ed oggetti sono ugualmente le cose reali come quelle fantastiche, i piani, i progetti, i desideri e le aspirazioni come le qualità sensibili o le entità percepite. Pertanto un enunciato che esprime un ordine o un desiderio o un progetto può avere, nella situazione a cui tali cose si riferiscono, la sua denotazione cioè il suo oggetto o il suo referente. Nè da un punto di vista logico, che è quello appunto della teoria del signi- ficato, tali oggetti sono distinguibili dagli altri. 3° La definizione del significato come del- l'intenzione di chi parla. Il S. in questo senso sa- rebbe ciò che il parlante intende dire, a prescindere dal riferimento oggettivo della parola o dell’enun- ciato adoperato. In questo senso si usa dire « In- tendo dire... » (in inglese: / mean... dal verbo to mean che ha la stessa radice di meaning = S.) per chiarire o rettificare una propria dichiarazione. È abbastanza ovvio che ogni descrizione o chiari- mento dell’intenzione del parlante non può aversi che mediante la determinazione dell’oggetto cui egli si riferisce o della sua connotazione: cioè mediante l’uso delle dimensioni proprie del significato. Tali dimensioni vengono pertanto semplicemente pre- supposte dalla definizione in esame. Talvolta questa viene proposta come un S. aggiunto a quello tra- dizionale (cfr. M. BLACK, Problems of Analysis, 1954, pag. 55-56); ma è anche chiaro che l’inten- zione del parlante non è un’altra specie di S. ma piuttosto il modo in cui il parlante adopera le di- mensioni logiche del significato. A questa stessa confusione tra intenzione e S. si connette l’uso di questo termine in frasi come queste: « Un universo meccanico non avrebbe S. », «Se tutto si svolgesse a caso, la storia non avrebbe S.+: nelle quali la parola S. sta ovvia- mente per intenzione o scopo, quindi per valore. 4° La proposta di un S. « pittorico » o « im- maginifico » accanto agli altri in quanto «il lin- guaggio può essere usato con l’intenzione primaria di esprimere o evocare pitture (o immagini) in un modo che differisce dall’uso dei segni e formula possibilità empiricamente significanti» (v. C. At- DRICH, « Pictorial Meaning and Picture Thinking », in Readings in Philosophical Analysis, 1949, pa- gina 175 sgg.). Ma è chiaro che anche questa pro- posta è suggerita dal presupposto (estraneo a qual- siasi teoria logica del S.) che l’oggetto del riferi- mento sia una cosa reale o una situazione di fatto e non possa essere d’altra natura. In realtà i S. « pittorici » hanno connotazione e denotazione come tutti gli altri. 5° La definizione del S. come un vertore di campo nel senso che esso sarebbe una disposizione messa in atto dall’oggetto stagliatosi sullo sfondo di un campo o contesto appropriato. Più precisa- mente esso sarebbe l’attivazione o messa in atto di una risposta descrittiva, provocata dall’oggetto (A. P. UsHENKO, 7he Field Theory of Meaning, 1958, pag. 109). Ma questa è bensì una teoria circa la formazione dei S. (che può essere discussa in sede di teoria del linguaggio) ma non innova nulla no S. espressivo le locuzioni che non hanno S. teoretico e tuttavia manifestano uno stato d'animo del soggetto che li adopera o servono a produrre stati d’animo analoghi nel sog- getto che le ascolta. Le interiezioni, le esclamazioni, le espressioni metaforiche hanno un S. di questo genere. Talvolta, e specialmente da parte dei seguaci dell’empirismo logico (v.), si assimilano le espres- sioni della metafisica tradizionale a enunciati di questo genere, al fine di negare ad essi ogni valore cognitivo. Questo però è un uso polemico, che può essere registrato solamente come tale (v. ARTE; METAFISICA; POESIA). SILENZIO (lat. Silentium; ingl. Silence; fran- cese Silence; ted. Schweigen). L'atteggiamento mi- stico di fronte all’ineffabilità dell’essere supremo (cfr., ad es., BONAVENTURA, /finerarium mentis in Deum, VII, 5). Secondo Jaspers, l’atteggiamento di fronte all’essere della Trascendenza (Philosophie, III, pag. 233). Secondo Wittgenstein, l’atteggia- mento di fronte ai problemi della vita: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere » (Tractatus logico-philosophicus, T). SILLOGISMO (gr. ovMmoywapsc; lat. Syllogi- smus; ingl. Syllogism; franc. Syllogisme; ted. Syl- logismus). La parola che in origine significa calcolo e da Platone veniva usata per ragionamento in ge- nerale (cfr. Teer., 186 d) fu adottata da Aristotele per indicare il tipo perfetto del ragionamento de- duttivo, definito come «un discorso in cui, poste talune cose, alcune altre ne seguono di necessità + (An. Pr., I, 1, 24b 18; I, 32, 47a 34). Le carat- teristiche fondamentali del S. aristotelico sono: 1° il suo carattere mediato; 2° la sua necessità. Il carattere mediato del S. dipende dal fatto che il S. è la controparte logico-linguistica del concetto metafisico di sostanza. In virtù di questo, il rap- porto tra due determinazioni di una cosa non si può stabilire se non sulla base di ciò che la cosa è necessariamente cioè della sua sostanza; e, per es., se si vuol decidere se l’uomo ha la determinazione di « mortale » non si può che guardare alla sostanza dell’uomo (a ciò che l’uomo non può non essere) e ragionare nel modo seguente: « Tutti gli animali sono mortali, Tutti gli uomini sono animali, Dunque tutti gli uomini sono mortali». Ciò si- gnifica che l’uomo è mortale perchè animale: l’animalità è la causa o la ragion d'essere della sua mortalità. In questo senso si dice che la nozione «animale» fa da rermine medio del S.: il termine medio è ovviamente indispensabile perchè è quello che rappresenta nel S. la so- stanza, o il riferimento alla sostanza, che sola rende possibile la conclusione (An. Posr., Il, 11, 94a 20). Il S. ha dunque tre termini cioè il soggetto e il predicato della conclusione e il termine medio. Ma è la funzione del termine medio che determina le diverse figure del sillogismo (v. SILLOGISTICA). Ari- stotele distinse oltre le figure, varie specie del sillo- gismo. Il S. è per definizione deduzione necessaria: perciò la sua forma primaria e privilegiata è il S. ne- cessario che Aristotele chiama pure dimostrativo o scientifico o S. dell’universale (An. Pr., I, 24, 25b 29). Da esso si distingue il S. dialettico, che è fondato su premesse probabili ed è quindi solo probabile (Ibid., II, 23, 68b 10; An. Posr., II, 8, 93a 15); esso è detto anche retorico; e di esso è una specie il S. eristico, fondato su premesse che sembrano probabili ma non lo sono (7op., I, 1, 100b 23). Dei S. necessari, la prima e migliore specie è quella dei S. ostensivi (v.), che Aristotele contrappone a quelli che partono da un’ipotesi (An. Pr., I, 23, 40b 23). Questi ultimi non sono quelli che si chiameranno in seguito S. ipotetici ma quelli la cui premessa maggiore non è la conclusione di un altro S. nè è evidente per sè, ma è assunta per via d’ipotesi (/bid., I, 44, 5S0a 16). Di tali S. è una specie quello che conclude mediante la riduzione all’assurdo (Ibid, 50a 29). Tra i S. ostensivi i più perfetti sono i S. universali della prima figura ai quali è possibile ricondurre tutte le altre forme del S. (/bid., I, 7, 29b 1). Infine dal S. deduttivo si distingue il S. indurrivo o induzione (Ibid., I, 23, 68b 15). Dall’altro lato, non sono specie dei S. quelle che Aristotele chiama S. geometrico, medico, politico (Top., I, 9, 170 a 32) e il S. pratico (Er. Nic., VI, 12, 1044a 31) che si distinguono tra loro solo per il contenuto dei princìpi cui fanno appello, non per la forma logica. Nè, propriamente parlando, sono specie del S. i S. composti come l’epicherema e il sorite; o contratti come l’enrimema: sui quali tutti vedi le singole voci. Non è poi af- fatto un S. la divisione, cioè uno dei metodi della dialettica platonica, che Aristotele chiama «S. de- bole » (An. Pr., I, 31, 46a 33). Gli Stoici, che misero a base della loro logica, non la teoria della sostanza, ma quella della perce- zione, considerarono come tipo fondamentale del ragionamento non il S. ma il ragionamento anapo- dittico, che ha soltanto due termini e ha per pre- messa maggiore una proposizione condizionale (« Se è giorno c’è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce»; v. ANAPODITTICO). Gli aristotelici, a partire da Teofrasto, tradussero negli schemi aristotelici i ragionamenti anapodittici degli Stoici aggiungendo al S. categorico aristotelico, come due altre specie di S., quello ipotetico e quello disgiuntivo (con- fronta PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 375 se- guenti; i testi fondamentali sono dati da Alessandro, Ad An. Pr., f. 134 a-b). La dottrina veniva trasmessa alla filosofia occidentale attraverso l’opera di Boezio che tuttavia si ispirava ad autori posteriori e soprat- tutto a Galeno (De syllogismo hypothetico, in P. L., 64). La dottrina del S. così completata veniva trasmessa dalla tradizione senza sostanziali muta- menti, l’attività dei logici sbizzarrendosi soltanto a trovar nomi per ogni insignificante modificazione delle strutture tradizionali. Si è già detto che il fondamento del S. aristotelico i gli animali; ma intendo nello stesso tempo che l’idea dell’animale è compresa nell’idea dell’uomo. L’animale comprende più individui dell’uomo, ma l’uomo comprende più idee e più forme; l’uno ha più esempi, l’altro più gradi di realtà; l’uno ha più estensione, l’altro più intensione. Perciò si può forse dire con verità che tutta la dottrina sillogistica potrebbe essere dimostrata mediante quella del contenente e del contenuto, del compren- dente e del compreso, che è differente da quella del tutto e della parte; giacchè il tutto eccede sempre la parte, mentre il comprendente e il compreso sono talvolta eguali, come accade nelle proposizioni reciproche » (Nouv. Ess., IV, 17, 8). Ma fu soprat- tutto Hamilton che fece prevalere il punto di vista estensivo come fondamento del S. assumendone a

base quella che egli chiamò «la legge di identità o non identità proporzionale » per la quale il S. si fonda sulle tre sole possibili relazioni tra i ter- mini: 1° la relazione di coinclusione toto-totale cioè di identità o di assoluta convertibilità o reci- procazione; 2° la relazione di co-esclusione toto- totale cioè di non identità o di assoluta non conver- tibilità o non reciprocazione; 3° la relazione di coinclusione incompleta, che implica una relazione di coesclusione incompleta, che significa l'identità par- ziale o la parziale non identità o una convertibilità o reciprocazione relativa (Lectures on Logic, ll, 1866, pag. 290 sgg.). Hamilton stesso si preoccupò di sottolineare i precedenti della sua dottrina, tra i quali però non incluse il principale, che è Leibniz (/bid., 346-48). La logica posteriore di ispi- SILLOGISTICA razione aristotelica non seguì, su questo punto, la dottrina di Hamilton ritornando ad una inter- pretazione intensiva del fondamento del sillogismo. E in realtà l’eredità della proposta di Hamilton doveva essere raccolta piuttosto dalla logica mate- matica; la quale però, a partire dalla sua prima manifestazione cioè dalle Leggi del Pensiero (1854) di G. Boole fu d’accordo con l’empirismo (v. oltre) nel togliere al S. il suo primato di forma fondamen- tale e tipica del ragionamento. Diceva Boole: « Il S., la conversione, ecc. non sono gli ultimi pro- cessi della logica. Essi sono fondati su, e sono risol- vibili in, ulteriori e più semplici processi che costi- tuiscono gli elementi reali del metodo in logica. Nè è vero in linea di fatto che ogni inferenza è riducibile alle forme particolari del S. e della con- versione + (Laws of Thought, cap. I; Dover Pub- blications, pag. 10). I processi elementari della logica sono secondo Boole, identici con «i processi fondamentali dell’aritmetica » (/bid., pag. 11): un'affermazione la quale servì di base a tutti gli ulteriori sviluppi della logica matematica. Ma con ciò il S. era definitivamente spodestato dal suo trono di tipo fondamentale del ragionamento deduttivo: cosa che non era riuscita del tutto alla critica empiristica. D’allora in poi, il S. ha cessato di essere un capitolo autonomo delia logica; e la preoccupazione dei logici a suo riguardo consiste unicamente nel mostrare come esso possa essere risolto e espresso nelle formule del calcolo che essi preferiscono: una preoccupazione che i logici affrontano non senza perplessità (cfr., ad. es., W. v. O. QuInE, Methods of Logic, 1952, $ 14; A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, 1956, $ 46.22). Come già si è detto, indipendentemente dalla discussione sui suoi fondamenti, la validità del S. è stata spesso messa in dubbio dal punto di vista dell’empirismo. Sesto Empirico vedeva nel S. o

la ripetizione inutile di ciò che già si conosce o un circolo vizioso: nel senso che la premessa maggiore (« Tutti gli uomini sono mortali +) implicherebbe già la verità della conclusione (« Socrate è mortale +) (/p. Pirr., I, 163-64; II, 196). Stuart Mill osservava a questo proposito che il circolo vizioso non c’è, perchè quando si è giunti alla proposizione gene- rale, l’inferenza è finita e non rimane che « deci- frare i nostri appunti » (Logic, II, 3, 2). Ma questo significa ridurre il S. a una semplice decifrazione di note già possedute. Già Bacone aveva osservato che « il S. forza l'assenso, ma non la realtà» (Nov. Org., I, 13). E fu questa l’idea che Locke fece pre- valere sulla natura del S.: il quale non scopre nè le idee nè la connessione tra le idee, che solo la mente può percepire, ma « dimostra soltanto che se l’idea intermedia concorda con quelle cui è 795 riferita immediatamente da entrambi i lati, allora quelle due idee lontane (o estreme) certamente concordano ». Sicchè «la connessione immediata di ciascuna idea con quelle cui viene applicata da entrambi i lati, connessione dalla quale dipende la forza del ragionamento, è vista altrettanto bene prima quanto dopo il S. o altrimenti chi fa il S. non potrebbe mai vederla affatto» (Saggio, IV, 17, 4). Questa critica famosa di Locke ha iniziato quella decadenza del S. dalla sua supremazia che doveva concludersi col prevalere della logica mate- matica nella seconda metà dell’800. SILLOGISTICA (ingl. Syllogistic; franc. Syl- logistique; ted. Syllogistik). È la dottrina del sillo- gismo (v.). Sviluppata per la prima volta da Aristo- tele negli Analytica Priora, doveva divenire in breve volgere di decenni la parte centrale della Logica, e tale rimanere fino all’avvento della Logica mate- matica contemporanea. La parte più antica è la teoria del sillogismo deduttivo categorico esposta, appunto, da Aristotele. Questi fissa i quattro modi validi della prima figura. (Le figure sono caratteriz- zate dalla posizione del termine medio, che nella prima fa da soggetto nella premessa maggiore e predicato nella minore; nella seconda è predicato in entrambe le premesse, nella terza è in entrambe soggetto: onde la necessità, in queste, di convertire una delle premesse. I modi si dispongono così: prima quelli che concludono con una proposizione universale affermativa, poi quelli che concludono con una universale negativa, poi particolare affer- mativa, infine particolare negativa). Indi passa all’analisi dei modi possibili della seconda e terza figura, dimostrandone la riducibilità, principalmente mediante la tecnica della conversione (v.), a corri- spondenti modi della prima. In seguito Teofrasto formulerà i modi della quarta figura, ma il ricono- scimento e l'esposizione di questa come figura indipendente pare siano dovuti a Galeno. Tuttavia in seguito parecchi logici, come Averroè, Zabarella, e, nell’età moderna, Wolff e Kant, si pronuncia- rono contro di essa come sostanzialmente inutile; e infatti i modi di questa figura non sono che modi indiretti della prima, con interscambio delle due premesse; per di più alcuni di essi, e cioè il primo e il quarto, non «concludono necessariamente » (condizione essenziale, nella dottrina aristotelica, perchè ci fosse sillogismo). A queste quattro figure i logici moderni aggiunsero i cinque modi «deboli», ottenuti dalla prima, seconda (e quarta) per subal- ternazione (cloè sostituzione della conclusione universale con una particolare). Questa dottrina, già largamente esplorata dai commentatori della tarda antichità, peripatetici e neoplatonici, compendiata poi da Boezio, ricevette ad opera dei logici medievali una rielaborazione 796 sistematica che la rese estremamente formalizzata. Furono infatti i grandi terministi medievali che ridussero a formule tutti i modi, seguendo questa complicata tecnica: indicarono con le quattro vocali a, e, i, o i quattro tipi di proposizione (risp.: univer- sale affermativa {a], universale negativa fe], parti- colare affermativa fi], particolare negativa [o]; con B, C, D, Fi quattro modi della prima figura, desi- gnandoli con le parole-formule Barbara, Celarent, Darii, Ferio, dove le uniche lettere significative sono appunto le iniziali e le tre vocali (indicanti il tipo di proposizione rispettivamente della premessa maggiore, della minore e della conclusione). Per i modi delle tre altre figure, le prime tre vocali hanno il consueto significato; le iniziali indicano a quale modo della prima figura si riducano; e in più sono significative alcune lettere minuscole posposte alla vocale e indicative di operazioni da compiersi sulle proposizioni indicate da quella vocale: s conversione «simpliciter », p conversione «per accidens +, m metatesi delle premesse, c « reductio ad impossibile +. Ora, teoricamente, i modi matematicamente pos- sibili in ogni figura sono 16, che si ottengono com- binando a due a due in tutti i modi possibili (con ripetizione) le quattro lettere a, e, i, 0 (infatti nel sillogismo quelle che decidono sono le premesse, e le premesse sono due): 44, ea, ia, 0a; ae, ee, ie, 0e; ai, ei, ii, oi; ao, eo, io, 00. Ne verrebbero quindi 64 modi; ma di essi sono validi solo i seguenti 19: logismo ipotetico e disgiuntivo. Il sillogismo ipotetico con- siste in una premessa (detta maggiore) la quale stabilisce un’implicazione da un enunciato ad un altro («se A, B +); di una premessa (detta minore) che afferma (modus ponens) o nega (modus tollens) rispettivamente l’antecedente o il conseguente del- l’implicazione contenuta nella maggiore; la conclu- SIMBOLIISMO sione afferma o, rispettivamente, nega il conseguente o l’antecedente: modus ponens: se A, B modus tollens: se A, B Anon-8 dunque 8 dunque non-4 Analogamente, il sillogismo disgiuntivo consiste di una premessa (maggiore) in cui sono affermate (modus tollendo ponens) oppure reciprocamente negate (modus ponendo tollens) due proposizioni; di una premessa (minore) in cui è negata, 0, rispet- tivamente, affermata, una delle disgiunte della pre- messa maggiore; la conclusione consiste nell’affer- mare, o, rispettivamente, negare, l’altra disgiunta: modus tollendo ponens: A o B AoB non-B non-A dunque 4 dunque 8 modus ponendo tollens: o A o B po AoB A dunque non-8 dunque non-4 Questi tipi di « sillogismo », malgrado certe for- zate analogie, rappresentano una struttura affatto diversa da quella del sillogismo categorico, sì che, se non si tenesse conto dell’etimologia, a mala pena si potrebbe applicare loro il nome stesso di sillo- gismo. Infatti essi, per esprimerci nel linguaggio della Logica contemporanea, appartengono al cal- colo proposizionale semplice e si fondano su impli- cazioni materiali, mentre i modi del sillogismo categorico appartengono al calcolo delle funzioni proposizionali e si fondano su implicazioni formali. Ciononostante nella Logica moderna, soprattutto nell’Ottocento, è stato fatto il tentativo (peraltro più su basi gnoseologiche ed epistemologiche che non su basi propriamente logiche) di ridurre il sillogismo categorico a sillogismo ipotetico, inter- pretando il primo come inferenza ipotetico-deduttiva: «se tutti gli uomini sono mortali, e se Socrate è uomo, Socrate è mortale». Ma l’esposizione logica completa di quest’ultima forma di inferenza mostra come essa in realtà non si riduca a nessuna delle due forme classiche, andando perdute di queste la rigorosa brevità e la struttura ternaria. Resterebbe da considerare il sillogismo induttivo. Ma la trattazione di esso non appartiene alla S. vera e propria (v. INDUZIONE). G. P. SIMBOLISMO (ingl. Symbolism; franc. Sym- bolisme; ted. Symbolismus). 1. L’uso dei segni cioè il comportamento segnico o sermiosi (v.). 2. L'uso di un particolare sistema di segni (per es., «il S. della matematica»). 3. L’uso dei simboli nel senso 2 del termine cioè di segni convenzionali e secondari (segni di segni, come accade nell’arte, nella religione, ecc.). In questo senso adopera la parola Cassirer quando parla della « espressione simbolica come della più matura forma dello sviluppo linguistico, contras- SIMPATIA segnata dalla distanza tra il segno e il suo oggetto » (The Philosophy of Symbolic Forms, II, pag. 237); questa distanza è difatti propria del comportamento segnico. SIMBOLO (ingl. Symbol; franc. Symbole; te- desco Symbol). 1. Lo stesso che segno. In questo significato generico il termine viene più spesso ado- perato nel linguaggio comune. 2. Una particolare specie di segno. Secondo Peirce: « Un segno che può essere interpretato in conseguenza di un abito o di una disposizione naturale » (Coll. Pap., 4.531). Secondo Dewey, un segno arbitrario o convenzionale (Logic, Intr., IV; trad. ital., pag. 93). Secondo Morris un segno che ne sostituisce un altro nella guida di un compor- tamento (Signs, Language and Behavior, I, 8). Secondo altri, un segno tipico, in contrapposto al segno individuale cioè la parola come significato (v. PAROLA) (M. BLACK, Language and Philosophy, VI, 2; trad. ital., pag. 181). SIMILE (gr. 8poiog; lat. Similis; franc. Sem- blable; ingl. Alike, Similar; ted. Ahnlich). Ciò che ha una qualsiasi determinazione in comune con una © più cose. Aristotele distinse i seguenti significati del termine: 1° sono S. le cose che hanno la stessa forma per quanto siano sostanzialmente differenti; e in questo senso sono S. un quadrato più grande e uno più piccolo e due linee rette ine- guali; 2° sono S. le cose che hanno la stessa forma ma sono soggette a variazioni quantitative, quando le loro quantità sono uguali; 3° sono S. le cose che hanno in comune la stessa affezione, per es., il bianco; 4° infine sono S. le cose le cui affezioni uguali sono in maggior numero delle affezioni differenti (Mer., X, 3, 1054 b 3). Il primo significato è quello in cui in geometria si dicono S. le figure (cfr. EUCLIDE, El., VI, def. 1, 3; def. 11, ecc.). Nella tradizione posteriore, la simiglianza è stata intesa specialmente rispetto alla qualità comune (PIETRO Ispano, Summ. Log., 3.29) ma talvolta anche alla forma (S. Tommaso, Contra Gent., I, 29; cfr. S. Th., I, q. 4, a. 3). Più genericamente Wolff diceva che «sono S. le cose che sono identiche in ciò in cui dovrebbero distinguersi l’una dall’altra» (Ont., $ 195). Determinazioni siffatte stringono assai poco e dicono solo che i criteri di simiglianza possono essere indefinitamente variati; l’importante è che siano, ogni volta, esplicitamente dichiarati. Solo nella matematica moderna la nozione di simiglianza è stata diversamente definita mediante la teoria degli insiemi: che si dicono S. quando esiste tra essi una relazione di termine a termine. Dice, ad es., Russell: «Si dice che una classe è S. a un’altra quando esiste una relazione di termine a termine in cui una classe è dominante mentre l’altra è il dominante inverso» (/ntroduction to 797 Mathematical Philosophy, cap. II; trad. ital., pag. 27). Questa nozione ha grande importanza per la defi- nizione matematica dell’infinito (v.). SIMMETRIA (ingl. Symmetry; franc. Symétrie; ted. Symunetrie). Misurabilità, proporzione 0 armo- nia. Simmetrica si dice una relazione che intercede tra i due termini nei due sensi: per es. è simmetrica la relazione «fratello » (v. RELAZIONE). SIMPATIA (gr. ovyré0eu; ingl. Sympathy; franc. Sympathie; ted. Sympathie). L'azione reci- proca delle cose tra loro o la loro capacità di influenzarsi a vicenda. Il concetto è antico e sin dall’antichità trovò applicazione sia nel mondo umano che nel mondo fisico; ma è soprattutto a proposito del mondo fisico che i filosofi antichi se ne servirono. Gli Stoici videro nella S. il legame che unisce tra loro le cose e le tiene o le fa conver- gere nell’ordine del mondo (ARrnIM, Sroicorum fragmenta, II, pag. 264). Plotino poneva la S. a fondamento della magia: « Da dove derivano, egli diceva, gli incantesimi? Dalla S. per la quale vi è un accordo naturale tra le cose simili ed una naturale contrarietà tra le dissimili e per la quale anche c’è un gran numero di potenze varie che collaborano all'unità di quei grande animale che è l’universo » (Enn., IV,4, 40). « La S., egli diceva, è come un’unica corda tesa che quando viene toccata ad un capo trasmette anche all’altro capo il movimento... E se la vibrazione passa da uno strumento all’altro per S., anche nell’universo c’è un’armonia unica,

che talora è fatta di contrari ma talaltra è fatta anche di parti simili e congeneri » (/bid., IV, 4, 41). La magia si inserisce nella S. universale, e con op- portuni accorgimenti se ne avvale per i propri scopi realizzando così effetti che sembrano straor- dinari e miracolosi. Questo concetto della S., che presuppone l’animazione di tutte le cose, è il fonda- mento della magia e viene ammesso ugualmente da tutti i maghi del Rinascimento (cfr. CAMPANELLA, De sensu rerum, IV, 1; III, 14; AGRIPPA, De oc- culta philosofia, I, 1; I, 37; CARDANO, De varietate rerum, I, 1-2; G. B. ELMONT, Opuscula philosophica, I, 6; ecc.) Col declino della magia nel mondo moderno, il significato di S. fu ristretto a indicare la parteci- pazione emotiva fra gli individui umani. Hume per primo insistette sull'importanza della S. per ciò che riguarda la formazione di tutte le emozioni umane: « Nessuna qualità della natura umana è più importante, sia in se stessa, sia nelle sue conse- guenze, della propensione che abbiamo a simpa- tizzare con gli altri, a ricevere per comunicazione le loro inclinazioni e i loro sentimenti per quanto diversi siano dai nostri o anche contrari... A questo principio dobbiamo attribuire la grande uniformità che possiamo osservare negli umori e nei modi di 798 pensare dei membri di una stessa nazione: è molto più probabile che questa rassomiglianza sorga dalla S. piuttosto che dall’influenza del suolo e del clima che, per quanto rimangano gli stessi, non riescono a conservare immutato per un intero secolo il ca- rattere di una nazione » (7reatise of Human Nature, 1738, II, I, 11). È da notare che Hume riconobbe alla S. il carattere sul quale giustamente ha poi insistito Scheler, in polemica con autori più mo- derni e cioè sul fatto che essa non implica alcuna identità di emozione o fusione emotiva fra le per- sone tra le quali intercorre. Adamo Smith non fece che seguire l’idea direttiva di Hume ponendo la S. a fondamento della vita morale e intendendo per essa «la facoltà di partecipare le emozioni degli altri, quali che siano » (Theory of Moral Sentiments, 1759, I, 1, 3). Alla S., talora chiamata emparia (v.) si è fatto talora ricorso nel dominio estetico e bio- logico. Bergson ha riportato alla S. l’istinto e ha visto in essa la possibilità di cogliere direttamente la natura della vita: « L’istinto è simpatia. Se questa S. potesse estendere il suo oggetto e riflettere su se stessa, ci darebbe la chiave delle operazioni vitali, al modo in cui l’intelligenza sviluppata e raddriz- zata, ci introduce nella materia» (Év. Créarr., 8® ediz., 1911, pag. 191). Dall’altro lato, Scheler in un'opera famosa sulla S., l’ha distinta da feno- mine è stato anche applicato alla storia del pensiero reli- gioso che mostra spesso fenomeni di sovrappo- sizione e fusione di credenze di provenienza diversa. Anche in questo uso il termine è adoperato polemi- camente cioè per designare sintesi mal riuscite, perciò non ha significato preciso. Più arbitrario ancora è il significato in cui viene adoperato da qualche scrittore francese per indicare una veduta generale e confusa di una situazione (cfr. RENAN, L’avenir de la science, pag. 301). SINCRONICO. V. Diacronico. SINDOSSICO (ingl. Syndoxicj franc. Syn- doxique). Termine adoperato da J. M. Baldwin SINONIMIA per indicare quel complesso di conoscenze comuni che si formano negli individui in quanto hanno le stesse esperienze ma che non perciò sono neces- sariamente valide (Thought and Things, 1906, I, pag. 146) (v. SinNoMICO). SINECHISMO (ingl. Synechism; franc. Syné- chisme). Termine adoperato da Peirce per indicare il principio di continuità, che egli ritiene operante in tutte le forme della realtà (cfr. Chance Love and Logic, II, 3; Coll. Pap., 6.169-173). SINECOLOGIA (ted. Sinechologie). La dottrina della continuità nel tempo e nello spazio che secondo Herbart è una parte della metafisica, insieme alla metodologia, all’ontologia e alla idolologia (Kurze Enciclopàdie der Philosophie, 1841, pag. 297 sgg.). SINERGIA (ingl. Synergy; franc. Synergie; ted. Synergie). Coordinazione di differenti facoltà o forze oppure azione combinata di differenti fattori. Il termine è corrente nel linguaggio comune e scientifico ed è adoperato, ad es., sia ad indicare la cooperazione degli organi in un corpo vivente sia il rafforzarsi a vicenda dell’azione dei medica- menti. Qualche volta, ma raramente, è stato ado- perato come sinonimo di simpatia o di coopera- zione intelligente (cfr. Risor, Psychologie des sen- timents, 1896, pag. 229; FoOUILLÉE, Morale des idées-forces, 1908, pag. 352). SINERGISMO (ingl. Synergism; francese Sy- nergisme; ted. Synergismus). La dottrina teologica secondo la quale la salvezza dell’uomo dipende non dalla sola azione di Dio, ma anche dalla volontà umana che collabora con essa a produrla. Tale dottrina fu sostenuta da Melantone contro il mo- nergismo di Lutero che attribuiva la salvezza alla sola azione di Dio (v. GRAZIA). SINGOLARE (ingl. Singular; franc. Singulier; ted. Einzig, Singulàr). Un termine o una proposi- zione che denota un unico oggetto; o in altre pa- role « Una forma (o espressione) che contiene un'unica variabile libera » (CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, 1956, $ 02; cfr. QUINE, Methods of Logic, $ 34). SINGOLO (ingl. Singular; franc. Singulier; te- desco Einzeln). 1. Lo stesso che individuo (v.). 2. L’individuo considerato come valore meta- fisico, religioso, morale e politico supremo. In questo senso il S. è il tema preferito di alcune filosofie moderne e contemporanee. Kierkegaard affermava polemicamente contro Hegel il valore esistenziale del S.: « L'esistenza corrisponde alla realtà singolare, al S. (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori dal concetto e in ogni modo non coincide con esso» (Diario, X?, A, 328). Il S. sta più in alto dell’universale, a differenza di ciò che Hegel credeva. « In un genere animale vale sempre il principio: il S. è inferiore al genere. Il genere 799 umano ha la caratteristica, appunto perchè ogni S. è creato a immagine di Dio, che il S. è più alto del genere » (Ibid, X?, A, 426). Questa esaltazione del S. si accompagna in Kierkegaard con la svaluta- zione della categoria del «pubblico » in cui il S. svanisce; ma il pubblico non è la comunità nella quale invece il simbolo viene riconosciuto come tale (Ibid., X?, A, 390). L'unico (v.) di Stirner e il superuomo (v.) di Nietzsche sono concezioni ana- loghe a quella che Kierkegaard indicò come singolo. Nello stesso senso, Jaspers insiste sul carattere eccezionale del S. (Phil., II, pag. 360). SINISTRA HEGELIANA (ingl. Hegelian Left; franc. Sinistre hégélienne; ted. Hegelsche Linke). Mentre la destra hegeliana (v.) è la scolastica del- l'hegelismo, la S. hegeliana tende a contrapporre alla dottrina di Hegel quei tratti o caratteri del- l’uomo che in essa non avevano trovato un ricono- scimento adeguato. Sul piano religioso questa ten- denza dà luogo ad una critica radicale dei testi biblici e al tentativo di ridurre a mito l’intera dot- trina della religione (Davide Federico Strauss, 1808-74). La religione stessa veniva considerata da Ludovico Feuerbach (1804-72) come «l’auto- coscienza dell’uomo cioè come la proiezione nella divinità di ciò che l’uomo vuol essere ». Sul piano storico politico, la S. hegeliana contrappose alla concezione hegeliana della storia come razionalità assoluta l’interpretazione materialistica della storia stessa che la considera in funzione dei bisogni umani (K. Marx, 1818-83; F. EnGELS, 1820-95) (v. MATERIALISMO STORICO). SINNOMICO (ingl. Synzomic; franc. Syn- nomique). Termine adoperato da G. M. Baldwin per indicare quel complesso di conoscenze comuni che si formano negli individui, quando sono giu- dicate «adatte o appropriate per tutti i processi logici come tali» (Thought and Things, 1906, II, pag. 270). Sindossico invece è ciò che è comune ma senza carattere di normatività (v. SINDOSSICO). SINOLO (gr. tò abvodov; lat. Compositum). Con questo termine che significa «tutt'uno » Aristotele indicò il composto di materia e forma, la sostanza concreta. « La sostanza è la forma immanente dalla quale, e insieme dalla materia, deriva ciò che si chiama S. o sostanza: per es., la concavità è la forma dalla quale insieme con il naso (materia) deriva il naso camuso » (Mer., VII, 11, 1037 a 30). La traduzione del termine è «composto » o « concreto ». SINONIMIA (ingl. Synonimy; franc. Syno- nymie; ted. Synonimie). La relazione di S. è impor- tante per i logici in quanto essi se ne avvalgono per definire la nozione di analiticità (v.). Il concetto della S. come « identità di significato tra due forme linguistiche » non è sufficiente; ed i logici aggiun- gono abitualmente qualche altra condizione, per 800 definire la sinonimia. Lewis dice: « Due espressioni sono sinonime se e solo se: 1° hanno la stessa intensione e questa intensione non è nè zero nè universale oppure 2° se la loro intensione è zero o universale ma esse sono analiticamente confron- tabili » (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 86). Per espressioni che hanno intensione zero o universale, Lewis intende espressioni come «essere», «entità», «cosa», «ogni cosa» (/bid., pag. 87). Carnap, a sua volta, ha osservato: « Se chiediamo un’esatta traduzione di un’asserzione data, per es., di un’ipotesi scientifica o di una testi- monianza in corte, da una lingua all’altra, noi abitualmente richiediamo più che la concordanza nelle intensioni degli enunciati... Anche se restrin- giamo la nostra attenzione a significati designativi (conoscitivi), l'equivalenza logica degli enunciati non sarà sufficiente; sarà richiesto almeno che alcuni dei designatori componenti siano logicamente equivalenti o in altre parole che le strutture intensio- nali siano simili » La S. sarebbe perciò espressa da un «isomorfismo intensionale », di cui Carnap dà le regole (Meaning and Necessity, 1957, $ 14, 15). Le esigenze avanzate da Lewis e Carnap per la definizione della S. rimangono tuttavia sul piano della intensionalità delle forme linguistiche. Così fa pure la definizione di Church (Introduction to Mathematical Logic, $ 01). Quine ha dimostrato, su questo stesso piano, come sia difficile servirsi della S. per definire l’analiticità, giacchè « dire che scapolo e uomo non sposato sono cognitivamente sinonimi significa dire nè più nè meno che l’asser- zione tutti e solo gli scapoli sono uomini non spo- sati è analitica». La S. si può pertanto definire, secondo Quine, come la sostituibilità di due termini salva analyticitate, cioè la possibilità di sostituire l’uno all’altro due termini in una espressione senza che l’espressione perda il suo carattere analitico (From a Logical Point of View, 1953, II, 3). SINONIMO (ingl. Synonym; franc. Synonyme; ted. Synonym). Secondo la definizione aristotelica (Cat., 1a 6; 3b 7) si dicono S. cose che hanno in comune il nome e la definizione dell’essenza, come l’uomo e il bue che si dicono (e sono) entrambi animali. Nell’uso moderno però si sono chiamati S. vocaboli (o enunciati) diversi nella forma del- l’espressione ma di uguale contenuto semantico. Nella Logica contemporanea si dicono « S. + enun- ciati aventi forma diversa ma il medesimo senso (designanti la medesima proposizione): tuttavia non riesce sempre facile distinguere tra sinonimia (semantica) ed equivalenza (sintattica). G. P. SINOSSI (gr. obvoyic; ingl. Synopsis; franc. Sy- nopsis; ted. Synopsis). Sguardo d’insieme. Platone adopera il termine per indicare il primo momento del procedimento dialettico, quello che consiste nel raccogliere un molteplice in un'unica idea (Rep., 537 c; Fedro, 265 d). Il termine fu anche adoperato da Kant nella prima edizione della Critica della Ragion Pura nell’espressione «la si- nopsi a priori del molteplice mediante il senso» (Crit. R. Pura, $ 14, in fine) che sarebbe l’appren- sione del molteplice sensibile nelle forme dell’in- tuizione (spazio e tempo), in quanto distinta dalla sintesi dell’immaginazione e da quella concettuale. SINTASSI (gr. cvviéeic; lat. Syntaxis; inglese Syntax; franc. Syntaxe; ted. Syntax). 1. Qualsiasi ordinamento, combinazione o sistemazione di parti. Lo stoico Crisippo definiva « S. del tutto » il destino che presiede all’ordine del mondo (Stoicorum fragmenta, II, pag. 293). 2. Una delle dimensioni del procedimento se- gnico (v. SEMIOsI) cioè la combinabilità dei segni fra loro in base a regole determinabili. In questo senso si può parlare, ad es., di « S. dei suoni» 0 «dei colori +?, ecc. 3. La scienza che studia le forme grammaticali o logiche del linguaggio: intendendosi per forme le loro possibilità di combinazione. Più in parti- colare la S. logica di un linguaggio è stata definita da Carnap come «la teoria formale delle forme linguistiche di quel linguaggio, la dichiarazione sistematica delle regole formali che lo governano insieme con lo sviluppo delle conseguenze che se- guono da queste regole». Carnap aggiunge che «una teoria, una regola, una definizione o simili dev’essere chiamata formale quando non fa alcun riferimento al significato dei simboli (per es., delle parole) o al senso delle espressioni (per es., degli enunciati) ma unicamente alle specie e all’ordine dei simboli con i quali le espressioni sono costruite + (Logische Syntax der Sprache, 1934, $ 1). Carnap ha identificato con la S. l’intera logica o metodologia delle scienze (/bid., $ 81), in base alla considerazione che « per determinare se un enunciato è o non è la conseguenza di un altro non è necessario alcun riferi- mento al significato degli enunciati; e che pertanto «una logica speciale del significato è superflua; una ‘logica non formale’ è una contraddizione nei termini. La logica è S.» (2bid., $ 71). Più tardi lo stesso Carnap ha ammesso la divisione dell’ana- lisi del linguaggio o semiotica in pragmatica, seman- tica e S. e ha considerato il punto di vista sintattico come il procedimento che astrae dal fattore seman- tico (Foundations of Logic and Mathematics,1939, 88). SINTELICO (ingl. Syntelic; franc. Syntélique). Termine adoperato da G. M. Baldwin per designare gli elementi pratici comuni a più individui ma non perciò necessariamente validi: elementi che corri- spondono a ciò che si chiama sindossico nel dominio della conoscenza (Thought and Things, 1906, III, pag. 79-80). SINTESI a, così la S. toglie i princìpi che sono a fondamento dell’attività pratica. Il concetto rimase immutato negli scrittori scolastici posteriori (cfr., ad es., Duns Scoro, Op. Ox., II, d. 39, q.2, a. 4). La nozione ricorre, ma raramente, in scrittori poste- riori: se ne avvalse Nicolò da Cusa, assumendola nel significato mistico (De visfone Dei, ed. Bohnen- stadt, pag. 150 sg.); e nello stesso significato se ne servì frequentemente B. Gracian: « È il trono della ragione, egli disse, la base della prudenza perchè in virtù di essa costa poco riuscire. È dono del cielo e il più desiderato... Consiste in una con- naturale propensione verso tutto ciò che è più con- forme a ragione accoppiato sempre con quanto v'è di più certo» (Ordculo manual, 1647, $ 96). SINTESI (gr. oiw0eotc; lat. Synthesis; ingl. Syn- thesis; franc. Synthèse; ted. Synthese). Questo ter- mine, oltre il significato comune di unificazione, co- ordinazione o composizione, ha i seguenti significati specifici: 1° quello di merodo conoscitivo, opposto all’analisi; 2° quello di attività intellettuale; 3° quelio 51 — ABBAGNANO, Dirionario di filosofia. 801 di unità dialettica degli opposti; 4° quello di unifi- cazione dei risultati delle scienze nella filosofia. 1° Nel primo significato cioè come uno dei metodi fondamentali della conoscenza, in contrap- posto all’analisi, la sintesi può essere conside- rata come il metodo che va dal semplice al com- posto cioè dagli elementi alle loro combinazioni negli oggetti di cui si tratta di spiegare la natura. La contrapposizione dei due metodi fu espressa per la prima volta da Cartesio (Rép. aux II Objec- tions; v. ANALISI); e Leibniz così la esprimeva: « Si arriva spesso a belle verità mediante la S., andando dal semplice al composto; ma quando si tratta di trovare il mezzo di fare ciò che si propone, la S. ordinariamente non basta... E spetta all’analisi darci il filo nel labirinto, quando ciò è possibile, perchè ci sono casi in cui la natura stessa della questione esige che si vada a tentoni e non sempre la scorciatoia è possibile» (Nouv. Ess., IV, 2, 7). Secondo Kant similmente il metodo sintetico è quello « progressivo » mentre il metodo analitico è «regressivo» cioè va da un oggetto alle condizioni che lo rendono possibile (Pro/., $ 5, nota). Il proce- dimento dalla filosofia è secondo Kant analitico mentre quello della matematica è sintetico; ma i due termini non hanno qui alcun riferimento alla classificazione dei giudizi in analitici e sintetici. In generale, come il procedimento analitico è carat- terizzato dalla presenza di dati (inerenti all’oggetto o alla situazione da risolvere), che guidano e control- lano il procedimento stesso, il procedimento sinte- tico si può caratterizzare con l’assenza di tali dati e con la pretesa, che gli è inerente, di produrre da sè gli elementi delle sue costruzioni (v. Fio- SOFIA). 2° Nel secondo significato il termine designa l’unione del soggetto e del predicato nella pro- posizione; quindi l’atto o l’attività intellettuale che opera tale unione. In questo senso il termine fu usato da Aristotele, il quale disse che «là dove c'è il vero ed il falso c’è anche una certa S. di pensieri simile alla S. che c’è nelle cose» (De An., III, 6, 430 a 27); e che «ciò che opera questa unità è l’intelletto » (/bid., 430b 5). Ma è stato soprattutto Kant a fare un uso larghissimo del concetto di S., riducendo ad essa ogni specie di attività intellettuale. Egli definì la S. in generale come «l’atto di unire diverse rappresentazioni e comprendere la loro unità in un’unica conoscenza » (Crit. R. Pura, $ 10). E distinse numerose specie di S. a seconda degli elementi che entrano in essa. In primo luogo distinse la S. pura nella quale il molteplice è stato dato non empiricamente ma a priori (come quello dello spazio e del tempo) dalla S. empirica il cui molteplice è dato empiri- camente. La S. pura è «l’atto originario della 802 conoscenza, il primo fatto al quale dobbiamo rivolgere la nostra attenzione se vogliamo renderci conto dell'origine prima della nostra conoscenza » (Ibid.). La S. pura precede pertanto ogni analisi giacchè si può analizzare solo ciò che è già dato unito in un atto conoscitivo. La S. pura, che è possibile a priori, a sua volta può essere distinta in S. figurata (Synthesis speciosa) e sintesi intel- lettuale (Synthesis intellectualis): ambedue sono trascendentali perchè costituiscono la possibilità di ogni conoscenza, ma mentre questa seconda unifica un molteplice puramente pensato, la S. figurata è una S. del molteplice dell’intuizione sensibile, o meglio è una S. dell’immaginazione intesa come «facoltà di determinare a priori la sensibilità » (Ibid, $ 24). Su questa S. trascendentale del- l'immaginazione è fondato l’io penso o apperce- zione originaria (v.). Ma poichè ogni conoscenza è sintesi e la conoscenza effettiva, è, secondo Kant l’esperienza, Kant chiama l’esperienza stessa «la sintesi, secondo concetti, dell’oggetto dei fenomeni in generale » (Cri. R. Pura, An. dei Princ., cap. II, sez. II. Nella prima edizione della critica Kant aveva parlato di tre specie di S.: 1° la S. dell’ap- prensione nell’intuizione; 2° la S. della riproduzione nell’immaginazione; 3° la S. della ricognizione nel concetto (Crit. R. Pura, 1% ediz., An. Trasc., Libro I, cap. 2, sez. 2). Ma sia nella prima che nella seconda edizione Kant riduce alla S. ogni specie o grado di attività conoscitiva. Questo fu uno degli aspetti più vistosi, e più discussi, della sua opera. Mentre la nozione di S. cambiava di natura passando nell’idealismo (v. oltre), essa veniva da altri filosofi ripresa e variamente adattata. Galluppi invertiva il punto di vista kantiano mettendo l’analisi avanti la sintesi. « La S. è la facoltà di riunire le percezioni che l’analisi aveva separate. L'analisi è dunque una condizione essenziale per la S.» (Saggio fil. sulla critica della conoscenza, 1831, II, $ 146). Egli distingueva inoltre: la S. ideale oggettiva che con- siste nel riconoscere i rapporti oggettivi che sussi- stono tra le cose; la S. immaginativa civile che consiste nel riunire in una rappresentazione com- plessa, che non corrisponde ad alcun oggetto, diverse rappresentazioni di cui ciascuna ha un 0g- getto; e la S. immaginativa poetica che è una specie della precedente (/bid., III, $ 147-149). A sua volta Rosmini chiamava S. primitiva la sua « percezione intellettiva» (Nuovo saggio, $ 46; $ 528, ecc.) In generale, il concetto di S. è rimasto in filosofia ad esprimere l’attività ordinatrice, organizzatrice o sistematrice dell'intelletto. I neokantiani fecero largo uso di questa nozione. A. Riehl specialmente fece dell’attività sintetica la funzione fondamentale della coscienza e l’a priori di tutta la conoscenza (Der philosophische Kriticismus, II, 2, 1887, pag. 68). SINTESI Altri neokantiani invece, come Cohen, preferirono al concetto di S. quello di origine (Logik der reinen Erkenntnis, 1902, pag. 36). Wundt introdusse il concetto nella psicologia e parlò del « principio della S. creativa», secondo il quale «non solo le parti che entrano a comporre una S. ap- percettiva, acquistano, accanto al significato che avevano nel loro isolamento, un significato nuovo dovuto alla loro connessione nella rappre- sentazione totale; ma anche questa rappresenta- zione è un nuovo contenuto psichico, che è bensì reso possibile dalle parti componenti ma non con- siste in esse» (Grundriss der Psychologie, 1896, pag. 394). Dall’altro lato, la filosofia fenomenolo- gica metteva in luce la funzione della S. nella 4 costituzione delle oggettività di coscienza ». Husserl ritiene che ogni oggetto di coscienza in generale sia una « unità sintetica » cioè una S. di coscienza (Ideen, 1, $ 86). Egli distingue le S. continuative, del tipo di quella che costituisce, ad es., la spazialità, e le S. articolate che sono i modi particolari in cui atti separati l’uno dall’altro si connettono in un unico atto sintetico di grado superiore. S. articolate sono, per es., gli atti di preferenza o le emozioni simpatetiche; e inoltre le S. colleganti, disgiungenti (cioè miranti a questo o a quello) ed esplicanti, che determinano le forme della logica e dell’onto- logia formale (Ideen, I, $ 118). 3° La nozione di S. come unità degli op- posti è nata insieme col relativo concetto della dialettica (v.) ed è stata per la prima volta esposta da Fichte. Egli dice: « L'atto con il quale nelle cose paragonate si ricerca la nota per cui esse sono opposte tra loro, si chiama procedimento an- titetico (detto ordinariamente analitico). ...Il pro- cedimento sintetico invece consiste nel ricercare negli opposti quella nota per cui essi sono iden- tici » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 3, D, 3). La legge di questa identità è che « nessuna antitesi è possi- bile senza una S.; poichè l’antitesi consiste preci- samente nel ricercare negli uguali la nota opposta ma gli uguali non sarebbero uguali se non fossero prima posti come uguali mediante un atto sin- tetico » (/bid., $ 3, D, 3). Schelling parlava a sua

volta di un « processo dalla tesi all’antitesi e quindi alla S. +, che è il processo per cui l’io pone l’oggetto, si contrappone ad esso ed infine lo ricomprende in se stesso (System des transzendentalen Idealismus, 1800, III, cap. I; trad. ital, pag. 58 sgg.). Hegel invece preferì al termine S. i termini « identità » o « unità », pur lamentando che la parola unità in- dicasse, ancor più che «identità », una « riflessione soggettiva ». L’unità o l'identità che chiude una triade dialettica è una connessione oggettiva; la quale secondo Hegel, meglio si chiamerebbe « in- separabilità » se, da questo nome, non restasse SISTEMA fuori la natura positiva della S. (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, c, nota 2; trad. ital., pag. 85). Nel linguaggio filosofico francese e italiano, della S. a priori come della stessa attività creativa dello spirito: « La S. a priori è delle forme tutte dello Spirito perchè lo Spirito, considerato in genere, è nient'altro che S. a priori; e questa si esplica nell'attività estetica e nella pra- tica, non meno che in quella logica» (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 141). Ed ha visto nella S. a priori l'identità di filosofia e storia, asserendo che essa « portava nel suo grembo la storicità che il suo scopritore [Kant] ignorava o disconosceva » (Ibid., pag. 369). 4° Infine per S. è stata intesa l’unificazione dei risultati ultimi delle scienze particolari nel seno

della filosofia prima secondo il concetto positivi- stico della filosofia (v.). Tale S. fu detta soggettiva da Comte che riteneva si dovesse fare, tenendo pre- sente i bisogni naturali dell’uomo (S. soggettiva o Sistema universale delle concezioni proprie dello stato normale dell’umanità, 1856, I). Spencer chiamò per lo stesso motivo « Sistema di filosofia sintetica + la sua opera complessiva, il cui primo volume è costituito dai Primi principi (1862). SINTETICITÀ (ingl. Syntheticity). La vali- dità delle proposizioni che dipende dai fatti. Questo almeno è il significato che si attribuisce ora comu- nemente all’aggettivo sintetico quando viene rife- rito a proposizioni o enunciati. Kant, al quale si deve l’introduzione dei due termini analitico e sintetico, li usò per distinguere i giudizi esplicativi e i giudizi estensivi. «I primi nulla aggiungono, per mezzo del predicato, al concetto del soggetto, ma solo dividono con l’analisi il concetto nei suoi con- cetti parziali, che erano in esso già pensati sebbene confusamente; i secondi aggiungono invece al con- cetto del soggetto un predicato che non era con- tenuto in esso e non era da esso deducibile con 803 l’analisi » (Crif. R. Pura, Intr., $ IV). Ma i giudizi sintetici, secondo Kant, sono non soltanto quelli che riguardano cose di fatto, ma anche quelli della matematica e della fisica pura in quanto sono fon-

dati sulla intuizione a priori dello spazio e del tempo e sulle categorie e perciò detti « giudizi sintetici a priori». Nella filosofia contemporanea, tuttavia, la S., come carattere delle espressioni è stata intesa nel senso delle « proposizioni di fatto » di Hume o delle « verità di fatto » di Leibniz (vedi EsPERIENZA; FATTO): cioè come proposizioni che si riferiscono a situazioni o stati di cose e che possono essere vere o false nei confronti di essi. Dice Carnap: « Un enunciato sintetico è qualche volta vero — cioè quando certi fatti esistono — e qualche volta falso; quindi esso dice qualche cosa circa quali fatti esistono. Gli enunciati sinte- tici sono gli autentici enunciati circa la realtà» (Logische Syntax der Sprache, $ 14). I logici tut- tavia spesso preferiscono definire negativamente gli enunciati sintetici, come quegli enunciati che non sono nè analitici nè contraddittori: così fanno, ad es., Lewis (Analysis of Knowledge and Valuation, 1946, pag. 35) e Reichenbach (Theory of Proba- bility, 1949, pag. 20). Come le proposizioni anali- tiche (v. ANALITICITÀ) sono dette «verità neces- sarie » perchè la loro negazione è impossibile, così le proposizioni sintetiche sono spesso dette con- tingenti nel senso che non sono nè necessarie nè impossibili (cfr. CarnaP, Meaning and Neces- sity, $ 39). SINTETISMO (ted. Synrhetismus). Così chiamò

n questo senso nel periodo classico, fu adoperata da Sesto Empirico per indicare l’insieme delle premesse e della con- clusione o l'insieme delle premesse (/p. Pirr., II, 173). E la parola è rimasta nell’uso filosofico a indicare prevalentemente un discorso organizzato deduttiva- mente cioè costituente un tutto le cui parti si la- 804 sciano derivare l’una dall’altra. Leibniz chiamava S. un repertorio di conoscenze che non si limiti ad elencarle ma ne contenga le ragioni o le prove e descriveva l’ideale sistematico nel modo seguente: «L’ordine scientifico perfetto è quello in cui le proposizioni sono situate secondo le loro dimo- strazioni più semplici e in modo che nascano l’una dall’altra » (Méthode de la certitude, Op., ed. Erd- mann, pag. 174-75). Wolff a sua volta diceva: « Si dice S. un insieme di verità connesse tra loro e con i loro princìpi» (Log., $ 889). La nozione di S. si modellava così su quella del procedimento matematico. Kant la subordinò a una condizione ulteriore: l’unità del principio che è a fondamento del sistema. Egli intese infatti per S. «l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto un’unica idea »; affermò che il S. è un tutto organizzato finalistica- mente e pertanto è articolato (arficulatio), non am- mucchiato (coacervatio); può crescere dall’interno (per intussusceptionem) ma non dall’esterno (per appositionem) ed è perciò simile ad un corpo ani- male cui la crescita non aggiunge alcun membro ma, senza alterare la proporzione dell’insieme, rende ogni membro più forte e più adatto al suo scopo (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. III). Su questa base, Kant parla della « unità sistematica della conoscenza, alla quale le idee della ragion pura cercano di avvicinarsi» (/bid., Dialettica, cap. III, sez. I). L'unità del S. cioè la sua deriva- bilità da un principio unico è la caratteristica che fa la fortuna della nozione nella letteratura filo- sofica del Romanticismo. Essa costituisce l’ideale della dottrina della scienza di Fichte: « Se non ci debbono essere solo uno o parecchi frammenti di un S. o addirittura parecchi S., ma un S. unico e perfetto dello spirito umano, allora dev’esserci un principio fondamentale assolutamente primo e su- premo. E se da esso il nostro sapere si espande di per sè in tante serie dalle quali ancora procedono altre serie e così via, tutte queste serie tuttavia debbono stringersi in un solo anello, il quale non è attaccato a nulla, ma per la sua propria forza mantiene se stesso e l’intero S.» (Uber den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, $ 2; trad. ital., pa- gina 19). Che il S. sia la forma propria della scienza e che esso supponga un principio unico ed assoluto diventa un luogo comune nella filosofia romantica. L’origine di questo luogo comune è l’ideale mate- matico a cui Leibniz, Wolff e lo stesso Kant si erano ispirati; ma questo ideale viene rivolto contro la matematica stessa e rivendicato esclusivamente alla filosofia. «Si ammette generalmente, diceva Schelling, che alla filosofia convenga una forma sua particolare che si dice sistematica. Presupporre una tal forma non dedotta, tocca ad altre scienze, che già presuppongono la scienza della scienza, SISTEMA mantenuta e fatta valere nelle filosofie idealistiche. Diceva Croce: « Pensare un determinato concetto puro significa pensarlo nella sua relazione di unità e distinzione con gli altri tutti; sicchè quel che si pensa non è mai in realtà un concetto singolo, ma il S. dei concetti, il Concetto » (Logica, 4* ediz., 1920, pag. 172). L’ideale del S., come di un organismo deduttivo fondato su un unico principio, è rimasto il patri- monio della filosofia, che l’ha coltivato anche quando, sull’esempio di Kant, ha dichiarato ir- raggiungibile, per la conoscenza umana, un simile ideale. Tuttavia il termine è stato ed è adoperato anche senza connessione con questo significato, per indicare un qualsiasi organismo deduttivo, anche se non abbia un unico principio a suo fondamento. Questo è il caso dei S. di cui si parla oggi nelle matematiche e nella logica. Un S. ipotetico-dedut- tivo, un S. astratto, un S. assiomatico, ecc., non sono S. perchè abbiano un unico principio: i loro princìpi anzi, cioè gli assiomi, devono essere re- ciprocamente indipendenti cioè non deducibili l’uno dall’altro (v. ASSIOMA; ASSIOMATIZZAZIONE). Sono detti S. unicamente per il loro carattere deduttivo; e nello stesso senso si parla di S. numerico e tal- volta di «S. di assiomi» per indicare un semplice insieme non contraddittorio di proposizioni pri- mitive (cfr. M. R. CoHEN-E. NAGEL, « The Nature of a Logical or Mathematical System », in Readines in the Philosophy of Science, 1953, pag. 129 sgg.). L'uso della parola ha in altri termini perduto il suo significato forte o elogiativo di discorso deduttivo. 2. Una qualsiasi totalità o tutto organizzato. In questo senso si dice « S. solare », « S. nervoso », ecc., e si parla anche di «classificazione sistematica» o più semplicemente di S. in luogo di classificazione, come fece Linneo, volendo insistere sul carattere ordinato e completo della sua classificazione (Sy- stema naturae, 1735). SITUAZIONE Da questo punto di vista, si distingue talora il S. come un insieme continuo di parti che hanno tra loro relazioni varie dalla strurzura (v.) od orga- nizzazione che i componenti di esso possono assu- mere a un determinato tempo (W. BUCKLEY, So- ciology and Modern System Theory,1967,pag.5). 3. Una qualsiasi teoria, scientifica o filosofica, specie quando se ne voglia sottolineare il carattere scarsamente empirico. Nel °700 si parlava del «S. del mondo» per indicare le teorie cosmolo- giche (cfr., ad es., D’ALEMBERT, (Euvres, ed. Con- dorcet, pag. 165 sgg.). Leibniz chiamava S. le sue teorie sul rapporto tra l’anima e il corpo o tra le varie sostanze (Sysrème nouveau de la nature et de la communication des substances, 1695). Baum- garten chiamava S. psicologici le « opinioni che sembrano adatte a spiegare il rapporto tra l’anima e il corpo» (Mer., $ 761). E gli Illuministi parla- vano nello stesso senso, ma in modo peggiorativo, del S. e dello spirito sistematico. Diceva Diderot: « Per spirito sistematico io designo quello che im- bastisce piani e forma sistemi dell’universo ai quali pretende in seguito adattare i fenomeni, a diritto o a forza » (CEuvres, XVI, pag. 291). D’Alembert par- inferenza cioè di trasformazione delle espressioni composte l’una nell’altra; 4° alcune proposizioni primitive o assiomi. Dal S. logistico si distingue un linguaggio for- malizzato perchè per quest’ultimo è data anche una certa interpretazione. Per passare dal S. logistico al linguaggio formalizzato sono pertanto necessarie alcune regole semantiche che assegnino un signi- ficato alle formule del sistema. La differenza fra S. logistico e linguaggio formalizzato si può anche esprimere dicendo che il primo ha soltanto regole sintattiche, il secondo ha anche regole semantiche (cfr., su questo, A. CHURCH, « The Need for Abstract 805 Entities in Semantic Analysis», in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1951, pag. 100 sgg.; Zntroduction to Mathematical Logic, 1956) (v. CALCOLO; FORMALIZZAZIONE). SISTEMATICA (ingl. Systematics; franc. Sy- stématique; ted. Systematik). La tecnica, cioè la via o il mezzo, per realizzare il sistema. La nozione deriva dal principio kantiano che il sistema è l’ideale regolativo della ricerca filosofica, non la sua realtà. «Tuttavia, dice Kant, il metodo può sempre essere sistematico. Infatti la nostra ragione (soggettiva- mente) è per se stessa un sistema; ma nel suo uso puro, per semplici concetti, è soltanto un sistema di ricerca secondo princìpi, dell’unità cui l’espe- rienza può fornire soltanto la materia » (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. 1). La no- zione è rimasta soprattutto nel criticismo tedesco. Natorp parlava di «S. filosofica » nel senso di ri- cerca diretta a dare al sapere filosofico quella unità in cui consiste il sistema (Philosophische Systematik, $ 1). SISTEMATICO (ingl. Systematic; franc. Sy- stématique; ted. Systematisch). 1. Che costituisce un sistema o appartiene a un sistema, in uno dei sensi qualsiasi della parola sistema. In questo senso si dice «sapere S.» o «errore sistematico ». 2. Che procede verso il sistema ma non è un sistema: con riferimento a sistematica. In questo senso N. Hartmann distingueva nella storia della filosofia il pensiero-sistema rivolto alla costruzione del sistema e il pensiero-problema che si mantiene in un’indagine aperta (Systemarische Philosophie, 1931, $ 1). Egli inoltre riteneva che « il tempo delle visioni S. è ormai del tutto passato e la filosofia S. si è ritrovata sul terreno privo di pretese ma solida dell’indagine problematica » (Der philosophische Ge- danke und seine Geschichte, III, 4; cfr. Zur Grundle- gung der Ontologie, 1935, pag. 31). SITUAZIONE (ingl. Situation; franc. Situation; ted. Situation). Il rapporto dell’uomo col mondo in quanto limita, condiziona e, insieme, fonda e determina le possibilità umane come tali. Il termine fu introdotto da Jaspers che così lo illustrava: «La S. esterna, pur così mutevole e così diversa a seconda degli uomini a cui si rivolge, ha questo tuttavia di tipico: essa è per tutti a due tagli, incita e ostacola, e inevitabilmente limita, distrugge, è infida, insicura » (Psychologie der Weltanschauungen, 1925, cap. III, $ 2; trad. ital., pag. 268). Jaspers parlava pure di sifuazioni-limite che posseggono in grado eminente i caratteri propri di ogni S. del- l’uomo nel mondo. Tali sono le S. immutabili, defi- nitive, incomprensibili, nelle quali l’uomo si trova come di fronte a un muro contro cui urti senza spe- ranza. Tali sono: l’esistere sempre in una S. deter- minata; il non poter vivere senza lotta e dolore; 806 il dover prendere su di sè la colpa; l’essere destinato alla morte (Phil., II, pag. 209). In queste situazioni Jaspers vedeva la cifra (v.), cioè la rivelazione negativa, della trascendenza. Heidegger ha notato che il termine ha anche un significato spaziale ma soprattutto designa la determinazione per la quale l’esistenza, come essere nel mondo, decide sul pro- prio luogo (Sein und Zeit,$60). L’esistenza anonima si trova davanti a « S. generali » e si perde nelle op- portunità più prossime. Il richiamo della coscienza porta l’uomo davanti alla sua situazione propria e alla esigenza di una decisione autentica (/bid., $ 60). In senso analogo è stato detto: «La necessità del rapporto fra la finitudine dell’ente e la determina- zione costitutiva del mondo e dell’altro ente è la S. esistenziale dell’ente... Il costituirsi dell’ente nella S. che lo individua nella sua finitudine è l’accadere dell’ente, la sua storicità fondamentale» (ABBA- GNANO, Struttura dell’esistenza, 1939, $ 70). E Sartre ha detto: « Se il per sè [cioè la coscienza o l’uomo] non è altro che la sua S., ne segue che l’essere in S. definisce la realtà umana rendendo conto insieme del suo esserci e del suo essere al di là. La realtà umana è, in effetti, l’essere che è sempre al di là del suo esserci. E la S. è la totalità organizzata del- l’esserci, interpretato e vissuto da e per l’essere al di là di questo stesso essere» (L’érre er le néant, 1943, pag. 634). In un senso psicologico e precisamente nel senso della psicologia della forma (v. PsicoLOGIA) si è servito del termine Dewey, identificando la S. con il campo (Logic, 1939, I, cap. IV; trad. ital., pag. 111 sgg.). Dewey stesso però ha insistito sul carattere oggettivo della S. (/bid., cap. IV, $ 1; trad. ital., 159 sgg.). SIT VERUM. Una delle obbligazioni (v.) della logica terministica medievale. Essa consiste nel rispondere ad una proposizione come se si sapesse che essa è falsa; oppure come se si sapesse che essa è vera; oppure come se si dubitasse di essa (con- fronta OcKHam, Summa Log., III, m, 44). SLANCIO VITALE (franc. Élan vital). Se- condo Bergson, è la coscienza in quanto penetra nella materia e l’organizza realizzando in essa il mondo organico. Lo S. vitale passa « da una gene- razione di germi alla generazione successiva di germi per l’intermediario degli organismi sviluppati che formano il tratto di unione tra i germi stessi. Esso si conserva sulle linee evolutive tra le quali si divide ed è la causa profonda delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono regolarmente, si ad- dizionano e creano nuove specie » (Év. créatr., 85 ediz., 1911, pag. 95). La formazione della società, prima chiusa poi aperta, la religione fabulatrice e la religione dinamica sono, secondo Bergson, gli ulteriori prodotti dello stesso S. vitale cioè della SIT VERUM coscienza (Deux sources, IV, trad. ital., pag. 295) (v. DURATA). SOCIALE (ingl. Social; franc. Social; ted. So- zial). 1. Che appartiene alla società o ha in vista le sue strutture o condizioni. In questo senso si dice «azione S. », « movimento S. », « questione S. », ecc. 2. Che concerne la considerazione o lo studio della società. In questo senso si dice « fisica S. +, *s economia S. », « psicologia S. », ecc. In particolare l’espressione scienze S. designa il complesso delle discipline sociologiche giuridiche ed economiche e talvolta anche l’etica e la pedagogia. SOCIALISMO (ingl. Socialism; franc. So- cialisme; ted. Sozialismus). Il termine che si diffuse in Inghilterra (in opposizione a individualismo) nei primi decenni dell’800, ha due significati prin- cipali: 1° Uno più vasto per il quale designa in generale ogni dottrina che difenda o prospetti una riorganiz- zazione della società su basi collettivistiche. In tal senso si chiama S. quello di Platone come quello di Marx, quello di Owen e Proudhon come quello di Lenin e Stalin. A questo significato fa riferimento la distinzione stabilita da Marx o Engels tra S. utopistico che presenta la società socialistica come un ideale, senza preoccuparsi delle vie o dei modi della sua realizzazione e il S. scientifico che, senza preoccuparsi di presentare un ideale qualsiasi prevede l'avvento inevitabile della società socia- listica in base alle stesse leggi che governano lo sviluppo della società capitalistica (cfr., su questa distinzione, specialmente: EnGELS, Antidihring, 1878, l’introduzione e il cap. I della III parte). In questo significato il termine è molto vago e indica qualsiasi aspirazione, ideale, tendenza o dottrina che comunque prospetti un mutamento in senso collettivistico della società attuale. 2° Nel significato più ristretto s'intendono per S. gli indirizzi collettivistici che si distinguono dal comunismo (v.) e si oppongono ad esso in quanto: a) escludono la necessità di una dittatura del pro- letariato; 5) escludono che tale dittatura possa essere esercitata, in nome del proletariato, da un partito politico qualsiasi; c) escludono la diversità radicale, che si riscontra nei paesi a regime comu- nista tra il tenore di vita della élite dirigente e quello della maggioranza dei cittadini; d) escludono la subordinazione della vita culturale alle esigenze del partito cioè alle volontà dei suoi dirigenti; e) esi- gono il rispetto delle regole del metodo democratico. La distinzione delle forme storiche che il S. ha assunto interessa la politica più che la filosofia e pertanto non può trovar posto in questa sede. SOCIALITÀ (ingl. Sociality; franc. Socialité; ted. Geselligkeit). Lo stesso che società nel senso 1°. G. H. Mead ha inteso la S. in un senso più vasto, SOCIETÀ attribuendola all’intero universo. « Il carattere so- ciale dell’universo consiste nella situazione nella quale il nuovo evento è insieme nel vecchio ordine e nell’ordine nuovo di cui il suo avvento è l’araldo. La S. è la capacità di essere diverse cose ad un tempo» (The Philosophy of the Present, 1932, pag. 49). SOCIETÀ (lat. Societas; ingl. Society; franc. So- ciété; ted. Gesellschaft). Nel senso generale e fonda- mentale: 1° il campo dei rapporti intersoggettivi cioè dei rapporti umani di comunicazione, e pertanto anche: 2° la totalità degli individui tra i quali questi rapporti intercedono; 3° un gruppo di individui tra i quali tali rapporti intercedono in forma co- munque condizionata o determinata. 1° Il primo significato è, come si è detto, quello fondamentale ed è stato introdotto nella cultura occidentale dagli scrittori latini, e special- mente da Cicerone, che l’hanno desunto dallo stoicismo. Negli scrittori classici della Grecia l'aspetto statuale e l’aspetto sociale sono fusi e indistinti nel concetto della polis; il cosmopoli- tismo degli Stoici consente di dissociarli e di consi- derare pertanto la S. come indipendente dallo stato cioè dall’organizzazione politica. Appunto espo- «Ciascuno, per quanto dipende da lui, deve promuovere e mante- nere con i suoi simili uno stato di socievolezza pacifica, conforme in generale all’indole e alle finalità del genere umano » e spiegava che per so- cievolezza si dovesse intendere « quella disposizione dell’uomo verso l’uomo per la quale l’uno si intende vincolato all’altro dalla benevolenza, dalla pace e dalla carità » (De jure naturae, 1672, II, 3). Una definizione indiretta della S. si può anche scorgere nei testi che insistono sulla tendenza naturale dell’uomo alla socialità, per es. in quelli che ricor- rono frequentemente nelle opere di Kant. « L'uomo ha una inclinazione ad associarsi perchè nello 807 stato di S. si sente maggiormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue disposizioni natu- rali. Ma egli ha anche una forte tendenza a disso- ciarsi (isolarsi) perchè ha in sè anche la qualità anti-sociale di voler tutto rivolgere solo al proprio interesse per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa che deve da parte sua tendere a resistere contro gli altri» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbirgerlicher  Absicht, 1784, IV; trad. ital., pag. 127; Mer. der Sitten, II, $ 47; Crit. del Giud., $ 41). Fichte non faceva che esprimere lo stesso concetto dicendo: « Chiamo S. la relazione reci- proca degli esseri ragionevoli » (Die Bestimmung des Gelehrten, 1794, II). Da questo punto di vista la considerazione della S. può consistere: a) Nella considerazione dei fini che il genere umano nella sua totalità deve perseguire e dei mezzi che la ragione addita per il raggiungimento di tali fini. Le dottrine politiche degli autori greci, per es., di Platone e di Aristotele e le dottrine giusnatura- listiche sono teorie della S. in questo senso. b) Nella considerazione delle condizioni che, in linea di fatto, rendono possibili i rapporti umani. Queste condizioni sono state variamente definite e la loro definizione può dirsi il primo compito della sociologia (v.). Max Weber le ha riconosciute nell’azione sociale che accade secondo ordinamenti deliberati e relativamente costanti (Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie, 1913, V; trad. ital., in // metodo delle scienze storico-sociali, pag. 262 sgg.). Durkheim ha assunto come caratte- ristiche della S. umana le maniere d’agire che sono imposte dall’esterno e si consolidano nelle isti- tuzioni (Régles de la méthode sociologique, 1895, cap. I). E l’azione stessa o il comportamento viene talora assunto come l’elemento oggettivo che defi- nisce il campo dei rapporti umani (cfr. TALCOTT Parsons, The Structure of Social Action, 1949; 2* ediz., 1957). Questo secondo modo d’intendere la S., riconosce ad essa esplicitamente o implicita- mente il carattere di un « campo » e la riduce perciò a un costrutto concettuale togliendole sia il carat- tere di totalità reale sia quello di ideale normativo. 2° Il concetto della S. come della totalità degli individui tra i quali intercedono rapporti inter- soggettivi cioè come «mondo sociale» è abitual- mente connesso con il concetto della S. come orga- nismo o « super-organismo ». Già gli antichi avevano assimilato a un organismo la comunità politica cioè lo Stato. Gli Stoici assimilarono all’organismo la S. intera cioè la comunità degli esseri razionali (cfr. Marco AURELIO, Ricordi, VII, 13); e tale assi- milazione continua nell’età moderna. Comte chiama la società un «organismo collettivo» (Cours de phil. positive, IV, pag. 442 sgg.). Spencer a sua volta chiama super-organica l’evoluzione che conduce 808 alla S. e considera la S. stessa come un organismo i cui elementi sono prima le famiglie poi gli individui singoli. L'organismo sociale si distingue, secondo Spencer, dall’organismo animale, per il fatto che la coscienza appartiene solo agli elementi che lo compongono in quanto la S. non ha organi di senso come l’animale ma vive e sente solo negli individui che la compongono (The Study of Sociology, 1873). Nello stesso senso si esprimeva Wundt (System der Philosophie, 28 ediz., 1897, pag. 616 sgg.) L’ipotesi organicistica rimane sullo sfondo di molte dottrine politiche e sociologiche moderne. Una variante di questa stessa concezione può essere considerata la dottrina di Hegel che vede nella «S. civile» una fase imperfetta o preparatoria dello Stato cioè dell’Idea divina che si realizza in terra: « La sostanza che, in quanto spirito, si parti- colarizza astrattamente in molte persone (la famiglia è una sola persona), in famiglie o individui, i quali sono per sè in libertà indipendente e come esseri particolari, perde il suo carattere etico; giacchè queste persone in quanto tali non hanno nella loro coscienza e per loro scopo l’unità assoluta ma la loro propria particolarità e il loro essere per sè: donde nasce il sistema dell’atomistica ». Questo sistema è appunto la S. civile come « connessione universale e mediatrice di estremi indipendenti e dei loro interessi particolari » 0 come « stato esterno + (Enc., $ 523; Fil. del Dir., $ 184). In questo senso la S. civile comprende, secondo Hegel, in primo luogo, il sistema dei bisogni; in secondo luogo, l’amministrazione della giustizia e in terzo luogo la polizia e la corporazione cioè gli organi che hanno la cura degli interessi particolari (Fil. del Dir., $ 188). Marx stesso mantenne immutato questo concetto della S. civile, di cui capovolse il rapporto con lo stato e che pertanto assunse come principio di spiegazione dello Stato stesso e in generale di tutto il mondo ideologico: « Sono stato dai miei studi condotto alla conclusione che sia i rapporti giuridici sia le forme dello stato non potevano essere compresi nè di per se stessi nè per il cosiddetto sviluppo generale dello spirito umano, ma che sono radicati nei rapporti materiali dell’esistenza, il cui complesso è abbracciato da Hegel con il nome di S. civile: l’anatomia di questa S. civile dev'essere cercata nell’economia politica » (Zur Kritik der poli- tischen Okonomie, 1859, Pref.; trad. ital., Cantimori, pag. 10). Un concetto analogo di S. è apparso a Bergson come l’ideale stesso della S. « aperta » cioè della S. mistica. « Una S. mistica che conglobi l’uma- nità intera e che marci, animata da una volontà co- mune, verso la creazione incessantemente rinnovel- lata di un’umanità più completa, di certo non si realizzerà nell’avvenire più di quanto nel passato siano esistite S. umane funzionanti in maniera or- SOCINIANESIMO ganica a simiglianza delle S. animali. L’aspirazione pura è un limite ideale come l’obbligazione nuda » (Deux sources, I; trad. ital., pag. 87). 3° Nel terzo significato di un insieme di indi- vidui caratterizzato da un atteggiamento comune o istituzionalizzato la parola è usata correntemente nel linguaggio comune e nelle discipline sociologiche. In questo significato la parola designa indifferente- mente sia un gruppo di individui sia l'istituzione che caratterizza il gruppo, come accade nelle frasi «S. commerciale », « S. capitalistica », «S. dell’an- golo della strada», ecc. Quest’uso è così ovvio che di regola non viene neppure definito. Talvolta viene definito in relazione a cultura, come fanno Kluckhohn e Kelly: « Una ‘S.’ si riferisce ad un gruppo di gente che ha imparato a operare insieme; una ‘cultura * si riferisce ai modi di vita che distin- guono questo gruppo di gente » (R. LINTON, The Science of Man in the World Crisis, 72 ediz., 1952, pag. 79). SOCINIANESIMO (ingl. Socinianism; fran- cese Socinianisme; ted. Socinianismus). La dottrina religiosa di Lelio (1525-62) e Fausto (1539-1604) Socini di Siena che esercitarono la loro influenza soprattutto in Polonia e che comprende principal- mente i punti seguenti: 1° la negazione del dogma trinitario; 2° la negazione del peccato originale e della predestinazione; 3° la negazione del valore delle opere e della necessità della mediazione ecclesiastica; 4° l’appello diretto alla Bibbia come unico mezzo di salvezza; 5° il ricorso alla ragione come unico strumento per l’interpretazione auten- tica della Bibbia. Oltre che in Polonia il S. si dif- fuse in Olanda e in Inghilterra; ma la sua influenza è stata grandissima su tutta la cultura liberale moderna (cfr. D. CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento, 1939). SOCIOCRAZIA, SOCIOLATRIA (ingl. So- ciocracy, Sociolatry; francese Sociocratie, Socio- latrie; ted. Soziokratie, Soziolatrie). Termini creati da A. Comte per designare rispettivamente il re- gime politico fondato sulla sociologia, che Comte concepisce come analogo o corrispondente alla teocrazia medievale fondata sulla teologia (Poli- tique positive, 1851, I, pag. 403); e il culto della società che Comte riteneva dovesse prendere il posto delle religioni positive (Caréchisme positi- viste, VI). SOCIOLOGIA (ingl. Sociology; franc. Socio- logie; ted. Soziologie). È la scienza della società, intendendosi per società il campo dei rapporti intersoggettivi. Il termine fu creato da A. Comte nel 1838 per indicare «la scienza di osservazione dei fenomeni sociali » (Cours de phil. positive, IV, 1838) ed è ora usato per designare ogni tipo o specie di analisi empirica o di teoria che concerna i SOCIOLOGIA fatti sociali cioè gli effettivi rapporti intersoggettivi, in contrasto con le «filosofie» o « metafisiche » delia società, che pretendono di illustrare, indipen- dentemente dai fatti e una volta per sempre, la natura della società come un tutto. Indubbiamente, osservazioni utili e decisive, nel campo sociale, sono state sempre fatte nella storia del pensiero occidentale e hanno trovato posto specialmente nell’etica e nella politica. Tali osservazioni non costituivano tuttavia una disciplina autonoma, do- tata di una propria metodologia: hanno comin- ciato a costituirla solo con Comte. Si possono distinguere due concetti fondamentali della S., che si sono succeduti nel tempo, cioè: 1° la S. sintetica (o sistematica) avente come oggetto la totalità dei fenomeni sociali da indagarsi nel suo complesso cioè nelle sue leggi; 2° la S. analitica avente per oggetto gruppi o aspetti particolari dei fenomeni sociali e da essi procedente a generaliz- zazioni opportune. In questa seconda fase la S. si rompe in una molteplicità di indirizzi di ricerca e fa una certa fatica a ritrovare la sua unità concettuale. 1° Ad opera di Comte, la S. è nata come sistema cioè come determinazione della natura della società nel suo complesso, mediante la determina- zione delle leggi di essa. La S. pretende di organiz- zarsi, in questa fase, a somiglianza della fisica newtoniana: come scienza che delinea, mediante leggi rigorose, un ordine necessario, nonchè lo svi- luppo, non meno necessario, di quest'ordine. Comte pertanto chiamava la S. fisica sociale e vedeva la prima parte di essa nello studio dell’ordine sociale cioè nella statica e la sua seconda parte nello studio del progresso sociale, cioè nella dinamica (Cours de phil. positive, IV, pag. 292). Comte inoltre attribuiva alla S. la stessa funzione riconosciuta da Bacone in o infatti, mentre vuol realizzare la S. come una scienza positiva che indaga «la realtà speri- mentale mediante l’applicazione dei metodi che hanno fatto le loro prove in fisica, chimica, astro- nomia, biologia e nelle altre scienze +, ripudia, dal- l’altro lato, ogni costruzione sistematica troppo complessa e non esita a definire come metafisiche e dogmatiche le dottrine sociologiche di Comte e Spencer (Zraztato, $ 5, 112). Il carattere essenziale della scienza è, secondo Pareto, il carattere «lo- gico-sperimentale » che implica due elementi: il ra- gionamento logico e l’osservazione del fatto. Lo scopo della scienza rimane tuttavia quello di for- mulare leggi necessarie che delineano nel loro in- sieme quello che Pareto chiama l’equilibrio sociale e che è da lui paragonato talora a un sistema mec- canico di punti, talaltra a un organismo vivente (Cours d’économie politique, 1896, $ 619). Ma dal- l’altro lato egli insiste anche sul semplice carattere di « uniformità sperimentale » della legge e sul fatto che ogni fenomeno concreto è dovuto all’interse- cazione di un certo numero di leggi differenti (Trattato, $ 99); il che vuol dire che ogni spiega- zione scientifica è solo approssimativa e parziale (Ibid., $ 106). E ancora più lontano dall’ideale si- stematico della S. è il corpo delle analisi che Pareto dà nel 7rattato; analisi che hanno per oggetto di preferenza quelle che egli chiama le «azioni non logiche », di cui vede gli elementi nei residui e nelle derivazioni (v.). 2° Il passaggio dalla S. sintetica a quella ana- litica può ritenersi segnato dall'opera di E. Durk- heim che abbandona il presupposto fondamentale della S. sistematica: il presupposto cioè che la società costituisca un tutto o un sistema organico. Dice Durkheim: «Ciò che esiste, ciò che solo è dato all’osservazione, sono le società particolari che nascono, si sviluppano, muoiono indipenden- temente l’una dall’altra» (Régles de la méthode sociologique, 1895; 11® ediz., 1950, pag. 20). Pa- rallelamente Durkheim ha insistito sul carattere esterno dell’oggetto proprio della scienza sociale.«I fatti sociali, egli ha detto, consistono in modi di agire, pensare e sentire, esterni all’individuo e dotati di un potere di coercizione per il quale gli si impongono * (/bid., pag. 5). Considerare i fatti sociali in questo modo significa considerarli come cose cioè indipendentemente dai pregiudizi sogget- tivi e dalle volontà individuali (/bid., pag. 11 sgg.). Gli stessi motivi trovarono sistemazione nell’opera metodologica di Max Weber. Questi ha in primo luogo il merito di aver distinto la S. dalle altre discipline antropologiche e in particolare da quelle storiografiche. Egli riconobbe l’oggetto della S. nelle uniformità dell’atteggiamento umano, in quanto dotate di senso cioè in quanto accessibili alla com- prensione. Più precisamente, l’atteggiamento è quel- l'azione umana che: 1° è riferita, secondo l’inten- zione di colui che agisce, all’atteggiamento degli altri; 2° è determinata nel suo corso anche da questo riferimento; 3° può essere spiegata da questo rife- rimento (Uber einige Kategorien der verstehenden Soziologie, 1913; trad. ital, in // metodo delle scienze storico-sociali, pag. 243). La seconda acqui- sizione importante della S. di Max Weber è la netta separazione, che egli volle stabilire, tra la ricerca empirica o logica da un lato e le valuta- zioni pratiche o etiche, politiche o metafisiche dal- l’altro lato (Der Sinn der Werifreiheit der sozio- logischen und òkonomischen Wissenschaften, 1917; nella citata raccolta, pag. 311 sgg.). Per quanto, ovviamente, questa separazione sia più facile ad essere affacciata come esigenza che realizzata nella ricerca, essa vale tuttora come una regola che im- pegna l’onestà del ricercatore. In terzo luogo, dal- l’opera di Weber scaturisce l’esigenza della ricerca empirica particolare, la quale soltanto può deter- minare le uniformità di atteggiamento che costi- tuiscono l’oggetto proprio della sociologia. Questi tre punti sono rimasti saldi nell’ulteriore sviluppo della S. contemporanea. Questa ha accolto con entusiasmo l’invito di Weber alla ricerca empirica particolare e alla formulazione di tecniche di os- servazione adeguate. La S. dispone oggi di un complesso imponente di tecniche, che si possono ordinare in quattro gruppi fondamentali: 1° le tecniche d’osservazione (osservazione diretta, libera o controllata, osservazione clinica, osservazione par- tecipante, ecc.); 2° le tecniche dell’intervista, che vanno dall’intervista libera ai questionari; 3° le tecniche di sperimentazione e le tecniche sociome- triche: le quali ultime tendono a descrivere le rela- zioni sociali spontanee (considerate come compo- nenti elementari di tutti i raggruppamenti) mediante la partecipazione attiva degli stessi soggetti stu- diati (cfr. Moreno, Who Shall Survive?, 1934); 4° le recniche statistiche, che la S. condivide con molte discipline sociali (cfr., per un quadro di SOCIOLOGIA queste tecniche, il Traité de sociologie, diretto da G. Gurvitch, 1958, pag. 135 sgg.), Un numero ingente di « ricerche sul campo + è stato effettuato con l’uso di queste tecniche nelle direzioni più di- sparate ed è stato in questo modo accumulato, soprattutto negli ultimi trent'anni, un materiale di osservazione ingente e complesso. Non in tutti i paesi tuttavia la ricerca sociologica si è sviluppata nelle stesse direzioni. In Inghilterra essa si è dedicata soprattutto a illustrare il mondo dei primitivi, le sue istituzioni e i suoi comporta- menti fondamentali (cfr. specialmente l’opera di G. FRazER, The Golden Bough, 1911-14, 12 voll., e gli scritti di B. Malinowski e A. R. Radcliff- Browns). In Francia, oltre a illustrare la mentalità dei primitivi (cfr. specialmente gli scritti di Lévy- Bruhl a partire dal Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, 1910), essa ha conservato il carattere teoretico dedicandosi allo studio di pro- blemi fondamentali, specialmente ad opera di Gur- vitch (La vocation actuelle de la sociologie, 1950; Déterminismes sociaux et liberté humaine, 1955). In Italia, dopo aver dato con l’opera di Pareto e di altri minori, un contributo importante alla S. si- stematica, ha taciuto nel periodo tra le due guerre per l’influenza negativa della cultura idealistica e solo oggi va riacquistando forza e capacità, aggior- nandosi rapidamente nei metodi e negli interessi e procedendo a studiare la società italiana. Ma so- prattutto negli Stati Uniti la ricerca sociologica ha prodotto una mole imponente di lavoro nelle più disparate direzioni. Si possono qui soltanto indi- care le direzioni principali in cui la ricerca socio- logica si è incanalata: a) La S. urbana che si è sviluppata in Ame- rica soprattutto per l’opera di incoraggiamento di R. E. Park e che ha dato luogo a opere clas- siche come quelle di R. S. e H. Lynp, Middletown (1929) e Middletown in Transition (1937) (cfr. pure il classico studio di PARK, The City, 1925, ora in Human Communities, 1952). b) Lo studio della stratificazione e della mo- bilità sociale: che si è iniziato in America all’epoca della crisi (1929) e ha conseguito d'allora in poi risultati importanti (cfr., per un bilancio, G. GaDpDA Conti, Mobilità e stratificazione sociale, 1959). c) Lo studio dei gruppi etnici che conta un insieme imponente di opere tra le quali quella classica di Thomas e Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America (1918-21). d) Lo studio della famiglia che si è soprat- tutto fermato sull’analisi della disorganizzazione fa- miliare e del disordine matrimoniale (cfr., ad es. G. V. Hamilton, La Ricerca sul matrimonio, 1929). e) L’analisi dell’opinione pubblica e degli strumenti di propaganda che ha ormai una ricchis- sima letteratura (cfr., ad es., R. K. MERTON, Mass Persuasion, 1947). f) Lo studio del piccolo gruppo che ha dato in America i risultati migliori (cfr. E. SHi1s, Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di S.», 1953, n. 7). 2) La S. industriale, col qual termine s’in- tende lo studio dei rapporti che si sviluppano nei luoghi di lavoro e l’infiuenza reciproca tra tali rap- porti e l’organizzazione industriale (cfr., per un bilancio, FRANCO FERRAROTTI, La S. industriale in America e in Europa, 1959). h) La S. della religione, che è stata fondata

da Max Weber (Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1904; Die protestantische Sekten und der Geist des Kapitalismus, 1906; ecc.) e consiste nell’analisi delle relazioni reciproche tra i rapporti sociali e i fatti religiosi; ma che non ha trovato negli ultimi anni sviluppi im- portanti. 1) La S. della conoscenza che abitualmente si ritiene fondata da Marx il quale per primo ha insistito sulle relazioni reciproche tra il sapere e le forme sociali e che è stata coltivata specialmente da Max Scheler (Die Wissensformen und die Gesell- schaft, 1926) e da Karl Mannheim (Das Problem einer Soziologie des Wissens, 1926). Come già è stato detto la mole di lavoro effet- tuato in molte di queste branche della ricerca so- ciologica è ingente; ma a tale mole non corrisponde l’adeguata utilizzazione concettuale di essa. « Il di- fetto maggiore della S. americana, ha detto Shils è l'inverso della sua principale particolare virtù: lsua indifferenza, finora predominante, verso la for- mazione di una teoria generale è strettamente connessa con la sua avidità di precisione nell’os- servazione immediata» (Lo stato attuale della S. americana, in «Quaderni di S.», 1953, n. 8). Questa condizione non è propria soltanto della S. americana ma si ripresenta in tutti i paesi nei quali la ricerca sociologica raggiunge un certo grado di sviluppo. Essa fa nascere talora una no- stalgia per la vecchia forma sistematica della S. anche in coloro che più hanno insistito sull’impor- tanza delle tecniche oggettive (cfr. PITIRIM SOROKIN, Fads and Foibles in Modern Sociology and Related Sciences, 1956). Non mancano tuttavia nella let- teratura sociologica moderna tentativi importanti e ben riusciti di stabilire la teoria sistematica del- l'oggetto proprio della S. cioè dell’azione sociale (cfr., ad es., T. PaRSONS, The Structure of Social Action, 1937; 23 ediz., 1949) o di consolidare il rapporto tra la teoria sociale e la ricerca sociale (cfr., ad es., R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure, 1949; 2* ediz., 1957) o anche quelli di realizzare la S. come una « tipologia quan-titativa e discontinuista », altamente teoretica, qual è quella di G. Gurvitch (Traité de sociologie, 1959, pag. 155 sgg.). Pertanto, ciò che si può prevedere, dato lo stato attuale di questa disciplina, è il mol- tiplicarsi e il rafforzarsi dei tentativi di concettua- lizzazione teoretica del materiale reso disponibile dalle ricerche particolari, pur senza un ritorno alla forma sistematica che la S. aveva assunto nella sua prima fase dogmatica. SOCIOLOGISMO (ingl. Sociologism; francese Sociologisme; ted. Soziologismus). Termine pole- mico per designare la tendenza a ridurre i fenomeni morali o religiosi a fatti sociali (cfr. BOUTROUX,

Science et religion, pag. 342). SOCIOMETRIA. V. SocioLogia; TECNICHE DI RICERCA. SOCRATISMO (ingl. Socratism; franc. So- cratisme; ted. Sokratismus). La dottrina di Socrate, quale è rimasta fissata nella tradizione antica e che si può riassumere nei seguenti capisaldi: 1° il valore della ricerca filosofica per cui una vita senza ricerca non è degna d’esser vissuta; 2° la limitazione della ricerca all’uomo e il disinteresse per ogni indagine della natura; 3° l’identificazione di scienza e virtù nel senso che la virtù si può insegnare ed apprendere e che non si può fare il bene senza conoscerlo; 4° l’importanza attribuita all’insegna- mento, con la pretesa di non insegnare nulla e di limitarsi a favorire il parto intellettuale degli ascoltatori; 5° il metodo dell’interrogazione e l’ironia (v.). SOFISMA (ingl. Sophism; franc. Sophisme; ted. Sophisma). 1. Lo stesso che fallacia (v.). 2. Un ragionamento cavilloso o che porta a conclusioni paradossali o sgradite. In questo senso il termine ha un uso assai vasto e possono essere chiamati S. anche i paradossi (v.) e gli argomenti duplici. SOFISTICA (ingl. Sophistics; franc. Sophi- stique; ted. Sophistik). 1. Aristotele chiamò S. «la sapienza apparente ma non reale» (E/. Sof., 1, 165a 21); ed il nome è rimasto per indicare in generale l’abilità di addurre argomenti cavillosi o speciosi. 2. In senso storico, la S. è l’indirizzo filosofico proprio dei cosiddetti Sofisti cioè di quei maestri di retorica o di cultura generale che nella Grecia tra il v ed il rv secolo ebbero una notevole influenza nel clima intellettuale del tempo. La S. non è una scuola filosofica ma un indirizzo generico che i Sofisti condivisero per le esigenze della loro stessa professione. Si possono riassumere nel modo se- guente i capisaldi di questo indirizzo: 1° la concentrazione dell’interesse filosofico sul- l’uomo e sui suoi problemi, che i Sofisti condivi- sero con Socrate2° la riduzione della conoscenza all’opinione e del bene all’utilità col conseguente riconoscimento della relatività del vero e dei valori morali, che muterebbero a seconda dei luoghi e dei tempi; 3° l’eristica cioè l’abilità di confutare o di sostenere contemporaneamente tesi contraddittorie; 4° la contrapposizione tra la natura e la legge e il riconoscimento che la natura non conosce che il diritto del più forte. a in un modo d’essere rappresentativo (in esse objec- tivo) che corrisponde a ciò che la cosa esterna è nella sua esistenza sostanziale » (/rr Senr., I, d.2, q. 8, E; cfr. Duns Scoro, De An., 17, 14). Questo significato si mantiene per tutto il Medio Evo. 2. Il significato di S. come appartenente all’io o al soggetto dell’uomo si trova per la prima volta in alcuni scrittori tedeschi del sec. xvni (sui quali cfr. CassireR, Erkenntnisproblem, 1908, libro VII). Già Baumgarten parlava della «fede considerata soggettivamente » di fronte alla «fede considerata oggettivamente » che è l’insieme delle credenze (Mer., 1739, $ 993). E qualche decennio più tardi si discuteva se la bellezza o la verità fossero S. od oggettive intendendosi per oggettiva « una proprietà degli oggetti » e per S. «una rappresentazione del rapporto delle cose con noi, cioè una relazione con colui che le pensa» (J. C. Lossius, Physische Ursachen des Wahren, 1775, pag. 65). La stessa distinzione si trova nel Tetens (Philosophische Versuche, 1776, I, pag. 344, 560, ecc.). Da quest’uso dell’aggettivo, Kant desumeva il nuovo significato attribuito al sostantivo soggetto. SOGGETTO (gr. sroxeluevov; lat. Subjectum, Suppositum; ingl. Subject; franc. Sujet; tedesco Subjekt). Il termine ha avuto due significati fonda- mentali: 1° ciò di cui si parla o a cui si attribuiscono qualità o determinazioni o a cui qualità o determi- nazioni sono inerenti; 2° l’io o lo spirito o la co- scienza come principio determinante del mondo della conoscenza o dell’azione o almeno come capacità d’iniziativa in tale mondo. Entrambi questi significati rimangono nell’uso corrente del termine. Il primo nella terminologia grammaticale e nel concetto di S. come tema o argomento di discorso. Il secondo nel concetto di S. come capacità auto- noma di rapporti o di iniziative, capacità che viene contrapposta all’esser semplice «oggetto » o parte passiva di tali rapporti. 1° Il primo significato è quello della tradizione filosofica antica. Esso ricorre in Platone (Prot., 349 b) ed è illustrato da Aristotele come uno dei modi della sostanza. « Il S., dice Aristotele è ciò di cui si può dire ogni cosa ma che a sua volta non può essere detto di nulla » (Mer., VII, 3, 1028 b 36). In questo senso il S. può essere inteso: 4) come la materia di cui una cosa è composta, per es., il bronzo; 5) come la forma della cosa stessa, per es., il disegno di una statua; c) come l’unione di materia e forma, per es., la statua (/bid., 1029 a 1). Questedeterminazioni sono strettamente proprie della metafisica aristotelica. Ma il senso generale del termine è quello che conta: S. è l’oggetto reale a cui ineriscono o a cui si riferiscono le determina- zioni predicabili (la qualità, la quantità, ecc.). Questo è pure il concetto che del S. ebbero gli Stoici: essi lo considerarono come l'oggetto esterno a cui il significato viene riferito cioè come la denota- zione del significato (Sesto EMP., Adv. Math., VIII, 12; cfr. SigNIFICATO). Nello stesso senso usarono il termine gli Epicurei (EPICUR., Epistola, I, pag. 12, 24, Uesener). A questa tradizione si riconnette l’uso grammaticale del termine che cominciò nel n secolo d. C.; Apuleio già chiamava subjectiva o subdita la parte del discorso che gli antichi chia- mavano nome e declarativa la parte che gli antichi chiamavano verbo (De Dogmate Platonis, III, pag. 30, 30; cfr. Marziano CAPELLA, De Nuptiis, IV, 393). Questo significato di « S. » rimane immutato attra- verso una lunga tradizione. Gli scrittori medievali seguono le determinazioni aristoteliche: chiamano subjectum o suppositum la sostanza in quanto ad essa ineriscono le qualità o le altre determinazioni (cfr. S. TomMaso, S. Th., I, q. 29, a. 2; Duns Scoro, Op. Ox., II, d.3, q.6, n.8; OcKHAM, In Sent., I, d. 2, q. 8, E). Il significato del termine non cambia quando per S. viene intesa l’anima come sostanza alla quale ineriscono determinati caratteri o dalla quale emanano attività determinate. Dice Hobbes: « Il S. della sensazione è lo stesso senziente, cioè l’animale » (De Corp., 25, 3). Locke chiama il S. in questo senso substratum o sostegno (Saggio, II, 23, 1-2). E in questo senso si avvale del termine Hume: «Qui appare Spinoza e mi dice che vi sono solo le modificazioni e che il S. al quale esse ineriscono è semplice, incomposto e indivisibile » (Treatise, I, IV, 5, ed. Selby-Bigge, pag. 242). Dall'altro lato lo stesso significato si mantiene anche nel raziona- lismo tedesco. Leibniz intende conservare il signi- ficato tradizionale di S. (Nouv. Ess., Il, 23, 2); e quando parla di disposizioni «che vengono 4a subjecto o dall’anima stessa » intende disposizioni che vengono dalla sostanza stessa dell'anima (Re- marques sur le livre de L'origine du Mal, in Op., ed. Erdmann, pag. 645). Wolff a sua volta definisce il S. come « l’ente in quanto considerato dotato di essenza e capace di altre cose oltre di essa » (Onr., $ 711). Baumgarten nello stesso senso dice che S. è l’ente, determinato nella materia da cui è costituito (Mer., $ 344). Lo stesso Kant fa d’altronde ricorso a questa nozione tradizionale del soggetto. « Già da tempo, egli dice, è stato osservato che in tutte le sostanze, il vero e proprio S., ciò che rimane tolti gli accidenti (come predicati) quindi il vero elemento sostanziale, ci è ignoto» (Prol., $ 46).2° Il secondo significato del termine come io o coscienza o capacità d’iniziativa in generale, si è iniziato solo con Kant che certamente ha tenuto presente il significato che l’opposizione tra sogget- tivo e oggettivo aveva assunto in taluni scrittori tedeschi a lui contemporanei (v. SOGGETTIVO). Il S. è per Kant l’io penso, la coscienza o autoco- scienza che determina e condiziona ogni attività conoscitiva: «In tutti i giudizi io sono sempre il S. determinante di quella relazione che costituisce il giudizio ». « Per l’io o egli o quello (la cosa) che pensa, non ci rappresentiamo altro che un S. tra- scendentale dei pensieri, = x che non è conosciuto se non mediante i pensieri che sono suoi predicati e di cui, a parte da questi, non possiamo avere il minimo concetto » (Crif. R. Pura, Dial. trascenden- tale, II, cap. I). In queste parole di Kant si può cogliere il passaggio dal vecchio al nuovo signifi- cato di soggetto. L’io è S. in quanto ad esso ineri- scono i pensieri come suoi predicati: questo è ancora il significato tradizionale del termine. Ma l’io è S. in quanto determina l’unione del S. e del predicato nei giudizi cioè in quanto è attività sin- tetica o giudicante, spontaneità conoscitiva, perciò coscienza 0 auto-coscienza o appercezione; e questo è il nuovo significato di soggetto. A questo secondo significato esclusivamente si appiglia la tradizione post-kantiana. Secondo Fichte, il S. è l'Io, che è «S. assoluto », non rappresentato nè rappresentabile », che « non ha nulla in comune con gli esseri della natura» (Wissenschafislehre, 1794, $ 3, d). La differenza tra la Sostanza di Spi- noza e l’Io assoluto, consiste secondo Fichte appunto nel fatto che Spinoza non ha concepito la sostanza come S. (/bid.; trad. ital., pag. 78 sgg.). Schelling parla nello stesso senso della identità o unità del S. e dell’oggetto nell’Autocoscienza assoluta (System des transzendentalen Idealismus, 1800, I, cap. II; trad. ital., pag. 34). Hegel a sua volta diceva: « Tutto dipende dall’intendere e dall’esprimere il Vero non solo come Sostanza ma altrettanto decisamente come Soggetto... La sostanza viva è l’essere il quale è in verità S. o, ciò che è lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma solo in quanto la sostanza è il movimento dell’autoporsi o in quanto è la mediazione del divenire altro da sè con se stessa » (Phanom. des Geistes, Pref. II, 1). Nello stesso senso Hegel afferma che l’Idea assoluta è unità di S. e oggetto (ZEnc., $ 214). Ed aggiunge: «L'unità del- l’idea è soggettività, pensiero, infinità, e perciò da distinguere essenzialmente dall’idea come sostanza; allo stesso modo che questa soggettività soverchiante, questo pensiero, questa infinità è da distinguere dalla soggettività unilaterale dal pensiero unila- terale, dall’infinità unilaterale, alla quale essa, col giudicare e col definire, si abbassa » (Enc., $ 215). 814 La soggettività come «soggettività infinita» cioè non intellettuale prevale dunque sull’oggettività in quella « unità di S. e oggetto » che è l’Idea o l’Asso- luto. Ma Hegel vede anche nel S. come tale la capacità d’iniziativa o il principio dell'attività in generale. «Il S. è l’attività della soddisfazione degli impulsi, della razionalità formale; vale a dire, è l’attività che traduce la soggettività del contenuto, che sotto tal riguardo è scopo, nell’oggettività in cui il S. si congiunge con se stesso + (Enc., $ 475). Schopenhauer insisteva, come Fichte, sulla irrap- empre correlativi l’uno all’altro e per questo inseparabili» riduce la funzione del S. a quella di «farsi immagine, rappresentazione o conoscenza dell’oggetto + esclu- dendo che esso entri comunque a modificare la natura di questo (Systematische Philosophie, 1931, $ 10). Infine, anche quando non si esclude la funzione del S., tale funzione non viene riconosciuta come incondizionata o creativa ma sottoposta a limiti e condizioni, e in ogni caso si nega che il S. stesso possa valere come una sostanza o una forza auto- noma. Dice Husserl: «L’ego si costituisce per se stesso nell’unità di una storia. Se si può dire che nella costituzione dell’ego sono contenute tutte le costi- tuzioni di tutti gli oggetti che esistono per lui, immanenti e trascendenti, reali e ideali, bisogna aggiungere che il sistema delle costituzioni, in virtù delle quali tali oggetti esistono per l’ego non sono possibili che nel quadro di leggi genetiche » (Cart. Med., 1931, $ 37). Da questo punto di vista il S. è una funzione, non una sostanza o una forza creatrice. Heidegger ha detto: «Se per l’ente che noi stessi siamo e che definiamo esserci si sceglie il termine di S., possiamo dire: la trascendenza implica l’essenza del S., essa è la struttura fonda- mentale della soggettività. Non è che il S. esista dapprima come S. e poi, qualora si rivelino come presenti alcuni oggetti, esso li possa anche trascen- dere. Esser S. significa invece essere esistente nella trascendenza e in quanto trascendenza +» (Vom Wesen dell’im- maginazione nel sonno. Questa è la definizione del S. che fu data già da Platone (Tim., 45 e) e da SOLILOQUIO Aristotele (De Somniis, 1, 459a 15) ed è anche quella della psicologia moderna: nella quale, na- turalmente, dà luogo ad una serie di problemi che esulano completamente dal campo della filosofia (cfr., su di essi, E. SERvADIO, 7/ S., 1955). Freud e gli psicanalisti hanno dato una interpretazione funzionalistica del S.: hanno cercato di determinare la funzione che il S. esercita nella vita dell’uomo. Secondo Freud il S. «è un mezzo per sopprimere le eccitazioni (psichiche) che vengono a turbare il sonno, soppressione che si effettua con l’aiuto di soddisfazioni allucinatorie » (/ntr. d la psychanalyse, 1932, pag. 151). I desideri che nel S. trovano una realizzazione simbolica sono, il più delle volte, de- sideri proibiti, inibiti dalla censura e che perciò subiscono attraverso il S. una elaborazione radicale che è compito dello psicologo interpretare (/bid., pag. 189, 234). Questa teoria di Freud è stata a lungo discussa e non pare che si adatti a spiegare tutte le specie di S. o tutti gli aspetti del S.; essa è la sola tuttavia che si è proposta il problema della funzionalità del S., cioè del compito cui esso adempie nell'economia della vita psichica. I filosofi si sono talvolta soffermati sul S. per mostrare l’incertezza della discriminazione tra il S. e la veglia, avvalendosene come un elemento di dubbio teoretico. Diceva Platone: « Nulla vieta di credere che i discorsi che ora facciamo siano tenuti in sogno; e quando in S. crediamo di raccontare un S., la somiglianza delle sensazioni nel S. e nella veglia è addirittura meravigliosa » (Teert., 158 c). D'altronde «Il tempo in cui dormiamo è uguale a quello in cui siamo desti e nell’uno e nell’altro la nostra anima afferma che solo le opinioni che ha in quel momento presente sono vere; sicchè per un eguale spazio di tempo noi diciamo che sono vere ora le une ora le altre e le une e le altre so- steniamo con lo stesso vigore » (/bid., 158 d). Nel sec. XVII e XVIII questo tema fu ripetuto frequen- temente da poeti e filosofi. Shakespeare diceva: « Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i S. e la nostra breve vita è racchiusa in un sonno » (Tempest, atto IV, scena I). Calderòn de la Barca aveva utilizzato lo stesso tema ne La vita è un S. (1635): « Sono dunque le glorie così simili ai S. che quelle vere son tenute per false e quelle finte per certe? C'è così poco dalle une alle altre che si fa questione di sapere se quel che si vede o si gode sia un S. o verità?» (atto III, scena X). Cartesio utilizzava lo stesso tema come elemento di dubbio: 4 Ciò che accade neì sogno non sembra così chiaro e così distinto come ciò che accade nella veglia. Ma pensandoci sopra mi ricordo d'essere stato spesso ingannato, quando dormivo, da semplici il- lusioni. E fermandomi su questo pensiero, vedo chiaramente che non ci sono indici concludenti nè contrassegni abbastanza certi per poter distinguere nettamente la veglia dal sogno al punto che ne sono stupito e il mio stupore è tale che è quasi capace di persuadermi che sto dormendo » (Méd., I; cfr. Princ. Phil., I, 4). La dottrina di Leibniz se- condo la quale la vita della monade, cioè della sostanza spirituale, è «un S. ben regolato» è un’altra manifestazione dello stesso tema. Dice Leibniz: « Non è impossibile, metafisicamente par- lando, che ci sia un S. continuo e duraturo come la vita di un uomo... Ma posto che i fenomeni siano legati non importa che li si chiamino S. o no poichè l’esperienza mostra che non ci si inganna nella misura in cui si apprendono i fenomeni, quando essi sono appresi secondo le verità di ragione » (Nouv. Ess., IV, 2, 14). Diceva Voltaire: « Se gli organi da soli producono i S. della notte perchè non potrebbero produrre da soli le idee del giorno? Se l’anima sola, tranquilla nel riposo dei sensi e operante da sè è l’unica causa, il soggetto unico di tutte le idee che abbiamo dormendo, perchè tutte queste idee sono quasi sempre irregolari, ir- razionali, incoerenti? » (Dictionnaire philosophique, 1764, art. Songes). Schopenhauer è forse l’ultimo a presentare questo tema nella sua forma classica: «La vita e i S. sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo allora spesso seguitiamo ancora, fiaccamente senza ordine e con- nessione, a sfogliare qua e là qualche pagina: spesso è una pagina già letta, spesso un’altra an- cora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro » (Die Welt, I, $ 5). SOLECISMO (ingl. Solecism; franc. Solécisme; ted. Solecismus). In Aristotele (Soph. El., passim) e poi nella Logica di origine aristotelica designa uno degli scopi della dialettica sofistica, ossia il tentativo di indurre l’interlocutore ad accettare un enunciato contenente un'impossibilità grammati- cale, come homines currit. Il termine è rimasto ad indicare in genere uno sproposito di morfologia o sintassi grammaticale. G. P. SOLIDARIETÀ (ingl. Solidarity; franc. Soli- darité; ted. Solidaritàt). Termine di origine giuri- dica che nel linguaggio corrente comune e filosofico significa: 1° connessione reciproca o interdipen- denza: per esempio, «S. dei fenomeni»; 2° assi- stenza reciproca fra i membri di uno stesso gruppo: (per es., S. familiare, S. umana, ecc.). In questo senso si parla di solidarismo per indicare la dot- trina morale e giuridica che assume come sua idea fondamentale la S. (cfr. L. BourGEOIS, La soli darité, 1897). SOLILOQUIO (lat. Soliloguium). Il colloquio dell’anima con se stessa. Soliloquia S. Agostino intitolò uno dei suoi primi scritti nel quale di- chiarava di voler conoscere soltanto Dio e l’anima e null’altro (So/., I, 2). S. Anselmo chiamò Mono- logion il suo colloquio interiore intorno all’essenza di Dio. SOLIPSISMO (ingl. Solipsism; franc. Solip- sisme; ted. Solipsismus). La tesi che esisto solo io e che tutti gli altri enti (uomini e cose) sono sol- tanto mie idee. Il termine più antico per indicare questa tesi è egoismo (cfr. WoLFF, Psychol. ratio- nalis, $ 38; BAUMGARTEN, Met., $ 392; GALLUPPI, Saggio filosofico sulla critica della conoscenza, IV, 3, 24; ecc.) o egoismo metafisico (KANT, Antr., I, $ 2) o egoismo teorico (SCHOPENHAUER, Die Welt, I, $ 19). Kant adoperò il termine S. per indicare la totalità delle inclinazioni, che, quando sono soddisfatte, producono la felicità (Cri. R. Prat., I, libro I, cap. III; trad. ital., pag. 85): e questo termine fu adoperato a indicare l’egoismo metafisico da alcuni scrittori tedeschi della seconda metà del- 1°800 (cfr. SCHUBERT-SOLDERN, Grundlagen zu einer Erkenntnistheorie, 1884, pag. 83 sgg.; W. SCHUPPE, Der Solipsismus, 1898; H. DrIescH, Ordnungslehre, 1912, pag. 23 sgg.; ecc.). Come già notava Wolff, il S. è una specie di idealismo che riduce ad idee non solo le cose ma anche gli spiriti (Psychol. rat., fra gli elementi del linguaggio stesso e gli elementi della realtà, e la riduzione di questi ultimi a fatti di esperienza immediata che perciò sono soltanto miei. Dove tali fatti mancano, manca il significato (cioè l’og- getto) della parola ed io non la capisco: perciò Wittgenstein dice che i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mondo. Lo stesso presupposto conduce Carnap a parlare di S. metodico. Molto giustamente Carnap parla di S. a proposito della scelta degli elementi fondamentali (Grundelemente): poichè per tali elementi, che sono quelli in base ai quali si può ricostruire logicamente il mondo, Carnap sceglie (come Wittgenstein) i fatti immediati di esperienza o come egli dice «la base psichica propria », il suo procedimento è solipsistico (Der logische Aufbau der Welt, 1928, $ 64). J. R. Weinberg già osservava come nel positivismo logico il S. lin- guistico è inevitabile; e che, poichè occorre supe- rarlo per raggiungere l’oggettività scientifica, «o si devono alterare alcuni postulati del sistema per eliminare dal positivismo le idee metafisiche o, se questo metodo fallisce, si dovrà abbandonare l’in- tero sistema del positivismo logico » (An Exami- nation of Logical Positivism, cap. VII; trad. ital., pag. 235 sgg.). In realtà il presupposto del positi- vismo da cui nasce il S. è il riflesso nella teoria del linguaggio della tesi idealistica: gli elementi del linguaggio sono segni di esperienze immediate, perchè le esperienze immediate sono la sola realtà (v. ESPERIENZA; LINGUAGGIO). SOLITUDINE (ingl. Solitude; franc. Solitude; ted. Einsamkeit). L’isolamento dagli altri o la ricerca di una migliore comunicazione. Nel primo senso la S. è la situazione del sapiente che, nella sua figura tradizionale, è perfettamente autarchico e perciò isolato nella sua perfezione (v. SaGGIO). Fuori da questo ideale, l’isolamento è un fatto patolo- gico: è l'impossibilità della comunicazione connessa a tutte le forme della pazzia. In senso proprio, tut- tavia, la S. non è isolamento ma piuttosto la ricerca di forme diverse e superiori di comunicazione: «Essa non prescinde dai legami offerti dall’am- biente e dalla vita quotidiana se non in vista di altri legami con uomini del passato e dell’avvenire, con i quali sia possibile una forma nuova o più feconda di comunicazione. Il suo prescindere da quei legami è perciò il tentativo di rendersi liberi da essi per rendersi disponibili per altri rapporti sociali» (ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, XI, $ 8). SOMATICO (ingl. Somatic; franc. Somatique; ted. Somatisch). Corporeo (v. CORPO)SOMATOLOGIA (ingl. Somatology; francese Somatologie; ted. Somatologie). La {parte dell’an- tropologia che considera gli aspetti fisici dell’uomo (v. ANTROPOLOGIA). SOMMA LOGICA (ingl. Logical Sum; fran- cese Somme logique; ted. Logische Summe). È la figura (a + 5) risultante da un’addizione /o- gica (v.). G.P. SOMMO BENE. V. BENE sommo. SONNO E VEGLIA. V. Sogno. SOPRACOSTRUZIONE. V. Sopra- STRUTTURA. - suna conoscenza è possibile (noumenorum non datur scientia)» (Fortschrifte der Metaphysik, 1804, [A 55)). Il S. è pertanto il dominio delle idee della Ragion pura, con tutto ciò che esse implicano per la vita morale dell’uomo. Hegel a sua volta adoperò il termine in senso analogo, ma positivo per indicare 52 — ARBAGNANO, Dizionario di flosofia. 817 ciò che l’apparenza sensibile è nella sua natura razionale: « Il S. è il sensibile e il percepito posti come in verità essi sono» perciò come 4 l’univer- sale semplice, l’universale in cui la molteplicità non sussiste, in cui non c’è niente da conoscere »: in breve l’universale come lo ha inteso Schelling (Phinom. des Geistes, I, IV, B; trad. ital., pag. 127 e nota). SOPRASTRUTTURA (ingl. Superstructure; franc. Superstructure; ted. Uberbau). Termine ado- perato dai Marxisti per designare l’ordinamento politico e giuridico nonchè le ideologie politiche religiose, filosofiche, ecc., in quanto dipendono dalla struttura economica di una data fase della società. Dice Marx: «L'insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia la base reale sulla quale si eleva una S. giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita» (Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.) (v. MATERIALISMO STORICO). Il termine è stato anche adoperato da N. Hart- mann per indicare uno strato o piano dell’essere nel quale si conservino solo alcune delle categorie del piano inferiore; e si distinguerebbe dalla sopra- formazione (Uberformung) perchè in questa si conserverebbero fufte le categorie del piano infe- riore. Ad es., il piano psichico sarebbe, nei con- fronti del piano organico, una S. perchè in esso è abbandonata la categoria dello spazio che domina ancora l’essere organico. La differenza tra S. e sopraformazione taglierebbe così la strada alla concezione meccanica della vita psichica (Aufbau der realen Welt, 1940). Talora, per la traduzione del termine di Hartmann si è usato in italiano sopracostruzione (cfr. BARONE, Nicolai Hartmann, pag. 342). SOPRAVVIVENZA. V. IMMORTALITÀ. SORITE (lat. Acervus; ingl. Sorites; franc. Sorite; ted. Sorites). 1. L'argomento di Eubulide contro la molteplicità (v. ACERVO, ARGOMENTO DELL’). a. Un sillogismo composto o polisillogismo (v.) nel quale la conclusione del sillogismo precedente si assume come la premessa del sillogismo susse- guente, finchè si giunga nell’ultima a connettere l’antecedente del primo sillogismo e la conseguenza dell’ultimo (cfr. ARNAULD, Log., III, I; JunGIUS, Logica Hamburgensis, III, 28; WOLFF, Log., $ 474; HAMILTON, Lectures on Logic, pag. 366; ecc.). L'espressione soriticus syllogismus fu usata forse per la prima volta da Mario Vittorino (Iv secolo) (cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, I, pag. 663). Ma fu diffusa da Lorenzo Valla (Dialecticae dispu- tationes, III, 12)SOSPIRO (ted. Sehnsucht). Aspirazione che si @) ciò che è necessariamente quello che è; 5) ciò che esiste ne- cessariamente. Entrambe queste determinazioni si trovano illustrate nella metafisica aristotelica, della quale il concetto di S. costituisce il cardine. La prima determinazione è quella che Aristotele de- signa con l’espressione tè tl 7v elvar (quod quid erat esse) e che si può tradurre come essenza necessaria; l’espressione significa infatti alla lettera ciò che l’essere era dove l’imperfetto «era » indica la continuità o stabilità dell’essere stesso, il suo essere già da sempre e per sempre. L'essenza ne- cessaria è quella che è espressa dalla definizione (v.) ed è l’oggetto proprio della conoscenza scientifica (v. ScIENZA). A questa prima determinazione, si connette la seconda, per la quale è S. ciò che neces- sariamente esiste. Dice Aristotele: « Abbiamo scienza delle cose particolari solo quando conosciamo l’es- senza necessaria di esse ed accade per tutte le cose ciò che accade per il bene: se ciò che è per essenza bene non è bene, allora neppure ciò che per essenza esiste non esiste e ciò che per essenza è uno non è uno; e così per tutte le altre cose» (Mer., VII, 6, 1031 b 6). Aristotele adduce questo argomento contro la separazione platonica dell’idea dalle cose; ma l’argomento ovviamente significa che ogni cosa è quella che è in virtù dell’essenza necessaria (che è la sua causa intrinseca o estrinseca) e che pertanto tutto ciò che nelle cose c'è di reale e di conoscibile fa parte dell’essenza necessaria e necessariamente esiste. La S. costituisce così per Aristotele la strut- tura necessaria dell’essere nella sua concatena- zione causale perchè tutte le specie di cause sono determinazioni della S. (v. CausaLITÀ). In questo senso appunto Aristotele afferma che la forma delle cose è eterna e non può essere nè prodotta nè

distrutta (Mer., VII, 8; VIII, 3); la forma è infatti l’essenza necessaria delle cose composte. Dall'altro lato Aristotele non è troppo preoccupato di enume- rare tutti i modi d’essere della sostanza. Egli co- mincia con il dire che comunemente si parla di S. in quattro sensi, se non di più, e cioè come essenza necessaria, come universale, come specie e come soggetto (Mer., VII, 3, 1028 a 32). Ma la S. come universale o come specie è esclusa dalla critica al platonismo; oppure, il che vale lo stesso, è chia- mata da Aristotele sostanza seconda nei confronti della S. prima che è quella autentica (Car., 5, 2a 13). Rimangono perciò solo la S. come essenza necessaria e la S. come soggetto (v.). In quest’ultimo significato la S. può essere o la forma o la materia o il loro composto (/bid., 1029 a 2). Nei suoi due significati legittimi la S. esprime il significato fon- damentale del concetto dell’essere e pertanto costi- tuisce l'oggetto proprio della metafisica. « Ciò che da tempo e anche ora e sempre abbiamo cercato, ciò che sempre sarà un problema per noi: che cosa è l’essere? significa questo: che cosa è la S.?» (Met., VII, 1, 1028 b 2). Dall’altro lato la struttura sostanziale dell’essere è il fondamento del sapere scientifico. L'essenza necessaria delle cose che non hanno una causa fuori di sè è intuita direttamente dall’intelletto e costituisce i primi principi che sono a fondamento della dimostrazione; mentre l’essenza necessaria delle cose che hanno una causa fuori di sè può essere rivelata, se non dimostrata, dalla stessa dimostrazione. In ogni caso la necessità della dimostrazione è la stessa necessità della S. (An. Post., II, 9, 43 b 21; cfr. tutta la discussione precedente). La storia ulteriore del concetto di S. ripete il carattere che era già servito ad Aristotele per defi- nirlo, quello della necessità. Tale carattere viene esplicitamente assunto da Plotino per la definizione del termine (Enn., VI, 3, 4). Ma su di esso insiste specialmente la scolastica araba e in particolare Avicenna: « Diciamo che tutto ciò che è ha una S. (essentia) per la quale è ciò che è e per la quale è la necessità di esso e il suo essere (Logica, I). E S. Tommaso che, con le equivalenze linguistiche stabilite nel De ente et essentia aveva chiuso un lungo periodo di confusioni terminologiche (v. Es- SENZA), riduce la S. (rettamente interpretando i testi di Aristotele) alla quiddità (l'essenza necessaria) e al soggetto (S. Th., I, q. 29, a. 2). Cartesio non faceva che esprimere lo stesso carattere di necessità affermando che «quando concepiamo la S. conce- piamo solo una cosa che esiste in tal maniera che non ha bisogno per esistere d’altro che di se stessa » (Princ. Phil., I, 51). Giustamente Spinoza osser- vava che questa è la stessa definizione della S. infinita (R. Cartesi Principia Philosophiae, 1663)favore di quella di una semplice coesistenza di fatto delle determinazioni percepite. Il concetto della S. subisce così, in Locke, una tra- sformazione analoga a quella che il concetto di causa subirà nelle mani di Hume: si trasforma da necessità razionale in uniformità fattuale. Da necessità razionale per la quale le determinaziondi un ente sarebbero tutte razionalmente connesse l'una con l’altra e derivabili da quella fondamentale costitutiva dell’essernza dell’ente stesso, la sostanza diventa un insieme di determinazioni che si trovano insieme in linea di fatto ma di cui non si può di- mostrare la necessità. Hume esprimeva bene questa nuova idea di S. dicendo che « le particolari qualità che formano una S. sono comunemente riferite ad un qualcosa di sconosciuto al quale si suppone che ineriscano o, mettendo da parte questa finzione, sono considerate strettamente e inseparabilmente connesse da relazioni di contiguità e causazione ? {Treatise, I, 1, 6; ed. Selby-Bigge, pag. 16). La con- nessione per contiguità e causazione ha preso il posto della necessità razionale. Una formulazione ancora più rigorosa dello stesso concetto è stata data da Mach: «La S. non è che la persistenza del collegamento: una persistenza che non è mai assoluta o rigorosa (Analyse der Empfindungen, XIV, $ 14; trad. ital., pag. 382). Nello stesso senso Dewey ha scritto: «La condizione, la sola condizione perchè vi possa essere sostanzialità, è che certe qualificazioni dipendano l’una dall’altra come segni sicuri che, verificandosi certe interazioni, ne segui- ranno certi risultati » (Logic, cap. VII; trad. ital., pag. 187). L’idea di S., nel suo significato tradizionale di necessità, e quella connessa di causa, costituiscono i cardini di qualsiasi metafisica (v.). Esse sono pertanto accettate di peso da tutte le metafisiche di stampo tradizionale; mentre gli indirizzi empiri- stici inclinano a vedere nel concetto di S. il collega- mento che già Hume vi aveva scorto o tendono addirittura farne a meno opponendo ad essa l’idea di funzione, cioè di relazione. Già da Mach quest’ul- timo passaggio è stato effettuato in quanto la « persistenza del collegamento» non è altro che l’uniformità di certe relazioni. SOSTANZIALE (ingl. Substantial; franc. Sub- stantiel; ted. Substantiell). 1. Ciò che costituisce una sostanza o appartiene a una sostanza: cioè che è essenziale o è tale da esistere necessariamente. 2. Ciò che è, in un senso qualsiasi, importante o decisivo: per es., «un contributo sostanziale +. SOSTANZIALISMO (ingl. Substantialism) franc. Substantialisme; ted. Substantialismus). Ter- mine con il quale si è talora designato la dottrina metafisica della sostanza da parte di coloro che la combattono (Renouvier, Hamelin, ecc.). SOSTANZIALITÀ (inglese Substantiality; franc. Substantialité; ted. Substantialitàt). Il modo d’essere della sostanza (nel senso 1). Nella prima edizione della Critica della Ragion Pura, Kant chiamò « paralogismo della S.» quello per il quale si attribuisce all’io penso il modo d'essere della sostanza (Crit. R. Pura, A, 349). Il termine fu poi la ottenuta da A sostituendo una formula 8 per una particolare variabile in A (cfr. A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, $ 10; ed inoltre CARNAP, The Logical Syntax of Language, $ 6; Meaning and Necessity, $ 11; Quine, Methods of Logic, $ 6; ecc.). SOSTRATO (lat. Substratum; ingl. Substratum; franc. Substrat). Il termine fu introdotto dalla scolastica del sec. xrv per indicare l’individuo reale (substratum singulare: Pietro AuREOLO, /n Sent., I, d. 35, q.4, a. 1); e poi ripreso da Locke per indicare ciò che nella tradizione veniva piuttosto chiamato subjectum o suppositum cioè il soggetto o la sostanza come soggetto (Saggio, II, 23, 1). Accettato da Berkeley (Principles of Human Know- ledge, I, $ 7) e da Leibniz (Nouv. Ess., II, 23, 1) il termine è entrato nell’uso e ha finito per prevalere sugli altri, non senza pericolo di confusioni (v. Sog- GETTO). SOTERIOLOGIA (ingl. Soteriology; franc. So- teriologie; ted. Soteriologie). La dottrina religiosa della salvezza. Sull’affacciarsi dell’indirizzo religioso soteriologico nel mondo occidentale cfr. l’opera di F. CUMONT, Les religions orientales dans le pa- ganisme romain, 1906, 2* ediz. 1909. SOTTRAZIONE (ingl. Subrraction; francese Soustraction; ted. Subtraction)i. La nozione di S. logica fu introdotta da Boole nel modo seguente: «Se x rappresenta una classe di oggetti, allora 1 — x rappresenta la classe contraria o supplemen- tare di oggetti cioè la classe includente tutti gli oggetti che non sono compresi nella classe x» (Laws of Thought, 1854, cap. III, Prop. III, Dover publ., pag. 48; cfr. pure PEIRCE, Coll. Pap., 3. 5,9, 18, ecc.). Nella logica posteriore questa nozione è scomparsa. SOVRANITÀ (ingl. Sovereignty; franc. Sou- veraineté; ted. Souverdnitàt). Il potere preponde- rante o supremo dello Stato, che fu riconosciuto per la prima volta come carattere fondamentale dello Stato stesso da Jean Bodin nei Six livres de la république (1576). La S. consiste, secondo Bodin, negativamente nell’essere sciolto o dispensato dalle leggi e dagli usi dello Stato e positivamente nel potere di abolire o creare leggi. Il solo limite della S. è la legge naturale e divina (Six livres de la répu- blique, 9* ediz., 1576, I, pag. 131-32). Il termine e il concetto furono accettati da Hegel: « Queste due determinazioni che gli affari e i poteri particolari dello Stato non sono autonomi e stabili nè per sè, nè nella volontà particolare degli individui ma hanno la loro ultima radice nell’unità dello Stato, di qualche parte di se stesso o la sua sottomissione a un altro sovrano. Violare l’atto per il quale esso esiste significherebbe annullarsi; e ciò che è niente, non produce niente » (/bid., I, 7). Il principio della S. è pertanto quello di essere il potere più alto in un dato territorio: il che non vuol dire che essa debba essere un potere assoluto o arbitrario. Nella dottrina moderna del diritto, la S. è riconosciuta propria dell'ordinamento giu- ridico (v. STATO) ed è intesa come quel carattere per il quale « l'ordinamento giuridico statale è un ordinamento al di sopra del quale non c’è un ordinamento superiore » (H. KELSEN, General Theory of Law and State, 1945; trad. ital., pag. 390). Se- condo Kelsen, se si ammette l’ipotesi della priorità del diritto internazionale, lo Stato può essere detto sovrano solo in senso relativo; se si ammette l’ipo- tesi della priorità del diritto statale può esser detto sovrano nel senso assoluto e originario del termine. La scelta tra le due ipotesi è arbitraria (/bid., pag. 391). SPAESATO (ted. Unheimlich). Il « sentirsi S.» è, secondo Heidegger, uno degli aspetti dell’an- goscia (v.). Sentirsi S. vuol dire «non sentirsi a casa propria» nel mondo e questo è, in sede on- tologico-esistenziale, il «fenomeno più originario » (Sein und Zeit, $ 40). SPAZIO (gr. yx&bpa, 16rog; lat. Spatium; inglese Space; franc. Espace; ted. Raum). La nozione di S. ha dato origine a tre problemi diversi o meglio a tre ordini di problemi: 1° quello circa la natura dello S.; 2° quello circa la realtà dello S.; 3° quello circa la struttura metrica dello spazio. Una risposta a quest’ultimo problema non è che una geometria e le diverse risposte ad esso costi- tuiscono le differenti geometrie. Per tali risposte, cfr. GEOMETRIA. 1° Il primo problema concerne il vero e proprio concetto di S. ed è il problema circa la natura dell’esteriorità in generale cioè di ciò che rende possibile il rapporto estrinseco tra gli oggetti. Finstein nella prefazione ad un libro storico sul concetto di S. (Max JAMMER, Concepts of Space, 1954) ha distinto due fondamentali teorie dello S., cioè: a) lo S. come la qualità posizionale degli oggetti materiali nel mondo; 5) lo S. come il con- tenente di tutti gli oggetti materiali. A questi due concetti si può aggiungere l’altro, che lo stesso Einstein ha fondato; c) quello dello S. come campo. a) La prima concezione è quella dello S. come luogo (v.) cioè come posizione di un corpo tra gli altri corpi. Lo S. è definito in questo senso da Aristotele come «il limite immobile che abbraccia un corpo » (Fis., IV, 4, 212a 20): una definizione

che Aristotele riconosce identica con il concetto platonico che identificava lo S. con la materia (Tim., 52b, Sla). In virtù di questo concetto, non c’è S. là dove non c’è un oggetto materiale; perciò il teorema principale di questa teoria dello S. è l’inesistenza del vuoto (cfr. ARISTOTELE, Fis., IV, 8, 214 b 11). È questa la teoria che prevale nell'antichità e viene accettata per tutto il Medio Evo anche dagli avversari di Aristotele (cfr. OckHAM, Summulae physicorum, IV, 20; Quodi., I, 4). Essa veniva difesa nel Rinascimento da Campanella (De sensu rerum, I, 12) e accettata e riesposta da Cartesio nei termini della sua geometria. Tra il luogo e lo S., Cartesio poneva una differenza solo nominale in quanto «il luogo segna più espressamente la situazione che la grandezza o la figura e in quanto al con- trario pensiamo più a queste quando parliamo dello S.». Ma le due cose sono identiche: « Se diciamo che una cosa è in un tal luogo intendiamo solamente che è situata in tal modo rispetto ad altre cose; ma se aggiungiamo che occupa un tale S. o un tal luogo, intendiamo inoltre che essa è di una tale grandezza e di una tale figura che può riem- pirlo esattamente» (Princ. Phil., II, 14). Cartesio conseguentemente negava l’esistenza del vuoto (/bid., II, 16); come la negava Spinoza che condivideva la stessa concezione dello S. (Ez., I, 15, scol.). Leibniz a sua volta difendeva questa concezione contro Newton e i newtoniani. «Se lo S. è una proprietà o un attributo, egli diceva, dev’essere la proprietà di qualche sostanza. Lo S. vuoto limitato, che i suoi sostenitori suppongono tra due corpi, di quale sostanza sarebbe la proprietà o l’affe- zione? » (IV° Lettre à Clarke, 8; Op., ed. Erdmann, pag. 756). Ma la vecchia concezione trovava in Leibniz una nuova e felice espressione: l’espres- sione in termini della nozione di ordine, che doveva rimanere classica. « Io ritengo lo S., diceva Leibniz (polemizzando contro Newton e i newtoniani) come qualcosa di puramente relativo, allo stesso modo del tempo cioè come un ordinè delle coesistenze, al modo in cui il tempo è un ordine delle successioni. Giacchè lo S. contrassegna in termini di possibilità un ordine di cose che esistono nello stesso tempo, in quanto esistono insieme, senza entrare nei loro modi di esistere» (///° Lettre à Clarke, 4; Op., ed. Erdmann, pag. 752). La definizione di Leibniz veniva ripresa da Wolff (Ontol., $ 589), e da Baum- garten (Mer., $ 239). Kant stesso nei primi scritti la difende e dichiara di abbandonarla soltanto nel 1768 nello scritto Su/ primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio. In questo scritto egli dichiara insufficiente la concezione dello S. come ordine delle coesistenze: « Le posi- zioni delle parti dello S. in relazione tra loro, egli dice, presuppongono la regione secondo la quale esse sono ordinate in tale relazione; e intesa nel modo più astratto la regione non consiste nella relazione che una cosa ha con un’altra nello S. (il che propriamente costituisce il concetto di posi- zione) ma nel rapporto del sistema di queste posi- zioni con lo S. cosmico assoluto ». Tuttavia, la concezione posizionale dello S. non viene mai completamente abbandonata dal pensiero filosofico posteriore. Essa sembra presupposta, per quanto può rilevarsi dal carattere generico e confuso dei concetti adoperati, dalle teorie idealistiche dello S. (v. oltre). Ed ha trovato una difesa energica e e che questo S. è infinito (F7., 38-40, Diels). Epicuro ereditò questa concezione (Lettera a Erodoto; cfr. Dioc. L., X, 67), che veniva difesa da Lu- crezio Caro (De nat. rer., I, 950 sgg.). La stessa concezione dello S. era condivisa dagli Stoici, in particolare da Zenone (Diog. L., VII, 140). Obliterata per lungo tempo dalla concezione ari- stotelica, questa dottrina torna a riaffacciarsi nel Rinascimento. Telesio afferma che lo S. deve poter essere il ricettacolo di qualsiasi cosa, in modo tale che sia che le cose gli siano dentro, sia che se ne allontanino, esso rimanga identico e accolga pron- tamente tutte le cose che si succedono in esso e sia nello stesso tempo tanto grande quanto lo sono le cose che vi trovano posto. Lo S. è quindi infinito e incorporeo: l’esistenza del vuoto è un fatto di esperienza (De rer. nat., I, 25). L'infinità dello S. veniva nello stesso senso difesa da Giordano Bruno (De l’infinito, universo e mondi, I). Questa concezione dello S. prevalse nella scienza per opera di Newton. Diceva Newton: « L’asso- luto S., per sua natura propria, senza relazione a qualcosa di esterno, rimane sempre simile ed im- mobile. Lo S. relativo è la dimensione mobile o la misura dello S. assoluto; e i nostri sensi lo deter- minano mediante la sua posizione rispetto ai corpi ed è spesso scambiato per lo S. immobile; tale è la dimensione di un sotterraneo, uno S. aereo ce- leste, determinato dalla sua posizione rispetto alla terra. Lo S. assoluto e relativo sono identici in figura e grandezza ma non rimangono sempre nu- mericamente gli stessi. Perchè se la terra, ad es., si muove, uno S. della nostra aria il quale, relati- vamente, rispetto alla terra, rimane sempre lo stesso, sarà, ad un dato tempo, parte dello S. assoluto che l’aria attraversa e ad un altro tempo sarà un’altra parte dello stesso S. » (Philosophiae naturalis principia mathematica, 1687, I, def. 8, scol.). La polemica di Leibniz contro questa dottrina non valse a impedirne il successo. Circa un secolo dopo Eulero diceva: « Supponiamo che tutti i corpi, che si trovano ora nella mia camera, compresa l’aria, siano annientati dall’onnipotenza divina. Otter- remo allora uno S. che, pur avendo la stessa lun- ghezza, larghezza e profondità di prima, non con- tiene più alcun corpo. Ecco dunque, quanto meno, la possibilità di un’estensione che non è un corpo. Un simile S. senza corpo è chiamato vuoto: un vuoto è dunque un’estensione senza corpo + (Lettres d une Princesse d°Allemagne, 69, del 21-x-1760; trad. ital., pag. 228). Si è già visto come la nozione newtoniana dello S. abbia finito per prevalere (forse per influenza dello stesso Eulero) nella dot- trina di Kant. Essa prevalse allo stesso modo in tutta la fisica dell’800 per quanto incontrasse fre- quenti critiche quella parte di essa che si riferisce allo S. assoluto. Clerk Maxwell affermava che « tutta la nostra conoscenza, sia del tempo che dello S., è essenzialmente relativa » (Matter and Motion, Dover publ., pag. 12). Mach parlava della «mostruo- sità concettuale dello S. assoluto » (Die Mechanik in ihrer Entwicklung, 1883; 78 ediz., 1921, pag. X). Questa teoria dello S. fu tuttavia assunta o pre- supposta dalla fisica sino ad Einstein. c) La terza concezione fondamentale dello S. è quella che Einstein ha fatto prevalere nella fisica contemporanea. A prima vista, e specialmente con- siderando soltanto la relatività speciale, la dottrina einsteiniana dello S. costituisce un ritorno alla teoria classica dello S. come posizione o luogo. Dice Einstein a questo proposito: « Il nostro S. fi- sico, così come lo concepiamo per il tramite degli oggetti e del loro moto, possiede tre dimensioni e le posizioni vengono caratterizzate da tre numeri. L’istante in cui si verifica l'evento è il quarto nu- mero. Ad ogni evento corrispondono quattro nu- meri determinati ed un gruppo di quattro numeri corrisponde ad un evento determinato. Pertanto il mondo degli eventi costituisce un continuo quadri- mensionale » (ErsTEIN-INFELD, The Evolution of Physics, III; trad. ital., pag. 217). In questo con- cetto di S., la novità sembra costituita esclusiva- mente dall’aggiunta della coordinata temporale alle coordinate con cui Cartesio definiva lo S. stesso. sia la materia (ponderabile o imponderabile) sia lo S.» (M. K. MUNITZ, Space, Time and Creation, 1957, VII, 1; trad. ital., pa- gina 112-13). Paradossalmente, perciò, la più ag- giornata concezione dello S. non è che la rinuncia implicita al concetto di S. e l’avviamento all’uso di altri concetti, meno legati ad astrazioni tradi- 823zionali e più adatti a descrivere i risultati della osservazione. 2° Il problema della realtà dello S. ha dato luogo a tre differenti soluzioni: a) la tesi della realtà fisica o teologica dello S.; 5) la tesi della soggettività dello S.; c) la tesi che lo S. è indifferente al problema della realtà o irrealtà. a) La tesi della realtà fisica o teologica dello S. è propria della filosofia antica. Sia che concepis- sero lo S. come luogo o posizione, sia che lo conce- pissero come recipiente, gli antichi credevano alla realtà dello S. e lo ritenevano un elemento o una condizione del mondo oppure un attributo di Dio. Mentre per Platone, per Aristotele e per gli Epicurei lo S. è un costituente del mondo, per i Neoplato- nici diventa Dio stesso. Questa concezione è attri- buita da Sesto Empirico ai Peripatetici: « Sembra che per i Peripatetici, il primo Dio è il luogo di tutte le cose. Infatti, secondo Aristotele, il primo Dio è il limite dei cieli.. E dal momento che il limite dei cieli è il luogo di tutte le cose dentro i cieli, Dio sarà il luogo di tutte le cose» (Adv. Mathem., II, 33). La filosofia giudaica alessandrina fa sua questa concezione, che ricorre ancora nei libri della Kabala. Nel sec. xvi fu accettata da Campanella (De sensu rerum, I, 12); da Henry More (Enchiridion Metaphysicum, 1, 8) e da Spinoza che concepì l’estensione come un attributo di Dio ed affermò pertanto che « tutto ciò che è, è in Dio » (Et., I, 15). Newton stesso parlò dello S. come del sensorium cioè dell'organo mediante il quale Dio muove le cose (Opticks, III, q. 31; Dover publ., pag. 403): un concetto che fu a lungo criticato da Leibniz nelle sue lettere a Clarke e fu accettato nel sec. xvIn da parecchi scrittori compreso lo stesso Clarke. Come ultima manifestazione di questo punto di vista si può considerare la dottrina di S. Alexander, secondo la quale lo S. e il tempo sono la sostanza stessa dell’universo e di Dio e stanno tra loro nello stesso rapporto in cui il corpo è con lo spirito. Da questo punto di vista, lo S. infatti sarebbe il « corpo » dell’intera realtà, quindi di Dio stesso che è al culmine della realtà (Space Time and Deity, 1920). b) La tesi della soggettività dello S. fu avan- zata per la prima volta da Hobbes che definì lo S. come « l’immagine della cosa esistente in quanto esistente cioè in quanto non si considera di essa altro accidente se non il suo apparire al di fuori del soggetto immaginante » (De Corp., VII, $ 2). L’analisi che Locke fece dello S. come di un’idea complessa di modo ha anch’essa per presupposto la riduzione dello S. a un’idea (Saggio, II, 13, 2): riduzione che è ancora più radicale in Berkeley, per la polemica che egli conduce contro il concetto newtoniano dello S.: « La considerazione filosoficaè una percezione ma una «intuizione a priori» o «intuizione pura» cioè la condizione di ogni possibile intuizione esterna. Così inteso esso corrisponde esattamente allo «S. assoluto » di Newton: questo era inteso dallo stesso Newton come il sensorio di Dio; da Kant è inteso come il sensorio del soggetto conoscente, cioè la condizione assoluta della possibilità degli oggetti esterni. Nella filosofia moderna e contemporanea la tesi della soggettività dello S. assume la forma del carattere . apparente o illusorio dello S. stesso. Idealismo e spiritualismo insistono su questa tesi. Già Hegel affermava che « Lo S. è una mera forma, cioè un’astrazione, e cioè quella della esteriorità immediata » (Enc., $ 254): il che tuttavia non gli impediva di cercare una dimostrazione razionale della necessità delle tre dimensioni dello S. (/b., $ 255). L’idealismo di ispirazione hegeliana consi- dera lo S. una semplice apparenza (cfr. BRADLEY, Appearance and Reality, 1893; GENTILE, Teoria generale dello spirito, 1916, cap. IX). E lo spiritua- SPAZIO VITALE lismo si mette sulla stessa via vedendo, con Bergson, per una soluzione po- sitiva di questo problema, optando i più di essi per la geometria euclidea, il carattere provvisorio e parziale di queste risposte mostra, meglio di ogni altra cosa, l'impossibilità di risolvere la questione e avvia perciò all'adozione del punto di vista che prescinda da essa. Si può allora affermare che sol- tanto motivi di opportunità scientifica suggeriscono l’uso di un particolare schema geometrico per la descrizione di un determinato campo di fenomeni. Dice M. K. Munitz a questo proposito: « Potrà es- sere più conveniente e fecondo usare uno schema metrico piuttosto che un altro, ma non possiamo dire che sono i fatti a spingerci a farlo. Il problema è questo: l’adozione di un valore particolare per la curvatura, preso in congiunzione con il resto della teoria, ci permette di fare inferenze corrette da dati fatti ad altri fatti? Nella misura in cui l’esattezza nell’ambito dei fatti osservabili inferiti, è maggiore quando sono stabiliti mediante una teoria con la sua metrica associata piuttosto che con altre teorie, in quella misura possiamo dire che ‘la metrica dell’universo è così e così ”. Quest’ultima espressione tuttavia non è che una maniera sbrigativa di accen- nare alla superiorità relativa di una data teoria o modello dell’universo » (Space Time and Creation, VII, $ 4; trad. ital., pag. 133). SPAZIO VITALE. V. Campo. SPECIE (gr. el3oc; lat. Species; ingl. Kind, Species; franc. Espèce; ted. Art, Species). 1. Un concetto in quanto è parte o elemento di un altro concetto. In questo senso la parola fu comunemente adoperata da Platone (cfr. Sof., 235d, Teer., 178 a, ecc.) e da Aristotele (Mer., X, 7, 1057b 7; Car. 2b 7, ecc.). Ed in questo senso la nozione di S. fu illustrata nell’Isggoge di Porfirio, che ne dà la definizione seguente: « La S. è ciò che è situato sotto il genere e a cui il genere è attribuito essenzial- SPECULAZIONE mente ». Porfirio aggiunge: «La S. è l’attributo che si applica essenzialmente a una pluralità di termini che differiscono specificamente tra loro + osservando però che quest’ultima definizione si applica solo alla «S. specialissima » che precede immediatamente l’individuo, per es., al concetto di uomo (/sag., 4, 10 sgg.). Il concetto di S. è rimasto in questo senso immutato in tutta la logica tradi- zionale, sino a quando, con l’affermarsi della logica matematica, è stato sostituito dal concetto di classe (v.). Nel dominio della biologia, il termine ha avuto, per un certo tempo, un significato corrispondente a quello ora descritto, intendendosi per S. un tipo biologico ben definito da caratteristiche ereditarie, in quanto subordinato a un altro tipo più esteso (genere). Ma nella biologia contemporanea i concetti di genere e S. hanno perso ogni riferimento ai signi- ficati tradizionali e per S. s’intende semplicemente una classe d’individui i cui accoppiamenti dànno luogo a individui fertili; il che non accade per ibridi nati da accoppiamenti tra individui apparte- nenti a S. diverse (C. PINCHER, Evolution, 1950, pag. 21; KaLMus, Variation and Heredity, 1957, pag. 29). 2. Lo stesso che idea nel senso platonico (v. IDEA). 3. Lo stesso che forma nel senso aristotelico (v. FORMA). 4. In relazione con il significato 3 e nel linguag- gio della scolastica medievale la S. è l’intermediaria della conoscenza: cioè l’oggetto proprio della sen- ce della similitudine, che farebbe da intermediaria tra l’oggetto e la potenza conoscitiva umana, domina il periodo classico della scolastica: è accettata da Bonaventura (/n Sent., II, d. 39, a. 1, q.2) e da Duns Scoto (Op. Ox., I, d.3, q.7, n. 2, 3, 20). Ma essa venne abbandonata dalla scolastica del sec. xIv. Durando di Pourcain (In Sent., II, d.3, q. 6, n. 10) e Pietro Aureolo (In Sent., I, d.9, a. 1) negano senz’altro l’esistenza della S. e affermano che l’oggetto della conoscenza è la cosa stessa. Questa dottrina è ribadita da Ockham con molta energia e con l’argomento che se la S. fosse l’oggetto immediato del conoscere la conoscenza non sarebbe conoscenza dell’oggetto ma della sua immagine, al modo in cui la statuadi Ercole non condurrebbe alla conoscenza di Ercole nè permetterebbe di giudicare della sua somiglianza con lui, se non si conoscesse Ercole stesso (/n .Senz., II, q.14, T). Il punto di vista che ha permesso a questi scolastici di abbandonare la nozione della S. è quello della in- tenzionalità (v.) del conoscere, per la quale l’atto del conoscere è un rapporto con l'oggetto in persona. Tuttavia, la dottrina cartesiana dell'idea come og- getto immediato della conoscenza si può conside- rare, sotto un certo rispetto, come la ripresa della nozione scolastica della S. (v. IDEA). SPECIFICAZIONE (ingl. Specification; fran- cese Spécification; ted. Spezifikation). Kant ha chia- mato «legge trascendentale di S.» la regola che «impone all’intelletto di cercare sotto ogni specie che ci viene innanzi un certo numero di sottospecie e per ogni differenza un certo numero di differenze minori + (Crit. R. Pura, Appendice alla Dialettica trascendentale). Questa legge ha il suo corrispon- dente simmetrico in quella della omogeneità (v.) secondo la quale il molteplice va continuamente riportato sotto generi superiori; ed entrambe queste leggi poi confluiscono in quella della affinità (v.) di tutti i concetti che permette il passaggio continuo da un concetto all’altro (/bid.). Il principio della S. fu chiamato da Hamilton « Legge di eterogeneità + {v. OMOGENEITÀ). Kant parlò pure di una «legge della S. della natura » secondo la quale la natura « specifica le sue leggi generali secondo il principio di una finalità relativa alla nostra facoltà di conoscere. Ma questa legge appartiene alla sfera del giudizio riflettente cioè non è costitutiva della natura ma semplicemente prescrive una regola per la sua interpretazione» (Crit. del Giud., Intr., in se stessa, sicchè la felicità è una specie di S.+ (Er. Nic., X, 8, 1178 b 28). Questa esaltazione della S. che costituisce uno dei modi fondamentali d’intendere la funzione della filosofia (v.) fu ereditata soprattutto dal misticismo neoplatonico. Plotino ridusse alla S. ogni altra attività e affermò che la stessa generazione delle cose naturali è S.: s’intende, S. di Dio (Enn., III, 8, 5). Dal misticismo medievale la S. viene identi- ficata con la contemplazione, che è il grado più alto dell’ascesa mistica prima dell’estasi (cfr. Ric- CARDO DI SAN VITTORE, De Contemplatione, I, 3); ma S. Tommaso la identifica con la meditazione che è il grado precedente (S. 7A., II, 2, q. 180, a. 3, ad 2°). In tutti questi usi tuttavia il significato di contemplazioe il terzo momento della dialettica, cioè il momento della sintesi nel quale si ha «l’unità delle determinazioni nella loro opposizione +. Questa unità significa che « la filosofia non ha da fare con mere astrazioni o con pensieri formali, ma solamente con pensieri concreti » cioè con pensieri che sono nello stesso tempo realtà vere e proprie (/bid., $ 82). Inoltre è proprio della filosofia speculativa la dimo- strazione della necessità dei suoi oggetti (Enc., $ 9). SPERANZA Sicchè l’aggettivo speculativo rimane a indicare per Hegel il punto di vista che considera la realtà come razionalità, la razionalità come reale, ed entrambe come necessità. L’aggettivo che Kant adoperava a designare ciò che è al di là dell’espe- rienza possibile, quindi della conoscenza effettiva, viene adoperato da Hegel per designare la cono- scenza effettiva che, in quanto tale, è al di là dell’esperienza e delle separazioni che in essa appaiono. I significati di S. e di speculativo sono rimasti fissati da questa alternativa. S’intende per S. una conoscenza che non trova fondamento o giusti- ficazione nell’esperienza o nell’osservazione; e questo è da un lato motivo per dichiarare illusoria o chimerica una tale conoscenza, dall’altro (ma sempre più raramente) motivo per ritenerla su- riore. SPERANZA (ingl. Hope; franc. Espérance; ted. Hoffnung). 1. Una delle emozioni fondamentali (v. EMOZIONE). 2. Una delle virtù teologali (v. VIRTÙ). SPERIMENTALE (ingl. Experimental; fran- cese Expérimental; ted. Experimentell). L'aggettivo ha significati analoghi a quelli del corrispondente sostantivo e cioè designa: 1° ciò che fa uso dell’espe- rimento cioè dell’osservazione controllata. In tal senso si dice: « scienze S.+, « medicina S.+ (cfr. il titolo dell’opera famosa di C. BERNARD, /ntroduction à l’étude de la médecine expérimentale, 1865), ecc.; 2° ciò che fa uso dell’esperienza e in tal caso l’ag- gettivo è equivalente ad empirico. SPERIMENTALISMO (inglese Experi- mentalism; franc. Expérimentalisme; ted. Experi- mentalismus). Altro nome del pragmatismo o dello strumentalismo. In Italia il termine è stato adottato da A. Aliotta per designare la dottrina seguente: «Il solo fatto concreto, verificabile di cui possiamo parlare è l’esperienza più o meno cosciente che un individuo ha del mondo. Non ha senso discutere di elementi di dati, prima o fuori di questa sintesi + («Il mio S.», 1929, in // nuovo positivismo e lo S., 1954). SPIEGAZIONE (ingl. Explanation, Explica- tion; franc. Explication; ted. Erklarung). In gene- rale, ogni procedimento diretto a determinare il perchè di un oggetto, a rendere un discorso o una situazione chiara e accessibile all’intendimento o a eliminare da una situazione difficoltà e conflitti. Il termine già usato da Cicerone in questo senso (De Fin., III, 4, 14; De nat. deorum, III, 24, 62; ecc.) fu ripreso da Cusano nel senso di mani- festazione: « Dio è la complicazione di tutte le cose perchè tutte le cose sono in lui; ed è l’esplicazione di tutte le cose in quanto egli è in tutte le cose» (De docta ignor., II, 3). Sotto la metafora dello SPIEGAZIONE « spianare +, « distendere » o « rendere esplicito », il termine nasconde tuttavia una molteplicità di si- gnificati che si possono distinguere tra loro a se- conda delle situazioni cui fanno riferimento. Si ha allora che: 1° nei confronti di un termine, spiegare signi- fica determinare il significato del termine, cioè interpretarlo (v. INTERPRETAZIONE); 2° nei confronti di un enunciato analitico, spiegare significa sostituire all’enunciato in que- stione un enunciato meno vago o più esatto o, dove è possibile, proprio di un linguaggio formaliz- zato (CARNAP, Meaning and Necessity, $ 2); 3° nei confronti di una situazione umana di conflitto, spiegare significa eliminare le cause o i motivi del conflitto stesso; 4° ilosofica e scientifica (v. CAUSALITÀ); e cioè: a) il concetto della causalità come deducibilità; b) il concetto della causalità come uniformità. Poichè entrambi questi due concetti della causalità pretendono di rendere possibile una previsione infallibile, per schema di S. causale si può intendere in generale ogni tecnica che consente la previsione infallibile di un oggetto. Ma poichè la previsione infallibile è possibile solo quando si tratta di oggetti necessari, cioè tali che non possono non essere o non possono essere di- versamente da come sono, la S. causale è in ogni caso la dimostrazione della necessità del suo og- getto. Da questo punto di vista affermare «x è stato spiegato » significa affermare «x è stato di- mostrato nella sua necessità » e perciò «x era in- fallibilmente prevedibile ». Su questa base comune, si possono distinguere: «@) la tecnica esplicativa causale che fa appello alla deducibilità; 5) la tec- nica esplicativa causale che fa appello all’uniformità. a) La tecnica esplicativa che fa appello alla deducibilità è quella della metafisica classica e in primo luogo di Aristotele. Per quanto Aristotele abbia distinto quattro specie di cause, egli rico- 827 nosce agli effetti della S., il primato della causa finale come ragion d’essere o sostanza o forma del- l’oggetto (De Part. An., I, 1, 639 b, 14; 642 a, 17; cfr. CausALITÀ). La S. finalistica è, da questo punto di vista, la prima e fondamentale; e coincide con quella che con termini moderni si chiama S. gene- tica giacchè questa fa appello alla causa efficiete, che in ultima analisi coincide con la causa finale. In questo senso, la S. causale si identifica con la dimostrazione (v.) in quanto è dimostrazione della necessità. E Hegel non faceva che ripetere su questo punto l’insegnamento di Aristotele quando affer- mava essere compito della filosofia speculativa «la dimostrazione della necessità» e vedeva in questa sola l’appagamento del bisogno proprio della ra- gione. Ma questo concetto della S. non è soltanto proprio della metafisica: è stato frequentemente riferito alla scienza stessa. E. Meyerson mentre affermava, contro l’analisi positivistica della scienza, che la scienza non cerca solo la previsione ma la S. dei fenomeni, riduceva la S. stessa all’identi- ficazione, perchè solo l’identificazione permette la deduzione del fenomeno. «Noi dobbiamo, egli dice, in virtù della causa o ragione e con l’aiuto di una pura operazione di ragionamento, poter concludere al fenomeno. È ciò che si chiama una deduzione. La causa, allora, può definirsi come il punto di partenza di una deduzione di cui il fenomeno è il punto di arrivo » (De l’explication dans les sciences, 1927, pag. 66; cfr. Identité et realité, 1908). D'altronde lo stesso positivismo aveva assegnato la S. al dominio della deduzione. Dice Stuart Mill: « Si dice che un fatto individuale è spiegato quando si indica la sua causa cioè la legge o le leggi di causazione di cui la sua produ- zione è un esempio... E similmente una legge o uniformità di natura si dice spiegata quando si inon, 1965, pag. 247 sgg.). Questa dottrina della S. è pole- micamente orientata contro la riduzione della S. a princìpi o elementi familiari, alla quale invece fanno ricorso i seguaci del secondo tipo di S. causale (/bid., pag. 257). Questa stessa dottrina è stata estesa da Hempel al campo della storia (« The Function of General Laws in History +, 1942; ora nel vol. cit. pag. 231-243): ed Hempel stesso ha insistito sull’esigenza che la S. causale sia accom- pagnata dalla predizione infallibile del fenomeno spiegato (/bid., pag. 38). Ma è stato giustamente osservato che la sua intera teoria della S. può essereadatta alla fisica newtoniana ma è completamente incapace di dar conto di ciò che si deve intendere per S. nella fisica quantica (N. R. Hanson, « On the Symmetry between Explanation and Prediction », in The Philosophical Review, 1959, pag. 349-58). A maggior ragione questo tipo di S. non può essere ritenuto adeguato nel dominio della storia e in gene- rale delle scienze che concernono l’uomo (v. oltre). b) Il secondo tipo di S. causale è quello che ricorre al concetto di causa come uniformità di connessione dei fenomeni tra loro. È questo il concetto che fu introdotto da Hume e che Comte pose a base della S. « positiva » dei fenomeni stessi. Comte contrappose al tentativo metafisico di sco- prire «i modi essenziali di produzione» dei feno- meni il compito puramente descrittivo della scienza positiva che si limita a scoprire le /eggi dei feno- meni cioè i loro rapporti costanti (Cours de phil. po- sitive, 48 ediz., 1887, II, pag. 169, 268, 312, ecc.). Nello stadio positivo, diceva Comte, «la S. dei fatti, ridotta ai suoi termini reali non è più che il legame stabilito tra i diversi fenomeni particolari e alcuni fatti generali di cui il progresso della scienza tende sempre più a diminuire il numero» (/bid., I, pag. 5). Questo punto di vista ereditava la con- trapposizione stabilita dagli illuministi, e special- mente da D’Alembert, tra lo spirito di sistema e la descrizione scientifica della natura. Esso è assai meno ambizioso dell’altro perchè fa appello non alla deducibilità di un fenomeno (o della sua descrizione) dalla sua causa (o da un complesso di leggi generali) ma piuttosto alla uniformità o SPIEGAZIONE costanza del rapporto tra fenomeni e perciò alla riduzione del fenomeno da spiegare a tali rapporti costanti. È questo il valore dato, ad es., alla tec- nica esplicativa causale da P. W. Bridgman: « L’es- senza di una S. causale consiste nel ridurre una situazione ad elementi a noi talmente familiari che possiamo accettarli come cosa ovvia e spegnere la nostra curiosità. Ridurre una situazione in ele- menti significa, dal punto di vista operativo, scoprire correlazioni familiari tra i fenomeni di cui la situa- zione è composta » (The Logic of Modern Physics, 1927, cap. II; trad. ital., pag. 50). In senso analogo R. B. Braithwaite ha detto: « Quando si chiede la causa di un evento particolare, ciò che si richiede è la specificazione dell’evento precedente o simul- taneo, il quale, in congiunzione con alcuni fattori causali che hanno natura di condizioni permanenti, è sufficiente a determinare l’accadimento dell’evento da spiegare in accordo con una legge causale, in uno dei significati consuetudinari di legge causale + (Scientific Explanation, 1953, pag. 320). Poichè per leggi causali Braithwaite intende le generalizza- zioni empiriche le quali asseriscono concomitanze di successione o di simultaneità (/bid., cap. IX), una S. che sia «conforme a una legge causale » è una S. che fa riferimento ad un’uniformità empi- ricamente constatata. Questo punto di vista si trova variamente ripetuto nella filosofia contemporanea anche se non sempre viene nettamente distinto da quello precedente. B) Le tecniche esplicative causali, sia quella fondata sulla dati. Un'ipotesi trascendentale in cui, per la S. delle cose naturali, si adoperasse una semplice idea della ragione, non sarebbe affatto una S., perchè ciò che non s’intende abbastanza con princìpi empirici sarebbe spiegato con qualcosa di cui non s'intende addirittura nulla » (Crit. R. Pura, Dottr. del metodo, cap. I, sez. 3). Ma è soprattutto nel campo della metodologia sto- rica che questo tipo di S. è stato elaborato, e il primo a introdurlo in modo esplicito è stato Max Weber. «La considerazione del significato causale di un fatto storico, egli scriveva, comincerà innanzitutto con la questione seguente: se escludendolo dal complesso di fattori assunti come condizionanti oppure mutandolo in un determinato senso, il corso degli avvenimenti avrebbe potuto, in base alle re- gole generali dell’esperienza, assumere una dire- zione in qualche modo diversamente configurata, nei punti decisivi per il nostro interesse». Se si può rispondere di sì a questa domanda, il fatto in questione sarà da considerare uno dei fattori condizionanti del processo storico; se si risponde di no, sarà da escludere da tali fattori (Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906, II; trad. ital., in // metodo delle scienze storico-sociali, pag. 223). La moderna metodologia della storia è unanime nell’abbandono degli schemi di S. causale e nell’accettazione di uno schema condizionale, per quanto esso sia variamente confi- gurato dai singoli metodologi. Quando K. Popper osserva alla dottrina di Stuart Mill sulla natura della S. che « Mill e i suoi compagni storicisti non consi- derano che le tendenze generali dipendono dalle condizioni iniziali e trattano tali tendenze come se fossero leggi assolute », mentre la spiegazione deve tener conto, per quanto è possibile delle « condizioni nelle quali esse persistono » (The Poverty of Histo- ricism, 1944, $ 28) egli cerca di trasformare lo schema causale in uno schema condizionale. Ma la migliore formulazione dello schema condizionale, in riferimento all’uso che se ne può fare nelle di- scipline storiche, può essere forse considerata quella di W. Dray. «L'esigenza della S., dice Dray è, in alcuni contesti, sufficientemente soddisfatta se si mostra che ciò che è accaduto era stato possibile e non c'è bisogno di mostrare inoltre che esso era necessario. Per quanto, spiegare una cosa, come il professor Toulmin dice, significa spesso ‘ mostrare che essa poteva essere attesa” [The Place of Reason in Ethics, 1950, pag. 96], il criterio appropriato per un’importante dominio di casi è più largo di questo; per spiegare una cosa basta, talvolta, mo- strare che essa non doveva causare sorpresa » (Laws and Explanation in History, 1957, pag. 157). Dray contrappone questo schema esplicativo che egli chiama del come-possibilmente (how-possibly) a quello causale del perchè-necessariamente (why- necessarily) in quanto i due schemi sono logica- mente diversi e rispondono a due specie diverse di domande sicchè «nel caso della spiegazione come-possibilmente esigere un insieme di condizioni sufficienti, sarebbe mutare la questione» (/bid., pag. 169). Questo punto di vista che è stato ela- borato nei confronti delle discipline storiche è tuttavia egualmente adatto ad intendere la natura della S. che ricorre ora nell’ambito delle scienze 829 naturali e specialmente della più avanzata di esse che è la fisica quantica. Mancando anche in questa, con la condizione della prevedibilità infallibile, la connessione causale necessitante, l’unico schema possibile di S. è quella condizionale che si limita a determinare Ja possibilità dell’explanandum. In tal senso, si può dire che la S. è la determinazione della possibilità determinata e controllabile dell’og- getto; dove determinata significa individuata e ri- conoscibile con un metodo o procedimento ap- propriato e, talvolta, misurabile secondo uno schema di probabilità; e controllabile significa ripetibile in condizioni adatte (ABBAGNANO, Possibilità e li- bertà, 1957, VI, $ 4-5; Problemi di sociologia, 1959, VIII, $ 1-5). È da osservare infine che Jo stesso procedimento della S. logica, quale è stato descritto da Carnap e Reichenbach cade sotto la categoria della S. condi- zionale. Secondo Carnap, la S. consiste nel sostituire a un termine originario chiamato explicandum, che è un concetto vago o familiare, un nuovo concetto esatto, che Carnap chiama explicatum e Reichenbach explicans. Posto ciò, una S. consiste, secondo Rei- chenbach, nel determinare il significato del termine e il significato si riduce a una possibilità o logica o fisica o tecnica, ma in ogni caso ad una possi- bilità (REICHENBACR, « Verifiability Theory of Mea- ning », in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1951, pag. 46 sgg.; CARNAP, Meaning and Necessity, $ 2) (v. PossiBILE; SIGNIFI- CATO; VERIFICAZIONE). SPINOZISMO (ingl. Spinozism; franc. Spino zisme; ted. Spinozismus). La dottrina di Benedetto Spinoza (1632-77) nei punti salienti che la tradi- zione storica le ha riconosciuti e che possono essere riassunti così: 1° l’unicità della sostanza del mondo e la sua identificazione con Dio, per la quale Spi- noza indica la sostanza stessa con l'espressione « Deus sive natura »; 2° l’ateismo o come altri dice (con Hegel) l’acosmismo (v.) secondo il quale Dio è il principio e l’ordine del mondo; 3° il necessi- tarismo, secondo il quale tutte le cose derivano con assoluta necessità dalla sostanza divina; 4° il geometrismo cioè l’affermazione del carattere geo- metrico della necessità cosmica, sulla quale si mo- della il metodo geometrico della filosofia; 5° la riduzione della libertà umana al riconoscimento e all’accettazione della necessità dell'ordine cosmico; 6° la difesa della libertà filosofica e religiosa del- l’uomo fondata sulla riduzione della fede religiosa all’obbedienza (v. FEDE). SPIRITI ANIMALI O VITALI. V. PNEUMA. SPIRITISMO (ingl. Spiritism; franc. Spiritisme; ted. Spiritismus). La credenza in fenomeni mentali o naturali che non si lasciano spiegare nel modo ordinario o scientifico e siano da attribuirsi all’azione di spiriti, siano essi anime di defunti o potenze angeliche o demoniache (v. METAPSICHICA). SPIRITO (ingl. Mind, Spirit; franc. Esprit; ted. Geist). Si possono distinguere i seguenti si- gpificati: 1° L’anima razionale o l'intelletto (v.)in generale; questo è il significato prevalente nella filosofia mo- derna e contemporanea e nel linguaggio comune. 2° Lo pneuma (v.) o soffio animatore, ammesso dalla fisica stoica e da essa passato a varie dottrine antiche e moderne. Questo è il significato originario del termine dal quale tutti gli altri sono derivati. Ancora questo significato rimane nelle espressioni in cui S. sta per «ciò che vivifica». Kant usò il termine in questo senso nella sua teoria estetica. «S., egli disse, nel significato estetico è il principio vivificante del sentimento. Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è ciò che conferisce slancio finalistico alla facoltà del sentimento e la pone in un giuoco che si ali- menta di sè e fortifica le facoltà stesse da cui ri- sulta » (Crir. del Giud., $ 49; Antr., $ 71 b). In questo senso la parola S. è rimasta nell’uso corrente in cui viene talora contrapposto alla «lettera», per indicare ciò che dà vita o, fuor di metafora, il si- gnificato autentico di qualcosa. In questo senso venne anche adoperata da Montesquieu nel titolo della sua opera Lo S. delle leggi. 3° Le sostanze incorporee cioè gli angeli, i demoni e le anime dei defunti. In questo senso Locke adoperava la parola spirit (riservando mind a S. nel significato 1°) e diceva: « Eccettuando alcune pochissime idee che otteniamo mediante la riflessione e tutto ciò che possiamo mettere insieme da esse circa il Padre di tutti gli S., l’eterno e in- dipendente autore di essi e nostro e di tutte le cose, persino dell’esistenza di altri S. non abbiamo in- formazione certa se non per via di rivelazione » (Saggio, IV, 3, 27). E Kant nei Sogni di un visionario chiariti con sogni della metafisica (1766) intendeva Geist nello stesso senso: « Uno S., si dice, è un essere che ha la ragione. Non è dunque un dono miracoloso vedere S. giacchè chiunque vede uomini vede esseri che hanno la ragione. Ma, si prosegue, quest’essere che nell’uomo ha la ragione è soltanto una parte dell’uomo; e questa parte, che lo vivi- fica, è uno S.» (7rdume eines Geistersehers, I, 1). Come Locke, Kant è scettico sull’esistenza dello S. in questo senso e in ogni caso ritiene impossibile dimostrarla. Anche in questo senso la parola S. è rimasta nell’uso corrente (v. ANGELI; DEMONE; SPIRITISMO). 4° La materia sottile o impalpabile che è la forza animatrice delle cose. Questo significato, de- rivato da quello stoico, si trova frequentemente nei maghi del Rinascimento e soprattutto in Agrippa SPIRITO (De occulta philosophia, I, 14) e in Paracelso (Meteor., pag. 79 sgg.). 5° Infine, e in rapporto più stretto con il si- gnificato 1° il termine significa talvolta disposi. zione (v.) o atteggiamento (v.): come nelle celebri espressioni di Pascal «S. di geometria» e «S. di finezza » e in espressioni correnti come «S. reli- gioso », « S. sportivo», ecc. Di questi cinque significati il solo che sia stret- tamente collegato alla problematica della filosofia moderna è il primo. Fu Cartesio a introdurre e a far valere questo significato. «Io non sono dunque, precisamente parlando, che una cosa che pensa, cioè uno S., un intelletto o una ragione, che sono termini il cui significato mi era prima sconosciuto » (Med., II). E nella risposta alle seconde obiezioni egli precisa, in forma di definizione, il significato del termine: «La sostanza nella quale risiede im- mediatamente il pensiero è qui chiamata spirito. Sebbene questo nome sia equivoco perchè lo si attribuisce anche talvolta al vento e ai liquori sottilissimi, io non ne conosco affatto di più propri » (II Rép., def. VI). Sebbene la nozione di sostanza faccia in quest’espressione cartesiana da interme- diaria tra il nuovo e il vecchio (sostanza incorporea) significato del termine, l’uso che Cartesio fa di essa stabilisce piuttosto la sua equivalenza col termine coscienza. Sostanza pensante o coscienza o intelletto o ragione sono quindi i sinonimi di spirito. Locke, come si è detto, usava nello stesso senso il termine mind (cfr., ad es., Saggio, II, 1, 5). Leibniz diceva a sua volta: «La conoscenza delle verità necessarie ed eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci fa avere la ragione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. È questo che si chiama in noi anima ra- gionevole o S.» (Mon., $ 29). Berkeley a sua volta adottò il termine e ne stabilì le equivalenze: « Questo essere attivo e percipiente è quello che io chiamo mind, spirit, soul (anima) o my self (io)» (Princi- ples of Human Knowledge, I, $ 2). Come anima, intelletto o io intendeva il termine Hume (7reatise, I, 4, 2, ed. Selby-Bigge, pag. 207). Queste equiva- lenze vengono mantenute costantemente nell’uso posteriore del termine: sicchè i problemi al quale esso dà origine sono quelli connessi con le nozioni di anima, coscienza, intelletto, ragione e io. Sotto queste voci si troverà l’indicazione dei problemi ai quali la nozione S. ha dato origine nelle sue diverse specificazioni. Basti qui solo ricordare che alcuni usi paradossali talora fatti dalla filosofia contemporanea del termine in questione si ripor- tano in realtà al sigSCIENZE, ‘CLASSIFI- CAZIONE DELLE). Ad una diversa specificazione della nozione di S. ha dato luogo solo Hegel con le sue nozioni di S. oggettivo e di S. assoluto. Mentre per S. sogget- tivo, Hegel intende lo S. finito cioè l’anima o l’in- telletto o la ragione (lo S. nel significato cartesiano del termine) (Enc., $ 386), per S. oggettivo egli intende le istituzioni fondamentali del mondo umano cioè il diritto, la moralità e l’eticità e per S. assoluto intende il mondo dell’arte, della religione e della filosofia. In queste due concezioni, lo S. ha cessato di essere attività soggettiva per diventare realtà storica, mondo di valori. Mentre lo S. oggettivo, è il mondo delle istituzioni giuridiche, sociali e storiche e culmina nell’eticità che comprende le tre tezza, che è la Ragione assoluta, come fece Croce (Logica, 1920, pag. 26 sgg.). Anche fuori dell’idealismo tuttavia la nozione dello S. oggettivo, cioè dello S. come mondo di istituzioni storico-sociali o di valori istituzionaliz- zati o di forme di vita, ha trovato accoglimento ed illustrazione. La nozione fu infatti accettata da Dilthey che intese per essa «la connessione strut- turale delle unità viventi, che si continua nelle comunità » e criticò l’assolutezza e il dogmatismo che la nozione stessa aveva assunto in Hegel (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 150; cfr. P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, pag. 104- 105). In questo stesso senso limitato la nozione fu 831 accettata da E. Spranger, che intese come scienza dello S. la disciplina che si occupa delle formazioni ultrapersonali o collettive della vita storica (Lebens- formen, 1914, pag. 7). Fu accettata altresì da N. Hartmann che considerò lo S. oggettivo come una soprastruttura che si solleva al di sopra della coscienza come questa si solleva al di sopra del mondo organico. Allo S. oggettivo apparterrebbero tutte le produzioni spirituali cioè le lettere, le arti, la tecnica, le religioni, i miti, le scienze, le filo- sofie, ecc. Esso è il vero protagonista della storia, secondo Hartmann (Das Problem des geistigen Seins, 1931, pag. 262). AI di sopra dello S. og- gettivo Hartmann situa poi lo S. vivente che sarebbe l’unità dello S. oggettivo e della coscienza personale (Ibid., pag. 259). N. Hartmann è certo ancora molto vicino all’ispiultante di una molteplicità di fattori. Dice Montesquieu: « Molte cose guidano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, le tradizioni, i costumi, le usanze; donde si forma uno S. generale che ne è il risultato » (Esprit des lois, 1748, XIX, 4). Altrove Montesquieu chiama lo S. nazionale « anima universale » (Mélanges iné- dits, pag. 160); ma egli era in ogni caso ben lungi da fare di questo concetto una realtà a sè. Questo passo fu fatto da Hegel che concepì lo S. nazionale come il vero soggetto della storia: «Lo S. della storia è un individuo che è di natura universale ma che è determinato cioè, in generale, una nazione; e lo S. con cui abbiamo a che fare è lo S. della nazione. Gli S. delle nazioni si distinguono secondo l’idea che essi si fanno di se stessi, secondo la su- perficialità o la profondità con cui hanno compreso e approfondito ciò che è lo S.» (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, pag. 36; trad. ital., I, pag. 43). Di volta in volta un determinato S. nazionale as- sume la figura di « S. del mondo » (Welfgeist) cioè di guida e di soggetto unico della storia. « Il Welt geist è lo S. del mondo, come si esplica nella co- scienza umana; gli uomini stanno ad esso come 832 le realtà singole stanno alla totalità che le sostanzia. E questo S. del mondo è conforme allo S. divino, che è lo S. assoluto. In quanto Dio è onnipresente, è presso ogni uomo, appare nella coscienza di ognuno; e ciò è lo S. del mondo» (/bid., pag. 37; trad. ital., pag. 44). La nozione di S. del mondo è stata varie volte ripetuta e in generale essa si incontra in ogni concezione provvidenzialistica della storia (v.). SPIRITUALISMO (ingl. Spiritualism, Persona- lism; franc. Spiritualisme; ted. Spiritualismus). 1. Si intende con questo termine ogni dottrina che pra- tichi la filosofia come analisi della coscienza (v.) o che in generale pretenda desumere dalla coscienza i dati della ricerca filosofica o scientifica. La pa- rola è stata messa in voga nel secolo scorso da V. Cousin che nella prefazione all’edizione del 1853 della sua opera Du vrai, du beau et du bien, così scriveva: « La nostra vera dottrina, la nostra vera bandiera è lo S., questa filosofia solida quanto generosa, che comincia con Socrate e Platone, che l’Evangelo ha diffuso nel mondo, che Des- cartes ha messo nelle forme severe del genio mo- derno, che è stata nel xvm secolo una delle glorie e delle forze della patria, che è perita con la gran- dezza nazionale nel sec. xvi, e che al principio di questo secolo Royer Collard è venuto a riabili- tare nell’insegnamento pubblico mentre Chàateau- briand e Madame de Staél la trasportavano nella letteratura e nell’arte... Questa filosofia insegna la spiritualità dell'anima, la libertà e la responsabilità delle azioni umane, le obbligazioni morali, la virtù disinteressata, la dignità della giustizia, la bellezza della carità; e al di là dei limiti di questo mondo, essa mostra un Dio, autore e tipo dell’umanità, che, dopo averla creata evidentemente per uno scopo eccellente, non l’abbandonerà nello sviluppo misterioso del suo destino. Questa filosofia è l’al- leata naturale di tutte le buone cause. Essa sostiene il sentimento religioso, seconda l’arte vera, la poesia degna di questo nome, la grande letteratura; è l’appoggio del diritto; respinge ugualmente la de- magogia e la tirannide; ecc. ». Questo programma dello S., magistralmente delineato da Cousin, è rimasto proprio di tutte le forme, numerosissime, che questo indirizzo filosofico ha assunto nella filosofia moderna e contemporanea. L’appoggio alle «buone cause » cioè ai valori morali, politici, sociali e religiosi della tradizione è rimasta la co- stante preoccupazione dello S. che, sotto questo rispetto, ha l'andamento e la natura di una sco/a- stica (v.). Ed il mezzo con cui lo S. ha cercato di realizzare il suo programma è stato ancora quello additato da Cousin: il ricorso alla coscienza, cioè alla riflessione interiore o introspezione per il re- perimento dei dati indispensabili alla speculazione. SPIRITUALISMO Il ricorso alla coscienza collega, come lo stesso Cousin vedeva, lo S. all’idealismo romantico; mentre lo S. non condivide con tale idealismo l’identificazione, propria di esso, della coscienza finita (umana) con la Coscienza infinita (divina). Come difensore della teologia cristiana tradizionale (la principale delle sue « buone cause +), lo S. non accoglie questa identificazione, che puzza di pan- teismo o ateismo (v.). La figura principale dello S. del secolo scorso è Maine de Biran (1766-1824); la figura principale delio S. del nostro secolo è Enrico Bergson (1859- 1941). Lo S. è particolarmente congeniale con la filosofia francese la quale ha desunto da Montaigne e Pascal la pratica del filosofare come interroga- zione della coscienza. Ma esso trova in tutti i paesi manifestazioni numerose per quanto non troppo diverse l’una dall’altra. Le grandi figure della filo- sofia risorgimentale italiana: Galluppi, Rosmini, Gioberti e Mazzini, si sono ispirate alla tradizione spiritualistica. In Germania l’opera di Hermann Lotze ha ispirato e guidato la ripresa dello S. e il Microcosmo di questo autore costituisce, si può dire, la summa dello S. ottocentesco, difeso in modo intelligente contro lo scientismo positivistico. Nel mondo contemporaneo, l’opera di Bergson ha rin- novato lo S. venendo incontro, per quanto è pos- sibile, alle esigenze della scienza e riproponendo le sue tesi fondamentali nei confronti di problemi specifici, come quello della libertà, dell'anima, della vita, della moralità, della religione, ecc. In tutte le sue forme tuttavia lo S. ha in comune alcune tesi fondamentali, che discendono dal suo concetto della filosofia come analisi della coscienza e che possono essere ricapitolate così: 1° la negazione della realtà del mondo esterno cioè l’idealismo gnoseologico. Questa negazione può essere più o meno condizionata o indiretta ma in ultima analisi è inevitabile perchè una realtà esterna alla coscienza sarebbe, per definizione, inaccessi- bile a questa e contraddirebbe all’impegno meto- dologico dello spiritualismo. Pertanto, direttamente o indirettamente, questa dottrina riduce ogni realtà a oggetto immediato di coscienza; 2° la conseguente riduzione della scienza a conoscenza falsa o imperfetta o preparatoria. Gli spiritualisti più avveduti, come Lotze e Bergson, hanno appunto ridotto la scienza a conoscenza preparatoria; 3° il ritrovamento nella coscienza di dati adatti a costruire il mondo della natura e il mondo della storia nel loro carattere finalistico o prov- videnziale; 4° il ritrovamento nella coscienza, e quindi nel mondo della natura e della storia, di dati adatti a risalite a Dio o a un principio divino in qualche STATO sua specificazione che si accordi con la tradizione teologica del cristianesimo; 5° la difesa della tradizione e delle istituzicetto classico della libertà come causa sui: il che risulta anche chiaro dalla definizione di Wolff, secondo la quale essa è «il principio intrinseco per deter- minarsi ad agire » (Psychol. empirica, $ 933). Nello stesso significato, Kant parlò dell’intelletto come della «S. della conoscenza» in quanto esso è «la facoltà di produrre da sè rappresentazioni » (Critica della R. Pura, Logica trascendentale, Introd., I). In questo senso S. si oppone a ricettività (v.) o pas- sività (v.), mentre è sinonimo di artività; che è il termine oggi più frequentemente adoperato per indi- care un processo o un mutamento che è causa sui, cioè che non ha la sua causa fuori di sè. Come libertà ha inteso la S. anche Heidegger che pertanto l’ha identificata con la trascendenza in cui consiste la libertà finita dell’uomo: « L'essenza del se-stesso (l’ipseità), cioè l’essenza di quel se stesso che giace già nel fondo di ogni S., consiste nella trascendenza... Solo perchè la libertà costituisce la trascendenza essa si può rivelare, nell’esserci che esiste, come modo particolare della causalità cioè come auto- causalità » (Vom Wesen des Grundes, 1929, III; trad. ital, pag. 65). 53 — ARBAGNANO, Dizionario di filosofia. STADIO (gr. otàsuoy; lat. Stadium; ingl. Sta- dium; franc. Stade; ted. Stadium). L'ultimo dei quattro argomenti di Zenone d’Elea contro il mo- vimento. Esso può essere espresso nel modo se- guente: Due masse uguali, dotate di velocità uguali dovrebbero percorrere spazi uguali in tempi uguali. Ma se due masse si muovono incontro dalle estre- mità opposte dello S., ognuna di esse impiega a percorrere la lunghezza dell’altra la metà del tempo che impiegherebbero se una di esse fosse ferma: da ciò Zenone traeva la conclusione che la metà del tempo è uguale al doppio (ARIST., Fis., VI, 9, 239 b 33). L'argomento torna a dire che, se si ammette la realtà del movimento, si ammette l’equi- valenza di un tempo metà al tempo doppio. Vedi ACHILLE; DICOTOMIA; FRECCIA. STATALISMO (franc. Érarisme). In senso proprio la dottrina che considera lo Stato come unica fonte del diritto. In senso generico, ogni indirizzo politico che attribuisce allo Stato fun- zioni o poteri preponderanti in un qualsiasi campo dell’attività umana. STATICA. V. MECCANICISMO, 1, a). STATISTICA (ingl. Statistics; franc. Statis- tique; ted. Statistik). La raccolta e l’interpretazione dei dati numerici in un determinato campo; op- pure in generale la scienza che ha per oggetto i metodi per la raccolta e l’interpretazione dei dati numerici. Nata sul terreno dell’osservazione dei fatti sociali, la S. si è ora estesa a numerosi campi d'indagine e in primo luogo al dominio della fisica, dapprima per la formulazione di teorie speciali (la teoria cinetica dei gas) poi per la formulazione delle leggi della meccanica quantica. Il concetto di legge S. cioè della relativa uniformità della fre- quenza di un certo evento, quando l’evento stesso è considerato su una scala numerica abbastanza estesa, è stato per la prima volta formulato dal- l’astronomo e matento comincia col determinare quali sono le parti e le funzioni dello S. per procedere poi a determinare le parti e le funzioni dell’individuo (/bid., IV, 434 e). Questo è un modo di esprimere la priorità dello S.: la struttura dello S. è la stessa di quella dell’uomo, ma è più evidente. Aristotele, a sua volta, affer- mava: « Lo S. esiste per natura ed è anteriore al- l’individuo, perchè, se l’individuo di per sè non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla in quanto basta a se stesso, non è membro di uno S., ma è una belva o un Dio» (Pol., I, 2, 1253 a 18). Queste considerazioni aristote- liche sono state ripetute molte volte nella storia della filosofia (cfr., ad es., S. TOMMASO, De Regi- mine Principum, I; DANTE, De Monarchia, I, 3); ma nel mondo moderno hanno assunto nuova forza solo per opera del Romanticismo che insi- stette sul carattere superiore e divino dello stato. Già Fichte diceva: « Nella nostra età, più che in ogni altro tempo precedente, ogni cittadino con tutte le sue forze, è sottomesso alla finalità dello S., è completamente penetrato da esso ed è divenuto suo strumento » (Grundziige des gegenwdrtigen Zeit- alters, 1806, X). Ma nel modo più semplice ed estremo questa concezione fu formulata da Hegel, che identificò lo S. con Dio: « L’ingresso di Dio nel mondo è lo S.: il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà. Nel- rfetta, l’autosufficienza e la supremazia asso- luta possono essere nel modo migliore ricapitolati proprio nella tesi di Hegel: lo S. è Dio. Non sempre tuttavia la tesi organicistica è stata formulata in modo così rigoroso ed estremo: il primato ricono- sciuto allo S. rispetto agli individui e l’autosuffi- cienza dello S. non sempre hanno persuaso a con- siderare lo S. come Dio stesso; ma sempre hanno portato a considerarlo come qualcosa di divino, che giustificasse la soggezione degli individui ri- spetto ad esso. Il fine che ogni concezione organi- cistica si è sempre proposto è stato bene espresso da O. Gierke: « Solamente dal valore superiore del tutto in confronto con quello delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e, se necessario, di morire per il tutto. Se il popolo fosse solo la somma dei suoi membri e lo S. solo un’istituzione per il benessere dei cittadini, nati e nascituri, allora l’individuo potrebbe, è vero, esser costretto a dare la sua energia e la sua vita per lo S., ma non avrebbe alcun obbligo morale di farlo» (Das Wesen der menschlichen Verbànden, 1902, pag. 34 sgg.). 2° Per la concezione atomistica o contrattua- listica lo S. è opera umana: non ha dignità o ca- ratteri che non gli siano stati conferiti dagli individui che l’hanno prodotto. Fu questa la concezione dello S. propria degli Stoici che lo consideravano res populi. Dice Cicerone: «Lo S. (res publica) è cosa del popolo e il popolo non è qualsiasi agglo- merato di uomini riunito in un modo qualsiasi, ma i suoi membri o le sue parti, ma è l’unità di un patto o di una convenzione e vale solo nei limiti di validità del patto o della convenzione. Talvolta tuttavia sul tronco stesso del contrattua- lismo si innestano le esigenze proprie dell’organi- cismo: così accade, per es., in Rousseau quando afferma che «la volontà generale non può errare ». Rousseau infatti distingue tra la volontà di tutti e la volontà generale: « Quella guarda soltanto al- l’interesse comune, questa guarda all’interesse pri- vato ed è la somma delle volontà particolari; ma togliete da queste volontà il più e il meno che si distruggono tra loro e resta per somma delle dif- ferenze la volontà generale » (Contrat social, II, 3). Per quanto giustificata come semplice somma al- gebrica delle volontà particolari, la «volontà gene- rale» di Rousseau, con la sua infallibilità, assomiglia molto alla razionalità perfetta dello S. organico. 3° Le precedenti due concezioni dello S. hanno in comune il riconoscimento di quello che i giu- risti oggi chiamano l’aspetto sociologico dello S., cioè il riconoscimento della realtà sociale di esso, considerato, in primo luogo, come una comunità cioè un gruppo sociale residente su un determinato territorio. Questo riconoscimento è stato assunto a fondamento di quella descrizione dello S. che giuristi e filosofi del sec. xx hanno formulato (quale che fosse il loro concetto filosofico di S.) e che si esprime dicendo che lo S. ha tre elementi o proprietà caratteristiche: la sovranità o il potere preponderante o supremo; il suo popolo e il suo territorio. Questi tre aspetti o elementi venivano illustrati e descritti singolarmente e indipendente- mente l’uno dall’altro nonchè indipendentemente dal concetto filosofico di S. cui si faceva implici- tamente o esplicitamente riferimento. La migliore espressione a questo punto di vista fu data da Jellinek (Allgemeine Staatslehre, 1900), ma esso è stato ripetuto e illustrato innumerevoli volte (cfr., ad es., W. W. WiLoucHBY, The Fundamental Concepts of Public Law, 1924). L'aspetto socio- logico dello S. è invece negato da H. Kelsen; e questa negazione è la caratteristica fondamentale del suo formalismo. Lo S. è per Kelsen semplice- mente l’ordinamento giuridico nel suo carattere normativo o coercitivo. « Vi è un solo concetto giuridico dello S., dice Kelsen: lo S. come ordina- mento giuridico (accentrato). Il concetto sociologico di un modello effettivo di comportamento orientato verso l’ordinamento giuridico, non è un concetto dello S. ma presuppone il concetto dello S., che è il concetto giuridico » (Genera! Theory of Law and State, 1945; trad. ital., pag. 192). In altri termini lo S. «è una società politicamente organizzata perchè è una comunità costituita da un ordina- mento coercitivo, e questo ordinamento coercitivo è il diritto» (/bid., pag. 194). Kelsen non nega naturalmente che esistano fatti, azioni o compor- tamenti più o meno connessi con l’ordinamento giuridico statale ma afferma che tali fatti, azioni o comportamenti sono manifestazioni dello S. solo in quanto sono interpretati «secondo un ordina- mento normativo, la cui validità deve venire pre- supposta » (/bid., pag. 193). Questa dottrina si presta a definire in modo semplice ed elegante gli elementi tradizionalmente riconosciuti propri dello Stato. Il territorio non è altro che «la sfera terri- toriale di validità dell’ordinamento giuridico chia- mato S.» (/bid., pag. 212). Il l diritto (v.) lascia aperta la strada alla considerazione dell’efficacia (e perciò dei limiti) della tecnica coercitiva in ognuna delle sue fasi o manifestazioni, cioè degli ordinamenti in cui si concreta. Quando Humboldt parlava dei «limiti dell’azione dello S.» (Die Grenzen der Wirksamkeit des Staates, 1851) fon- dava tali limiti proprio sulla impossibilità, in cui lo S. si trova, di raggiungere certi fini col solo mezzo di cui dispone, cioè con la tecnica coercitiva. Per tale motivo Humboldt poneva al di là dei limiti dell’azione dello S. la religione, il miglioramento dei costumi e l’educazione morale: cose che dipen- dono da una disposizione non controllabile con gli strumenti di cui lo S. dispone. Dall'altro lato lo S., come ordinamento giuridie state of affairs. L'espressione tedesca fu introdotta da Husserl nelle Logische Un- tersuchungen, (1901, II, 1, pag. 472 sgg.) e da lui definita come il correlato oggettivo del giudizio (cfr. Ideen, I, $ 6). La nozione fu accettata da Witt- genstein, che intendeva per essa «una combinazione di oggetti (entità, cose)» (Tractatus, 2). È questa espressione che viene a volte tradotta con « fatto atomico ». Ma per quanto lo S. di cose di cui parla Wittgenstein sia un elemento indivisibile del mondo, l’espressione « fatto atomico » non tra- duce alla lettera quella originale. La critica di Bergson alla concezione che la psicologia dell’800 dava della vita psichica nel suo insieme, s’impernia sul concetto di S., consi- derato da Bergson come una forma o un’istantanea immobile presa sul divenire (cfr. specialmente Évol. créatr., cap. IV, e l’analisi del « meccanismo cine- matografico del pensiero »). In realtà la nozione di S. non include per nulla quella di riposo o di im- mobilità ma piuttosto quella del rapporto di og- getti tra loro nell’insieme di una situazione. Per Stato di natura v. NATURA, STATO DI. STATUA (ingl. Statue; franc. Statue; tedesco Statue). L'ipotesi immaginata da Condillac per dimostrare la derivazione di tutte le attività psi- chiche dalla sensazione. « Immaginammo, dice Con- dillac, una statua organizzata internamente come noi e animata da uno spirito privo di ogni specie di idee. Supponemmo pure che l’esterno tutto di marmo non le permettesse l’uso dei suoi sensi e ci riservammo la libertà di aprirli, a nostra scelta, alle diverse impressioni di cui sono ca- paci» (7raité des sensations, 1754, Pref.). STATUS. Condizione o modo d'essere: spe- cialmente in senso sociologico, come appartenenza a un determinato strato sociale. STATUTO (ingl. Statute; franc. Statut; tede- sco Statut). Un insieme di norme che definiscono lo stato, cioè la condizione o il modo d'essere, di un gruppo sociale. STILE (ingl. Style; franc. Style; ted. Stil). L'insieme dei caratteri che distinguono dalle altre una determinata forma espressiva. Alla sua origine, nel *700, la nozione di stile trovò la sua espressione nel motto francese, /e style c'est l'homme méme e venne considerata come l’apparizione nella forma espressiva dei caratteri propri del soggetto, nella sua relazione col materiale adoperato. Hegel ri- tenne troppo ristretta questa concezione e incluse nello S. anche le determinazioni che derivano alla forma espressiva dalle condizioni proprie dell’arte di cui si tratta: nel qual senso si può distinguere, ad es., nella musica lo S. ecclesiastico e lo S. operistico, e nella pittura lo S. storico e lo S. generico, ecc. (Vorlesungen iiber die Aesthetik, ed. Glockner, I, pag. 394-95). In questo senso lo S. sarebbe, non l’uomo, ma la cosa stessa. In ogni caso, tuttavia, lo S. sarebbe una certa uni- formità di caratteri, riscontrabile in un determi- nato dominio del mondo espressivo. «Lo S. ci si rivela come un’unità di forme, di accenti e di at- teggiamenti dominanti in una complessa varietà formale e di cCosì Hamilton chiamò la parte della logica che studia le parti elementari o costituenti dei processi del pen- siero. Egli divise la S. in noetica, ennoematica, apofantica e dottrina del ragionamento (Lectures on Logic, I, pag. 72). STOICISMO (ingl. Stoicism; franc. Stofcisme; ted. Stoizismus). Una delle grandi scuole filoso- fiche dell’età ellenistica, cosiddetta dal portico dipinto (Stod poikile) nel quale fu fondata, intorno al 300 a. C., da Zenone di Cizio. I principali maestri della scuola furono, oltre Zenone, Cleante di Asso e Crisippo di Soli. Lo S. condivise con le scuole contemporanee, epicureismo e scetticismo, l'affer- mazione del primato del problema morale sui pro- blemi teoretici e il concetto della filosofia come delle cure e delle emozioni della vita comune. Il suo ideale è pertanto quello della ararassia (v.) o apatia (v.). I capisaldi dell’insegnamento stoico possono essere ricapitolati nel modo seguente: 1° la divisione della filosofia in tre parti: la logica, la fisica e l’etica (v. FILOSOFIA); 2° la concezione della logica come dialettica cioè come scienza di ragionamenti ipotetici, la cui premessa esprime uno stato di fatto immediata- mente percepito (v. ANAPODITTICO; DIALETTICA); 3° la teoria dei segni che doveva costituire il modello della logica terministica medievale e l’ante- cedente della semiotica moderna (v. SEMIOTICA; SIGNIFICATO); 4° il concetto di una Ragione divina che il mondo e tutte le cose nel mondo secondo un ordine necessario e perfetto (v. DestINo; Li- BERTÀ; NECESSITARISMO); 5° la dottrina che, come l’animale è guidato infallibilmente dall’istinto, così l’uomo è guidato infallibilmente dalla ragione; e che la ragione gli fornisce norme infallibili d’azione che costitui- scono il diritto naturale (v. DIRITTO; ISTINTO); 6° la condanna totale di tutte le emozioni e l’esaltazione dell’apatia come ideale del saggio (v. APATIA; EMOZIONI); 7° il cosmopolitismo (v.) cioè la dottrina che l’uomo è cittadino non di un paese ma del mondo; 8° l’esaltazione della figura del sapiente e il suo isolamento dagli altri, con la distinzione tra pazzi e savi (v. SAPIENTE; SAPIENZA); La dottrina stoica è stata, accanto a quella ari- stotelica, la filosofia che ha avuto maggiore in- fluenza nella storia del pensiero occidentale. Molti dei capisaldi enunciati costituiscono ancora parti integranti di dottrine moderne e contemporanee. STORIA (gr. iotopla; lat. Historia; ingl. History; franc. Histoire; ted. Geschichte). Il termine, che in generale significa indagine, informazione o reso- conto e che già in greco veniva usato a indicare il resoconto o la narrazione dei fatti umani, pre- senta oggi un’ambiguità fondamentale: significa, da un lato, la conoscenza di tali fatti o la scienza che disciplina e dirige questa conoscenza (historia rerum gestarum); dall’altro i fatti stessi o un in- sieme o la totalità di essi (res gestae). Questa ambiguità ricorre in tutte le lingue colte moderne (cfr. H. I. MarROU, De la connaissance historique, 1954, pag. 38-39). Ma poichè in italiano è prevalso l’uso di indicare con il termine storiografia la cono- scenza storica in generale o la scienza della S. (non già l’arte di scrivere S.) si può porre sotto questa voce la trattazione dei significati storica- mente attribuiti alla S. come conoscenza e com- prendere sotto il termine S. solo i significati che sono stati dati alla realtà storica come tale. Tali significati sono i seguenti: 1° la S. come passato; 2° la S. come tradizione; 3° la S. come mondo storico; 4° la S. come oggetto della storiografia. 1° Che la S. sia interpretata come passato può essere a buon diritto ritenuta una tautologia; ma il senso in cui Heidegger ha inteso questa inter- pretazione (Sein und Zeit, $ 73), non appare pu- ramente tautologico. Quando si dice « Questa cosa appartiene alla S. » s'intende infatti che appartiene al passato e ad un passato che ha scarsa efficacia sul presente. Dall’altro lato, quando si dice « Non ci si può sottrarre alla S.»: s'intende ancora la S. come passato ma come passato che agisce inevi- tabilmente sul presente. Così pure dire che « Qual- cosa ha S.» significa affermare che ha un passato ed è frutto di questo passato. In queste e simili espressioni, il significato del termine rimane estre- mamente generico: rimanda ad una dimensione del tempo e alle relazioni che possono stabilirsi tra essa e le altre dimensioni. 2° In secondo luogo, la S. può essere intesa come tradizione cioè come tramandarsi e conser- varsi, attraverso il tempo, di credenze e di tec- niche: sia che tale tramandarsi possa ente reale solo nell’esistenza, il suo esser un fatto si costi- tuisce soltanto e proprio nel deciso autoproget- tarsi su un pofer essere che è già stato scelto. Ma allora ciò che è stato autenticamente un fatto, è la possibilità esistentiva in cui si determinano effet- tivamente destino, destino comune e mondana- mente storico » (/bid., $ 76). Talvolta però la tra- dizione viene intesa come conservazione infallibile e progressiva di ogni risultato o conquista umana; e in tal caso il concetto di essa si identifica con quello della S. come piano provvidenziale (vedi TRADIZIONE). 3° Il terzo significato di S. è quello filosofi- camente più rilevante; per esso la S. è il mondo storico: la totalità dei modi d’essere e delle crea- zioni umane nel mondo oppure la totalità della « vita spirituale» o delle culture. La S. viene in questo senso a contrapporsi a «natura», che è la totalità di ciò che è indipendente dall'uomo o non può essere considerato come sua produzione o creazione; ma rimane imparentata con la natura stessa per il suo carattere di totalità, di mondo. È nell’ambito di questo concetto che si possono 838 distinguere le interpretazioni « filosofiche » della S. cioè quelle che costituiscono la cosiddetta « filosofia della S. ». Tra tali interpretazioni, le principali pos- sono essere considerate le seguenti: a) la S. come decadenza; 5) la S. come ciclo; c) la S. come regno del caso; d) la S. come progresso; e) la S. come ordine provvidenziale. a) L’interpretazione della S. come decadenza è propria dell’antichità che la espresse con la dot- trina delle erà (v.) del genere umano. La succes- sione delle cinque età descritta da Esiodo va dal- l’età dell’oro, nella quale gli uomini « vivevano come dei» all’erd degli uomini, in cui essi sono soggetti a ogni sorta di mali, attraverso l’età del- l’argento, del bronzo e degli eroi, che segnano la graduale decadenza dello stato del genere umano (Op., 109-79). Platone ridusse a tre le età, enumerando soltanto l’età degli dei, degli eroi e degli uomini, ma conservando il carattere di successiva decadenza che queste età presentano nelle condizioni materiali e morali degli uomini stessi (Critia, 109 b, sgg.). Quando questa dottrina delle età viene ripresa nel mondo moderno (per es., da Vico, da Fichte, ecc.) ha perso il suo significato pessimistico ed è diven- tato ottimistica: le età sono in un ordine di pro- gresso anzichè di decadenza. Ma non c’è dubbio che, presso i Greci, questa dottrina costituisca una interpretazione della S. come decadenza (v. ETÀ). b) La nozione della S. come ciclo (v.) è le- gata a quella del ciclo del mondo assai diffusa nel- l’antichità greca. Che la ripetizione del ciclo co- smico includesse la ripetizione della S. umana nel suo complesso, ci viene testimoniato a proposito degli Stoici. Secondo costoro, infatti, in ogni nuovo ciclo del mondo, «vi sarà di nuovo Socrate, di nuovo Platone e di nuovo ciascuno degli uomini con gli stessi amici e concittadini; le stesse cose credute e gli stessi argomenti discussi e ogni città o villaggio e campagna ritornerà ugualmente » (NE- MESsIO, De Nat. Hom., 38). Una ripresa moderna di questo concetto della S. si può vedere nell’opera di Spengler. I cicli storici, le culture, non si ripe- tono, secondo Spengler, identicamente, come rite- nevano gli Stoici; ma si ripete identicamente la loro forma: il loro nascere crescere e morire. «Ogni cultura, ogni suo sorgere, ogni progredire e ogni declinare, ognuno dei suoi gradi e dei suoi periodi interamente necessari ha una durata deter- minata, sempre uguale, sempre ricorrente con la forma di un simbolo » (Der Untergang des Abend- landes, 1932, I, pag. 147) (v. CicLo). c) Il concetto della S. come regno del caso non è frequente nell’interpretazione filosofica della storia. Sembra tuttavia che Aristotele non sia stato molto lontano da esso quando contrappose lo sto- rico al poeta e ritenne proprio di quest’ultimo rappresentare l’universale, cioè «le cose quali po- trebbero accadere secondo verisimiglianza e neces- sità » mentre ritenne proprio dello storico rappre- sentare le cose «realmente accadute», cioè «il particolare » e, per es., «che cosa Achille fece e che cosa gli capitò» (Poetica, 1X, 1451b 2-10). Non bisogna infatti dimenticare che solo l’universale è, secondo Aristotele, oggetto di conoscenza scien- tifica e che il particolare come tale cade fuori della scienza (Met., III, 6, 1003 a 15). Più esplicitamente Schopenhauer diceva: « La S. del genere umano, la folla degli eventi, il mutare dei tempi, i molteplici aspetti della vita umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se non la forma casuale presa dal manifestarsi dell’Idea e non appartiene a questa, nella quale soltanto è l’adeguata oggettività della volontà, ma solo al fenomeno che cade nella co- noscenza dell’individuo; ed è tanto estranea, ines- senziale e indifferente all’Idea quanto sono estranee alle nubi le figure che rappresentano, al fiume la forma dei suoi gorghi e delle sue spume e al ghiac- cio le sue figure di alberi e fiori» (Die Welt, I, $ 35). Non si può considerare invece sotto questa rubrica il concetto della S. che Machiavelli espresse dicendo che «la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi»; e paragonando la fortuna stessa a un fiume che quando si adira travolge tutto ma il cui impeto non riesce dannoso o riesce meno rovinoso quando l’uomo provvede per tempo a farvi ripari e argini (Princ., 25). La «fortuna» è, di fatti, per Machiavelli, l’insieme delle condizioni che limitano, ostacolano o frustrano l’azione dell’uomo nella S. ma non è la totalità della storia. Agostino Cournot si servì invece del caso per definire il dominio proprio della S., che egli contrappose a quello della natura, che è invece il dominio del- l’ordine e della legge (Essai sur les fondements de la connaissance, 1851). d) Il concetto della S. come progresso ha come sua caratteristica l’affermazione del carattere problematico o non inevitabile del progresso stesso; giacchè se il progresso è necessario la S. è piuttosto un ordine provvidenziale di cui tutti i momenti sono egualmente perfetti in quanto tutti indispensabili alla perfezione o al perfezionamento dell’insieme. La S. come progresso problematico è un’idea illu- ministica; e suppone una misura del progresso stesso cioè una norma o un ideale cui la S. cerca di avvicinarsi o che essa cerca di realizzare ma che non trova mai in essa un’adeguazione per- fetta. G. B. Vico ha espresso questo ideale nel con- cetto di una S. ideale eterna «sopra la quale, egli disse, corrono in tempo le S. di tutte le nazioni nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini » (Sc. Nuova, De’ princìpi). La S. ideale eterna è l’ordine universale ed eterno che la S. temporale, o anzi le varie S. temporali dei vari tempi e nazioni, tendono ad adeguare, senza mai riuscirvi perfetta- mente e anzi talvolta precipitando nella confusione e nella rovina (/bid., Conchiusione dell’opera). Vico intendeva la storia ideale eterna come la succes- sione progressiva di tre età (degli dei, degli eroi e degli uomini) e la permanenza indefinita nell’ul- tima, che è la conclusione del ciclo. Voltaire con- siderò invece come norma e misura del progresso storico l’illuminismo: la liberazione della ragione umana dai pregiudizi e il suo porsi come guida della vita singola e associata dell’uomo (cfr. spe- cialmente il Essai sur les maurs, 1740; Philosophie de l’histoire, 1765). Kant seguì lo stesso criterio, sug- gerendolo tuttavia soltanto come un « filo condut- tore » per orientarsi filosoficamente nella S. dei po- poli. Egli scrisse: « A misura che le limitazioni all’attività personale saranno tolte, che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e fantasie, l’illumi- nismo come un gran bene che la specie umana può derivare perfino dalle mire ambiziose di potenza dei suoi dominatori» (/dee zu einer allgemeinen Ge- schichte, 1784, tesi VIII). Secondo Jaspers, l’unico fine progettabile della S. è l’unità dell'umanità rag- giungibile non già attraverso la scienza o l’unifor- mità linguistica o culturale ma soltanto attraverso «l’illimitata comunicazione di ciò che è diverso storicamente, quale può realizzarsi in un dialogo incessantemente condotto al livello di una lotta amorevole » (Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, 1949). Altri criteri o norme possono certo essere proposti o stati proposti come misura del progresso nella S.; ma le caratteristiche di questa nozione non mutano finchè non si ammetta l’inevitabilità del progresso. e) Con l’affermazione dell’inevitabilità del progresso, il progresso stesso diventa inconcepibile (come Hegel vide): giacchè se la S. è necessaria, ogni momento di essa è tutto ciò che dev'essere e non può essere migliore o peggiore degli altri. La concezione della necessità della S. è la conce- zione della S. come piano provvidenziale. La nozione di piano provvidenziale è implicita in ogni mifle- narismo o chiliasmo (v.): ogni dottrina siffatta in- clude l’idea di uno sviluppo necessario degli eventi umani, sino al raggiungimento di uno stato defi- nitivo di perfezione. Questo fu, per es., il concetto che della S. ebbe Origene: che considerò i mondi succedentisi nel tempo come altrettante scuole nelle quali si rieducano gli esseri decaduti (De Princ., IH, 6, 3); e vide nel ciclo complessivo della S. il ritorno a Dio del mondo, che culmina nell’apoca- tastasi, cioè nella restituzione di tutti gli esseri alla loro perfezione originaria (In Johann, XX, 7). Ma il primo a formulare chiaramente il concetto del piano provvidenziale è stato S. Agostino. Questi vide nella S. la lotta tra la città celeste e la città terrena: lotta destinata a finire con il trionfo della città celeste. A questo trionfo, secondo S. Agostino, Dio fa contribuire anche il male e la volontà catdell’intelligenza piena della verità di- vina (Concordia novi et veteris testamenti, V, 84, 112). Tuttavia il piano provvidenziale della S., per quanto infallibile e necessario, è, dal punto di vista religioso, imperscrutabile nei suoi particolari. L’uomo religioso crede in esso e nella sua perfe- zione; ma sa di non poter comprendere le vie attraverso le quali si va realizzando. Posto di fronte al male, egli ha fiducia che il male da ultimo non trionferà, ma come ciò avvenga o possa av- venire, sa di non poter dire. Quando la dottrina del piano provvidenziale della S. si trasforma, nel Romanticismo, in dottrina filosofica, il non sapere religioso si trasforma in certezza razionale. Hegel ha più volte affermato che la differenza tra religione e filosofia è che la seconda dimostra nella sua de- terminazione quella relazione tra Dio e il mondo, quel piano provvidenziale, che la prima si limita solo a riconoscere (Enc., $ 573; Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, I, pag. 55). L'ingresso di questa nozione in filosofia è però in primo luogo opera di Fichte. Nei Caratteri dell’età contempo- ranea (1806) Fichte affermava energicamente la necessità della S. e la riduzione di essa a un piano provvidenziale. « Qualsiasi cosa realmente esiste, egli diceva, esiste per assoluta necessità: ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste » (Ibid., IX). E distingueva, nel progressivo incivili- mento della specie umana, due elementi: un ele- mento a priori che è il piano del mondo o l’ordine provvidenziale e un elemento a posteriori o tempo- rale od empirico, costituito dai fatti. La risultante di questa concezione è che: « Nulla è come è perchè Dio vuole arbitrariamente così, ma perchè Dio non può manifestarsi altrimenti. Riconoscere questo, sottomettersi umilmente ed essere beati, nella co- scienza della nostra identità con la forza divina, è compito di ogni uomo» (/bid., IX; trad. ital., Cantoni, pag. 67). Con questa distinzione Fichte sembra riconoscere ai «fatti» della S. una certa autonomia (per quanto fittizia) di fronte al piano provvidenziale di cui devono entrare a far parte. Ma anche questa fittizia autonomia dei fatti spa- risce nella dottrina di Hegel. « Dio prevale, dice Hegel, e la S. del mondo non rappresenta altro che il piano della prov- mente e gradualmente» e distingueva tre periodi: quello in cui la provvidenza appare come destino o forza cieca; quello in cui appare come natura e infine quello in cui appare come provvidenza (System des transzendentalen Idealismus, sez. IV, Aggiunte, III C; trad. ital., pag. 283 sgg.). Il con- cetto di rivelazione è stato adoperato frequentemente nel tardo Romanticismo del sec. xrx e nello spiri- tualismo e idealismo del sec. xx. In queste sue manifestazioni, ha conservato la connessione con l’idea di progresso che Schelling gli aveva ricono- sciuta. Tale connessione non gli è tuttavia indi- spensabile. La rivelazione di Dio nella S. può essere non graduale, ma totale e completa in ogni punto della S. stessa. Ogni epoca, ogni momento di essa è in questo caso una rivelazione compiuta di Dio, secondo il detto di Goethe: « L’attimo è l’eternità » e secondo la frase dello storico Ranke « Ogni epoca è in immediata relazione con Dio +». In questa forma il concetto romantico della S. come ordine prov- videnziale è stato accettato anche da alcuni storicisti tedeschi come E. Troeltsch (Der Historismus und seine Probleme, 1922) e F. Meinecke (Die Entste- hung des Historismus, 1936; Vom geschichtlichen Sinn und vom Sinn der Geschichte, 1939), preoc- cupati di salvare l’assolutezza dei valori e il carat- tere divino del cristianesimo dalla mobilità e rela- tività della S. (cfr. Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 1956, parte VI). Dall'altro lato non è indispensabile che il con- cetto della S. come ordine provvidenziale si fondi sulla credenza in una provvidenza, immanente o trascendente, di natura divina. « Ordine provviden- ziale » significa «ordine necessario e perfetto »: e un ordine siffatto è riconosciuto proprio della S. anche da dottrine che negano il concetto religioso della provvidenza, come il positivismo sociale e il marxismo. Augusto Comte considerava la S. come lo sviluppo progressivo dell'Umanità o Grande Essere che è «l’insieme degli esseri passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezio- nare l’ordine universale » (Politique positive, 1854, IV, pag. 30). E riconosceva a De Maistre il me- rito di aver concorso a preparare la vera teoria del progresso con la sua rivalutazione del Medio Evo: giacchè solo dopo questa nozione con- sente infatti di parlare della S. come di un oggetto unico e semplice, valutabile nel suo complesso una volta per tutte. La nozione di mondo storico, come tutte le nozioni totalitarie e la nozione stessa di mondo (v.), è al di là delle capacità effettive di indagine e di intelligenza di cui l’uomo dispone. La S., come oggetto della storiografia non è mai un mondo in questo senso, cioè la totalità assoluta degli eventi umani. Un periodo storico o un in- sieme di istituzioni è detto talvolta un mondo (per es., il «mondo antico» o il «mondo orien- tale », ecc.) soltanto nel senso di una totalità rela- tivamente omogenea di culture e non in senso asso- luto. La stessa espressione « mondo storico» se riceve il significato di «oggetto generale delle di- scipline storiografiche » designa, non una totalità assoluta, ma il campo relativamente omogeneo in cui vengono ad operare e a incontrarsi le tecniche delle discipline storiografiche. Quando perciò come «realtà storica » s’intenda semplicemente l’oggetto della conoscenza storica, si rinunzia ipso facto al concetto di mondo storico come totalità assoluta e ad ogni giudizio su questa totalità. Si rinuncia, anche, a considerare rurti i fatti come fatti storici: giacchè l’affermazione che tutti i fatti sono storici (che ricorre, per es., in CROCE, La S. come pensiero e come azione, 1938, pag. 19) non è che un altro modo di esprimere la nozione della S. come totalità assoluta. Dall’altro lato, se la S. non è il mondo storico, non esiste /a storia. Odi irrepetibile. Il riconoscimento esplicito di questo carattere è dovuto allo storicismo tedesco. Già affermato da Dilthey (Gesammelte Schriften, V, pag. 236) esso fu sottolineato da Windelband (Prà- ludien, II°, pag. 145) e da Rickert (Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, 1896-1902, pag. 251, 420, ecc.) come una conseguenza della di- stinzione tra il procedimento generalizzante delle scienze della natura e il procedimento individuante delle scienze dello spirito. Questo carattere della S. ha suscitato talora la diffidenza dei metodologi perchè è apparso come un carattere « metafisico » (cfr., ad es., C. G. HEMPEL, in Readings in Philo- sophical Analysis, ed. Feigl e Sellars, 1949, pag. 461; GARDINER, The Nature of Historical Explanatiohe non è nè individuato nè connesso sufficientemente con altri fatti, nè si- nificante. STORIA IDEALE ETERNA. V. STORIA. STORIA UNIVERSALE. V. STORIOGRAFIA. STORICHE, FONTI (ingl. Historical Sources; franc. Sources historiques; ted. Historische Quellen). Con questa espressione si indica comunemente il materiale della ricerca storiografica. Le fonti S. sogliono dividersi in avanzi e tradizioni. Gli avanzi sono: 1° i resti delle opere prodotte dall'uomo (case, ponti, teatri, utensili, ecc.); 2° i modi di vita delle comunità (usi, costumi, ordinamenti giuridici, politici, ecc.); 3° le opere letterarie e filosofiche; 4° i documenti in generale. Gli avanzi che furono prodotti con l’intenzione di tramandare il ricordo di un evento si chiamano monumenti. Tali sono i documenti che ebbero lo scopo di testimoniare per l’avvenire la conclusione di una faccenda e tali sono le iscrizioni, le me- daglie, le monete, ecc. Infine le fonti di tradizione sono quelle me- diante le quali è stata tramandata la memoria degli eventi passati e possono essere orali o scritte. (cfr. G. G. Droysen, Grundzilge der Historik, 1882, $ 20-24). STORICISMO (ingl. Historicism; franc. Histo- ricisme; ted. Historismus). Con questo termine che fu adoperato per la prima volta da Novalis (Werke, III, pag. 173) si possono intendere tre indirizzi di- versi e cioè: 1° La dottrina che la realtà è storia (cioè svolgimento razionalità e necessità) e che ogni conoscenza è conoscenza storica, quale fu espressa da Hegel (cfr. specialmente Geschichte der Philo- sophie, I, intr.) e da Croce (La storia come pensiero e come azione, 1938, pag. 51). Questa dottrina non è che la tesi fondamentale dell’idealismo ro- mantico (v.): essa suppone la coincidenza di finito e infinito, del mondo e di Dio, e considera pertanto la storia come la stessa realizzazione di Dio. Essa si può chiamare S. assoluto. STORIA IDEALE ETERNA 2° Una variante della precedente dottrina, che vede nella storia la rivelazione di Dio nel senso di considerare ogni momento della storia stessa in diretto rapporto con Dio e permeato dei valori trascendenti da Lui inclusi nella storia. È stato questo il punto di vista sostenuto da E. Troeltsch e F. Meinecke [cfr. la voce STORIA, 3, e)]. Si può chiamare questa dottrina S. fideistico perchè la rivelazione di Dio nella storia avviene per essa sostanzialmente attraverso la fede. 3° La dottrina che vede nelle unità di cui la storia costituisce la successione (Epoche o Civiltà) organismi globali i cui elementi, necessariamente connessi, possono vivere solo nell’insieme; ed af- ferma pertanto la relatività dei valori (che sono appunto alcuni di tali elementi) all’unità storica cui appartengono e la morte inevitabile di essi con la morte di questa. È questo il punto di vista di Spengler e di altri e si può chiamare S. rela- tivistico. Esiste anche, almeno come termine po- lemico, una nozione volgare di questo S.: secondo la quale la storia sarebbe un movimento incessante che travolge tutto, anche la verità e i valori, su- bito dopo l’attimo del loro fiorire. La dottrina che più si avvicina a questa è quella difesa da G. Sim- mel ; secondo il quale la vita è un fluire incessante che risolve e concilia ogni cosa entro di sè: «Il bene e il male che facciamo e che riceviamo, il bello che ci allieta e il brutto da cui fuggiamo, le serie compiute come quelle rimaste interrotte nella nostra vita, tutte queste cose, per quanto possano di fatto reciprocamente contrastare rientrano, come elementi della vita, come scene di un de- stino, nella connessione dell'esperienza vissuta che si continua senza posa e senza interruzione: in una vita, cioè, il cui senso, appunto come vita, sovrasta a tutte le opposizioni che i suoi conte- nuti possono presentare secondo altri criteri» (Hauptprobleme der Philosophie, 1910, IV; tradu- zione ital., pag. 201). Lo stesso Simmel però am- metteva qualcosa che è più che vita (v.) cioè la forma della vita stessa che emerge da essa e in essa ritorna (Lebensanschauung, 1918, pag. 22-23). 4° L'indirizzo della filosofia tedesca che, negli ultimi decenni dell’800 e nei primi del nostro secolo, ha dibattuto il problema critico della storia. L’assurgere delle discipline storiche, nel corso del sec. xIx, al rango di scienze faceva nascere nei loro confronti un problema analogo a quello che Kant si era proposto nei confronti delle scienze naturali: il problema della possibilità della scienza storica, cioè della sua validità. Questo problema viene dibattuto in Germania a partire dagli scritti di Dilthey e specialmente dalla Einleitung in die Geisteswquesti indirizzi non solo da Dilthey, Win- delband e Rickhert ma anche da Simmel, Troeltsch e Meinecke; ma ebbero il loro contributo più sostanziale da Max Weber che affrontò soprattutto il problema della spiegazione storica e della cau- salità della storia. L'eredità di questo indirizzo di studi, che ha iniziato l’elaborazione della metodo- logia storica, è stata raccolta dai moderni meto- dologi della storia (sui quali v. STORIOGRAFIA) (cfr., R. Aron, La philosophie critique de l’histoire, Essais sur une théorie allemande de l’histoire, 2 ediz., 1950; P. Rossi, Lo S. tedesco contemporaneo, 1956). STORICITÀ (ingl. Historicity; franc. Histo- ricitè; ted. Geschichtlichkeit). 1. Il modo d’essere del mondo storico o d’una qualsiasi realtà storica. 2. L'esisteme mondo. L’interpretazione di essa come storia pluralistica corrisponde all’interpretazione della realtà storica come oggetto definibile o accertabile solo attraverso gli strumenti di indagine di cui si disponA) La storia universale o come meglio si di- rebbe cosmica (ted. Weltgeschichte) è la cono- scenza del piano provvidenziale del mondo storico (cfr. HeGeL, Phil. der Geschichte, ed. Lasson, pa- gina 52). Essa ha due caratteristiche fondamentali: 1° È opera del filosofo e non dello storico e ad essa l’opera dello storico può servire solo come aiuto non indispensabile. Fichte, che la chiama «storia @ priori», afferma: « Comprendere con chiara intelligenza l’universale, l’assoluto, l’eterno e l’immutabile in quanto guida la specie umana, è compito del filosofo. Fissare di fatto la sfera sempre cangiante e mutevole dei fenomeni attraverso i quali procede la sicura marcia della specie umana, è compito dello storico, le cui sco- perte sono solo casualmente ricordate dal filo- sofo + (Grundziige des gegenwdrtigen Zeitalters, 1806, IX; trad. ital., Cantoni, pag. 67). Ed Hegel, in po- lemica contro i grandi storici del suo tempo, de- gradati a «filologi» (v. FiLoLogia), affermava: «Per conoscere il sostanziale, bisogna accedervi da sè con la ragione... La filosofia, nella certezza che ciò che impera è la ragione, sarà convinta che l’accaduto troverà il suo luogo nel concetto e non altererà la verità, come oggi è moda parti- colarmente presso i filologi che, con quel che si dice acume, introducono nella sl’occhio del concetto, della ragione» e perciò affidarsi a un modo di procedere rigorosamente aprioristico (Phil. der Geschichte, 1, pag. 8). Croce parlava di una «anamnesi » dello Spirito universale che tesse la storia e per il quale le fonti della storia stessa servono solo come occasioni di ricordo (Teoria e storia della S., pag. 16). Lo stesso Heidegger condi- vide questa concezione della storia cosmica. Egli av- verte che « storia cosmica » significa in primo luogo «lo storicizzarsi del mondo nella sua essenziale unità esistenziale con l’Esserci»; e in secondo luogo «lo storicizzarsi intramondano degli stru- menti e delle cose» e che in entrambi i sensi la storia cosmica è indipendente dalla conoscenza sto- riografica (Sein und Zeit, $ 75) sicchè è la scelta implicita nella storicità dell’Esserci a determinare la scelta storiografica (/bid., $ 76). B) La S. pluralistica è caratterizzata in primo luogo dall’abbandono di concetti come « mondo storico + o « storia universale », e dal riconoscimento della pluralità delle forme della conoscenza storica e della sua dipendenza dal materiale documen- tario disponibile e dai princìpi che guidano la scelta storiografica. Da questo punto di vista, la cono- scenza storica autentica verte sempre su oggetti delimitati o delimitabili, mai sulla totalità della storia; e non è mai giudizio su tale totalità sicchè esclude come privi di senso i concetti di progresso, di decadenza, ecc., intesi in senso assoluto. Per quanto l’antichità greca ci abbia lasciato esempi eccelto che 1’Umanesimo ha dato alla metodologia storica. Giacchè mentre il Medio Evo ignorava la prospet- tiva storica, facendo dei fatti e degli eventi più eterogenei e lontani fatti ed eventi contemporanei, l’Umanesimo ha cercato di intendere il passato come passato, l’antichità come antichità, l’altro come altro (cfr. E. Garin, Medioevo e Rina- scimento, 1954, Il, 5). L'esigenza di «rivivere» il passato, di farlo «ritornare» sarebbe falsifi- catrice della storia, se fosse presa alla lettera (cfr. H. I. Marrou, De la connaissance histo- rique, 1954, pag. 43 sgg): come sarebbe falsifica- trice, se fosse presa alla lettera l'esigenza affacciata da Croce (Teoria e storia della S. pag. 3 sgg.; La storia come pensiero e come azione, 1938, pag. 5), che ogni storia sia intesa come « storia contempo- ranea +. Un corollario dell’esigenza della prospet- STORIOGRAFIA tiva storica è il distacco dal passato, che Nietzsche riteneva proprio della storia crifica (posta accanto alla storia archeologica che «conserva e venera » e alla storia monumentale che esalta e incoraggia, Unzeitgemàsse Betrachtungen, 1873, II) distacco che Nietzsche intendeva come l’abbandono del passato e l’incamminarsi del presente per nuove vie, e che è certamente uno degli insegnamenti della storio- grafia. Ma c’è poi un distacco dal presente che è inerente all’atteggiamento storiografico su cui in- sistette soprattutto l’Illuminismo e che fu espresso da P. Bayle con famose parole: « Lo storico, egli diceva, deve dimenticare che è di un certo paese, che è stato allevato in una certa comunità, che deve la sua fortuna a questo o a quello e che questi e quegli altri sono i suoi parenti o i suoi amici. Uno storico in quanto tale è, come Mel- chisedec, senza padre, senza madre, senza genea- logia » (Dictionnaire, art. Usson, rem. F.). L'ideale proposto da Bayle è difficile, per non dire impos- sibile, da realizzare perchè, come gli storici oggi riconoscono (cfr. ad es., MARROU, Op. cif., cap. Il) l’intervento attivo degli interessi e degli orienta- menti dello storico, condiziona sempre, in qualche misura, i risultati della sua indagine e persino la scoperta dei fatti. Tuttavia tutta la tecnica dell’in- dagine storiografica tende, non già a disincarnare o a disumanare lo storico, come voleva Bayle, ma a limitare e disciplinare l’intervento dei suoi interessi nella ricerca. 2° La conoscenza storica è individuante perchè individuanti sono gli strumenti di cui si avvale. L’individualità o l’unicità (irripetibilità) che è frequentemente riconosciuta ai fatti storici è in realtà il riflesso in tali fatti degli strumenti che li accertano (v. STORIA). In primo luogo ogni evento storico è individuato dai due parametri fondamentali, cronologico e geografico. In secondo luogo, il materiale documentario della S. ha carat- tere individuante. Un documento, una moneta, un’iscrizione si riferiscono sempre, ognuno, ad un unico fatto; e così una testimonianza. In terzo luogo, hanno carattere individuante i criteri di scelta storiografica, perchè tendono a porre in evi- dennel passato di ogni cosa cambia a misura che la cosa stessa cambia e si sviluppa + (Op. cir., pag. 36). La scelta storiografica investe così in primo luogo i fatti; ma essa investe anche e contempo- raneamente le ipotesi che sono incorporate nello stesso accertamento dei fatti. La scelta di un’ipotesi non è necessariamente suggerita allo storico dalle sue proprie simpatie o dai suoi orientamenti; qualche volta, come accade nel caso di Tucidide, l’ipotesi che egli prospetta e che trova verificata dai fatti è contraria a tutti i suoi desideri. Il pluralismo delle scelte, cioè la possibilità di effettuare scelte storio- grafiche differenti e di mutare e correggere quelle effettuate, è una delle condizioni della conoscenza storica. I filosofi hanno tentato talvolta di limitare, in linea di principio, la pluralità delle scelte; cioè di stabilire un principio che orienti in ogni caso, unilateralmente, la selezione storiografica. Così ha fatto Hegel affermando che la storia è « storia dello spirito » e obbligando così la scelta dello storiografo a fermarsi sulle idee e a dichiarare storicamente inesistente tutto il resto. Così ha fatto anche il materialismo storico (v.) affermando che la storia è in primo luogo storia dei « rapporti di produzione di lavoro » e che tutto il resto è « soprastruttura » cioè non determina ma segue. Non c’è dubbio che questi tentativi di limitazione della scelta storiogra- fica, e specialmente quello marxista, hanno polemi- camente richiamato l’attenzione su fatti che potevano essertà di applicazione nel dominio storiografico (come anche d’altronde nel dominio della fisica) tende a prevalere tra i metodologi della storia. Lo scritto citato di W. Dray, è in questo senso, par- ticolarmente significativo (v. su questo punto la voce SPIEGAZIONE). La preferenza accordata alla spiegazione condizionale toglie tutta la sua impor- tanza al contrasto tra spiegazione e comprensione che per un certo tempo parve esprimere il con- trasto tra le scienze della natura e le scienze dello spirito. Difatti, sia la spiegazione che la compren- sione consistono nella determinazione della possi- bilità dell’oggetto (v. COMPRENSIONE). 5° La conoscenza storica è diretta alla deter- minazione di possibilità retrospettive. Questa è una conseguenza della rinuncia della S. allo schema causale (che suppone la necessità dell’oggetto sto- rico) e del suo ricorso allo schema condizionale. Questo schema consiste nella determinazione di possibilità, o, se si vuole, di probabilità retrospet- tive. Questa caratteristica fu già riconosciuta propria alla conoscenza storica da Max Weber: «La con- siderazione del significato causale di un fatto sto- rico, egli diceva, comincerà anzitutto con la que- stione seguente: se escludendolo dal complesso dei fattori assunti come condizionanti, oppure mutan- dolo in un determinato senso, il corso degli av- venimenti avrebbe potuto, in base a regole generali dell’esperienza, assumere una direzione in qualche modo diversamente configurata nei punti decisivi per il nostro interesse » (Kritische Studien auf dem Gebiet der kulturwissenschaftlichen Logik, 1906; tra- duzione ital, in Z/ metodo delle scienze storico- sociali, pag. 223). Certamente ogni storico rico- noscerebbe privo di senso il tentativo fatto da Renouvier nell’Ucronia d’immaginare «lo sviluppo della civiltà europea quale avrebbe potuto essere e non è stata +. Ma, come dice R. Aron: «Ogni storico, per spiegare ciò che è stato, si domanda ciò che sarebbe potuto essere. La teoria si limita a mettere in forma logica questa pratica spontanea dell’uomo comune + (op. cit., pag. 164; cfr. MARROU, op. cit., pag. 181). Per quanto spesso gli storici e i metodologi della storia continuino a parlare di « causa », il senso che danno a questa parola non ha niente a che fare con il significato tradizionale di essa: pertanto un mutamento terminologico sarebbe opportuno seguisse al già intervenuto mu- tamento concettuale (Cfr. una bibliografia selezio- nata sulla metodologia storiografica in Theory und Practice in Historical Study: a Report of the Com- mittee on Historiography, 1942, e cfr. sugli autori trattati in questa voce: P. Rossi, Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, 1960). STRETTO (ingl. Strict; franc. Strict; te- desco Streng). L’aggettivo si applica talora al diritto o al dovere per indicare il suo carattere più rigorosamente obbligatorio. Dice Kant.: « Vi sono azioni così conformate che la loro massima non può nemmeno essere concepita senza contrad- dizioni come una legge universale della natura... Ve ne sono altre in cui non si incontra questa impossibilità interna, ma che sono tali che è im- possibile volere che la loro massima sia elevata all’universalità di una legge della natura, perchè una tale volontà si contraddirebbe in se stessa. Si scorge facilmente che la massima delle prime è contraria al dovere S. o rigido (rigoroso), mentre la massima delle seconde non è contraria che al dovere in senso /argo (meritorio) » (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I. Altrove Kant chiama diritto S. quello che « può anche essere rappresen- tato come la possibilità di una costrizione generale reciproca in accordo con la libertà di ognuno secondo leggi universali » (Mer. der Sitten, Introdu- zione alla dottrina del diritto, $ FE). Queste nota- zioni kantiane sono tra le più precise in questa materia e tuttavia son ben lontane dall’essere convincenti. STRUMENTALISMO. V. PRAGMATISMO. STRUMENTO (ingl. Instrument; franc. In- strument; ted. Werkzeug). La parola è stata estesa da Dewey a significare ogni mezzo adatto a con- seguire un risultato in qualsiasi campo dell'attività umana, pratico o teorico. Dice Dewey: « Come termine generale strumentale significa la relazione mezzi-risultati come categoria fondamentale per la interpretazione delle forme logiche, mentre opera- tivo esprime le condizioni grazie alle quali la ma- teria è: 1° resa adatta a servire come mezzo e STRETTO 2° effettivamente funziona come mezzo nel com- piere la trasformazione obiettiva che è il fine del- l'indagine » (Logic, I, $ 2, nota; trad. ital., pag. 47-48). STRUTTURA (ingl. Structure; franc. Structure; ted. Strukture). 1. Nel senso logico, la pianta o il piano d’una relazione: sicchè si dice che due rela- zioni hanno la stessa S. quando lo stesso piano vale per entrambe, cioè quando sono analoghe l’una all’altra come una carta geografica è analoga al paese che rappresenta. La S. è in questo senso il « numero-relazione » ed è concetto generalissimo, equivalente a piano, costruzione, costituzione, ecc. (RussELL, Introduction to Mathematical Philosophy, VI; trad. ital., pag. 74-75; Human Knowledge, IV, 3; trad. ital., pag. 362 sgg.). La descrizione formale di Russell si attaglia all’uso corrente del termine: per es., all’uso che se ne fa nella terminologia di Marx e dei marxisti. In questa terminologia, S. è la costituzione economica della società in cui en- trano i rapporti di produzione e i rapporti di lavoro mentre soprastruttura (v.) è la costituzione giuridica, statale, ideologica della società stessa (Marx, Zur Kritik der politischen Okonomie, 1859, Pref.; Deutsche Ideologie, I). In questo senso la parola S. è da un lato sino- nimo di forma nel senso in cui questo termine ricorre nel gestaltismo che infatti viene anche chia- mato strutturalismo o psicologia strutturale (v. Pst- coLogia); dall’altro è sinonimo di sistema (nel significato 2) come insieme o totalità di relazioni. In quest’ultimo senso la parola è passata nella linguistica, nell’estetica e negli altri campi in cui viene oggi comunemente adoperata. Lo stesso Saus- sure aveva parlato di sistema: «La lingua è un sistema di cui tutte le parti debbono essere consi- derate nella loro solidarietà sincronica » (Cours de linguistique générale, III, $ 3). Quando si parla della struttura come di «un insieme di elementi qualsiasi, dunque astratti, tra i quali o tra certi loro sotto-insiemi, si saranno definite relazioni ugualmente astratte » (Granger) o come «un com- plesso di elementi sottoposto a relazioni determi- nate » (Mouloud) («La notion de structure» in Revue Inter. de Phil. 1965, pag. 254, 315) o in modi analoghi (Sens er usage du terme Structure dans les sciences humaines et sociales, a cura di Bastide, 1962, passim; The Structure of Language, a cura di Fodor e Katz, 1964, pag. 33 e passim), il termine ha significato generico di sistema e po- trebbe essere opportunamente sostituito da esso. Lo stesso può dirsi dell’uso fatto del termine nel campo antropologico, soprattutto da Lévi-Strauss; il quale esplicitamente definisce la S. come un sistema di elementi tali che una modificazione qual- siasi dell'uno implica una modificazione di tutti gli altri; e la considera come un modello concet- STRUTTURALISMO tuale che deve dar conto dei fatti osservati e per- mettere di prevedere in qual modo l’insieme reagirà nel caso della modificazione di uno degli elementi (Anthropologie structurale, 1958, XV, 1, pag. 306 sgg). 2. In un senso ristretto e specifico, la S. non è un qualsiasi piano o sistema di relazioni, ma un piano gerarchicamente ordinato cioè con un ordine finalistico intrinseco, destinato a conservare, per quanto possibile, il piano stesso. In questo senso specifico la parola fu usata da Dilthey che con essa designò il fondamentale strumento esplicativo del mondo umano e storico. Egli parlò di una « S. psi- chica » intesa come « l’ordine secondo cui, nella vita psichica sviluppata, i fatti psichici di qualità diffe- rente sono reciprocamente legati da un’interna rela- zione che può essere immediatamente vissuta » (Ge- sammelte Schriften, VII, pag. 3 sgg.; cfr. Critica della ragione storica, trad. ital., pag. 63). E soprattutto si servì del termine per indicare le unità elementari del mondo storico cioè gli individui, le epoche, le comunità, le istituzioni e i sistemi di cultura, in- tendendo per esso in questo senso una connessione dinamica accentrata in se stessa «cioè che ha in se stessa il suo fine e i suoi criteri di valutazione » (Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geistes- wissenschaften, 1910, VI, 2; trad. ital., in Critica della ragione storica, VI, 1, 2, pag. 243 sgg.). La connessione dinamica o vitale in cui Dilthey vide il carattere proprio della S. fu tradotta da Spengler col concetto di organismo, del quale si servì per descrivere le epoche storiche che nascono, de- cadono e muoiono (v. Epoca). In questo senso il termine viene adoperato comunemente in bio- logia. Secondo l'illustrazione che ne ha dato re- centemente un biologo, la S. sarebbe «la forma rela- tiva alla funzione +, come la funzione sarebbe la «S. che cambia nel tempo» (A. C. MOULYin due modi: I) come costi- tuente l’ordine o la sostanza della realtà in esame, quindi determinante necessariamente tutte le sue determinazioni in modo da renderle infallibilmente prevedibili (Levi-Strauss, Sapir V. art. seguente). Il) Come un modello (v.) o un costrutto (v.) ipo- tetico, suscettibile di interpretazioni diverse, che eserciti condizionamenti non necessitanti e renda possibili solo previsioni probabili (strutturalisti russi, cibernetici). STRUTTURALISMO (inglese Structuralism; fr. Structuralisme; ted. Strukturalismus). Con questo termine si intende ogni metodo o procedimento d’indagine che, in qualsiasi campo, faccia uso del concetto di Struttura in uno dei sensi chiariti. Il termine è nato nella psicologia della forma e nella linguistica: nel qual campo, lo S. è stato difeso dai russi R. Jakobson, N. Trubetzkoy e da nume- rosi altri. Nel campo dell’antropologia il punto di vista strutturalistico è stato introdotto da Radcliffe- Brown a partire dalla sua introduzione all’opera African Systems of Kinship and Marriage (1950) e diffuso nell’antropologia moderna da Levi-Strauss (Anthropologie structurale, 1958 e spec. cap. XV). Ci sono anche tentativi di estenderlo a tutto il dominio delle scienze umane. Nella sua esigenza più generale, lo S. tende non soltanto a interpretare in termini di sistema un campo specifico di indagine ma a mostrare come i diversi sistemi specifici, verificati in diversi campi (per es. nell’antropologia, nell'economia e nella linguistica), si corrispondano o abbiano tra loro caratteri analoghi. Levi-Strauss ad es. ritiene possibile che una stessa struttura possa essere riscontrata a tre livelli della società: nel senso che le regole della parentela e del matri- monio servono ad assicurare la comunicazione delle donne tra i gruppi come le regole economiche servono ad assicurare la comunicazione dei beni e dei servizi e le regole linguistiche la comunicazione dei messaggi (Anthropologie structurale, cap. III, pag. 95). Lo S. è schierato polemicamente contro tre fronti: lo storicismo, l’idealismo e l’umanesimo. Contro lo storicismo, che è sostanzialmente una considerazione /ongitudinale della realtà cioè una interpretazione di essa in termini di divenire, svi- luppo o progresso, afferma il primato di una con- cezione rrasversale (cross-tion) cioè di una con- cezione che considera la realtà stessa come un sistema relativamente costante o uniforme di rela- zioni. Il sistema non è certo ritenuto dallo S. statico o immobile perché si ammette una considerazione diacronica oltre che sincronica del sistema stesso; ma si subordina la considerazione diacronica a quella sincronica, considerando i mutamenti tempo- rali come trasformazioni nelle relazioni costituenti un sistema o oscillazioni di queste trasformazioni intorno al limite costituito dal sistema stesso. Contro l’idealismo, lo S. afferma l’oggettività di ogni sistema di relazioni che, anche quando è con- cepito come un modello concettuale cioè una costru- zione scientifica, non è ridotto a un atto o una funzione soggettiva ma ha come funzione fonda- mentale quella di spiegare il maggior numero di fatti accertati. Infine, contro l’umanesimo lo S. afferma la priorità del sistema sull'uomo: delle strutture sociali sulle scelte individuali, della lingua sul parlante singolo e in generale dell’organizzazione economica o politica sugli atteggiamenti individuali. Sapir ha scritto: « Le lingue sono per noi qualcosa di più che sistemi di comunicazione intellettuale. Esse sono abiti invisibili che si drappeggiano intorno al nostro spirito e predeterminano la forma di tutte le sue espressioni simboliche » (Language, 1922, cap. XI, trad. ital, pag. 218). Secondo Althusser, la strut- tura globale della società determina tutte le sue manifestazioni al modo in cui la Sostanza di Spi- noza determina tutti i suoi modi (Lire Le Capital, 1965, IX, trad. ital., pag. 196 sgg.). Questo deter- minismo è una conseguenza dell’interpretazione realistica del concetto di struttura mentre è esclusa dall’interpretazione di esso come modello (v.) 0 costrutto ipotetico, suscettibile di interpretazioni diverse. Tuttavia poichè storicismo, idealismo e uma- nesimo indeterministico sono stati i tratti caratte- ristici del clima idealistico dalla prima metà del ’900, lo S., nelle sue varie forme, denuncia il dissolversi di questo clima nella cultura contemporanea. STURM UND DRANG. Con questa espres- sione, che è il titolo di un dramma di Massimiliano Klinger del 1776 e significa « tempesta e impeto », s'intende un movimento filosofico e letterario che ebbe luogo in Germania nella seconda metà del sec. XVII e che costituisce l’antecedente immediato del Romanticismo. Gli atteggiamenti propri di questo movimento sono quelli che, per l'appunto, possono essere simboleggiati dalle due parole in questione. Si tratta di atteggiamenti irrazionalistici che tro- vano la loro espressione filosofica nelle dottrine di Haman, Herder e Jacobi: le quali prendono atto STURM UND DRANG dei limiti che Kant aveva imposti alla ragione solo per procedere al di là della ragione stessa e far appello all’esperienza mistica o alla fede (v. FEDE, FiLosoFia DELLA). Dallo «S. und Drang» si passa al Romanticismo quando dal concetto kantiano della ragione finita — alla quale si contrappone la fede o il sentimento, cui si attribuisce il potere cono- scitivo più alto — si passa al concetto della ragione infinita o capace di raggiungere l’Infinito, che co- mincia con Fichte: al quale infatti si deve la prima ispirazione del Romanticismo (v.). SUAREZISMO (ingl. Suarezianism; franc. Sua- rezisme). La dottrina dello spagnolo Francisco Suarez (1548-1617) che costituisce la principale ma- nifestazione filosofica della Controriforma cattolica. Essa è costituita sostanzialmente da un deciso e rigoroso ritorno al tomismo: le Disputationes me- taphysicae di Suarez sono un manuale sistematico di metafisica tomistica. Suarez tuttavia fece una concessione importante all’indirizzo della scola- stica del sec. xrv, ammettendo l’individualità del reale cioè riconoscendo che una cosa singola è tale di per se stessa e non per la materia o per la forma o per un qualsiasi altro principio. Si scostò pure dal tomismo nella dottrina politica esposta nel De Le- gibus (1612), asserendo che il potere temporale dei prìncipi deriva soltanto dal popolo; e ciò per privi- legiare di fronte ad esso il potere ecclesiastico, derivante immediatamente da Dio. SUBALTERNAZIONE (lat. Subalternatio ; in- glese Subalternation; franc. Subalternation; ted. Su- balternation). Con questo termine o con quello di opposizione subalterna si indica il rapporto tra la proposizione universale e la proposizione partico- lare corrispondente della stessa qualità; per es., tra « ogni uomo è giusto » e « qualche uomo è giusto è; o tra « nessun uomo è giusto » e « qualche uomo non è giusto ». La proposizione universale si chiama subalternante e quella particolare subalternata (PIETRO Ispano, Summ. Log., 1.14); JunGIuUs, Log. Ham- burgensis, II, 9, 15; B. HERDMANN, Logik, $ 70). Hamilton ha chiamato restrizione la S. (Lectures on Logic, II°, pag. 269) (v. QUADRATO DEGLI oP- POSTI). SUB-CONTRARIA, PROPOSIZIONE (la- tino Propositio sub-contraria; ingl. Sub-contrary Proposition; ted. Subcontràrsatz). Nella logica tra- dizionale si chiamano così, nel loro rapporto reci- proco, la proposizione particolare affermativa e quella particolare negativa: per es., « qualche uomo corre» e «qualche uomo non corre» (cfr., ad es., Pietro Ispano, Summ. Logicales, 1.13) (v. Qua- DRATO DEGLI OPPOSTI). SUBCONTRARIETAÀ (lat. Subcontrarietas; in- glese Subcontrary; franc. Subcontraire; ted. Sub- contràr). Il rapporto di opposizione tra proposizioni SUBLIME 849 particolari. Ad es., « Socrate corre », « Socrate non corre + (Pietro Ispano, Sum. Log., 1.27). Talvolta, il rapporto tra possibile e non necessario (JunGiUS, Logica Hamburgensis, II, 12, 29). SUBCOSCIENTE (ingl. Subconscious; fran- cese Subconscient; ted. Unterbewusst). Lo stesso che inconscio. Alcuni psicologi francesi del secolo scorso hanno cercato di distinguerlo da inconscio conside- randolo come coscienza debole o diminuita (Ribot, Janet, ecc.). Ma la distinzione è apparsa fallace e il termine stesso è caduto in disuso (v. INCONSCIO). SUBLIMAZIONE (ingl. Sublimation; franc. Su- blimation; ted. Sublimierung). Un meccanismo psi- cologico di difesa che consiste nella trasformazione degli impulsi sessuali in attività psichiche superiori e specialmente nella produzione artistica. Il mec- canismo fu così descritto da Freud: « Le eccitazioni eccessive che derivano da sorgenti differenti della sessualità trovano una derivazione e una utilizza- zione in altri domini, in modo che le disposizioni che all’inizio erano pericolose produrranno un aumento apprezzabile nelle attitudini e nelle atti- vità psichiche » (Trois essais sur la théorie de la sexualité, trad. franc., pag. 177). SUBLIME (gr. tyoc; lat. Sublime; ingl. Sublime; franc. Sublime; ted. Erhaben). 1. Una forma lin- guistica, letteraria o artistica che esprima sentimenti o atteggiamenti particolarmente elevati o nobili. In loro, distinzione che non deve mai dimenticare chi si proponga di suscitare pas- sioni » (Inquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful, 1756, MII, 27). Il terrore, il dolore in generale, le situazioni di pericolo sono la causa del S. (Zbid., IV, 5). Come questa causa possa produrre un godimento (poichè il S. è un godimento) è problema che Burke risolve al modo stesso in cui l’aveva risolto Hume, che a sua volta si era ispirato a Fontenelle (Réflexions sur la poé- tique, $ 36): Il godimento deriva dall’esercizio cioè dal movimento, che il dolore e il terrore provocano nell'animo, quando sono liberati dal pericolo reale della distruzione. In questo caso si produce, dice Burke, non un piacere ma « una specie di dilettoso orrore, di tranquroporzionata alle facoltà sensibili dell’uomo (S. matematico) o di una potenza terrificante per queste stesse facoltà (S. dinamico); 2° il sentimento di poter operare il riconoscimento di quella spropor- zione o di quella minaccia, e perciò di essere su- periore all’una o all’altra. «La qualità del senti- mento del sublime, dice Kant, è che esso è, nei confronti di un oggetto, un sentimento di pena, che è rappresentato insieme come finale; il che è possibile perchè la nostra propria impotenza rivela la coscienza di una potenza illimitata dello stesso soggetto e il sentimento può giudicare esteticamente quest’ultima solo attraverso la prima» (Crit. del Giud., $ 27). Kant pertanto definisce il S. come «ciò che piace immediatamente per la sua oppo- sizione all’interesse dei sensi » (/bid., $ 29, Oss. ge- nerale): intendendo con questo che, avvertendo la sproporzione o il pericolo che il S. rappresenta per la sua natura sensibile, l’uomo si rende conto che, per via di questo stesso avvertimento, egli non è schiavo di tale natura ma libero di fronte ad essa. Federico Schiller non fece che esporre e chiarire le idee kantiane dicendo che «si chiama S. un oggetto alla cui rappresentazione la nostra natura fisica sente i propri limiti, nello stesso tempo in cui la nostra natura ragionevole sente la propria superiorità, la sua indipendenza da ogni limite: un oggetto rispetto al quale siamo fisica- mente deboli mentre moralmente ci eleviamo sopra di esso con le idee» (Vom Erhabenen, 1793). Egli distinse il S. superamento delle espressioni, è la sublimità; la quale perciò non consiste, come Kant ritenne, nella pura soggettività del sentimento e nel suo potere di elevarsi alle idee della ragione, ma piuttosto ha il suo fondamento nel significato rappresentativo, per cui si riferisce ad una Sostanza assoluta » (/bid., pag. 484). Hegel pertanto vide nel S. una forma speciale dell’arte e precisamente l’arte simbolica. Al dolore o alla situazione in pericolo, che per l’estetica del *700 costituisce la causa del S., egli sostituì l’inesprimibilità e la maestà della Sostanza infinita. Schopenhauer si limitò invece a riproporre la dottrina tradizionale e ritenne che il S. si ha quando «quegli oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contem- plazione pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere, quale si palesa nella sua oggettività — nel corpo umano — e si oppon- gono ad essa o la minacciano con la loro forza SUBLIMINALE superiore » (Die Welr, I, $ 39). L'ultimo a riesporre il concetto del S. in questi termini è stato Santayana: « La suggestione del terrore ci fa ritirare in noi stessi e qui interviene di rimbalzo la coscienza della sicu- rezza o dell’indifferenza e noi abbiamo quell’emo- zione di distacco e di liberazione nella quale consiste realmente il S. » (The Sense of Beauty, 1896, $ 60). SUBLIMINALE (ingl. Subliminal; franc. Su- bliminal; ted. Subliminal). Lo stesso che inconscio. Il termine fu reso popolare da F. Myers (Human Personality and its Survival of Bodily Death, 1i finale o terminale... Il mondo non si ferma quando la persona che ha avuto S. ha raggiunto il fatto suo nè si ferma egli stesso e la specie di S. che egli ottiene, nonchè il suo atteggiamento rispetto ad esso, è un fattore di ciò che verrà dopo +» (Human Nature and Conduct, pag. 254). SUDDIVISIONE. V. Divisione. SUFFICIENTE, RAGION. V. FONDAMENTO. SUFISMO (ingl. Sufism; franc. Sufisme; ted. Su- fismus). Il misticismo arabo-persiano (cosiddetto dal pelo di cammello di cui era fatto il mantello dei SUICIDIO 851 suoi seguaci) che si sviluppò a partire dal sec. vmi per influsso del cristianesimo e che culminò nel neoplatonismo di Algazali (sec. x1) (cfr. J. A. AR- BERRY, Sufism, 1950). SUGGESTIONE (ingl. Suggestion; franc. Sug- gestion; ted. Suggestiodal corpo. Questo è l’argomento addotto contro il S. da Plotino, il quale dice che «quando si fa violenza al corpo per distaccarlo dall’anima non è il corpo che lascia partire l’anima, ma la passione a decidere, cioè la noia, il dolore o la collera » (Enn., I, 9). Questa è sostanzialmente anche la ragione addotta da Schopenhauer secondo il quale «il S. lungi dall’essere negazione della volontà è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa » perchè « il suicida vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate» (Die Welt, I, $ 69). 3° Perchè è la trasgressione di un dovere verso se stesso, in quanto, come dice Kant, «l’uomo è obbligato alla conservazione della propria vita uni- camente per il fatto che è persona » (Mer. der Sitten, II, parte I, $ 6). 4° Perchè è un atto di viltà. Fichte a questo proposito osservava che esso può essere considerato ugualmente come un atto di coraggio. Se difatti al suicida manca il coraggio di « sopportare una vita divenuta insopportabile », il S. compiuto con fredda meditazione è l’espressione del dominio della ra- gione sulla natura cioè sull’impulso all’autocon- servazione. «In confronto con l’uomo virtuoso, concludeva Fichte, il suicida è un vile; in confronto con il miserabile che si sottomette alla vergogna e alla schiavitù per prolungare per qualche anno il sentimento meschino della sua esistenza, è un eroe » (Sittenlehre, 1798, in Werke, IV, pag. 268). 5° Perchè è ingiusto verso la comunità cui il suicida appartiene. Questa è la ragione addotta da Aristotele (Et. Nic., V, 11, 1138a 9). A questo argomento Hume obiettava che le obbligazioni del- l’uomo e della società sono reciproche: sicchè la morte volontaria non scioglie solo quelle dell’uomo verso la società ma anche quelle della società verso l’uomo (0f Suicide, in Essays, cit., pag. 413). Dall'altro lato i filosofi hanno ritenuto lecito o doveroso il S. in base ai seguenti motivi: 1° Perchè può essere un dovere rinunciarealla vita quando il continuare nella vita renderebbe impossibile adempiere il proprio dovere. Così pen- savano gli Stoici, dei quali Cicerone così espone la dottrina: « Chi ha in maggior numero le cose con- formi a natura ha il dovere di rimanere in vita; chi invece ha o si crede destinato ad avere in maggior numuna meta e un erede, vuole la morte al- l’ora giusta e per la sua meta e per il suo erede» (Also sprach Zarathustra, I, Della libera morte). 3° Perchè può essere la via d'uscita da una situazione insostenibile e il solo modo per salvare la propria dignità e libertà. Da questo punto di vista Hume affermava che « Il S. è in accordo con il nostro interesse e con il dovere verso noi stessi: ciò non può essere messo in dubbio da alcuno il quale riconosca che l’età, la malattia e la disgrazia possono rendere la vita un peso insostenibile e renderla peggiore dell’annichilamento » (Of Suicide, in Essays, cit., pag. 414). Nella filosofia contempo- ranea Jaspers ha addotto lo stesso argomento in favore del S. (Phil., II, pag. 303 sgg.). E Sartre ha scritto: «Se sono mobilitato in una guerra, questa guerra è la mia guerra: essa è a mia immagine ed io la merito. La merito in primo luogo perchè potevo sottrarmici con il S. o con la diserzione: queste possibilità ultime devono sempre esserci presenti quando si tratta di affrontare una situa- zione » (L’érre et le néant, pag. 639). SUI GENERIS. Espressione usata in frasi sco- lastiche come questa: « Ogni cosa è misurata da qualcosa che è del suo genere»: per es., la lun- ghezza dalla lunghezza, il numero dal numero, ecc. La frase può essere assunta come premessa per affermare che, dal momento che Dio è la misura di tutte le sostanze, egli è nel genere delle sostanze. Ma la dottrina scolastica su questo punto è, al contrario, che Dio non è in alcun genere per quanto sia principio del genere delle sostanze e di tutti gli altri generi (cfr. S. TomMAso, S. Th., I, q. 3, a. 5; Contra Gent., I, 25). SUMMA. Con questo termine si cominciò ad indicare nel sec. xIl una breve trattazione sistema- tica di un certo complesso di conoscenze. Abelardo scriveva nella prefazione alla sua Introduzione alla teologia: «Ho scritto una summa della sacra eru- dizione, come introduzione alla divina scrittura » (P. L., 68°, col. 979). Le S. prendevano abitual- mente il titolo dalla materia trattata (S. de vitiis et virtutibus; S. de articulis fidei; S. sermonum; S.gram- maticalis; S. logicalis; ecc.). A partire dal 1200 circa, il termine cominciò a essere preferito a quello di Sententiae nel titolo delle esposizioni sistematiche della teologia. L’opera di Pietro da Capua (com- posta verso il 1200) porta già nei manoscritti il titolo di Summa. Nelle grandi opere sistematiche del xm secolo il termine S. è usato quasi esclusiva- mente (cfr. M. GRABMANN, Geschichte der scho- lastischen Methode, II, pag. 23 sgg.). SUNNITI (ingl. Sunnites; franc. Sunnite; te- desco Sunniten). La corrente ortodossa dell’Islam la quale ammette la validità di credenze pratiche non prescritte dal Corano ma di cui si fa risalire l'origine allo stesso Maometto. Gli Sciiti sono in- vece i negatori del valore della tradizione. SUPERADDITA, FORMA. Questa espres- sione venne desunta da Telesio dagli scolastici di ispirazione scotistica per designare l’anima sopran- naturale, direttamente infusa nell'uomo da Dio, che Telesio ammise accanto all’anima naturale e mate- riale, come soggetto della vita religiosa e della aspira- zione dell’uomo verso ciò che è al di là della natura. A differenza dell’anima naturale, la forma S. non sa- rebbe soggetta alla corruzione (De rer. nat., V, 3). SUPERANIMA (ingl. Oversoul). Così R. W. Emerson chiamò Dio, concepito come il principio immanente nel mondo e nell’uomo (Narure, 1836). SUI GENERIS SUPERARE (ingl. 7o Sublate; franc. Dépasser; ted. Aufheben). Termine adoperato da Hegel per indicare il procedimento della dialettica che nello stesso tempo conserva e abolisce ciascuno dei suoi momenti. «La parola S., diceva Hegel, ha nella lingua un duplice senso per cui significa da un lato conservare, ritenere e dall’altro far cessare, metter fine. Il conservare racchiude già in sè il negativo, che qualcosa sia tolto alla sua imme- diatezza e quindi da un'esistenza aperta agli in- flussi estranei, al fine di ritenerlo. Così il superato è insieme un conservato il quale ha perduto sol- tanto la sua immediatezza ma non perciò è annul- lato » (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, nota; trad. ital., pag. 105-06). Per quanto Hegel, nello stesso passo avvicini il significato del termine tedesco al latino fo/lere, l’uso italiano ha sancito l’equivalenza del termine con superare. Superamento significa di conseguenza un progresso che ha conservato ciò che c’era di vero nei momenti precedenti e lo ha portato alla completezza. Come esempio del concetto, si può addurre quello che Hegel dice del superamento nel dominio della filo- sofia. «Ogni filosofia è stata necessaria e tale è ancora; nessuna quindi è scomparsa anzi tutte sono conservate affermativamente nella filosofia come momenti di un tutto: i princìpi si conser- vano e la filosofia più recente è il risultato di tutti i princìpi precedenti: in tal senso nessuna filosofia è stata confutata. Ciò che è stato confutato, non è il principio di una data filosofia ma solo la pretesa che essa rappresenti la conclusione ultima, asso- luta » (Geschichte der Philosophie, I, Intr., A, 3, Db). È un termine di cui ha fatto uso ed abuso la ter- minologia dell’idealismo italiano tra le due guerre. SUPERBIA (gr. xxuvérng; lat. Superbia; inglese Pride; franc. Orgueil; ted. Hochmuth). Il vizio corrispondente alla virtù della magnanimità (v.) e che ha come estremo opposto la pusillanimità, nell’etica di Aristotele. Dice Aristotele: «I superbi sono stolti perchè s’ingannano su se stessi: intra- prendono imprese onorevoli credendo d’esserne degni ma fanno così solo risultare la loro insuffi- cienza » (Er. Nic., IV, 3, 1125 a 27). Questa defi- nizione è rimasta ferma nella tradizione e molte volte ripetuta. Diceva Spinoza: « La S. è una gioia originata dal fatto che l’uomo sente di sè più del giusto » (Zbid., III, 26, Scol.). SUPERCOSCIENZA (franc. Supraconscience). Termine adoperato da Bergson per indicare una « pura attività creatrice» o una « pura coscienza », quale egli esclude che sia la vita (Évol. Créarr., 8 ediz., 1911, pag. 267, 283, ecc.). SUPsenziale » (De divinis nominibus, II, in P. L., 122°, col. 1122); e Scoto Eriugena il termine su- peressentia (De divis. nat., I, 14). E il termine ri- corre ancora nella tradizione mistica e teosofica. Maestro Eckhart parla di Dio come di «una es- senza superessenziale e un nulla S.» (Deutsche Mystiker des XIV Jahrhunderts, ed. Pfeiffer, II, pag. 318-19). E la stessa qualifica ricorre in Schelling (Werke, I, X, pag. 260) (v. TEOLOGIA; TRASCEN- DENZA). SUPERIORE (lat. Superius; ingl. Superior; franc. Supérieur; ted. Hòher). 1. In senso logico: più esteso, che ha maggiore estensione o denota- zione. In questo senso si dice « genere S. » o « con- cetto S.» o in generale «termine S.+. Quest’uso rimonta alla logica terministica del sec. xrv (PIETRO Ispano, Summ. log., 2.08; 3.02; 12.13; cfr. PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 49). 2. Ciò che appartiene a una fase più progre- dita dell’evoluzione biologica: in tal senso si dice «le specie S.» o «gli animali superiori ». 3. Ciò che appartiene alla sfera delle funzioni spirituali o simboliche dell’uomo. In tal senso si dice « funzioni S.» o «interessi superiori ». 4. Ciò che in un senso qualsiasi si ritiene abbia un grado più alto di dignità o di valore, ad esempio «uomo S.» o « forme d’arte superiori ». SUPERORGANICO (ingl. Superorganic; fran- cese Superorganique; ted. Ùberorganisch). Termine introdotto dal positivismo per indicare ciò che è al di là della vita organica cioè la vita psichica o la vita sociale e specialmente quest’ultima. Il ter- mine è usato frequentemente da Spencer. SUPERSTIZIONE (gr. Sera:daruovia; latino Superstitio; ingl. Superstition; franc. Superstition; ted. Aberglaube). L’eccesso o le aberrazioni della religione; oppure la forma di religione che non si condivide. Nel primo senso, la S. fu definita da Cicerone: « Non solo i filosofi ma anche i nostri antenati distinsero la S. dalla religione: quelli che per intere giornate pregavano e immolavano vit- time per ottenere che i loro figli fossero ‘super- stiti” furono chiamati superstiziosi e tale nome 853 ebbe poi più vasta estensione» (De nat. deor. II, 28, 71-72). Questa definizione fu sostanzialmente ripetuta da S. Tommaso: « La S. è il vizio opposto per eccesso alla religione e per il quale si presta un culto divino a chi non si deve 0 nel modo in- debito » (S. 7A., II, 2, q. 93, a. 1). Nel secondo senso definiva la S. Hobbes affermando: «Il ti- more di potenze invisibili, se immaginate dallo spirito o suggerite da racconti pubblicamente am- , è religione; se suggerite da racconti non pubblicamente ammessi, è S.» (Leviath., I, 6). Ovviamente S. è termine polemico: per lo studio obiettivo (antropologico o sociologico) delle cre- denze non ci sono superstizioni. E quando si parla di S., lo si fa in riferimento a un determato si- stema di credenze religiose che si ritiene come l’unico vero. Perciò ogni religione appare come S. ai seguaci di una religione diversa; e l’unica de- scrizione esatta del termine è quella data da Hobbes. SUPERUOMO (gr. srepdvipwros; ingl. Su perman; franc. Surhomme; ted. Ùbermensch). Il termine che ricorre in Luciano (Cataplus, 16) e fu usato talora per indicare l’uomo-Dio cioè il Cristo (cfr. T. Tasso, Lettere, V, 6) era adoperato già dall’Ariosto (Or/. Fur., 38, 62) per indicare un’umanità fuori del comune. Fu introdotto in Germania da Heinrich Miiller (Geistliche Erbauungs- stunden, 1664-66) e adoperato da molti scrittori del Romanticismo tedesco, compreso Goethe (Faust, I, Notte). Ma soltanto da Nietzsche il termine ebbe un significato filosofico e fu reso popolare. Il S. è l’incarnazione della volontà di potenza: «L’uomo dev'essere superato. Il S. è il senso della terra... L'uomo è una corda tesa tra la bestia e il S., una corda sull’abisso » (A/so sprach Zara» thustra, I, 3). Il S. è l’incarnazione dei vil si- gnificato denotativo dei termini che ricorrono nella proposizione, mentre il significato in senso stretto è il significato connotativo (v. SigNIFICATO). La S. è in questo senso definita come una positio pro alio, uno stare per o in luogo di qualche altra cosa: nel senso che quando si dice, ad es., «l’uomo corre» il termine «uomo» sta per Socrate, per Platone o per qualche altro (PIETRO IspanO, Summ. Log., 6.03; OckHam, Summa Log. I, 63; Buri- pANO, Sophismata, 3; ALBERTO DI SASSONIA, Lo- gica, II, 1). Salvo che in alcuni particolari, la dottrina della suppositio si presenta pressochè uniforme in tutti i logici del sec. xrv. Essi distin- guevano tre specie fondamentali di essa: la S. personale, la S. semplice e la S. materiale. La Spersonale si ha quando il termine sta per l’oggetto significato qualunque esso sia: o cosa esterna o parola o concetto o segno scritto o altro. Così nelle frasi «l’uomo è un animale», «il nome è parte della proposizione », «la specie è un univer- sale » i termini uomo, nome e specie hanno una S. personale perchè stanno per i rispettivi oggetti. La S. semplice si ha quando il termine sta in luogo, non dell’oggetto significato ma del concetto di esso. Così quando si dice « l’uomo è una specie » il ter- mine uomo non sta per gli uomini ma per il con- cetto « uomo ». Infine la S. materiale si ha quando un termine sta per la voce o per il segno scritto come nelle frasi «uomo è un nome» o « sta scritto uomo » in cui l’uomo sta per la parola o per il segno scritto. Ognuno di questi tipi di S. viene poi dai logici del x1v secolo diversamente suddiviso e trattato nelle difficoltà e nei problemi che offre. Per dare un’idea di tali problemi, ecco il modo in cui Ockham affronta la difficoltà presentata dalla S. del termine «uomo» nella proposizione «l’uomo è la più alta delle creature». Qui il ter- mine uomo non può avere una S. semplice perchè non è il concetto uomo ad essere la più alta delle creature; ma neppure una S. personale perchè so- stituendo a « uomo » un singolo uomo il giudizio risulta falso. La soluzione è che la proposizione ha una S. personale ma che dev'essere limitata dicendo che l’uomo è la più alta di tutte le crea- ture che sono diverse da lui: in questo caso la pro- posizione diviene vera dei singoli individui umani (Summa Log., I, 66). La dottrina della S. fu abbandonata quando la logica terministica fu abbandonata in favore della logica mentalistica sotto l’influenza del cartesia- nesimo. I problemi da essa trattati vennero eredi- tati dalla teoria del concetto (cfr. E. ARrNnOLD, Zur Geschichte der Suppositionstheorie, in Sym- posion, II, 1954; E. A. Moopy, Truth and Conse- quence in Mediaeval Logic, 1953). SURRETTIZIO (lat. Surreptitius; ingl. Sur- reptitious, franc. Subreptice; ted. Erschlichen). Propriamente, nel significato latino del termine, ciò che si possiede, si acquista o si fa, clandesti- namente o senza averne diritto. In filosofia, il ter- SURRETTIZIO mine viene specialmente usato per indicare un presupposto o un'ipotesi di cui si fa uso in un ragionamento senza esplicitamente assumerlo o dichiararlo. In questo senso, Kant chiamò surre- zioni delle sensazioni (« Subreptione der Empfin- dungen », Crit. R. Pura, $ 6) le qualità sensibili che, sulla base delle sensazioni, si attribuiscono agli oggetti empirici. SUSSISTERE (lat. Subsistere; ingl. To Subsist; franc. Subsister; ted. Subsistiren). Esistere come sostanza; o esistere indipendentemente dallo spi- rito o dal soggetto pensante. Nel primo senso il termine (che nell’ordinario uso latino significa per- sistere o durare) fu introdotto da Boezio (Phil. Cons., III, 11) e conformemente usato nella tra- dizione scolastica (Gn_.BERTO DE LA PORRÉ, /n Boethi De Trinitate, P. L. 64°, 1281; S. ToMMaso, S. Th., I, q. 29, a. 2). Ricorre nello stesso al modo d’essere degli universali e dai Neorealisti americani a tutte le entità neutre, costituenti il mondo, che con la loro aggregazione possono formare sia la coscienza sia le cose (The New Rea- lism, 1912). Questo secondo significato è tuttora abbastanza diffuso nella filosofia contemporanea. SUSSUNZIONE (lat. Subsumptio; ingl. Sub- sumption; franc. Subsumption; ted. Subsumption). Propriamente, l’assunzione della premessa minore del sillogismo; la quale fu detta da Hamilton hypolemma per riservare il termine /emma (v.) alla premessa maggiore (Lectures on Logic, I?, pag. 283; cfr. WOLFF, Log., $ 362). Kant parlò della «S. di un oggetto sotto un concetto » (Cris. R. Pura, Anal. dei Princ., cap. I); e nello stesso senso Husserl osservava che « la S. di un individuo, in genere di un questo qui, sotto un'essenza, non è da confondere con la subordinazione di un’es- senza ad una specie o ad un genere superiori» (Ideen, I, $ 13). SVILUPPO (ingl. Development; franc. Dévelop- pement; ted. Entwicklung). Il movimento verso il SYNKATATHESIS meglio. Per quanto questa nozione abbia il suo precedente nel concetto aristotelico del movi- mento (v.) come passaggio dalla potenza all’atto o esplicazione di ciò che è implicito (CICERONE, Top., 9) il suo significato ottimistico è proprio della filosofia dell’800 ed è strettamente collegato con il concetto di progresso (v.). Il suo stretto sinonimo è evoluzione (v.); ma quest’ultimo ter- mine è più frequentemente usato per indicare lo S. biologico o uno S. cosmico che trae le sue ra- gioni o le sue analogie dallo S. biologico. Senza riferimento a questo particolare aspetto, il termine fu usato da Hegel che ne fece una delle categorie fondamentali della sua filosofia e lo illustrò soprat- tutto rispetto al mondo della storia. Accanto al carattere progressivo dello S., Hegel sottolineò un altro carattere fondamentale: lo S. pre- suppone ciò di cui è S., cioè il fine verso cui muove e il principio o la causa di sè stesso. «Lo spirito, disse Hegel, che ha come teatro, do- minio e campo della sua realizzazione, la storia del mondo, non si aggira nel gioco estrinseco del caso, ma è piuttosto in sè il determinante asso- luto... Ciò che esso vuole è raggiungere il suo proprio concetto; ma esso stesso se lo oscura, si inorgoglilla funzione del T. è do- vuta a A. R. Radcliffe-Brown che ha scorto in esso uno strumento per sottolineare la importanza sociale di eventi, operazioni, divieti, norme, ecc. Il T. è in questo senso collegato a qualsiasi prescrizione rituale (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VII). Freud ha avvi- cinato il T. alla nevrosi ossessiva e ha visto tra le due cose quattro punti di somiglianza e cioè: 1° la mancanza di motivazione dei divieti; 2° la loro convalidazione mediante una necessità inte- riore; 3° la spostabilità e la contagiosità degli oggetti proibiti; 4° la creazione di pratiche cerimo- niali e comandamenti derivanti dai divieti (Totem e T., 1913, cap. II; trad. ital., pag. 37). TABULA RASA (gr. rivat dypaghe). Espres- sione con cu(PLUTARCO, Plac., IV, 11; cfr. GaLeNO, Hist. Philos., 92; SESTO EMPIRICO, Adv. Math., VII, 228). Lo stesso confronto si trova poi ripetuto frequentemente (FILONE, Leg. Alleg., I, 32; Boezio, Cons. Phil., V, 4; ecc.). Ma l’espres- sione « tavoletta non scritta » si trova per la prima volta adoperata dal commentatore di Aristotele Alessandro di Afrodisia (circa il 200 a. C.); e nel Medio Evo fu usata da S. Tommaso (De An., a. 8, resp.; S. Th., I, q. 89, a. 1, ad 3°). L’immagine fu fatta propria da Locke per espri- mere la tesi dell’origine empirica di tutta la cono- scenza (Saggio, II, 1, 2) ed usata da Leibniz nella sua critica a questa tesi di Locke (Nouv. Ess., II, 1, 2). Da allora in poi l’espressione è rimasta a indicare la tesi empiristica sull’origi25, 14-30) è quello di « una superio- rità del potere conoscitivo, che non dipende dal- l'insegnamento ma dalla disposizione naturale del soggetto ». Questa è la definizione che dà del T. TAUTOLOGIA Kant (Antr., I, $ 54): il quale distingue anche i T. in ingegno produttivo, sagacia e originalità: quest’ultimo è il genio. Questa dottrina kantiana è stata spesso ripetuta con poche varianti e si conserva nella stessa psicologia moderna, la quale tuttavia accentua l’importanza dei cosiddetti T. specifici. ‘TALMUD. Il termine che significa in ebraico «insegnamento » designa la raccolta enciclopedica in aramaico della tradizione giudaica, compilata durante ottocento anni (dal 300 a. C. al 500 d. C.) in Palestina e in Babilonia. L’opera non è un semplice commentario del Vecchio Testamento ma il sommario della filosofia, della teologia, della storia, dell'etica e del folklore giudaico, accumu- lato durante otto secoli. Il 7. è composto di due parti principali: il Mishnah compilato in Palestina e il Gemara che è un commentario del primo. Il Gemara compilato in Palestina è chiamato in- sieme con il Mishnah, T. di Gerusalemme; mentre il Gemara compilato in Babilonia è chiamato, in- sieme con lo stesso Mishneh, T. di Babilonia (cfr. H. L. STRACK-P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, Mo- naco, 1922-28). TANATISMO (ingl. Thanatism; ted. Thana- tismus). Termine creato da E. Haeckel per designare la sua dottrina della mortalità dell'anima, in op- izione ad atanatismo (v.). TAOISMO (ingl. Taoism; franc. Taoisme; te- desco Taoismus). La dottrina di Lao-Tse (vissuto in Cina probabilmente nel vi secolo a. C.) e al quale si attribuisce il Tao Té Ching cioè il Libro della via e della virtà. Di fronte al carattere razio- nalistico, mondano e pratico dell’insegnamento di Confucio, sta il carattere mistico, religioso e con- templativo dell’insegnamento di Lao-Tse; nel quale sono rintracciabili tracce del panteismo metafisico delle Upanishad. I due punti principali del T. sono: il monismo panteistico per cui il tao che è la via per la salvezza è anche il principio unico dell’uni- verso, di cui ogni altra cosa è manifestazione; l’etica del mon fare cioè l’abbandono all’azione immanente del principio cosmico e la rinuncia a interferire con esso o a ostacolarlo. La traduzione italiana del Tao Té Ching è stata fatta da A. Castellani con il titolo La regola celeste di Lao-Tse (Firenze, 1927) (cfr. A. WALEY, The Way and Its Power, 1934). TASSONOMIA (ingl. Taxonomy; franc. Taxi- nomie; ted. Taxinomie). La teoria della classificazione nelle scienze naturali. Termine coniato e adoperato nel sec. xix. Sono chiamate tassonomiche la bo- tanica e la storia naturale. TATTO (ingl. Tact; franc. Tact; ted. Tact). I. Uno dei cinque sensi: che Condillac chiamava «sentimento fondamentale» in quanto esso è « il sentimento che la statua (v.) ha dell’azione reciproca delle parti del corpo e specialmente dei movimenti della respirazione » (Traité des sensations, II, 1). Il T. è anche, secondo Condillac, il senso da cui deriva la nozione del mondo esterno (/bid., II, 8, 30 sgg.). 2. Sapienza di mondo o esprit de finesse, come nelle frasi «aver T.» o «procedere con T.»1 o « parlare con T.+, ecc. TAT TWAM ASI. Una delle norme fondamen- tali della filosofia della Upanishad che significa alla lettera « questo sei tu» e prescrive a ogni uomo di riconoscersi identico nel suo principio (o diman) con qualsiasi essere o cosa che gli stia davanti: essendo il principio universale o Brakman identico in tutti. La locuzione indiana ricorre specialmente nella Chandogya-Upanishad (VI, 8, 7 sgg.). TAUTOLOGIA (ingl. Tautology; franc. Tauto- logie; ted. Tautologie). Nella terminologia filosofica tradizionale, T. significava genericamente un di- scorso (in particolare, una definizione) vizioso in quanto inutile, perchè ripetente nella conseguenza, o nel predicato o nel definiens, il concetto già contenuto nel primo membro: «M. de la Palisse un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita ». Solo nell’Algebra della Logica il termine « T. » acquista un significato tecnico, in quanto si intro- ducono con il nome di /egge di T. i teoremi (1) ava=a, (2) ana=a[(1) l’affermazione di- sgiuntiva di una medesima proposizione p con se stessa equivale alla semplice affermazione di p; la somma di una classe « con se stessa è uguale alla semplice classe «; (2) l’affermazione congiun- tiva di una medesima proposizione p con se stessa equivale alla semplice affermazione di p; l’interfe- renza di una classe « con se stessa è uguale all’in- tera e semplice classe «]. Accanto a questa legge i Principia Mathematica di Whitehead e Russell introducono un principio di T.: pvp.> p. ll’af- fermazione disgiuntiva di una medesima proposi- zione p con se stessa implica materialmente la stessa p: «se p O p, p*). In Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus, 1922, 4.46) il concetto di T. acquista una notevole importanza, venendo a de- signare una proposizione molecolare (funzionale) il cui valore-verità è « vero » qualunque siano i valori- verità delle proposizioni atomiche (variabili propo- sizionali) che la compongono; per es., «pv — p* [« piove o non piove»). Wittgenstein, seguito a malincuore da Russell, giungerà a stabilire che le matematiche pure (ivi compresa la Logica) constte di norme morali o giuridiche (la legge delle XII tavole, le T. di Mosè). Bacone chiamò T. le coordinazioni delle istanze cioè dei particolari aspetti di un fe- nomeno (Nov. Org., II, 10) e distinse le T. di presenza, le T. di assenza, le T. dei gradi o com- parative e infine le T. esclusive (/bid., II, 11-13). Da Kant in poi si parla della « T. delle categorie » (v. CATEGORIA). TAVOLE DI VERITÀ (ingl. Truth tables; franc. Tables de verité; ted. Wahrheitsmòglichkeiten). Le T. costruite con il metodo delle matrici (v.) che consente l’enumerazione completa delle possibilità di verità per un certo numero di proposizioni sem- plici e così di riconoscere se una proposizione è vera nel dominio del calcolo delle proposizioni. Tali T. sono costruite con i simb«e» è valida solo nel caso che entrambe le proposizioni sono vere come quando si dice « Piove e c'è umido».TAVOLA La disgiunzione si ha quando tra due proposi- zioni si inserisce la parola «0?, rappresentata dal simbolo V, e può avere nella lingua corrente due significati: un significato inclusivo (per il quale «0» è in latino ve/) come quando si dice «Si può an- dare a Roma o per questa o per quella strada », per il quale almeno una delle due proposizioni è vera; e un significato esclusivo (per il quale «0» è in latino ant) come quando si dice proponendo un’alternativa « Si va a Roma o a Parigi » nel qual caso almeno una delle proposizioni è vera e al- meno una è falsa. La T. di verità della disgiunzione in generale è la seguente: p_l 4a | pVqa V V V V F V F V V F F F la quale fornisce il criterio più generale per la validità di una disgiunzione qualsiasi. Per la T. di verità del rapporto condizionale, espresso mediante il connettivo se... allora e dal simbolo >, vedi i termini IMPLICAZIONE e CONDI- ZIONALE. Sulla base di queste T. se ne possono costituire altre più complesse, come la seguente che dà i valori di verità delle combinazioni condizionali pos- sibili tra le proposizioni condizionali e le disgiuntive (cfr. TARSKy, /ntr. to Logic, $ 3): cioè per la fun- zione (p V g)= (p.r), dove p, qg, r stanno per proposizioni qualsiasi: |p>q|p.9|(.d=>p>N mg? è una proposizione falsa; unendo insieme «(p=> g)=> (p= r)» si ottiene un’implicazione in cui l’antecedente è vero e il conseguente è falso e che, in base alla T. delle implicazioni, è falsa. L’uso delle T. può essere ed esteso e complicato quanto si vuole per tutti i teoremi del calcolo delle proposizioni. Come già dalla T. dell’implicazione materiale, derivano dalle altre T. conseguenze che TECNICA appaiono paradossali dal punto di vista del lin- guaggio corrente: tra esse le seguenti: se g è vero, allora g segue da qualsiasi p; 0, in altri termini, una proposizione vera segue da qualsiasi altra proposizione; se p è falso, allora p implica un qualsiasi g; o, in altri termini, una proposizione falsa implica nua qualsiasi altra proposizione; quali che siano peg, o p implica g o q im- plica p; in altri termini: almeno una di due pro- posizioni qualsiasi implica l’altra. Queste conclusioni derivano dalle T. di verità, e soprattutto da quella dell’implicazione, che costi- tuiscono la semplificazione e generalizzazione degli usi correnti nel linguaggio comune e nelle discipline scientifiche (al di fuori della matematica) dove le relazioni puramente logiche tra le proposizioni sono sottoposte ad altre condizioni più restrittive. Esse tuttavia continuano a dar luogo tra gli stessi logici a discussioni che alcuni di essi (come Tarsky) ri- tengono oziose. Come si è detto nell’articolo IMPLICAZIONE, la scuola stoico-megarica, soprattutto per opera di Filone, ha dato per la prima volta la T. dell’im- plicazione materiale. Nella logica moderna l’idea della T. è stata ripresa da Boole (Marhematical Analysis of Logic, 1847), da Frege (Begriffsschrift, 1879) e da Peirce (1885: cfr. Coll. Pap., 3.370 sgg.) ed è stata diffusa da Wittgenstein (Tractatus Logico- Philosophicus, 1921, 4.31). TEANDRICO (ingl. Theandric; franc. Théan- drique). Termine della teologia cristiana: che si riferisce all'unione della natura umana e della natura divina nella persona del Cristo. TEANTROPISMO (ingl. Theantrophism; fran- cese Théantropisme; ted. Theantropismus). 1. La dot- trina dell’unione della natura divina e dell’umana nella persona di Cristo. 2. Lo stesso che antropomorfismo (v.). TECNICA (ingl. Techric; franc. Technique; ted. Technik). Il senso generale del termine coincide con quello generale di arre (v.): comprende ogni insieme di regole adatte a dirigere efficacemente un’attività qualsiasi. La T. in questo senso non si distingue nè dall’arte nè dalla scienza nè da qualsiasi procedimento o operazione adatto a raggiungere un effetto qualsiasi; e il suo campo si estende quanto quello di tutte le attività umane. Bisogna tuttavia avvertire che a questo senso del termine, che è assai antico e generale, fa eccezione il signi- ficato ad esso attribuito da Kant: che parlò di una T. della natura per indicare la causalità di essa (Crit. del Giud., $ 72); ma negò che la filo- sofia e specialmente la filosofia pratica potesse avere una T. perchè essa non può contare su una causalità necessaria (Mer. der Sitten, Intr., $ ID. Il 859 presupposto di questo significato è tuttavia la ridu- zione della T. a procedimento causale, laddove per T. è stato inteso (ed è meglio intendere) un proce- dimento qualsiasi, regolato da norme e provvisto di una certa efficacia. In questa sfera di significato generalissimo rien- trano pertanto i procedimenti più disparati che pos- sono tuttavia dividersi, grosso modo, in due campi diversi: 4) quello delle T. razionali che sono re- lativamente indipendenti da particolari sistemi di credenze, perciò possono condurre a modificare tali sistemi e sono esse stesse autocorreggibili; B) quello delle T. magiche e religiose che possono essere messe in opera solo sulla base di particolari sistemi di credenze e perciò non possono riuscire a modificarli e si presentano esse stesse non cor- reggibili o immodificabili. Queste T. costituiscono uno dei due elementi fondamentali di ogni religione e possono essere designate con il nome generico di riti (v.). Le T. razionali possono essere a loro volta di- stinte in: 1° T. simboliche (conoscitive o estetiche) che sono quelle della scienza e delle arti belle; 2° T. di comportamento cioè morali, politiche, economiche, ecc.; 3° T. di produzione. 1° Le T. conoscitive e artistiche possono essere chiamate T. simboliche perchè consistono essenzial- mente nell’uso dei segni. Esse si distinguono dai metodi (v.) che sono, strettamente parlando, indi- cazioni generali sul carattere delle T. da seguire. Le T. simboliche possono essere T. di spiegazione, T. di previsione, o T. di comunicazione: ma queste distinzioni non sono mutuamente esclusive. 2° Le T. di comportamento dell’uomo rispetto all’altro uomo coprono un campo estesissimo che comprende zone disparate: vanno dalle T. erotiche a quelle della propaganda, dalle T. economiche a quelle morali, dalle T. giuridiche a quelle educa- tive, ecc. In questo gruppo possono anche essere comprese le T. organizzative dirette a cercare le condizioni per realizzare il rendimento massimo con il minimo sforzo in tutti i domini dell'attività umana. Di queste T. si occupa la recronica (v.) o prassio- logia (v.). 3° Il terzo gruppo di T. è quello che concerne il comportamento dell’uomo nei confronti della na- tura e che è diretto alla produzione dei beni. La T. in questo senso ha sempre accompagnato la vita dell’uomo su questa terra essendo l’uomo, come già notava Platone (Pror., 321 c) l’animale che la matura ha lasciato più sprovveduto ed inerme in tutta la creazione. Un certo grado di sviluppo T. è pertanto indispensabile alla soprav- vivenza di qualsiasi gruppo umano; e la sopravvi- venza e il benessere di sempre più larghi gruppi umani sono condizionate dallo sviluppo dei mezzi 860 tecnici. Tra i filosofi, Francesco Bacone fu il primo a riconoscere, agli inizi del sec. xvn, questa verità. Bacone concepì l’intera scienza come operante in vista del benessere dell’uomo e diretta a produrre, in ultima analisi, ritrovati che rendessero più facile la vita dell’uomo sulla terra. Quando nella Nuova Atlantide volle dare l’immagine di una città ideale, non si fermò a vagheggiare forme perfette di vita sociale o politica ma immaginò un paradiso della T. dove fossero portati a compimento le invenzioni e i ritrovati di tutto il mondo. Il sansimonismo (v.) e il positivismo (v.) dell’800 hanno condiviso l’esal- tazione baconiana della tecnica. Solo a partire dalla fine del secolo scorso e nei primi decenni del nostro secolo, ha cominciato a delinearsi quello che oggi si chiama il problema della T.: cioè il problema fatto nascere dalle conseguenze che lo sviluppo della T. del mondo moderno produce nella vita singola e associata dell’uomo. Il con- trasto tra l’uomo e la T. è stato prima della se- conda guerra mondiale, il tema preferito della let- teratura profetizzante. I profeti della decadenza e della morte della civiltà dell’Occidente (per es., O. SPENGLER, Der Mensch und die Technik, 1931), i difensori della spiritualità pura (per es., D. RoPs, Le monde sans dime, 1932) avevano già additato nella macchina la causa diretta o indiretta della decadenza spirituale dell’uomo. Il mondo in cui domina la macchina è, secondo queste diagnosi, un mondo senz'anima, livellatore, mortificante: un mondo nel quale la quantità ha preso il posto della qualità e in cui il culto dei valori dello spi- rito è stato sostituito dal culto dei valori stru- mentali e utilitari. Dopo la fine della seconda guerra mondiale queste accuse sono state ribadite ed am- pliate. Esse sono presenti in tutta l’opera di Albert Camus (cfr., ad es., Ni bourreaux ni victimes, 1946). Altri hanno visto il male del macchinismo nello « sradicamento » che esso produce nell’uomo (S. WEIL, L’Enracinement, 1948). Altri ancora coin- volgono, nella condanna della T., la « ragione » che ne sarebbe il principio o accarezzano l’utopia di un ritorno alla produzione artigianale (M. DE CORTE, Essai sur la fin d’une civilisation, 1949; L. Du- PLESSY, La machine ou l’homme, 1949). Dall’altra parte, a partire dall'opera di HussERL, La crisi delle scienze europee (1954) la T. e la scienza su di cui essa si fonda sono state spesso considerate come una degradazione o un tradimento della Ra- gione autentica perchè asserviscono la ragione a scopi utilitari mentre il suo vero compito è la conoscenza disinteressata dell’essere, cioè la contem- plazione. Questo concetto rimane la base di tutte le critiche che sono rivolte alla società contemporanea in quanto fondata sulla T. e ritenuta dominata dalla tecnocrazia: per esse quindi vedi quest’ultima voce. TECNICA Ma esiste oggi una vasta letteratura che, pur senza muovere da una pregiudiziale metafisica, ideologica o teologica contro la T., ne mette in luce gli aspetti negativi, che possono riassumersi nei punti seguenti: 1° Lo sfruttamento intensivo delle risorse na- turali al di là del limite del loro spontaneo ripristino e quindi il rapido e progressivo impoverimento di tali risorse. 2° L'inquinamento dell’acqua e dell’aria, do- vuto agli scarichi industriali, al moltiplicarsi dei mezzi meccanici di trasporto e all’addensarsi della popolazione. 3° La distruzione del paesaggio naturale e dei monumenti storici e artistici, dovuta al moltiplicarsi degli impianti industriali e all’estensione indiscri- minata dei centri abitati. 4° L’assoggettamento del lavoro umano alle esigenze dell'automazione, che tende a fare del- l’uomo un accessorio della macchina. 5° L’incapacità della T. di venire incontro ai bisogni estetici, affettivi e morali dell'uomo; quindi la sua tendenza a favorire o determinare l’isola- mento degli individui e la loro incomunicabilità reciproca. Nei confronti dei primi tre fattori negativi si può ricorrere a una controtecnica che è essa stessa una T. (o un insieme di T.) diretta a controbilanciare o a correggere gli effetti devastatori della T.: con- trotecnica che è già fornita di mezzi potenti e che può diminuire, se non controbilanciare, gli effetti di quella devastazione. Gli aspetti 4° e 5° concer- nono invece il piano umano, morale e politico e vengono solitamente ritenuti come costituenti il fenomeno dell’alienazione (v.). La T., sia nelle sue forme primitive sia in quelle raffinate e complesse che ha assunto nella società contemporanea, è uno strumento indispensabile per la sopravvivenza dell’uomo. Il suo processo di sviluppo appare irreversibile perchè solo ad esso rimane affidata la possibilità della sopravvivenza del numero sempre crescente degli esseri umani e il loro accesso a un più alto tenore di vita. Anche la differenza tra la T. e la scienza, sulla quale talvolta si continua ad insistere, sembra ridursi o sfumare dal punto di vista dei compiti che si at- tribuiscono oggi alla scienza (v.). L’unico rimedio ai reali pericoli della T. sembra oggi, non la ri- nuncia alla T. stessa, ma il suo rafforzamento e il suo sviluppo in tutti i campi: cioè da un lato la ricerca di nuovi strumenti che, oltre al con- trollo della natura, ne assicurino la salvaguardia; e dall’altro la ricerca di nuove T. di comporta- mento interumano che possano controllare e cor- reggere gli effetti maligni delle T. produttive sul- l’uomo. E la sola speranza ragionevole che questo TEISMO possa accadere è fondata sul fatto che la stessa T. produttiva esige, in sempre maggior misura, da parte, dell’uomo, quelle capacità di iniziativa, di immaginazione creativa e di solidarietà interumana che il sistema tecnologico sembra minacciare. TECNICISMO (ingl. Technicism; ted. Techni- zismus). 1. Lo stesso che tecnica. Kant adopera il termine per indicare la tecnica della natura cioè il meccanismo (Crit. del Giud., $ 78). 2. L'uso di parole o frasi appartenenti a un linguaggio tecnico o una parola o frase apparte- nente a tale linguaggio. TECNOCRAZIA (ingl. Technocracy; francese Technocratie; ted. Technokratie). L'uso della tecnica come strumento di potere da parte di dirigenti economici, capi militari, uomini politici, per la di- fesa dei loro interessi, ritenuti concordanti o uni- ficati e il controllo della società intera. Questo è almeno il concetto di T. che si trova esposto negli scrittori più qualificati (per es., C. W. MILLS, The Power Elite, 1956); e che consente di definire la T. come «la filosofia autocratica delle tecniche » (G. Simonpon, Du mode d’existence des objets techniques, 1958). Contro la T. si appuntano perciò le critiche più radicali rivolte alla società contem- poranea. Ad essa viene addossata non solo la re- sponsabilità di tutti i mali della tecnica (per i quali vedi TECNICA) e di non volere o poter far nulla per eliminarli, ma anche quella di eliminare o bloccare la libertà di scelta dell’uomo in tutti i campi della sua attività (dal lavoro al divertimento) con una determinazione dall’interno che gli impedisce di esercitare la sua ragione critica e reprime il suo istinto vitale e la libera ricerca della sua felicità: «L’apparato produttivo, ha scritto Marcuse, tende a diventare totalitario nella misura in cui deter- mina non solo le occupazioni, le abilità e gli at- teggiamenti socialmente necessari, ma anche i bi- sogni e le aspirazioni individuali... La tecnologia serve a istituire nuove, più effettive e più piace- voli forme di controllo e di coesione sociale » (One Dimensiona! Man, 1964, pag. xv). Da questo punto di vista la T. (detta anche « The Establishment » o «Il sistema » per antonomasia) eserciterebbe un de- terminismo necessitante su tutte le attività umane e impedirebbe e bloccherebbe ogni forma di critica sociale, ogni possibilità di trasformazione. Dall'altro lato però si ammette (come fa lo stesso Marcuse, Ibid., pag. 238) che «una razionalità post-tecnolo- gica » possa trasformare la tecnica stessa in stru- mento di pacificazione e organo dell’arte della vita e in tal caso la funzione della ragione, il cui uso strumentale ha dato origine alla T., convergerebbe con la funzione dell’arte. Dall’altro lato, si mette in dubbio il carattere monolitico e necessitante della tecnocrazia. Gal- 861 braith parla di una tecnostruttura per indicare la formazione pluralistica e composita dei gruppi che dirigono la società industriale e ammette la possi- bilità di minimizzare la subordinazione delle cre- denze ai bisogni del sistema industriale e di scorgere in quest’ultimo solo « una parte e relativamente una parte in diminuzione, della vita +, che può essere subordinata ai fini estetici che costituiscono la di- mensione della vita stessa e rendono possibile la libertà dell’individuo (7fe New Industrial State, 1967, pag. 399). Una connotazione « non peggio- rativa » della T. è anche talora presentata correla- tivamente al concetto più composito che si ha oggi di classe sociale (cfr., ad es., A. TOURAINE, La société pos-industrielle, 1969, cap. I). TECNOLOGIA (ingl. Technology; franc. Tech- nologie; ted. Technologie). 1. Lo studio dei proce- dimenti tecnici di un determinato ramo della pro- duzione industriale o di più rami. 2. Lo stesso che tecnica. 3. Lo stesso che tecnocrazia. TECTOLOGIA. Termine creato dal filosofo russo A. Bogdanov per indicare una «scienza organizzatrice universale» cioè una scienza che insegni a costruire il mondo a partire dagli ele- menti neutri dati nell’esperienza (Tekrologija, 1922). Questa disciplina che si occupa anche, in partico- lare, dell’organizzazione di tutte le attività utili dell’uomo allo scopo di determinare le condizioni del loro massimo rendimento è stata poi chiamata, in quest’aspetto, prassiologia (v.) da Kotarbinsky. Essa si integra con la teoria dell’organizzazione e dell’amministrazione, con l’economia politica e con la cibernetica (cfr. CauDE, MoLES e altri, Métho- dologie vers une science de l'action, Paris, 1964). TEISMO (ingl. Theism; franc. Théisme; tedesco Theismus). Il termine adoperato fin dal sec. xvn per indicare genericamente la credenza in Dio, in opposizione ad ateismo (così lo adopera ancora VOLTAIRE, Dictionnaire philosophique, a. Théiste) fu definito da Kant nel suo significato specifico, in opposizione a deismo (v.). Dice Kant: « Chi am- mette soltanto una teologia trascendentale è detto deista; chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette che noi possiamo cono- scere con la semplice ragione un Essere originario di cui abbiamo un concetto solo trascendentale, come di un Essere che ha ogni realtà ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma che la ragione è in grado di poter determinare di più l'oggetto secondo l’analogia con la natura cioè di poterlo determinare come un Essere che per in- telletto e libertà contenga in sè il principio origi- nario di tutte le altre cose. Quello rappresenta questo Essere solo come una causa del mondo (rimanendo indeciso se si tratti di una causa che 862 agisca per la necessità della sua natura o per la libertà); questo lo rappresenta come un creatore del mondo » (Crit. R. Pura, Dial. Trasc. III, sez. 7). In altri termini, il deista può essere anche panteista e credere nella necessità del rapporto tra Dio e il mondo, per quanto possa anche non esserlo; il teista si contrappone al panteista. Inoltre proce- dendo al di là di ciò che la pura ragione lo con- sente di credere, il teista afferma di Dio qualità o caratteri che sono testimoniati non dalla ragione ma dalla rivelazione; e in questo senso, come Kant dice più oltre, nello stesso passo, egli crede in un « Dio vivente» (cfr. anche Crit. del Giud., $ 72). Queste notazioni kantiane hanno fissato il signi- ficato del termine nell’uso contemporaneo, per il quale T. si contrappone non solo ad ateismo ma anche a deismo e a panteismo ed ammette che Dio sia persona per quanto in un senso più alto di quello che solitamente è attribuito all’uomo. Il T. è in questo senso un aspetto essenziale dello spiritualismo (o personalismo) contemporaneo, specialmente nella sua reazione all’idealismo ro- mantico, che è sempre tendenzialmente panteistico. Il T. è stato pertanto esplicitamente difeso sia dallo spiritualismo che costituì la reazione allo hege- lismo classico (Fichte junior, Lotze, ecc.) o al positivismo (Renouvier, Boutroux, ecc.) sia dallo spiritualismo che ha costituito la reazione al neo- idealismo romantico che è fiorito nei primi decenni del secolo in Inghilterra, America e Italia e dal quale lo stesso spiritualismo deriva molti dei suoi temi. Cfr. per il T. anglosassone W. E. HocKina, Meaning of God in Human Experience, 1912; A. SerH PRINGLE-PATTISON, The Idea of God in the Light of Recent Philosophy, 1917; CLEMENT C. J. WEBB, God and Personality, 1920; ecc. Per il T. italiano: le opere di Carlini, Guzzo, Sciacca, ecc. TELEGNOSI (ingl. Telegnosis). Lo stesso che chiaroveggenza: la facoltà di conoscere avveni- menti lontani senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza normali (v. TELEPATIA). TELEGRAMMA, ARGOMENTO DEL (ingl. Telegram Argument; ted. Telegrammbeispiel). Argomento o esempio addotto da F. A. Lange per illustrare la tesi materialistica della dipendenza delle reazioni psichiche dagli stimoli fisici e della possibilità di ridurre a meccanismo fisiologico ciò che comunemente si chiama anima o coscienza. Il T. che annuncia a un commerciante il fallimento di un suo corrispondente determina tutta una serie di reazioni che sono descrivibili fisiologica- mente al modo in cui è descrivibile fisicamente cioè in termini di ondulazioni luminose lo stimolo che le ha provocate (Geschichte des Materialismus, II, III, 2 e nota 39; trad. ital., II, pag. 385 sgg. e 661 sgg.). Talvolta l’argomento è stato invertito TELEGNOSI e utilizzato per mostrare la relativa indipendenza delle reazioni nei confronti degli stimoli. Il T. «Vostro figlio è morto » differisce solo per una lettera dal T. « Nostro figlio è morto » ma produce una reazione enormemente diversa, e non corri- spondente alla differenza fisica tra gli stimoli, in coloro che lo ricevono (cfr. C. D. Broad, The Mind and its Place in Nature, 1925, pag. 118 sgg.). TELEOCLISI (ted. Teleoklise). Tendenza al- l’attività finalistica, ritenuta propria degli organi- smi viventi. Termine raro. TELEOFOBIA (ted. Teleophobie). Avversione per il finalismo. TELEOLOGIA (ingl. Teleology; franc. Téléo- logie; ted. Teleologie). Il termine è stato creato da Cristiano Wolff per indicare «quella parte della filosofia naturale che spiega i fini delle cose » (Phi- losophia rationalis sive logica, 1728, Disc. Prael., $ 85). Lo stesso che Finalismo (v.). TELEONOMIA (ingl. Teleonomy; franc. Téléo- nomie). Termine usato dai biologi moderni per in- dicare l’adattamento funzionale degli esseri viventi e dei loro artefatti alla conservazione e alla molti- plicazione della specie. È stata chiamata informa- zione teleonomica la quantità d’informazione che dev'essere trasmessa affinchè le strutture vitali siano realizzate e conservate (cfr., ad es., J. MonoD, Le hasard et la nécessité, 1970, pag. 26 sgg.). TELEOSI (ted. Teleosis). Perfezione. È la trascrizione fonetica della parola greca. TELEPATIA (ingl. Telepathy; franc. Télé- pathie; ted. Telepathie). Una forma di telegnosi e precisamente quella che consiste nel conoscere gli stati di spirito di persone lontane o ciò che ad esse accade, senza l’aiuto dei mezzi di conoscenza normali. Il termine fu proposto dalla Society for Psychical Researches di Londra nel 1882 ed è stato comunemente accettato. Talvolta, come suo sino- nimo, si adopera Telestesia (cfr. D. J. WEST, Psy- chical Research Today, 1954, cap. VI). TEMA (lat. Thema; ingl. Theme; franc. Thème; ted. Thema). Argomento o oggetto di indagine di discorso o di studio. Nella terminologia filosofica contemporanea si adoperano anche i termini tema- tizzare, tematizzazione per indicare la scelta o la formazione dei T., che è una fase importante, e spesso decisiva, della ricerca. In particolare Hei- degger ha inteso per tematizzazione il manifestarsi degli enti intramondani, per il quale essi diventano oggetti (Sein und Zeit, 69 b). TEMPERAMENTO (gr. xpàois; lat. Tempera- mentum; ingl. Temper; franc. Tempérament; tedesco Temperament). La disposizione dell'uomo ad agire in un modo o nell’altro a seconda della partico- lare mescolanza degli umori che ne compongono il corpo. Il fondatore della dottrina del T. è il padre TEMPO della medicina, Ippocrate (v secolo a. C.) e la dot- trina stessa si è tramandata ed è rimasta come dot- trina medica. Ippocrate ammetteva quattro umori fondamentali: il sangue, il flemma (la linfa, i sieri, il muco nasale e intestinale, la saliva), la bile gialla e l’atrabile o bile nera (considerata come la secre- zione del pancreas), corrispondenti ai quattro ele- menti del macrocosmo. A seconda della preva- lenza di uno di questi umori sugli altri si hanno i quattro T. fondamentali: il sanguigno, il flemma- tico, il bilioso e il malinconico o atrabiliare. (De nat. hom., 4). Accenni a questa dottrina o a dot- trine analoghe si trovano in Platone (Conv., 188 a; Tim., 86 B), in Aristotele (Problem., 30, 1), in Se- neca (De ira, II, 18, sgg.), in Lucrezio (De nat. rer., III, 288 sgg.), in Plutarco (Quaesr. nat., 26) ed in altri, senza connessione con i presupposti filosofici da cui questi autori partono, come di- mostra la loro concorde accettazione della dottrina stessa. Anche nel Medio Evo la dottrina dei T. fu tramandata attraverso la medicina, specialmente la medicina araba (Avicenna e Averroè) sino ai medici e ai maghi del Rinascimento. Paracelso sostituì agli umori ippocratei i suoi tre elementi (solfo, sale e mercurio) per la classificazione dei temperamenti. Tuttavia la nozione di T. non ha subìto alcuna modificazione sino a Kant che, riassumendola, distingueva l’aspetto fisiologico e l’aspetto psicologico del T. stesso. « Fisiologica- mente considerato, egli diceva, il T. è costituito dalla costituzione fisica (la struttura forte o debole) e dalla complessione (dal fluido che nel corpo è messo regolarmente in moto dalla forza vitale: nel che si comprende il calore o il freddo che si produce nell’elaborazione di tali umori). Psicologi- camente considerato, cioè come T. dell'anima (del potere affettivo e appetitivo) questa espressione, derivata dalla proprietà del sangue, si riferisce all’analogia del gioco dei sentimenti e dei desideri con le cause fisiche e motrici (di cui la principale è il sangue)» (Antr., II, 2). Kant riprendeva poi la vecchia classificazione ippocratea dei T.; la quale ha trovato spesso fortuna anche nella psi- cologia moderna (per es., cfr. WuNDT, Physiologische Psychologie, II4, pag. 519 sgg.). Ma nella psicologia stessa la parola, fin dalla fine del secolo scorso, è caduta in disuso ed è stata sostituita da caraf- tere (v.): il quale in una delle sue accezioni si- gnifica appunto la struttura organica originaria che condiziona le disposizioni naturali dell’indi- viduo. L'uso della parola carattere segna pure il trapasso della nozione dal dominio della medicina a quello della psicologia e della filosofia. TEMPERANZA (gr. cwppootvn; lat. Tempe- rantia; ingl. Temperance; franc. Tempérance; te- desco Besonnenheit). Una delle virtù etiche di Ari- 863 stotele e precisamente quella che consiste nel giusto uso dei piaceri corporei. Aristotele notava che la T. non concerne tutti i piaceri corporei (non con- cerne, ad es., quelli che derivano dalla vista o dall’udito) ma solo quelli che derivano dal man- giare, dal bere e dal sesso (Er. Nic., III, 9-12). Platone aveva definito in modo diverso la T., intendendo per essa «l’amicizia e l’accordo delle parti dell'anima che si ha quando la parte che comanda e quelle che ubbidiscono convengano nell'opinione che spetti al principio razionale di governare e così non gli si ribellano +: questa è secondo Platone la T. sia per l’individuo che per lo Stato (Rep., IV, 442 b). Gli Stoici a loro volta definirono la T. come «la scienza delle cose da desiderare e di quelle da fuggire» (STOBEO, Ecl., II, 6, 102). Sulla T. aveva insistito anche l’etica di Democrito: «La fortuna ci procura la tavola sontuosa, la T. quella a cui nulla manca» (Fr., 210, Diels). TEMPO (gr. ypévos; lat. Tempus; ingl. Time; franc. Temps; ted. Zeit). Si possono distinguere tre concezioni fondamentali: 1° il T. come ordine misurabile del movimento; 2° il T. come movi- mento intuito; 3° il T. come struttura delle pos- sibilità. Alla prima concezione si connettono, nel- l’antichità, il concetto ciclico del mondo e della vita dell'uomo (metempsicosi) e, nell’epoca mo- derna, il concetto scientifico del tempo. Alla se- conda concezione si connette il concetto di co- scienza, con la quale il T. viene identificato. La terza concezione, nata dalla filosofia esistenziali- stica, presenta alcune innovazioni concettuali nel- l’analisi del concetto di tempo. 1° La più antica e diffusa concezione del T. è quella che lo considera come l’ordine misura- bile del movimento. Già i Pitagorici definendo il T. come «la sfera che abbraccia tutto + cioè la sfera celeste, lo collegarono col cielo che con il suo movimento ordinato ne consente la misura perfetta (ARISroTELE, Fis., IV, 10, 218a 33). Platone definendo il T. come «l’immagine mo- bile dell’eternità» (7im., 37d) intende dire che esso riproduce nel movimento, sotto la forma del periodo dei pianeti, del ciclo costante delle sta- gioni o delle generazioni viventi e di ogni specie di mutamento, quella immutabilità che è propria dell’essere eterno (/bid., 38 b-39 d). La definizione di Aristotele «il T. è il numero del movimento secondo il prima ed il dopo » (Fis., IV, 11; 219 b 1) è l’espressione più perfetta di questa concezione che identifica il T. con l’ordine misurabile del movimento. Non diverso è il significato della definizione degli Stoici, secondo la quale il T. è « l'intervallo del movimento cosmico» (Diog. L., VII, 141). L'intervallo non è infatti che il ritmo, 864 cioè l’ordine, del movimento cosmico. E neppure molto diverso è, forse, il significato della defini- zione di Epicuro: «Il T. è una proprietà cioè un accompagnamento del movimento » (STOBEO, Ecl., I, 8, 252). Nel Medio Evo, questa concezione del T. fu condivisa sia da realisti (ALBERTO Magno, S. Th., I, q. 21, a. 1; S. Tommaso, S. 7A., I, q. 10, a. 1) che da nominalisti (OckHam, /n Sent., II, q. 12) che ripetettero concordemente la definizione aristotelica. Telesio, che indugiava a criticare questa definizione, riduceva a sua volta il T. alla durata e all’intervallo del movimento (De rer. nat., I, 29). Hobbes definiva il T. «l’immagine (phan- tasma) del movimento in quanto immaginiamo nel movimento il prima e il dopo cioè la succes- sione» e riteneva questa definizione in accordo con quella aristotelica (De Corp., 7, 3). Cartesio ripeteva semplicemente quest’ultima, definendo il T. come « numero del movimento » (Princ. Phil., I, 57). E Locke criticava la connessione del T. con il movimento, stabilita dalla definizione ari- stotelica, solo per affermare che il T. è connesso a qualsiasi specie di ordine costante e ripetibile: «Qualsiasi apparizione periodica e costante o mutamento di idee, che accadesse entro spazi di durata apparentemente equidistanti, e fosse co- stante ed universalmente osservabile, avrebbe po- tuto servire a distinguere tra loro intervalli del T. egualmente bene che quelle di cui si è fatto uso in realtà » (Saggio, II, 14, 19). Berkeley sostituiva, per definire il T., l’ordine delle idee all’ordine del movimento; o per meglio dire l’ordine del movi- mento interno all’uomo all’ordine del movimento esterno. «Se io tento, egli diceva, di costruire una semplice idea del T., astraendo dalla succes- sione delle idee nel mio spirito, che fluisce uni- formemente ed è partecipata da tutti gli esseri, sono perduto e impigliato in difficoltà inesplica- bili » (Principles of Human Knowledge, I, 98). Questa concezione del T. fu da Newton posta a fondamento della meccanica: egli distingueva il T. assoluto e il T. relativo ma ad entrambi ricono- sceva ordine e uniformità. « Il T. assoluto vero e matematico, egli diceva, in realtà e per natura sua, senza relazione a qualcosa di esterno, fluisce uni- formemente (aequabiliter) e si chiama anche du- rata. Il T. relativo apparente e comune è una mi- sura sensibile ed esterna della durata mediante il movimento » (Naruralis philosophiae principia, I, def. VIII). L’uniforme fluire della durata assoluta fa riscontro, in queste definizioni di Newton, alla uniformità del movimento che viene assunto come misura del tempo. Leibniz illustrava lo stesso con- cetto nel modo seguente: « Conoscendo le regole dei movimenti non uniformi, si può sempre rap- portarli ai movimenti uniformi intelligibili e pre- TEMPO vedere con questo mezzo ciò che accadrà a diffe- renti movimenti congiunti insieme. In questo senso il T. è la misura del movimento, cioè il movimento uniforme è la misura del movimento non uni- forme » (Nouv. Ess., II, 14, 16). E pertanto definiva il T. come « un ordine delle successioni » (Troisième lettre à Clarke, $ 4): una definizione che veniva accettata da Wolff (Ontol., $ 572) e da Baumgarten (Met., $ 239). Era questa la concezione cui Kant faceva implicitamente riferimento quando nell’Este- tica trascendentale affermava l’idealità trascenden- tale, insieme con la realtà empirica, del T. (v. oltre). Ma il contributo principale di Kant all’interpreta- zione del concetto di T. non è contenuto nell’Este- tica trascendentale ma nell’Analitica dei princìpi e precisamente nella trattazione della seconda ana- logia o «principio della serie temporale secondo la legge della causalità ». Qui Kant opera la ridu- zione dell’ordine di successione all’ordine causale. Egli dice che una cosa «può acquistare il suo determinato posto nel T. solo a condizione che nello stato precedente si presupponga un’altra cosa a cui essa debba seguire sempre, cioè secondo una regola ». La serie temporale non si può invertire perchè « quando lo stato precedente è posto, l’av- venimento deve immancabilmente e necessariamente seguire »; sicchè «è legge necessaria della nostra sensibilità e quindi condizione formale di tutte le percezioni che il T. precedente determini necessa- riamente il seguente ». Questo appunto distingue la percezione reale del T. dalla immaginazione, che potrebbe e può invertire l’ordine degli eventi; e che fa della successione temporale « il criterio em- pirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa » (Crir. R. Pura, An. dei Princ., cap. II, sez. III, 3). Questa riduzione del T. all’ordine causale che Kant difendeva relativamente alla con- cezione del T. dominante nella sua epoca, cioè derivata dalla fisica newtoniana, è stata ripresentata ai nostri giorni nei confronti della fisica einstei- niana. Affermando la relatività della misura tem- porale, Einstein non ha in realtà innovato in alcun modo il concetto tradizionale del T. come ordine di successione: ha solo negato che l’ordine di succes- sione fosse unico ed assoluto (cfr. Uber die spezielle und die allgemeine Relarivitàtstheorie, 1921, $ 8-9). Ora nei confronti della fisica di Einstein, H. Rei- chenbach ha riproposto la tesi kantiana dell’iden- tità del T. con la causalità. «Il T. è l’ordine delle catene causali: questo è il principale risultato delle scoperte di Einstein », egli ha detto (A/berr Einstein: Philosopher-Scientist, ed. by P. A. Schilpp, 1949, pag. 289 sgg.). « L'ordine del T., l'ordine del prima e del dopo, è riducibile all’ordine causale... L'in- versione dell’ordine temporale per certi eventi, che è un risultato che deriva dalla relatività della si- TEMPO multaneità, è solo una conseguenza di questo fatto fondamentale. Dal momento che la velocità della trasmissione è limitata, esistono eventi tali che nessuno di essi può essere la causa o l’effetto del- l’altro. Per eventi siffatti, l’ordine del T. non è definito e ognuno di essi può essere detto posteriore o anteriore all’altro » (/bid., 1949, pag. 289 sgg.). Gli stessi concetti Reichenbach ha illustrato nel suo libro postumo 7he Direction of Time (1956): nel quale identifica l'ordine del T. con la causalità e la direzione del T. con l’entropia crescente (cfr. spe- cialmente $ 6, 16). La riduzione del T. alla causalità può essere considerata come la più importante (ma non perciò la più salda) proposizione filosofica avanzata nel- l'ambito della concezione del T. come ordine. Assai minore importanza ha invece la discussione, cui i filosofi hanno spesso inclinato, sulla soggetti- vità od oggettività del T. in questo senso. Fu Ari- stotele a iniziare queste discussioni giungendo alla conclusione che se da un lato il T. come misura non può esistere senza l’anima perchè solo l’anima può misurare, dall’altro il movimento cui la misura si rivolge non dipende dall’anima (Fis., IV, 14, 223 a 20-29). Nel sec. xrv Ockham, riprendendo queste considerazioni, affermava che non vi sa- rebbe T. se l’anima non potesse nè misurare nè numerare (/n Sent., II, q. 12). Perfino Hobbes chiamava il T. un’immagine (v. definizione prima citata). Meno significativa è la riduzione del T., operata da Locke e Berkeley all’ordine delle idee: perchè le idee, per questi filosofi, sono i soli oggetti di cui si possa parlare. Quanto al « soggettivismo » della concezione kantiana per cui il tempo è «in- tuizione pura » cioè condizione di qualsiasi perce- zione sensibile, esso è frutto soltanto di un ma- linteso: giacchè il T. può dirsi soggettivo solo rispetto alle cose in sè che sono al di là della con- siderazione dell'uomo ma è oggettivo e reale ri- spetto alle cose naturali, per cui il T. ha «realtà empirica » indubitabile (Crit. R. Pura, $ 6, 7). L’oggettivismo della concezione kantiana è poi di- mostrato dalla riduzione del T. all’ordine causale: una tesi a cui i neo-empiristi hanno acceduto senza conoscere la sua derivazione kantiana. 2° La seconda concezione fondamentale del T. è quella che lo considera come intuizione del mo- vimento o «divenire intuito ». Quest’ultima defini- zione è di Hegel: il quale aggiunge che «il T. è il principio medesimo dell'Io = Io, della pura auto- coscienza; ma è quel principio o il semplice con- cetto ancora nella sua completa esteriorità ed astrazione » (Enc., $ 258). Hegel pertanto non iden- tifica il T. con la coscienza ma con qualche aspetto parziale o astratto della coscienza stessa. Senza questa limitazione, Schelling aveva detto « il T. non 35 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. è se non il senso interno che diviene oggetto per sè» (System des transzendentalen Idealismus, sez. III, Seconda epoca, D; trad. ital., pag. 141). E di regola la concezione del T. come intuizione del divenire porta con sè la riduzione del T. stesso alla coscienza. Così accade già nella dottrina di Plotino. Secondo Plotino, il T. non esiste fuori dell'anima: esso «è la vita dell’anima e consiste nel movimento per il quale l’anima passa da uno stato a un altro della sua vita » (Enn., III, 7, 11): sicchè anche l’universo si può dire che è nel T. solo in quanto è nell'anima, cioè nell’anima del mondo (/bid., III, 7, 3). A S. Agostino si deve la migliore espressione e la diffusione di questa dottrina nella filosofia occi- dentale. Il T. è identificato da Agostino con la vita stessa dell'anima che si estende verso il passato o l’avvenire (exfensio o distensio animi). Dice S. Agostino: «In che modo si diminuisce e con- suma il futuro che ancora non c’è? E in che modo cresce il passato che più non è, se non perchè nell’anima ci sono tutte e tre le cose, presente passato e futuro? L’anima infatti attende e fa attenzione e ricorda, sicchè ciò che essa attende, attraverso ciò cui fa attenzione, passa in ciò che ricorda. Nessuno nega che il futuro non ancora c’è; ma c’è già nell'anima l’attesa del futuro. Nessuno nega che il passato non è più, ma c’è ancora nell’anima la memoria del passato. E nessuno nega che il presente manca di durata perchè subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione attraverso la quale ciò che sarà s si allontana verso il passato » (Conf., XI, 28, 1). Il teorema fondamentale di questa concezione del T. è stato enunciato dallo stesso S. Agostino: « Non ci sono, propriamente parlando tre T., il passato, il presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro» (Ibid., XI, 20, 1). Nella filosofia moderna, Bergson ha ripresentato questa concezione contrapponendola al concetto scientifico del tempo. Secondo Bergson, il T. della scienza è un T. spazializzato e che perciò non ha alcuno dei caratteri che la coscienza riconosce propri del tempo. Esso viene infatti rappresen- tato come una linea ma «la linea è immobile, mentre il T. è mobilità. La linea è già fatta, mentre il T. è ciò che si fa, anzi è ciò per cui ogni cosa si fa» (La pensée et le mouvant, 3* ediz., 1934, pag. 9). Fin dalla sua prima opera, l’Essai sur /es données immédiates de la conscience, Bergson aveva insistito sull’esigenza di considerare il T. vissuto, cioè la durata della coscienza, come una corrente fluida nella quale è impossibile perfino distinguere stati perchè ogni momento di essa trapassa nel- l’altro con una continuità ininterrotta come accade per i colori dell'iride. Questo è poi sempre rimasto il concetto cardine della sua filosofia. Il T. come durata ha, secondo Bergson due caratteri fonda- mentali: 1° quello della novità assoluta ad ogni istante, per cui è un continuo processo di creazione; 2° quello della conservazione infallibile e integrale di tutto il passato per cui fa boule de neige e si ingrossa continuamente a misura che avanza verso il futuro. Non molto diversa da questa è la con- cezione che Husserl ha del « T. fenomenologico ». Egli dice: « Ogni effettiva esperienza vissuta è ne- cessariamente qualcosa che dura; e con questa durata si inserisce in un infinito continuo di durate, in un continuo pieno. Essa ha necessariamente un orizzonte temporale attualmente infinito da ogni parte. Il che significa che appartiene a un'infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola espe- rienza vissuta, come può cominciare così può finire e chiudere la sua durata, come fa, per es., l’espe- rienza di una gioia. Ma la corrente delle esperienze non può nè cominciare nè finire » (/deen, I, $ 81). Il che significa che, come la durata bergsoniana, la corrente dell’esperienza conserva tutto ed è una specie di eterno presente. 3° La terza concezione del T. è quella che riduce il tempo alla struttura della possibilità. Questa è la concezione illustrata da Heidegger nell’opera Essere e 7. (1927), che già nel titolo annuncia l’identità dei due termini. La prima ca- ratteristica di questa concezione è il primato rico- nosciuto all’avvenire nell’interpretazione del tempo. Le due precedenti concezioni si fondano sul pri- mato del presente. Il T. come ordine del movimento è una totalità tutta presente perchè ogni ordine suppone la simultaneità delle sue parti, dal cui reciproco adattamento l'ordine nasce. La conce- zione del T. come divenire intuito non fa che interpretare l'intero T. in funzione del presente, perchè l’intuizione del divenire è sempre un ora, un istante presente. Heidegger ha interpretato in- vece il T. in termini di possibilità o di progettazione: il T. è originariamente l’ad-venire (Zu-kunft): più precisamente, quando il T. è autentico (cioè origi- nario e proprio dell’esistenza) esso è «l’avvenire dell’ente a se stesso nel mantenimento della possi- bilità caratteristica come tale». « Avvenire, dice Heidegger, non significa un ora che non è ancora divenuto attuale e che lo diverrà, ma l’infutura- mento per cui l’Esserci perviene a se stesso, in base al suo più proprio poter-essere. L’anticipazione rende l’Esserci autenticamente avveniente sicchè l’anticipazione stessa è possibile soltanto perchè l’Esserci è, in generale, già sempre pervenuto a se stesso » (Sein und Zeit, $ 65). Il passato come un essere-stato è condizionato dall’avvenire perchè, come sono autentiche possibilità quelle che sono già state, così sono già state le possibilità cui l’uomo TEMPO può autenticamente ritornare e che può ancora far sue (/bid., $ 65). Sia il T. autentico che è quello per cui l’Esserci progetta la propria possibilità pri- vilegiata (quello che è già stato, sicchè le sue scelte sono scelte del già scelto cioè dell’impossibilità di scegliere) sia il T. inautentico che è quello della esistenza banale, in cui il T. diventa una successione infinita di istanti, sono entrambi il sopravvenire all’Esserci (cioè all'uomo) di ciò che la possibilità progettata gli prospetta; e perciò è un presentarsi, dal futuro, di ciò che è già stato nel passato (/bid., $ 80, 81). L’analisi del T. di Heidegger contiene indubbiamente un impegno metafisico assai gra- voso che è quello per il quale il T. è concepito come una specie di circolo per cui ciò che si pro- spetta nell’avvenire è ciò che è già stato; e a sua volta ciò che è già stato è ciò che si prospetta nel- l’avvenire. Heidegger parla in questo senso di T. finito cioè di T. autentico; giacchè il T. inau- tentico (che Heidegger chiama anche databilità o T. pubblico) è il misconoscimento parziale della natura del T. e la concezione di esso come linea aperta e successione infinita di istanti (Sein und Zeit., $ 79-81). Tuttavia l’analisi di Heidegger con- tiene alcuni elementi di interesse filosofico notevole perchè costituiscono una innovazione importante nell’analisi del concetto di tempo. Tali elementi sono i seguenti: 1° il mutamento dell’orizzonte modale, per l’interpretazione del T., dalla necessità alla possi- bilità: il T. viene ricondotto non già ad una strut- tura necessaria, come l’ordine causale, ma alla struttura stessa della possibilità. Questo punto può essere utilizzato per esprimere adeguatamente la trasformazione che la nozione di T. ha subito per opera della relatività di Einstein. Se difatti due eventi, contemporanei per un certo sistema di rife- rimento, possono non esserlo per un altro, il T. non è un ordine necessario ma la possibilità di più ordini; 2° il primato del futuro nell’interpretazione del T. non costituisce soltanto un'alternativa di- versa ed opposta al primato del presente, su cui si fondano le altre due interpretazioni principali, ma offre anche la possibilità di non appiattire sul presente le altre determinazioni del T. e di in- tenderle nella loro natura specifica: il futuro come futuro (e non già come «presente del futuro ?) e il passato come passato; 3° il rapporto tra passato e futuro, che Hei- degger ha irrigidito in un circolo può essere age- volmente sciolto con l’introduzione della stessa nozione di possibile. Il passato può essere infatti inteso come punto di partenza o fondamento delle possibilità a venire e l’avvenire come possibilità di conservazione o di mutamento del passato, in TEODICEA limiti di volta in volta (e con approssimazione) determinabili; 4° l’introduzione di nuovi concetti interpreta- tivi espressi da termini come progetto o progetta- zione, anticipazione, attesa, ecc., che si sono dimostrati particolarmente utili nell’analisi filoso- fiche e sono difatti entrati nell’uso filosofico corrente. TEMPORALE (ingl. Temporal; franc. Tem- porel; ted. Zeitlich). 1. Ciò che appartiene al tempo o concerne il tempo o accade nel tempo. Ad es., l’ordine T., uno schema T., ecc. 2. Ciò che è mondano, cioè appartiene all’ordine del tempo, in contrapposto a ciò che è spirituale ed appartiene all’ordine dell’eternità. La contrappo- sizione di T. e spirituale è uno dei temi dominanti del cristianesimo paolino (cfr., ad es., Ad Cor. II IV, 18; Ad Hebr., XI, 25; ecc.) TEMPORANEO (ingl. 7. emporary; franc. Tem- poraire; ted. Einstweilig). Di scarsa durata, prov- visorio. TENDENZA (ingl. Tendency; franc. Tendance; ted. Trieb). Si intende per T. ogni spinta all’azione, abituale e costante; nel che la T. si distingue dal- l'impulso (v.) che è una spinta all’azione improv- visa e temporanea. Kant limitava il significato del termine all’appetito abituale di natura sensibile (Antr., $ 73). Schiller ammetteva nell’uomo tre T. fondamentali di cui la prima, di natura sen- sibile, lo spinge al mutamento; la seconda o 7. alla forma lo spinge all’immutabilità e infine la terza 0 7. al gioco lo spinge a conciliare le due prime (Briefe liber die aesthetische Erziehung, 12-13). A questa distinzione Fichte ne contrap- pose un’altra: cioè quella tra la 7. alla cono- scenza, che fa dell’uomo un «essere rappresen- tante »; la T. pratica che mira alla modificazione e formazione delle cose; e la T. estetica che mira a una rappresentazione determinata solo in vista della rappresentazione stessa e non della cosa o della conoscenza di essa (Werke, VIII, pag. 278-79). Più recentemente Jaspers ha distinto tre ordini di T.: 1° quelle sensibili con correlato somatico (la fame, la sete, il sesso, ecc.); 2° quelle vitali ma senza localizzazione somatica (la T. all’esaltazione di sè o alla sottomissione, all’emigrazione, alla so- cievolezza, ecc.); 3° le T. spirituali cioè quelle dirette alla realizzazione di valori (Allgemeine Psy- chopathologie, 1913). TENSIONE (gr. révoc; ingl. Tension; fran- cese Tension; ted. Spannung). 1. La connessione tra due opposti che sono legati soltanto dalla loro opposizione. Questo concetto costituiva, secondo gli antichi (cfr. FiLone, Rer. Div. Her., 43), la grande scoperta di Eraclito. « Gli uomini non sanno, aveva detto Eraclito, come ciò che è discorde è in accordo con sè: armonie di T. opposte, come 867 quelle dell’arco e della lira » (Fr., 51, Diels). Anche gli Stoici parlarono in questo senso della T. che tiene insieme l’universo (ARNIM, Stoic. Fragm., II, 134). Mentre la dialettica (v.) è l’unità degli op- posti come loro sintesi 0 conciliazione, la T. è il legame tra gli opposti come tali, senza concilia- zione o sintesi. Le situazioni di T. sono perciò quelle che non lasciano prevedere la conciliazione; in tal senso la parola è usata anche nel linguaggio comune, come quando si parla della « T. interna- zionale ». Nello stesso senso si parla di « T. psichica + per indicare uno stato latente di conflitto. 2. Gli Stoici (e precisamente Cleante; cfr. ARNIM, Stoic. Fragm., I, 128) introdussero la nozione di T. come forza tendente a un risultato: nel qual senso la nozione è un sinonimo di tendenza o di sforzo, e specialmente di sforzo prolungato o noso. TEOCRASIA (gr. 0eoxpacta; ingl. Theocrasy; franc. Théocrasie; ted. Theocrasie). L'unione o mescolanza dell’anima con Dio, nel misticismo (cfr. GiamBLICO, De vita pythagorica, 33, 240). TEOCRAZIA (ingl. Theocracy; franc. Théo- cratie; ted. Theokratie). 1. Il regime politico in cui il governo è esercitato dalla casta sacerdotale. In questo senso furono T. lo Stato ebraico, lo Stato maomettano e il calvinismo in Ginevra. 2. La dottrina della supremazia del potere eccle- siastico, dal quale il potere civile trarrebbe il suo diritto e la sua investitura. T. in questo senso fu il curialismo medievale. 3. Più in generale, qualsiasi dottrina la quale ri- tenga che ogni autorità derivi da Dio (v. AUTORITÀ). TEODICEA (ingl. Theodicy; franc. Théodicée; ted. Theodizee). Termine creato da Leibniz come titolo di una sua opera (Saggio di T. sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l'origine del male, 1710) per indicare la dimostrazione della giustizia divina mediante la soluzione dei due problemi fon- damentali; quello del male e quello della libertà umana. Sul primo problema, la T. di Leibniz risponde più specialmente alle considerazioni svolte da Bayle nel suo Dizionario (1697): considerazioni che in realtà poi non facevano che amplificare quanto avevano già detto gli Epicurei in polemica con gli Stoici: «Dio o non vuol togliere i mali e non può, 0 può e non vuole, o non vuole nè può o vuole e può. Se vuole e non può, è impo- tente: il che non può essere in Dio. Se può e non vuole è invidioso, il che del pari è contrario a Dio. Se non vuole nè può è invidioso e impotente perciò non è Dio. Se vuole e può, il che solo con- viene a Dio, da che cosa deriva l’esistenza dei mali e perchè non li toglie?» (Fr., 374, Usener). La soluzione di Leibniz è quella tradizionale: il male non è una realtà e pertanto la sua respon- 868 sabilità non risale a Dio (v. MALE). Circa il pro- blema della libertà Leibniz discute soprattutto le varie forme che il determinismo teologico aveva assunto nella letteratura protestante contemporanea, per rivendicare all'uomo la libertà nel senso tradi- zionale di autodeterminazione (v. LIBERTÀ). Dio inclina senza necessitare e la libertà dell’uomo non consiste nell’indeterminazione assoluta, cioè nell’ar- bitrio di indifferenza, ma nell’assenza di necessità e di costrizione (v. LmertÀ). Da Leibniz in poi la T. è considerata come una parte fondamentale della teologia razionale (v. TEOLOGIA). TEOFANIA (lat. Theophania; ingl. Theophany; franc. Théophanie; ted. Theophanie). Il termine che significa « visione di Dio» venne usato da Scoto Eriugena (sec. 1x) per indicare il mondo come ma- nifestazione di Dio. T. è, secondo Eriugena, il processo che da Dio discende all'uomo con la creazione per ritornare attraverso l’uomo a Dio con l’amore. T. è anche ogni opera della creazione in quanto manifesta l'essenza divina, che perciò diventa visibile in essa e attraverso di essa (De divis. nat., I, 10; V, 23). TEOGNOSI (ted. Theognosis). La conoscenza scientifica di Dio (cfr. C. F. Krause, Vorlesungen liber das System der Philosophie, 1828, pag. 27). Termine molto raro. TEOGONIA (gr. Broyovla; ingl. Theogony; fran- cese Théogonie; ted. Theogonie). La generazione degli dèi e del mondo: la cosmologia mitica (cfr. PLATONE, Leggi, X, 886 c) (v. COSMOLOGIA). TEOLOGIA (gr. Geodoyla; lat. Theologia; in- glese Theology; franc. Théologie; ted. Theologie). In generale, ogni trattazione o discorso o predica che abbia per oggetto Dio o le cose divine. In questo senso generalissimo la parola fu intesa dal grande erudito romano Marco Terenzio Varrone (sec. 1 a. C.), del quale S. Agostino ci ha conser- vato la distinzione di tre T.: la T. mitica o favo- losa; la T. naturale o fisica; la T. civile. La T. mitica o favolosa è quella di cui si servono i poeti e che ammette molte finzioni contrarie alla dignità e alla natura della divinità. La T. naturale è quella dei filosofi, che ha per oggetto «ciò che gli dèi sono, il luogo in cui risiedono, il loro genere, la loro essenza, il tempo in cui sono nati o la loro perennità; e se essi prendono il loro principio dal fuoco, come crede Eraclito, o dai numeri come dice Pitagora o dagli atomi come dice Epicuro +. Infine la T. civile «è quella che nelle città i cit- tadini, e soprattutto i sacerdoti, devono conoscere e praticare e che insegna quali divinità si debbano onorare pubblicamente e quali cerimonie e quali sacrifici sia opportuno fare» (AGOSTINO, De Civ. Dei, VI, 5). In questo senso varroniano, Vico considerava la sua «scienza nuova» come «una TEOFANIA T. civile ragionata della provvedenza » in quanto essa trae origine dalla «sapienza volgare dei le- gislatori che fondarono le nazioni con contem- plare Dio per l’attributo di provvedente + (Sc. N., II, Corollari d’intorno agli aspetti principali di questa scienza). In senso più specificamente sto- rico-filosofico si possono distinguere: 1° la T. metafisica; 2° la T. naturale; 3° la T. rivelata; 4° la T. negativa. 1° Aristotele chiamò T. la sua « scienza prima » cioè la metafisica: che egli intendeva, nello stesso tempo, come scienza dell’essere in quanto essere cioè della sostanza e come scienza della sostanza eterna, immobile e separata, cioè di Dio (Mer., VI, 1, 1026a 10). Questo concetto della T. come metafisica è rimasto per lunghi secoli. Lo stoico Cleante includeva la T. tra le parti della filosofia (Diogc. L., VII, 41). Per Plotino, la T. era la sola scienza degna del nome (Enn., V, 9, 7). E da questo punto di vista spesso i neoplatonici chia- marono teologi tutti i filosofi, anche i fisici o i materialisti, in quanto si occupavano, come dice Proclo, dei « princìpi primissimi delle cose in quanto per sè sussistenti » (P/ar. 7heol., I, 3.) Questo è anche il significato che Varrone attribuiva all’espres- sione « T. naturale ». Quest'uso continuò nella filo- sofia cristiana: nè nella patristica nè nella prima età della scolastica si potrebbe rintracciare una delimitazione precisa tra T. e filosofia. Lo stesso S. Tommaso, in una prima fase del suo insegna- mento, accettò l’identità di T. e di metafisica come appare dal prologo del suo commento alla Mera- fisica di Aristotele. Qui egli dice che poichè la metafisica considera in primo luogo le sostanze se- parate o divine, in secondo luogo l’ente in quanto tale e in terzo luogo le cause o i princìpi primi, essa «si dice scienza divina o T. in quanto consi- dera le sostanze separate; metafisica in quanto con- sidera l’ente;... e prima filosofia in quanto considera le cause prime delle cose» (/n Mer., Proemium). Nel sec. xvi si cominciò a distinguere la « filo- sofia prima », che si chiamò anche ontologia (v.), dalla T.; e si cominciò a distinguere anche la T. come scienza naturale dalla T. fondata sulla rivela- zione. Queste distinzioni si trovano chiaramente sta- bilite nel De Augumentis Scientiarum (1623) di F. Ba- cone: che chiamò 7. naturale la conoscenza che si può ottenere di Dio «mediante il lume della natura e la contemplazione delle cose create » (De Augm. Scient., III, 2) e chiamò 7. ispirata o sacra quella che si fonda su princìpi direttamente ispirati da Dio (/bid., II, 1). 2° Il secondo concetto della T. è pertanto quello di 7. naturale che si distingue dal prece- dente soltanto per il fatto di comprendere una parte e non il tutto della metafisica; e precisamente TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA quella parte che ha per oggetto le cose divine. L'espressione baconiana « T. naturale» fu ripresa e diffusa da Wolff: questi la definiva come «la scienza di ciò che è possibile per opera di Dio + perciò come una parte della filosofia, la quale è in generale la scienza delle cose possibili (Log., Disc. Prael., 57). Baumgarten insisteva sul carattere razionale della T. così intesa: «La T. naturale è la scienza di Dio in quanto si può conoscere senza la fede » (Mer., $ 800); e la riteneva come fonda- mento della filosofia pratica, della T. e della T. rivelata (Zbid., $ 601). Fu questo il concetto di T. che, insieme con il suo contenuto, subì la cri- tica di Kant nella Critica della Ragion Pura. Kant tuttavia si preoccupò pure di distinguere le varie specie della T.; e partendo dalla distinzione base tra T. razionale e T. rivelata, distinse, nella T. ra- zionale, la T. trascendentale la quale « concepisce il suo oggetto semplicemente con la ragion pura, mediante meri concetti trascendentali (ens origi- narium, realissimum, ens entium)+ e la T. naturale che si avvale di «concetti che ricava dalla natura ». A sua volta la T. trascendentale può essere cosmo- teologia se deduce l’esistenza di Dio dall’esperienza in generale; od ontofeologia se deduce la sua esi- stenza con semplici concetti senza ricorrere al- l’esperienza. Infine la T. naturale può essere o T. fisica, se risale agli attributi di Dio movendo dall'ordine e dalla costituzione del mondo; o T. morale, se considera Dio come il principio del- l’ordine e della perfezione morale (Crit. R. Pura, Dialettica, cap. III, sez. VII). Alcune di queste distinzioni sono rimaste e ancora vengono adope- rate nel campo della T. ecclesiastica. 3° La 7. rivelata o sacra è quella che desume i suoi princìpi dalla rivelazione. La prima esplicita formulazione di questo concetto è, probabilmente, quella tomistica: S. Tommaso afferma che «la sacra dottrina è scienza giacchè procede da prin- cìpi noti attraverso il lume di una scienza supe- riore, che è la scienza di Dio e dei beati» (S. 7H., I, q. 1, a. 2). La «scienza di Dio e dei beati» coincide poi con «gli articoli di fede » o «Ia rive- lazione divina +» (/bid., a. 7-8). Era questa la T. che Duns Scoto considerava come scienza puramente pratica, di fronte alla metafisica, che egli conside- rava come la scienza teoretica per eccellenza: la T. infatti non avrebbe altro scopo se non quello di persuadere l’uomo ad agire per la propria salvezza (Op. Ox., Prol., q. 4, n. 42); e le stesse verità apparentemente teoretiche avrebbero solo va- lore pratico come, per es., la proposizione « Dio è trino » che includerebbe semplicemente la cono- scenza del retto amore che l’uomo deve a Dio (Ibid., Prol., q. 4, n. 31). La negazione del valore conoscitivo della T. persiste, sul finire della scola- 869 stica, anche quando non si riconosce alla totalità di essa il carattere pratico. Ockham, considerava la T., non come una scienza, ma come un sem- plice insieme di conoscenze diverse, teoretiche e pratiche, poggianti esclusivamente sull’autorità e aventi lo scopo di avviare l’uomo alla salvezza (In Sent., Prol., q. 12, E-I). Questo concetto non è molto diverso da quello che Spinoza doveva esporre più tardi nel Trattato teologico-politico (cfr. specialmente cap. 15). 4° Il concetto della 7. negariva è sorto e si è tramandato nell’ambito del misticismo. La di- stinzione tra T. positiva o affermativa, la quale procede da Dio verso il finito mediante la deter- minazione degli attributi o nomi di Dio; e la T. negativa che procede dal finito a Dio e lo consi- dera al di sopra di tutti i predicati o nomi coi quali si può designarlo, si trova nei trattati dello Pseudo Dionigi l’Areopagita (De mysf. theol., 1; De div. nom., I, 4; 4, 2; 13, 1; De eccl. hyerar., 2, 3); ma la sua fonte è negli scritti neoplatonici che pon- gono Dio al di sopra di tutte le determinazioni finite e dello stesso essere (v. TRASCENDENZA). Essa viene ripetuta da Scoto Eriugena (De divis. nat., JI, 30), ripresa dal misticismo speculativo tedesco del sec. x1v (cfr. ECKEHART, in PFEIFFER, Deutsche Mystiker des 14 Jahrhunderts, II, pag. 318-19); e nel Rinascimento da Nicolò da Cusa (De docta ignor., I, 24; 26) e da Bovillo (De nihilo, 11, 1, 4). Si può considerare come una manifestazione di questa T., rivissuta attraverso l’esperienza di Kier- kegaard, la cosiddetta « T. della crisi » di K. Barth: soltanto che una tale T. non consiste nel negare di Dio gli attributi finiti ma nel considerare il rapporto tra l’uomo e Dio come la negazione di tutte le possibilita umane (crisi) e la loro ridu- zione a mere impossibilità, sicchè solo da questa negazione nasca una possibilità di salvezza, di origine, non più umana, ma divina (Ròomerbrief, 1919). TEOLOGICHE, VIRTÙ (lat. Virtutes theo- logicae; ingl. Theological Virtues; franc. Vertus théologiques; ted. Theologische Tugenden). Così furono chiamate nel Medio Evo la fede, la speranza e la carità in quanto virtù dipendenti da doni divini e dirette al raggiungimento di una beatitudine cui l’uomo non può giungere con le sole forze della sua natura. Per questo carattere soprannaturale le virtù T. si distinguono da quelle etiche (v.) e diano- etiche (v.) (cfr. S. Tommaso, S. 7h., II, 1, q. 62, a. 1). Per le singole virtù, confronta le relative voci. TEOLOGIZZANTE, FILOSOFIA. Così Croce ha chiamato la filosofia che si occupa di problemi mal posti e come tali irresolubili, sia poi che li dibatta come «massimi» o «eterni», pro- 870 blemi, sia che li risolva con sistemi « immaginari » sia infine che assuma di fronte ad essi un atteg- amento agnostico (Sulla filosofia T. e le sue sopravvivenze, in Saggi Filosofici, 1920, V, pag. 297). ‘TEOMANZIA (ingl. Theomancy; ted. Theo- mantie). La divinazione ispirata dalla divinità (vedi NTUSIASMO). ‘TEOMONISMO (ted. Theomonismus). La dot- trina secondo la quale Dio è l’unica realtà: lo stesso che acosmismo (v.) o panteismo (v.). TEONOMIA (ingl. Theonomy; franc. Théo- nomie; ted. Theonomie). Governo o legislazione di Dio. Il termine viene talora opposto ad auto- nomia. TEOPANTISMO (ingl. Theopantism; fran- cese Théopantisme; ted. Theopantismus). La dot- trina che Dio è la sola realtà: lo stesso che pan- teismo (v.). ‘TEOPNEUSTIA (ingl. Theopneusty; francese Théopneustie; ted. Theopneustie). L'ispirazione di- vina attraverso la quale viene comunicata la ve- rità rivelata. ‘TEOREMA (gr. 8éwpnua; lat. Theorem; fran- cese Théorème; ted. Theorem). Una qualsiasi pro- posizione dimostrabile. Il termine entrò fin dall'an- tichità nel linguaggio matematico (cfr. ARISTOTELE, Mer., XIV, 2, 1090a 14); ma ha conservato e conserva, anche fuori del linguaggio matematico il suo significato di proposizione non primitiva ma derivata o derivabile da altre proposizioni. TEORETICO (gr. 0ewpnrix6c; lat. Specula- tivus; ingl. Theoretical; franc. Théorétique; tedesco Theoretisch). L'aggettivo corrisponde a specula- zione (v.) ed ha perciò come questo sostantivo due significati fondamentali: 1° ciò che è puramente conoscitivo e si oppone a pratico; 2° ciò che non è riducibile all’esperienza e si oppone a empirico. Nel primo esempio si parla di «scienze T.»; nel secondo, di « concetti T.3. TEORIA (gr. 0ewpia; lat. Theoria; ingl. Theory; franc. Théorie; ted. Theorie). Il termine ha i se- guenti significati principali: 1° Speculazione o vita contemplativa. Questo è il significato che il termine ebbe in Grecia. Ari- stotele identificava in questo senso la T. con la beatitudine (Er. Nic., X, 8, 1178 b 25). In questo senso, T. si oppone a pratica e in generale ad ogni attività non disinteressata cioè che non abbia come fine la contemplazione; 2° Una condizione ipotetica ideale nella quale abbiano pieno adempimento norme o regole che, nella realtà, vengono solo imperfettamente o par- zialmente seguite. Questo significato si dà alla pa- rola T. quando si dice: «In T. dovrebbe essere così, ma in pratica è tutt’altra cosa », Kant esami- nava il problema del rapporto tra T. e pratica in TEOMANZIA questo senso in uno scritto del 1793 (Uber den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht fiir die Praxis): nel quale si dànno le seguenti definizioni della T. e della pratica: «Si chiama T. un complesso di regole anche pra- tiche quando siano pensate come principi generali e si faccia astrazione da una quantità di condizioni che hanno tuttavia influenza necessaria sulla loro applicazione. Inversamente, si chiama pratica, non qualsiasi atto, ma solo quello che attua uno scopo ed è pensato in rapporto a princìpi di condotta rappresentati universalmente» (Op. cit., in principio). 3° La cosiddetta «scienza pura » cioè la parte della scienza che non considera le applicazioni della scienza stessa alla tecnica produttiva. Oppure quelle scienze o parti di scienze che consistono nel- l’elaborazione concettuale o matematica dei risul- tati, per es., la «fisica teorica ». 4° Un'ipotesi o un concetto scientifico. Que- st’ultimo significato va specialmente considerato sotto questa voce perchè il problema della T. scientifica costituisce uno dei capitoli più impor- tanti della metodologia delle scienze. I risultati principali delle ricerche in questo campo possono essere ricapitolati nel modo seguente: a) La T. scientifica è un’ipotesi o almeno con- tiene una o più ipotesi come sue parti integranti. La scienza moderna ha abbandonato la ripugnanza della scienza del sec. xv e xxx contro le ipotesi, ripugnanza che fu così bene espressa da Newton e da altri (v. IPOTESI). Questo è accaduto perchè l’ipo- tesi ha cessato di essere una congettura circa le cause ultime o nascoste dei fenomeni. Kant aveva già condannato le «ipotesi trascendentali» che fanno appello ad una semplice idea della ragione e si era pronunciato in favore delle ipotesi empi- riche il cui carattere è «Ja sufficienza per determi- nare a priori le conseguenze che sono già date » (Crir. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. 3). Claude Bernard nel 1865 affermava, insieme, l’in- dispensabilità delle teorie e il loro carattere ipo- tetico nel senso stretto del termine. « Lo sperimen- tatore, egli diceva, pone la sua idea [o ipotesi sperimentale] come una questione, come un’inter- pretazione anticipata della natura, più o meno probabile, da cui deduce logicamente conseguenze che confronta ad ogni istante con la realtà per mezzo dell’esperienza » (Introduction à l’étude de la médecine expérimentale, I, 2). E vedeva la fecon- dità delle ipotesi per la scoperta di fatti nuovi: «Le ipotesi hanno per oggetto non solo di farci fare esperienze nuove, ma ci fanno anche scoprire fatti nuovi che non avremmo percepito senza di esse » (Zbid., III, 1, 2). Ai principi del nostro secolo il carattere dell’ipotesi scientifica (che è quello stesso dell’ipotesi in generale) di non poter essere TEORIA 871 direttamente provata dai fatti veniva chiaramente riconosciuto da E. Mach: « Chiamiamo ipotesi una spiegazione provvisoria che ha lo scopo di far comprendere più facilmente i fatti ma che sfugge ancora alla prova dei fatti» (£rkenntniss und Irrtum, 1905, cap. XIV; trad. franc., pag. 240). E Duhem così elencava le condizioni cui un’ipo- tesi dovrebbe rispondere per essere scelta a fondamento di una T. fisica: 1° l’ipotesi non dev’essere una proposizione contraddittoria; 2° non dev'essere contraddittoria con le altre ipotesi della stessa scienza; 3° le ipotesi devono essere tali che dal loro insieme la deduzione matematica possa tirare conseguenze che rappresentino, con approssi- mazione sufficiente, l'insieme delle leggi sperimentali (La théorie physique, II, 7, 1, pag. 363). Poincaré insisteva a sua volta sulla necessità delle ipotesi per qualsiasi procedura sperimentale e sulla ne- cessità di non moltiplicare le ipotesi stesse. Que- st’ultima avvertenza non è che il vecchio principio dell'economia (v.) o rasoio di Ockham, sempre valido nel campo delle formulazioni concettuali (La science et l'hypothèse, 1902, cap. IX). b) Una T. scientifica non è un’aggiunta interpretativa al corpo della scienza ma è lo sche- letro di questo corpo. In altri termini la T. con- diziona sia l’osservazione dei fenomeni sia l’uso stesso degli strumenti di osservazione. Su questo punto è rimasto classico il libro di Duhem La teoria fisica (1906; cfr. specialmente il cap. IV della seconda parte). È questo un punto che è stato talora sfruttato allo scopo di mostrare il carattere relativo o imperfetto della conoscenza scientifica. Così ha fatto, per es., E. Le Roy (Science et philosophie, 1899-1900). Ma in realtà esso in- valida, non già la scienza, ma la tesi della separa- zione netta tra osservazione e T. e quella della verità assoluta della scienza. c) Una T. scientifica contiene, oltre la sua parte ipotetica, un apparato che consente la sua verificazione o conferma. Duhem distingueva in una T. fisica quattro operazioni fondamentali e cioè: 1° la definizione e la misura delle grandezze fisiche; 2° la scelta delle ipotesi; 3° lo sviluppo matematico della T.; 4° il confronto della T. con l'esperienza (La théorie physique, I, 2, $ 1). Ov- viamente le prime tre di queste operazioni costi- tuiscono la costruzione e lo sviluppo dell’ipotesi, mentre la quarta è diversa e costituisce la fase della conferma. Analogamente, Norman R. Camp- bell ha distinto in ogni T. fisica due gruppi di pro- posizioni: « uno consistente di asserzioni circa qual- che collezione di idee che sono caratteristiche della T.; l’altro consistente nelle relazioni tra queste idee e altre idee di natura diversa ». Il primo gruppo di idee è l’ipotesi, il secondo è il dizionario. Lo scopo del dizionario è di rendere possibile la veri- fica indiretta dell’ipotesi. Dice Campbell: « De- v'essere possibile determinare, indipendentemente dalla conoscenza della T., se certe proposizioni che contengono le idee del dizionario sono vere o false. Il dizionario riferisce alcune di queste proposizioni, la cui verità o falsità è conosciuta, a certe proposizioni che comprendono le idee ipotetiche affermando che, se il primo insieme di proposizioni è vero, allora anche il secondo è vero e viceversa; questa relazione può essere espressa dall’asserzione che il primo insieme implica il secondo + (Physics: the Elements, 1920, pag. 122). Analogamente ancora G. Bergmann ha detto che una T. scientifica consiste di: 1° assiomi; 2° teo- remi; 3° prove di questi teoremi e 4° definizioni (Philosophy of Science, 1957, pag. 35); nella quale elencazione le « prove dei teoremi» costituiscono l’apparato di verificazione della teoria. Due osser- vazioni sono molto importanti a questo proposito. La prima è che le modalità e il grado della prova o conferma, che una T. deve possedere per essere dichiarata o creduta «T. scientifica », non sono definibili con un criterio unitario. Ovviamente, la verità di una T. psicologica o di una T. economica richiede apparati di prova completamente diversi da quello di una T. fisica, perchè le tecniche di verifica sono completamente diverse. Anche i gradi di conferma richiesti sono diversi e spesso, fuori del campo della fisica, si chiamano « T.» semplici congetture che non includono il minimo apparato di prova. La seconda osservazione è che ogni ap- parato di prova esige la limitazione delle ipotesi contenute nella T.: giacchè, dove queste ipotesi si possono moltiplicare ad arbitrio, la T. può es- sere mantenuta anche contro qualsiasi smentita empirica e la sua conferma diventa indifferente (come fu, ad es., nel caso della T. degli epicicli nella cosmologia tolemaica). Ma anche con questa limitazione è spesso difficile decidere sino a che punto l’acquisizione di qualche dato sperimentale si concili con la T. o metta in crisi l’insieme della T. stessa. d) Una T. non è necessariamente una spie- gazione del dominio di fatti cui si riferisce, ma uno strumento di classificazione e di previsione. Già Duhem osservava: « Una T. vera non è quella che dà, delle apparenze fisiche, una spiegazione conforme alla realtà; è piuttosto una T. che rap- presenta in modo soddisfacente un insieme di leggi sperimentali » (La rhéorie physique, I, 2, 1). La verità di una T. consiste nella sua validità; e la sua validità dipende dalla sua capacità di adem- piere alle funzioni cui è chiamata. Le funzioni di una T. scientifica possono essere specificate come segue: 1° una T. deve costituire uno schema 872 di unificazione sistematica per contenuti diversi. Il grado di comprensività di una T. è uno dei fonda- mentali elementi di giudizio della sua validità; 2° una T. d ve offrire un complesso di mezzi di rappresentazione concettuale e simbolica dei dati di osservazione. Sotto questo aspetto, il criterio cui deve soddisfare è quello dell’economia dei mezzi concettuali cioè della sua semplicità logica; 3° una T. deve costituire un insieme di regole di inferenza che consentano la previsione dei dati di fatto. Questo è ritenuto oggi uno dei compiti fondamentali di una T. scientifica; e la capacità di previsione di una T. è il criterio fondamentale per valutarlo (cfr. S. TOULMIN, The Philosophy of Science, 1953, pag. 42; M. K. MUNITZ, Space Time and Creation, 1957, IV, 1). TEOSI. V. DEIFICAZIONE. ‘TEOSOFIA (gr. Brocogla; ingl. Theosophy; fran- cese Théosophie; ted. Theosophie). Il termine veniva già usato dai Neoplatonici per indicare la cono- scenza delle cose divine dovuta a una diretta ispi- razione da Dio (PORFIRIO, De Absr., IV, 17; GIAM- BLICO, De Myst., VII, 1; ProcLOo, Theol. Plat., V, 35). Fu ripreso nello stesso senso da Jacob Bòhme (Sex Puncta Theosophica, 1620; Quae- stiones Theosophicae, 1623) e da altri mistici della Riforma. Kant osservava che la limitazione della ragione «impedisce che la teologia si elevi alla T., a concetti trascendentali in cui la ragione si smar- risce » (Crit. del Giud., $ 89). E Schelling parlava del teosofismo di Jacobi, intendendo per teosofi i filosofi che si ritengono direttamente ispirati da Dio (Miinchener Vorlesungen in Werke, X, pag. 165). In seguito il termine è stato ripreso nel 1875 dai fondatori della Società teosofica tra i quali vi era Elena Petrowna Blavatsky, autrice di due opere /side svelata (1877) e Dottrina segreta (1888) che esponevano la nuova T.: un mi- scuglio di occultismo e di credenze orientali, che si assumeva avesse a suo fondamento una diretta ispirazione di Dio. Le vicende e le dottrine di questa società cadono fuori della filosofia. Basti qui accennare allo scisma provocato da Rudolf Steiner e che portò quest’ultimo alla formulazione dell’antroposofia (v.). ‘TERMINE (gr. 6poc; lat. Terminus; inglese Term; franc. Terme; ted. Terminus). I significati principali sono i seguenti: 1° un segno linguistico o un insieme di segni. Questo è il significato che più da vicino interessa la filosofia (v. oltre); 2° qualsiasi oggetto o cosa cui un discorso si riferisca. In tal senso è sinonimo appunto di oggetto (v.) o di cosa (v.); 3° i confini di un'estensione, per es., il T. di una linea o di una superficie; TEOSI 4° il punto d’arrivo di un’attività o il risul- tato di un’operazione. In questo senso, ad es., il T. della volontà è l’azione o dell’intelletto la conoscenza; 5° il punto di partenza o il punto d’arrivo di un movimento. E in tal senso si parla di terminus a quo e di terminus ad quem (v.). Nel primo significato, che interessa la logica, si possono distinguere i seguenti significati subordinati: a) gli elementi che entrano a comporre le premesse del sillogismo categorico cioè il soggetto e il predicato; b) tutti i componenti semplici che entrano nelle proposizioni. In questo senso sono T. non solo il soggetto e il predicato ma anche i verbi, le pre- posizioni, le congiunzioni cioè i componenti sin- categorematici (v.). Non sono T. invece le propo- sizioni perchè non sono semplici; c) tutti i componenti delle proposizioni sia semplici che complessi. In questo senso generalis- simo sono T. non solo il soggetto, il predicato, il verbo e i componenti sincategorematici, ma anche le proposizioni in quanto possono entrare a far parte di altre proposizioni, come quando si dice « Socrate è uomo, è una proposizione ». Il significato a) è quello definito da Aristotele (An. Pr., I, 1, 24b 16) e che è rimasto a lungo anche nella logica medievale (cfr. PIETRO IsPANO, Summ. Log., 4.01). Gli altri significati sono stati ammessi dalla logica terministica del sec. x1v e si possono leggere in Ockham (Summa Logicae, I, 2). Data questa diversità del significato della parola, le divisioni del concetto sono state numerose e diverse. Quella che i logici terministi considerano come fondamentale è la divisione tra T. scritto, T. parlato, e T. pensato, corrispondenti alle tre specie di proposizioni distinte da Boezio. Essi di- stinsero inoltre i T. categorematici e sincategore- matici (v.); concreti e astratti (v.); connotativi e assoluti (v. CONNOTAZIONE); univoci ed equivoci (v.) (cfr., su queste divisioni, OCKHAM, Summa Logicae, I, 3 sgg.). Nella logica moderna la parola è assunta nel significato più esteso, cioè nel senso c) (cfr. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 4). Nella matematica, è assunta in un analogo significato, intendendosi per T. qualsiasi componente, semplice o complesso, di una espressione. TERMINISMO (ingl. Terminism; franc. Ter- minisme; ted. Terminismus). Sin dai princìpi del sec. xv, si indicarono con il nome di terministi (terministae) o nominalisti (nominales) i sostenitori della tesi nominalistica nella disputa sugli univer- sali (v. NOMINALISMO; UNIVERSALE) che erano, nel contempo, cultori della nuova /ogica, considerata come lo studio delle proprietà dei termini. Gio- TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL vanni Gerson (morto il 1429) già parla della di- sputa tra formalisti e terministi (De Concepribus, in Opera, 1706, IV, pag. 806). E in un manoscritto dello stesso secolo della Biblioteca Colbert (stampato in parte da S. BaLuzi, Miscellanea, IV, pag. 531 f) è detto: «Sono detti nominalisti i dottori che non mol- tiplicano le cose significate dai termini a seconda della moltiplicazione dei termini; realisti invece quelli che affermano che le cose si moltiplicano secondo la molteplicità dei termini... Inoltre sono detti nominalisti coloro che usano studio e dili- genza per conoscere tutte le proprietà dei termini dalle quali dipende la verità o la falsità delle pro- posizioni; le quali proprietà sono la supposizione, la nominazione, l’estensione, la restrizione, la di- stribuzione e gli esponibili: e che conoscono inoltre le antinomie (obligationes) e i veri fondamenti degli argomenti dialettici » (riportato in PRANTL, Geschichte der Logik, IV, pag. 187). Lo studio, di cui qui si parla, delle proprietà dei termini, muo- veva dall’indirizzo generale di questi filosofi e logici per il quale la conoscenza e la scienza non hanno per oggetto altro che termini. Diceva a questo proposito Ockham: « Qualsiasi scienza, sia razio- nale sia reale, è scienza solo di proposizioni e di proposizioni in quanto sono conosciute, in quanto solo le proposizioni sono conosciute. Tutti i ter- mini di queste proposizioni sono soltanto concetti e non già sostanze esterne» (/n Senr., I, d. 2, + 4, M, N) (v. Logica; NOMINALISMO; UNIVERSALE). TERMINOLOGIA (ingl. Terminology; fran- cese Terminologie; ted. Terminologie). Un qualsiasi linguaggio artificiale: ad es., «la T. matematica », «la T. hegeliana », ecc. TERMINUS A QUO, AD QUEM. Espres- sioni usate a proposito del movimento: 7. a quo si chiama il luogo dal quale un mobile si sforza di allontanarsi. 7. ad quem si chiama il luogo al quale il mobile si sforza di avvicinarsi (HOBBES, De Corp., 8, $ 10; WOLFF, Cosmol., $ 161). TERRORISMO (ingl. Terrorism; franc. Ter- rorisme; ted. Terrorismus). Il termine appartiene al dominio della filosofia solo nel significato, at- tribuitogli da Kant, di T. morale: che sarebbe l’interpretazione della storia come decadenza o regresso (Der Streit der Fakultàten, 1798, 1I, 3). TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL (in- glese Principle of Excluded Middle; franc. Principe du milieu ou tiers exclu; ted. Grundsatz vom aus- geschlossenen Dritten). Fu Baumgarten il primo a dare il nome a questo principio e a considerarlo come autonomo nei rispetti del principio di con- traddizione (Mer., 1739, $ 10) per quanto Wolff parlasse della « esclusione del medio tra i contrad- dittori» come di un corollario del principio di contraddizione (Onf., $ 53). 873 Le vicende di questo principio sono strettamente collegate con quelle del principio di contraddizione dal quale, sino a Baumgarten, non fu distinto. Tuttavia Aristotele lo formulò con tutta chiarezza dicendo: « Tra gli opposti contraddittori non c’è un mezzo. Questa infatti è la contraddizione: l’op- posizione, all’una o all’altra parte della quale è presente l’altra parte, sicchè non ha un mezzo» (Met., X, 7, 1057a 33). Nè questa formulazione è isolata perchè (come risulta anche dal passo citato) l’esclusione del T. è da Aristotele ritenuta inelimi- nabile dalla contraddizione (cfr. C. A. ViANO, La logica di Aristotele, 1955, pag. 35 sgg.). La logica medievale ignorò totalmente il principio, che co- minciò ad essere distinto dal principio di contrad- dizione solamente da Leibniz. Questi osservò che il principio di contraddizione contiene due enun- ciati veri: « L’uno che il vero e il falso non sono compatibili nella stessa proposizione o che una proposizione non può essere vera e falsa ad un tempo; l’altro, che l’opposto o la negazione del vero e del falso non sono compatibili o che non c’è un mezzo tra il vero e il falso o che non è pos- sibile che una proposizione non sia nè vera nè falsa » (Nouv. Ess., IV, 2, 1). A partire dalla metà del sec. xv, ad opera di Wolff e Baumgarten, il principio del T. escluso faceva il suo ingresso, insieme con quelli di identità e di contraddizione, tra le «leggi fondamentali del pensiero ». Ma il principio del T. escluso non ha avuto la fortuna degli altri princìpi: è stato talora revocato in dubbio. Secondo una testimonianza di Cicerone lo revocava in dubbio Epicuro per togliere valore alla dialettica (Acad., IV, 30, 97). E mentre Hegel ripeteva contro di esso le solite critiche che indiriz- zava a tutti i principi logici tradizionali (Enc., $ 119), Kant cercava di stabilire una eccezione ad esso, nella discussione delle antinomie cosmologiche. Egli distinse l’opposizione analitica, che è quella della contraddizione e che esclude il medio, dall'oppo- sizione dialettica la quale invece ammette il medio. Se le due proposizioni: «Il mondo rispetto alla grandezza è infinito», «Il mondo rispetto alla grandezza è finito» vengono considerate in oppo- sizione analitica, il mondo non può essere che o finito o infinito. Ma esse possono essere considerate in opposizione analitica solo se si ammette che il mondo sia una « cosa in sè » cioè solo se si ammette come valida l’idea del mondo. Kant dichiara di negare questa validità: pertanto le due proposizioni si trovano ad essere in opposizione dialettica e si può affermare che il mondo «non esiste nè come un tutto in sè infinito nè come un tutto in sè fi- nito » (Crit. R. Pura, Dial. trasc., cap. II, sez. VII. Questo equivale a dichiarare che il principio del T. escluso non è valido nel caso dell’opposizione 874 TERZO dialettica e a introdurre un nuovo valore logico, accanto al vero e al falso, cioè l’indeterminato. La logica contemporanea non si è lasciata sfug- gire la possibilità di costruire una logica che esclu- desse il principio del T. escluso. Dapprima Lu- kasiewicz nel 1920 poi Lukasiewicz e Tarski nel 1930 hanno costruito una logica a tre valori, corrispon- denti al vero, al falso e al possibile, simbolizzati dalle cifre 1, 0, 1/2. In questa logica il principio del T. escluso non trova posto, nel senso che non è esprimibile con i simboli della logica stessa e non costituisce un suo teorema (Untersuchungen liber den Aussagenkalkiil, in Comptes rendus des Séances de la Société des Sciences et des Lettres de Varsovie, 1930, pag. 30-50, 51-77). Gli stessi autori hanno dato le regole per costruire un sistema a un numero finito n di valori di verità (Philoso- phische Bemerkungen zu mehrwertigen Systemen des Aussagenkalkiils, negli stessi Comptes Rendus, 1930, classe III, pag. 51-77). Questo e i precedenti scritti citati sono ora raccolti in Polish Logic 1920-39, Oxford, 1967, pag. 15-65). Un tipo di logica poli- valente era stato anche costruito da E. L. Post (Introduction to a General Theory of Elementary Pro- positions, in American Journal of Mathematics, 1921, 43, 163). A. Heyting ha costruito a sua volta una logica intuizionistica formalizzata a tre valori, vero, falso e indeterminato, che si applica alla teoria intuizionistica della matematica di Brower e che implica la rinuncia alla dimostrazione per assurdo (Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, in Sitzungesber. Preuss. Akad. Wiss. [Phys.-Math. Klasse], 1930, pag. 42-56). La logica a tre valori costituisce perciò una al- ternativa ai sistemi tradizionali di logica. Scriveva C. I. Lewis: «Il principio del T. escluso non è scritto nei cieli: riflette piuttosto la nostra ostina- zione ad aderire al più semplice di tutti i modi della divisione e il nostro interesse predominante per gli oggetti concreti, in opposizione ai concetti astratti. Le ragioni per le quali scegliamo un sistema di logica non sono tratte dalla logica stessa come non sono tratte dai princìpi matematici le ragioni per scegliere le coordinate cartesiane piuttosto che quelle polari o le coordinate di Gauss + (A/terna- tive Systems of Logic, in The Monist, 1932, pag. 505). H. Reichenbach ha a sua volta mostrato l’utilità della logica a tre valori per la meccanica quanti- stica, data la sua natura probabilistica (Philosophic Foundations of Quantum Mechanics, $ 30) (cfr., sulla questione, anche L. RouGIER, Traité de la con- naissance, 1955, II, cap. VII. TERZO UOMO (gr. «piroc &vipwroc). Aristo- tele accenna più volte a un argomento così chiamato contro la dottrina platonica delle idee, argomento che dà per noto e che non espone (Mer., I, 9, UOMO 990 b 17; VII, 13, 1039a 2; El. Sof., 178b 36). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Met., I, 9) l’argomento consisterebbe nel dire che, poichè un uomo particolare è simile all’uomo ideale, ci deve essere un terzo uomo di cui entrambi partecipano. Ma questo è l’argomento addotto contro la dottrina delle idee dallo stesso Platone, che tuttavia non menziona l’esempio dell’uomo (Parm., 132 a). Ales- sandro tuttavia menziona anche altre forme del- l’argomento del T. uomo: 1° una è quella usata dai Sofisti: quando diciamo «l’uomo passeggia» non intendiamo nè l’idea dell’uomo (che è immobile) nè un uomo particolare: dobbiamo allora intendere un uomo di una terza specie; 2° Fania, uno scolaro di Aristotele, nel suo libro contro Diodoro Crono attribuiva al sofista Polisseno il seguente argomento. Se l’uomo esiste per partecipazione all’idea del- l’uomo, ci deve essere qualche uomo che avrà il suo essere in rapporto all’idea: ma questo non sarà nè l'idea stessa nè l’uomo particolare. Infine lo stesso Alessandro nota come l’argomento del T. uomo esposto nella prima forma può essere ripetuto all’infinito perchè il rapporto tra il T. uomo da un lato e l’idea e l’uomo particolare dall’altro possono dar luogo al quarto e quinto uomo e via di seguito. Poichè Platone fa esporre l’argomento da Par- menide contro quella interpretazione della dottrina delle idee che scpara nettamente le idee stesse dalle cose, è probabile che l’argomento fosse corrente nella stessa scuola platonica; la sua origine sembra però megarica o sofistica (cfr. la nota di W. D. Ross a Met., I, 9, nella edizione della Metafisica aristo- telica da lui curata; nonchè del Drès al Parmenide, nella Coll. des Univ. de France, VIII, pag. 21). TESI (gr. 6éow; ingl. Thesis; franc. Thèse; te- desco These). Il termine deriva dai testi logici aristotelici, nei quali ricorre con due significati prin- cipali e cioè: 1° per designare ciò che all’inizio di una di- scussione l’interlocutore pone come propria assun- zione (Top., II, 1, 109a 9); 2° per designare una proposizione assunta come principio proprio (An. Post., 1, 2, 72a 14). Questi due significati si sono conservati nella tradizione filosofica. Il primo ricorre già in Pla- tone (Rep., I, 335a); e, secondo una tradizione riferita da Diogene Laerzio, si attribuiva a Protagora l’aver per primo mostrato come si appoggi una T. con argomenti (Drog. L., IX, 53). Nella termino- logia dei logici medievali e dei matematici è pre- valso questo significato: la T. designa una propo- sizione che ci si accinge a dimostrare. Con Kant il termine ha acquistato un nuovo valore filosofico: nelle antinomie della Ragion pura T. è l'enunciato affermativo dell’entinomia (v.). TETICO Nella dialettica post-kantiana, il momento della T. è l’elemento positivo o di posizione, quindi iniziale, di un processo o sviluppo dialettico (v. DIALET- TICA, 4°). G. P. TESTABILITÀ o ATTESTABILITÀ (in- glese Testability; franc. Testabilité; ted. Testabi- litàt). La possibilità di un enunciato di essere messo a prova e quindi d’essere confermato o verificato oppure sconfermato o falsificato. Il ter- mine è frequentemente usato da logici e metodo- logi contemporanei. L’attestabilità comprende ogni possibilità di conferma, di verifica, di accertamento e di controllo, in quanto ognuna di tale possibilità può mettere capo sia alla prova (v.) sia alla di- sprova dell’enunciato in questione. Carnap ha tuttavia ristretto il significato del termine a quello di verifica empirica incompleta, giacchè ha inteso per esso « una procedura la quale conduce alla conferma, almeno in un certo grado, dell’enunciato o della sua negazione ». Si ha la T., se si possiede effettivamente una procedura del genere. Si ha invece la semplice confermabilità se pur non possedendosi quella procedura, si cono- scono le condizioni nelle quali l’enunciato sarebbe confermato. Un enunciato può essere così confer- mabile senza essere attestabile: come accade quando si sa che una certa osservazione lo confermerebbe, ma non si è in grado di effettuare l’osservazione stessa (Testability and Meaning, 1936, in Readines in the Philosophy of Science, 1953, pag. 47). Camap ha pure distinto ciò che è direttamente e ciò che è indirettamente attestabile. Qualcosa è direttamente attestabile se «sono concepibili circostanze nelle quali noi consideriamo fiduciosamente l’enunciato così fortemente confermato o disconfermato sulla base di una o poche osservazioni, che lo accet- tiamo o lo rigettiamo senz'altro; come, per es., ‘c’è una chiave sul mio tavolo ’ ». L’attestazione indiretta di un enunciato consiste invece « nell’at- testare direttamente altri enunciati i quali stanno in una relazione logica specifica con l’enunciato in questione ». Questi altri enunciati possono essere chiamati enunciati-prova (rest sentences) (Truth and Confirmation, 1936, in Readings in Philosophical Analysis, 1949, pag. 124). TESTIMONIANZA (ingl. Witnessing, Testi- mony; franc. Témoignage; ted. Zeugniss). Il ricorso all’esperienza altrui o alle altrui asserzioni come metodo di prova per le proposizioni che esprimono fatti. Già Aristotele aveva notato che la T. può riferirsi «0 a questioni di fatto o a questioni di caratteri personali » che sono anche questioni di fatto (Ret., I, 15, 1376 a 23). Il valore della testi- monianza in questo senso si trova riconosciuto nella Logica di Portoreale (1662). « Per giudicare della verità di un avvenimento e determinarmi a 875 crederlo o non crederlo, non bisogna considerarlo in se stesso, come si farebbe con una proposizione di geometria, ma bisogna considerare tutte le cir- costanze che lo accompagnano, sia interne che esterne. Chiamo interne le circostanze che ap- partengono al fatto stesso, ed esterne quelle che concernono le persone per la cui T. siamo portati a crederlo » (ARNAULD, Log., IV, 13). Locke a sua volta introduceva la T. come uno dei due fonda- menti del giudizio di probabilità (l’altro essendo «la conformità di una cosa con la nostra conoscenza, osservazione od esperienza »). Nella T. degli altri sono, secondo Locke, da considerare: « 1° il numero dei testimoni; 2° la loro integrità; 3° la loro capa- cità; 4° l'intento dell’autore, se la T. è tratta da un libro; 5° la coerenza tra le parti e le circostanze della relazione; 6° le T. contrarie » (Saggio, IV, 15, 4). Leibniz ammetteva il valore della T. solo subor- dinatamente al carattere di verisimiglianza del- l’evento testimoniato, come argomento « non arti- ficiale» che si differenzia da quelli «artificiali» che sono dedotti dalle cose con il ragionamento. Tuttavia osservava che la stessa T. può fornire un fatto che tende a formare un argomento arti- ficiale (Nouv. Ess., IV, 15, 4). Hamilton così rias- sumeva la dottrina della T.: « L'oggetto della T. è detto il farro (factum); e la sua validità costituisce ciò che si chiama la credibilità storica (credibilitas historica). Per valutare questa credibilità si richiede di considerare: 1° l'attendibilità soggettiva della T. (fides testium); 2° la probabilità oggettiva del fatto. La prima è fondata in parte sulla sincerità e in parte sulla competenza del testimone. La seconda dipende dalla possibilità assoluta e relativa del fatto stesso. La T. è o immediata o mediata. È immediata quando il fatto riportato è l’oggetto di un’esperienza personale; è mediata quando il fatto è l'oggetto di un’esperienza altrui» (Lectures on Logic, 2* ediz., II, pag. 175-76). TEST-SENTENCE. V. TESTABILITÀ. TETICA (ted. Therik). Secondo Kant, « ogni insieme di dottrine dogmatiche », in opposizione ad Antitetica (v.) (Crit. R. Pura, Dialettica, libro II, cap. 2, sez. 2). TETICO (ingl. Thetic; franc. Thétique; tedesco Thetisch). Che afferma o pone. Fichte chiamò giudizio T. «un giudizio nel quale qualcosa sa- rebbe posta non già come uguale o contraria di un’altra, ma solo come uguale a se stessa ». Questo giudizio si distinguerebbe dal giudizio antitetico e dal giudizio sintetico e precisamente si oppor- rebbe al giudizio antitetico. Il supremo giudizio T. sarebbe «Io sono» nel quale, dice Fichte « dell’io non si afferma nulla ma il posto del predicato è lasciato vuoto per la possibile determinazione dell’io all’infinito ». Questo giudizio sarebbe « l’as- 876 soluta posizione dell'io » (Wissenschaftslehre, 1794, 1,$3,D7. L'aggettivo è stato poi spesso adoperato in senso analogo a quello stabilito da Fichte. Husserl ha chiamato T. «gli atti che pongono l’essere » cioè che hanno il carattere della credenza (/deen, I, $ 103), TETRAKTYS (gr. terpaxtic). Secondo i Pitago- rici, la somma dei primi quattro numeri, cioè il numero 10, in quanto rappresentabile con un trian- golo che ha il quattro per lato. (Carm. Aur., 48). La figura costituisce una disposizione geometrica che esprime un numero o un numero espresso da una disposizione geometrica. Essa aveva un carat- tere sacro e i Pitagorici usavano giurare per essa. TEURGIA (gr. deovpyla; lat. Theurgia; inglese Theurgy; franc. Théurgie; ted. Theurgie). Il potere magico o purificatorio delle tecniche religiose cioè dei riti. Già ammessa da Porfirio (cfr. AGOSTINO, De Civ. Dei, X, 9), essa fu posta da Giamblico al di sopra dell’unione spirituale con Dio cioè dell’estasi. Il proprio della T, è, secondo Giamblico, il valore autonomo che i riti posseggono, indipen- dentemente da coloro che li adoperano: cioè la loro capacità di muovere o persuadere le potenze divine (De Myst. Aegyp., II, 11). S. Agostino si fermò a criticare lungamente la T. che pareva a lui si rivolgesse indifferentemente sia ai demoni cattivi sia agli angeli (De Civ. Dei, X, 10 sgg.). Kant considerò la T. come « quella illusione fan- tastica che consiste nel credere di avere il senso di altri esseri soprasensibili e di poter influire su di essi» e ritenne che essa, come la teosofia, è resa impossibile dal riconoscimento della limita- zione della ragione (Crit. del Giud., $ 89). TICHISMO. V. CasuaLisMo. TIMOCRAZIA (gr. tiuoxparta; ingl. Timocracy; franc. Timocratie; ted. Timokratie). 1. La forma di governo fondata sul desiderio degli onori che, secondo Platone, è una corruzione dell’aristocrazia (Rep., VII, 545 b). 2. La forma di governo fondata sul censo, se- condo Aristotele (E. Nic., VIII, 10, 1160a 36). TIMOLOGIA. AxioLogia. TIPICA (ingl. Typics; franc. Typique; tedesco Typik). Kant ha chiamato «T. del giudizio pra- tico» ciò che nella Critica della Ragion Pratica corrisponde allo schematismo (v.) trascendentale della Critica della Ragion Pura. Il tipo della legge morale è la stessa legge morale in quanto « può essere manifestata in concreto nell’oggetto dei sensi » cioè in quanto è liberamente realizzata nel mondo sensibile (Crir. R. Prat., I, libro I, cap. II). TIPICO (ingl. Typical; franc. Typique; ted. Ty- pisch). In generale, ciò che corrisponde ad un tipo cioè ad un modello o a una rappresentazione gene- rale o schematica o ciò che esprime o realizza i TETRAKTYS caratteri del tipo. Così, ad es., la « bellezza T.» che Ruskin esaltava è una bellezza idealizzata secondo un certo modello. La « rappresentazione T.+» è una rappresentazione generalizzata e co- mune a una classe di cose. I « caratteri T. + sono quelli che contrassegnano il tipo; mentre una «esperienza T.» è un’esperienza che può far da modello a molte altre esperienze o ne riassume i caratteri comuni. Il termine, come si vede, non ha un significato rigoroso ma implica costantemente il riferimento a ciò che è comune e generale e che, appunto come tale, è ritenuto fondamentale. TIPO (gr. ròrog; ingl. Type; franc. Type; te- desco Typus). Nel senso di modello, forma o schema o insieme collegato di caratteristiche che può essere ripetuto da un numero indefinito di esemplari, la parola è usata già da Platone (Rep., 379 a, 380, 396 e, ecc.) e da Aristotele (Er. Nic., II, 2, 1104 a 1; Ibid., II, 7, 1107b 14; ecc.). Galeno la usò per indicare le forme della malattia (Op., ed. Kihn, VII, 463). E la parola è rimasta con lo stesso signi- ficato in molti usi correnti del linguaggio comune, scientifico e filosofico. In particolare la biologia e la psicologia fanno un uso amplissimo del termine e lo considerano fondamentale. Dice, ad es., Kret- schmer: « Ciò che noi chiamiamo, matematicamente, punti focali di correlazioni statistiche, chiamiamo anche, in prosa più descrittiva, T. costituzionali... Un T. vero può essere riconosciuto dal fatto che esso conduce a sempre maggiori connessioni di importanza biologica. Dove vi sono molte e sem- pre nuove correlazioni con i fattori biologici fon- damentali... abbiamo a che fare con punti focali della più grande importanza » (Korperbau und Cha- rakter, 1948). Nella psicologia analogamente il T. è definito come «un gruppo di tratti correlativi + allo stesso modo in cui un tratto è definito come un gruppo di atti comportamentistici o di tendenze di azioni correlative (H. J. EySENCK, The Structure of Human Personality, 1953, pag. 13 sgg.). Il significato della parola non cambia nella cosid- detta « teoria dei T. logici » di Russell e Whitehead, nella quale designa appunto le forme o i modelli dei concetti (v. ANTINOMIA). Peirce ha inteso per T. una parola o un segno che non è una cosa singola o un singolo evento ma una « forma defi- nitamente significante » che per essere usata deve prender corpo in un gettone (Token) che dev'essere il segno di un T. e perciò dell'oggetto che il T. significa. Un T. è, per es., l’articolo «il» nella lingua italiana che non può essere visto o ascol- tato perchè non è un singolo evento, ma deter- mina i singoli eventi cioè i gettoni o gli esempi di esso nel discorso scritto o parlato (Coll. Pap., 4.537) (v. GETTONE; PAROLA; SEGNO). TOLLERANZA TIPOLOGIA (ingl. Typology; franc. Typologie; ted. Typologie). Lo studio dei tipi, in una qualsiasi disciplina o scienza; ad es., T. biologica, T. raz- ziale, T. psicologica, ecc.TIRANNIDE(gr. tupawilc; lat. Tyrannis; ingl. Tyranny; franc. Tyrannie; ted. Tyrannie). La forma di governo nella quale l’arbitrio di una o più persone tiene il posto del diritto. Il concetto di T. fu elaborato dai Greci, insieme con quello di libera costituzione. La definizione del tiranno è già contenuta nei versi di Euripide: « Non c’è peggior nemico che un tiranno in una città, sotto il quale scompaiono tutte le leggi comuni e uno solo comanda, tenendo in sua mano la legge» (Suppi., II, 429-32). Secondo Platone la T. è lo sbocco dell'eccessiva libertà in cui cadono talora le democrazie. « Il popolo fuggendo il fumo, come si suol dire, della servitù sotto un governo di uo- mini liberi si trova, con la T., caduto nel fuoco della servitù sotto il dispotismo di servi e in cambio di quell’eccessiva e inopportuna libertà, è costretto a vestire la tunica dello schiavo e a soggiacere alla più triste ed amara delle servitù, quella d’essere servo dei servi » (Rep., VIII, 569 b-c). A sua volta Aristotele dice che la T. raccoglie in- sieme i mali della democrazia e della oligarchia. Dalla oligarchia prende il suo fine che è la ricchezza (che è l’unica condizione a cui si può mantenere la guardia e la vita di lusso) nonchè la sfiducia nel popolo cui toglie le armi e il danneg- giamento della popolazione allontanata dalla città e dispersa nelle campagne. Dalla democrazia prende la lotta contro i maggiorenti, la loro rovina provo- cata occultamente o manifestamente e il loro esilio (Pol., V. 1, 1311 a 8 sgg.). Nel Medio Evo, mentre S. Tommaso ritiene che « dalla monarchia se si tra- sforma in T. segue minor male che da un governo di più ottimati quando si corrompe» (De regimine prin- cipum, I, 5); e condanna il tirannicidio, affidando alla pazienza dei sudditi la sopportazione della T. o a un potere superiore il potere di eliminarla (/bid., I, 6), Giovanni di Salisbury fa una esplicita difesa del tiran- nicidio perchè considera il tiranno come un ribelle contro la legge dalla quale i re, come tutti i citta- dini, sono vincolati (Policraticus, IV, 7). Queste idee furono poi spesso ripetute dai monarcomachi e giusnaturalisti del sec. xvi e xvil. Diceva Bodin: «La più notevole differenza tra il re e il tiranno è che il re si conforma alle leggi di natura, il ti- ranno le calpesta; l’uno coltiva la pietà, la giustizia e la fede, l’altro non ha Dio nè fede nè legge» (De la République, 1576, II, 4, 246). A sua volta Locke affermava: « Dove la legge finisce, comincia la T., quando la legge sia trasgredita a danno di altri, e chiunque nell’autorità ecceda il potere con- feritogli dalla legge e fa uso della forza per com- 877 piere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non permette, cessa, in ciò, di essere magistrato e, in quanto delibera senza autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che con la forza viola il diritto altrui » (Two 7reatises of Governementr, II, $ 202). Hobbes aveva affermato al contrario che «coloro che sono contrari ad una monarchia la chiamano tirannia + (Leviarà., II, 19, 2). Il concetto della T. ha accompagnato la forma- zione del liberalismo politico perchè è servita come pietra di paragone o come simbolo di tutto ciò che il liberalismo condannava. Come tale, essa ha pure costituito uno dei temi della retorica rivolu- zionaria e liberale dal sec. xvi in poi. Oggi si fa un uso assai meno frequente del termine, non già perchè i regimi tirannici siano spariti o sia sparito il pericolo che essi si instaurino anche là dove vige un certo grado di libertà, ma solo perchè il ter- mine sembra appartenere ad un tipo di retorica caduto in disuso. Assolutismo o totalitarismo sono i termini che hanno sostituito tirannide. Ma il concetto non è mutato; e queste stesse parole significano ancora: un regime in cui l’arbitrio indi- viduale tiene il posto della legge; una servitù im- posta da servi: un governo che non si può mutare nè correggere se non con la violenza. TITANISMO. V. RoManTICISMO. TOLLERANZA (ingl. Toleration; franc. To- lérance; ted. Toleranz). 1. La norma o il principio della libertà religiosa. Si è ritenuta talora poco adatto a designare questo principio un termine che significa « sopportazione »; ma in realtà la parola è stata l'emblema di quella libertà sin dalle prime lotte che essa è costata e attraverso le quali si è venuta affermando in forme che sono ancor oggi deboli o incomplete. Nessun altro termine potrebbe perciò sostituirla. Fin da queste lotte, la T. fu in- tesa come la coesistenza pacifica tra varie confes- sioni religiose ed oggi s’intende, in senso ancora più generale, come la coesistenza pacifica di tutti gli atteggiamenti possibili in materia religiosa. Il criterio per riscontrare se tale esigenza si trova realizzata nelle situazioni storiche o politiche par- ticolari è uno solo: la sua realizzazione significa infatti che nessuna violenza o inquisizione giu- ridica o poliziesca o diminuzione o perdita di diritti o discriminazione qualsiasi, colpisca il cit- tadino a causa delle sue convinzioni, positive o negative, in materia religiosa. Il principio della T. o almeno un suo corollario immediato, la possibilità di salvarsi anche senza la fede cristiana, compare in qualche filosofo del sec. xIv specialmente in Ockham. Dice Ockham: « Non è impossibile che Dio ordini che colui che vive secondo i dettami della retta ragione e non 878 creda se non a ciò che la sua ragione naturale conclude che sia da credersi, sia degno di vita eterna. E se Dio così dispone, potrebbe anche salvarsi chi altra guida non ebbe nella vita che la retta ragione + (/n Senr., III, q. 8, ©). D'altronde la T. religiosa è già implicita nel concetto che Ockham aveva della Chiesa infallibile come della comunità dei fedeli vissuti dai tempi dei profeti fino ad oggi (Dialogus inter magistrum et discipulum, I, IV, in GoLpasT, Monarchia, II, pag. 402); e del papato come di un principato ministrativus che non può togliere a nessuno i diritti e le libertà che Dio ha dato a tutti gli uomini e che il cristianesimo è venuto a rivendicare (De Imperatorum et Pontifi- cum Potestate, IV, ed. Scholz, II, pag. 458). La famosa novella di Boccaccio dei tre anelli (Deca- merone, 28) illustra ugualmente la possibilità di salvezza data egualmente a Maomettani, Ebrei e Cristiani. Tuttavia, il principio della T. cominciò ad affacciarsi come elemento indispensabile della vita civile dell’occidente soltanto dopo la Riforma, nelle lotte che contrapposero l’una all’altra le varie parti della cristianità. Probabilmente fu espli- citamente affermato per la prima volta da quel gruppo di riformati italiani che respinsero il dogma della Trinità cioè dai Sociniani, che furono co- stretti da Calvino a fuggire in Transilvania e in Polonia dove propagarono la loro dottrina. Nel 1565 Giacomo Aconcio nel suo Straragemata Sa- tanae vedeva nell’intolleranza religiosa un tranello di Satana e affermava che è essenziale alla fede solo ciò che incoraggia la speranza e la carità. Nel 1580 Michele di Montaigne difendeva in un suo saggio, per motivi di natura politica, la libertà di coscienza (Ess., II, 19). Verso il 1593 Jean Bodin nel Colloquium heptaplomeres, sosteneva la necessità della pace religiosa ottenibile con un ritorno alla religione naturale che eliminerebbe le controversie dogmatiche. A sua volta Grozio riteneva fonda- mentali le credenze della religione naturale e non obbliganti quelle della religione positiva che sono spesso ambigue. Secondo Grozio, credere nel cri- stianesimo è possibile solo con l’aiuto misterioso di Dio; e per conseguenza volerlo imporre con le armi è contrario alla ragione (De jure belli ac pacis, 1625, II, 20, 48-49). Il poeta Milton scriveva nel 1644 il suo discorso per la libertà di stampa intitolato Areopagitica. Tutte queste difese del prin- cipio della T. adducono in favore di esso argo- menti politici e religiosi, più che filosofici o concet- tuali; più spesso anzi gli argomenti addotti sono specificamente religiosi e hanno quindi valore sol- tanto per chi condivida le credenze religiose cui esse fanno appello. Il primo a impiantare la difesa della T. su argo- menti obiettivi è stato Spinoza che ha addotto in TOLLERANZA favore di esso l’argomento principe e, cioè che la violenza e l'imposizione non possono promuovere la fede e che pertanto le leggi che si propongono questo scopo sono inutili (Tractatus rheologico-politicus, 1670, cap. 20). Ma da questo punto di vista è e rimane classica l’Epistola sulla T. (1689). In questo scritto Locke fa vedere come, esaminando indipen- dentemente l’uno dall’altro il concetto dello Stato e quello della Chiesa, il principio della T. risulti come il punto d’incontro dei loro compiti e dei loro interessi rispettivi. Lo Stato è infatti « una società di uomini stabilita unicamente per conser- vare e promuovere i beni civili »: intendendosi per beni civili la vita, la libertà, l’integrità e il benessere corporeo, il possesso dei beni esterni, ecc. Tra i suoi compiti pertanto non rientra la cura delle anime e della loro salvezza eterna perchè di fronte a questo compito il magistrato civile, da un lato è incompetente come qualsiasi altro cittadino, dal- l’altro non ha alcun strumento efficace: giacchè l’unico suo strumento è la costrizione e nessuno può essere costretto a salvarsi. Dall’altro lato, la Chiesa è « una libera società di uomini, congiun- tisi spontaneamente per servire Dio in pubblico a quel modo che giudicano a Lui più accetto, per conseguire la salute delle loro anime +. Come so- cietà libera e volontaria essa non può vincolare nessuno con la forza; e le sanzioni che sono di sua competenza sono le esortazioni, gli ammoni- menti e i consigli che, soli, possono promuovere la persuasione e la fede. Il principio della T. ga- rantisce ugualmente l’interesse religioso della Chiesa e l’interesse politico dello Stato, i diritti dei citta- dini e le esigenze dello sviluppo culturale e scien- tifico. Tuttavia, neppure nell’Epistola di Locke il prin- cipio della T. ha un’espressione completa perchè Locke riteneva che « coloro che negano l’esistenza di Dio, non devono essere tollerati in alcun modo +. Soltanto il trionfo dell’Illuminismo nel sec. xvui e del pensiero politico liberale nel sec. xix, hanno portato a riconoscere il principio di T. nella sua forma completa, che è quella esposta sopra. Poco o nulla però la posteriore letteratura ha aggiunto alle giustificazioni date a questo principio dallo stesso Locke; e neppure, a questo proposito, si distingue il Trattato sulla T. (1763) di Voltaire che è giustamente famoso per l’influenza storica che esercitò. Il principio della T. è entrato a far parte della coscienza civile dei popoli di tutto il mondo. Tut- tavia, la sua realizzazione nelle istituzioni che reg- gono la vita di molti popoli è incompleta e soggetta a sempre nuovi pericoli. Le discussioni che talora suscita sono prevalentemente ispirate dal desiderio di mantenere o di riconquistare, a qualche parti- TOTALITÀ colare confessione religiosa, un privilegio di fatto che si cerca alla meglio di conciliare con l’ossequio formale reso al principio (cfr. specialmente: F. Rur- FINI, La libertà religiosa, 1901; LuIcI LUZZATTI, La libertà di coscienza e di scienza, 1909; J. B. Bury, A History of Freedom of Thought, 1913; nuova ediz., 1952; W. K. JorDaN, The Development of Religious Toleration in England, 1932 sgg. 2. Nel linguaggio comune, e talora in quello filosofico, la T. è intesa anche in un senso più vasto, come comprensiva di ogni forma di libertà, morale, politica e sociale. Così intesa è identificata con il pluralismo dei valori, dei gruppi e degli inte- ressi nella società contemporanea; e talvolta si scorge in questo pluralismo un mezzo per mantenere il controllo dei gruppi sociali esistenti sull’intera so- cietà e quindi un ostacolo alla realizzazione di una forma nuova di società. Per « T. pura» si intende talora quella estesa alle politiche, alle condizioni e ai modi di comportamento che non dovrebbero essere tollerati, perchè impediscono, se non di- struggono, le probabilità di creare un’esistenza senza paura e sofferenza; e Marcuse ha affermato che, se la T. indiscriminata è giustificata nei dibattiti innocui e nelle discussioni accademiche ed è indi- spensabile nella religione e nella scienza, non può essere ammessa quando sono in giuoco la pace, la libertà e la felicità dell’esistenza, perchè in questo caso equivarrebbe alla repressione di ogni fattore innovatore nella realtà sociale (A Critigue of Pure Tolerance, di WoLFF, MOORE jr. e MARCUSE, 1965). Tuttavia, in questo significato più generico, la pa- rola T. non si distingue da libertà e i suoi pro- blemi sono senz'altro quelli dei limiti e delle con- dizioni della libertà politica. TOLLERANZA, PRINCIPIO DI. V. Con- TRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; CCONVENZIONALISMO. TOMISMO (ingl. Thomism; franc. Thomisme; ted. Thomismus). I capisaldi della filosofia di S. Tommaso, che sono stati ritenuti e difesi dagli indirizzi medievali e moderni che si ispirano a lui. Tali capisaldi possono essere ricapitolati così: 1° La dottrina dei rapporti tra ragione e fede consistente nell’affidare alla ragione il compito di dimostrare i preamboli della fede (v. PREAMBULA), di chiarire e difendere i dogmi indimostrabili e di procedere in modo relativamente autonomo (cioè salvo il rispetto delle verità di fede che non possono essere contraddette) nel dominio della metafisica e della fisica; 2° La dottrina della analogicità dell’essere (vedi ANALOGIA) che consiste nel ritenere che il termine essere riferito alla creatura ha un significato non identico ma solo simile o corrispondente all'essere di Dio. Questo principio, che S. Tommaso derivava da Avicenna, serve a stabilire la distinzione tra 879 teologia e metafisica e la dipendenza della metafi- sica dalla teologia; 3° La dottrina del carattere astrattivo della conoscenza, la quale consiste in ogni caso nel- l’astrarre dall’oggetto o la specie sensibile o la specie intellegibile (che corrisponde all’essenza della cosa); 4° La dottrina che l’individuazione dipende dalla materia segnata (v. INDIVIDUAZIONE); 5° L’illustrazione rimasta classica dei due dogmi cristiani della Trinità e dell’Incarnazione (v. INCAR- NAZIONE; RELAZIONE; TRINITÀ). Questi capisaldi distinguono nettamente il T. dallo scotismo (v.) con cui esso si divise il campo nei secoli x1v e seguenti; e costituiscono anche i punti di maggior interesse della ripresa del T. nella neo- scolastica contemporanea. Alla formazione storica del T. aveva contribuito oltre l’opera di Alberto Magno, maestro di S. Tommaso, l'opera di Avi- cenna e quella di Mosè Maimonide. TOPICA (gr. roruà téxm; lat. Topica; ingl. To- pics; franc. Topique; ted. Topik). La teoria dei luoghi logici e l’arte di inventarli (v. LuoGHI). Kant ha chiamato 7. trascendentale la dottrina dei luoghi trascendentali cioè dei posti che si as- segnano ai concetti nella sensibilità o nell’intelletto puro. Questa T. dovrebbe evitare l’anfibolia dei concetti di riflessione cioè l’uso malsicuro di questi concetti (Crir. R. Pura, Analitica trasc., Nota al- l’anfibolia). Droysen ha parlato anche di una 7. storiografica che sarebbe la raccolta delle esposizioni di ciò che è stato storicamente indagato (Grundzijge der Historik, 1882, $ 18). TOPOLOGIA (ingl. Topology; franc. Topo- logie; ted. Topologie). Con questo nome o con quello di analysis situs s'intende, da un secolo a questa parte, lo studio delle proprietà delle figure geome- triche che rimangono invarianti anche quando le figure stesse sono sottoposte a trasformazioni così radicali da perdere le loro proprietà metriche e proiettive. La T. ha il suo precursore in Eulero (1707-83); ma la sua prima formulazione si trova nell’opera di A. F. Moebius (1790-1868) (cfr. spe- cialmente O. VEBLEN, Analysis situs, 2> ediz., 1931, e le voci GRUPPO; TRASFORMAZIONE). Alcuni concetti della T. trovano applicazioni in altre discipline. In particolare nella psicologia della forma è stato utilizzato il concetto topologico di regione (con le sue varie determinazioni) che si presta a esprimere lo spazio vitale di un orga- nismo (Kurt LEWIN, Principles of Topological Psy- chology, 1936, specialmente cap. XI sgg.) (vedi CAMPO; PSICOLOGIA). TOTALITÀ (gr. rè 820y; lat. Universitas; in- glese Torality; franc. Totalité; ted. Allheit, Tota- 880 litàt). Un tutto completo nelle sue parti e perfetto nel suo ordine. Questo fu il concetto che Aristo- tele dette della T. in quanto distinta dal tutto le cui parti possono mutare la loro disposizione senza modificare l’insieme (Mer., V, 26, 1024a 1). In questo senso il mondo (cosmo) è una T., ma non così l’universo (v. MonDO). La nozione di T. ha conservato anche nelle lingue moderne la caratteristica della completezza e della perfetta disposizione delle parti. Secondo Kant, la «T. delle condizioni» corrisponde, nella sintesi dell’intuizione, all’universalità del predicato nella premessa maggiore del sillogismo. La nozione di una T. delle condizioni è l’idea della Ragion pura. L'idea è perciò, secondo Kant, la nozione di una perfezione, sebbene non di una perfezione reale (Crit. R. Pura, Dialettica, libro I, sez. I-II) (v. TUTTO). TOTALITARISMO (ingl. Totalitarianism; franc. Totalitarisme; ted. Etatismus). La dottrina o la prassi dello Stato totalitario cioè dello Stato che pretende identificarsi con l’intera vita dei suoi cittadini. Il termine è stato coniato per indicare la dottrina del fascismo italiano e del nazismo te- desco. È talora anche usato a indicare ogni dot- trina assolutistica, in qualsiasi campo si riferisca. La parola viene usata in questo senso da G. H. SABINE, A History of Political Theory, 1951, cap. 35; trad. ital., pag. 708 sgg.). Spesso per estensione s’intende per T. Sl forma di assolutismo dottrinale o politico. TOTEMISMO (ingl. Totemism; franc. Toté- misme; ted. Totemismus). La credenza nel rotem o l’organizzazione sociale fondata su questa credenza. Il termine totem è stato desunto dal linguaggio degli Indiani d'America e poi esteso a indicare il fenomeno (che si ripresenta in tutti i popoli pri- mitivi) per il quale una cosa (naturale o artificiale) diventa l'emblema del gruppo sociale e la garanzia della sua solidarietà. Su questo carattere del torem ha insistito soprattutto Durkheim, che ha visto in esso l’espressione dell’unità del gruppo sociale nella sua interezza e perciò nelle relazioni che i c/ans, in cui esso si divide, hanno l’uno con l’altro (Les formes élementaires de la vie religieuse, 1912). Ac- canto a questo carattere del T., A. R. Radcliffe- Brown ha messo in luce il suo carattere ancora più universale, consistente nel fatto che il T. co- stituirebbe « una rappresentazione dell’universo come un ordine morale e sociale » e pertanto la regola- zione del rapporto tra l’uomo e la natura, oltre che quella del rapporto tra l’uomo e l’uomo come tale, sarebbe un elemento universale della cultura umana (Structure and Function in Primitive Society, 1952, cap. VI). A un fenomeno linguistico formale sembra invece ridurre il T. Levi-Strauss: «Il co- siddetto T. è solo un’espressione particolare, per mezzo di una speciale nomenclatura formata di nomi TOTALITARISMO di animali e di piante (o come noi diremmo, in un certo codice) la quale è il suo solo carattere distintivo, delle correlazioni e opposizioni che pos- sono essere formalizzate in altri modi: per es., come accade in certe tribù del Nord e Sud America, da opposizioni del tipo cielo-terra, guerra-pace, in su-in giù, rosso-bianco, ecc.» (Le rotémisme ajourd’hui, 1962, pag. 127). Dall'altro lato Freud aveva presentato una interpretazione psicanalitica del T.: « Se l’animale rotem è il padre, allora i due principali precetti del T., quello di non uccidere il totem e quello di non usufruire sessualmente di alcuna donna dello stesso fofem, coincidono in so- stanza con i due crimini di Edipo che uccise suo padre e prese in moglie sua madre, e con i desi- deri primitivi del bambino, desideri la cui rimo- zione insufficiente o il cui risveglio costituiscono forse il nocciolo di tutte le psiconevrosi » (Totem e tabù, 1913, IV, 3; trad. ital., pag. 146). Per una con- cezione analoga a questa di Freud cfr. J. G. FRAZER, Totemism and Exogamy, 1910. TOTO-PARZIALE, TOTO-TOTALE (in- glese Toto-partial, Toto-total). Espressioni adoperate da W. Hamilton per indicare rispettivamente la pro- posizione in cui il soggetto è preso universalmente e il predicato particolarmente (es.: gli uomini sono animali) e la proposizione in cui sia il soggetto che il predicato sono presi universalmente (es.: gli ani- mali sono mortali) (Lecrures on Logic, II, pag. 287). TRADIZIONALISMO (ingl. Traditionalism; franc. Traditionalisme; ted. Traditionalismus). 1. La difesa esplicita della tradizione, che, nell’ambito dello spirito romantico, trovò in Francia i suoi protagonisti in: Madame de Staél (1766-1817), che nella sua opera De l’Allemagne (1813) vide nella storia umana una progressiva rivelazione religiosa; Renato di Chateaubriand (1769-1848) che nel Génie du Christianisme (1802) vide nel cattolicesimo il depositario dell’intera tradizione delle umanità; e in Luigi de Bonald (1754-1840), Giuseppe de Maistre (1753-1821) e Roberto Lamennais (1782-1854) che si fecero paladini nei loro scritti delle due istitu- zioni fondamentali, in cui la tradizione si incarna e contro cui l’Illuminismo aveva polemizzato e la Rivoluzione combattuto: la Chiesa e lo Stato. Per- tanto questi scrittori furono anche detti feocratici o ultramontanisti (v. TEOCRAZIA). 2. In senso più generale e filosofico, per T. si può intendere il ritorno alla tradizione che fu un aspetto importante del Romanticismo nella prima metà del sec. xIx e che ha tra i suoi protagonisti, oltre che i grandi romantici come Fichte Schelling ed Hegel, Maine de Biran (1766-1824), Antonio Rosmini Serbati (1797-1855), Vincenzo Gioberti (1801-52) e lo stesso Giuseppe Mazzini (1805-72), oltre altri scrittori minori sia dell’800 italiano sia TRADIZIONE 881 di altre nazioni: per es., l’inglese Giacomo Mar- tineau (1805-1900). L’idea comune di tutti questi pensatori è che sia il pensiero individuale sia la tra- dizione dell’umanità si fondano su una diretta rive- lazione di Dio, che è compito dell’uomo sviluppare con la riflessione individuale e con l’azione col- lettiva. L’idea dell’essere di Rosmini è la migliore espressione concettuale di questa nozione di rive- lazione progressiva. Applicato alla storia, tale con- cetto non è altro che quello del provvidenzialismo (v.). TRADIZIONE (gr. rapàdoor; ingl. Tradition; franc. Tradition; ted. Ùberlieferung). L'eredità cul- turale cioè la trasmissione da una generazione al- l’altra di credenze o di tecniche. Nel dominio della filosofia l’appello alla T. implica il ricono- scimento della verità della T. stessa. La T. diventa, da questo punto di vista una garanzia di verità e talvolta l’unica garanzia possibile. In tal senso essa era intesa dallo stesso Aristotele che più volte, nel corso della sua indagine, fa appello alla T. e la assume come garanzia di verità: «I nostri antenati delle più remote età hanno trasmesso alla loro posterità tradizioni in forma mitica che i corpi celesti sono divinità e che il divino abbraccia l’intera natura. Altre T. sono state aggiunte in forma mitica per la persuasione dei più e allo scopo di rafforzare le leggi e di promuovere l’uti- lità pubblica; esse dicono che gli dèi hanno forma di uomini o di altri animali e danno su di essi altri dettagli simili. Ma se consideriamo solo il punto essenziale, separatamente dal resto, che le prime sostanze sono tradizionalmente credute di- vinità, possiamo riconoscere che questo è stato divinamente detto e che, per quanto le arti e le filosofie possono avere spesso esplorato e perfezio- nato e di nuovo perduto, questi miti e altri sono stati conservati sino ad oggi come antiche reliquie. È solo in questo modo che noi possiamo rendere chiare le opinioni dei nostri antenati e predeces- sori » (Mer., XII, 8, 1074 b). La sua stessa filosofia appare così ad Aristotele come la liberazione della T. dai suoi elementi mitici, perciò come una sco- perta della T. autentica e nello stesso tempo come fondata sulla garanzia che questa stessa T. le offre. È questo il punto di vista che divenne pre- valente nell’ultimo periodo della filosofia greca e specialmente nell’indirizzo neoplatonico. Plotino di- ceva: « Bisogna credere senza dubbio che la verità è stata scoperta da antichi e beati filosofi; a noi conviene di esaminare quali sono coloro che l’hanno incontrata e come possiamo noi stessi arrivare a comprenderla » (Enn., III, 7, 1). Fu questa l’idea dominante nel cui ambito fu possibile fabbricare, in appoggio di una T. presunta, documenti fittizi quando quelli autentici mancavano; e le opere di falsa attribuzione, le più famose delle quali furono 56 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. quelle di Ermete Trismegisto, obbediscono appunto all’esigenza di rinviare nel passato la dottrina in cui si crede e di procurarle, sia pure in modo truffaldino, il prestigio e la garanzia della tradizione. Da allora in poi, il concetto della T. non è mu- tato, e ha conservato l’apparenza o la promessa di questa garanzia. Il grande ritorno dell’idea di T. è il Romanticismo. J. G. Herder nella sua Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit (1783- 1791) aveva esaltato la T. come « la sacra catena che lega gli uomini al passato e che conserva e tra- smette tutto ciò che è stato fatto da coloro che l’hanno preceduto ». Hegel ha esplicitamente esal- tata la T. e ha insistito sul suo carattere provvi- denziale. «La T., egli ha detto, non è una statua immobile ma vive e rampolla come un fiume im- petuoso che tanto più s’ingrossa quanto più si allontana dalla sua origine... Ciò che ogni genera- zione ha fatto nel campo della scienza, della pro- duzione spirituale è un’eredità cui ha contribuito con i suoi risparmi tutto il mondo anteriore, è un santuario alle cui pareti gli uomini d’ogni stirpe, grati e felici, hanno appeso ciò che li ha aiutati nella vita, ciò che essi hanno attinto alle profondità della natura e dello spirito. E questo ereditare è ad un tempo un ricevere e un far fruttare l’eredità » (Geschichte der Philosophie, edi- tore Glockner, I, pag. 29). In questo senso, ovvia- mente, la T. non è che un altro nome per designare il piano provvidenziale della storia (v. STORIA). Fu questo il punto di vista prevalente in tutto il Romanticismo; e di esso il cosiddetto rradiziona- lismo (v.) non è che una manifestazione particolare. L’antitesi di questa valutazione della T. è una concezione la quale: 1° neghi che tutti i risultati o i prodotti migliori dell’attività umana siano in- fallibilmente conservati e incrementati nel corso dello sviluppo storico; 2° neghi che ciò che da tale sviluppo è conservato sia, per ciò stesso, ga- rantito nella sua verità o nel suo valore. Una con- cezione di questo genere è quella che fu propria dell’Illuminismo (che perciò è spesso definito anti- storicistico da chi condivide il punto di vista della storia come ordine provvidenziale o T.). L’Illumi- nismo si iscrisse in falso contro la T., assumendo che quel che essa tramanda è, il più delle volte, errore, pregiudizio o superstizione e appellandosi contro la stessa T. al giudizio della ragione cri- tica (v. ILLUMINISMO). Le discussioni filosofiche sul significato e l’im- portanza della T. sono in realtà, come si vede, discussioni sulla storia (v.). Nel campo della socio- logia invece l’analisi della T. è l’analisi di un de- terminato atteggiamento o meglio di un tipo e specie di atteggiamenti e precisamente di quello che consiste nell’acquisizione inconsapevole (cioè 882 non deliberata) di credenze e di tecniche. L’atteg- giamento tradizionalistico è quello per cui l’indi- viduo considera i modi d'essere e di comportarsi che ha ricevuto o va ricevendo dall’ambiente sociale come suoi propri modi d’essere, senza rendersi conto che sono quelli del gruppo sociale. Manca nella T. la distinzione tra presente e il passato, tra sè e gli altri: il che fa di essa una forma di comunicazione primitiva ed impropria (ABBAGNANO, Problemi di sociologia, 1959, XI, 3). All’atteggia- mento tradizionalistico si oppone da questo punto di vista l'atteggiamento critico per il quale l’indi- viduo ha una certa libertà di giudizio (che tuttavia non è mai assoluta o infallibile) nei confronti di quelle stesse credenze e tecniche che ha assorbito dalla tradizione. L'atteggiamento critico ha con- dizioni antitetiche a quelle della T.: l’alterità tra il presente e il passato e tra sè e gli altri. TRADUCIANISMO (ingl. Traducianism; te- desco Traducianismus). La dottrina che l’anima dei figli derivi dall'anima dei padri come un ramo (tradux) deriva dall’albero. Questa dottrina si tro- vava già presso gli Stoici (TEMISTIO, De An., II, 5; GacenO, Op., IV, 699), fu accettata da Tertulliano (De An., 22) e da altri scrittori della patristica e difesa più tardi dai teologi protestanti che vedevano in essa la possibilità di spiegare la trasmissione del to originale. Leibniz stesso inclinava verso di essa (7héod., I, $ 86). La stessa dottrina è stata talora indicata con il nome di generazionismo. La dottrina opposta, che ogni anima sia creata ex novo, si chiama crea- zionismo (v.). TRAGICO (ingl. Tragic; franc. Tragique; te- desco 7ragisch). Il concetto del T. viene talora discusso dai filosofi non solo in rapporto con quella particolare forma d’arte che è la tragedia, ma anche in rapporto alla vita umana in generale o alla scena del mondo. Il punto di partenza impli- cito o esplicito di tali discussioni è quasi sempre la definizione aristotelica della tragedia secondo la quale essa è «imitazione di vicende che suscitano pietà e terrore e che mettono capo alla purificazione di tali emozioni » (Poer., 6, 1449 b 23). Le situa- zioni che suscitano « pietà e terrore » sono quelle in cui la vita o la felicità di persone incolpevoli è posta in pericolo o in cui i conflitti non sono ri- solti o sono risolti in modo da determinare « pietà e terrore » negli spettatori. Nella tragedia greca, ha detto W. Jaeger, «la felicità, come ogni possesso, non può restare a lungo presso chi lo detiene e la perpetua sua instabilità è insita nella sua natura stessa. Il convincimento di Solone che esista un ordinamento divino del mondo aveva trovato ap- punto in questa nozione, pur tanto dolorosa per l’uomo, il suo appoggio più saldo. Anche Eschilo TRADUCIANISMO è inconcepibile senza tale convincimento, che può dirsi piuttosto una nozione che non una credenza » (Paideia, II, cap. 1; trad. ital., I, pag. 449). Ora le interpretazioni che nel pensiero moderno sono state date della natura del T. sono tre: 1° T. è il conflitto continuamente risolto e superato nell’or- dine perfetto del tutto; 2° T. è il conflitto irrisolto e irrisolvibile; 3° T. è il conflitto che può essere risolto ma la cui soluzione non è definitiva nè per- fettamente giusta o soddisfacente. 1° La prima concezione del T. è quella di Hegel. Hegel afferma che il conflitto, in cui il T. consiste, pur costituendo la sostanza e la vera realtà, non si conserva come tale ma trova la sua giusti- ficazione solo in quanto viene superato come con- traddizione. « Intanto lo scopo e il carattere T. è legittimo, dice Hegel, in quanto è necessaria la soluzione del conflitto in cui esso consiste. Attra- verso tale soluzione, l’eterna giustizia si afferma sugli scopi e sugli individui particolari, in modo che la sostanza morale e la sua unità si ristabili- scono col tramonto delle individualità che distur- bano il suo riposo» (Vorlesungen iiber die Aes- thetik, ed. Glockner, III, pag. 530). La soluzione T. pertanto ristabilisce l’armonia e ciò che essa di- strugge è soltanto la « particolarità unilaterale » che non ha potuto giungere ad accordarsi con l’ar- monia stessa (/bid., ed. Glockner, II, pag. 530). Ovviamente, da questo punto di vista, che è quello proprio di ogni ottimismo o provvidenzialismo di stampo romantico, la tragedia è la semplice appa- renza di una sostanziale commedia: tutto finisce bene, e ciò che viene perduto è la « particolarità unilaterale » che non ha il minimo valore. 2° La seconda interpretazione del T. è quella di Schopenhauer, secondo il quale il T. è conflitto irresolubile. La tragedia, dice Schopenhauer «è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terri- ficante. Il dolore senza nome, l’affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degli inno- centi ci vengono presentati da essa; sicchè essa costituisce un segno significante della natura propria del mondo e dell’essere» (Die Welr, I, $ 51). Ma l’inevitabilità e quindi la certezza d’un fato maligno o di una ingiustizia immanente tolgono, come l’ine- vitabilità e la certezza della giustizia e dell'armonia, il carattere tragico. Di fronte ad essi infatti l’unico atteggiamento possibile è quello della rassegnazione o della disperazione: atteggiamenti, che come quelli a loro opposti, escludono il conflitto costitutivo del tragico. 3° La terza concezione è quella che fu presen- tata da Schiller nello scritto Uber naive und sentimen- talische Dichtung (1795-96). In questo scritto il T. viene presentato come una manifestazione della TRANSFINITO poesia sentimentale (v. INGENUITÀ) e precisamente di quella poesia che rappresenta il conflitto tra il reale e l’ideale. La poesia sentimentale si divide in satira ed elegia: la satira è quella in cui il poeta prende a suo oggetto il reale, considerandolo insufficiente rispetto all’ideale. Quando l’insufficienza del reale è rappresentata mediante il conflitto tra il reale stesso e le nostre esigenze morali si ha, secondo Schiller, la satira seria, cioè il T. (Werke, ed. Kar- peles, XII, pag. 150). A concetti analoghi si ispi- rava il cosiddetto « pantragismo +» del poeta Hebbel (cfr. Werke, X, pag. 43). Assai più paradossalmente Nietzsche vedeva nel T. da un lato il carattere terrifi- cante dell’esistenza, dall’altro la possibilità di accet- tare e trasfigurare tale carattere o attraverso l’arte o attraverso la volontà di potenza. La prima soluzione è quella che Nietzsche attribuisce ai Greci nella Nascita della tragedia (1872). L'uomo greco, che era in grado di scorgere chiaramente l’orribile e l’assurdo dell’esistenza, riuscì a trasfigurarla me- diante lo spirito dionisiaco, domando e assogget- tando l’orribile che così diventa il sublime cioè l'oggetto della tragedia e liberando dal disgusto dell'assurdo, che così diventa il comico, cioè l’og- getto della commedia (Die Geburt der Tragòdie, $ 7). Più tardi Nietzsche scorse la via d’uscita da ciò che c’è di terrificante nella vita nell’accettazione della vita stessa dovuta alla volontà di potenza e considerò pertanto il T. come l’accettazione dio- nisiaca di ciò che è terrificante e incerto. «La profondità dell’artista T., egli scrisse allora, con- siste in questo che il suo istinto estetico considera le conseguenze lontane e non si arresta con vista corta alle cose prossime; che egli afferma l'economia in grande, l’economia che giustifica ciò che è ter- ribile, maligno e problematico e che non si contenta solamente di giustificarlo » (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 374). Questa concezione del T., per quanto di solito imperfettamente espressa o mescolata, nella sua espressione, con le altre due, si può riconoscere dal fatto che essa fa posto nella sua caratterizza- zione alla problematicità della situazione T., cioè al carattere per cui essa si può decidere in un modo o nell’altro senza che la sua decisione sia definitiva o perfetta. In questo senso il carattere del T. è stato colto da Michele de Unamuno nel Sentimento T. della vita (1913) che lo esprime col quien sabe? di Don Chisciotte. Nello stesso senso si sono espressi Scheler (Vom Umsturz der Werte, 1953), Jaspers ( Uber das Tragische, 1952) e Cantoni (Tragico e senso co- mune, 1964). P. Romanell ha detto che a differenza dell’epica, in cui il conflitto è tra il bene e il male, nel T. il conflitto è tra beni diversi cioè tra valori eterogenei tra i quali la scelta è dolorosa ed im- plica sempre sacrificio (Making of the Mexican Mind, 1952, pag. 22). Questo carattere del T. è bene realiz- 883 zato nella tragedia greca. La tragedia di Sofocle si fonda sul convincimento che esiste un ordinamento divino del mondo il quale fa sì che talvolta l'in- nocente debba pagare il fio di una colpa commessa da altri. Il fatto che la decisione del conflitto non possa essere netta, che anche nella sua soluzione qualcosa vada perduto e che questo qualcosa non è, come diceva Hegel, una « particolarità unilate- rale », costituisce il fascino e la verità della tragedia. TRANQUILLITÀ. V. ATARASSIA. TRANSAZIONE (ingl. Transaction; francese Transaction; ted. Transaction). Termine introdotto in filosofia da Dewey e Bentley per indicare una relazione che non presuppone, come entità a sè, i termini relativi. Dice Dewey: «Il termine indica negativamente che nè il senso comune nè la scienza devono essere considerati come entità, come al- cunchè di collocato a parte, completo e circo- scritto... Positivamente indica che debbono essere contrassegnati dalle caratteristiche e dalle proprietà che si riscontrano in qualsiasi cosa riconosciuta come T.: per es., un affare o T. commerciale. Questa T. fa di un partecipante un compratore e dell’altro un venditore: non esistono compratori e venditori che in T. e a causa di T. in cui siano impegnati » (Knowing and the Known, 1949, pa- gina 270). Il termine T. era stato adoperato in Italia da Romagnosi: secondo il quale, dal « com- mercio fra l’interno e l’esterno » dell’uomo nasce «una T. sullo stesso fondo dell’io pensante, la quale pone in armonia le leggi del mondo interiore con quello esteriore per formare un solo mondo e una sola vita » (Che cos'è la mente sana? [1827], ed. 1936, pag. 100, 138. TRANSCREAZIONE (ingl. Transcreation; franc. Transcréation). Termine adoperato da Leibniz per indicare l’operazione particolare con cui Dio dà la ragione all’anima sensibile o animale. Leibniz preferisce questa ipotesi a quella che ritiene che l’anima animale si sollevi alla ragione con mezzi puramente naturali (7héod., I, $ 91). TRANSEUNTE (ingl. Transeunt; franc. Tran- seunt; ted. Transeunt). 1. Lo stesso che transi- tivo (v.). 2. Mutevole, passeggero. TRANSFERT. V. PSICANALISI. TRANSFINITO (ingl. 7ransfinite; francese Transfini; ted. Transfinit). Espressione usata da G. Cantor per indicare i numeri che sono al di là dei numeri finiti. Per es., se è T. il numero ordinale della classe che comprende tutti i numeri ordinali finiti, nel loro ordine naturale (0, 1, 2,...), questo nu- mero è denotato da un omega minuscolo (G. CANTOR, Contributions to the Founding of the Theory of Transfinite Numbers, trad. ingl., 1915) (v. INFI- NITO). Conseguentemente per «induzione transfi- 884 nita » s’intende l’estensione dell’induzione mate- matica (v.) a una classe di numeri ordinali arbitrari in modo simile a quello nel quale la stessa induzione è applicata a una classe ben ordinata di numeri omega. TRANSITIVITÀ (ingl. Transitivity; francese Transitivité; ted. Transitivitàt). Il carattere di una relazione che, se intercede tra x e y e tra ye z, intercede pure tra x e z. Tale carattere è proprio delle relazioni di identità o di eguaglianza come pure delle relazioni minore, precede, a sinistra di, ecc. (cfr. B. RussELL, Introduction to Mathe- matical Philosophy, cap. IV; trad. ital., pag. 44). Nel calcolo proposizionale, le leggi di 7. della implicazione materiale e dell’equivalenza materiale sono le seguenti: « Se p implica g e q implica r, allora p implica r (cioè: [p> gl[g>7r]>[p> 7)) Se p è equivalente a g e g è equivalente a 7, allora p è equivalente a r (cioè: [p=gllg=-A=p=?#) (cfr. A. CHURCH, /ntroduction to Mathematical Logic, I, $ 48, ecc.). TRANSNATURALE (franc. Transnaturel). Termine proposto da M. Blondel per indicare la situazione dell’uomo che è posto tra la natura e la sopranatura; ed è destinato, durante la vita mortale, a prepararsi per la vita eterna (Mistoire et dogme, 1904, pag. 68). RANSOBBIETTIVO (ted. Transobjektiv). Termine adoperato da N. Hartmann per indicare ciò che della realtà rimane al di là dei limiti del conosciuto quindi al di là dell’oggetto di cono- scenza (Methapysik der Erkenntnis, 2* ediz., 1925, pag. 50). TRANSOGGETTIVO (ingl. Transsubjective; ted. Transsubjektiv). Lo stesso che Trascendente (v.). TRANSPATIA (ingl. Transpathy). Termine adoperato da scrittori inglesi per indicare il con- tagio emotivo o la fusione emotiva in quanto è diversa dalla simpatia (v.). TRANSRAZIONALISMO (ingl. Transratio- nalism; franc. Transrationalisme; ted. Transrationa- lismus). Termine adoperato da A. Cournot per indicare la disposizione naturale dell’uomo a cre- dere nel soprannaturale o nel misterioso o in ge- nerale a ciò che al di là della ragione (Matérialisme, vitalisme, rationalisme, 1875, pag. 385). TRANSUSTANZIAZIONE (lat. Transustan- tiatio; ingl. Transubstantiation; franc. Transsubstan- tiation). L’interpretazione del sacramento dell’altare che consiste nel ritenere che la sostanza del pane o del vino si trasforma nella sostanza del corpo o del sangue di Cristo e che pertanto gli accidenti di essa rimangano senza soggetto. È l’interpretazione di quel sacramento che fu data da S. Tommaso (S. Th., III, q. 77, a. 1) e fu accettata dal Concilio di Trento. L’interpretazione alternativa, accettata TRANSITIVITÀ dalla chiese riformate, è quella della consustanzia- zione (V.). TRASCENDENTALE (lat. Transcendentalis; ingl. Transcendental; franc. Transcendental; te- desco Transzendental). Con questo termine o con quello di trascendente, si cominciarono a chiamare, a partire dalla fine del sec. x1m, le proprietà che tutte le cose hanno in comune, e che perciò ecce- dono o trascendono la diversità dei generi in cui le cose si distribuiscono. Il nome si trova già ado- perato da Francesco Mayrone (morto nel 1325, Formalitates, ediz. 1479, f. 22, r. A); e alla dif- fusione di esso contribuì certamente Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes, I, 1). Ma i trascendentali o trascendenti erano stati già definiti da S. Tom- maso come quelle proprietà « che si aggiungono al- l'ente in quanto esprimono un modo di esso che non viene espresso dal nome dell’ente »; e lo stesso S. Tommaso ne enumerava sei: ens, res, unum, aliquid, bonum, verum (De Ver., q. 1, a. 1); una lista che riuscì la più diffusa e accreditata fra tutte. Questo concetto del T., con qualche mutamento occasionale nella lista dei termini, fu ripetuto spesse volte in seguito (CAMPANELLA, Dialectica, I, 4; Bruno, De /a causa, IV; F. BACONE, De Augm. Scient., III, I; Jungius, Logica Hamburgensis, I, 1, 45; Spinoza, £Et., II, 40, scol. I; BERKELEY, Principles of Human Knowledge, $ 118; WoLFF, Ont., $ 495, 503; BAUMGARTEN, Met., $ 72, 89; HAMILTON, Lectures on Logic, I, pag. 198). A questa tradizione si connette l’uso kantiano del termine. Dice Kant: «Questi presunti predicati T. delle cose non sono che esigenze logiche e criteri di ogni conoscenza delle cose in generale, e riposano sulle categorie della quantità cioè dell’unità, della pluralità e della totalità; solo che queste categorie, che si sarebbero dovute assumere nel significato materiale come ap- partenenti alla possibilità delle cose stesse, gli an- tichi le adoperavano in realtà solo in un valore formale, come costituenti l’esigenza logica nei con- fronti di ogni conoscenza; e tuttavia di questi criteri del pensiero facevano inavvertitamente pro- prietà delle cose in se stesse» (Cri. R. Pura, Analitica, $ 12). In altri termini, Kant ritiene che il vecchio concetto del T. pecchi per due lati: 1° perchè fa del T. un semplice concetto logico- formale; 2° perchè considera questo concetto for- male come proprietà delle cose in se stesse. Al- l'opposto il concetto kantiano del T. consiste: 1° nel considerare il T. stesso come condizione della possibilità della cosa cioè come concetto @ priori o categoria; 2° nel considerare la cosa, di cui il T. è la condizione, non come «cosa in sè» ma come fenomeno. Con tutto ciò il T. non si iden- tifica, per Kant, con le condizioni a priori della conoscenza umana e dei suoi oggetti (che sono i TRASCENDENTE fenomeni); ma è piuttosto da lui inteso come la conoscenza (o la scienza, se c’è una scienza) di tali condizioni @ priori. Dice Kant infatti: «Chiamo T. ogni conoscenza che si occupa, non degli oggetti ma del nostro modo di cono- scere gli oggetti, in quanto è possibile a priori» (Ibid., Intr., VII). E precisa: « Bisogna chiamare T. non ogni conoscenza a priori ma solo quella per cui sappiamo che e come certe rappresenta- zioni (intuizioni o concetti) sono applicate o sono possibili esclusivamente a priori. È cioè T. la co- noscenza della possibilità della conoscenza o del- l’uso di essa a priori» (Ibid, Logica, Intr., II; cfr. Prol., $ 13, osserv. III). Da questo punto di vista, T. non è «ciò che è al di là di ogni espe- rienza» ma piuttosto «ciò che antecede l’espe- rienza (a priori) pur non essendo destinato ad altro che a rendere possibile la semplice conoscenza empirica + (Prol., Appendice, nota [A 204]). Tuttavia bisogna osservare che Kant non si attenne rigoro- samente a questo significato del termine e che spesso chiamò T. ciò che è indipendente dall’espe- rienza o da princìpi empirici (cfr., ad es., Critica R. Pura, L’ideale della ragion pura, sez. 5, Sco- perta e illustrazione dell’apparenza dialettica). Co- munque, in base al significato che Kant esplicita- mente accetta, si possono chiamare T. soltanto le conoscenze che hanno per oggetto elementi a priori, non questi stessi elementi. Sicchè sono T. l’estetica, la logica e le loro parti ma non già le intui- zioni pure o le categorie o le idee. Ma anche quest’uso non è rigoroso perchè Kant chiama T. le idee e chiama unità T. l’io penso (Ibid., $ 16). Il termine fu ripreso da Fichte per designare la dottrina della scienza in quanto fa vedere che tutti gli elementi del conoscere rientrano nell’Io cioè nella coscienza: «Questa scienza non è rrascen- dente, ma resta 7. nelle sue più intime profondità. Essa spiega certo ogni coscienza con qualcosa che esiste indipendentemente da ogni coscienza; ma anche in questa spiegazione non dimentica di con- formarsi alle sue proprie leggi; ed appena vi ri- flette sopra, quel termine indipendente diventa di nuovo un prodotto della propria facoltà di pen- sare, quindi qualcosa di dipendente dall’Io in quanto deve esistere per l’Io, nel concetto dell’Io » (Wissenschaftslehre, 1794, $ 5, II; trad. ital., pa- gina 231). Nello stesso senso il termine veniva in- teso da Schelling per il quale, nel sapere T., « l’atto del sapere giunge ad assorbire l’oggetto come tale » sicchè esso è «un sapere del sapere in quanto è puramente soggettivo » (System des transzendentalen Idealismus, 1800, Intr., $ 2). Lo stesso senso idea- listico il termine assume per Schopenhauer: secondo il quale è T. « una conoscenza che determina e sta- bilisce prima di ogni esperienza tutto ciò che è pos- 885 sibile nell’esperienza » (Uber die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde, $ 20). Come risultato di queste determinazioni, il con- cetto del T. si è venuto fissando nella filosofia con- temporanea come ciò che appartiene al soggetto o alla coscienza in quanto è condizione dell’oggetto e cioè della realtà stessa. Si è qualificato pertanto come T. ogni attività o elemento della coscienza da cui dipenda l’affermazione o la posizione della realtà oggettiva. Pertanto espressioni come « punto di vista T.» o «conoscenza T.» equivalgono alla espressione di Schelling « idealismo T. » cioè di dot- trina la quale mostra come nella coscienza sogget- tiva ci siano le condizioni di ogni realtà. Questo concetto di T. è rimasto sia nelle scuole di più stretta ispirazione kantiana sia nelle scuole ideali- stiche. Gentile chiamava «Io T.» l’io assoluto o uni- versale, che crea pensando ogni realtà (Teoria gene- rale dello spirito, 1920, I, $ 5). Un senso idealistico il termine conserva anche nell’uso che ne fa Husserl, che chiama T. l’esperienza fenomenologica o la riflessione che vi mette capo. « Nella riflessione fenomenologica T., noi lasciamo il terreno empi- rico, praticando l’epoché universale quanto alla esistenza o alla non esistenza del mondo. Si può dire che l’esperienza così modificata, l’esperienza T. con- siste in questo: noi esaminiamo il cogito trascenden- talmente ridotto e lo descriviamo senza effettuare in più la posizione di esistenza naturale implicita nella percezione spontanea » (Carr. Med., $ 15). Al- l’opposto, per Heidegger T. ha senso oggettivo perchè designa « ogni manifestazione dell’essere nel suo essere trascendente» (Sein und Zeit, $ 7C). TRASCENDENTALISMO (ingl. Transcen- dentalism; franc. Transcendentalisme; ted. Transzen- dentalismus). La teoria dell’idealismo trascendentale cioè dell’idealismo romantico. Il nome è stato in- trodotto nei paesi anglosassoni e specialmente in America, da Emerson (cfr. O. B. FROTHINGHAM, Transcendentalism in New England, 1876; nuova edizione 1959). TRASCENDENTE (lat. 7ranscendens; inglese Transcendent; franc. Transcendant; ted. Transzen- dent). Il termine ha due significati fondamentali, corrispondentemente ai due significati di rascen- denza (v.) e cioè: 1° ciò che è al di là di un certo limite, assunto come misura o come punto di ri- ferimento; 2° l’operazione dell’oltrepassamento. 1° Nel primo significato, la parola assume va- lori diversissimi, a seconda di ciò che si assume come limite o misura. Le proprietà trascendentali (v.) erano dette tali perchè T. rispetto ai generi, dai quali esse erano considerate indipendenti. Si parla di « perfezione T.» cioè di una perfezione che su- pera ogni grado praticamente ottenibile. Più fre- quentemente, il termine viene adoperato in filosofia 886 per indicare ciò che oltrepassa i limiti di una qualche facoltà umana o di tutte le facoltà e dell’uomo stesso. Così Boezio diceva che « La ragione trascende l’im- maginazione perchè afferra la specie universale che inerisce nelle cose singolari » (Phil. Cons., V, 4). S. Tommaso diceva che la teologia « trascende tutte le altre scienze sia speculative che pratiche »; giacchè è più certa di esse ed inoltre si occupa di cose «che per la loro altezza trascendono la ragione » (S. 7Th., I, q. 1, a. 5). Cusano, a proposito della identità del minimo assoluto e del massimo asso- luto in Dio, dice che «ciò trascende ogni nostro intelletto, che non può combinare razionalmente le cose che sono contraddittorie nel loro principio » (De Docta Ignor., I, 4). Più precisamente a partire da Kant, si intende per T. una nozione che eccede i limiti dell’espe- rienza possibile. Sono pertanto T., secondo Kant, le idee della Ragion pura. Dice Kant: « Diremo immanenti i princìpi la cui applicazione si tiene in tutto e per tutto nei limiti dell’esperienza possi- bile; T. invece quelli che devono sorpassare tali limiti» (Crift. R. Pura, Dialettica, Intr., I; con- fronta Prol., $ 40). Diverso dai princìpi T. è l’uso trascendentale dei princìpi immanenti: uso che si avvale di princìpi conoscitivi legittimi ma senza tener troppo conto dei limiti dell’esperienza (/bid., Dialettica, Intr., I; cfr. Prol., $ 40). 2° Nei precedenti significati, la parola T. è assunta a significare ciò che è al di là di un certo limite. Nella filosofia contemporanea essa viene spesso adoperata a significare un’attività o un’ope- razione in corrispondenza col significato 2° di trascendenza. T. in questo senso è, secondo Husserl, la percezione delle cose, in opposizione alla perce- zione che la coscienza ha di se stessa (che è perce- zione immanente) (/deen, I, $ 46). Hartmann chiama nello stesso senso atto T. la conoscenza (Systema- tische Philosophie, $ 11). E Heidegger definisce come T. «ciò che attua l’oltrepassamento, ciò che si mantiene nell’oltrepassare » (Vom Wesen des Grundes, II; trad. ital., pag. 29) (v. TRASCEN- DENZA). ‘TRASCENDENTISMO. Termine che non trova riscontro in altre lingue e che è usato talora a designare ogni dottrina che ammetta la trascen- denza dell’essere divino. TRASCENDENZA (ingl. 7ranscendence; franc. Transcendance; ted. Transzendenz). Il ter- mine è stato usato in due significati diversi, cioè per indicare: 1° lo stato o la condizione del prin- cipio divino o dell’essere che è al di là di ogni cosa, di ogni esperienza umana (in quanto espe- rienza di cose) o dell'essere stesso; 2° l'atto di stabilire un rapporto che escluda l’unificazione o l ’identificazione dei termini. TRASCENDENTISMO 1° Nel primo senso, il termine si connette alla concezione neoplatonica della divinità. Platone aveva già detto che il Bene, come principio supremo di tutto ciò che è, paragonabile come tale al sole che fa vivere e rende visibili tutte le cose, è d/ di là della sostanza (èntveva tic obdolac, Rep., VI, 509 b). Sulle orme di Platone, Plotino ripete che l’Uno è « al di là della sostanza » (Enn., VI, 8, 19); ma aggiunge pure che esso è «al di là dell'essere » (eréxewa Évroc, /bid., V, 5, 6); e che è «al di là della mente» (tréxewva voù, /bid., III, 8, 9); in modo che è trascendente (òrepfeByxdc) rispetto a tutte le cose pur producendole e tenendole in es- sere lui stesso (/bid., V, 5, 12). Proclo dice: «AI di là di tutti i corpi, c'è la sostanza dell’anima, al di là di tutte le anime, la natura intelligibile, al di là di tutte le sostanze intelligibili, c'è l’Uno » (Ist. Teol., 20). Scoto Eriugena ed altri usarono il termine superessente (v.) per indicare la T. asso- luta per cui Dio è al di sopra di tutte le determina- zioni concepibili, perfino dell’essere o della so- stanza. Non sempre tuttavia la T. è spinta fino a questo punto cioè sino a situare Dio al di là del- l’essere e a farne in qualche modo un «nulla». La scolastica classica, riconoscendo la analogi- cità dell’essere, non pone Dio al di là dell’essere stesso: questa forma di T. è invece propria della teologia negativa o mistica (v. TEOLOGIA, 4). Fuori della teologia, questa specie di T. è stata rico- nosciuta da Jaspers, che ha contrapposto la T. all’esistenza: la T. è ciò che è al di là di ogni pos- sibilità dell’esistenza, è l'essere che non si risolve mai nel possibile e con cui pertanto l’uomo non può avere altro rapporto se non appunto quello che consiste nell’impossibilità di raggiungerlo. In tal senso, la T. si rivela sotto forma di cifra (v.) nelle situazioni-limite (v.) e non può essere con- trassegnata neppure come « divinità » senza cadere nella superstizione. L'unica certezza che si può acquisire nei riguardi della T. è che « l’essere è e che è così» (Phil., III, pag. 134). Nel contempo la T. veniva riconosciuta, dagli indirizzi realistici della filosofia contemporanea alle cose o agli oggetti di conoscenza in generale o all’essere di tali oggetti. Husserl negava in questo senso che una cosa potesse essere data come im- manente in qualsiasi percezione o coscienza e de- finiva l’essere della cosa come essere trascendente, che è più o meno adombrato dalle apparizioni della cosa stessa alla coscienza (/deen, I, $ 41). N. Hart- mann insisteva a sua volta sulla T. dell’essere rispetto alla conoscenza, in quanto l’essere stesso rimane sempre al di là dell’oggetto conoscitivo immanente (Metaphysik der Erkenntniss, 23 ediz., 1925, pag. 50). Nello stesso senso la T. veniva combattuta dalle varie forme dell’immanentismo (v.). TRASMUTAZIONE DEI VALORI 2° Nel secondo significato, la T. è l’atto con cui si stabilisce un rapporto senza che questo rap- porto significhi unità o identità dei suoi termini bensì garantendo, con il rapporto stesso, l’alterità di essi. Anche questo concetto ha un'origine reli- giosa e neoplatonica. Plotino diceva che la con- templazione è « per colui che è andato al di là di tutto + (tà brrepfdvii rdvra, Enz., VI, 9, 11). In un passo famoso S. Agostino diceva: «Se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso +; e aggiungeva: « Ricordati che nel trascendere te stesso, trascendi un'anima razionale e che pertanto devi mirare al punto da cui dipende ogni luce di ragione » (De vera relig., 39). Questo senso attivo di T. è stato pressochè obliterato nella filosofia tradizionale ed è stato ripreso solo dalla filosofia contemporanea. Con riferimento alla T. dell’essere o della cosa rispetto alla coscienza che l’apprende o all’atto di cono- scenza che ne fa oggetto, trascendente è stato chiamata, in senso attivo la coscienza stessa o l'atto di conoscenza. Così Husserl parla della percezione trascendente, che è quella che ha per oggetto la cosa e rispetto alla quale la cosa stessa è trascendente, come diversa dalla percezione imma- nente che ha per oggetto le stesse esperienze co- scienti le quali sono immanenti alla percezione stessa (/deen, I, $ 42, 46). N. Hartmann ha messo il concetto della T. a fondamento del suo realismo. «La conoscenza, egli ha detto, non è un semplice atto di coscienza, come il rappresentare o il pen- sare ma un atto trascendente. Un atto simile s°at- tacca al soggetto soltanto con una sua parte, con l’altra ne sporge fuori; con quest’ultima s’at- tacca all’esistente che, mediante esso, diviene og- getto. La conoscenza è relazione tra un soggetto e un oggetto esistente. In questa relazione, l’atto trascende la coscienza» (Systematische Philoso- phie, $ 11). Nello stesso senso egli chiama tra- scendente la relazione conoscitiva (/bid. $ 10). Ma la più importante utilizzazione del concetto in questo senso è stata fatta da Heidegger che ha definito come trascendente il rapporto tra l’uomo (Dasein, Esserci) e il mondo. « L’Esserci che trascende (ecco un’espressione già di per sè tautologica) non oltrepassa nè un ostacolo ante- posto al soggetto in modo tale da costringerlo a restare dapprima in sè stesso (immanenza) nè un fosso che lo separerebbe dall’oggetto. Da parte loro gli oggetti (gli enti che gli sono presenti) non sono ciò verso cui l’oltrepassamento si attua. Ciò che viene oltrepassato è proprio e unicamentel’ente stesso, cioè qualsiasi ente che possa essere svelato o svelarsi all’Esserci e quindi anche pro- prio quell’ente che l’Esserci è, in quanto, esistendo, è se stesso» (Vom Wesen des Grundes, 1929, II). L’atto di T. è in altri termini quello per cui l’uomo, come ente nel mondo, si distingue dagli altri enti od oggetti e si riconosce come 4se stesso ». Hei- degger perciò considera la T. come il significato dell’essere nel mondo. «Colui che oltrepassa e quindi va oltre, deve come tale sentirsi situato nell’ente. L’Esserci, in quanto si sente tale, è in- cluso nell’ente in modo che, ricompreso in esso, viene da esso accordato a se stesso. La T. è un progetto del mondo tale che colui che progetta è dominato dall’ente che trascende ed è già in ac- cordo con esso. Con questo essere incluso del- l’Esserci, connesso con la T., l’Esserci ha preso base nell’ente, ha ottenuto il suo fondamento » (Ibid., III). È caratteristica di Heidegger questo far ricadere e appiattire la T. sugli oggetti tra- scesi, il progetto sulle sue condizioni di partenza, il possibile sull’effettuale, il futuro sul passato. Heidegger chiama deiezione o effettività (v.) questa ricaduta o appiattimento. E così fa Sartre, che esprime lo stesso concetto di T. affermando che la coscienza (il per-sé), trascendendo verso l'essere (l’in-sè), non fa che annullarsi per rivelare e af- fermare, attraverso di sè, l’essere stesso (L’étre et le néant, II, cap. III; spec. pag. 268-69). Per una interpretazione della T. che sfugga all’appiatti- mento o alla nullificazione (cfr. ABBAGNANO, Strut- tura dell’esistenza, 1939, $ 18; Ip., Introduzione al- l’esistenzialismo, I, 6; ecc.). TRASFORMAZIONE (ingl. Transformation; franc. Transformation; ted. Umformung, Transforma- tion). Dewey ha visto nella T. la categoria fonda- mentale del ragionamento matematico. « La T. dei contenuti concettuali, egli ha detto, secondo regole metodiche che soddisfino determinate condizioni lo- giche, è implicita tanto nella condotta del ragiona- mento che nella formazione dei concetti che ne fanno parte ». Il principio logico della T. può essere espresso dicendo che: 1° il contenuto del ragiona- mento consiste di possibilità; 2° che in quanto possibilità, esso richiede la formulazione in sim- boli (Logic, XX, 1; trad. ital., pag. 516). Regole di T. si chiamano abitualmente le regole di infe- renza dei sistemi logistici o dei linguaggi forma- lizzati (v. SISTEMA LOGISTICO). ‘TRASFORMISMO (ingl. Transformism; fran- cese Transformisme; ted. Transformismus). Con questo termine si indica l’evoluzionismo biologico cioè la dottrina che ammette la trasformazione delle specie viventi l’una nell’altra (v. EVOLUZIONE). TRASMIGRAZIONE. V. METEMPSICOSI. TRASMUTAZIONE DEI VALORI (fran- cese Transmutation des valeurs; ted. Umwertung aller Werte). La frase famosa con cui Nietzsche ha riassunto il compito della sua filosofia. « In- versione di tutti i valori, egli ha scritto, ecco la mia formula per un atto di supremo riconoscimento di sè di tutta l’umanità, atto che in me è diventato carne e genio. Il mio destino esige che io sia il primo uomo onesto, che io mi senta in opposi- zione con le menzogne di vari millenni » (Ecce Homo, $ 4). L’inversione dei valori consiste nel porre al posto della tavola tradizionale dei valori, fondati sulla rinuncia alla vita, i nuovi valori che derivano dall’accettazione entusiastica (dionisiaca) della vita, anche nei suoi aspetti più crudeli (Ge- nealogie der Moral, I, $ 10; Die froeliche Wissen- schaft, $ 344; ecc.) (v. VALORE). RASPARENZA (ted. Durchsichtigkeit). Così Heidegger ha chiamato l’intuizione che l’Esserci ha di se stesso: « Esistendo, l’Esserci vede se stesso solo in quanto è divenuto originariamente traspa- rente nel suo essere nel mondo e nel suo essere con gli altri, quali momenti costitutivi della sua esistenza » (Sein und Zeit, $ 31). TRASPOSIZIONE (ingl. Transposition; fran- cese Transposition; tedesco Transposition). Così è detto un teorema del calcolo proposizionale per il quale da «se p, allora g* si può inferire « non q, dunque non p». TRIADICO (ingl. Triadic; franc. Triadique; ted. Triadisch). La divisione T. ha goduto spesso di un certo privilegio in filosofia. A prescindere dalla perfezione che gli antichi Pitagorici riconob- bero al numero tre, Plotino aveva riconosciuto tre fasi dell'emanazione e quindi tre ipostasi della di- vinità, l’Uno, il Logos e l’Anima (Enn., II, 9, 1). Ma fu soprattutto Proclo a privilegiare il proce- dimento T., scorgendo in ogni qualsiasi processo (o emanazione) tre fasi: quella in cui ciò che pro- cede rimane simile a se stesso; quella in cui si differenzia da se stesso e infine quella in cui ritorna a se stesso (/st. theol., 31). Su queste tre fasi del- l'emanazione Hegel modellò le tre fasi della sua dialettica che consistono rispettivamente: 1° nel- l’identità di un concetto con se stesso; 2° nel con- traddirsi o nell’alienarsi del concetto rispetto a se stesso; 3° nella conciliazione e nell’unità delle due prime fasi (cfr. Enc., $ 79-82). Hegel interpretò secondo questa divisione T. sia il mondo della logica, sia il mondo della natura sia quello dello spirito (Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, II, pag. 340 sgg.). Per quanto Hegel facesse risalire a Kant il merito di questa triadicità di ogni processo razionale quindi anche dell’intera realtà (/bid., pag. 344), la giustificazione che Kant dà del fatto che le sue « divisioni nella filosofia pura riescono quasi sempre T.» è completamente diversa ed è desunta dalla logica. Dice Kant infatti: «Se una divisione dev'essere fatta a priori, o sarà analitica secondo il principio di contraddizione e allora sarà sempre in due parti (guodlibet ens est qut A aut non A); o sarà sintetica e in tal caso dovrà essere derivata da concetti a priori... e conterrà: 1° la condizione; 2° un condizionato; 3° il concetto che nasce dall’unione della condizione con il con- dizionato, riuscendo così necessariamente una tri- cotomia » (Crit. del Giud., Intr., Nota finale). TRIADISMO o TRIALISMO (ingl. Tria- dism; franc. Triadisme; ted. Trialismus). La dot- trina, di origine stoica, che considera l’uomo for- mato da tre princìpi, l’anima, il corpo e lo pneuma o spirito: dottrina che si trova ripetuta nelle let- tere di S. Paolo (v. PNEUMA). TRIBUNALE (ingl. Tribunal; franc. Tribunal; ted. Gerichtshof). Il termine è stato usato da Kant per definire il compito della filosofia critica: « La critica della Ragion pura, egli disse, si può consi- derare come il vero T. per tutte le controversie di questa, perchè essa non si immischia nelle con- troversie che si riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e per giu- dicare i diritti della ragione in generale secondo i princìpi della sua prima istituzione» (Crit. R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. 2). 'TRICOTOMIA (ingl. Trichotomy; franc. Tri- chotomie; ted. Trichotomie). Divisione in tre parti, elementi o classi. Il termine viene quasi esclusi- vamente adoperato per la dottrina della triplice composizione dell’anima, che si chiama anche tria- dismo o trialismo. La dottrina logica della T. fu elaborata nel sec. XVII, con l’avvertenza che occorre ridurre la T. alla dicotomia ogni volta che due membri della dicotomia abbiano una nozione in comune. Si può dire che il triangolo è o rettangolo o obliquangolo e, si può poi dividere di nuovo il triangolo obli- quangolo in ottusangolo e acutangolo (cfr. JunaIUS, Logica Hamburgensis, 1638, IV, 7, 13). ‘TRILEMMA (ingl. Trilemma; franc. Trilemme; ted. Trilemma). È stato indicato con questo nome dai logici dell’800 uno schema d’inferenza che ha come premessa maggiore una tricotomia, invece della dicotomia del dilemma (v.): «Ogni cosa è o PoQ0M; S nonè nè M nè Q; dunque S è P». Nello stesso senso si parla di tetralemma o di po- lilemma, ma si tratta di schemi di inferenza che trovano scarsissima applicazione. TRINITÀ (ingl. Trinity; franc. Trinité; te- desco Dreifaltigkeit). Uno dei dogmi fondamentali del cristianesimo, che afferma l’unità della so- stanza divina nella T. delle persone. La formula del dogma fu fissata dal Concilio di Nicea nel 325; e nella sua formulazione ebbe gran parte l’opera del vescovo Atanasio e la polemica contro la dottrina di Ario che tendeva ad accentuare la subordinazione del Figlio rispetto al Padre e pra- ticamente ignorava la terza persona della Trinità. TUTTO L'illustrazione classica di questo dogma [come di quello dell’incarnazione (v.)] fu data da S. Tommaso mediante il concetto della relazione. La relazione da un lato costituisce le persone divine nella loro distinzione; dall’altro si identifica con la stessa unica essenza divina. Le persone divine, infatti, sono costituite dalle loro relazioni di origine: il Padre dalla paternità, cioè dalla relazione con il Figlio; il Figlio dalla filiazione o generazione, cioè dal rapporto con il Padre; lo Spirito dal- l’amore cioè dal rapporto reciproco di Padre e Figlio. Ora queste relazioni in Dio non sono ac- cidentali (nulla c’è di accidentale in Dio) ma reali; sussistono rea/mente nella sostanza divina. Pro- prio la sostanza divina dunque, nella sua unità, implicando le relazioni, implica la diversità delle persone (S. 7h., I, q. 27-32 e spec. q. 29, a. 4). Questa interpretazione basta, secondo S. Tommaso a mostrare che « ciò che la fede rivela non è impos- sibile ». Dal punto di vista logico essa implica una dottrina sulla natura delle relazioni che è stori- camente importante (v. RELAZIONE). Tuttavia nell’ultima età della scolastica il dogma della T. o fu dichiarato una « verità pratica », come fece Duns Scoto (Op. Ox., Prol. q. 4, n. 31), o veniva dichiarata al di là di ogni possibilità di in- tendimento, come fece Ockham (/n Sent., I, d. 30, q. 1B). Il dogma della T. è stato accettato anche dalle chiese protestanti. Fa eccezione la tendenza rap- presentata dal socinianesimo (v.) che riprese le dottrine di tipo ariano che circolavano nei primi secoli del cristianesimo. Tali dottrine sono state riprese dai cosiddetti unitari che costituirono un movimento religioso diffuso soprattutto in Inghil- terra e in America a partire dalla seconda metà del sec. xVII (v. UNITARISMO). TRINITARISMO (ingl. 7rinitarianism; fran- cese 7rinité). La dottrina ufficiale della Chiesa cristiana sulla natura di Dio come un'unica so- stanza in tre persone uguali e distinte (v. TRI- NITÀ). TRITEISMO (ingl. Tritheism; franc. Trithéi- sme; ted. Tritheismus). Con questo termine si suole indicare l'eresia trinitaria che consiste nel- l'ammettere tre sostanze divine relativamente indi- pendenti l’una dall'altra. Quest’eresia fu sostenuta nel sec. v da Giovanni Filopono; e nel sec. x1 da Roscellino il quale, secondo una testimonianza di S. Anselmo, affermava che « Le tre persone della trinità sono tre realtà come tre angeli e tre anime, sebbene siano identiche assolutamente per volontà e potenza» (De fide trinitatis, 3). Al T. inclinava anche Gilberto de la Porrée che chiamava deità l’unica essenza divina, dalla quale parteciperebbero le tre persone diverse; e probabilmente sulle sue 889 orme inclinava al T. Gioacchino Da Fiore (sec. x11). La dottrina è stata costantemente condannata dalla Chiesa. TRIVIO. V. CULTURA, 1]. TROPI (gr. tpéro; lat. Tropes; franc. Tropes; ted. Tropen). Così si chiamarono e tuttora si chia- mano i modi o le vie indicate dagli scettici per arrivare alla sospensione dell’assenso. Tali T. con- sistono nell’enunciazione delle situazioni dalle quali risultano contrasti di opinioni o addirittura contraddizioni. Enesidemo di Cnosso ne enumerava dieci, che sono i seguenti: 1° la differenza fra gli animali, che stabilisce una differenza fra le loro rappresentazioni; 2° la differenza fra gli vomini, per lo stesso motivo; 3° la differenza fra le sen- sazioni; 4° la differenza fra le circostanze, che influiscono anch'esse sulla diversità delle opinioni; 5° la differenza delle posizioni e degli intervalli; 6° la differenza delle mescolanze; 7° la differenza fra gli oggetti semplici e gli oggetti composti; 8° la differenza fra le relazioni, giacchè le opinioni cam-biano a seconda delle relazioni in cui le cose en- trano col soggetto giudicante; 9° la differenza fra la frequenza o la rarità degli incontri tra il soggetto giudicante e le cose; 10° la differenza dell’educazione, dei costumi, delle leggi, ecc. (/p. Pirr., I, 36-163). A sua volta Agrippa aggiungeva altri cinque tropi, come obiezioni contro la raggiungibilità della verità: 1° la discordanza delle opinioni; 2° il processo all'infinito nel quale si cade quando si vuole addurre una prova, giacchè questa prova ha bisogno di un’altra prova e questa di un’altra e così via; 3° la relazione tra il soggetto e l'oggetto che fa variare l’apparenza dell’oggetto stesso; 4° l’ipotesi cioè il ricorso ad una assunzione priva di dimostrazione quindi insostenibile; 5° il diallele o circolo vizioso quando si assume come principio di prova proprio ciò che si deve provare (SESTO EMPIRICO, /p. Pirr., I, 164-69). Infine Sesto Empirico enuncia altri due tropi, che sono argomenti i quali tendono a dimostrare che non si può comprendere una cosa nè in base a se stessa nè in base a un'altra cosa (/p. Pirr., I, 178-79). TRUISMO (ingl. Truism; franc. Truisme). Una verità evidente ma ovvia quindi poco importante o poco utile. Il termine e la nozione sono propri della lingua inglese. TUTTI. V. Ogni. TUTTO (gr. rò nav; lat. Torum; ingl. Whole; franc. Tout; ted. AIN). Un qualsiasi insieme di parti: cioè un insieme di parti in quanto è indipen- dente dall’ordine o dalla disposizione delle parti stesse. In questo, il T. si può distinguere dalla totalità che implica un ordine delle parti che non può essere modificato senza modificare la totalità stessa (v. MonDO; TOTALITÀ; UNIVERSO). 890 Sulla base delle determinazioni aristoteliche (Mer., V, |[26, 1023 b 25), la logica medievale distingueva: 1° il T. universale o essenziale, che è quello ie cui parti costituiscono la sostanza di esso: ad es., «corpo vivente +; 2° il T. integrale che è quello le cui parti sono quantità: quantità simili come in «acqua»? o quantità dissimili come in «albero +; 3° il T. nella quantità, che è l’universale preso universalmente come «ogni uomo» o «nessun uomo»; 4° il T. nel modo che è l’universale preso senza determina- zione, come «l’uomo +; 5° il T. nel luogo che è una determinazione comprendente avverbialmente il luogo come « dovunque » o «in nessun luogo +; 6° il T. nel tempo che è un’espressione che com- prende avverbialmente la totalità del tempo come «sempre» e « mai» (Pietro Ispano, Summ. Logi- cales, 5, 14-23). Nizolio riduceva a due queste specie, con l’argomento che due soltanto si tro- vano in natura e cioè il T. continuo che è una sin- TUZIORISMO gola cosa e il T. discreto che è un complesso di cose singole (De veris principiis, I, 10); al che Leibniz aggiungeva il T. disgiuntivo, per es., « l’ani- male è o uomo o bruto » (Nota al passo citato di Nizolio). Altre distinzioni si trovano registrate da Hamilton: il T. per sè in cui le parti sono connesse necessariamente come il corpo e l’anima sono connesse nell’uomo e il T. per accidens in cui le parti sono connesse contingentemente. Il T. per sè può essere a sua volta: un T. /ogico come un uni- versale, un T. metafisico o reale; un T. fisico o sostanziale; un T. matematico, quantitativo o in- tegrale e un T. collettivo o di aggregazione (Lectures on Logic, 2> ediz., I, pag. 202 sgg.). Nella logica moderna T. è un operatore e pre- cisamente il quantificatore universale simboleggiato con la notazione «(x)» (v. OPERATORE). Per la differenza tra 7. e ogni, v. quest’ultimo termine. TUZIORISMO. V. ProBABILISMO. ÙU U. Nella logica tradizionale, simbolo della propo- sizione modale che consiste nella negazione del modo e nella negazione della proposizione: ad es., «non è possibile che non p» (cfr. ARNAULD, Log., II, 8) (v. PURPUREA). UBI. Con questo avverbio latino (dove) Duns Scoto indicò la determinazione qualitativa che il corpo in movimento acquista a ogni istante del suo movimento. L’U. non è il luogo (v.) perchè il luogo di un corpo non è un attributo di esso ma risiede nei corpi che lo attorniano; è piuttosto simile al calore che è acquisito dal corpo che si riscalda (Quod!., q.11, a. 1). La nozione fu criti- cata da Pietro Aureolo (/n Senr., I, d. 17, a. 4) da Ockham (/n Sent., II, q. 9 c) e da Gregorio da Rimini (Zn Sent., II, d. 6, qg. 1, a. 2) che invece ridussero il movimento al corpo che si muove. Essa è ricordata ancora, con disprezzo, da Locke (Saggio, II, 23, 21). UBICAZIONE. V. Luoco. UBIQUITÀ (lat. Ubiquitas; ingl. Ubiquity; franc. Ubiquité; ted. Allgegenwart). Quel modo d'essere nello spazio che gli Scolastici del sec. x1v chiamavano definitivo (definitivus) e che consiste nell’esser tutto in tutto lo spazio e tutto in qual- siasi parte dello spazio. Questo modo d’essere veniva distinto da quello detto circoscrittivo (cir- cumscriptivus) che consiste nell’essere tutto in tutto lo spazio (occupato) e parte in ciascuna parte di esso (v., per questa distinzione, OCKHAM, /n Sent., IV, q.4; Quodl., VII, q. 19; De Corp. Christi, 6). Il concetto dell’esistenza spaziale definitiva ser- viva ad intendere la presenza del corpo di Cristo nel pane e l’onnipresenza di Dio nel mondo. Per quest’ultima, Leibniz (che ricorda i due primi modi che chiama wubietés) parla di una ubieré reple- tiva (Nouv. Ess., II, 23, 21). UCRONIA (franc. Uchkronie). È il titolo di un romanzo di Carlo Renouvier (Uchronie, l’utopie dans l’histoire, 1876) nel quale l’autore si propone di ricostruire «la storia apocrifa dello sviluppo della civiltà europea, quale avrebbe potuto essere e non è stata ». Lo scopo del romanzo è di mostrare l’assenza della necessità nella storia (v. STORIA). UGUAGLIANZA. V. EGUAGLIANZA. ULTIMO (gr. cò toyaroy; ingl. Ultimate; franc. Ultime; ted. Letzt). Uno dei due estremi di una serie, precisamente quello cui la serie mette capo. Poichè la stessa serie può essere considerata come facente capo per certi scopi (o da un certo punto di vista) ad un certo estremo e per altri scopi (o per altro punto di vista) all’altro estremo, la parola U. è spesso ambivalente e le stesse cose sono dichiarate U. e prime. Così accade frequente- mente nella terminologia aristotelica: in cui è detto U. il motore immobile perchè è il primo nella serie dei movimenti (is., VIII, 2, 244 b 4); ma è detto anche U. la specie che è più vicina all’individuo (Mer., III, 3, 998b 15). Aristotele chiama inoltre U. un soggetto come l’acqua o come l’aria (/bid., V, 6, 1016a 23); ma chiama anche U. sostrato la sostanza (/bid., V, 8, 1017 b 24); e considera il principio di contraddizione come « un’opinione U. » (/bid., IV, 3, 1005 b 33). Chiama pure U. il fine (/bid., V, 16, 1021 b 25). Tutti questi usi, o usi assai simili a questi, sono rimasti nella tradizione filosofica. Nel Medio Evo si chiamò «fine U.» la beatitudine, in quanto è il fine al di là del quale non si può procedere (con- fronta S. Tommaso, S. 7h., II, 1, q.1, a. 4). Oggi si parla di « problemi U. » o di «ragioni U.» nello stesso senso in cui si potrebbe parlare di problemi primi o massimi e di ragioni prime: il che dimostra ancora una volta che il termine appartiene piuttosto 892 alla retorica del discorso filosofico e ha scarso valore concettuale (v. ESTREMO). ULTRAMONDANISMO. V. TRADIZIONA- LISMO, 1. UMANESIMO (ingl. Humanism; franc. Huma- nisme; ted. Humanismus). Il termine è usato per indicare due cose diverse e cioè: I) il movimento letterario e filosofico che ebbe le sue origini in Italia nella seconda metà del sec. x1v e dall’Italia si dif- fuse negli altri paesi d'Europa, costituendo l'origine della cultura moderna; II) un qualsiasi movimento filosofico che assuma a suo fondamento la natura umana o i limiti e gli interessi dell’uomo. I Nel suo primo significato, che è quello storico, l’U. è un aspetto fondamentale del Rina- scimento (v.): precisamente l’aspetto per il quale il Rinascimento è il riconoscimento del valore dell’uomo nella sua interezza e il tentativo di in- tenderlo nel suo mondo, che è quello della natura e della storia. In questo senso l’U. si fa iniziare con l’opera di Francesco Petrarca (1304-74). I principali umanisti italiani sono: Coluccio Sa- lutati (1331-1406), Leonardo Bruni (1374-1444), Lorenzo Valla (1407-57), Giannozzo Manetti (1396- 1459), Leonbattista Alberti (1404-72), Mario Ni- zolio (1498-1576). Fra gli umanisti francesi: Carlo Bovillo (1470 o 75-1553), Pietro Ramus (1515-72), Michele di Montaigne (1533-92), Pietro Charron (1541-1603), Francesco Sanchez (1562-1632), Giusto Lipsio (1547-1606). Tra gli umanisti spagnoli va ricordato Ludovico Vives (1492-1540) e tra quelli tedeschi Rodolfo Agricola (1442-85). I capisaldi fondamentali dell’U. possono essere esposti così: 1° Il riconoscimento della roralità dell’uomo come essere formato di anima e di corpo e destinato a vivere nel mondo e a dominarlo. Il curriculum medievale degli studi era fatto per un angelo o un’anima disincarnata. L'U. rivendica per l’uomo il valore del piacere (Raimondi, Filelfo, Valla); afferma l’importanza dello studio delle leggi, della medicina e dell’etica contro la metafisica (Salutati, Bruni, Valla); nega la superiorità della vita con- templativa su quella attiva (Valla). Si ferma lungamente a esaltare la dignità e la libertà del- l’uomo, a riconoscere il suo posto centrale della natura e il suo destino di dominatore della na- tura stessa (Manetti, Pico della Mirandola, Ficino). 2° Il riconoscimento della storicità dell’uomo cioè dei legami dell’uomo con il suo passato, legami che da un lato servono a connetterlo con tale passato dall’altro a distinguerlo e a contrapporlo ad esso. Da questo punto di vista, è parte fondamentale dell’U. l'esigenza filologica: che non è solo il bi- sogno di scoprire i testi antichi e di ripristinarli nella forma autentica, studiando e collazionando i codici, ma è anche il bisogno di rintracciare in ULTRAMONDANISMO essi l’autentico significato di poesia o di verità filosofica o religiosa che contengono. L’ammira- zione e lo studio dell’antichità non erano mai venuti meno nel Medio Evo; ciò che costituisce il proprio dell’U. è l’esigenza di scoprire il volto autentico dell’antichità, liberandola dalle incro- stazioni che la tradizione medievale vi aveva accu- mulato. 3° Il riconoscimento del valore umano delle lettere classiche. Questo è l’aspetto da cui l’U. prende il suo nome. Già al tempo di Cicerone e Varrone la parola humanitas significava l’educazione dell’uomo come tale che i Greci chiamavano paideia; e si riconoscevano nelle «buone arti» le discipline che formano l’uomo perchè sono proprie solo di lui e lo differenziano dagli altri animali (AuLo GetLio, Nocf. atf., XIII, 17). Le buone arti, quelle che ancora oggi si chiamano le discipline umanistiche, non avevano tuttavia per PU. valore di fine ma di mezzo per la + forma- zione di una coscienza davvero umana, aperta in ogni direzione, attraverso la consapevolezza storico-critica della tradizione culturale » (GARIN, L’educazione umanistica in Italia, pag. 7) (vedi CULTURA). 4° Il riconoscimento della naturalità del- l’uomo cioè del fatto che l’uomo è un essere natu- rale per il quale la conoscenza della natura non è una distrazione imperdonabile o un peccato ma un elemento indispensabile di vita e di successo. Il rifiorire dell’aristotelismo, della magia e delle spe- culazioni naturalistiche (ad opera di Telesio, Bruno e Campanella) costituisce il preludio della scienza moderna. II) Il secondo significato della parola non sempre ha strette connessioni con il primo. Si può dire che per esso l’U. è ogni filosofia che faccia dell’uomo, secondo il vecchio detto di Pro- tagora, «la misura delle cose». Proprio in questo senso, e in riferimento al detto di Protagora, F. C. S. Schiller chiamò U. il suo pragmatismo (Studies in Humanism, 1902). Nello stesso senso, ma per respingerlo ha inteso l’U. Heidegger che ha visto in esso quell’indirizzo della filosofia che fa dell’uomo la misura dell’essere e subordina l’essere all'uomo invece di subordinare, come dovrebbe, l’uomo all’essere e di vedere nell’uomo soltanto « il pastore dell’essere » (Ho/zwege, 1950, pag. 101-02). Riferendosi ad un senso analogo, Sartre ha accet- tato la qualifica di U. per il suo esistenzialismo (L’existentialisme est un humanisme, 1949). Più in generale si può intendere per U. qual- siasi indirizzo filosofico che tenga conto delle pos- sibilità e quindi dei limiti dell’uomo e che proceda su questa base a un ridimensionamento dei pro- blemi filosofici. UMILTÀ UMANITÀ (lat. Humanitas; ingl. Humanity; franc. Humanité; ted. Humanitàt, Menschheit). Il termine ha i seguenti significati principali: 1° La forma compiuta o l’ideale o lo spirito dell’uomo. In tal senso gli antichi adoperavano la parola humanitas, corrispondente al greco pai- deia, dalla quale è venuto il nome e il concetto stesso di umanesimo (v.). In un senso analogo Humboldt considerava come fine della storia «la realizzazione dell’idea dell’U.» (Schriften, IV, pa- gina 55). 2° La sostanza o l'essenza dell’uomo, nel significato aristotelico rimasto proprio della meta- fisica classica. In tal senso S. Tommaso diceva: « U. significa i princìpi essenziali della specie, tanto formali quanto materiali, a prescindere dai prin- cìpi individuali. L’U. è infatti ciò per cui un uomo è tale; e un uomo è tale non perchè ha i princìpi individuali ma perchè ha i princìpi essenziali della specie » (Contra Gent., IV, 81). 3° Il genere umano cioè la specie umana come entità biologica. In tal senso si parla, ad es., della storia o delle vicende dell’U. su questa terra o del- l’evoluzione biologica dell’umanità. 4° La sintesi ipostatizzata della storia o della tradizione dell’uomo, secondo il concetto di Comte che intende per essa « l’insieme degli esseri passati, futuri e presenti che concorrono liberamente a perfezionare l’ordine universale » (Politique positive, IV, pag. 30). In tal senso I’U. costituisce, secondo Comte, un Grande Essere, cioè una specie di divinità che non è altro che lo stesso mondo storico ipo- statizzato. Comte volle istituire il culto di questo grande essere (v. ESSERE, GRANDE). 5° La natura ragionevole dell’uomo, in quanto dotata di dignità e quindi in quanto deve valere come fine a se stessa. Questo è il significato che la parola assume nella seconda formula dell’impera- tivo categorico di Kant: « Agisci in modo da trattare l’U. (Menschheit), tanto nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre anche come fine, mai solo come mezzo » (Grundlegung der Me- taphysik der Sitten, ID. L’U. nella persona degli uomini è l’oggetto proprio del rispetto (v.) che, secondo Kant, è l’unico sentimento morale (Met. der Sitten, II, $ 11). 6° La disposizione alla comprensione degli altri o alla simpatia verso di essi. In questo senso, il termine è stato ottimamente definito da Kant: « U. (Humanitàt) significa da un lato il sentimento universale della simpatia, dall'altro la facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente: due proprietà che insieme costituiscono la socia- bilità propria dell’U. (Menschheit) per cui essa si differenzia dall’isolamento animale » (Crif. del Giud., $ 60; cfr. Antr., $ 88). 893 UMANITARISMO (ingl. Humanitarianism; franc. Humanitarisme; ted. Humanitàt). V. FiLAN- TROPIA. UMILTÀ (gr. tarewoppootvn; lat. Humilitas; ingl. Humility; franc. Humilité; ted. Demut). L'at- teggiamento di volontaria abbiezione, tipico della religiosità medievale alla quale viene suggerito dalla credenza nella natura miserabile e peccaminosa dell’uomo. In questo senso l’U. viene illustrata ed esaltata da Bernardo di Chiaravalle: « L'U. è la virtù per la quale l’uomo, con verissimo ricono- scimento di sè, tiene a vile se stesso » (De gradibus humilitatis et superbiae, in P. L., 182°, col. 942). In questo senso l’U. era sconosciuta al mondo antico. Lo stesso S. Paolo, che adoperò per primo la parola, intese per essa l’assenza dello spirito di competizione e di vanagloria (Philipp., ID e ne vide il modello in Cristo che si è abbassato, con l'incarnazione, sino all'uomo (Ibid, II, 3-11). Allo stesso modo Sant'Agostino parla dell’U. pre- valentemente a proposito della via humilitatis che è l’incarnazione del Verbo per la redenzione degli uomini: e in tal senso contrappone l’U. cristiana alla superbia dei Platonici che sapevano tante cose, ma ignoravano l'incarnazione (Conf., VII, 9). S. Tommaso considerava l’U. come quella parte della virtù «che tempera e frena l’animo affinchè non tenda senza misura verso le cose più alte» e vedeva in esse il completamento della magnanimità che «conferma l'animo contro la disperazione e lo spinge a perseguire le cose grandi secondo la retta ragione» (S. 7h., II, 2, q. 161, a. 1). Ma è ovvio che in questo senso l’U. non è che la ma- gnanimità stessa nel significato aristotelico (v. Ma- GNANIMITÀ) e non ha nulla a che fare con l’U. nel senso di S. Bernardo. I filosofi hanno spesso polemizzato contro l’U. nel significato medievale o hanno cercato di ricon- durla a un significato compatibile con l’etica clas- sica. Spinoza negava che l’U. fosse una virtù e la riteneva una emozione passiva in quanto essa nasce dal fatto che «l’uomo contempla la propria impotenza ». Mentre, se pensa a tale impotenza nei confronti di un essere più perfetto questo pen- siero favorisce la sua potenza d’azione ed è perciò non U. ma virtù (Er., IV, 53). Kant distingue l’U. morale che è «il sentimento della piccolezza del nostro valore in confronto con la legge » dall’U. spuria che è «la pretesa di acquistare, mediante ia rinuncia a un qualsiasi valore morale di sè, un valore morale nascosto ». La pretesa di superare gli altri abbassando se stessi è un’ambizione opposta al dovere verso gli altri; e servirsi di questo mezzo per ottenere il favore di altri (Dio o uomo che sia) è ipocrisia e adulazione (Mer. der Sitten, II, $ 11). Hegel a sua volta affermava che 1°U. » è la coscienza 894 di Dio e della sua essenza come amore » (Philoso- phische Propàdeutik, $ 207; cfr. Philosophie der Reli- gion, ed. Glockner, II, pag. 553). Mentre, dall’altro lato, la protesta di Nietzsche che vede nell’U. sem- plicemente un aspetto della « morale degli schiavi » è ovviamente diretta contro il tipico concetto me- dievale dell’U. (cfr. Werke, VII, pag. 348 sgg.). UMORE (ingl. Mood; franc. Humeur; tedesco Stimmung). Uno stato emotivo che non ha oggetto, o il cui oggetto è indeterminabile, e che si distingue perciò dall'emozione vera e propria. Questa distin- zione è stata proposta da W. Cerf (« U. ed emozioni nell’arte», in Rivista di Filosofia, 1954, pag. 363 sgg.) ed appare opportuna per individuare nella vasta gamma degli stati emotivi quelli che vanno sotto il nome di umore. L’U. non ha oggetto intenzionale nel senso che non esiste un U. di..., come esiste una paura di..., o una gioia di..., ecc. Esso ha una causa o una ragione ma non si riferisce a un parti- colare oggetto e non costituisce l’avvertimento del valore biologico di una situazione. In tal senso, Cerf ha affermato che nell’arte non ci sono emozioni ma soltanto umori. Sul significato esistenziale degli U. aveva richia- mato l’attenzione Heidegger: « Che gli U. possano mutare o dileguare significa solo che l’Esserci è già sempre in uno stato emotivo ». L’U. fondamen- tale è la noia, «il peso dell’essere». Ma in ogni caso l’U. è ciò che rende manifesto « come uno è e diviene » (Sein und Zeit, $ 29). UNICO (lat. Unicus; ingl. Unique; francese Unique; ted. Einzig). 1. Ciò che non è la specie di un genere, intendendosi per genere una deter- minazione che possa essere partecipata da più specie. In questo senso Dio solo è U. (cfr. S. Tom- Maso, S. Th., I, q. 3, a. $). 2. Ciò che è solo nella sua specie, cioè il solo in- dividuo appartenente a una specie determinata. In questo senso, nella metafisica tradizionale possono dirsi U. gli angeli dei quali è impossibile che ve ne siano due della stessa specie in quanto sono privi della materia che distingue gli appartenenti di una stessa specie (cfr. S. Th., I, q. 50, a. 4). In questo senso Stirner intendeva l’unicità: «Io, l’U., sono l’uomo. La questione ‘che cosa è l’uomo?’ si trasforma nella questione ‘chi è l’uomo?’. Nel che cosa si cercava il concetto; nel chi la questione risolta perchè la risposta è data da quello stesso che interroga » (Der Einzige und sein Eigentum, 1845; trad. ital., pag. 270). Il che cosa è il chi, la specie è l’individuo (vedi ANARCHISMO). 3. Ciò che non è sostituibile nel suo valore o nella sua funzione. In tal senso si dice U. una persona o un’opera d’arte; e si dice U., in mate- matica, il valore di una funzione. UMORE 4. Ciò che non si ripete o non si ripete identica- mente. In tal senso si dice U. l’evento storico come tale (v. STORIA). 5. Ciò che può essere effettuato in un solo modo; e in tal senso diciamo U. un’operazione, per es., la scomposizione di un numero in fattori primi. UNIFICAZIONE DELLE SCIENZE. Vedi ENCICLOPEDIA. UNIFORME (gr. spoedic; lat. Uniformis; in- glese Uniform; franc. Uniforme; ted. Einformig). I. Ciò che appartiene alla stessa specie o alla stessa essenza o sostanza. In questo senso il termine ve- niva adoperato da Aristotele (Mer., V, 2, 1013b 31; I, 9, 991 b 23; VII, 7, 1032a 24; ecc.) e inteso da S. Tommaso (/n Sent., II, d. 48, q. 1, a. 1). In tal senso si chiamano U. gli oggetti che hanno lo stesso genere o la stessa specie o in ge- nerale la stessa natura. 2. Ciò che rimane costante o immutabile o al- meno relativamente costante e immutabile. In tal senso si parla della uniformità delle leggi di natura (v. INDUZIONE). 3. Ciò che presenta analogie o somiglianze par- ziali, messe in luce dall’astrazione prescissiva, ed è suscettibile di previsione. In questo senso si parla dell’uniformità della natura o dell’uniformità della storia o del mondo umano e sociale. Peirce ha così illustrato l’uniformità in questo senso: « Se scegliamo molti oggetti col principio che essi deb- bano appartenere ad una certa classe e troviamo che hanno tutti un carattere comune, si troverà assai spesso che l’intera classe avrà lo stesso ca- rattere. O se scegliamo molti caratteri di una cosa a caso e poi troviamo una cosa che ha tutti questi caratteri, generalmente troviamo che la seconda cosa è assai simile alla prima » (Coll. Pap., 7.131). Come osserva lo stesso Peirce, uniformità in questo senso si potrebbe trovare anche in un mondo in cui tutto si verificasse a caso (/bid., 7.136). E sono queste le uniformità di cui si avvalgono le disci- pline scientifiche sia quelle naturali sia quelle so- ciali; come si avvale di esse il senso comune. Il dizionario di un linguaggio qualsiasi non è che la espressione di uniformità di questa sorta. La ri- petibilità è il carattere fondamentale dell’uniformità in questo senso. 4. Ciò che è conforme a un ordine, cioè a una regola o una legge qualsiasi. In tal senso si dicono U. i fenomeni naturali che obbediscono a leggi. Ma in realtà questa specie di uniformità non è che la precedente perchè una legge scientifica non è che un’uniformità nel senso 3. Questo fu un punto messo in luce da J. Stuart Mill (System of Logic, III, IV, 1) (v. REGOLARITÀ). UNIONE (ingl. Union; franc. Union; ted. Ver- bindung). Qualsiasi forma di relazione che consenta UNITÀ di considerare (a qualsiasi titolo) l'insieme dei ter- mini come un tutto. Questa è la definizione che della parola dette Leibniz (De arte combinatoria, 1666, Op., ed. Erdmann, pag. 8). Un tutto non è necessariamente un’unità o una totalità (vedi TUTTO) e può avere gradi diversissimi di coesione tra le sue parti. Sicchè anche i gradi dell’U. pos- sono essere diversissimi. Kant divise ogni U. in composizione (compositio) e in connessione (nexus). La prima è una sintesi mon necessaria cioè tale che non connette necessariamente i suoi termini. Kant ritiene che sia propria delle matematiche e la divide in aggregazione, che riguarda le quantità estensive e coalizione che riguarda le quantità in- tensive. La connessione invece è una sintesi ne- cessaria, per es., quella dell’accidente con la so- stanza e dell’effetto con la causa. Essa può sussistere anche fra termini eterogenei e può essere o fisica, che è la connessione dei fenomeni tra di loro, o metafisica che è l’U. dei fenomeni nella facoltà conoscitiva a priori (Crit. R. Pura, Analitica, libro II, cap. 2, sez. 3, nota [B 202)). Questa diversità di significato si riscontra nel- l’uso corrente del termine come in quello filosofico e teologico. La teologia parla di una «U. ipo- statica » cioè sostanziale o necessaria tra la natura umana e la natura divina nella persona del Cristo (v. INCARNAZIONE); ma parla anche dell’U. mistica dell'anima con Dio, che non è nè sostanziale nè necessaria. La filosofia parla dell’U. tra materia e forma e di sostanza e accidente, che sono necessarie; e parla pure dell’U. dell’anima e del corpo che non è necessaria (cfr. LEIBNIZ, Op., ed. Erdmann, pag. 127). Nel linguaggio comune sono passati al- cuni di questi usi; e in più si parla, ad es., di «U. carnale »; o di U. nel senso di concordia o di solidarietà; o di associazione per la difesa di interessi comuni (U. operaia, ecc.). UNITÀ (gr. uovéc; lat. Unitas; ingl. Unity; franc. Unité; ted. Einheit). 1. In senso proprio, ciò che è mecessariamente uno, cioè indivisibile o nel senso che è privo di parti o nel senso che le sue parti sono inseparabili dalla totalità e insepa- rabili l’una dall’altra. Questo fu il concetto elabo- rato da Aristotele, che distinse ciò che è uno dî per sè o essenzialmente da ciò che è uno per acci- dente (Met., V, 6, 1015 b 16); definì l’U. (uovéc) come qualcosa di indivisibile o assolutamente o quantitativamente (/bid., 1016 b 24) e distinse quattro specie fondamentali di U.: 4) l’U. di una totalità continua qual'è, per es., un organismo; b) l’U. di una forma o sostanza; c) l’U. numerica; d) l’U. definitoria cioè l’U. di cose che hanno la stessa definizione (/bid., X, 1, 1052a 15-1052b 15; cfr. V, 6, 1016a 1-1016a 35). Queste deter- minazioni aristoteliche non sono perfettamente coe- 895 renti perchè, mentre definiscono l’U. come indi- visibilità, includono tra le forme dell’U. la continuità, che Aristotele stesso definisce come la divisibilità in parti a loro volta divisibili (v. ConTINUO). Il loro significato è tuttavia abbastanza chiaro. L’U., cioè l’uno per sè, è da un lato l’identità della forma o sostanza con se stessa, dall’altro l’identità degli og- getti che hanno la stessa definizione (identità degli indiscernibili), dall'altro ancora è l’elemento o il principio del numero. Per ciò che riguarda il numero, questo concetto dell’U. è durato a lungo (v. NuMERO). Ma delle altre due forme di U. distinte da Aristotele, è so- prattutto l’U. formale o sostanziale quella che è stata di regola assunta come concetto o ideale dell’U. nella tradizione filosofica. I neoplatonici illustrarono ed esaltarono l’U. come condizione necessaria di ogni essere, trascurando la distinzione aristotelica tra l’U. che è necessaria e l’uno che non lo è. L’U. è sempre necessaria secondo Plotino: «Separati dall'uno, gli esseri non ci sono più. L'esercito, il coro, il gregge non esisterebbero se non fossero un esercito, un coro, un gregge. La casa e la nave non sono se non hanno unità; giacchè la casa è una casa e la nave è una nave e se per- dessero l’unità non sarebbero nè casa nè nave. Le grandezze continue neanch’esse ci sarebbero se non avessero l’unità. Si divida una grandezza: perdendo l’U., il suo essere si trasforma. Lo stesso accade per i corpi delle piante e degli animali che, se per- dono l’U. e si dividono in molte parti, perdono l'essere che possedevano e non sono più quel che erano; si mutano in altri esseri che, in quanto sono, sono ciascuno un essere» (Enn., VI, 9, 1). Queste considerazioni sono rimaste decisive per la storia ulteriore del concetto di unità. Ripetute da Proclo (/nst. Theol., 21, ecc.) e da Dionigi l’Areo- pagita (De div. nom., XIII, C-D) passarono nella filosofia medievale (cfr. S. Tommaso, S. Th., 1, q. 11, a. 1); e furono riprese da Nicolò da Cusa (De doct. ignor., I, 5) che identificò l’assoluta U. col massimo assoluto ed entrambe le cose con Dio ed ispirò le corrispondenti speculazioni di Bruno sull’argomento. Nell’U. consiste la sostanza delle cose (De /a causa, principio et uno, V, in Op., ed. Guzzo e Amerio, pag. 409). Locke presenta la prima istanza polemica contro il concetto dell’U. sostanziale. Egli sostiene che «l’U. di sostanza» non serve a fare intendere le varie specie di identità, per es., l’identità della so- stanza dell’uomo, della persona, ecc., e che tali identità devono essere chiarite o spiegate indipen- dentemente l’una dall’altra (Saggio, II, 27, 8). Ma Leibniz già ritornava alla difesa dell’identità so- stanziale «l’unica vera e reale U.» (Nouv. Ess., II, 27, 4). E Wolff ridefiniva nel senso tradizionale 896 l’U., intendendo per essa « l’inseparabilità di quelle cose mediante le quali un ente è determinato» (Ont., $ 328); la determinazione dell’ente essendo nient'altro, secondo Wolff, che la ragione o la forma dell’ente (/bid., $ 116). Il ruolo determinante che Kant affida alla sintesi (v.) in tutti i gradi e le forme della conoscenza e in generale dell'attività umana ubbidisce allo stesso favore accordato alla nozione di unità. Questa è in generale per Kant sinonimo di sintesi o di connessione necessaria. Il suo carattere proprio è, in altri termini, l’insepa- rabilità di ciò che viene unificato o sintetizzato. A fondamento di tutti i gradi o le forme di U., che costituiscono le forme e i gradi del conoscere, Kant pone «l'U. oggettiva della percezione» la quale si manifesta con l’uso della copula é in senso oggettivo. Questa copula designa secondo Kant «I’U. necessaria » del soggetto con il predicato e la relazione di questa U. necessaria con l’apper- cezione originaria. Questo non vuol dire che le rappresentazioni legate insieme della copula sono « necessariamente subordinate l’una all’altra +; ma vuol dire che esse sono « subordinate l’una all’altra mediante l’U. necessaria dell’appercezione» (Cri- tica R. Pura, $ 19). Come si vede, l’uso kantiano del concetto di U. è, rigorosamente, quello tradi- zionale: Kant trasferisce all'io penso o « U. neces- saria dell’appercezione » il fondamento dell’U. ne- cessaria degli oggetti; ma la nozione stessa « U. necessaria » è quella aristotelica. Nè da questa no- zione si distacca il concetto che ebbe Hegel dell’U.: di cui lamentava che essa potesse intendersi come « riflessione soggettiva » e riteneva invece che do- vesse intendersi nel senso di « inseparazione e in- separabilità ». Ma questo è appunto il concetto aristotelico dell’U. (Wissenschaft der Logik, I, libro I, sez. I, cap. I, n. 2). L’uso del termine che Hegel fece lungo tutta la sua opera per indicare il terzo momento della dialettica, quello dell’U. o identità degli opposti, è perfettamente conforme a questo concetto. Nell’uso filosofico corrente, il termine non sempre conserva il suo significato proprio di indivisibilità o inseparabilità cioè di connessione necessaria. Tut- tavia questo significato è presente quando si parla dell'U. di Dio o del mondo o della natura o della storia; e perfino quando si parla di U. ideali o normative, come « l’U. dell’umanità » o «l’U. della famiglia », ecc. 2. In correlazione con il significato precedente, i filosofi hanno talora chiamato U. gli elementi costitutivi o i princìpi generali dell’essere. Sap- piamo che i Pitagorici ritenevano in questo senso che «I°U. è il principio di tutte le cose » (Dioc. L., VIII, 25; StoBEO, Ec/., I, 2, 58). Nello stesso senso il neoplatonismo parlava di Monadi o di Enadi UNITARISMO (ProcLo, /nst. Theol., 64) e Leibniz chiamò Mo- nadi (v.) le sostanze spirituali che egli considerò come elementi del mondo. Il termine, in questi usi, conserva il significato di sostanza indivisibile. 3. In senso generico ed improprio lo stesso che uno (v.). UNITARISMO (ingl. Unitarianism; franc. Uni- tarisme; ted. Unitarismus, Unitismus). 1. L'indirizzo religioso che insiste sull’unità di Dio, in opposizione alla formula trinitaria del cristianesimo. Per quanto si riconnetta a vecchie eresie religiose, 1’U. moderno ha trovato la sua prima forma nel socinianesimo (v.) e in seguito ha costituito l’indirizzo religioso più tollerante e liberale del mondo moderno. Questo indirizzo si è quasi esclusivamente sviluppato in Inghilterra e in America. In Inghilterra fu costi- tuita nel 1825 l'Associazione Unitarista dalla quale deriva il nome che l’indirizzo ha assunto, anche fuori dell’associazione stessa o in numerose altre associazioni in Inghilterra e in America. Confronta W. E. CHANNING, Works, 1886; Unitarian Christ- ianity and Other Essays, ed. I. H. Bartlett, 1957; A. A. BowMAan, The Absurdity of Christianity and Other Essays, ed. C. W. Hendel, 1958. 2. Specialmente in tedesco il termine equivale a panteîsmo (v.). Dice Fichte: « Se si dovesse doman- dare il carattere della dottrina della scienza ri- spetto all’unitismo (?v xal màv) e al dualismo, la risposta è: essa è unitismo nel suo aspetto ideale giacchè sa che a fondamento di tutto il sapere sta l’eterno Uno che è al di là di ogni sapere; ed è dualismo nell’aspetto reale, in quanto pone il sa- pere come reale» (Wissenschaftslehre, 1801, $ 32, in Werke, II, pag. 89). UNIVERSALE (gr. xa06Xo0u; lat. Universalis; ingl. Universal; franc. Universel; ted. Allgemein). Il termine ha avuto due significati principali: 1° uno oggettivo, per il quale esso indica una deter- minazione qualsiasi che può appartenere o può essere attribuita a più cose; 2° l’altro soggettivo, per il quale indica la possibilità di un giudizio (sia che concerna il vero e il falso, sia che con- cerna il bello o il brutto, il bene e il male, ecc.) di valore per tutti gli esseri ragionevoli. 1° Il primo significato è quello classico, per il quale Aristotele dice che Socrate è stato lo sco- pritore dell’universale (Mer., XIII, 4, 1078 b 28). In questo senso, l’U. può essere considerato nel duplice aspetto ontologico e logico. Ontologica- mente l’U. è la forma o l’idea o l’essenza che può essere partecipata da più cose e che dà alle cose stesse la loro natura o i loro caratteri comuni. L’U. ontologico è la forma o specie di Platone (cfr., ad es., Parm., 132 a) o la forma o la sostanza di Aristotele: il quale pertanto affermava che la scienza c’è solo dell’U. (De an., II, 5, 417 b 23). UNIVERSALE Logicamente l’U. è secondo Aristotele « ciò che può essere per sua natura predicato di più cose? (De Int., 7, 17a 39): una definizione la quale è stata pressochè universalmente accettata nella storia della filosofia. Fu all’U. in questo senso che i logici me- dievali riconobbero il carattere di segno (v.) e la funzione della supposizione (v.). Era questo l’U. che M. Nizolio interpretava come un tutto collettivo o multitudo rerum singularium, sicchè la proposizione «l’uomo è animale» avrebbe significato «tutti gli uomini sono animali » (De veris principiis, I, 6); al che Leibniz opponeva che esso è invece un tutto distributivo, sicchè quella proposizione significa che questo o quell’uomo, quale che sia, è animale (Op., ed. Erdmann, pag. 70). Leibniz riproduceva così sostanzialmente su questo punto la dottrina nominalistica della EDO dell'U. (OcKHAM, Summa Log., I, 70). È chiaro che I’U. in questo senso non è che un altro nome per indicare il con- cetto, il segno o il significato: sicchè i problemi ad esso connessi devono essere considerati sotto queste voci. Dall'altro lato, lo status ontologico dell’U. dava luogo alla cosiddetta disputa sugli U. che ha occu- pato buona parte della filosofia medievale e in qualche modo ha continuato e continua nella filo- sofia moderna (v. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI). Come si è detto, l’U. nel significato ontologico è la forma o la sostanza delle cose: un concetto che non è soltanto aristotelico e medievale. Anche Locke osservava che il fondamento della universa- lità delle proposizioni può essere soltanto la so- stanza, con la connessione necessaria, che essa im- plica, tra le sue determinazioni, e che dove manca la conoscenza della sostanza l’universalità non è rigorosa (Saggio, IV, 6, 7). Analogamente Kant osservava che l’universalità empirica non è mai rigorosa o vera e che l’universalità autentica bi- sogna che sia fondata sulle forme 4 priori della conoscenza: cioè su quelle forme che entrano a costituire le cose stesse come fenomeni (Crir. R. Pura, Intr., II). Hegel a sua volta insisteva sul- l’unità dell’U. e del particolare, che è l’U. con- creto o Idea o Concetto reale. AW’U. astratto, che è contrapposto al particolare e all’individuo, egli pertanto contrapponeva l’U. concreto che è l’es- senza o la natura positiva del particolare (Wissen- schaft der Logik, II, libro III, sez. I, cap. I, A; trad. ital., III, pag. 42 sgg.). E scorgeva il compito della filosofia per l’appunto nella conoscenza dell’U. concreto: « Compito della filosofia è di dimostrare, contro l’intelletto, che il vero, l’Idea non consiste in vuote generalità ma in un U. che in se stesso è il particolare, il determinato » (Geschichte der Philo- sophie, ed. Glockner, I, pag. 58). Nello stesso senso, Croce scriveva: « Se il concetto è U. trascendente 87 — ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. 897 rispetto alla singola rappresentazione, presa nella sua astratta singolarità, è d’altra parte immanente in tutte le rappresentazioni e perciò anche nella singola » e pertanto identificava il concetto stesso con la ragione o Idea (Logica, 1920, pag. 28). La «concretezza dell’U.» di cui parlano gli scrittori idealisti non è che lo sfarus ontologico che all’U. era stato riconosciuto dalla metafisica tradizionale. AIl’U. ontologico si ricollegano pure alcuni altri usi del termine universale. Così, la «storia U.» è la storia che ha per oggetto la forma o l'ordine complessivo del mondo umano (v. StoRIA). La «gravitazione U. + è una forza o un principio che regge la totalità del mondo e così via. In usi simili del termine il suo significato oggettivo è unito con la sua portata ontologica. 2° Nel secondo significato, U. è ciò che è o dev'essere valido per tutti. Il concetto dell’U. in questo senso è nato dal dominio dell’analisi dei sentimenti e specialmente dei sentimenti estetici (v. Gusto). Già Hume si era proposto di cercare una regola del gusto, cioè una regola « mediante la quale possano venire accordati i vari sentimenti degli uomini» (Essays, I, pag. 268 sgg.). Ma è stato Kant colui che, oltre ad adoperare questo tipo di universalità nel dominio dell'estetica, l’ha esteso al dominio morale e lo ha chiarito nei suoi caratteri specifici, definendolo come validità co- mune o universalità soggettiva. Per ciò che ri- guarda la sfera estetica, Kant vedeva nel giudizio di gusto semplicemente «la necessità oggettiva dell'accordo del sentimento di ognuno con il nostro stesso sentimento + e in tal senso definiva il bello come « un piacere necessario » cioè un pia- cere che tutti devono provare allo stesso modo (Crit. del Giud., $ 22). Nel dominio dell'etica, Kant affermava che una legge pratica è tale solo se «è valida per la volontà di ogni essere razio- nale » (Crit. R. Prat., $ 1); e faceva dell’univer- salità soggettiva, cioè della possibilità di una massima di valere come legge per tutti gli esseri razionali, il criterio per giudicare se una massima è o non è una legge morale (Grundlegung der Mera- physik der Sitten, II). Ma egli si soffermava anche ad illustrare la differenza fra questa universalità sog- gettiva e l’universalità oggettiva. Diceva: «Ogni giudizio oggettivamente U. è anche sempre sog- gettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto ciò che è compreso in un dato concetto, vale anche per ognuno che si rappresenti un og- getto secondo quel concetto». Tuttavia, non è sempre vero l’inverso, cioè non ogni giudizio che ha universalità soggettiva o validità comune è anche oggettivamente U.; e questo è il caso del- l’universalità estetica che possiede l’universalità soggettiva ma non quella oggettiva (Crir. de/ Giud., 898 $ 8). Da Kant in poi l’universalità soggettiva è di- ventata un luogo comune della filosofia; come è di- ventato un luogo comune la nozione di validità (v.). Forse più esattamente questa specie di U. viene oggi indicato con il termine di intersoggettivo (v.). Il riferimento all’intersoggettività costituisce il si- gnificato del termine in molte espressioni correnti come « lingua U.» o «educazione U.» o « consenso U.», «amore U.», ecc. In altre espressioni, il termine può avere sia il significato soggettivo sia il signifi- cato oggettivo logico: per es., «genio U.» che si può intendere come il genio che tutti debbono riconoscere o riconoscono come tale; o come il genio che è tale nei confronti di qualsiasi ramo dello scibile. UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI (inglese Controversy about Universals; franc. Querelle des universaux; ted. Universalienstreit). S’intende con questo termine la disputa sullo status ontologico degli U. (generi e specie) che s’iniziò nella Scola- stica del sec. xI, rimanendo caratteristica di tutta la filosofia medievale, e continuando poi, con forme appena mutate, nella filosofia moderna. La disputa fu impostata secondo un passo della /sa- goge (Introduzione) di Porfirio alle Categorie di Aristotele e i relativi commenti di Boezio. Il passo di Porfirio è il seguente: « Intorno ai generi e alle specie non dirò qui se essi sussistano oppure siano posti soltanto nell’intelletto, nè, nel caso che sus- sistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni » (Zsag., 1). Delle alternative indicate da Porfirio in questo passo, una sola non trova riscontro nella storia della di- sputa: quella secondo la quale gli U. sarebbero realtà corporee. In compenso, un'alternativa che Porfirio non aveva previsto si è verificata storica- mente, almeno a quanto dicono: cioè che l’U. non esiste neppure nell’intelletto e sia soltanto un nome, un flatus vocis. È questa la soluzione at- tribuita a Roscellino da S. Anselmo (De fide Trini- tatis, 2) e da Giovanni di Salisbury (Metal., II, 13; Policrat., VII, 12). Le soluzioni che nella Scolastica e dopo la Scolastica sono state date di questi problemi sono molte numerose; e spesso si di- stinguono l’una dall’altra solo per un capello. Realismo (v.) e nominalismo (v.) sono le soluzioni fondamentali; ma già Ockham enumerava nella con- futazione sistematica che volle dare del realismo, sei forme fondamentali di esso (/n Sent., I, d. 2, q. 4-8; Quodl., V, q. 10-14; Summa Log., I, 15-17; cfr. ABBAGNANO, G. di Ockham, II, $ 8-11). Ma la cosa fondamentale per intendere sia l’origine storica della disputa sia la portata per- manente che essa può avere, è che le sue due soluzioni fondamentali, realismo e nominalismo, UNIVERSALI, DISPUTA DEGLI corrispondono ai due indirizzi fondamentali della logica antica e medievale, quello platonico-ari- stotelico e quello stoico. Questi due indirizzi cor- rispondono a quelle che nello stesso Medio Evo furono chiamate la logica antica e la logica moderna e più tardi formalismo e terminismo (v. TERMINI- smo). Il primo di questi indirizzi insisteva sulle dottrine logiche tradizionali, il secondo sulla dot- trina della supposizione (v.) e sui ragionamenti antinomici. La trattazioni logiche medievali giu- stappongono i due tronchi dottrinari; ma l’incon- ciliabilità e l’antagonismo di questi si manifesta appunto sulla disputa degli U. che pertanto de- nunzia la presenza attiva, nella Scolastica, di una tradizione logica anti-aristotelica, che è appunto quella stoica, attinta attraverso le opere di Boezio e di Cicerone. Realismo e nominalismo costituiscono pertanto le due soluzioni tipiche e storicamente originarie del problema. Per il realismo cioè per la tradizione logica platonico-aristotelica, l’U. è, oltre che con- ceptus mentis, l’essenza necessaria o la sostanza delle cose. Per il nominalismo, cioè per la tradi- zione stoicizzante, l’U. è un segno delle cose stesse. Il realismo e il nominalismo medievale costi- tuiscono pertanto le due alternative che la dot- trina del concetto ha sempre incontrato nella sua storia (v. CONCETTO). Più specificamente, per quel che riguarda il realismo, si possono distinguere tre forme fonda- mentali di esso che potremo chiamare rispetti- vamente quella platonizzante, quella aristotelica e quella semi-aristotelica. La forma platonizzante del realismo è attribuita da Abelardo al suo maestro Guglielmo di Champeaux (sec. x1): l’U. sarebbe la sostanza e gli individui costituirebbero acci- denti di questa sostanza (ABELARDO, (Euvres, ed. Cousin, pag. 513). La soluzione aristotelica è quella che si trova più comunemente difesa nella Scolastica ed è espressa da S. Tommaso dicendo che 1’U. è in re come forma o sostanza delle cose, post rem come concetto nell’intelletto e anse rem nella mente divina come Idea o modello delle cose create (/m Senr., II, d. 3, q. 2, a. 2). Questi tre U. non fanno che uno cioè si identificano con l’essenza, sostanza o forma della cosa, che esiste ab aeterno nell’intelletto divino e che l'intelletto umano astrae dalla cosa stessa (S. 7h., I, q. 85, a. 1). Infine, soluzione semi-aristotelica può chia- marsi quella di Duns Scoto, secondo il quale il vero e proprio U. esiste solo nell’intelletto, ma esiste nelle cose una natura comune distinta non numericamente ma solo formalmente dall’indivi- dualità delle cose (Op. Ox., II, d. 3, q. 6, n. 15). Il carattere proprio di questa soluzione sta nel principio della distinzione formale (v. DISTINZIONE) UNIVOCO ED EQUIVOCO che è una delle caratteristiche della filosofia di Duns Scoto. Dall’altro lato il nominalismo presenta una mag- giore uniformità. Se si prescinde dall’accennata tesi di Roscellino (della quale per altro non esistono documenti convincenti) il nominalismo, da Abe- lardo a Ockham, ha sostenuto sempre le stesse tesi fondamentali, la riduzione dell’U. alla fun- zione logica della predicabilità, dividendosi solo sulla realtà psichica attribuita o meno all'U. stesso. Ockham si dimostra indifferente nei confronti di quest’ultimo problema: nega, ovviamente, che l'U. sia una species (v.), ma ritiene indifferente che lo si identifichi con l'atto dell'intelletto o che addi- rittura si neghi che abbia una realtà qualsiasi nel- l'anima (/n Sent., I, d. 2, q. 8, E). Il suo carattere fondamentale è la sua funzione di segno, cioè la supposizione (v.). Questi rimasero i capisaldi della logica terministica dopo di Ockham; e una nozione analoga dell’U. è quella che compare nella dottrina del concetto che veniva difesa nell'empirismo in- glese a partire dal sec. xvIr e cioè da Locke, Ber- keley e Hume (v. CONCETTO, 2). UNIVERSALISMO (ingl. Universalism; fran- cese Universalisme; ted. Universalismus). x. In senso teologico la dottrina che Dio vuol salvare tutti gli uomini e che pertanto non esiste una qualsiasi pre- destinazione alla dannazione. È la dottrina soste- nuta fra gli altri da Leibniz che parla in questo senso del contrasto tra « universalisti » e « partico- laristi » (7héod., I, $ 80). 2. In senso etico, ogni dottrina anti-individuali- stica cioè ogni dottrina che afferma la subordina- zione dell’individuo a una comunità qualsiasi (stato, popolo, nazione, umanità, ecc.). UNIVERSALIZZAZIONE. V. GENERALIZ- ZAZIONE. UNIVERSO (gr. tè rav; lat. Universum; in- glese Universe; franc. Univers; ted. Universum). 1. Un qualsiasi tutto: per es., « U. del discorso » o «U. delle stelle fisse» o «U. visibile ». 2. Il tutto della natura fisica, a prescindere dal suo ordine. Questo è il significato che al termine dettero Aristotele (Mer., V, 26, 1024a 1) e gli Stoici (StoBEO, Ecl., I, 21, pag. 442 sgg.). 3. Lo stesso che mondo. Questo uso prevale presso i moderni (v. MonDo; TOTALITÀ; TUTTO). UNIVERSO DEL DISCORSO (ingl. Uni verse of Discourse; franc. Univers du discours). L'espressione fu introdotta da De Morgan (Forma! Logic, 1847, pag. 37) e diffusa da Boole (Laws of Thought, 1854, III, $ 4) per indicare in generale « l’estensione del campo dentro il quale si trovano tutti gli oggetti del nostro discorso ». Più precisamente, in seguito, si designò con questo termine, nell’algebra della logica, una classe 899 non vuota dalla quale, e solo dalla quale, siano tratti tutti gli elementi con i quali siano costituite tutte le classi su cui si opera il calcolo. Va da sè che in tal modo l’U. del discorso è la somma lo- gica di tutte le classi che si possono formare con tali elementi. Viene indicato con il simbolo « V» oppure «1». Nell’interpretazione proposizionale esso sarà costituito dalla disgiunzione (somma logica) di tutte le proposizioni sulle quali opera il calcolo, oppure dalla congiunzione (prodotto lo- gico) di tutte le proposizioni vere. Nella Logica delle relazioni, l’U. del discorso è, ancora, formato da tutti gli elementi che possono entrare nelle relazioni considerate: in tal caso deve contenere almeno due elementi se si pren- dono in considerazione solo relazioni diadiche, almeno tre se si prendono in considerazione anche relazioni triadiche... almeno n se si prendono in considerazione relazioni n-adiche. La relazione-U. è la relazione «a v 5» che vige tra tutte le coppie possibili di elementi dell’universo. Nella Logica odierna questo concetto ha per- duto di importanza: qualora venga usato, lo è nel senso sopra definito. In pratica però si usa spesso l’espressione « U. del discorso » per desi- gnare l’insieme di elementi (termini e proposi- zioni) che costituiscono il campo di una data di- sciplina. G. P. UNIVOCO ED EQUIVOCO (gr. suvevupoc, sudvupog; lat. Univocus, Aequivocus; ingl. Univocal, Equivocal; franc. Univoque, Équivoque; ted. Ein- deutig, Aequivok). Questi due termini hanno avuto definizioni diverse a seconda che sono stati riferiti all'oggetto o al concetto (o nome). 1. Aristotele li riferì all'oggetto e intese per uni- voci (o sinonimi) gli oggetti che hanno in comune sia il nome sia la definizione del nome: così, ad es., sia l’uomo che il bue si dicono animali. Chiamò invece equivoci (od omonimi) gli oggetti che hanno in co- mune il nome mentre le definizioni richiamate dal nome sono diverse: in questo senso si chiama animale sia l’uomo sia un disegno (Car., I, 1a 1-11). Queste definizioni ricorrono frequentemente nella scola- stica (per es., Pietro Ispano, Summ. Log., 3.01) e si mantengono anche in logici più recenti (ad es., Jungius, Logica Hamburgensis, 1, 2, 4-9). 2. La logica terministica ritenne «improprio» il riferimento dei due termini agli oggetti e ritenne che essi si dovessero riferire propriamente soltanto ai segni e cioè ai concetti o nomi. Da questo punto di vista, le definizioni di Ockham sono le seguenti. «U. è o la voce o il segno convenzionale che corri- sponde a un solo concetto o, più strettamente, è ciò che si può predicare di per sè di più cose o è il pronome dimostrativo di una cosa. Eguivoco dall’altro lato è il nome che, significando più cose, 900 non è subordinato a un unico concetto ma è unico segno di più concetti o intenzioni dell’anima. L’U. può derivare o dal caso, come accade quando il nome Socrate viene imposto a più uomini, o da una deliberazione quando si impone un certo nome a certe cose e lo si subordina a un solo concetto e poi per la similitudine di questo concetto con altri si estende ad altri il nome stesso» (Summa Log., I, 13). Le definizioni terministiche dei due termini sono quelle che si danno anche oggi dei termini stessi. Le discussioni medievali sulla natura dell’univocità avevano nel Medio Evo un’immediata risonanza teologica, per la disputa tra i sostenitori dell’uni- vocità e quelli dell’analogicità dell’essere (v. ANA- LOGIA). UNO (gr. ele; lat. Unus; ingl. One; franc. Un; ted. Ein). 1. L'elemento di un insieme o di una classe qualsiasi: come quando si dice «l’uomo è un ani- male ». A questo proposito, si dice che una relazione è molti ad U. se per ogni x del suo campo vi è un solo y che abbia la relazione stessa ad x. Si dice che essa è U. a molti se per ogni y dominante inverso del suo campo vi è un unico x che abbia la relazione stessa ad y. Si dice infine che la relazione è U. a U. se essa e il suo inverso sono uno a molti e molti a uno. In questo caso si parla anche di una corri- spondenza di U. a U. (A. CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, n. 556, 564). 2. Ciò che è unico, come quando si dice « Dio è U.» (v. UNICO). 3. L’unità nel senso proprio del termine (vedi UNITÀ). 4. Il numero U. cioè il primo termine nella serie naturale dei numeri o in generale il primo termine di una serie qualsiasi. 5. L’U. ipostatico o teologico cioè Dio o il Bene come primo termine del processo dell’ema- nazione e ultimo termine del processo del ritorno. In questo senso già Eraclito diceva «da tutte le cose l’U. e dall’U. tutte le cose» (Fr., 10 Diels; cfr. EMPEDOCLE, Fr., 17, 1). Ma furono soprattutto i Neoplatonici a adoperare il termine per designare la divinità o il bene in quanto è trascendente rispetto all’essere e all’intelligenza e quindi al di là d’ogni molteplicità. « Bisogna, diceva Plotino, che prima di tutte le cose ci sia qualcosa di semplice e di di- verso da tutte quelle che vengono dopo di essa; essa è in se stessa, non si mescola con quelle che la seguono ma può essere in qualche modo presente alle altre: ed è veramente 1°U. non qualcosa che sia una, ma semplicemente l’U.» (Enn., V, 4, 1). L’unità del primo principio deve intendersi così rigorosa- mente che il nome stesso di « U. » appare a Plotino improprio. « Questo nome U. non contiene forse altro che l’esclusione del molteplice. I Pitagorici UNO lo designavano simbolicamente come Apollo per indicare tra loro la negazione dei molti... Si può adoperare questa parola per cominciare la ricerca con una parola che designi la massima semplicità; ma infine bisogna negare questo stesso attributo che non merita più degli altri di designare quella natura che non può essere attinta dall’udito nè compresa da colui che la nomina ma soltanto da colui che la contempla» (2bid., V, 5, 6). Queste speculazioni sull'U. sono state frequentemente riprese dalla teologia negativa e dal panteismo. Esse sono di solito accompagnate, in Plotino e negli altri, dall’esaltazione della funzione dell’unità in tutto il dominio del conoscere e dell’essere (v. UNITÀ). Così accadde nelle speculazioni plato- niche del Rinascimento. Così accadde anche nel Romanticismo, dal quale l’U.-Tutto, fu assunto come il principio del mondo coincidente con il mondo stesso: come appare in modo più esplicito nella filosofia della natura di Schelling (Werke, I, III, pag. 276). Hegel a sua volta, che vedeva la concretezza nell’unità (v.), scorgeva nell’U. l’astra- zione o l’immediatezza e insisteva sulla relazione dell’U. stesso con i molti che illustrava fantasti- camente con le nozioni, arbitrariamente manipolate, dell’attrazione e della repulsione (Wissenschaft der Logik, I, I, sez. I, cap. III, B; trad. ital., pag. 181 seguenti). Il concetto di U. in questo senso viene spesso utilizzato sia dalle dottrine teistiche sia dalle dottrine panteistiche. Tra coloro che ne hanno fatto un uso più esteso e rigoroso, si deve ricordare Piero Martinetti (La libertà, 1928, pag. 490; Ragione e fede, 1942, pag. 402), per quanto nella speculazione di Martinetti si senta l’effetto della separazione radicale tra Dio come U. assoluto e realtà empi- rica e molteplice, su cui aveva insistito Africano Spir (Denken und Wirklichkeit, 1873). UOMO (gr. &vpwros; lat. Homo; ingl. Man; franc. Homme; ted. Mensch). Le definizioni dell’U. possono essere raggruppate sotto i titoli seguenti: 1° definizioni che si avvalgono del raffronto tra ’U. e Dio; 2° definizioni che esprimono una carat- teristica o una capacità propria dell’U.; 3° defini- zioni che esprimono, come propria dell’U., la sua capacità di autoprogettarsi. 1° Le definizioni del primo gruppo sono di natura religiosa o teologica, ma possono anche trovarsi in dottrine che di religioso e teologico non hanno nulla. Ogni definizione del genere si rifà al detto della Genesi «E Dio disse: facciamo l’U. a immagine e somiglianza nostra» (Gen., I, 26). Questo detto ha servito spesso di punto di partenza per le speculazioni sull’anima e special» mente sulle partizioni dell’anima (v. ANIMA): in realtà esso è un’esplicita definizione dell’U. e come tale fu assunto dai teologi della Riforma. D'altronde UOMO 901 già Aristotele, parlando della vita contemplativa, aveva parlato di un «elemento divino» dell’U. che di quanto eccelle, nel composto che costituisce I°U., di tanto rende l’U. virtuoso e beato (Et. Nic., X, 6, 1177b 26). Ma questo tipo di definizione dell’U. si è, nella tradizione filosofica, costantemente ispirato alla Bibbia. Sull’U. come immagine di Dio insistettero Calvino (/nstitutio, I, 15, 8) e Zuiglio (Deutsche Schriften, I, 56); e lo stesso concetto attraverso le ricche amplificazioni di Jacob Boehme (cfr., per es., Aurora oder die Morgenròthe im Aufgange, VI, 1) passò nella filosofia romantica tedesca. Spinoza diceva che «l’essenza dell’U. è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio » (Er., II, 10, Corol.). Nelle lezioni sulla De- stinazione del dotto nel 1794 Fichte additava come compito dell’U. quello di adeguarsi all’unità e all’immutabilità dell'Io assoluto, secondo la mas- sima «agisci in modo da poter considerare la mas- sima della tua volontà come legge eterna per te» (Uber die Bestimmung des Gelehrten, 1794, 1); ma l’Io assoluto è il principio o la sostanza del- l’U., e la sua unità e immutabilità non è che l’unità e l’immutabilità di Dio: sicchè il miglior modo di esprimere la dottrina di Fichte in proposito è che l’U., nel suo principio ideale, è Dio e deve sforzarsi di diventar tale. Analogamente, per Hegel l’U. è essenzialmente Spirito e lo Spirito è Dio. «L’U., dice Hegel, per quanto considerato per se stesso finito, è anche immagine di Dio e sorgente dell’infinità in se stesso: giacchè è scopo a se stesso, ed ha in se stesso il valore infinito e la destinazione all’eternità » (Philosophie der Geschichte, editore Glockner, pag. 427). Il cristianesimo è definito da Hegel appunto come la posizione della « unità dell’U. e di Dio +» (/bid., pag. 416). In queste de- finizioni dell’U. il rapporto dell’U. con Dio è assunto in modo positivo. Ma lo stesso rapporto può essere assunto in modo negativo o invertito, rimanendo sostanzialmente lo stesso. Feuerbach, ad es., ritiene che I’U. si riveli e si definisca a se stesso nel suo concetto di Dio. « L’essere assoluto, il Dio dell’U., è l’essere stesso dell’U. », egli dice (Wesen des Christentum, $ 1). Ciò che l’U. pensa di Dio, è la definizione dell’U.: 4 Pensi tu l’infinito? Ebbene tu pensi e affermi l’infinità della potenza del pensiero. Senti tu l’in- finito? Tu senti e affermi l’infinità della potenza del sentimento » (/bid.). Le tesi dell’esistenza o del- l'inesistenza di Dio non influisce su queste defi- nizioni dell’U., che rimangono ancorate al raffronto tra l’U. e Dio. Così Nietzsche, dopo aver fatto proclamare da Zaratustra che «Dio è morto», gli fa annunziare il Super U., come ciò che è al di là dell’U. stesso. «La grandezza dell’U. sta in questo, che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che può farlo amare è il fatto che egli è un pas- saggio e un tramonto» (Also sprach Zarathustra, Prol., $ 4). In un senso analogo a quello di Feuer- bach e Nietzsche, ma con in più il concetto dello scacco cui l’U. è destinato, Sartre ha detto: « Se l’U. possiede una comprensione preontologica dell'essere di Dio, non sono nè i grandi spettacoli della natura, nè la potenza della società che gliela hanno conferita: ma Dio, valore e scopo supremo della trascendenza, rappresenta il limite permanente a partire dal quale I’U. si fa annunciare ciò che egli è. Essere U., è tendere a Dio; o, se si preferisce, l’U. è fondamentalmente desiderio d’essere Dio » (L’étre et le néant, pag. 653-54). 2° Le definizioni che esprimono una caratte- ristica o una capacità ritenuta propria dell’U. sono numerose e di esse la prima e più famosa è quella secondo la quale I’U. è « animale ragione- vole ». Questa definizione esprime bene il punto di vista dell’Illuminismo greco e lo spirito della filosofia platonica e aristotelica. Ma essa non si trova esplicitamente in Platone, il quale avrebbe detto soltanto che l’U. è animale «capace di scienza » (Def., 415a): una determinazione che Aristotele ripete considerandola come il proprio dell’U. (7op., V, 4, 133a 20). Ma nella politica Aristotele afferma che «l’U. è l’unico animale che abbia la ragione » e che la ragione serve a in- dicargli l’utile e il dannoso, perciò anche il giusto e l’ingiusto (Po/., I, 2, 1253a 9; cfr. VII, 13, 1332 b, 5). Accettata dagli Stoici, (SEsTo EMPIRICO, Ip. Pirr., II, 26; StoBgo, Ecl., II, 132) questa de- finizione è rimasta classica e ad essa si rifanno abitualmente gli scrittori medievali (cfr., ad es., S. TomMaso, S. 7h., II, 1, q.71, a. 2; II, 2, q.34, a. 5). È questa la sola definizione entrata nella comune cultura; ed anche i filosofi si rifanno ad essa per variarla opportunamente in conformità del senso specifico che essi dànno alla parola ra- gione. Ad es., la definizione di Rosmini «I’U. è un soggetto animale dotato dell’intuizione dell’es- sere ideale indeterminato» (Antropologia, $ 23) esprime la stessa cosa della definizione tradizionale perchè, secondo Rosmini, la « percezione dell’essere ideale indeterminato » è la ragione (Nuovo Saggio, $ 396). La definizione di De Bonald, che fu per un certo tempo famosa, « l’U. è un’intelligenza servita da organi » (Cuvres, 1864, I, pag. 41; III, pag. 149) non è altro anch’essa che una parafrasi della de- finizione tradizionale in quanto in essa il « servizio degli organi» è l’equivalente della « animalità ». E l’ancora più famosa definizione di Pascal « L’U. non è che un giunco, il più debole della natura, ma è un giunco pensante» (Pensées, 347) può anch’essa essere considerata come una variante della definizione tradizionale: una variante nella 902 quale la connotazione della fragilità naturale dell’U. ha preso il posto della «animalità». Dall’altro lato Cartesio aveva fatto a meno della animalità e aveva ridotto l’U. al pensiero, come coscienza immediata: «Io non sono, precisamente parlando, che una cosa che pensa cioè uno spirito, un intelletto o una ragione » (Med., II). Ma l’ani- malità, nella definizione tradizionale, serviva da un lato a spiegare l’ovvia limitazione dell’attività pen- sante dell’U., dall’altro a riconoscere nell’U. un essere terrestre o mondano, che ha bisogno di organi. Nel senso cartesiano Husserl ha detto: «Se l’U. è un essere razionale (animal rationale) lo è solo nella misura in cui tutta la sua umanità è un'umanità razionale, nella misura in cui è la- tentemente orientato verso la ragione oppure aper- tamente orientato verso l’entelechia che si è rivelata a se stessa e guida ormai coscientemente, per una necessità essenziale, il divenire umano » (Die Xrisis der europdischen Wissenschaften und die transzen- dentale Phanomenologie, 1954, $ 6). L’ultima e più aggiornata versione della vecchia definizione è quella dell’U. come animale simbolico cioè come animale che parla (CASSIRER, Essay on Man, cap. II; trad. ital., pag. 49). Questa caratteristica era in verità presente allo stesso termine greco che si- gnifica ragione: logos infatti è il discorso razionale o la ragione che si fa discorso. Nella filosofia con- temporanea, la definizione serve ad esprimere il potere condizionante del linguaggio cioè del com- portamento segnico, in tutte le attività dell'uomo. Questo potere difficilmente potrebbe essere esage- rato; e la definizione in esame è a giusto titolo tra le più diffuse e accettate nella filosofia contem- poranea. Essa tuttavia non può essere intesa a prescindere da quella caratteristica della autopro- gettabilità che il terzo gruppo di definizioni rico- nosce all’uomo. Una seconda e più specifica determinazione, che è stata spesso assunta come definizione dell’U., è la natura politica cioè socievole dell’U. stesso. Già menzionata da Platone (Def., 415a) questa determinazione è strettamente legata, da Aristotele, con la natura razionale dell’uomo. « Chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città ma è o una belva o un Dio» (Pol. I, 2, 1253 a 27). Ovviamente, per Aristotele, razio- nalità e politicità dell’U. sono strettamente con- nesse; e tali rimangono per tutti coloro che in se- guito faranno capo a questa definizione. Hobbes che combatteva questa definizione la intendeva come se essa significasse: « L’U. è adatto sin dalla nascita a vivere socialmente » e affermava che in questo senso essa è falsa, perchè l’U. diventa adatto ad associarsi solo per educazione (De Cive, I, 2, UOMO e nota). Ma il significato più ovvio della definizione in esame è che l’U. non può fare a meno di vivere in società e in questo senso neppure Hobbes dubita della fondamentale esattezza di essa. Questa defi- nizione, tuttavia, non è stata proposta per deter- minare la natura dell’U. nella sua totalità. Con la pretesa di esprimere la totalità dell’U., si presenta invece la definizione di Bergson: « Se potessimo spogliarci del nostro orgoglio, se per definire la nostra specie ci attenessimo strettamente a quelle che la storia e la preistoria ci presentano come la caratteristica costante dell’U. e dell’intel- ligenza, non diremmo forse Momo sapiens ma Homo faber. In definitiva, l'intelligenza, considerata in ciò che sembra il suo compito originale, è la facoltà di fabbricare oggetti artificiali, in partico- lare utensili per fare utensili, e di variarne indefi- nitamente la fabbricazione » (Évol. Créatr., 83 ediz., 1911, pag. 151). In realtà però lo stesso Bergson am- mette, attorno all'intelligenza, un « alone d’istinto » e ritiene possibile il ritorno dell’intelligenza al- l’istinto mediante l’intuizione: il che dovrebbe voler dire che l’U. non è soltanto homo faber. 3° Il terzo gruppo di definizioni comprende quelle che interpretano l’uomo come possibilità di auto-progettazione. Quasi tutte le definizioni del secondo gruppo, pur facendo leva su un’unica determinazione dell’U., ritenuta come propria o fondamentale, la considerano, esplicitamente o im- plicitamente, come una possibilità, cioè una capacità o disposizione. Leibniz, difendendo la definizione dell’U. come animale ragionevole, osservava che il fatto che gli idioti mancano di ragione non è un'obiezione contro di essa: basta che essi, sia pure con la sola loro figura fisica, ne mostrino un indice (Nouv. Ess., III, 6, 22). Ma in realtà già in Aristotele è abbastanza chiaro che la ragione è una possibilità o capacità di giudizio, non una determinazione necessitante; e che solo a questo titolo costituisce la definizione dell’uomo. Forse, il carattere indeterminato dell’U. veniva adombrato nel detto di Democrito: «I'U. è quello che tutti sappiamo » (Fr., 165, Diels). Ma esso è chiaramente espresso nelle speculazioni dei neoplatonici del- l’antichità e del Rinascimento sulla « natura media » o «centrale» dell’uomo. Già Plotino affermava a questo proposito: «Il posto dell’U. è nel mezzo tra gli Dei e le bestie ed egli inclina talvolta verso gli uni talvolta verso le altre; certi uomini sono simili agli dèi, altri alle bestie e i più tengono il mezzo » (Enn., III, 2, 8). Questo pensiero veniva illustrato nel sec. ix da Scoto Eriugena: « Non immeritamente, egli diceva, l’U. è stato chiamato l’officina di tutte le creature: difatti tutte le creature si cont.ngono in lui. Egli intende come l’angelo, ragiona come l’U., sente come l’animale irragio- UOVO nevole, vive come il germe, consiste di anima e corpo e non è privo di nessuna cosa creata » (De divis. nat., III, 37). Questi pensieri venivano ripetuti nel Rinascimento da Nicolò Cusano (De visione dei, 6; Excitationes, Vi De ludo globi, II) e da Marsilio Ficino (Theol. Plat., III, 2) che entrambi li trasferiscono all'anima dell’U.j Ficino chiama l'anima copula del mondo. Ma soprattutto si trovano espressi in modo classico nell’orazione De hominis dignitate di Pico della Mirandola: « Non ti ho dato, o Adamo, fa dire Pico a Dio, nè un posto determi- nato, nè un aspetto proprio, nè alcuna prerogativa tua, perchè quel posto, quell’aspetto, quelle prero- gative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perchè di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto nè celeste nè terreno, nè mortale nè immortale, perchè, di te stesso quasi libero e sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine » (De hom. dign., f.131r). Certamente, l’illimitata capacità di autoprogettazione dell’U. non è stata mai più esaltata con tanta eloquenza e con tanto fiducioso ottimismo come in questa pagina di Pico. Tuttavia, il concetto illuministico dell’U. come ragione progettante, limitata e impedita, bensì, ma efficace può ritenersi una filiazione del concetto rinascimentale dell'uomo. Diceva Kant: «La ra- gione in una creatura è il potere di estendere, oltre gli istinti naturali, le regole e i fini dell’uso di tutte le sue attività; essa non conosce limiti ai suoi disegni. Però la ragione non agisce istintivamente, ma procede per tentativi, con l'esercizio e impa- rando, per elevarsi a poco a poco e passare da un grado di conoscenza ad un altro» (Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbilrgerlicher Absicht, 1784, tesi II. Kant ritiene pertanto che soltanto attraverso la storia della specie umana sulla terra l'uomo realizzi la sua natura: che è la libertà di autoprogettarsi con la sua ragione e specialmente di progettare per sè una società civile fondata total- mente sul diritto. Queste idee esprimevano bene il punto di vista dell'illuminismo, al quale Kant stesso le riferiva. Ancora più chiaramente, Kant descriveva così il carattere della specie umana: « Per potere attribuire all'U. il suo posto nel sistema della natura vivente e così caratterizzarlo, non rimane altro che dire che egli ha quel carattere che egli stesso si fa in quanto sa perfezionarsi secondo i fini da se stesso derivati: onde, come animale fornito della capacità di ragionare (animal rationabile), può farsi da sè ani- male ragionevole (animal rationale) » (Antr., II, e). L’esistenzialismo e lo strumentalismo americano hanno, nella filosofia contemporanea, ereditato questo concetto dell’uomo. Da un lato, essi sotto- lineano che I’U. è ciò che egli stesso può o vuole farsi; che perciò egli è costantemente problema a se stesso e soluzione di questo problema; che con- tinuamente egli progetta il suo modo d'essere o di vivere e che questo progetto entra a costituire in qualche grado e misura il suo modo d’essere o di vivere effettivo. Dall'altro lato, entrambe le correnti riconoscono le limitazioni di questa pro- gettabilità: limitazioni che agiscono specialmente nel fatto che ogni progetto trova già, in qualche misura, come dari (cioè come relativamente immo- dificabili) gli elementi di cui si avvale; che tutto ciò che esso può progettare nel futuro è già stato in qualche modo o forma nel passato; e che per- tanto il passato condiziona entro certi limiti (ri- conosciuti più o meno estesi) il futuro dell’uomo. Questo è il senso in cui Heidegger ha detto che il progetto è il modo d’essere fondamentale dell’U. (Sein und Zeit, $ 31); e in cui Sartre ha parlato di un progetto fondamentale del mondo (L’érre er le néant, pag. 540). Nello stesso senso, John Dewey ha parlato della mutabilità della natura umana e dei suoi stessi cosiddetti istinti o impulsi fonda- mentali (Human Nature and Conduct, pag. 95 sgg.; 106 sgg.). Heidegger ha insistito pure sulla limi- tazione della progettabilità in quanto ogni pro- getto ricadrebbe e si appiattirebbe su ciò che è già stato e in ciò consisterebbe l’effertività (o fat- tualità) dell’U. (v. PROGETTO). Sartre ha insistito sulla libertà assoluta della progettabilità e ha con- siderato puramente arbitraria o gratuita la scelta di un progetto qualsiasi (L’érre er le néant, pag. 721). Dall’altro lato, Dewey ha ripreso il concetto illu- ministico della razionalità (che è nello stesso tempo condizionamento e libertà) dei progetti umani; e sugli stessi caratteri dell’auto-progettazione ha in- sistito l’esistenzialismo positivo (cfr. ABBAGNANO, Possibilità e libertà, 1956, I, 7; II, 3; ecc.). D'al- tronde questa concezione sembra oggi condivisa dagli stessi biologi. Dice, per es., G. G. Simpson: «L’U. può scegliere di sviluppare le sue capacità come più alto animale e tentare di sollevarsi an- cora di più; o può scegliere altrimenti. La scelta è sua responsabilità, e sua soltanto. Non c’è un automatismo che lo porterà in alto senza scelta o sforzo e non c'è una tendenza unilaterale nella giusta direzione. L'evoluzione non ha alcuno scopo; D’U. deve dare lo scopo a se stesso + (The Meaning of Evolution, 6 ediz., 1952, pag. 310). UOVO (gr. ®6y; ingl. Egg; franc. (Euf; ted. Ei). Il primo principio del mondo, secondo la teogonia orfica (Orphicorum fragmenta, 53, 54 Ke). La con- siderazione del mondo come un gigantesco ani- male è alla base di questo mito, che ha parecchi precedenti orientali. Su di questi e sul mito stesso cfr. A. OLIVIERI, Civiltà greca nell’Italia meridionale, 1931, pag. 3-32. URDOXA o URGLAUBE. Husserl ha chia- mato con questo termine (che significa credenza originaria) la certezza propria della credenza cioè il riferimento certo della credenza a un oggetto esistente (/deen, I, $ 104) (v. CREDENZA). URPHAENOMENON. Termine adoperato da Goethe, che così ne illustrava il concetto: « Nell’esperienza per lo più cogliamo soltanto casi che, con una certa attenzione, possono essere con- dotti sotto rubriche empiriche generali. Queste a loro volta si subordinano a rubriche scientifiche che rimandano oltre, sicchè veniamo a conoscere meglio alcune condizioni indispensabili di ciò che appare. Di qui in poi tutto si sistema gradualmente sotto regole e leggi superiori, che si manifestano, non all’intelletto mediante parole e ipotesi, ma all’intuizione attraverso fenomeni. Sono questi i fenomeni che chiamiamo originari; perchè niente nell’apparenza è al di sopra di loro ed essi ci per- mettono, come prima siamo saliti, di discendere gradualmente sino al caso più comune dell’espe- rienza quotidiana » (Farbenlehre, 1808, $ 175). USIOLOGIA (ingl. Usiology; franc. Usiologie; ted. Usiologie). Dottrina delle essenze. Termine raro. USO (ingl. Use; franc. Usage; ted. Gebrauch). L’atto o il modo di adoperare mezzi, strumenti o utensili. Il termine è usato in filosofia soprattutto a proposito di strumenti o mezzi intellettuali, o della ragione stessa. Kant parlò di un U. /ogico della ragione che è quello mediante il quale si effettuano inferenze mediate cioè sillogistiche; e di un U. puro che è quello mediante la quale la ra- gione si fa essa stessa « una speciale fonte di con- cetti e di giudizi». Quest'ultimo è I’U. dialettico della ragione stessa (Crit. R. Pura, Dialettica, Intr., II, B-C). Kant distinse pure l’U. teoretico e l’U. pratico della ragione stessa (Crit. R. Pura, Pref. alla 2* ediz.). Ed infine distinse l’U. empirico dei concetti, che significa il loro riferimento a og- getti dell'esperienza possibile, dall’U. trascendentale che invece significa il loro riferimento a oggetti che sono al di là di tale esperienza (v. TRASCENDEN- TALE). Della nozione di U. si è servito Wittgenstein per definire il significato dei termini linguistici: « Per una estesa classe di casi — sebbene non per tutti — nei quali adoperiamo la parola ‘ signifi cato * essa può essere definita così: il significato di una parola è il suo U. nel linguaggio » (Philo- URDOXA O URGLAUBE sophical Investigations, $ 43) (v. LINGUAGGIO; Sr- GNIFICATO). I logici contemporanei distinguono l’U. di una parola dalla sua menzione. Nella frase «l’uomo è un animale razionale » la parola «uomo» è usata ma non menzionata. Invece nella frase «la tradu- zione italiana della parola inglese man ha quattro lettere» la parola uomo è menzionata ma non usata. Infine nella frase «la parola uomo ha quattro lettere », la parola uomo è nello stesso tempo usata e menzionata. Quest'ultimo U. è quello che gli Scolastici chiamavano della supposizione mate- riale (v. SuPPOSIZIONE) e che Carnap ha chiamato U. autononimo (CARNAP, Logical Syntax of Lan- guage, $ 64; QuINE, Methods of Logic, $ 7; CHURCH, Introduction to Mathematical Logic, $ 80). UTENSILE (ingl. Tool; franc. Ustensile; te- desco Zuhandene). Un mezzo potenziale, che di- venta attuale quando si congiunge all’occhio, al braccio, alla mano, in qualche operazione speci- fica. Questa è la definizione data da Dewey (Human Nature and Conduct, pag. 25). U. è stato spesso considerato il modo d’essere proprio della cosa (v.) come tale. È questa una dottrina che è stata avan- zata da Heidegger (Sein und Zeit, $ 15) ed accet- tata da Ortega y Gasset, che ha considerato come U. anche l’intelligenza, la scienza e la cultura (Schema delle crisi, 1933, pag. 43); e da Sartre, che ha detto: «Il rapporto originale delle cose tra loro è il rapporto d’utensilità... la cosa non è dapprima cosa per essere in seguito U., nè dapprima U. per svelarsi di seguito come cosa: è cosa-U.» (L’étre et le néant, pag. 250). UTILE (ingl. Useful; franc. Utile; ted. Niitz- lich). 1. Ciò che è mezzo o strumento per un fine qualsiasi. In questo senso definivano l'utilità Al- berto Magno (S. 7h., I, g. 8, a. 3), Geulincx (Ethica, III, 6) e Baumgarten (Mer., $ 336). L’uti- lità è in questo senso un carattere delle cose. 2. Più specificamente, a partire da Hobbes, è stato chiamato U. ciò che giova alla conserva- zione dell’uomo o in generale appaga i suoi bi- sogni o soddisfa i suoi interessi. Hobbes affermava a questo proposito che ciascun uomo è, per di- ritto naturale, arbitro circa ciò che gli è U. e che «la misura del diritto è l’utilità » (De Cive, 1642, I, 9-10). Sulle tracce di Hobbes, Spinoza identi- ficava il comportamento razionale dell’uomo con la ricerca dell’U.: «La ragione, non richiedendo nulla contro la natura, richiede di per sè, innanzi tutto che ognuno ami se stesso e ricerchi il proprio U. che veramente sia tale ». Tra le molte cose U. e desiderabili le più importanti sono quelle che convengono alla natura umana c perciò la più importante di tutte è la conservazione dell’uomo nella propria persona e nell'altrui. « Gli uomini che sono governati dalla ragione, ossia gli uomini che cercano il proprio U. secondo la guida della ra- gione, non desiderano per sè nulla che non desi- derino anche per gli altri uomini giusti, fidati e onesti » (Er., IV, 18, schol.). L’utilità in questo senso divenne da un lato fondamento di quella dottrina morale che è l’uzilitarismo (v.) dall'altro il concetto fondamentale dell’economia politica (v.). Nel primo indirizzo, già Hume si domandava 4 perchè l’utilità piace» e vedeva la risposta a questa domanda nella naturale simpatia dell’uomo verso l’altr'uomo (/ng. Conc. Morals, V). La coinci- denza dell’utilità individuale con quella sociale era così già postulata e divenne uno dei temi dell’uti- litarismo. Bentham definiva l’utilità come « quella proprietà di un oggetto per la quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o feli- cità (Introduction to the Principles of Morals, 1789, I, 1). Nel campo dell’economia politica, per U. fu inteso abitualmente «tutto ciò che appaga un bi- sogno +; e l'avvertenza che non sempre ciò che appaga un bisogno dal punto di vista economico (cioè viene desiderato come tale) lo appaga dal punto di vista biologico, consigliò Pareto a intro- durre la nozione di ofelimità (v.) che è l’U. nel contesto economico (Traité d’économie politique, n. 2028). UTILITÀ MARGINALE. V. EcoNnoMIA Po- LITICA. UTILITARISMO (ingl. Utilitarianism; francese Utilitarisme; ted. Utilitarismus). Per quanto la dot- trina che identifica il bene con l’utile si possa far risalire ad Epicuro (v. ETIcA) l’U., come dottrina storicamente determinata è un indirizzo del pen- siero etico, politico ed economico inglese dei se- coli xvin e xrx. Stuart Mill affermò di essere stato il primo ad usare la parola utilitarista (utilitarian) e d’averla desunta da un’espressione usata da Galt negli Annals of Paris (1812): ed a lui infatti è do- vuta la fortuna del nome. Esso però era stato usato occasionalmente da Bentham, e per la prima volta nel 1781. I capisaldi dell’U. possono essere riassunti nel modo seguente: 1° L’U. è in primo luogo il tentativo di tra- sformare l’etica in una scienza positiva della con- dotta umana, scienza che Bentham voleva rendere «esatta come la matematica » (/ntroduction to the Principles of Morals, in Works, I, pag. v). Questo tratto fa dell’U. un aspetto fondamentale del mo- vimento positivistico; e dall’altro lato assicura al- Il°U. stesso un posto importante nella storia del- l’etica (v. ETICA). 2° Conseguentemente, 1’U. sostituisce alla con- siderazione del fine, desunto dalla natura metafi- sica dell'uomo, la considerazione dei moventi che, in linea di fatto, determinano l’uomo ad agire. In ciò esso si riconnette alla tradizione edonistica che scorge nel piacere l’unico movente cui l’uomo o in generale l’essere vivente, obbedisca (v. Epo- NISMO). Sotto quest’aspetto, come sotto quello pre- cedente, l’U. veniva soprattutto illustrato da Ge- remia Bentham (1748-1832). 3° Il riconoscimento del carattere superindi- viduale o intersoggettivo del piacere come mo- vente, onde il fine di ogni attività umana diventa «la massima felicità divisa nel maggior numero possibile di persone »: una formula che enunciata per la prima volta da Cesare Beccaria (Dei diritti e delle pene, 1764, $ 3) fu accettata da Bentham e da tutti gli utilitaristi inglesi. L'accettazione di questa formula suppone la coincidenza dell’utilità privata con l’utilità pubblica: una coincidenza che fu ammessa da tutto l’indirizzo del liberalismo moderno (v. LiserALISMO). Prevalentemente a giu- stificare tale coincidenza fu diretta l’opera di Gia- como Mill e di Stuart Mill. Giacomo Mill l’affi- dava alla legge dell’associazione psicologica: la felicità altrui viene desiderata perchè è stretta- mente associata con la propria (Analysis of the Phenomena of the Human Mind, ediz. 1869, II, pag. 351 sgg.). Stuart Mill affidava questa stessa connessione al sentimento dell’unità umana, che Comte aveva messo in luce con la sua religione dell’umanità (Urilitarianism, 2* ediz., 1871, pag. 61).4° La stretta associazione dell’U. con le dot- trine della nascente scienza economica. Due dei fondatori di questa scienza, Tommaso Roberto Malthus (1766-1834) e Davide Ricardo (1772-1823) furono utilitaristi e condivisero dell’U. lo spirito positivo e riformatore. 5° Lo spirito riformatore, nel campo politico e sociale, degli utilitaristi che si preoccuparono di far servire la loro dottrina morale come fon- damento di riforme che avrebbero dovuto, nei vari campi, aumentare il benessere e la felicità degli uomini. Sotto questo aspetto l’U. fu anche detto radicalismo. Cfr. S. LesLie, The English Utilitarians, 3 voll., 1900; E. ALBEE, A History of English Utilitarianism, 1901, 2* ediz., 1957. UTOPIA (lat. Utopia; ingl. Utopia; francese Utopie; ted. Utopie). Tommaso Moro intitolava così una specie di romanzo filosofico (De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, 1516) nel quale narrava le condizioni di vita in un'isola sconosciuta detta appunto U.: condizioni di vita che sarebbero state caratterizzate dall’abolizione della proprietà privata e dell’intolleranza religiosa. In seguito il termine è stato esteso a designare non solo ogni tentativo analogo, anteriore o po- steriore che fosse, come la Repubblica di Platone o la Cirtà del sole di Campanella, ma' anche in generale ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile realizzazione. Come genere letterario, l’U. cade fuori della considerazione filosofica: basti qui osservare che essa è stata ed è tutt'ora, in questa forma, molto diffusa e che una delle sue incarnazioni sono i romanzi di fantascienza. Problema filosofico è la valutazione dell’U., sia questa espressa in forma romanzesca sia espressa in forma di mito o di ideologia, ecc.; e su questa valutazione i filosofi non sono d’accordo. Comte affidava all’U. il com- pito di migliorare le istituzioni politiche e di svi- luppare le idee scientifiche (Politique positive, I, pag. 285). Marx ed Engels, al contrario, condan- navano come « utopistiche » le forme che il socia- lismo aveva assunto per opera di Saint Simon, Fourier e Proudhon, contrapponendo ad esse il socialismo « scientifico » che prevede la trasforma- zione immancabile del sistema capitalistico in si- stema comunista ma esclude qualsiasi previsione sulla forma che assumerà la società futura e qual- siasi programma per essa (v. SociaLIsMo). Sorel nello stesso senso contrapponeva all’U. « opera di teorici che, dopo aver osservato e discusso i fatti, cercano di stabilire un modello al quale si possano paragonare le società esistenti per misurare il bene e il male che racchiudono» il mito che invece è l’espressione di un gruppo sociale che si prepara alla rivoluzione (Réflexions sur la violence, 4* edi- zione, pag. 46). Mannheim ha invece considerato l’U. come destinata a realizzarsi, in contrapposto all'ideologia (v.) che non riuscirebbe mai a realiz- zarsi. L'U. sarebbe in questo senso alla base di ogni rinnovamento sociale (/deologie und Utopie, 1929, II, 1; cfr. R. K. MERTON, Social! Theory and Social Structure, 1957, 3* ediz., cap. XIII). In generale si può dire che Il’U. rappresenta una correzione o un’integrazione ideale di una situazione politica o sociale o religiosa esistente. Questa correzione può rimanere, come spesso è accaduto ed accade, allo stato di semplice aspira- zione o sogno generico, risolvendosi in una specie di evasione dalla realtà vissuta. Ma può anche accadere che l’U. diventi una forza di trasforma- zione della realtà in atto e assuma abbastanza corpo e consistenza per trasformarsi in autentica volontà innovatrice e trovare i mezzi dell’innova- zione. Di regola la parola viene intesa più in rife- rimento alla prima possibilità che alla seconda. E al primo significato si riattacca la cosiddetta « teoria critica della società » svolta da Horkheimer, Adorno e Marcuse (e specialmente da quest’ultimo) che si è concentrata soprattutto sulla critica disso- lutrice della società contemporanea. «La teoria critica della società, ha scritto Marcuse, non pos- siede concetti che possano gettare un ponte tra il presente e il futuro, non offre promesse e non mostra successi, rimane negativa» (One Dimen- sional Man, 1964, pag. 257). Ed ancora: « Se oggi abba- stanza determinato, sicchè vi sono casi nei quali sembra impossibile decidere se essa è applicabile o meno. Così la parola lontano è V. perchè ci sono casi nei quali è impossibile decidere se si può par- lare di lontananza o meno; mentre non è V. l’espres- sione « distante trenta chilometri ». Peirce ha dato del termine la definizione seguente: « Una propo- sizione è V. quando sono possibili stati di cose, riguardo ai quali chi parla, anche contemplandoli, sarebbe intrinsecamente incerto se siano affermati o negati dalla proposizione. Con intrinsecamente incerto intendiamo parlare di ciò che è dubbio, non per l’ignoranza di chi interpreta, ma per l’in- determinazione del linguaggio di chi parla» (in BALDWIN, Dictionary of Philosophy, Il, pag. 748). La vaghezza non va identificata nè con l’ambiguità nè con la generalità. B. Russell ha tuttavia insistito sulla difficoltà di distinguere ciò che è V. da ciò che è generale, inclinando per una interpretazione soggettiva dell’incertezza inerente a ciò che è V. (Analysis of Mind, 1921, pag. 184). Max Black ha dato un'analisi esauriente della nozione di V. suscitando una feconda discussione in proposito {Vagueness in Language and Philosophy, 1952, cap.II; nella traduzione italiana del libro Vagueness è reso con /ndeterminatezza). VAISESIKA. Uno dei-principali sistemi filo- sofici dell’India antica, la cui fondazione è attri- buita a un bramano detto Kanada, che sostenne una specie di atomismo, considerando la materia formata di elementi indivisibili e caratterizzata da sei determinazioni fondamentali: la sostanza, la qualità, il movimento, la generalità, la particolarità e l’inerenza. Il sistema ammette pure l’esistenza delle anime, dimostrata per inferenza dall’impos- sibilità di attribuire al corpo eventi come la cono- scenza, il piacere, l’amore, ecc.; e l’esistenza di Dio considerato come la causa e il regolatore del Karman (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, 1957, pag. 112 sgg.). VALENZA (ingl. Valency; franc. Valence; ted. Wertheit). Il corrispondente oggettivo o noe- matico del valore, secondo Husserl. Dice Husserl: «Da un lato parliamo della semplice cosa che è valevole, ha il carattere di valore, ha la V.; dall’altro parliamo degli stessi valori concreti o della ogget- tività di valore» (/deen, I, $ 95). Peirce aveva stabilito un’analogia tra le proprietà delle proposizioni e la V. chimica (Coll. Pap., 3. 470-71). VALIDITÀ (ingl. Validity; franc. Validité; ted. Giltigkeit). 1. L’universalità soggettiva (v. UNI- VERSALITÀ, 2): nel qual senso è valido ciò che è (o dev'essere) riconosciuto da tutti vero, buono, bello, ecc. 2. La conformità a regole di procedura sta-bilite o riconosciute. In tal senso si dice valida un’inferenza, se conforme alle regole della logica, o una legge se è conforme alle regole costituzionali; o una sentenza se è conforme alle leggi, o un ordine se è dato dalla persona cui spetta darlo e nelle forme stabilite dalle regole. La V. in questo senso dev'essere tenuta distinta dai valori di verità, di giustizia, ecc. Difatti un’inferenza valida, cioè effet- tuata in conformità delle regole logiche non è un’in- iaggio è valido per effettuare un certo percorso; o una certa organizzazione è valida per certe funzioni, ecc. 4. Più particolarmente e limitatamente al do- minio della logica, Carnap ha proposto di chia- mare valido l’enunciato (o la classe degli enunciati) che è la conseguenza di una classe nulla di enunciati; e contro-valido l’enunciato di cui ogni enunciato può essere conseguenza. I due termini in questo senso stanno rispettivamente per analitico e con- tradditorio (The Logical Syntax of Language, $ 48). Analogamente Quine ha proposto di chiamare valido uno schema logico che rimane vero quale che sia l’interpretazione che si da ai suoi simboli. Per es., lo schema p > pè uno schema valido; mentre lo schema p. 7 è coerente ma non è valido perchè è vero solo quando p è interpretato come vero e qg come falso (Methods of Logic, $ 6). V. in questo senso non significa altro che analiticità o verità logica. VALORE (gr. &Ela; lat. Aestimabile; inglese Value; franc. Valeur; ted. Wert). In generale, ciò che dev'essere oggetto di preferenza o di scelta. Fin dall’antichità la parola fu usata a indicare l’utilità o il prezzo dei beni materiali e la dignità o il merito delle persone; ma quest’uso non ha alcun signi- ficato filosofico perchè non ha dato origine a pro- blemi filosofici. L'uso filosofico del termine comincia soltanto quando il suo significato viene generaliz- zato per indicare qualsiasi oggetto di preferenza o o di scelta; e ciò accadde per la prima volta con gli Stoici i quali introdussero il termine nel dominio dell’etica e chiamarono V. gli oggetti delle scelte morali. Ciò accadde perchè essi intendevano il bene in senso soggettivo (v. BENE, 2) e potettero così considerare i beni e i loro rapporti gerarchici come oggetti di preferenza o di scelta. Per V., in generale, essi intesero «ogni contributo a una vita conforme a ragione » (Dro. L., VII, 105); 0, come dice Cicerone, « ciò che è conforme alla natura o ciò che è degno di scelta (selectione dignum)» (De Fin., III, 6, 20). Per ciò che è conforme a VALORE natura, intendevano ciò che dev’essere scelto in tutti i casi cioè la virtù; per ciò che è degno di scelta, intendevano i beni da preferirsi come l’ingegno, l’arte, il progresso, fra le cose spirituali; la ricchezza, la fama, la salute, la forza, la bellezza fra le cose corporee; la ricchezza, la fama, la nobiltà fra le cose esterne (Diog. L., VII, 105-06). La divisione tra V. obbligatori e V. preferenziali sarà più tardi espressa come quella tra V. intrinseci o finali e valori estrinseci o strumentali. La ripresa della nozione nel mondo moderno si ha soltanto con la ripresa della nozione soggettiva del bene: il che accade con Hobbes. «Il V. di un uomo, egli dice, è, come quello di tutte le altre cose, il suo prezzo, ciò che potrebbe esser pagato per l’uso della sua facoltà: quindi non è assoluto, ma dipende dal bisogno e dal giudizio di un altro. Un abile condottiero di soldati è di gran prezzo in tempo di guerra presente o imminente, ma non in pace» (Leviath., I, $ 10). Tuttavia la nozione di V. soppiantò la nozione di bene nelle discussioni morali solo nel sec. xrx; ed anche in questa occa- sione ciò avvenne per una estensione del signi- ficato economico del termine, che intanto era stato assunto a fondamento della scienza economica (v. EcoNOMIA POLITICA). Kant aveva identificato il bene con il V. in generale: «Ognuno, egli diceva, chiama bene ciò che apprezza ed approva cioè ciò in cui c’è un V. oggettivo» e aggiungeva che il bene in questo senso è tale per tutti gli esseri ragionevoli (Crit. del Giud., $ 5). Egli tuttavia limitava la parola V. a designare il bene obiettivo, escludendone il piacevole e il bello. L'estensione del termine a indicare non solo il bene ma anche il vero ed il bello fu dovuta ai kantiani e in primo luogo all'indi- rizzo psicologistico del kantismo. Polemizzando contro lo stesso Kant, Beneke affermava che la moralità non può determinare una legge universale della condotta, ma può e deve determinare l'ordine dei V. che devono essere preferiti nelle scelte in- dividuali; i V. stessi poi sono determinati dal sentimento (Grundlinien der Sittenlehre, 1837, I, pag. 231 sgg.); Grundlinien des Naturrechtes, 1838, I, pag. 41 sgg.). Questo orientamento dell’etica verso i V., in filosofi che si ispiravano a Kant, è dovuto indubbiamente all’indirizzo psicologistico, che ha come suo corollario la nozione soggetti- vistica del bene. Ma fu soprattutto Windelband a parlare, nei saggi che furono poi raccolti in Preludi (1884), di un « V. di verità » e di un «V. di bellezza » oltre che di un « V. di bene ». Alla diffu- sione del concetto e del termine di V. contribuì potentemente Nietzsche con le sue opere fondamen- tali Jenseits von Gut und Bòse (1886) e Zur Genea- logie der Moral (1887). Approssimativamente da questi anni, il concetto di V. diventa uno dei concetti fondamentali della filosofia e le discussioni intorno ad esso esauriscono quasi totalmente il campo dei problemi morali. Ed a partire dalla stessa data tende a riprodursi, nel campo della teoria dei V., una divisione analoga a quella che aveva caratterizzata la teoria del bene: la divisione tra un concetto metafisico o assolu- tistico e un concetto empiristico o soggettivistico del V. stesso. Il primo attribuisce al V. uno status metafisico, che è completamente indipendente dai rapporti del V. con l’uomo. Il secondo considera il modo d’essere del V. in stretto rapporto con l’uomo o con le attività o il mondo umano. La prima concezione è animata dall’intento di sottrarre il V., o meglio determinati valori e i modi di vita che su di essi si fondano, al dubbio, alla critica e alla negazione: un intento che appare puerile, se si pensa che il V. più saldamente ancorato nelle coscienze degli uomini e che suscita le maggiori passioni è anche il V. più mutevole e relativo, tale che talvolta i filosofi pudicamente si rifiutano di considerarlo autentico: il V.-denaro. 1° La prima concezione deve, da un lato, insi- stere sulla connessione del V.con l’uomo e dall’altro, sull’indipendenza del V. stesso. La prima determi- nazione è difatti costitutiva del V. e segna la sua caratteristica differenziale nei confronti del bene tradizionalmente inteso. La seconda determinazione mira a garantire al V. la sua assolutezza. Il concetto kantiano dell’a priori sembrava possedere entrambe queste determinazioni: perciò da Windelband e Rickert il concetto di V. fu elaborato in relazione con quello di a priori. Per Windelband, il V. è il dover essere di una norma che può anche non avere realizzazione in linea di fatto, ma che è la sola che può dare verità, bontà e bellezza alle cose giudicabili (Pràludien, 4* ediz., 1911, II, pa- gina 69 sgg.). I V. in questo senso non sono cose o super-cose, non hanno realtà o essere, ma il loro modo d'essere è il dover essere (sollen). Rickert ripete questo punto di vista e ribadisce che l’essere dei V. non consiste nella loro realtà ma nel loro dover essere. Tuttavia i V. si trasfor- mano, nella trattazione di Rickert, in realtà tra- scendenti. Rickert distingue sei domini del V.: la logica, l'estetica, la mistica (che è il dominio della santità impersonale), l'etica, l’erotica (che è il dominio della felicità), e la filosofia religiosa. A ciascuno di questi domini corrisponde un bene (scienza, arte, uno-tutto, comunità libera, comunità d’amore, mondo divino), una relazione al soggetto (giudizio, intuizione, adorazione, azione autonoma, unificazione, devozione) e infine una determinata intuizione del mondo (intellettualismo, estetismo, misticismo, moralismo, eudemonismo, teismo © politeismo) (System der Philosophie 1921). La 909 mediazione tra la realtà e i V. è poi chiarita da Rickert con il concetto del senso (Sinn): il senso è il riferimento della realtà, o di una parte della realtà, al mondo dei V. e attraverso di esso i V. si calano nella storia e sono realizzati dall’uomo (System der Philosophie, I, pag. 319 sgg.). Teorie dei V. molto simili a questa venivano elaborate dal tedesco ame- ricano Ugo Miinsterberg in una Philosophie der Werte, del 1908, dall’americano W. M. Urban (Va- luations: its Nature and Laws, 1919; The Intelle- gible World, 1920), dall’italiano Guido della Valle (Teoria generale e formale del V., 1916) e da numerosi altri scrittori. Tutte queste dottrine si lasciano sfug- gire il problema che è alla radice della loro im- postazione o presentano di esso soluzioni illusorie. Da un lato, infatti, riconoscono che il V. è in qualche modo presente all'uomo o alle attività umane o al mondo umano di cui costituisce la norma o il dover essere; dall’altro, esigono che esso sia indipendente da ogni riconoscimento o vicenda umana e che possegga uno status indifferente ri- spetto al mondo umano. Al V. si tendono ad attri- buire, in queste teorie, i caratteri dell'essere perfetto: l’unità, l’universalità, l'eternità, di fronte alla mol- teplicità, particolarità e mutevolezza delle mani- festazioni empiriche di cui dovrebbero costituire la regola. Ma dall’altro lato, come regole di tali mani- festazioni, essi debbono avere con esse un rapporto essenziale, senza il quale non potrebbero servire nè a giudicarle nè a dirigerle. Il concetto kantiano dell’a priori trascendentale non si era rivelato efficace come modello per una soluzione di questo problema. Un altro tipo di soluzione fu cercato affidando l’intuizione del V. a una esperienza sui generis, di natura sentimentale. Il sentimento è, secondo Scheler, «una forma di esperienza i cui oggetti sono completamente inac- cessibili all’intelletto, che è cieco nei loro riguardi come l’orecchio e l’udito nei riguardi dei colori »; questa forma di esperienza ci presenta autentici oggetti disposti in un ordine eterno gerarchico, che sono i V. (Der Formalismus in der Ethik, 3* ediz., 1927, pag. 262). In altri termini, il V. è l’oggetto intenzionale del sentimento come la realtà è l’oggetto intenzionale del conoscere; e questo oggetto è appreso nel suo rapporto gerarchico con gli altri oggetti della stessa specie. L'’intuizione sentimentale del V. è anche un atto di scelta prefe- renziale: scelta preferenziale che segue la gerarchia oggettiva dei valori, costituita da quattro gruppi fondamentali: V. del gradevole e dello sgradevole, corrispondenti alla funzione del godere e del sof- frire; V. vitali, corrispondenti ai modi del sentimento vitale (salute, malattia, ecc.), V. spirituali cioè estetici e conoscitivi; e V. religiosi (Op. cit., pa- gina 103 sgg.). Questa soluzione di Scheler faceva tuttavia ri- sorgere, nel dominio dell’intuizione fondamentale, quella stessa antinomia che caratterizzava l’inter- pretazione neocriticista o trascendentale del valore. E questa antinomia veniva addirittura assunta come caratterizzazione del V. nella dottrina di Nicolai Hartmann. Hartmann da un lato afferma che i V. sono tali solo rispetto all’essere del soggetto e riconosce pertanto la relazionalità (non relatività) di essi (Erhik, 3° ediz., 1949, pag. 141). Dall’altro afferma che i V. hanno un «essere in sè» indi- pendente dalle opinioni del soggetto e costituiscono autentici oggetti che, sebbene non siano reali come gli oggetti delle scienze naturali, hanno un modo d’essere altrettanto immutabile ad assoluto (/bid., pag. 153). Con terminologia diversa perchè di natura teologica ma analoga, gli stessi due aspetti anti- nomici del V. sono stati espressi da R. Le Senne dicendo che il V. è un Dio-con-noi: come Dio è unico e trascendente, come con-noi è in rapporto con l’uomo e capace di guidarlo (Obstacle et valeur, 1934, pag. 220 sgg.). 2° La fortuna del termine V. nel mondo mo- derno è dovuta in buona parte all’opera di Nietzsche e allo scandalo che egli suscitò con la pretesa di invertire i valori tradizionali. Nietzsche dichiarava di puntare le sue speranze « verso spiriti forti e abbastanza indipendenti da dare impulso a giudizi di V. opposti, da riformare e invertire i valori eterni: verso precursori o uomini dell'avvenire che nel presente formino il nodo che costringerà la volontà dei millenni ad aprire nuovi sentieri, ecc.» (Jenseits von Gut und Bòse, $ 203). L’inversione dei V. tradizionali, ironizzati come « V. eterni », fu ritenuta da Nietzsche il compito della sua filosofia (Ecce Homo, $ 4). E questa inversione consisteva sostan- zialmente nel sostituire ai V. della morale cristiana fondata sul risentimento (v.) quindi sulla rinuncia e sull’ascetismo, i V. vitali che nascono dall’affer- mazione della vita cioè dalla sua accettazione dio- nisiaca (Genealogie der Moral, I, $ 10). Questa concezione di Nietzsche è stata considerata come un relativismo dei V. e come tale è stata il ter- mine polemico di riferimento di tutte le dottrine assolutistiche. In realtà vi sono scarse tracce, in Nietzsche, di una relatività dei V.: il suo intento è piuttosto quello di ripristinare la tavola autentica dei V., che è quella dei V. vitali, al posto dei V. fittizi che la morale del risentimento ha fatto propri. La tesi autentica di Nietzsche è quella dello stretto rapporto dell'essere del V. con l’uomo sicchè non c'è V. che non sia una possibilità o un modo d’essere dell’uomo stesso. È questa la tesi caratteristica dell’interpretazione che abbiamo detto empiristica o soggettivistica del valore. Meinong fu il primo a ripresentare esplicitamente questa tesi riducendo il V. di un oggetto alla sua « forza di motivazione » «Uber Werthaltung und Wert» in Archiv fiîr syste- matische Philosophie, 1895, pag. 341). Ehrenfels osservando che in base a questa definizione posse- derebbero V. solo gli oggetti esistenti, definiva il V. come semplice «desiderabilità» (System der Werttheorie, I, 1897, pag. 53). Questa definizione di Ehrenfels è importante giacchè introduce per la prima volta esplicitamente, nella nozione di valore, la connotazione della possibilità. V. non è la cosa desiderata, ma l’oggetto desiderabile: non è cosa nel senso che non è necessariamente un oggetto reale, non è desiderato perchè semplicemente può esserlo. Non diverso significato ha la definizione del V. che alcuni anni più tardi dava R. B. Perry, dicendo che « ogni oggetto, qualunque sia, acquista V. quando è investito da un interesse qualsiasi » (General Theory of Value, 1926, 2% ediz., 1950, pag. 116): l’interesse infatti, a differenza del desi- derio, è soltanto una possibilità. Proprio sul dominio di questa concezione del V. nasceva il relativismo dei valori e nasceva nel seno dello storicismo cioè della considerazione del rap- porto tra i V. e la storia. Per la prima volta, il re- lativismo dei V. è stato difeso da Dilthey. « La storia, diceva Dilthey, è essa medesima la forza produttiva delle determinazioni di V., degli ideali, degli scopi in base ai quali si determina il signi- ficato di uomini e di avvenimenti» (Gesammelte Schriften, VII, pag. 290). I V. e le norme pertanto nascono e muoiono nella storia e non sussistono al di fuori o al di sopra del corso di essa (/bid., pag. 290). Ancora più esplicitamente il relativismo dei V. nei confronti della storia fu affermato da Simmel. Partendo dal riconoscimento della rela- tività del V. economico, Simmel giunse al ricono- scimento della relatività di ogni V.: il V. non è mai un’entità oggettiva ma la sua oggettività deriva soltanto dalla correlazione tra soggetto e oggetto. Non sussistono pertanto V. assoluti; e sono V. solo quelli che in condizioni determinate gli uomini riconoscono come tali. La sfera dei V. si distingue da quella della realtà, non in base a un proprio staerus ontologico, ma per una qualifica- zione categoriale, che può investire qualsiasi og- getto (Philosophie des Geldes, 1900, I, $ 1). Lo storicismo tedesco tuttavia non fu unanime nel riconoscere questa relatività; la considerò sempre come un pericolo ma talvolta volle evitarla. Fu Troeltsch il primo a formulare chiaramente l’an- titesi tra relatività storica e assolutezza dei V. e nello stesso tempo a cercare di recuperare questa assolutezza nell’ambito stesso dello storicismo. La soluzione che egli dette all’antitesi è la coincidenza tra i due termini antinomici: ogni punto della storia è in rapporto diretto con la sfera dei V. assoluti VARIAZIONI CONCOMITANTI, METODO DELLE e contiene in sè tali V., senza relativizzarli alla propria mutevolezza (Der Historismus und seine Probleme, 1922, Gesammelte Schriften, III, pag. 211). Allo stesso modo Meinecke affermava che della storia è costitutiva la relazione con l'Assoluto ma che questa relazione va dall’infinito al finito e non viceversa: sicchè mentre la storia trova il suo fon- damento nei V. che realizza, il modo d’essere di questi V. è irreducibile alla relatività storica e conserva la sua validità incondizionata (Die Enr- stehung des Historismus, 1936, II, pag. 645). della storia stessa. Max Weber, pur insistendo sulla pluralità dei V. e delle sfere di V. vedeva nella storia, non un’incessante creazione dei V. ognuno relativo a un fuggevole momento di essa, nè un rapporto fuggevole con V. assoluti, ma una lotta tra V. diversi offerti alla scelta del- l’uomo (Gesammelte Politische Schriften, pag. 63; cfr. Pietro Rossi, Lo Stforicismo tedesco contem- poraneo, pag. 367 sgg.). Lo stesso riconoscimento delle molteplicità dei V. e dell’importanza della scelta, che continuamente tale molteplicità esige da parte dell’uomo, si trova in Dewey che, appunto per questo, ha definito la filosofia come « critica dei V. »: «La confusione che tutte le teorie del V. hanno fatto, dice Dewey, tra una determinata posizione nel rapporto causale o successivo e il V. vero e proprio, è un’indiretta testimonianza del fatto che ogni valutazione intelligente è anche critica, cioè giudizio, della cosa che ha V. immediato. Ogni teoria del V. è necessariamente un ingresso nel campo della critica» (Experience and Nature, 1926, pag. 397). Ma la critica dei V. in questo senso non è altro che la disciplina intelligente delle scelte umane. Tale disciplina implica in primo luogo la considerazione del rapporto che c’è tra mezzi e fini, sicchè non si può giudicare sui fini se non giudicando nello stesso tempo sui mezzi che ser- vono a conseguirli (Theory of Valuation, 1939, pag. 53). Dall’altro lato difficilmente la critica dei V. potrebbe essere efficacemente istituita senza tener conto di un altro aspetto dei V. sul quale ha specialmente insistito R. Frondizi: la connes- sione tra V. e situazione. « L’organizzazione eco- nomica e giuridica, ha detto Frondizi, i costumi, la tradizione, le credenze religiose e molte altre forme di vita che trascendono l’etica, contribui scono a configurare determinati valori che invece sono affermati come esistenti in un modo estraneo alla vita dell’uomo. Sebbene il V. non possa de- rivarsi esclusivamente da elementi di fatto, non può neppure prescindere da ogni connessione con la realtà. Una simile separazione condanna chi la ese- guisce a mantenersi sul piano disincarnato delle essenze » (Qué son los valores?, 1958, pag. 127). Gli studi contemporanei, impiantati su questo pre- supposto negativo, hanno messo in luce i punti seguenti: 1° Il V. non è semplicemente la preferenza o l’oggetto della preferenza stessa ma è piuttosto il preferibile, il desiderabile, l’oggetto di un’antici- pazione o di un’attesa normativa (confronta DEWEY, The Field of Value, in Value: a Cooperative In- quiry, ed. Ray Lepley, 1949, pag. 68; CLYDE KLUCKONN e altri, in Toward a General Theory of Action, ed. Parsons e Schils, 1951, pag. 422). 2° Dall'altro lato esso non è un mero ideale da cui le preferenze o le scelte effettive possano completamente o quasi completamente prescindere, ma è piuttosto la guida o la norma (non sempre seguita) delle scelte stesse e in ogni caso il loro criterio di giudizio (cfr. C. MoRrRIs, Varieties of Human Value, 1956, cap. I). 3° Conseguentemente la migliore definizione di esso è quella che lo considera come una possi- bilità di scelta cioè come una disciplina intelligente delle scelte, che può condurre ad eliminarne al- cune o a dichiararle irrazionali o dannose, e può condurre (e conduce) a privilegiarne altre, pre- scrivendone la ripetizione ogni volta che certe condizioni si verifichino. In altri termini, una teoria del V., come critica dei V., tende a deter- minare le autentiche possibilità di scelta cioè quelle scelte che, potendosi sempre ripresentare come possibili nelle stesse circostanze, costitui- scono la pretesa del V. alla universalità e alla per- manenza. VANITÀ (ingl. Vanity; franc. Vanité; tedesco Eitelkeit). 1. Nullità. In questo senso la parola è adoperata frequentemente dalla Bibbia (cfr. Ec- clesiaste, I, 2: «V. delle V., disse l’Ecclesiaste; V. delle V. e tutto è V.»). 2. Ambizione meschina, vanagloria, egocentri- smo (v.). VARIABILE. V. COsTAnTE. VARIAZIONI CONCOMITANTI, ME- TODO DELLE (ingl. Method of Concomi- 912 tant Variations; franc. Méthode des variations con- comitantes; ted. Methode der einander begleitenden Veranderungen). Così J. Stuart Mill chiamò uno dei metodi induttivi già illustrati da Herschel (A Discourse on the Study of Natural Philosophy, $ 145) e che si esprime con la seguente regola: « Qualunque fenomeno che varii in qualsiasi ma- niera ogni volta che un altro fenomeno varia in qualche particolare maniera, è una causa o un effetto di questo fenomeno o è connesso con esso mediante qualche fatto di causazione » (Logic, III, VIII, $ 6). Le altre regole dell’induzione sono il metodo della concordanza, il metodo della diffe- renza e il metodo dei residui, sui quali vedi le rispettive voci. VEDANTA (ingl. Vedanta; franc. Vedénta; ted. Vedéînta). Uno dei grandi sistemi filosofici dell’India antica, che è stato codificato nei Brahma- sutra o Vedantasutra attribuiti a Badarayana (forse m secolo d. C.). Il principio del sistema è il Brahman o Atmann, riconosciuto come unica realtà: il mondo è considerato come apparenza ingannevole, maya. Nell’ambito di questo sistema, Sankara supponeva che l’io individuale è identico con il Brahman o Atmann, mentre Ramanuja elaborava un sistema teistico distinguendo dal Brahman sia il mondo creato sia le anime indi- viduali (Das GuPTA, A History of Indian Philo- sophy, 1932-55, III; G. Tucci, Storia della filosofia indiana, 1957, pag. 136 sgg.). VEDUTA. V. INTUIZIONE. VEICOLO SEGNICO (ingl. Sign Vehicle). Uno dei quattro componenti del procedimento segnico (assieme al designato, all'interpretante e all’interprete) secondo Morris; e precisamente l’og- getto o cosa che funziona da segno (Founda- tions of the Theory of Signs, 1938, $ 2) (vedi SEGNO). VELLEITÀ (ingl. Velleity; franc. Velléité; te- desco Velleitàt). Sforzo impotente o mal riuscito. Il termine ricorre in Locke che indica con esso «la gradazione più bassa del desiderio, quella che è più vicina a non esistere affatto» (Saggio, II, 20, 6). Con senso analogo, il termine ricorre in Leibniz che intende per esso «una specie assai imperfetta di volontà condizionale» cioè di una volontà che si impegnerebbe, se potesse, ma non può (Théod., III, 404). Questa notazione è assai più vicina al significato moderno del termine. Ed è d’altronde il significato più antico. S. Tommaso intendeva per V. una volontà antecedente, che può essere o rimanere sospesa, come la volontà del giudice che vorrebbe che il reco vivesse, in quanto è uomo, ma che tuttavia desidera che sia impiccato (S. TA., I, q. 19, a. 6, ad. 1°). VENDETTA. V. TAGLIONE. VEDANTA VERACITÀ (ingl. Truthfulness; franc. Véra- cité; ted. Wahrhaftigkeit). 1. Carattere di un di- scorso che esprime la convinzione di chi lo pro- nuncia e che pertanto non può essere fonte di inganni in chi ascolta. Locke chiamava la V. in questo senso «verità morale» e la distingueva dalla verità « metafisica » che è la conformità delle idee alle cose (Saggio, IV, 5, 11). Ma Leibniz adoperava a questo proposito la parola V. (Nour. Ess., IV, 5, 11). 2. Talvolta si intende per V. la sincerità, che è una qualità, non del discorso, ma della persona che tiene abitualmente discorsi veraci. In questo senso Cartesio aveva parlato della « V. divina », affermando che Dio non può ingannarci nel senso che non può essere causa di errori (Medit., IV). VERBALISMO (ingl. Verbalism; franc. Ver- balisme). 1. Un’espressione verbale di scarso o impreciso significato; o la tendenza a valersi di tali espressioni. 2. Un’espressione verbale. VERBO. V. Logos. VERBO (gr. &îua; lat. Verbum; ingl. Verb; franc. Verbe; ted. Zeitwort). Come parte del di- scorso, il V. fu definito da Aristotele come «il nome che ha nel suo significato, una determina- zione temporale, le cui parti non significano nulla separatamente e che è il segno delle cose che sono predicate di un’altra cosa» (De Int., 3, 16b 6). Questa definizione fu conservata dalla logica me- dievale (cfr. Pietro Ispano, Summ. Log., 1.05). Nella linguistica moderna, la distinzione tra nome e verbo è diventata assai meno importante giacchè, per quanto comune a molti linguaggi, essa manca in certi altri (BLOOMFIELD, Language, 1933, pa- gina 20). VERIDICO (ingl. Veridical; franc. Véridique; ted. Wahrhaftig). 1. Lo stesso che verace o vero (v. VERACITÀ). 2. Ciò che contiene una parte o un accenno di verità. Per es., «sogno V.», « allucinazione V.», ecc. VERIFICA, VERIFICABILITÀ. V. VERIFI- CAZIONE. VERIFICAZIONE (ingl. Verification; francese Vérification; ted. Verifikation). 1. In generale, ogni procedimento che consenta di stabilire la verità o la falsità di un enunciato qualsiasi. Poichè i gradi e gli strumenti della V. possono essere innumerevoli, il termine ha una portata generalis- sima e indica la messa in opera di qualsiasi pro- cedimento di attestazione o di prova (v.). Il ter- mine può anche essere usato per indicare il controllo di una situazione qualsiasi in base a regole o a strumenti adatti; e in tal senso si parla di verificare i conti o i gradi di un angolo o l’autenticità di certi documenti, ecc.: procedure che in italiano si VERITÀchiamano più semplicemente verifiche (termine che no va riscontro nelle altre lingue). In questo senso generale, il termine viene adoperato anche senza riferimento all’esperienza o ai fatti; e si può parlare di V. di un’espressione matematica o di un enunciato analitico della logica come della V. di un enunciato fattuale o di un'ipotesi scien- tifica. Dall'altro lato, la nozione di V. viene talora estesa nel senso di includere in essa non solo il procedimento che consente di stabilire la verità o falsità di un enunciato, ma anche quello che con- sente di stabilire la verità, la falsità o l’indeter- minazione dell’enunciato stesso: cioè in riferimento a una logica a tre valori piuttosto che a due (con- fronta REICHENBACH, «The Principle of Anomaly in Quantum Mechanics», 1948, in Readings in the Phil. of Science, 1953, pag. 519-20). 2. In senso ristretto e specifico, la V. concerne gli enunciati fattuali ed è un procedimento che fa appello all’esperienza o ai fatti. Proprio in questo senso la V. è stata assunta dall’empirismo logico (v.) come criterio del significato delle propo- sizioni: criterio che il Circolo di Vienna (v.) inter- pretava nella forma più rigorosa, dichiarando privi di senso tutti gli enunciati che non si pre- stassero ad un’assoluta verifica empirica. Questo punto di vista veniva espresso con tutto rigore da Carnap nella sua opera Der /ogische Aufbau der Welt (1928). La possibilità di una verifica assoluta fu però negata, nell’ambito dello stesso Circolo di Vienna da K. Popper (Logik der For- schung, 1935) e in seguito da Lewis (« Experience and Meaning» in Philosophical Review, 1934) e da Nagel (in Journal of Philosophy, 1934). Sicchè Carnap stesso modificava il suo punto di vista e in un saggio del 1936 (« Testability and Meaning », ora in Readings in the Phil. of Science, 1953, pa- gine 47-92) parlava, invece che di V., di conferma (confirmation) degli enunciati. Dove una V. com- pleta non è possibile (e non è possibile quasi mai nel dominio della scienza) il principio della verifi- cabilità esprime l’esigenza di una conferma gra- dualmente crescente (Ibid, pag. 49). Da questo punto di vista l’accettazione o il rifiuto di un enun- ciato fattuale contiene sempre una componente convenzionale, che consiste nella pratica decisione che si deve prendere per considerare il grado di conferma di un enunciato come sufficiente per l'accettazione dell’enunciato stesso. Questo punto di vista è oggi estesamente accettato. 3. Per ciò che concerne la procedura della V. fattuale, poco è stato finora detto dai filosofi. Reichenbach ha diviso questo procedimento in due fasi che sono: 1° l’introduzione di una classe fondamentale O di enunciati osservazionali cioè di significati primitivi o diretti, che non sono sotto 58 — ABHAGNANO, Dizionario di filosofia.indagine durante il corso dell’analisi; 2° un insieme di relazioni derivative (o regole di trasformazione) D che consentono di connettere alcuni termini con le basi O. Dopo aver definito, per un’indagine specifica, sia la base O che le relazioni derivative D, il termine « verificato » può essere definito come «l’esser derivato dalla base O in termini delle relazioni D+. A questa descrizione Reichenbach aggiunge una determinazione importante: la con- dizione del significato non è la V. attuale ma la V. possibile (senza la quale gli enunciati storici per es., non avrebbero significato); perciò la no- zione di verifica suppone quella di possibilità e Reichenbach distingue a questo proposito la pos- sibilità /ogica, la possibilità fisica e la possibilità tecnica e distingue corrispondentemente tre specie di significati « Verifiability Theory of Meaning», in Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 1951, pag. 46 sgg.). La teoria della V. si lega così strettamente alla nozione della pos- sibilità (v.). VERISIMILE (gr. elx6c; lat. Verisimilis; inglese Likely; franc. Vraisemblable; ted. Wahrschein- lich). 1. Ciò che è simile al vero, senza avere la pre- tesa di essere vero (nel senso, ad es., di rappresen- tare un fatto o un insieme di fatti). Pertanto un racconto, ad es., un romanzo o una tragedia, può essere V. senza essere minimamente probabile, senza che ci sia alcuna probabilità che i fatti che narra si siano verificati o si verifichino. In tal senso, il concetto del V. è stato adoperato costantemente nel dominio dell’estetica da Aristotele in poi. « Nar- rare cose effettivamente accadute, diceva Aristotele, non è compito del poeta ma piuttosto quello di rappresentare ciò che potrebbe accadere cioè le cose possibili secondo verisimiglianza o necessità + (Poer., 9, 1451 a 36). In questo senso il V. è il carattere di enunciati, teorie o espressioni che non contraddi- cono alle regole della possibilità logica o a quelle delle possibilità tecniche o umane. Una vicenda umana immaginata è V. se essa viene giudicata conforme al comune comportamento degli uomini o trova spiegazioni o appigli in tale comportamento. 2. Lo stesso che persuasivo (v.) o probabile (v.). Popper ha tuttavia distinto la verisimiglianza (Ve- risimilitude) dalla probabilità, perchè mentre que- st’ultima rappresenta l’idea di un avvicinamento alla certezza logica o alla verità tautologica attra- verso una diminuzione graduale del contenuto in- formativo, la verisimiglianza rappresenta l’idea del- l’avvicinamento alla verità comprensiva e così combina verità e contenuto, mentre la probabilità combina verità e mancanza di contenuto (Con- jectures and Refutations, 1965, pag. 237). VERITÀ (gr. &xH0ew; lat. Veritas; ingl. Truth; franc. Vérité; ted. Wahrheit). La validità o l’effi- cacia dei procedimenti conoscitivi. Per V. s'intende infatti in generale la qualità per cui una procedura conoscitiva qualsiasi risulta efficace o ha successo. Questa caratterizzazione si può applicare ugualmente sia alle concezioni che vedono nella conoscenza un processo mentale sia a quelle che vedono in essa un processo linguistico o segnico. Essa ha pure il vantaggio di prescindere dalla distinzione tra defi- nizione della V. e criterio della verità. Questa di- stinzione non viene effettuata sempre, e neppure è frequente; quando viene effettuata, non è altro che l’assunzione di due definizioni della V. stessa. Per es., nell’ambito della teoria della corrispon- denza, quando si distingue da essa il criterio della V., lo si definisce come evidenza ricorrendo al con- cetto di V. come rivelazione. E la dottrina della V. come conformità a una regola, presentata da Kant come criterio formale, accanto al concetto della V. come corrispondenza, diventa poi una definizione della V. stessa. Si possono distinguere cinque concetti fondamen- tali della V.: 1° la V. come corrispondenza; 2° la V. come rivelazione; 3° la V. come conformità a una regola; 4° la V. come coerenza; 5° la V. come utilità. Queste concezioni hanno avuto un’impor- tanza assai diversa nella storia della filosofia: le prime due, e specialmente la prima, sono incom- parabilmente le più diffuse. Esse non sono nep- pure alternative tra loro: cioè accade che più d’una di esse si ritrova nello stesso filosofo, per quanto adoperata a diverso proposito. Sono tut- tavia disparate e irriducibili l’una all’altra, perciò vanno tenute distinte. 1° Il concetto della V. come corrispondenza è il più antico e diffuso. Presupposto da molte delle scuole presocratiche, veniva per la prima volta esplicitamente formulato da Platone con la defini- zione del discorso vero che dà nel Cratilo: « Vero è il discorso che dice le cose come sono, falso quello che le dice come non sono» (Crar., 385 b; cfr. Sof., 262 e; Fil., 37c). A sua volta Aristotele diceva: « Negare quello che è e affermare quello che non è, è il falso, mentre affermare quello che è e negare quello che non è, è il vero 1 (Mer., IV, 7, 1011 b 26 sgg.; cfr. V, 29, 1024b 25). Aristotele enunciava anche i due teoremi fondamentali di questa concezione della verità. Il primo è che la V. è nel pensiero o nel linguaggio, non nell’essere o nella cosa (Mer., VI, 4, 1027 b 25). Il secondo è che la misura della V. è l’essere o la cosa, non il pensiero o il discorso: sicchè una cosa non è bianca perchè si asserisce con V. che è tale; ma si asserisce con V. che è tale, perchè essa è bianca (Mer., IX, 10, 1051 b 5). Nelle precedenti dottrine la definizione della V. e il criterio di V. coincidono. In altre dottrine, pur mantenendosi immutata la definizione di V., il criterio di V. viene ritenuto diverso; così accade nello stoicismo e nell’epicureismo. Stoici ed Epi- curei continuano ad ammettere che la V. è la cor- rispondenza della conoscenza alla cosa (SESTO Emp., Adv. Math., VIII, 38; IH, 9) ma ritengono che il criterio della V. sia diverso, perchè gli Stoici lo vedono nella rappresentazione caralettica (v.) che è la manifestazione dell’oggetto all'uomo e gli Epicurei lo vedono nella sensazione, che è, per loro, il manifestarsi stesso della cosa (Diog. L., X, 31). In tali casi, la distinzione tra la V. e il cri- terio equivale al riconoscimento di due concetti, rite- nuti compatibili (o non incompatibili) della verità. La coesistenza di due concetti di V. d’altronde è tutt'altro che rara. Spesso la teoria della corri- spondenza si accompagna con quella della V. come manifestazione o rivelazione. S. Agostino da un lato definisce il vero come « ciò che è così, come appare » (Solil., II, 5); dall’altro considera come V. «ciò che rivela quel che è, o che manifesta se stesso » e in tal senso identifica la V. con il Verbum o Logos che è la prima immediata e perfetta mani- festazione dell’Essere, cioè di Dio (De Vera Rel., 36). A sua volta S. Tommaso, riprendendo una definizione data da Isacco Ben Salomon nel se- colo rx, definisce la V. come « l’adeguazione del» l'intelletto e della cosa» (S. 7h., I, g. 16, a. 2; Contra Gent., I, 59; De Ver., q. 1, a. 1). Ma mentre conserva rispetto all’uomo il teorema aristotelico che le cose, e non l’intelletto, sono la misura della V., inverte questo teorema rispetto a Dio. « L’in- telletto divino, egli dice, è misurante, non misu- rato; la cosa naturale è misurante e misurata; ma il nostro intelletto è misurato, non misurante, rispetto alle cose naturali e misurante solo rispetto a quelle artificiali» (De Ver., q.1, a. 2). Esiste quindi anche una V. delle cose che è ciò per cui le cose somigliano al loro principio che è Dio; e in questo senso Dio stesso è la prima e somma V. (S. 7h., I, q. 16, a. 5). Questi concetti ricorrono frequentemente nella filosofia medievale. Il con- cetto della V. come corrispondenza viene ampia- mente utilizzato. Pietro Ispano (Summ. Log., 3.34) Herveus Natalis (Quod!., III, 1), Antonio Andrea (Super artem veterem, ed. 1508, f. 45r A) conser- vano la dottrina della V. come conformità dell’in- telletto alla cosa pur polemizzando sul modo d°’es- sere della cosa o più precisamente degli oggetti cui l’intelletto deve conformarsi. In generale, nella Scolastica della seconda metà del *200 e in quella del ’300, si specifica che la « cosa » cui l’intelletto deve conformarsi è la « res intellecta » cioè la cosa come è appresa dall’intelletto, non esterna all’in- telletto stesso (cfr. anche DURANDO DI SAINT- POURGAIN, /n Sent., I, d. 19, q. 5). Il concetto del- l’adeguazione o della conformità tuttavia perde, a partire dal sec. xIv, la sua portata metafisica e teologica per assumere un significato strettamente logico o, come oggi si direbbe, semantico. L’iden- tificazione polemica, difesa da Ockham, di « V.» e « proposizione vera » equivale appunto alla nega- zione del valore metafisico della parola V. (Summa Log., I, 43; Quodl., V, q. 24). I platonici di Cam- bridge mantengono, per ovvi motivi, il carattere metafisico e teologico della nozione della corrispon- denza, parlando di una conformità della cosa con se stessa o con la propria essenza contenuta nel- l'intelletto divino (cfr. HERBERT DI CHERBURY, De veritate, 1656, pag. 4 sgg.); ma Hobbes insiste sul punto di vista nominalistico della V. come semplice attributo delle proposizioni (De Corp., 3, $ 7) e così fa Locke (Saggio, II, 32, 3-19); e perfino Leibniz che rigetta la nozione metafisica della V. quale «attributo dell’essere » e si limita a vedere nella V. «la corrispondenza delle proposizioni, che sono nello spirito, con le cose di cui si tratta » (Nouv. Ess., IV, 5, 11). Wolff metteva insieme il concetto della V. come «concordanza del nostro giudizio con l'oggetto, cioè con la cosa rappre- sentata » (Log., $ 505), che egli chiamava defini- zione nominale della V., e la nozione logica della V. come « determinabilità del predicato mediante la nozione del soggetto» che egli chiamava de- finizione reale (Ibid, $ 513). Baumgarten ritor- nava alla nozione di V. metafisica come « ordine del molteplice nell’unità» (Mer., $ 89); mentre Kant dichiarava di presupporre semplicemente la « definizione nominale della V.» come « accordo della conoscenza con il suo oggetto » e si poneva il problema di trovare un crirerio per la V. stessa. Escluso che fosse possibile un criterio generale cioè valido per tutte le conoscenze, egli si fermava sul criterio formale della V. che è la conformità della conoscenza a proprie regole (Crir. R. Pura, Lo- gica, Intr., III; v. oltre). Questo concetto della V. come corrispondenza non è mai venuto meno neppure nella filosofia più recente dalla quale è talvolta assunto come semplice presupposto, tal- volta esplicitamente difeso. Ciò è accaduto spe- cialmente nelle correnti realistiche (cfr., per es., BoLzano, Wissenschaftslehre, I, $ 25; A. MEINONG, Ùber Annahmen, pag. 125 sgg.). Appunto nello spirito del realismo, N. Hartmann ha difeso la concezione della V. come «coincidenza con un oggetto che deve venire inteso come tale» (Syste- matische Philosophie, $ 9). L’intero mondo della conoscenza è inteso da Hartmann come «la rifles- sione dell'essere su se stesso» (Meraphysik der Erkenntnis, 1921, cap. 27, b). La dottrina della corrispondenza è quella cui ricorrono anche i logici contemporanei, che cer- 5b* — ADBAGNANO, Dizwnario di filosofia. cano di formularla in modo da renderla indipen- dente da qualsiasi ipotesi metafisica. Da questo punto di vista la migliore formulazione è stata data alla teoria da Alfred Tarski, che si è esplici- tamente rifatto, oltre che alla definizione aristote- lica sopra riportata, anche a definizioni analoghe o dipendenti da essa, come quella secondo la quale «un enunciato è vero se designa uno stato di cose esistente» (B. RusseLL, An /nquiry into Meaning and Truth, 1940, pag. 362 sgg.). Tarski è partito da un’equivalenza di questo genere: « L’enunciato “la neve è bianca” è vero se, e solo se, la neve è bianca» per generalizzarla nella formula « X è vero se, e solo se p ». Utilizzando la nozione seman- tica di soddisfazione intesa come la relazione tra oggetti arbitrari e certe espressioni chiamate « fun- zioni enunciative» del tipo «x è bianco» «x è più grande di y», ecc., Tarski ha dato la seguente definizione della V.: « Un enunciato è vero se è soddisfatto da tutti gli oggetti e falso altrimenti ». Tarski ha sottolineato il fatto che la nozione se- mantica della V. (come egli l’ha chiamata e come abitualmente si chiama) non implica nulla circa le condizioni sotto la quale un enunciato come «la neve è bianca » può essere asserito. Indica solo che, ogni qualvolta che asseriamo o rigettiamo questo enunciato, dobbiamo essere pronti ad asserire o rigettare l’enunciato correlativo « L'enunciato ‘la neve è bianca” è vero ». In tal modo egli ritiene che la concezione semantica della V. possa con- ciliarsi con qualsiasi atteggiamento epistemologico essendo neutro riguardo a qualsiasi concezione realistica o idealistica, empiristica o metafisica della conoscenza (« The Semantic Conception of Truth », 1944, in Readings in Philosophical Analisys, 1949, pag. 52-84; la concezione di Tarski fu esposta per la prima volta in uno scritto polacco del 1933 tradotto in tedesco negli Srudia Philosophica del 1935, pag. 261-405). Carnap accettava questa con- cezione della verità ma insistendo sulla sua diffe- renza fondamentale dai concetti di credenza, verifica- zione, conferma ecc. (Introduction to Semantics $ 7). M. Black metteva in luce l’insignificanza filosofica di essa (Language and Philosophy, IV, $ 8). 2° La seconda concezione fondamentale della V. è quella che la considera come rivelazione o manifestazione. Essa ha due forme fondamentali, una empiristica, l’altra metafisica o teologica. La forma empiristica consiste nell’ammettere che la V. è ciò che immediatamente si rivela all’uomo, ed è perciò sensazione, intuizione o fenomeno. La forma metafisica o teologica è quella secondo la quale la V. si rivela in modi di conoscere eccezio- nali o privilegiati, attraverso i quali si rende evi- dente l’essenza delle cose o il loro essere o il loro stesso principio (cioè Dio). La caratteristica fon- damentale di questa concezione è il rilievo dato all’evidenza, assunta insieme come definizione e criterio della verità. Ma l'evidenza, ovviamente, non è che rivelazione o manifestazione. Nel senso empiristico, la V. veniva intesa come rivelazione dai Cirenaici, che vedevano nelle sen- sazioni l’evidenza stessa delle cose (SESTO EMP., Adv. Math., VII, 199-200), dagli Epicurei che con- sideravano la sensazione come il criterio della V. (Droga. L., X, 31-32) e dagli Stoici che lo vedevano nella rappresentazione caralettica (v.) (Dioa. L., VII, 54). La nozione della conoscenza intuitiva è in Ockham la nozione di una manifestazione im- mediata delle cose, nei loro caratteri e nelle loro relazioni, all’uomo (/n Sent., Prol., q. 1, Z). Nello stesso spirito, Telesio diceva che le cose « retta- mente osservate, manifestano da sè la grandezza che ognuna ha, nonchè la loro capacità, le loro forze, la loro natura» e vedeva nella sensazione una tale immediata rivelazione delle cose stesse (De rer. nat., I, Proem.). In generale tutte le dot- trine che affidano alla sensibilità la conoscenza delle cose tendono a scorgere nella sensibilità stessa la rivelazione della loro natura e identificano con tale rivelazione o la verità stessa o il criterio della verità. Dall’altro lato, dalla stessa interpretazione me- tafisica o teologica della V. come corrispondenza, nasce il concetto di V. come manifestazione del- l'essere o del principio supremo. Plotino diceva: «La V. vera non è in accordo con un’altra cosa ma in accordo con se stessa: essa non enuncia nulla fuori di sè, ma enuncia ciò che essa stessa è » (Enn., V, 5, 2). In questo senso la V. è ipostatiz- zata: non è il carattere formale di certi procedi- menti conoscitivi ma un principio metafisico o teologico che ha la stessa sostanzialità e la stessa dignità del principio che si manifesta in essa, cioè di Dio. Questo concetto è il tema di numerose speculazioni nella filosofia patristica e scolastica. S. Agostino afferma che ci deve essere una natura che è così vicina all’Unità suprema da riprodurla in tutto e da essere uno con essa; e che questa na- tura è la V. o Verbo di Dio (De Vera Rel., 36). E che la V. sia, in primo luogo, lo stesso intelletto o Verbo di Dio è dottrina comune nella Scolastica (AnseLMO, De Veritate, 14; S. ToMMAasOo, De Veri- tate, q. l, a. 4). Più tardi lo stesso concetto di V. come rivelazione condusse a riconoscere, sulla base del criterio del- l'evidenza, l’esistenza di V. eterne. Cartesio vide nel cogito (v.) l’evidenza originaria, quella per la quale si rivela al soggetto pensante la sua stessa esistenza; e ritenne che dovesse essere considerato come vero tutto ciò che si manifesta in modo evi- dente. Nell'ambito di ciò che si manifesta in tal modo, Cartesio pose le V. eterne, stabilite e garan tite dall’immutabilità di un decreto di Dio (Méd., IV; Princ. Phil., I, 49). Le V. eterne, sono, secondo Cartesio, garantite e rivelate direttamente da Dio, perciò sono eterne (Réponses, VI, 4). E tali le con- sidera anche Malebranche per quanto, a differenza di Cartesio, ritiene che esse siano, non già poste ma semplicemente riconosciute e fatte valere da Dio (Recherche de la verité, X éclaircissement). Ma il concetto della V. come rivelazione fu soprat- tutto caro al Romanticismo che, in suo aspetto essenziale, si potrebbe designare come filosofia della rivelazione (v. RoManTticISMO). Hegel di- ceva: « L’Idea è la V.: perchè la V. è il rispondere dell’oggettività al concetto. Non nel senso che le cose esterne rispondano alle mie rappresentazioni: queste sono in tal caso solo rappresentazioni esatte che io ho come individuo. Ma nel senso che tutto il reale, in quanto è vero, è l’Idea; e ha la sua V. solo per mezzo dell’Idea e nelle forme dell’Idea » (Enc., $ 213). In altri termini, l’Idea è «l’oggettività del concetto » cioè la razionalità del reale, ma in quanto si manifesta alla coscienza nella sua necessità, cioè come sapere o scienza (System der Philosophie, ed. Glockner, I, pa- gina 423; Wissenschaft der Logik, ed. Glockner, II, pag. 275): e il sapere e la scienza sono l'auto- manifestazione dell’Idea cioè la sua autentica e completa rivelazione. A metà strada tra la forma empiristica e la forma teologica di questa concezione della V., sta quella che essa ha ricevuto per opera della feno- menologia e dell’esistenzialismo. La fenomenologia è, nel suo stesso concetto, il metodo per rendere possibile alle essenze di manifestarsi o rilevarsi come tali. L’epoché (v.) fenomenologica, mettendo in parentesi l’atteggiamento naturalistico, che con- siste nell’affermare la realtà delle cose nel mondo, tende a rendere possibile alle cose stesse di mani- festare la loro essenza. Da questo punto di vista la V. è la stessa evidenza con cui gli oggetti fenome- nologici si presentano, quando l’epoché è stata ef- fettuata (/deen, I, $ 136). V. ed evidenza, secondo Husserl, appartengono pertanto non solo agli og- getti teoretici ma a tutti gli oggetti della conside- razione fenomenologica, siano anche valori, sen- timenti, ecc. (/bid., $ 139). A sua volta Heidegger ha insistito sul carattere di rivelazione o di sco- primento della V., appellandosi anche all’etimologia della parola greca. Perciò da un lato egli ha insi- stito sulla stretta connessione del modo d'essere della V. col modo d'essere dell’uomo cioè con l’esserci: in quanto solo all'uomo la V. può ri- velarsi e si rivela (Sein und Zeit, $ 44). Dall’altro ha insistito sulla tesi che il /uogo della V. non è il giudizio e che la V. non è una rivelazione dicarattere predicativo, ma consiste nell’essere sco- perto dell’essere delle cose o di queste cose stesse e nell'essere scoprente dell’uomo (/bid., $ 44b; cfr. Vom Wesen des Grundes, I, trad. ital., pag. 20). Heidegger ha tuttavia insistito anche sul fatto che ogni scoprimento dell’essere, in quanto scoprimento parziale, è anche un coprimento di esso; un tema che ricorre soprattutto nei suoi scritti del secondo periodo. « L'essere si sottrae, mentre si rivela, all’ente. In tal modo, l’essere, illuminando l’ente, lo svia nello stesso tempo verso l’errore » (Holzwege, pag. 310). 3° La terza concezione della V. è quella che la considera come la conformità con una regola o con un concetto. Questa nozione fu per la prima volta enunciata da Platone. « Prendendo a fonda- mento, egli diceva, il concetto che io giudico il più saldo, tutto ciò che mi sembra in accordo con esso lo pongo come vero, sia che si tratti di cause sia che si tratti di altre cose esistenti; quello che non mi sembra in accordo con esso, lo pongo come non vero» (Fed., 100a). Sporadicamente, questa concezione ritorna nella storia della filo- sofia. S. Agostino affermava che «c’è, sopra la nostra mente, una legge che si chiama V.» e che noi possiamo giudicare tutte le cose in conformità di questa legge, che tuttavia sfugge a qualsiasi giudizio (De Vera Rel., 30-31). Nella letteratura che si ispira a S. Agostino questo tema ritorna frequentemente; ma la più importante espressione di questo concetto della V. è dovuta a Kant. Kant veramente si avvale della nozione, non per la de- finizione della V. (giacchè, come si è detto, di- chiara di presupporre la definizione nominale della V. che è quella della corrispondenza) ma come criterio della V. stessa. Il criterio può concernere, secondo Kant, solo la forma della V., cioè del pensiero in generale; e consiste nella conformità con «le leggi generali necessarie dell’intelletto ». «Ciò che contraddice queste leggi, afferma Kant, è falso perchè l'intelletto in tal caso contrasta con le sue stesse leggi, perciò con se stesso ». Tuttavia questo criterio formale non basta a stabilire la verità materiale, od oggettiva, della conoscenza; chè anzi il tentativo di trasformare questo canone di valutazione formale in organo di conoscenza effettiva non è che l’uso dialettico, cioè illusorio, della ragione (Crit. R. Pura, Logica, Intr., m; Logik, Intr., vm). Questo criterio fu raccolto e accentuato dai neo-kantiani soprattutto da quelli della scuola del Baden. Windelband riteneva che l’oggetto della conoscenza, ciò che misura e de- termina la V. della conoscenza stessa, non è una realtà esterna (che come tale sarebbe irraggiungi- bile e inconoscibile) ma la regola intrinseca della conoscenza stessa (Prdludien, 1884, 4* ediz., 1911, passim). Rickert identificava l’oggerto della cono- 917 scenza con la norma a cui la conoscenza deve adeguarsi per essere vera (Der Gegenstand der Erkenntnis, 1892). In questi neo-kantiani la confor- mità alla regola, che Kant aveva posto semplice- mente come criterio formale della V., diventa l’unica definizione della V. stessa. 4° La nozione della V. come coerenza compare nel movimento idealistico inglese della seconda metà del sec. xIx e viene condivisa da tutti gli apparte- nenti a questo movimento in Inghilterra e in Ame- rica. Essa venne espressa per la prima volta nella Logica o morfologia della conoscenza (1888) di B. Bosanquet; ma la sua diffusione fu dovuta al- l’opera di F. H. Bradley, Apparenza e realtà (1893). La critica del Bradley al mondo dell’esperienza umana partiva dal principio che ciò che è con- tradditorio, non può essere reale; e conduceva pertanto Bradley ad ammettere che la V. o realtà è coerenza perfetta. La coerenza però, attribuita alla realtà ultima cioè alla Coscienza infinita o assoluta, non è semplice assenza di contraddizione; è abolizione di ogni molteplicità relativa e forma di armonia che non si lascia intendere nei termini del pensiero umano (Appearance and Reality, 2 ed., 1902, pag. 143 sgg.). I gradi di verità raggiungi- bili dal pensiero umano si possono giudicare © graduare, secondo Bradley, in base al grado di coerenza che essi posseggono, per quanto tale coerenza sia sempre approssimativa e imperfetta (Ibid., pag. 362). Questi concetti ritornano in una numerosa serie di pensatori dello stesso indirizzo (v. IpraLIsMo) senza che la nozione della coerenza ne venga modificata o chiarita (v. (COERENZA). I precedenti di questa dottrina si trovano più che in Hegel (al quale tuttavia gli idealisti inglesi più frequentemente si riferivano) in Spinoza. Essa in- fatti non è che la trascrizione di quella che Spinoza chiamava « il terzo genere di conoscenza + o « amore intellettuale di Dio »: cioè della conoscenza dell’or- dine totale e necessario delle cose, che Spinoza identificava con Dio stesso (Er., V, 25). 5° La definizione della V. come utilità è propria di alcune forme della filosofia dell’azione e special- mente del pragmatismo. Ma il primo a formularla è stato Nietzsche: « Vero, non significa in generale se non ciò che è adatto alla conservazione dell’uma- nità. Ciò che mi fa perire quando ci credo non è vero per me, è una relazione arbitraria e illegittima del mio essere con le cose esterne» (Wille zur Macht, ed. Kréner, $ 78, 507). Fu il pragmatismo a diffon- dere questa nozione, che fu difesa in primo luogo da W. James. Questi tuttavia identificò utilità e V. solo nei limiti delle credenze non verificabili empiricamente o non dimostrabili, quali erano, secondo lui, le credenze morali e religiose (The Will to Believe, 1897). L'equazione tra utilità e V. fu estesa a tutta la sfera della conoscenza da F. C. S. Schiller (Humanism, 1903 e scritti seguenti). Da questo punto di vista una proposizione, a qual- siasi campo appartenga, è vera solo per la sua effettiva utilità cioè perchè è utile a estendere la conoscenza stessa o a estendere mediante la cono- scenza il dominio dell’uomo sulla natura o alla solidarietà e all’ordine del mondo umano. Un criterio simile veniva presentato da H. Vaihinger nella sua Filosofia del come se (Philosophie des Als Ob, 1911) e popolarizzato da M. De Unamuno nella sua Vita di Don Chisciotte e Sancio (1905) (v. PRAG- MATISMO). Forse si può scorgere una forma diversa di questa stessa concezione nella tesi di Dewey della strumentalità di ogni procedura conoscitiva, e della conoscenza nel suo insieme, ai fini del perfe- zionamento della vita umana nel mondo. Non si trova tuttavia in Dewey la definizione della V. come utilità ma soltanto l’affermazione del carattere stru- mentale quindi valido, ma non vero, delle propo- sizioni (Logic, XV; trad. ital., pag. 382-83) (vedi VALIDITÀ). VERITÀ DOPPIA. V. DOPPIA VERITÀ. VERO (gr. dandé; lat. Verum; ingl. True; franc. Vrai; ted. Wahr). Gli Stoici distinguevano il V. dalla verità perchè il V. è un enunciato quindi è incorporeo, mentre la verità, come scienza che contiene tutti i V., è un modo d'essere della parte egemonica dell’uomo e quindi corporea. Inoltre il V. è semplice mentre la verità consta di molti V. e la verità appartiene alla scienza quindi al sa- piente mentre il V. può essere anche dello stolto (Sesto EMPIRICO, /p. Pirr., II, 81-83; Adv. Dogm., I, 38-42). Nella scolastica il V. fu inteso come uno dei #ra- scendentali (v.) cioè dei caratteri che appartengono alle cose come tali, indipendentemente dai loro generi e per esso fu intesa l’intelligibilità della cosa (S. Tommaso, S. 7h., q. 16, a. 3, ad. 3°). VERUM IPSUM FACTUM. Formula di cui si servl G. B. Vico per esprimere il principio che l’uomo può conoscere solo ciò che egli stesso ha fatto, perchè la conoscenza di una cosa è la cono- scenza della sua genesi (De antiquissima italorum sapientia, 1710, $ 1). Ma questo concetto era de- sunto da Hobbes che lo aveva esposto nel De Ho- mine (1658). Hobbes stesso aveva ridotto il dominio della conoscenza umana da unlato alle matematiche, i cui oggetti sono interamente prodotti dall’uomo, dall’altro alla politica e all’etica che anch'esse trat- tano di oggetti (leggi, convenzioni, princìpi) creati dall'uomo (De Hom. 10). Analogamente Vico dap- prima restrinse il dominio della conoscenza umana alle matematiche (nel De Antiquissima) poi lo estese al mondo della storia, nella Scienza Nuova (1725). Un precedente di questa dottrina si può trovare VERITÀ DOPPIA nel De Possest (1460) di Cusano, dove si dice che l’uomo può conoscere gli enti matematici « nozio- nali » perchè procedono dalla sua ragione e hanno in essa il loro principio, mentre solo Dio può conoscere gli enti reali che hanno in lui la sua causa (Philosophisch-Theologische Schriften, ed. Ga- briel, II, pag. 318-20). VETTORE (ingl. Vector; franc. Vecteur; te- desco Vector). In matematica, una grandezza deter- minata in quantità, direzione e senso. Esso viene abitualmente rappresentato con una freccia. White- head ha utilizzato il termine per indicare il rife- rimento all’esterno dell’esperienza sensibile (Pro- cess and Reality, 1929, pag. 249). VIOLENZA (gr. Bla; lat. Violentia; ingl. Vio- lence; franc. Violence; ted. Gewaltsamkeit). 1. Azione contraria all’ordine o alla disposizione della na- tura. In tal senso Aristotele distingueva il movi- mento secondo natura e il movimento per V.: il primo è quello che porta gli elementi al loro luogo naturale; il secondo è quello che li allontana (De Cael., I, 8, 276, a 22) (v. FISICA). 2. Azione contraria all’ordine morale giuridico o politico. In tal senso si dice «commettere» o « subire V.». L’esaltazione della V. in questo senso è stata talora fatta per motivi politici. Così Sorel ha contrapposto la V. diretta a creare una società nuova alla forza che è propria della società e dello stato borghese. « Il socialismo deve alla V. gli alti valori morali con i quali porge la salvezza al mondo moderno » (Réflexions sur la violence; 1906, tra- duzione ital, pag. 133). VIRTÙ (gr. dpeth; lat. Virtus; ingl. Virtue; franc. Vertu; ted. Tugend). Il termine designa una qualsiasi capacità o eccellenza, a qualsiasi cosa o essere appartenga. I suoi significati speci- fici possono essere ridotti a tre: 1° capacità o po- tenza in generale; 2° capacità o potenza propria dell’uomo; 3° capacità o potenza propria dell’uomo, di natura morale. 1° Nel primo senso che è quello della defini- zione generale, la V. indica una capacità o po- tenza qualsiasi, per es., di una pianta o di un animale o di una pietra. Machiavelli parla della «V.» dell’arte della guerra (Principe, 14); e Berkeley delle « V. dell’acqua di catrame» (sottotitolo della Siris, 1744). 2° Nel secondo senso, la V. è una capacità o potenza propria dell’uomo. Così, ad es., si chiama virtuoso chi possiede un’abilità qualsiasi, per es., nel canto o nel suonare uno strumento o nell’uso del grimaldello. A questo senso della V. ha voluto ri- tornare Nietzsche. «Io riconosco la V. in questo, egli ha detto: 1° che essa non si impone; 2° che essa non suppone dappertutto la V. ma precisamente un’altra cosa; 3° che essa non soffre per l’assenza della V. ma considera questa assenza come un rapporto di distanza grazie al quale c’è qualcosa di venerabile nella V.; 4° che essa non fa propa- ganda; 5° che essa non permette a nessuno di fare il giudice perchè è sempre una V. di per se stessa; 6° che essa fa precisamente tutto ciò che è proibito (la V. come io la comprendo è il vero veritum in tutta la legislatura del gregge); 7° che essa è V. nel senso del Rinascimento, V. libera dalla mora- lità » (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 431). 3° Nel terzo senso, il termine designa una ca- pacità dell'uomo nel dominio morale. Deve trat- tarsi di una capacità uniforme o continuativa, come già notava Hegel (Fil. del Dir., $ 150 ag- giunta) giacchè un atto morale non fa virtù. Questa condizione tuttavia non è sempre rispettata e Locke, per es., parla di V. e di vizio nel senso di atti mo- rali isolati (Saggio, II, 28, 11). Le definizioni della V. in questo senso rientrano nelle seguenti rubriche: a) la capacità di adempiere a un compito o ad una funzione; b) l’abito o la disposizione razionale; c) la capacità del calcolo utilitario; 4) un sentimento o tendenza spontanea; e) lo sforzo. a) La V. come capacità di attendere a un compito determinato è il concetto platonico della virtù. Come la funzione di un organo, per es., degli occhi è quella di vedere e la possibilità di vedere è la V. propria degli occhi, così l’anima ha le sue proprie funzioni e la sua capacità di adempiere ad esse è la V. propria dell’anima (Rep., I, 353). La diversità delle V. è perciò secondo Platone determinata dalla diversità delle funzioni cui l'anima deve adempiere o cui deve adempiere l’uomo nello Stato. Le quattro V. fondamentali o cardinali (v.) sono per l’appunto determinate dalle funzioni fondamentali dell’anima e della comunità. b) La concezione della V. come abito (v.) o disposizione razionale costante è quella propria di Aristotele e degli Stoici ed è la più diffusa nell’etica classica. Secondo Aristotele, la V. è l’abito che rende l’uomo buono e gli consente di far bene il suo compito proprio (Ef. Nic., II, 6, 1106 a 22); ed è un abito razionale (/bid., II, 2, 1103 b 32) nonchè, come tutti gli abiti, uniforme o costante. Gli Stoici, a loro volta definivano la V. come « una disposizione dell’anima coerente e concorde, che rende degni di lode coloro in cui si trova ed è di per se stessa lodevole anche indipendentemente dalla sua utilità » (Cic., Tusc., IV, 15, 34; STOBEO, Ecl., II, 7, 60). Queste definizioni sono state ri- petute innumerevoli volte nella filosofia antica e medievale ed anche nel pensiero moderno. Esse si trovano, ad es., in Abelardo (Theol. Christ., II), Alberto Magno (S. 7A., II, q. 102, a. 3), S. Tom- maso (S. 7A., II, 1, q. 55), Leibniz (il quale distingue le V. come abitudini dalle corrispondenti azioni, 919 Nouv. Ess., II, 28, 7), e Cristiano Wolff. (Phil Practica, I, $ 321). c) Il terzo concetto della V., è quello che la considera come la capacità del calcolo utilitario. Fu Epicuro il primo ad esporre questa nozione, considerando come V. suprema, dalla quale tutte le altre derivano, la saggezza che giudica sui pia- ceri che occorre scegliere e su quelli che sono da fug- gire e distrugge le opinioni che sono la causa delle perturbazioni dell'anima (Dio. L., X, 132). Nel Rinascimento, questa concezione veniva difesa da Telesio che vedeva nella V. la facoltà di stabilire la misura giusta delle passioni e delle azioni affinchè non venga da esse alcun danno all’uomo (De rer. nar., IX, 5). E più tardi una concezione analoga veniva ripresa da Hume (/ng. Conc. Morals, I), e in generale dall’utilitarismo inglese e special- mente da Bentham che definiva la V. come «l’at- titudine a produrre la felicità» (Deontology, X). Per quanto questo concetto della V. sia solitamente proprio dell’empirismo, Spinoza lo condivise: « Agire assolutamente secondo V., egli scrisse, non è altro per noi che agire, vivere, conservare il proprio essere (tre cose che significano lo stesso) secondo la guida della ragione, sul fondamento della ricerca dell’utile» (Er., IV, 24). d) Il concetto della V. come sentimento o tendenza, cioè come spontaneità, fu proprio degli analisti inglesi del *700 a cominciare da Shafte- sbury. «In una creatura sensibile, egli dice, ciò che non è fatto attraverso un’affezione, non produce né bene né male nella natura di quella creatura; la quale può essere detta buona solo quando il bene o il male del sistema con il quale essa è in relazione è l’oggetto immediato di qualche emo- zione o affezione che la muove» (Characteristics of Men, Treatise IV, Book I, part. 2, sect. D. Su questa base Hutchinson postulò un senso morale a fondamento della V. (System of Moral Philosophy, I, 4): e Adamo Smith definì questo senso morale come simpatia (Theory of Moral Sentiments, 1759, III, 1). Ma fu soprattutto l’illuminismo francese a diffondere questo concetto della V., Rousseau parlava della pietà come di una «V. naturale » che è «una disposizione con- veniente a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come gli uomini» e che precede ogni riflessione (De l’inégalité parmi les hommes, I); e Voltaire riteneva nello stesso senso che la V. non è altro che «il far bene al prossimo » (Dictionnaire philo- sophique, art. Vertu). L'etica del positivismo si riattacca a questa concezione facendo della V. la manifestazione dell’istinto altruistico (COMTE, Caré- chisme positiviste, pag. 48; SPENCER, Data of Ethics, $ 46). Nella filosofia contemporanea una conce- zione analoga si può scorgere nella dottrina di Bergson della cosiddetta «morale aperta» che è la manifestazione dello slancio vitale (Deux sources de la morale, 1932, cap. I). e) Infine la dottrina della V. come sforzo è stata enunciata da Rousseau e fatta propria da Kant. Diceva Rousseau: « Non c’è felicità senza coraggio nè V. senza lotta: la parola V. deriva dalla parola forza; la forza è la base di ogni virtù. La V. appartiene soltanto agli esseri deboli di natura, ma forti di volontà: per questo appunto rendiamo onore all’uomo giusto e per questo, pur attribuendo a Dio la bontà, non lo diciamo vir- tuoso, perchè le sue buone opere sono da Lui com- piute senza sforzo alcuno» (Émile, V). In questo spirito Kant ha definito la V. come « l’intenzione morale in lotta» che non avrebbe senso nel caso in cui all’uomo fosse accessibile la santità cioè la coincidenza perfetta della volontà come legge (Crir. R. Prat., I, libro I, cap. III). Come Cicerone (vedi Coraggio) e Rousseau, egli ha connesso stretta- mente la nozione di V. con quella di coraggio: «La qualità speciale e il proposito elevato con cui si resiste a un forte ma ingiusto avversario si chiama coraggio (fortitudo) e quando si tratta dell'avversario che l’intenzione trova in noi, si chiama V. (virtus, fortitudo moralis). Dunque la parte della dottrina generale dei doveri che sotto- mette a leggi, non la libertà esterna, ma la libertà interna è una dortrina della V.» (Met. der Sitten, II, Intr., I). In polemica con Kant, Schiller cercò di ricondurre la dottrina kantiana a quella della V. come spontaneità o sentimento. « Non ho un buon concetto dell’uomo, scrisse Schiller, che si può così poco fidare della voce dell’istinto che ogni volta deve farlo tacere davanti alla legge della morale, e piuttosto rispetto e stimo colui che si abbandona con una certa sicurezza all’istinto sognatori della sensazione » che sono quelli che credono di avere la visione di spiriti disincarnati, e i «sognatori della ragione » cioè i metafisici che anch'essi vi- vono in un mondo di sogni o di visioni private. VISIONE (ingl. Vision; franc. Vision; tedesco Anschauung, Traàumerei). 1. Nel senso propriamente filosofico, lo stesso che intuizione (v.). 2. L’operazione propria del senso della vista. 3. Allucinazioni, sogni, immagini credute reali di fantasmi o di spiriti disincarnati. VITA (gr. oh, Bloc; lat. Vita; ingl. Life; francese Vie; ted. Leben). La caratteristica di certi fenomeni di prodursi o regolarsi da sè; o la totalità di tali fenomeni. Questa caratterizzazione si da qui soltanto come quella sulla quale più ampio è l’ac- cordo tra filosofi e tra scienziati, e a titolo pura- mente descrittivo, senza che il riconoscimento di una caratteristica propria dei fenomeni della V. implichi il riconoscimento di un principio o di una causa a sè di tali fenomeni. Vedremo anzi come a certi livelli della V. la distinzione stessa tra ciò che è V. e ciò che non lo è diventa oltre modo difficile o perde di senso. La disputa tra vitalismo e antivitalismo non concerne il problema della ca- ratterizzazione della V.: concerne invece quello circa l'origine e lo sviluppo della V. stessa; e su tale problema, v. VITALISMO. Fin dall’antichità i fenomeni della V. sono stati caratterizzati in base alla loro capacità di auto- produzione: cioè in base alla spontaneità per cui gli esseri viventi si muovono, si nutriscono, cre- scono, si riproducono e muoiono, in modo al- meno apparentemente e relativamente indipendente dalle cose esterne. Platone identificava l’anima e la V. (Fed., 105c) perchè riteneva propria del- l’anima la capacità di « muoversi da sè» (Fedro, 245 c). Aristotele intendeva per V. «la nutrizione, la crescita e la distruzione che si originano da sè stessi » (De An., II, 1, 412 a 13); e per conseguenza riteneva la V. propria degli esseri animali in quanto «hanno in se stessi una potenza o un principio tale per cui subiscono aumento o diminuzione nelle VITA direzioni opposte» (/bid., II, 413 a 27). In base allo stesso concetto della V., Plotino affermava che «ogni V. è pensiero» e che il pensiero « vive per se stesso » (Enn., III, 8, 8). E S. Tommaso aîffer- mava che V. significa «la sostanza a cui conviene per sua natura muover se stessa o condurre se stessa, in qualsiasi modo, all’operazione » (S. 7h., I, q. 18, a. 2); e che pertanto l’anima è il principio della V. (/bid., I, q. 75, a. 1). Quando con Cartesio e Hobbes si affacciò la concezione meccanica della V. e si cominciò a paragonare l’uomo, e in generale l’organismo vi- vente, a una macchina ben congegnata, il concetto della V. non mutò, giacchè l'ipotesi meccanistica era suggerita ai filosofi proprio dalla credenza che « gli automi possono muoversi da sè » (DESCARTES, Traité de l’homme, pag. 1; HoBBEs, Leviarh., I, Intr.). Ciò che veniva negato in questo caso era l'identità tra anima e V.: si riteneva cioè possibile che la stessa materia corporea, in certe forme di organizzazione, fosse in grado di muoversi o di svilupparsi da sè. La disputa tra vitalismo e mecca- nicismo (v. VITALISMO) verte proprio su questo: il meccanicismo afferma che la V. è dovuta a una certa organizzazione fisico-chimica della materia corporea; il vitalismo ritiene che questa organizzazione non basta e che la V. dipende da un principio di natura spirituale, che è, ad es., l’archeus (v.) di Helmont, la natura plastica (v.) di Cudworth, il dominante (v.) di Reinke, l’ente- lechia (v.) di Driesch, lo slancio vitale (v.) di Bergson. Leibniz obiettava sia al meccanicismo sia al vitalismo che essi contraddicono al « grande prin- cipio della fisica » secondo il quale « un corpo non si muove se non spinto da un corpo vicino e in movimento »; e riteneva che la sola teoria della V. d’accordo con quel principio fosse quella del- l'armonia prestabilita, secondo la quale la V. stessa consiste nella concordanza dell’azione delle sostanze, prestabilita da Dio (Sur le principe de vie, 1705, in Op., ed. Erdmann, pag. 429 sgg.). Il con- cetto della V. come auto-regolazione sembra essere semplicemente presupposto da quella disputa, come dall’osservazione di Leibniz. E lo presuppone Kant quando afferma che «la ag. 250); o in altri termini con «l’intero che si sviluppa, che risolve il suo sviluppo e che si mantiene sem- plice in questo movimento» (Phdnom. des Geistes, I, IV, 1). Dall’altro lato Claude Bernard scriveva: «Le macchine viventi sono create e costruite in modo che, perfezionandosi, esse divengano sempre più libere nell'ambiente cosmico generale... La mac- china vivente conserva il suo movimento perchè il meccanismo interno dell’organismo ripara, me- diante azioni e forze sempre rinascenti, le perdite provocate dall’esercizio delle funzioni. Le macchine create dall’intelligenza dell’uomo, per quanto infi- nitamente più grossolane, non sono costruite al- trimenti» (Zntr. à l’étude de la médecine expéri- mentale, II, I, 8). Infine, occorre appena notare che lo slancio vitale in cui Bergson ha riconosciuto la sorgente della V. non è altro che coscienza, e coscienza creatrice, cioè che trae da se stessa tutto ciò che produce. « Lo slancio di V. di cui parliamo, dice Bergson, consiste in una esigenza di creazione. Non può creare assolutamente, perchè incontra da- vanti a sè la materia cioè il movimento che è l’in- verso del suo. Ma esso s’impadronisce di questa materia, che è la necessità stessa, e tende a intro- durvi la più grande somma possibile di indetermi- nazione e di libertà» (Évol. créatr., 8® edizione, 1911, pag. 273). Lo stesso significato pare che abbia l’espressione di Whitehead che la vita è « autofrui- zione individuale e assoluta» (Nature and Life, 1934, II. D'altronde sembra che la scienza stessa ricorra a una caratterizzazione non diversa dei fenomeni vitali, per quanto eviti di ipostatizzare in entità o principi tale caratterizzazione. I fenomeni che la scienza considera come propri della V. cioè il me- tabolismo, la plasticità, la reattività, la riproduzione, sono appunto uelli in cui il carattere di autore- golazione è evidente. Quando J. B. S. Haldane ha detto che « qualsiasi modello autoperpetuantesi di reazioni chimiche » può chiamarsi vivente (« The Origin of Life » in Rationalist Annual, 1928, pag. 148- 153), non fa che esprimere con altre parole il vecchio concetto dell’autoregolazione. Al quale fanno ap- pello anche, sia pure in modo indiretto o con espressioni diverse (come quelle di « totalità », « ci- clicità », « autonomia », « selettività », ecc.) anche gli scienziati di più schietta ispirazione materialistica. Ma nonostante la quasi unanimità che esso rac- coglie, difficilmente il concetto di autoregolazione può essere considerato in tutti i casi come una caratterizzazione esclusiva dei fenomeni vitali. Da 922 un lato infatti, a certi estremi della scala biologica (ad es., per i virus) non è possibile, in base ad esso, decidere se si tratta di corpi viventi o non viventi. Non è mancato chi, a questo proposito, ha rite- nuto addirittura privo di senso l’uso della parola V. in riferimento ai sistemi posti nella zona limite tra la V. e la materia inorganica (N. W. PIRIE, The Meaninglessness of the Terms «Life» and « Living» in J. NEEDHAM, e D. R. GREEN, Per- spectives in Biochemistry, 1937, pag. 21 sgg.). Dal- l’altro lato la releonomia (v.) ritenuta propria degli organismi viventi e interpretata come attività orien- tata, coerente e costruttiva, non impedisce alla bio- logia moderna fondata soprattutto sulla genetica e sulla biochimica, di considerare gli esseri viventi come macchine chimiche, dotate di unità funzionale e che si costruiscono da sè. Tali macchine esigono l’intervento di un sistema cibernetico che governi e controlli l’attività chimica nei punti strategici; e per quanto si sia ben lontani oggi dall’aver chia- rito la struttura dei sistemi costituenti gli organismi superiori, l’indirizzo della scienza moderna nelle ricerche biologiche rimane quello segnato dalla ci- bernetica e dalla biochimica (cfr., ad es., MonNoD, Le hasard et la nécessité, 1970, cap. Il). VITA, FILOSOFIE DELLA (ingl. Philo- sophies of Life; franc. Philosophies de la vie; tede- sco Lebensphilosophien). Con questa espressione, che è stata usata specialmente in Germania, vengono designate quelle filosofie che hanno in comune la caratteristica di considerare la filosofia come V., piuttosto che riflessione sulla vita. È un’espressione polemica che consente di accomunare filosofie di- sparate come quelle di Nietzsche, Dilthey, Simmel, Spengler, James, Bergson, ecc.; e polemicamente questa espressione fu adoperata nel titolo di un libro di RICKERT, La filosofia della vita (Die Phi- losophie des Lebens, 1920). VITALISMO (ingl. Vitalism; franc. Vitalisme; ted. Vitalismus). Termine ottocentesco per indicare ogni dottrina che consideri i fenomeni vitali come irreducibili ai fenomeni fisico-chimici. Questa irre- ducibilità può significare varie cose perchè vari sono i problemi le cui soluzioni dividono i parti- giani e gli avversari del V.: 1° In primo luogo esso significa che i fenomeni vitali non possono essere interamente spiggari con cause meccaniche; 2° in secondo luogo, significa che un organismo vivente non potrà mai essere prodotto artificial- mente dall'uomo in un laboratorio di biochimica; 3° in terzo luogo, significa che la vita sulla terra, o in generale nell’universo, non ha avuto un’ori- gine naturale o storica, dovuta all’organizzarsi o all’evolversi della sostanza dell’universo, ma è frutto di un disegno provvidenziale o di una crea- zione divina. VITA, FILOSOFIE DELLA 1° Dal primo punto di vista si possono chia- mare vitaliste tutte le concezioni classiche che, iden- tificando la vita con l’anima, la sottraggono ad ogni influenza delle forze materiali. Ma in senso più preciso, V. è la dottrina difesa dai filosofi e scienziati tra la metà del sec. xvm e la metà del sec. x1x, che pone, a fondamento dei fenomeni vitali una forza vitale indipendente dai meccanismi fisico-chimici. La caratteristica propria del V. è quelia di dichiarare inutile la stessa indagine scien- tifica dei fenomeni vitali in quanto essa non riu- scirebbe mai a cogliere la forza che costituisce l’essenza della vita. Il V. in questa forma fu reso impossibile dalle scoperte della biochimica che, a cominciare dal 1828 (data in cui fu effettuata la fabbricazione sintetica dell’urea) dimostrò la pos- sibilità di produrre nei laboratori le sostanze or- ganiche. Il neo-vitalismo, prendendo atto di questa possibilità, riconosce l’utilità dell'indagine fisico- chimica dei fenomeni vitali, ma continua ad am- mettere l’irreducibilità di questi fenomeni alle forze fisico-chimiche riconoscendo che ad essi presiede un elemento specifico variamente denominato [il dominante (v.) di Reinke, l’entelechia (v.) di Driesch, lo slancio vitale (v.) di Bergson]. La difficoltà principale di quest’aspetto del V. è l’inopportunità di ammettere una causa sconosciuta e inaccessibile, che è poco più di un nome e che per di più fa apparire insignificante o fuori posto l’osservazione sciedella vita stessa. L’in- teresse della scienza, è, da questo punto di vista, quello di un beninteso materialismo metodologico, il quale ammette: 1° che i fenomeni vitali hanno caratteri propri, diversi da quelli fisico-chimici e tuttavia non tali da stabilire un abisso tra l’uno e l’altro ordine di fenomeni e da rendere impos- sibile ogni passaggio dall’uno all’altro; 2° che si possa e si debba condurre avanti l’analisi scienti- fica dei fenomeni vitali come l’unica adatta a dar ragione di tali fenomeni. Questo è il punto di VIZIO vista assunto da un numeroso gruppo di biologi contemporanei (cfr., su di essi: G. G. Simpson, The Meaning of Evolution, cap. X). 3° Circa il problema dell’origine della vita sulla terra o in generale dell’universo, la vecchia credenza nella generazione spontanea ammetteva senz’altro, come un fatto non miracoloso ma nor- male, l’originarsi della vita dalla materia inorganica. Questa vecchia credenza già confutata dalle espe- rienze di Francesco Redi (1668) e di Lazzaro Spal- lanzani (1765) fu definitavamente eliminata dalla scienza per opera di Pasteur (1862). Dall'altro lato, l'ipotesi dalla panspermia (v.) che ammette l’emi- grazione di semi vitali nell’universo, mentre non è una risposta al problema dell'origine della vita, appare in contrasto con le condizioni che si sup- pongono esistere negli spazi intrastellari e soprat- tutto con l’azione battericida dei raggi ultravioletti. In questa situazione, non esistono che due solu- zioni alternative. La prima è quella secondo la che li contrappose ai valori rinunciatari della morale tradizionale (vedi TRASMUTAZIONE). VITA, TERZA (franc. Troisième vie). Così Maine de Biran chiamò la vita religiosa o mistica dell’uomo in quanto distinta dalla vita semplice- mente umana che è la libertà dagli affetti e dalle passioni e dalla vita animale caratterizzata dalle sensazioni e dagli istinti (Nouveaux essais d’An- thropologie, 1823-24, in (Euvres, ed. Naville, III, pagina 519). La terza V. è quella che nel /V Evan- gelo è detta la « V. secondo lo spirito ». VITTORIOSO, ARGOMENTO (gr. è xupi- ebwy A6yoc). Un argomento famoso con cui Dio- doro Crono, uno dei seguaci della scuola socratica di Megara (iv-v secolo a. C.) mostrava l’identità del possibile e del necessario. L'argomento era formulato così: « Da ciò che è possibile, non può seguire qualcosa di impossibile. Ora è impossibile che ciò che è passato sia altro da ciò che è stato. Ma se, in un momento anteriore, fosse stato pos- sibile qualcosa di diverso da ciò che è stato, dal possibile sarebbe venuto fuori l'impossibile: dunque, ciò che è diverso da ciò che è stato non era pos- sibile ad alcun momento. Ed è per conseguenza impossibile che possa accadere qualcosa che non accada realmente» (EPITTETO, Diss., II, 19, 1; confronta CICERONE, De fato, 6 sgg.). Limitando la possibilità a ciò che è realmente accaduto, Diodoro affermava la necessità di tutto ciò che accade: cioè l’impossibilità che ciò che accade possa ac- cadere diversamente da come accade (v. NECES- saRIO; PossisiLe). Nella filosofia contemporanea l’argomento è fatto proprio da N. Hartmann, con esplicito riferimento a Diodoro Crono (Méglich- keit und Wirklichkeit, 1938, pag. 186 sgg.). VIVACITÀ (ingl. Vivacity). La caratteristica fondamentale che distingue le impressioni dalle idee, secondo Hume: impressioni e idee si somi- gliano ma le prime hanno dalla loro parte mag- giore « forza e V.» sicchè inclinano alla credenza (Treatise, I, I, 1; I, III, 7). VIZIO (gr. xaxla; lat. Vitium; ingl. Vice; fran- cese Vice; ted. Laster). 1. Il contrario della virtù, nei vari significati di questo termine. In rife- rimento al concetto aristotelico-stoico della virtù come abito razionale della condotta, il V. è un abito (o una disposizione) irrazionale. Precisamente sono V., in questo caso, gli estremi opposti di cui la virtù è la medietà: per es., l'astinenza e l’in- temperanza nei confronti della moderazione, la codardia e la temerarietà nei confronti del co- raggio, ecc. In questo senso la parola V. non si applica che alle virtù etiche. In riferimento alle virtù dianoetiche o intellettive, V. significa sempli- cemente la mancanza di esse: mancanza che, secondo Aristotele, è vergognosa solo come man- cata partecipazione alle cose eccellenti di cui par- tecipano tutti gli altri o quasi tutti o almeno quelli che sono simili a noi, cioè della nostra città o età o famiglia o classe sociale (Rer., II, 6, 1383 b 19; 1384 a 22). 924 2. Pertanto il senso più generale di V. è la man- canza o il difetto di qualche caratteristica che un oggetto V. può pertanto anche essere un vicolo cieco (blind- alley vocarion). VOLGARE (lat. Vulgaris; ingl. Vulgar; fran- cese Vulgaire; ted. Gemein). In senso non peggio- rativo, la parola fu usata da Tertulliano che mise in valore la testimonianza contenuta nelle espres- sioni che il popolo adopera: le quali: egli dice, sono « V. perchè comuni, comuni perchè natu- rali, naturali perchè divine » (De testimonio ani- mae, 6). Vico diceva: «le tradizioni V. devono avere avuto pubblici motivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieri popoli per lunghi spazi di tempi» (Sc. Nuova, degn., 16: cfr. degn., 17). VOLONTA (gr. Botamow; lat. Voluntas; in- glese Will; franc. Volonté; ted. Wille). Il termine è stato usato in due significati fondamentali: 1° come il principio razionale dell’azione; 2° come il principio dell’azione in generale. Entrambi questi significati sono propri tuttavia della filosofia tra- dizionale e della psicologia ottocentesca, perchè sono collegati con la nozione di facoltà o poteri originari dell'anima che si combinerebbero assieme per produrre le manifestazioni dell’uomo (v. Fa- coLTÀ). Ma nè la filosofia nè la psicologia inter- pretano ora in questo modo la condotta dell’uomo. Le nozioni di comportamento (v.) e di forma (v.) nonchè l’indirizzo funzionalistico della psicolo- gia (v.) non consentono di parlare di « princìpi » dell'attività umana e pertanto la classificazione intelletto-V. o quella intelletto-sentimento-V. hanno perso il loro significato letterale. Talvolta il termine V. vieoè « facoltà di agire secondo la rappresentazione di re- gole (Grundlegung der Metaphysik der Sitten, Il). Fichte non intendeva una cosa molto diversa affer- mando che la V. è la facoltà « di compiere il pas- saggio dalla indeterminatezza alla determinatezza con coscienza »: una facoltà che la ragione teoretica costringe a pensare che esiste (Sifrenlehre, $ 14). In senso analogo, Hegel afferma che la V. è univer- sale « nel senso in cui universale significa ‘ raziona- lità *» (Fil. del Dir., $ 24). La distinzione di Croce tra la forma economica utilitaria e la forma etica o morale dell’attività pratica corrisponde alla di- stinzione tradizionale tra desiderio e volontà. La forma economica sarebbe, secondo Croce, voli- zione del particolare cioè dell’utile, la forma mo- VOLONTA rale volizione dell'universale cioè appetizione ra- zionale (Filosofia della pratica, 1909, pag. 217 sgg.). Alla nozione di V. come appetito razionale si può anche ricondurre la tendenza della psicologia moderna a distinguere la V. stessa dagli impulsi e a considerarla come condizionata da una mani- polazione di simboli. Dice, ad es., G. Murphy: «La V. è il nome con cui si indica un complesso processo intimo che influenza il nostro comporta- mento in modo da renderci meno facilmente preda della pura forza bruta degli impulsi. Discorriamo con noi stessi, introduciamo modi diversi di espri- mere la nostra situazione, ci immaginiamo le conse- guenze dei vari tipi di risposta e cerchiamo di valu- tare quanto ognuno di essi ci piacerà » (Introduction to Psychology, 1950, cap. IX, trad. ital., pag. 163). Ciò che la psicologia moderna chiama «elaborazione di simboli » è quello stesso che nella terminologia tradizionale si chiamava « processo razionale ». Infine la stessa nozione di V. è implicita nelle espressioni V. pura, V. buona, V. generale, V. di credere. La V. pura è, secondo Kant, la V. determinata, non da particolari motivi empirici, ma soltanto da princìpi a priori cioè da leggi razionali (Grund/egung der Metaphysik der Sitten, pref.). La V. buona, anche secondo Kant, è la V. di agire esclusivamente in conformità del dovere e è in tal senso esaltata da Kant come ciò di cui nulla c’è di meglio al mondo o anche fuori del mondo (Ibidem I). La V. generale è concepita dagli ro lato la V. è stata talora identi- ficata con il principio dell’azione in generale cioè con l’appetizione. Il primo ad esporre questo con- cetto generalizzato della V. è S. Agostino, il quale affermò che «la volontà è in tutti gli atti degli uomini, anzi tutti gli atti nient’altro sono che volontà » (De Civ. Dei, XIV, 6). S. Anselmo ripeteva questa nozione (De Libero Arbitrio, 14, 19) che nell’età moderna veniva accettata da Cartesio. Cartesio, come S. Agostino, chiamò 925 V. tutte le azioni dell'anima, in opposizione con le passioni: « Quelle che io chiamo azioni sono tutte le nostre V. perchè noi sperimentiamo che esse vengono direttamente dal nostro animo e sembrano dipendere solo da esso, mentre le af- fezioni sono tutte le percezioni o conoscenze chLocke definiva la V. come « il potere di cominciare o non cominciare, continuare o interrompere certe azioni del nostro spirito o certi moti del nostro corpo, semplicemente con un pensiero o la prefe- renza dello spirito stesso » (Saggio, II, 21, 5). E Hume dichiarava: « Per V. non intendo altro se non l’impressione interna, che sentiamo o di cui siamo consci, quando consapevolmente diamo origine a un nuovo movimento del nostro corpo o a una nuova percezione del nostro spirito » (Treatise, II, III, 1). Hume negava pure ogni influenza della ragione sulla V. così intesa, riducendo le cosid- dette volizioni razionali alle emozioni tranquille connesse o con istinti originari della natura umana come la benevolenza e il risentimento, l’amore della vita, l). Secondo queste interpretazioni in- fatti sarebbero atti volontari quelli in cui l’impulso determinante è costituito da un atteggiamento di riguardo o di esaltazione dell’Io di fronte a se stesso. Infine nel senso più generale la V. è intesa nelle espressioni V. di vivere e V. di potenza. La V. di vivere che, secondo Schopenhauer è il noumeno del mondo, non ha nulla di razionale: «è un cieco, irresistibile impeto, che noi già ve- diamo apparire nella natura inorganica e vege- tale, come anche nella parte vegetativa della nostra propria vita ». Pertanto « ciò che la V. sempre vuole è la vita, appunto perchè questa non è che il mani- festarsi della V. stessa nella rappresentazione: ed è semplice pleonasmo dire V. di vivere invece di V.» (Die Welt, I, $ 54). Analogamente la V. di potenza è, secondo Nietz- sche, un impulso fondamentale che non ha nulla di razionale: « La vita, in quanto caso particolare, aspira al massimo possibile sentimento di potenza. Essa è essenzialmente l’aspirazione a un soprappiù di potenza. Aspirare non è altro che aspirare alla potenza. Questa V. rimane ciò che v'è di più in- timo e di più profondo: la meccanica è una sem- plice semiotica delle conseguenze (Wille zur Macht, ediz. 1901, $ 296). VOLONTARIO (ingl. Voluntary; franc. Vo- lontaire; ted. Freiwillig). 1. Che appartiene alla volontà o concerne la volontà. 2. Lo stesso che libero (v. LIBERTÀ). VOLONTARISMO (ingl. Voluntarism; fran- cese Volontarisme; ted. Voluntarismus). Il termine, che fu usato per la prima volta da Ténnies nel 1883 e diffuso da Wundt (cfr. EUCKEN, Geistige Stròomungen der Gegenwart, pag. 33), è stato adoperato a indicare due indirizzi dottrinali diffe- renti: 1° quello che afferma il primato della volontà sull’intelletto; 2° quello che vede nella volontà la sostanza del mondo. 1° Il primo indirizzo è gnoseologico ed etico. Il termine è stato in questo senso applicato a ca- ratterizzare alcune correnti della filosofia medie- vale. Enrico di Gand (morto nel 1293) affermò la superiorità della volontà sull’intelletto perchè VOLONTARIO l’abito, l’attività e l’oggetto della volontà sono superiori a quelli dell’intelletto. Infatti l’abito della volontà è l’amore, quello dell’intelletto è la sapienza; e l’amore è superiore alla sapienza. L’attività del volere s’identifica con l’oggetto di esso che è il fine, mentre l’attività dell’intellietto rimane sempre distinta e separata dal suo oggetto. Infine, l’oggetto del volere è il bene che è il fine assoluto, mentre l’oggetto dell’intelletto è il vero, che è uno dei beni, quindi subordinato al fine ultimo (Quodi., I, q. 14). Duns Scoto affermò a sua volta il primato della volontà ma su un altro fondamento: in quanto cioè non la bontà dell’og- getto causa necessariamente l’assenso della volontà, ma la volontà sceglie liberamente il bene e libe- ramente lotta per il bene maggiore (Op. Ox., I, d. 1, q. 4, n. 16). A questa dottrina si collega l’al- tra secondo la quale il bene e il male consistono nel comando divino. « Dio non può volere qualcosa che non sia giusto perchè da numerosi psicologi nei primi decenni del sec. xx. 2° Il V. metafisico è quello iniziato da Scho- penhauer, che ha visto nella volontà la sostanza o il noumeno del mondo. mentre ha considerato il mondo naturale come la manifestazione o rive- lazione della volontà. Come apparenza o feno- meno, il mondo è rappresentazione; come so- stanza o noumeno, il mondo è volontà. La volontà è l’essenza del corpo umano, nel quale è colta di- rettamente e in se stessa, come di ogni altro corpo e si identifica con qualsiasi forza del mondo (Die Welt, I, $ 19). Come tale la volontà deter- mina lo stesso mondo della rappresentazione che viene definito da Schopenhauer come « ogget- tività della volontà » e asservisce a sè questo mondo facendolo apparire nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità che sono le forme del fe- nomeno (/bid., $ 23). Queste idee hanno trovato spesso accoglimento parziale nei filosofi della fine del secolo scorso: basti qui ricordare i Nuovi VUOTO saggi d’antropologia (1823-24) di Maine de Biran e la Filosofia dell'inconscio di Eduard von Hart- mann (1869). VOLUTTÀA. V. PIACERE. VORTICE (gr. 8îvoc; lat. Vortex; ingl. Vortex; franc. Vortex; ted. Wirbel). Un concetto fondamen- tale della fisica antica. Anassagora considerava il V. come il mezzo di cui si avvale l’intelletto divino per ordinare il mondo (CLEMENTE, Strom., II, 14). Democrito lo considerava come «la causa della generazione di tutte le cose » e lo identificava con la necessità (Dioc. L., IX, 45). Epicuro ri- 927 prendeva lo stesso concetto (/bid., X, 90) che nell'età moderna veniva ancora utilizzato da Car- tesio (Phil. Princ., II, 33). VUOTO (gr. xevéy; lat. Vacuum; ingl. Vacuum; franc. Vide; ted. Leere). L’esistenza del V. è uno dei teoremi fondamentali della concezione dello spazio come il contenente degli oggetti (v. SPAZIO). Leibniz parlò di un « V. di forme » (vacuum forma- rum) che ci sarebbe se non ci fossero sostanze capaci di tutti i gradi di percezione cioè sia infe- riori, sia superiori agli uomini (Op., ed. Erdmann, pag. 431). W WELTANSCHAUUNG. V. INTUIZIONE DEL MONDO. X X. r. Come simbolo dell’incognita, la lettera viene talora adoperata in filosofia. L’adoperò Kant nella prima edizione della Critica della Ragion Pura e nell’Opus Postumum: «L'oggett(ted. Yle sensuelle). Husserl ha indicato con questo termine i contenuti sensi- bili (colori, suoni o anche piaceri, dolori, impulsi, ecc.) che, in sè privi di riferimento intenzionale, acquistano tale riferimento nell’esperienza vissuta; sicchè essi sono distinti dalla loro forma intenio- nale e nello stesso tempo uniti con essa (/deen, I, $ 85) (v. ILETICO). YOGA. Uno dei principali sistemi filosofici in- diani, che consiste essenzialmente in una tecnica dell’ascetismo. Il testo fondamentale di questo sistema sono i Yogasutra di Patanyali: opera pro- babilmente composta tra il v e il vi secolo d. C., forse su frammenti o documenti più antichi. Lo Y. le cui dottrine coincidono sostanzialmente con quelle del sistema Samkhya, ma con un’accentua- zione teistica, consiste essenzialmente nella descri- zione di esercizi graduali per ottenere la perfetta liberazione dell'anima. I gradi fondamentali sono otto: 1° restrizione morale; 2° cultura dell’anima con lo studio dei testi sacri; 3° positure convenienti alla meditazione; 4° controllo del respiro; 5° con- trollo dei sensi; 6° concentrazione; 7° attenzione continuata; 8° raccoglimento assoluto (samadhi) nel quale scompare la dualità tra chi contempla e l'og- getto contemplato. Dallo Y. si distingue lo Hatha- yoga © Y. violento che suggerisce gli esercizi in- tesi ad allentare il vincolo tra l’anima e il corpo (cfr. G. Tucci, Storia della filosofia indiana, pa- gina 98 sgg.). Z ZELOTIPIA (lat. Zelotypia). È, secondo Baum- garten, l’amore che vuole che l’amore dell’amato sia proporzionato al proprio (Mer., $ 905). ZEN. La corrente buddistica, fondata da Bo- dhidharma in Cina nel 527 d. C., introdotta in Giappone da Ei-Sai nel 1191 e qui sviluppatasi con caratteri propri. Il suo insegnamento fondamentale è l’eliminazione del contrasto, proprio del bud- dismo, tra il mondo dell’apparenza (samsara) e il nirvana; e il suo compito è quello d’insegnare a scorgere (e realizzare) il nirvana nelle più semplici e modeste manifestazioni della vita quotidiana. Così un maestro dello Z. enumera i dieci passi succes- sivi che costituiscono il lavoro dell’intera vita di un seguace dello Z.: 1° un seguace dello Z. deve credere che vi è un insegnamento (lo Z.) trasmesso fuori della dot- trina buddistica generale; 2° deve avere una conoscenza definita di que- sto insegnamento; 3° deve capire perchè sia l’essere senziente sia l’essere non senziente può predicare il dharma (cioè la legge del mondo); 4° dev’essere capace di vedere la sostanza come se contemplasse qualcosa di vivido e di chiaro proprio nella palma della sua mano; il suo passo deve essere sempre deciso e fermo; 5° deve avere « l’occhio del dharma +; 6° deve camminare sul « sentiero degli uccelli » e sulla «strada dell’al di là » (o «strada del mira- colo 1); 7° deve saper adempiere sia a un ruolo posi- tivo sia un ruolo negativo nel dramma dello Z.; 8° deve distruggere tutti gli insegnamenti eretici e ingannevoli e additare quelli giusti; 9° deve acquistare grande forza e flessibilità; 10° deve entrare nell’azione e praticare dif- ferenti modi di vita. Lo Z. ha suscitato negli ultimi anni interesse notevole nei paesi occidentali e specialmente in America dove è stato talora anche considerato in rapporto con vari aspetti della cultura occidentale (confronta la bibliografia contenuta nella traduzione italiana di A. W. WATTS, The Spirit of Z., 1935. Per i dieci gradi dell’iniziazione dello Z., con- fronta CÒang CHEN-CHI, The Practice of Z., 1959, pag. 33). ZERO (ingl. Zero; franc. Zéro; ted. Null). Lo Z. è stato introdotto come numero solo nella ma- tematica moderna. Peano l'ha incluso tra le no- zioni primitive del suo sistema logico (v. ARIT- METICA). Russell ha definito lo Z. come «la classe il cui solo membro è la classe nulla » (Introduction to Mathematical Philosophy, III; trad. ital., pa- gina 35). In senso metaforico, talvolta, si dice punto Z. per indicare il punto di incontro o di equilibrio di possibilità diverse. Dice Kierkegaard: « Ciò che io sono è un nulla; questo procura a me e al mio genio la soddisfazione di conservare la mia esi- stenza al punto Z., tra il freddo e il caldo, tra la saggezza e la stupidaggine, tra qualche cosa e il nulla, come un semplice forse» (Werke, IV, pa- gina 246). ZETETICO (gr. tnonawx66; ingl. Zeteric; fran- cese Zététique; ted. Zetetisch). Investigativo o in- quisitivo. Il termine fu dapprima applicato da Tra- sillo a designare un gruppo di dialoghi platonici (Diog. L., III, 49; cfr. ARISTOTELE, Pol., 1256a 12). In seguito fu assunto come la denominazione dell’atteggiamento scettico: « L'indirizzo scettico si chiama Z. dall’azione del cercare e dell’indagare; sospensivo per la disposizione d’animo che con- serva dopo l’indagine rispetto all’oggetto indagato; e dubitativo per il suo dubitare e investigare intorno a ogni cosa» (Sesro EMP., /p. Pirr., I, 7). 930 Zetetica è stata talora chiamata quella forma dell'analisi matematica che mira alla determina- zione delle grandezze incognite. ZOOLATRIA (ingl. Zoolatry; franc. Zoolatrie; ted. Zoolatrie). Il culto prestato agli animali in quanto creduti manifestazioni o incarnazioni della divinità. La Z. fu propria di molte religioni an- tiche: di quella egiziana, di quella frigia e di quella siriaca (cfr. F. CuMONT, Les religions orien- tales dans le paganisme romain, 1906 passim) (vedi TOTEM). ZOROASTRISMO (ingl. Zoroastrianism; fran- cese Zoroastrisme; ted. Zoroastrismus). La religione persiana, conosciuta anche come mazdaismo o par- sismo, stabilita da Zaratustra (vi secolo a. C.) e che ha il suo principale documento nello Zenda- vesta. L'insegnamento principale di questa reli- gione è il dualismo tra due principi opposti detti rispettivamente Ormuz (Ahura Mazdah) e Ariman ZOOLATRIA (Angra Manyu) per cui essa si presenta in primo luogo come una soluzione del problema del male (v. MALE, 1, bd). ZUINGLISMO (ingl. Zwinglianism; franc. Zwin- glianisme; ted. Zwinglianismus). La dottrina del ri- formatore svizzero Ulrico Zuinglio (1484-1531) che condivise con l’umanesimo l’idea di una sapienza religiosa originaria dalla quale deriverebbero sia i testi delle Sacre Scritture sia quelli dei filosofi pa- gani. Zuinglio ritenne perciò che la rivelazione è universale e che Dio è la forza che regge il mondo e si rivela in tutte le cose. Caratteristiche della dottrina di Zuinglio sono anche la dottrina della predestinazione (v.) e l’in- terpretazione dei sacramenti, compresa l’Eucarestia, «come pure cerimonie simboliche. Su questo punto cadde il dissenso tra Lutero e Zuinglio. Diversamente da Lutero, Zuinglio negava anche il valore assoluto dell’autorità politica. Nicola Abbagnano. Abbagnano. Keywords: filosofia latina, filosofia romana, filosofia italiana, impiegare, implicare, dizionario filosofico. Luigi Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. #abbagnano #griceedabbagnano

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