Grice e Carchia: l’implicatura conversazionale dell’ars amandi – signi d’amore – erotico del bello – comunicazione degl’amanti primitive -- filosofia romana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication (“nome e immagine”, “interpretazione ed emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc. Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano: L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg & Sellier); prefazione e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, Torino: Rosemberg & Sellier); Erotica. Saggio sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida); Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen, Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari: Laterza); L'estetica antica, Roma-Bari: Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin, Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura, Kant e la verità dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, introduzione a Walter Friedrich Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini. La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia. Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa. Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico. L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome. Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia: l’estetico. Paradigma, schema, immagine. 1 Ovidio. Arte amatoria. Chi peregrin nell’amorosa scuola Entra , me legga, se vuol esser dotto. Non usansi senz’arte e vele e remi; Non senz’arte guidar si puote il cocchio; Non senz' arte si può reggere Amore. Ben sapeva condurre Automedonte (i) Co’ focosi, destrieri il caiiro , e Tifi r Sedea maestro \sair emonia poppa. Ne’ mister} d’ Àmot me fece esjperto V enere bella , e ben dirmi poss’ io D’Aniore un altro Tifi e Automedonte. Ch^ ei sia crude!, noi niego » e spesse volte Contro me stesso si rivolta ; pure Egli è fiinciullo , e l’immatuTa' etàde Atta si rende al fren. Docile e mite Rese Chiron l’ impetuoso^ Achilie (2) (i) Automédonte, figlio di Dioreo,fu il Cocchierò d*lAchille , Tifi condusse gli Argonauti in Coleo sul- la nave Argo , che qui dicesi emonia , perchè era su <mella Giasone figlio del Re di Tessaglia , e perchè la Tessaglia si chiamala Emonia dal monte Emo. (a) Chirone figliuol di Fillira fu il Precettore d’A’^ chille^il qual nen chiamato ^acides fia Eaep suo Avo, Col dolde suon della canora cetra^ Ed ei, che fu il terrore e lo spavento De^suoi compagni spessore de’nemici. Dicesi che temesse il vecchio annoso; E quelle mani , che dovean un giorno Gettare a terra il forte Ettor , porgea, Quando Chirone le chiedea,alla sferza. Ei fu d’ Achille, io son d’ Amor maestro; L’uno e 1^ altro è fanoiul feroce, e traggo L’ un e r altro da Diva i suoi natali • (4) Come r aratro il toro, e come il freno Doma il cavai focoso ; io cosi Amore Render placido voglio ancor che il petto Con r arco mi ferisca , e con la face Tutte ro’ abbruci le midolle e T ossa. Quanto più Amore hammi ferito ed arso. Tanto più voglio vendicarmi . Apollo, Non io, ché mentirei , dirò che appresi < Da tl» quest’ arte, o che fui reso dotto Dal canto degli .augelli A me non Clio, Né le Sorelle sue , come al Pastore Della valle d’ Ascrea , compatver mai ; Me un lung’ uso feMstrutto ; e fè pròstate Air esperto Poeta . <Ió cose vere Canto : Madre d* Amor.^, siimi propizia. Gite lungi j o Vestali., e voi Matrone, Che i piè celaté sotto lunga veste. J3Ì Achilie uccise Ettore al assedio di Troja Achille nacque dalla Dea Tetide , Amore dalla Dea Venere, a Mentre Esiodo, cugino e quasi contemporaneo nero , pascolava in Elicona le pecore di suo pa* dre ^ fu dalle Muse condotto al fonte Ippocrene, e Col hefer 4i quell* acqua divenne Poeta, Come seguir sensa periglio Amore Si possa, eA i concessi furti io canto; Nullo i miei carmi chiuderan delitto. Tu, che novel nell’ amorosa schiera Entri soldato, le tue cure volgi Prima a trovar de’ voti tuoi 1’ oggetto. Indi a farlo per te amoroso, e infine Onde lunga stagìon 1’ amor si serbi. È questo il modo, è questo il campo, in cui Scorrere il nostro cocchio debbo ; è questa Del corso nostro la prescritta meta. Or che il tempo è propizio , or che si puote Andare a briglia sciolta , una ne scegli, Cui dir tu possa ; a me tu sola piaci. Questa dal Ciel non già pensar che scenda. Ma qui trovar la dei con gli occhi tuoi. Onde tender le reti al cervo debba. Sa bene il caccìator , e non ignora La valle , ove il cignal s’asconde : i rami L’ UGcellator conosce, onde si gettano 61 ’incauti augelli, e al pescator son note L’acque, che maggior copia hanno di pesci. Tu , che d^on lungo amor cerchi materia. Impara i luoghi, ove frequenti veggonsi Le vezzose donzelle . Io non ti dico, Che dar le vele ti fia duopo al vento. Né córrer lunga e faticosa strada. Perseo dall’Indie ne condusse Andromeda, E .Paride rapì di Grecia Eléna. Ma in Roma , in Roma ritrovar potrai Fanciulle, che in beltà portino il vanto Più che del Mondo in altra parte . Come Gargaro, Castello sul monte Ida era celebre V abbondanza delle sue biade , e Metinna , Città nek» V Isola di Lesbo , per V abbondanza d^ suoi vini. La gargara contrada abbonda in biade» In uve la metinnia » in pesci U mare» In augei il bosco s e còme nell* Olimpo Splendono stelle; così in Roma ammiransi Amabili Fanciulle : qui sua sede Pose del grand’ Enea la bella Madre. Se a nascente beltà ti porta il genio» Tenera donzelletta eccoti innante; Se già formata giovine desideri» Mille ti piaceranno » e fian costretti A rimaner sospesi i voti tuoi; Che se a te figlia più matura e saggia Piaccia » ne avrai, mel credi, un folto stuolo. De’ portici pompeii all’ ombra i lenti Pàssi rivolgi, allor che Febo i campi Dall’erculeo Leon saetta ed arde, O a quel che adorno de’ più scelti marmi Da lontani paesi a noi venuti, LaMadre aggiunseindonoa’don delFigHo.(8) Nè quello lascerai » ohe tragge il nome Da Livia, ornato delle pinte tele De’Pittori più celebri ed antichi; Uno de'piU dtliziosi Portici di Roma ora cer^ tornente ^uet di Pompeo . Giaceva questo in vicinanza dtl suo Veatro , « i Romani lo frequentavano moltis'^ simo in tempo d* estate, OTTAVIANO (si veda) sotto il nome d’Ottavia fabbrica un portico in vicinanza del Teatro da lui dedicato a Marcello figlio della medesirrsa e però dice il Poeta , che la Madre , cioè Ottavia , a^iunse il dono del portico al don d^figlio , cioè al Teatro a lui innalzato d’OTTAVIANO, R questo il portico che Livia moglie d* Augusto fabbricò nella Via sacra ; ne fa menzione Svetonio , e vien riputato da Strabono uno d^più be* monumenti di Roma, Visiterai pnr anco i Inoghi, dove (io) In atto di far strage de’ Consorti Effigiate son P empie Danàidi; E il lor Padre crudel, che nudo tiene L’acciajo micidial nell’ empia destra; Nè il Tempio oblia, u’ Venere la morte Plora del caro Adon , nò il giorno Sabbato Sacro al culto giudeo • Sarà tua cura A’xneiifitìcì templi esser presente (ii) Della liniger’ Iside ; seconda I voti questa Dea delle fanciulle» Che desian donne diventar, coni’ essa Lo fu di Giove ^ Fra i clamori alterni Del Foro strepitoso ( e chi mai fede Prestar ci puote ? ) Amor rivolta trova Atto alle fiamme sue pascolo ed esca. In quella parte ove s’innalza al cielo (la) L’ onda d’Appio » che giace appiè del Tempio Di ricchi marmi adorno , a Vener sacro^ Prigioniero d’ Amore è 1 ’ Avvocato, (10) Il portico d*Apollo palatino fabbricato da Au^ gusto in una parte della sua casa era adornato di fiin^ ts immagini rappresentanti la strage^ che de*pro- prj Mariti fecero le Danaidi per comando di Danna loro padre. (11) Si adorala Iside figlinola d*Inaco in Menfi Città d^Egitto, donde furono trasportati in Roma i suoi sacrificj . Fu questa amata impudicamente da Giove, il quale la cangiò per timor di Giunone in una Giovenca j e poi la restitm agli Egiziani nella sua pri^ stina forma . B^la e i suoi sacerdoti andavano coperti di lino e però si chiamava linigera. (la) Appio Censore condusse V acqua nel Foro di Cesare; e d* architettura d* Archelao fu ivi innalzato a Venere un Tempio , che per somma fretta poi rimase imperfetto. Che attento alla difesa altrui, se stesso Guardar non sa • Oh quante volte, oh quante In quel loco gli manca la favella, E deir amor che V agita ripieno, Non della caiìsa altrui, ma della propria S’occupa solo ! Dal propinquo Tempio Ride la Dea di Pafo, e il difensore Trasformato veder gode in cliente. Ma più che. altrove ne'curvi Teatri Troverai da far paghi i voti tuoi: Ivi mille bellezze lusinghiere Si oifrìranno al tuo sguardo, e tal potrai Per stabile passion scegliere, e tale Onde Tore passare in gioco e in festa. Come frequente la formica in schiera Vanne al granajo a far preda di cibo; E come Papi in olezzante suolo Volan sul timo e sopra i fior ; le culte Donne in tal modo in folto stuolo assistono Agli scenici ludi * È cosi grande 11 numero di questo, cho sospeso Mille volte rimase il mio giudizio. Non a’ Teatri per mirar, soltanto, Come per far di lor superila mosffa Vanno non senza del pudor periglio. Tu questi giochi strepitosi il primo, ROMOLO, instituisti; allor che il ratto NeW anno del mondo 3a3i. fabbricò Romolo nei monte Palatino una Città o sia Fortezza , che dal suo nome chiamò Roma. Per accrescere il numero dei Cittadini ^ aprì un asilo fra il Palatino e il Campi* doglio , in cui si ricevevano i Servi fuggitivi^, i De* hitori y i Malefici . Siccome i Popoli confinanti , e per conseguenza i Sabini nor^ volevano con tal gente col* Segui delle Sabine • Ancor non marmi^ E non tappeti ornavano i Teatri, Nè il palco vago era per piote tele; Ivi semplicemente allor far posti I virgulti eie foglie, che recava II bosco palatino, e non si vide Decorata la scena allor con V arte* Sopra i sedili di cespugli infesti Assistea il popol folto , uhe all’irsuta Chioma di fronde sol cingea corona* Col cupid’occhio ognuno intanto nota Quella, che far desia sua preda, e molti Pensieri nel suo cor tacito volge. Mentre d’agreste flauto il suono muove Grottesca danza, ed il confuso plauso Ferisce il ciel, ecco che il Re dà segno Onde alla preda sua ciascun sì volga. Rapido il proprio loco ognuno lascia, Fanne co’ gridi il suo desio palese, E le cupide mani addosso slancia Sulle Vergin d’insidie ignare , come Fogge la timidissima Colomba Dall’ Aquila , e de’ Lupi il fiero aspetto Agna novella ; di spavento piene Volean cosi le misere Sabine De’ rapitori lor schivar gli amplessi;* Ma da Ogni patte senza legge inondano^ Ninna serba il color , che aveva innante; ' ' a z lòcar U lor Donne , Romito gli ' inoitò insieme con Ì 0 sorelle ,'7e moglie e le figlie a unof spettacolo, che fe^ce* ìebrare in onore del Dio Conso , ossia di Nettuno^ € comandò d* suoi Romani che cigscun ri rapiste fr0 quelle femmine una Consòrte. Digitized by Google IO Tutte assale il timore ^ e in Tarj modi: Questa il petto peroote^ il crin si straccia; Quella riman priva di sensi ; alcuna Non {>er il duol fa proferir parola; Altra la cara madre appella invano; Chi quale statua immobile rimane; Chi fugge, e chi di grida il cielo assorda. Ma le rapite Oiovani condotte Son via, qual preda geniale e cara. Dì pudico rossoj tinsero molte Le delicate guance, e vìe più piacquero. Se troppa ripugnanza alcuna mostra, £ seguir nega il suo compagno, questi La porta fra le sue cupide braccia, E si le dice : a che d’amaro pianto Da begli occhj tu versi un fiume? teco Sarò come alla Madre è il Genitore. Romolo, fu il primiero a’tuoi soldati Vera recar felicità sapesti; Se tal sorte goder potessi anch’io, > Io pur non sdegnerei esser soldato. Però da quell’esempio anco a’dì nostri Trovan le Belle ne’Teatri insidie.. D’esser presente ognor cerca e procura ^ Alle corse de’rapidi destrieri. Di gran popol capace il ;Circo augusto Molti a te rechei!à comodi ; d’ uopo ^ Onde spiegare i tuoi pensieri arcani Non avrai delle dita ; nè co* cenni Intendere dovrai. Franco t’assidi, Che ninno il vieta, alla* tua donna accanto. Quanto più puòi t’accosta al di lei fiaheo\ lE procura che il loco a.nzi ti sforzi A toccarla, quand’eUa ancor non ! voglia. Digitized by Google Onde seco parlar cerca materia, E da’ discorsi pubblici incomincia. Quando i cavalli appariranno, tosto Di chi sieno richiedi, e quello, a cui Dirige i voti suoi, tu favorisci; Macon frequente pompaallor che giungono Le statue degli Dei, fa plauso a Venere Quale a tua Diva tutelar. Se mai Della tua bella sulla veste cada Polve, la scoti con la mano , e fingi * Scoterla quando pur netta si serbi; E sollecito ognor prandi motivo Da leggiere cagion d’esserle grato. Se la sua veste strascinasse , pronto Sii tosto a tòrla dalP immonda terra; Per cosi tenui cure avrai in mercede, Ch^ ella poi soffrirà, che le sue gambe Tu possa riguardar. Sia tuo pensiero, Che quei , che sono assisì al vostro tergo, ^ ginocchi al di lei dosso, Non le rechin molestia. I lievi ufBcj L^alme fiscili adescano : fu a molti Util Fa ver con destra man composto Il coscino, agitar con piccol foglio Il volubile vento, e saper porre Sotto tenero piè concavo scanno. Farà la strada al nuovo amore il Circo, Solevano I ROMANI portar per ih Circo le Statue degli Dei e degli Uomini sommi , quando ivi da¬ vano lo spettacolo della corsa de^ Cavalli 0 d^ altri giochi'. V* era fra aueste Statue ancor quella di Venere , cui vuole il Poeta che si faccia un gran plauso* Si veda la seconda Elegia del Libro III, degli amori scritti dgl modesimo Autore^ E la sparsa nel foro infausta arena* Ivi pugnò spesso il Fanciul di Venere, £ chi andò per mirar altri piagato, Ferito pur rimase. Ah quante volte Mentre un la lingua a ragionar discioglie^ HoWà. la mano , tiene il libro, e cerca II; vincitore del proposto premio. Il .volatile strai senti nel seno, Gemè piagato , e accrebbe pregio al gioco! fu bello il mirar quando con pompa Solenne Cesare introdissse il primo (i 5 ) Non avvezze a pugnar in finta guerra E le persiche navi e le cecropie! Da questo e da quel mar vennero allora Giovani vaghi, amabili donzelle, E la Città racchiuse immenso mondo. Fra tanta turba di leggiadri oggetti Chi non tigvò da far paghi i suoi voti? Oh quanti e quanti a forestiero laccio Porsero il piè! Ma Cesar s’apparecchia (Cesare Augusto fece presso il Tevere rappre^ sentore una battaglia navale detta Ncumachia. Intro^ dusse in questa a combattere le flotte che Marc* An-^ ionio aveva raccolte contro di lui nell* Oriente ^e le navi ateniesi denominate Cecropie da Gecrope primo Re d* Atene y che seguirono il partito di M. Antonio^ Furono queste armate navali vinte tutte da Azio , e servirono nella Neumachia d* un brillante spettacelo a futta Roma. OTTAVIANO destinò una spedi^àon per V Oriente contro Frante, e vi mandò il suo Nipote Cajo nato da Agrippa e da Giulia. Marco Crasso e Publio suo figlio avidi delle ricchezze de* Parti intrapresero con¬ tro i medesimi una guerra, in cui furono poi essi miseramente trucidati con undici Legioni . Per far a Cesare un encomio, dice ora il Poeta , che deve Cajo riportar vittoria di que* popoli , e riacquistar la ^ne romane da loro tolte Crassi. Già il restò a sog^ogar del Mondo inter#^ E già Taltiino Oriente è nostro ancora. La pena avrai dovuta , o Parto audace, £ voi godete, ombre deaerassi estinti, E con voi godan le romane insegne Di barbarica destra a ragion schive. Ecco il vindice vostro , ognun racclama Invitto Duce nelle schiere prime; Giovin sostiene perigliose guerre Quasi invecchiato fra le stragi e Parmi. Deh non vogliate, o timidi, il valore Dagli anni loro argomentar de’Numi; E la virtù ne’Cesari preepee. Degli anni Suoi più assai rapido sorge Celeste ingegno, e mal tollera Ponte D’una pigra dimora. Era bambino Ercole allor che ì due serpenti oppresse. Ed èra in fasce pur degno di Giove. O Bacco^otu che ancor fanciullo sei, (18) Essendosi Giove innamorato perdutamente d^Alc^ mena , si presentò a lei vestito delle sembianze d*An^ fitrione suo maritoy quando questi trovavasi alla guer¬ ra di Tehe.Da Giove e da Alcména nacque Ercole, che fu allevato in Tirinta Città in Marea vicina ad Ar¬ go , e però fu detto Tirinzto . Intenta per ciò la ge¬ losa Giunone a vendicarsi delP infedeltà di Giove, suscitò contro d* Ercole due serpenti ; ma egli li uc¬ cise valorosamente, benché fosse di tenera età, (18) Bacco armato, d^ una lung^ asta , e seguito da Ufi esercito d* Uomini e di Donne , corse intrepido nel* VOriente,e soggiogò quVpaesi che allor tutti,si com¬ prendevano sotto il nome d* India . Essendo quelV asta così acuta, che imitava la conica figurai del Pino, fu detta dagli antichi Poeti il Tirso , giacché Thirza ià lingua ebraica nuW altro significa, se non se un ramo di Pino^ •Intrecciavano le Baccanti sul tirso V uve e i pampini cotk P edera p perché Bacco insegnò affli Qoanto fosti mai grande allor che i tuoi Tirsi dovè temer l’India domata!' E tu prode Garzon sotto gli auspiej (ly) Del Padre , Tarmi tratterai vincendo. Sotto un nome sì chiaro aver tu dei I primi erudì menti, e come il Prence (ao) uomini la maniera di coltivar la vite . Alcuni Eruditi poi fChe ricercan la moralità nelle favole ^ pretendono che dipìngasi sempre giovine questo divino coltivator della vigna ^perche gli uomini si rendon col vino in lor vecchiezza amorosi e lascivi , come lo furono in gioventù ,. Mons„ de Lavaur con molti altri , i quali hanno^ attentamente 'considerato le imprese di Bacco e l* etimologia stessa del Tirso, porta verisimilmente opinione y che sia questa favola tratta in origine da que^libri della sacra Scrittura, che parlano di Mosè. e di JVoè, (19) Si rivolge il Poeta a Cajo,che fu adottatò figlio da Cesare Augusto. Romolo dalle tre Tribù, nelle quali aveva di^ stribaito il popolo romano y raccolse per ciascheduna cento uomini, che fer nascita , per ricchezze, e per altri pregi ^^^no i più riguardevoli. Furono questi chiamati Cavalieri y perchè trascélse quésoli , che fes¬ ser meritevoli d* un Cavallo , su cui dovean combat¬ tere in difesa di lui ; e si distribuirono in tre Ceti* turie, che conservando il nome delle Tribù, dov*erano sfate raccolte, si chiamavano é/e^Rammensi da Romo¬ lo , dei Tasienzi da Tazio Re dé Sabini, e dei Lace¬ ri Lucomone JRe d'Etruria , che fu , come dicono., il fondatore della Città di Lueca . Da Tarquinio Prisco, e da Servio Tullio vennero in seguito accresciati di numero y senza mutar però il nome di Cen* iurte ; esercitarono poi varie luminose incombenze ; e JU'denominato il loro ordine Senatus Seminarium, perchè in esso scieglievansi i Senatori • i 5 . Lu* Jglio facevano i Cavalieri ogni anno splendidamente in lor rassegna, mentre dal Tempio dell’Onore, che era situato fuori della città , andavano al campìdo* coronati d* ulivo , cinti d^ una purpurea veste det- Or de’Giorani sei, sarai col tempo L’oroamento miglior do'rccchj Padri. Vendica ofFesi i tuoi fratelli, e i dritti (ai) Del Genitor sostieni : della Patria £ Padre 6 Dlfensor Parcne ti cìnse; Ed or che l’inimico i regni invola, Cruccioso alla vendetta egli t’invita. Scellerati di lor saran gli strali. Pietà e Giustizia i tuoi vessilli, e Parrni Della causa miglior sostenitrici. ' ta trabea, t assisi sopra i loro cavalli . 0 §ni cinque anni poi appena giunti al Campidoglio , scendevano da Cavallo , e presolo per mano lo guidavano avanti al Censore ivi assiso sopra una sedia curale ; ed egli comandava di ritenere il Cavallo , se bene aveva il Cavaliero adempiuto a* suoi doveri ^e di venderlo , se aveva malamente eseguito le sue incombenze. Leg^ geva il Censore in tale occasione il catalogo de^ Cavalieri yC si chiamava il Principe de* Giovani o della Gioventù quello che era da lui nominato il primo ; e ciò non perchè fossero attualmente tutti gióvani , ma perchè lo fàrono nella prima istituzione^ e perchè Veta giovanile si estendeva pressò i Romani fino a qua¬ rantacinque anni. Principe de’Senatori o del Senato ne*primi tempi del¬ la Repubblica si chiamava quello che il primo tra*Sena- tori viventi era stdto Censorey poi quel che dal Censore fosse stato nominato ili primo nel leggere il catalogo d^ Senatori y e nell\ anno dalla fondazione di Roma quel , che dal Censore era riputato degnissimo. (al) Pompeo y domato il Re Tigrane y costrinse gli Armeni a ricevere da* Romani in segno di servitù i Rettori. Si liberarono essi da un tal giogo y ma Cajo li obbligò nuovamente a soffrirlo , e vendicò in tal guisa i dritti d*Augusto y che dal Senato e dal Po^ polo romano fu per mezzo di Valerio onorato del lu¬ minoso titolo di Padre della pAt<‘ia, ^ (^a) I Parti tentavano di farsi padroni delV Ar- mersia Ora il mio Duce alle latine aggiunga L*eoe ricchezze. E voi j Cesare e Marte, Entrambe Padri soccorrete il Figlio, Che in difesa di Roma espon sua vita; Come già Marte^or tu, Cesar, sei nunie Ecco raugurio mio; tu vìncerai; Sciorrò co’ carmi allora il voto ; degno* Tu allor fatto sarai d’alto poema. Porrai le squadre in ordinanza, e all’ armi Co’ versi miei 1 ’ esorterai : tenaci Di me nel tuo pensiero i detti imprimi. 11 petto forte de’ Romani, il tergo (24) Io canterò de’ Parti , e l’inimico Telo, che vibran dal cavallo in fuga. Mentre tu fuggi, o Parto , e cosa al vinto, Oude sia vincitor, tu lasci ? Il tuo .Marte recò finora infausto augurio. Dunque quel dì verrà, Cesare, in cui Tu di natura la piò amabìl opra Di lucìd’ oro adorno andrai tirato Da quattro^ candidissimi cavalli ? Or mal sicuri nella fuga i Regi Partici andranno innanzi , il collo carco Dì pesante catena • Insiem confusi Giovani lieti e tenere Donzelle, D* un’insòlita gioja il cor ripieno, Mireran lo spettacolo gradito. " Se una di quelle a te richiegga i nomi Di que’ Re, di que’ monti, di que’ fiumi, (a3) Fu Cesare Augusto ascritto in aita fra i Dei , $d ebbe perciò onori diHni. ’ (a4) Avevano i Parti in ' costume di guerreggiar fuggendo , ed anzi si rendevano formidàbili , mentre ^ibravan le lor saette^ da wjt cavalle rivoltp in fuga. Di que* paesi 9 a tatto ciò' rispóndi; £ non richiesto ancora il; tutto narra, E le cose puf anco a te mal note. Cinto di canna il crin l’Eufrate è questo, (aS) 11 Tigri è quel colla cerulea chioma. Ecco gli Armeni^, e Perside che tragge (a6) Da Perseo il nome suo ; nell’ achemenie Valli questa Città si giacque . Il nome Dirai di questi e di que’Re, se il sai, O almen 1 ’ adatta . L’imbandite mense Facile danno ed i conviti accesso, Ove da far contenti i tuoi desiri V’ è cosa anc’ oltre i vini : ivi sovente Calcò di Bacco l’orgogliose corna Con le tenere mani il bel Cupido, Di cui se intrise sien 1 ’ ali nel vino Più non puote fuggir : grave s^ asside; Tu umide penne , è ver, veloce Scote. Ma non vola per questo, anzi novelli Desta incendj nelP alme, che dal vino Sono disposte e rese atte al calore. Ogni atra cura e molce e fuga il vino; Allora il riso ha loco ; allor l’abietta Mendica gente pure il capo innalza; Fuggon le cure, il duci ; le crespe fronti Vengono liete ; e la si rara in questi Tempi semplicitade i più secreti Pensier dell’alma svela, che il Dio Bacco (a 5 ) UEufrate ed il Tigri, avendo , secondo Vo^ pinione d*alcuni, la lor sorgente nei Monti armenii si prendono qui dal poeta per li principali fiumi del» V Armenia, (a6) Persìde è una famosa città , che vuoisi fab.-» bracata da Perseo figlio di Danae nelle valli persiar ne, dette achemtiiie dal Re Achemene Ogni mistero svela e l’arte infrange • (27) De’ Giovanetti il cor ivi ben spesso Rapiron le Fanciulle ; Amor nel vino Fu foco a foco unito • Ma non troppo A lucerna ti fida ingannatrice; Mal nella notte , e fra i bicchier ricolmi Della beltade si può far giudizio. Allo splendor del giorno, a cielo aperto Paride rimirò le Dive allora Che alla Madre d* Amor disse : tu vinci L’ una e 1 ’ altra in beltà , Venere bella. S’ asconde nella notte ogni difetto; Ad ogni vizio si perdona , e allora Ogni donna sembrare alPuom può bella; Consulta il di guai gemme e quali lane, Tinte di tìria porpora, sien atte A fsLjp bella la faccia e il corpo ^ Come Io delle Donne numerare il ceto Di non ardua conquista ? E assai maggiore Dell’ arene del mar . Come di veli Di Baja. i lidi narrerò coperti. E per calido zolfo acque fumanti? Riportando talun ferito il petto Da queir.onde, non son , ( come racconta La fama ) dice , salutari ognora. Ecco di Cinzia suburbana il tempio Ì ayl Alludesi al pros^erhio latino in vino veritas. Baja in Campania , o com'oggi dicesi in ter-^ ra di Lavoro i era un amenissimo Castello^ che con- teneva entro di se degli ottimi bagni caldi, e alcuni laghi in cui rrnvigavan gli antichi con diverse barche variamente dipinte, sulle quali facevano ancora de^ gli allegri conviti. Questa Dea, che si chiama Lucina in Cielo, Eeate neW inferno, e Diana in terra , ha ancor fra Silvestre» ed ecco ì conquistati Regni. Perchè vergifte ella è » perchè ella in odio Ave d’Amor gli 8tijali,.al popol diede» £ mai sempre darà mille ferUè. ^ Fin qui Talia sopra ineguali rote( 3 o) Come tu debba scer T amato oggetto» E dove tender t’insegnò le reti. Della tua Bella onde adescare il cére Preparo or io delF arte opra speciale. Uomini» voi chiunque » e donde siate, Porgete al mio parlar docili menti» E le promesse mie ptopizj udite. Tosto nell’ alma tua scenda la speme Di conquistarle» e vincitor sarai; gli altri nomi quello di Cinzia » perchè essa ed Apoi* lo nacquer nelVIsola di Deio » ov^ è il Monte Cinto. I popoli del Chersoneso » o com* ora chiamansi » della Crimea » le immolavano gli ospiti ivi spinti dalle tempeste, he femmine romane » dopo Vavere ottérsuto ciò che htamavun co" voti, andavano a* d*Agosto con le. faci ardenti in mano, e la corona eul capo\ al Tempio suhurbano di questa Dea situato in Arì^ eia. Quivi frequentemente i Sacerdoti succedevano gli uni agli altri » mentre , non godevano di questa di* gnità solamente gV ingenui, ma se la contrastavano anche i servi e i fuggitivi in una guerra particola* re » in cui chi riportava la vittoria , otteneva a un tempo stesso il Sacerdozio » che apprezzavano come un Kegno. Una tal Dea peraltro y quantunque sten* desse dal cielo per godere del suo Pastorèllo Endi-- mione » fu sommamente gelosa della propria pudici* zia, giacché trasformò in Cervo Atteone \ perchè osò di guardarla quando era nuda in un bagno. (3o) Talia è quella Musa » che presiede principale mente a* Canti piacevoli e amorosi. Dice OVIDIO che dia insegnò sopra inegnali rote ec. alludendo al diè stico latino » il di cui Esametro ha » com* è noto ^ sA piedi, e cinque il Pentametro^ Ma intanto tender dei T insidie : prima Gli augelli taceran di primavera, Le cicale in estate , e il can d^Arcadia Incontro a lepre prenderà la fuga, Che dolcemente Femmina tentata A Giovine resista ; e quella ancora Tu vincerai, che ti parrà ritrosa. Come il piacer furtivo è grato alF Uomo, £ grato alla Donzella . Asconde questa Le brame sue, T nomo le cela invano; Ma se tu possa* vincerla una volta, Preverrà con le sue le tue preghiere. Ne’ molli prati al suo Torello accanto La giovenca muggisce ; e la Cavalla Col suo nitrir fa lusinghiero invito Al cornipede maschio . In noi pkt forti^ Ma non però cosi furiosi, sono Gli stimoli d’ amor i lodevol fine Ha la fiamma delP Uomo. A che di Biblì ( 3 i) Ricorderò, che d’ un vietato amore Arse pel suo Fratello , e pon un laccio Vendicò da se stessa il suo misfatto? Non, come Figlia dee,Mirra amò il Padre,( 3 a^ (3i) BiUi nata da Mileto e dalla Ninfa. Gianczf , amò perdutamente Canno suo fratello. Siccome non Ve riuscì di renderlo à sitò riguardo amoroso ^ si die in preda a un pianto così dirotto ( se si presti je e al libro IX. delle Metamorfosi ) che fu convertita VI un fonte yo( se si crede al libro presente ) si prò-- curò ella etessa con un laccio la morte. (3a) Avendo Mirra concepito un immenso amore per Cinìra suo padre , gli fu posta in letto da me nutrice in luogo della consorte. Accortosi Cinira del fallo , tentò di uccìderla } ma essa fuggì bay ove fu cangiata in albero , e diede alla luce il bellissimo Adone , che fU V ‘unico frutto d un st fu nesto incestuoso accoppiamento. E oppressa ora si cela in chiasa scorza: Delle lagrime poi, che dal suo tronco Odoroso essa elice ^ ungiam le membra. Che s^ban quteste stille il primo nome, Del frondos’Ida nelVombròse valli. Era forse la gloria e la delizia Deir armento un Torel candido , solo Negro segnale avea fra corno e corno: Una sol f^u la maccbìa, e latteo il resto. Questo bramaron sostener sul tergo Le giovenche ginosie e di Canea. Oodea di farsi adultera Pasifae (34) Del Toro., e'nel ano ooj geloso sdegno Nutria contro le amabili giovenche: Io cose note canto; e ciò non punte Creta negar, quantunque siai*iqendace. Creta, cui son cpnto Città soggette. Con r inesperta man ; Pasifae ali Totro Dicesi recideste or verdi frondey S 1 Or r erbe tenerissime de’ prati.2 Erra compagna dèli’st>nentOì,;e invano- Del maiitoy pensier T arresta j vinto. Era Minos da-un hove ^ A rche* tu vesti, . Donna , preziose spoglie ? Il tuo Diletto Mà è un mont 0 ^ Creta ; nè deéù qui còn^ fondere cpl Monta, Ida^ pqiaao , ope seguii la famgsa lite fra Venere y Pallade e Óit^none. (34) Sdegnata Venere contro il Sole y perchè Vavea fatta sorprèndete da^*Numi det letto con Marte ffe* à che Pasifae figlia del .medesimo , e moglie di Mi-» nos Re di Creta, ^ innamorasse ardentemente d* un Toro. Essendosi questa racchiusa in una Giovenca di legno coitmtta da Dedìdà y si congiunse col Toro diletto, e diede al Sole, in nipote il celebre Minotaio- To , che fu ucciso da Teseo nel famoso làbcrkito» Di tai ricchezze non conósce il pregio. Mentre vai di montano armento io traccia, A che giova lo specchio , a che le chiome. Lassa, adornar si spesso ? Ah I presta fede Pare allo specchio 4 che bovina forma Ti nega ; invan veder sulla tua fronte Desideri le cornac Se ti piace ' Minos, a che un adultero ricerchi P E se brami ingannarlo , a ché noi fai Con un Uomo? Per boschi e per foreste Oià la Regina , il talamo lasciato, ^ Vanne quasi fiaccante , a cui furore Spiri P aonio Dio . Oh quante volte La giovènca «rivai con volto iniquo Mirò, e fra se, perchè tu piaci, disse, Al mio Signor ? Ve^com^* in facciala lai* Scherza sull’erbe tenere , ed esulta,, E tài fóIlié/-non dubito non credai ^ Per lei decenti : mentre in suo pensiero: Volge tai còse , ordina che sia tolta* ^ • Dal gregge immenso , è immeritevol venga Al curvo giogo strascinata, o vuole Di snperstizion sacrai * fra-l’are • • Vittima cada;!e nella fi^ta dtwtr^ Gode tener .le.:.viscero fumanti — -Dell’uccisa rivai. AHI quante voke ? Gon le uccise rivaV placando i NUìiii, ^ Disse, tenendo'visceri\-'piacete ' Al mio Dilettov e quante volte ancora Chiese in Europa èsserconversa e in Io, (35) (35) Europa figlia di Agenorg Re di Fenicia , ^ éorella di Cadmo , era dotata di^ sorprendente^ bellez¬ za. Aree Giòvo per Ui. di un amore così violento, aS Che questa è una Giovenca, e quella ìMotso' Premè d’ un Bovo . Fè le strane voglie Paghe Pasifae ascosa in lignea vacca, Onde il parto alla luce uscì biforme. Se sapeva piacere ad un sol uomo^ (36) E foggia di Tieste il turpe amore D’ Atreo la Sposa, non avrebbe Febo Il cammino sospeso in mezzo al corso, E rivoltato il carro, i suoi destrieri Mossi incontroairAurora. Anco la Figlia,( 37 ) Che i purpurei capelli involò a Niso, Coprì del corpo suo le parti estreme Con la sembianza de’ rabbiosi cani. thè trasformatosi in Toro, la portò sul suo dorso in quella parte di Mondo , che dal nome della medesu ma si chiama Europa. Io y o Iside fu , come Si è detto al numerò ii. epnoertita dallo stesso Giove in una Giovenca. (36) Erope moglie d* Atreo giacque con Tieste fra^ tello del medesimo, e nacquer da essi due figlj, che avendo Atreo dati a mangiare al lor padre medesimo in un convito, il Sole per celare un tanto misfattò tornò indietro , e corse incontro aWAurora. Scilla, figlia di Niso Re di Megara s^ inva^ ghì di Minos Re di Creta , che le assediava la pa^* trìa, e a lui recò il purpureo capello del padre, dal qual dipendevano i fati di quella Città. Essa fu jj^i disprezzata harharamente dalV ingrato Minos , e fu , secondo le metamorfosi, cangiata in uccello. Vi fu però un^altra Scilla figlia di Eorci , la quale , avendo bevuto un^acqua per lei avvelenata da Circe , venne subito trasformata in un mostro, la di ciS parte inferire era simile a quella di un Cane. Con-^ eepì la medesima tanto orror di sé stessa , che si get>» tò in un golfo del mar di Sicilia , che ha preso da ^ella il suo nome» Ovidio ha qui confuso fseste due Il Figliuolo d^Atieo, che in terra e in mare (SU) Di Marte e di Nettuno evitò V ira. Cadde vìttima poi della Consorte. Chi di Creusa sull’inìqua hamma (Sq) Non sparse il pianto, e sulla Strage orrenda Che fe* de’proprj figli un* empia Madre ? Frivo degli occhi pur pianse Fenicio, (4o) E voi, oarallì spaventati, il vostro ( 4 i) (38) Agamennone è veramente figlio di Filistene , ma da Ornerò^ e da tutti gli antichi poeti gli vien dato per padre Aireo suo aco come un personaggio più celebre» Fu dichiarato Agamennone per le sue mira^ bili imprese il Re deTle di Grecia, e per tradimento di Clìtennestra sua moglie ucciso da Egisto , dal quale era ella amata impudicamente, ( 39 ) Giasone j abbandonata Medea, sposò Creusa figlia di Creonte Re di Corinto, Medea per vendicarsi di tafe infedeltà , f^ strage di due teneri fanciulli nati da lei 4 da Giasone, e ridusse con fuoco ariifi- doso in cenere ì* infelice Creusa e tutta la famiglia e la Reggia di Cleonte, (40) Furono tratti gli occhi a Fenicio figliuol d^A^ mintore, perchè una concubina del padre Vaccusò falsamente d'acerle tolto Vonore, Ricuperò egli la vi¬ sta per i farmaci a lui apprestati da Chirone , il qual gli die poi in custodia il giovine Achille, con cui andò aWassedio d,i Troja, (41) Ippolito figlio di Teseo disprezzo Vamorosa corrispondenza che gli esibì Fedra sua matrigna, Sde¬ gnata ella fieramene di ciò , disse al padre , che le aveva il medesima insidiato V onestà ^ e Teseo lo ab¬ bandonò al furor di Nettuno, Essendo per ciò com¬ parso un orribil mostro marino^ mentre Ippolito se ne andava sul suo, carro lungo la spiaggia del mare , i cavalli per lo spavento preser la fuga, marciarono il legno in pezzi ^ e trucidarono miseramente il lor Cgxìdottii^o, > Condottier tracidaste.E perchè» o Pinco, (42) Gli occhi tu togli agPinnpcenti figlj ? Ah che la atessa ^eaa. il tuo delitto Un dì vendicherà. Tali infortunj ^ Da uno sfrenato aq^or trasse sorgente Delle lubriche donpe . Ornai t’ affretta, £ non temer di ritrovar contrasto Nelle Donzelle ; appena, una fra molte * Ne incontreraiepe. a te neghi vittoria. E r indulgènti e, le ritrose pure lì Goì^qu esser pregata; pna ripulsa I Non ti spaventi ^ è questa ingannatrice. iMa perchè ingannatrice Y ognor pip grata INuova per esse voluttà riesce. |E l’alma loro adescan facilmente |l novelli amatori ..'Il vici^ campp Ci sembra più .ijber^^so ,^0 il gregge altrui ^-,*• /• - Vedi che a parte sia della Padroni I ) Ov, Arte (Tarn. b (4a) Fineo figlimi Agenore Re Arcadia yO co¬ me ad altri piaqe, di Tracia , o di Paflagonia y spo¬ sò Cleopafi^a figlia di Bqrea, e‘. n*ehbe due figli. O sia che questa morissero che fosse da lui ripudia¬ ta y prese il medesimo in moglie Arpài ice , e cornane dò , che fossero ioltìr gli occhi a* due figlj della sua prima eoniorte, perché temè che aiiesjser avuto un il¬ lecito commercio con Ija novella sua sposa. Fu da Borea vendicata V innocenza do* nipoti con Vacciecof- mento di Fineo , e Giunone e Nettuno gli mandaro¬ no sulle mense le Arpie y che a lui macchiavano tur¬ pemente quelle ‘ vivandé y che non mangiavano essa stesse De’ nascosti consiglj, e de’ piaceri Suoi più segreti. Con promesse e prieghi Corrompi la sua fi; tutto otterrai, Quand’ ella voglia, e non ti sia contraria, Dalla facil. tua Bella • Il tèmpo scelga. Come i Medici sogliono , propìzio. Onde il tuo amor nel dodi cor le infonda. Ella il tuo amor le infonderà nel core, Quando per lieti eventi andrà giuliva Come lussureggiare in pìngue campo ' Suole la biada. Quando r alma è scarca Dalle pallide cure , e lieta esulta. Si spande allora , e dà facile accesso ÀH’arti lusinghevoli d’amore. Mentre fra i neri affanni involta visse " Troja , con V armi si difese ; e lieta (43) Il cavai di soldati e insìdie pieno Àccolèe entro le mòra. Ancor si tenti, £ non rimanga inyendicata , quando Si dorrà , chè riceve ingiuria e scorno Dall* impudica Amante del Marito. La punga a sdegno la fedele Ancella, Quando col pettin mattutin compone Gl* indocili capelli, ed alle vele. L’ ajuto aggiùnga anco de’ remi, e dica, Sospir seco tràehdo, in bassa vocè: Tu noli potrai, cred’io » come si merta. Rendergli la pariglia. Allor le parli Di te con detti insinuanti , e.giuri Che tu brugi per lei d’immenso amore. Mentre il tempo è propizio , ella s’ affretti ( 43 ) Alludesi al cavallo di Ugno ^cht il perfido Sinone introdusse pien di soldati in Troja , quando tra assediata da* Greci» Virgilio Endde IÀh»lÌ»v» Che non cadan le vele, e cessi il vento. Come sì scioglie il gel, V ira , indugiando^ Si dilegua così. Forse mi chiedi. Se la servente innamorar ti giovi ? Tai cose ammesse, il rischio é manifesto^ Una rende V amor più diligente, L’ altra più tarda e meno attenta : questa Alla Padrona sua ti serba in dono, Quella a se stessa • esito dipende Dalla fortuna, che quantunque arrichì Agli audaci ^ a te do fedel consiglio. Che d’ un’ impresa tal lasci il pensiero. Non per scoscese perigliose strade Andrò, nè, duce me, verrà ingannato Alcun Giovine amante * Ma se poi, Mentre riceve e assiduamente porta L’innamorate cifrerà te non solo Per la sua fedeltà piaccia, com’ anco Per la beltà del corpo ; allor procura Della Padrona in pria il possesso, e ch’indi Questa la segua: l’amoroso gaudio Non dall’ Ancella incominciar tu dei* Se all’arte mia si crede, e i detti miei Non portano pel mar rapaci i venti, Questo consìglio mìo nell’alma imprimi: Non mai tentar 9 se non compisci l’opra» Se a parte ella verrà del tuo delitto. Non la temere accusatrìce • Invano Invischiato l’angel tenta la fuga. Nè riesce già uscir dalle allentate Reti al cinghiale • Il pesce all’ amo colto Si scota invano ; tu la premi e assedia. Nè la lasciar , se vincitor non sei. Se a una colpa comune ella soggiace, Non temer tradimenti ; a te saranno Note della Padrona opre e parole. Se cauto celerai 1’ accusatrice. Sempre, contezza avrai della tua Amica. Folle è colui che in suo pensier si crede òhe sol debban del cielo osservar gli astri Della terra il cultore ed i nocchieri. Non a’ campi fallaci ognor sì debbe Cerere abbandonar, nè alle tranquille*^ Cerulee onde del mar la curva prora. Ah 1 che non sempre assicurar ti puoi Il cor di vincer delle Belle; spesso Ciò s’otterrà, se il tempo sìa propìzio. Se deir Amica il natalizio giorno (44) (44) Era presso gli Antichi in gran venerazione il giorno natalizio : e gli Amanti celebravano ‘ con feste e con doni quello^ in cui eran nate le Donne che ama^ vano . Si dee preferir certamente questa lieta costui manza a quella che hanno adottato i Messicani e i Cinesi, i quali riguardano un tal giorno come infausto e doloroso . Alcuni di essi invece di ricevere con ac¬ clamazioni di gioja la nascita d^ un figlio , gli rispon¬ dono ai suoi primi singulti , mio figlio tu sei venuto al mondo per soffrire \ soffri ^ e t’acquieta . Si fab- hrican altri di buon^ ora la tomba, e vanno ogni giorno a renderle omaggio come al termine consola¬ tor é d^.lor giorni . Non poco influisce, a dir vero, un tal uso a fomentare il barbaro costume d^ uccidere i proprp figli in un popola ^ il guala non gli Ottimi suoi libri classici illustrati dall* immortai Confueio e con le savissime leggi, su cui ha stabilito il suo pacifico Impero, cerca di rendersi virtuoso ed illuminato. Èra presso i Romani nel suo pieno vigore P uso delle visite e de* doni nel principio dell* anno, il qua- le incominciava anticamente col mese di Marzo , le di cui Colende eran consacrate al Dio Marte . Cele- hravand in Roma nel primo giorno d*un tal mese alcune feste dette matronali in memoria della pace Ricorra , o le Calende che seguito Abbiaa quelle di Marte, a Vener piace, O sia che il Circo sì rimiri adorno, (45) Non come in altre età, di statue lievi. Ma per le spoglie ivi de i Re deposte, L’ opra differirai : sovrasta allora Con le piovose Plejadi P inverno; Allor nella marina onda s’immerge Il Capro tenerello ; allora giova Deporre ogni pensier . Chi al mar s’afSda Del lacero naviglio appena puote 1 miseri campar naufraghi avanzi. Tu se in quel dì incominci , in cui si vide che le Sabine avevano appunto in tal di stabilita fra i loro SpoH , ed i loro Padri , i quali volevano con V armi vendicare il ratto delle medesime . Le persone maritate avevano solamente diritto a queste feste / ed OraT^io nell* Ode ottava del Libro III. si scusa, perchè vi prende parte anch? egli , essendo celibe. Siccome il mese d* Aprile è sacro a Venere , e suc^ cede a quello di Marzo dedicato a Marte , dice il Poeta che Venere gode che abhian le sv^e Calende seguito quelle di Marte per alludere alVamorosa cor^ rispondenza che ella aveva coi Dio della guerra . Le Ihnne e le Matrone romane facevan nelle Calende d*Aprile gran festa a questa lor Pea tutelare ; e gH Amanti contribuivano alle medesime con le donazioni. Non vuole il Poeta, che si studino i Giovani per adescar le Donne nel lor giorno natalizio , nel principio dell* anno , e in occasione de^trionfi celebrati nel Circo , perchè essendo le medesime allora occupate in adornarsi , incontrerebbono qiiP gravi pericoli , che sono qui espressi con l* allegoria dell* Inverno , e con quella delle Plejadi e del Capro , le quali stelle sorgon sull* orizzonte nel mese d* Ottobre , che è un tempo pieno di pioggia e di tempeste , e perciò non propizia a* Naviganti.. Scorrer sanguigno umor la flébìl Allia Per le piaghe latine, o in quello in cui Torna la festa settima, che è sacra Al Palestin siriaco, e in cui s’ astiene Ognun dalla fatica, avrai mai sempre Culto superstizioso al di natale Delia tua Bella ; pur funesto giorno Sia quello , in cui tu offrir dono le debba; Ma a te lo rapirà , se tu gliel nieghi, Che a Femina mancar non puote 1’ arte Per carpir le ricchezze a Giovin caldo. Del Mercante il Garzon verrà discinto Alla vogliosa ed avida Padrona, E porrà le sue metti in vaga mostra, Mentre tu giungi, e al fianco suo t’assidi. Essa ti pregherà, che tu le osservi Per additarne il prezzo ^ e liberale Ti sarà di preghiere e ancor di baci, Perchè le compri , e giurerà contenta D’ esserne per molt’ anni , e che non puoi Comprarle cosa che le sia più accetta. Se poi ti scusi che non hai denaro, Ti chiederà il tuo nome , e turpe fia Per scusa addur , che tu firmar noi sai. Rinasce poi, quando le fa bisogno, (46) A ih. Agosto ebbero i Romani una sconfitta da* Galli sul fiume Allia non lontano da Roma , onde come infausto e di pessimo nome fu condannato un tal giorno . Crede il Poeta , che debbano i Giovani onorare il dì natalizio delle lor Belle , e vuole che intraprendano V amorose loro conquiste 0 in que* ma-- linconici tempi qui figurati sotto il giorno alliense, CUI aman le Donne d* esser rallegrate, o in que^giorni festivi simili a* sabbati giudaici , ne* quali non è alle medesime permesso 4 * occuparsi in alcun lavoro. Che dell* offerte natalizie il giorno Rìeda y e di pianto sa bagnare il volto Per la supposta perdita di pietra. Che le ornava 1’ orecchio . D* altre cose L’ uso ti chiedrà , che date poi Renderle nega ; tu le perdi , e invano Speri per ciò che grata ti si mostri. No , quando avessi dieci lìngue e dieci Bocche , io già non potrei dell’ impudiche Donne n^^rare le sacrìleghe arti, li guado tenti un ben vergato foglio; E della mente tua la prima volta Sia nunzio ; le carezze, e le parole, Che imitino il linguaggio d’ un Aliante Rechi , e fervide aggiungi anco preghiere. Donò da’prieghi mosso a PriamoAchille (4?) Di Ettor l’esangue spoglia; e Iddio sdegnato A voci supplichevoli si piega. . Prometti pur , che nuocer già non ponno Mai le prorjaesse ; ognun può farai ricco Con semplici parole. La speraD 2 $a Data una volta , lungo tempo dura: C' inganna , è ver , ma Diva utile è a noi. Se liberal con lei fosti di doni, Avrà ragion d* abbandonarti ; quello, Che già le desti, è suo , nò può timore Di perdita nutrir . Ognor tu devi (47) Achille dc^ aper ttraseinato tre volte intorno alle mura di Troja il corpo d* Ettore da lui ucciso alV assedio di quella Città y lo rese finalmente y 0 a dir meglio , lo vendè\ a- ^Priamo Padre del, medesimOy che prostrato a* suoi pièdi > lo pregava di ciò caldamente^ Exanimumaue amo oorpns vendebat Achillea. 1 Virgil Finger di dar quel che non desti; spesso Fu deluso così di steril campo II credulo Padron • Così, perdendo A perder segue il giocator, nè lascia Per questo il gioco ; e il lusinghiero dado Nelle cupide mani agita ognora. Questa è Tiinpresa, e qui il Valore è posto; Ascolta ; senza doni il suo cor tenta La prima-volta, ancor che ì doni apprezzi; Se lor liberal ti sia, 8«^rallo Ognora. Vada dunque il tuo foglio , ma vergato Con detti lusinghieri ; della Bella La mente esplori ,*e primo il caihmin tenti. Cidippe ingannò un pomo, in bui rincue(48) Note leggendo, fu di queste preda. O Giovani romani , io vel consiglio. Deh coltivate le bell’ arti ; solo Non utili Saran per la difesa ' De^ paurosi Rei ; ma dalla forza Del facondo parlar, vinta la mano A voi daran col Giudice severo. Con lo scelto Senato , e ilPopol folto Ancor le culte amabili Donzelle. (48) Da Zea una delle Isole Clclàdì andò Acanzio in Deio per assistere a* sacrifici di- Diana , che là si celebravano splendidamente. Ivi ei concepì uìà^ immenso amore per Cidippe, ma non ardiva di chiederla in is- posa . Stette molto tempo dubbioso nello scegliere lin mezzo per appagare la sua passione ^ ma in lui ces^ sarono i dubbj quando intese che vigeva in Deio una legge , per cui restava concluso tutto ciò che si diceva nel tempio di Diana ; è però gettò a* jùedi della sita Bella un pomo y in cui erano scritti i versi seguenti* Juro tibi sane per mystica sacra Dianae He Ubi venturam comitem sponsamque futuram: Ascosa V arte resti, e da principio Non sii eloquente. Da’vergati, foglj Vadan lungi parole aspre e ricerche. Chi mai, se non. di senno affatto privo» In tuono volgerà declamatorio . < ; Alla tenera Amica il suo discorso? Oh quante volte fu giusta cagione Di grave sdegno un foglio ! 1 detti tuoi Meritin fede , e adopra usati accenti» Ma sempre, lusinghieri » onde l,e sembri^ D’udirti ragionare . Se ricusa, •. Di ricevere il foglio , e sena’ averlo , . Letto a te lo rimandi » |a speranza Però non t’abbandoni » e ,il mio consiglio , Serba in memoria , II. collo al giogo piega Il Giovenco difficile col tempo» E a soffrir s’ammaestra il lento freno Col tempo anco il Cavallo. Un ferjreo anello Dal cootinao nso si consuma » e il vomere* Dal continuo rivolgere la terra Che del sasso è più duro? e che più molle ' Avvi dell’ onda ? eppure il duco sasso Dall’ onda molle vieu scavato . Ancora» Se sii costante» vincerai col tempo Penelope med^sma : » A vero» ,, Caddero al suolo le trojatie.^muri^» Ma pur caddero alfin 1 ìtiglj tuoi , Leggerà anch’ oasa » e non darà risposta» Cui tu non debbi violentarla : solo Fa che ognor legga lusinghieri accenti» £ di risposta alba sarà cortese A ciò che l^sse ; a gradi e con misura Succedefansi questi ufficj ; Forse / Verrà da. prima A tc foglio dolente», à a Digitized by “Google 34 Con cui ti pregherà, che r amoroso Linguaggio cessi ; nia desia il contrario Entro il suo core, e vuol che tu prosegua. Continua danque;e alfin resi contenti Saranno ì voti tuoi . Quando supina Vien trasportata sulle molli piume. Fingendo indifferenza, ti presenta Della Padrona alla lettiga ; e canto, E in cifre ambigue quanto puoi favella. Onde qualchfe importuno udir non possa Il vostro ragionar 7 Sé’ volge il piede Negli spaziosi portici , tu quivi Trattienti fin eh* ella^ vi fa dimora. Or la precedi ed or la segui a tergo: Or lento movi il passo , ed or t* affretta. Nè d^ inoltrarti iU ntezzb alle colonne Abbi rossor, nè di sederle al fianco. Non ne’ Teatri senza te si trovi, E segnai póVti al teigo , onde la vegga. Giacch* ivi il puoi, contemplala , e le dici Quanto brami co’segni è con lo sguardo. Alla saltante applaudisci l e sii Favoirevole a quei che rappresenta Personaggio amoroso . S* ella sorge, Sorgi ; e ti assidi pur, s’ ella s’assida; £ a suo ^piacere il tèmpo tuo consuma. Ma non volere innanelìare il crine Coiì’càldo ferro, e con lUordacè pomice ' Stropicciarti le gambe ; il che tu lascia A’molli Sacerdoti di Cibale. ( 49 ) ( 49 ) Oj9e , o Vesta , che ancor dicevi Rea yC la Dea Buona, è Madre degli Dei, e si chiama Cibale ; per^ che nel monte Gibele dU Frigia U furono la prima Beltà negletta agli uomini conviene: Vinse Teseo; Afianna » e la rapio Disa.doroo le<t;onipie , il cria scompQsto;( So) Arse pe}*:FiglÌQ:Fe.drtt., ed era incolto; Cura e deli^^ia. della Dea ;d’. Amore . Fu Adon ,:che fra le selve i di traeva. S’ann^grin pur le membra al marzio Campo, Ma si^o monde, e monda sia la ve8te.(Si) Aspra non sia la lingua, e netti sieno.i Dalla lug^e i denti; il mobil».piede . > Non nuoti ih larga pollo ;^*ed ìne6perta i>olta kelel^ati i sacrificj » T suoi Sacerdòti" éràtio ew.- nuchi , e ogni giorno ,ger comparir moftdi , si raschia^ van membra, t ( 5 o) Ari^nay figlia del Re Minos , s* innamorò per¬ dutamente di Teseo , che fu da* Greci mandato con al- tri giovani in Creta per esser divorato dal Ii/Iinotauro~, Etsa gV insegnò la maniera d*'uscir dal làbérinto quàn^ do avesse ucciso quel mostroe in compagnia di dra sua sorella s*.iifcamminò con. VAmante^ che dpmato il Minofauro y tornava in Grecia vittorioso . Teseo chi nel viaggio orasi gik invaghito di Fedra ^ lasciò bar-' Caramente in Nasso Arianna , .e andò con la sorella Ì2i Atene sua patria . Ivi questa dioonne , come si è detto, amante d*Ippplito nato da Tesele da Ippoli¬ ta Regina duello Amaz%oni. Venere amò ardehtemente Adone ^figlio di Cinirq, e di Mirra , quantunque vivesse continuamente né^ bos¬ chi intento a caccksre le fiere. Pianse ella amaramert’^ te perchè questo giovinetto fu ucciso da un cinghiale^ e nony avrebbe mai reso a Proserpina , se Giove non comandava', che per otto mesi avesse Venere il posses¬ so d* Adone , e per gli altri quattro sei godesse Pro¬ serpina . '( 5 i) Nel Campo martió d facevano in Roma al¬ cuni giochi, pe*quali i giocatori si snudavano intera¬ mente , « si dngevan le membra con degli unguenti, che rendeano a* medesimi nera la pelle Forbice non ti renda il crin deforme t Ma da maestra iuan^ ti sia recisa E la chioma e la barba i $enza macchie Sian r unghie, nè soverchinoi le dita; Nelle concave nari non si scorga ^ ^ Alcun pelo; nè esali nn tris^to fiato* - ' La bocca; e il naso non rimanga olfeilO „ Da che il fetido becco ognora sape^ ' A lasciva Fanciulla il resto lascia, £ alla bardassa . Ma già Bacco òhiama Il vate suo : soccorre ei pur gli amanti; E, la fiamma che learde ei favorisce. „ Furente errava la creten.^ Ppnna (Sa) Pcjr di Nasso ignota arena, . Che flagellano ognor T onde dei mare» Ella coperta con discinta veste Come nel sonno , nudo il pjede e sciolte Le crocee chiome, al sordo mar si volge;. E bagnando di lagrime le gote, Teseo chiamava in alto suòli : gridava, E in un piangea la mìsera, ma in lei Era tutto decente ; nè men bella Fu di lagrime aspersa « di dolore. Mentre di nuovo con le man fa ingiuria Al delicato petto, a che fuggisti t É cosa fia.di me, perfido? dice^ Di me che fia, ripete ; e intanto il lido De* cìtnbali e de’timpani p^cossi' Da un* attonita mano il suono assorda. ( 5 2) Quando Arianna si vide aèhandonata nell* sola di Dfasso^si diede in preda all* ultima dispera^ sùone . Bacco ivi accorso con le Baeeànti e Cón Sileno , sfio pedagogo, la prpse in sposa y e collocò la. di hi chioma in Cieìp prenQ ad 4 rtur ^t \ v.t Ca<l’ ella al suolo 4a timor sorpresa; Le mbucaa le iparole ; e piik pon scorro Per le;geliAe} oppresse membra il sangue. S’ appreesan ile ^eoauti^ U<cfia disciulto^ Ed opQO;i liéyl 3iltiri soiio Previa turbo del DiOi*;£coo sul dorso D* uo< pasciuto asinel V ebrio Sileno Carico d’ anoi.y^^che :si reggo appena, E profiumo aspirare>i )brevi crini. Meiìftr eglit seguei'le! Saeeanti, e queste Lo cfaiadianp /oggende ; l’inesperto . Cavaliere il qjUadrtipedo, suo si^za. Deir aaiào orecchiuto al capo scorre, E a terra cade : i Satiri griderò; Sorgi V deh sorgi y o Padre . Intanto giunge 11 Dio ^ che d’ uva al carro adorno accoppia Le tigri, a ouircoh le dorate briglie 11 freno regge, • Partì : Teseo , e insieme D’ Arianna, fa voce ed il dolore. Tentò tre volte di fuggir , ma invanoy Chè il timor la trattenne, e inorridita Tremò qUal steril spiga al vento,e com# Leggiera canna in umida palude; Allora il Dio le disse : * ogni timore, Cretease 'Donna , dal tuo cer disgombra; In me tu* vedi un più fedele amante; Di Baceo anzi sarai la dolce sposa. Tu spazierai nel ciel ; la tua corona Lucida stella in ciel sarà di scorta Air incerto Nocchiero in suo cammino. Di^se , e dal carro scese, onde non debba Seatir paura delle tigri, e il piede Sulla docil arena impresse Torme. Eapilla poscia, e se la strinse al seno> Chè tentato avria id van forgi! contralto^ Mentre fonile a un Dio tutto si rende. De’suoi segnacr imen cantd una parte, L’altra ripetè in alto snon gli evviva. Cosi al letto nuziale il 0io 4 la Sposa ' Furon guidati^ e s’annoSdaro insieme. Quando tu sederai con donna a mensa, E di Bacco a te offerti i doiii siedo, > Tu a Bacco,èa‘*NunJi che^han fa cena in euri Porgerai voti, onde (dal Vrn non venga Offeso il capo ’ tuo ; Quivi* tu puoi ‘ ‘ Con ambigue parole a lèi far iloti’ " ; I segreti del cor, ma per6^in modo ' Che ben s’ accorga esser a lei dirette. Potrai tu ancor con gocmole di vino Teneri accenti esporre, onde conosca, Ch’ ella assolnto ha nel tuo core impero. Co’ tuoi s’incontrin jgli oocbi suoi ,<ed il fòco Che t’arde il sené , a lei foccian palese; Parla talora col silenzio il volto. Procura il primo di rapir la tazza. In cni bevv’ ella , e dove i labbri impresse. Bevi tn pur : qualunque il cibo sia Bichieder dei, che tocco avrà col dito; * E mentre il chiedi, a lei strìngi la mano. Volgi i tuoi voti pure, onde tu piaccia Della Bella, al Marito . Assai ti puoto * Util recar, se a te sia fatto amìcoi Se dai la legge al bere, a lui la mano Solevano i Rfìmarù appena posti a mensa eleg^, gere il maestro della cena y che da Orazio {lib. i.od^ 9. ) li chiama il Taliarco\ Prescriveva il medesimo U leggi del convito e la manieM di^ becere y'e ordi^ Ce^i, e riponi dal tuo capo tolta La corona sul suo. Sia a te inferiore, Egual sia pur, si serva in tutto il primo; E seconda parlando il suo linguaggio. Col Telo d’amistà tessere inganno È vìa sicura e frequentata , pure Non è senza delitto. 11 Talìarco Ancor che troppo generoso appresti I moltiplici vini e le vivande; £ benché creda di dover più assai Veder di quel che fu ordinato, certa Avrai nel ber da noi legge e misura. Onde la mente e il piè si serbin atti A’ loro ufficj : d’ evitar procura Gli alterni detti e gV ingiuriosi accenti, £ vìe più ancor se sien dal vin prodotti; E troppo faeil non indur la mano napa alle Polte Commensali che ognuno , bevuto il suo bicchiere di pino, proponesse qualche amena que^ stione . Auguravansi spesso tanti anni quanti bicchieri di vino bevevano, e spesso ne bevean tanti quante e- ran le lettere che formapano il nome della Beliamo deW Uomo insigne , a cui facevano un tale onore . Se molti erano gli anrd augurati , o se molte erari le leU tere componenti il nome della persona in onore di cui heveano ; mescepano allora il vino in una tazza assai grande , e compensavan così i molti bicchieri che apreb’^ ber doputo puotare . Era poi in uso al termine della mensa il vibrare in aria con le due prime dita i semi d* una mela fresca : si credepano fortunati in amore quando toccapan con quelli il soffitto della camera ov*era apparecchiata la tavola^ e si riputavano infe* ìici quegli amanti , che non li facean sorgere a queU V altezza, De^moÙi altri giochi ^ che i Romani usa^ vano in queste circostanze, non ne è a noi perve^ nuta che un* oscura notizia A perigliosa rissa. Al suol trafitto (54) Euritone cadéo, perchè soverchio Bebbe i vini apprestati. A* dolci scherzi Atta è la mensa e il vìu: 8*hai bella voce^ Non ricusa cantar ; salta s’ hai molli E pieghevoli braccia ; e finalmeute S’hai doti onde piacer, piaci. La vera Ebrietà nuoce ^ può giovar la finta. Balbetti in tronco suon l’astuta lingua^ Onde di ciò che tu ragioni, o fai Oltra ’l dovere , il vino sol s'incolpu Augura alla Padrona ed al Marito Una notte felice ; ma per questo Fa tacito nel core opposto voto^ Tolta la mensa, allor che i Convitati Saranno per partir, tra lor ti mischia ; ( La turba e il loco ti daran T accesso ) A lei che fogge t’ avvicina, e il fianco Le premi dolcemente , e il piè col piede •. Abbia ora il conversar libero campo, E tu lungi , o pudor rustico, vanne. Che la fortuna e Venere propizj Sono agli audaci. De’ precetti nostri Or r eloquenza tua non abbisogna; Principia pur che ben sarai facondo. Imitare il linguaggio dell’ amante Debbi , e mostrar d’ aver ferito il core; E onde ti presti fede ogni arte adopra.. Ardua impresa non è 1’esser creduto. {Sii^ ElurUone è quel Centauro^ che reso caldo dab vino y tentò nelle nozze dì Piritoo di rapire Ippoda»^ mia : Teseo lo percosse perciò così fortemente , che fw costretto y.come dice Ovidio nelle Metamorfosi, cu vo^ nàtar V anima e il vino Mentre Donna non v’ha, che sè non stìmi^ Sia, quanto imn^agìhar ài può, deforme. Atta a piacer ; e aémprè inver non epiace. Quante vòlte in^amor chi sol fingendo Incominciò , d’ un vera amòr fu preda! Siate indulgenti pur, vezzose Donne, «Con questi menzogner, se voi bramate Che in sincerò si cambi un falso amore. Con accorte lusinghe ora si tenti Di guadagnar le Belle, come Tacque Sa penetrar la sottoposta riva. Deh non t’incresca ora lodar la faccia, Ora i capelli, i lunghi è ì rotondetti Diti, ed il breve piè. Le più ritrose E le più caste godono alle lodi Della loro bellezza ; e son pur grate ^T innocenti Vergini i anzi il primo È la beltà d* ogni lor cura oggetto. Percliè tuttora di rossor la faccia Tingon Palla c Giunca volgendo iti mente Le frigie selve ed il fatai giudìzio f (551 L’augel sacro a Gìunon le penne ostenta (56; Se tu le lodi ; e le nasconde allora Che tacito le miri» Anco il destriero. Quando contrasta il rapido cammino. (55) Péllade e Giunone ^vergognandosi d^essere stc^ te da Paride giudicate .met^ belle di Venere , tentare Tono di ripagare una tate infamia col ^ procurare n questa Dea vincitrice del Pomo tutti que*danni , eh% sono resi ormai cèlebri' da' Virgilio e da Omero z .... Manet i^ha Bueat# repo^tuiu' Judicium Faridis spretaeqtte ipjuria fbrmae. . i^rgiL Eneid. (56) I Paooni ^(hrisi ^li at^elH di Giunone, pospr che solcpano'essLHinàfe ibìqarroidi fonta Dea*, Digitized by Google 4» Gode vedersi il crine adorno , e il collo Accarezzato. Franco pur prometti, E tutti chiama in testimonio i Numi, Che alle promesse pedon facilmente Le tenere Donzelle. Su dal Paltò D*un spergiuro amator Giove si ride, £ comanda che sien per l’aria spersi I giuramenti dagli eolii venti. Solea per l’onda stigia a Giuno il falso Giove giurar ; utile è un tale esempio. Giova de^ Numi resistenza e giova Che noi pur la crediamo ; incenso e vino Lor su gli antichi focolari offriamo: No, non è ver che una secura quiete! A letargo simil gli occupi; i Numi Veggon r opere nostre. Innocua vita Si tragga adunque ; ad altri il suo si renda; Sii religioso in consesrYar la fede, Stia la frode lontana, ed abbi ognora Vacua la dostra* dalle stragi. Solo È permesso ingannar, se siete saggi, Le donne impunemente. Abbi rossore D’ogni altra frode pur , ma non di questa. Le ingannatrici inganninsi, che sono La maggior parte di profana stirpe; Cadan ne* lacci , cbt^ da lor far tesi, l^àrrasi che restasse un di l’Egitto ^ DelFacqua a* campi salntevol privo Per ben nov*anni ; allor che al Re Busiri Trasio si fece innante , e mostrò come Possa Pira placar di Giove il sangue D^un ospite; la vittima tù il primo Sarai di Giove, a lui disse Busiri, Ed ospite darai Pacqua all’ Egitto. Falarìde cosi nell’ infocato Toro arder fè le membra di Perillo, ( 87 ) E T infelice autore il primo empiéo L’opera sua. Fu 1’uno e l’altro giusto^ Nè vi puote esser mai legge più equa Di quella y che a morir l’autor condanna Del tormento inventato. La tradita Donna si dolga che col proprio esempio Spergiurando s’ingannan lé spergiuro Meritamente. Utili a te saranno Le lagrime; con queste anco il diamante Ti ha dato ammollir. Fa , se lo puoi^ Che di pianto bagnate ella rimiri Le guancie tue; se il pianto a te non scende, Che non si versa sempre a grado nostro^ Tu con la mano inumidisci il cìglio. Chi mai alle dolci parolette i baci Saggio non mischierà ? S’ ella ricusa Darli, tu li rapisci,In prima forse Combatterà ; di scellerato il nome Avrai da lei; ma pur ella desia Pugnando che la vinca. Sìa tua cura, Che da' rapiti baci i tenerelli Labbri non sian offesi, o non si dolga Che furon duri. Quei che i baci tolse. Se il resto non procura, è degno invero Di perder ciò che a lui fu dato. Quanto (87) Perillo fabbricò un Toro di bronzo , e lo dor nò a Falaride crudelissimo Tiranno de'Grigeati in Si cilia , perchè collocandolo pieno di rei sopra il fuo* co ) potesse intendere d^ lamenti simili a' muggiti de'booì. Falaride accettò il dono y e volle che subito w entrasse Perillo per incominciar da lui il proposto esperimento» Mancò a far paghi dopo i baci i voti! Ciò non pador, rusticità s’appella. Benché si chiami forza, è questa grata Alle donzelle ) che amano sovente Esser forzate a dar quello che giova. 1 piaceri d’amor, se sian rapiti, Gode la Donna, e la franchezza ha il premio. Ma quella che poteva esser forzata. Ed intatta rimase, ancor che in volto Mostri allegrezza, ha mesto in seno il core. Soffrir violenza Febe e la sorella, (58) Ma fu grato ad entrambe il rapitore. La donzella di Sciro ìnsiem congiunta ( 59 ) Con l’emonio Guerrier, favola è invero Nota , ma degna pur d’esser narrata. Dopo la lite della valle Idea Per la lodata sua bellezza il premio Già la Diva avea dato. A Priamo giunta Dall’ opposta regio Deaera la nuova, E già viveva nell’ iliache mura Come un’argiva sposa. I Greci”tutti ( 58 ) Castore e Pollice rapirono le due sorelle Fe- be e ilavra, che Leucippo padre delle medesime aoea date in spose a Ida e Linceo, (59) Venere per premio del Pomo da lei ottenuto, promise a Paride Èlena moglie di Menelao ^ e Pa^ rìde la rapì , e la condusse in Troja sua Patria. Sia- come i TVojani ricusarono di render Piena Greci ^ che la richiescr più volte, questi intrapresero contro quelli un formidabU assedio. Tetide adendo inteso , che il suo figlio Achille sarebbe morto se andava al* la guerra di Troja, per assicurargli la vita lo man¬ dò in abiti femminili a Licomede Re di Sciro. Ivi s* innamorò perdutamente di Deidamia Princi* possa reale, ed ebbe dalla medesima in figlio il ce* Icóre Pirro. Deir offeso marito avean giurato Di vendicar V oltraggio, e fero allora D^'un sol uomo il dolor causa comune. Se noi forzava^ le materne preci. Eterna infamia coprirebbe Achille, Perchè con lunga veste ascose Tuomo. , Che fai, nipote d^Eaco ? Non sono Atte a filar le mani tue la lana. Con arte ben diversa ora tu dei Volger la mente alla palladia gloria. A che questi cestelli ? Il braccio tuo Deve portar lo scudo; e in quella destra. Per cui un giorno cadrà Ettore, io veggo Or la conocchia ? Del filato stame I fusi carchi getta , e Pasta impugna. Un letto sol la Vergine reale E Achille accolse ; ed ivi ella conobbe Che di femmina avea solo la gonna. Con la forza fa vìnta ; almen sì crede; Soggiacere alla forza a lei fu dolce. Quando soverchio s’affrettava Achille, Che altr’armi avea che la deposta rocca. Spesso gli disse : per pietà t’ arresta. Qual valore or dov’è ? Perchè trattieni Con lusinghiera supplichevol voce Li’autore,o Deidamia,di tua sconfitta? Di pudico rossor copre la gota. Se dee la donna far la prima offerta, lilla Tè grato il soffrirs*altri incomincia. Ah I nella sua beltà troppo si fida Quel giovine, che aspetta che primiera Ella lo preghi. Deve sempre 1* uomo Essere il primo ad accostarsi a lei; Ju uom le sue preci esponga, e le sue r Riceverà cortesemente. Fréga Che ti voglia accordare il suo possesso; Ella ha piacer d’ esser di ciò pregata. Fa lor palese il tuo desio, che Giove Supplichevol si fece ognora innanzi AlF antiche Eroine, e non fanciulla Offrì preghiere , benché grande , a Giove. Ma se t’ accorgi che alle tue preghiere Si fa vie più superba, allora l'opra Abbandona, ed il piè rivolgi altrove. Molte amano chi fugge ^ ed odian quello Che troppo le frequenta; impara dunque A non tediarle. Nè chi prega sempre Dee del delitto palesar la speme, Ma sotto il manto d’ amistà velato insinui Amor. Con questo mezzo vidi Deluse rimaner ritrose e fiere Donzelle, e divenir T amico amante. Non dee il nocchier, che le marine spume Solca soggetto alla solare sferza, Candido avere il volto , e pur disdice Al cultore de* campi, chfe rivolge Col vomer curvo , e con pesanti rastri Le dure zolle , e per te turpe fia Candide aver le membra , che il tuo crine Cerchi adornare del palladio ulivo. Sia pallido ogni amante ; è questo il suo Proprio color ; tinto di questo il volto Sarai creduto infermo. Fra le selve Pallido errò per Lirice Orione (6o), (6o) Giops, Mercurio , e Nettuno furono henisd* mo accolti in casa d* Iréo uomo assai povero* Aven¬ do questi domandato medesimi un figlio , che non dovesse ad alcuna donna la nascita, i tre Ospiti di- E per ritrosa Najado fu Dafni (6i) Pallido L^almà discopra il volto Estenuato ; nè a schifo; avrai di pórre Sulla nitida ^chioma un pìcòiol manto ( 6 a). Le cure ^ il duolo ^ le vegliate notti. Che origin traggon dà nn Violento amore, I Giovanetti estenuai! ; non tf incresca Comparire infelice , se tu brami Di far paghi-ì tuoi voti,'onde ognun dica Che ti rimirà : è (Questi unWeto amante. Mi dorrò fbrsè , 0 pur' ti farò dk>ttò A usar rarti pt^rmessé e le vietate? Ah che amicizia è fè^^on^nòmf vani i Lodar quella , che adori, al tuo ^compagno, E perigliosa imprésa , ché se crede Alle tue Iodi , gli verrà vaghezza D'entrar nél posto tuo. L'atto rea prole (63) Non cercò profanai* d-Achillé 11 letto vini hagnàti^no della ptopHa ofina la pelle del Toro da lui ucciso per Viàrio loro in cidoy é assicurarono che da mtella nascerebbe un fanciullo: JVé nacque infatti Orione ^ che fu un ottime Cacciatore. Non si sa chi sia Lirico da lui : amata Vedansi le note faU te a questo libro dal Ckier Néiruio.^ (6i) Dafni figlmel di Merèurio rtacque in Sicilia, ed k VAutore de^virsi buìieeliei. Amando egli una' Ninfa , da cui era ^matà egualmente, ottenne dal Cielo, che divenisse cieco chi di loro oiolasse il primo la fede giùtata,Immemore Dafni del voto fatto, j* mnémo rò d^ uha ritrosa Nomade , e divenne cieco. (6a) Q uando i Romard soffrivano qualche incorno^ do di sai ute , si coprivano il capo con un piccol maa- to da loro iifè/to Piu li alani. ( 63 ) Patroclo nipote d^Attore € figlio di Mentàpo fu amicissimo Achille. Non cercò Fedr^ di sedar T amico (64) . Di Teseo Piritoo ;aè in altra guisai [ Pilade la consorto af«(ò à' Oreste , ( 6 S) 3 Che come Fcho Palla ^ od il tuo O Tindaro ,gemeUo amò ia suora^ ( 66 ) Ma non sperato rionofvatì spesson J (o r ) Sìmili esempi, se non spe^ri ancora ; Veder spuntar dal tramarisco i pomi, E in mezzo al huine ritroTare ,il mele. . > Quello che è turpe :giova > e ognun ricerca Il piacer proprio > che divien più grato. Se altrui costa dolor . Do^e, 8 !:intese Scelleraggin piA grande ? Pel nemico Non debhi .amante: paventar .soltanto, Ma fuggir dei, se vuoi viver, sicuro,; . Quei che credi fedeli, e siimi amici. < Il Fratello, il Cognato ,, ed il diletto ; Compagno temi ; questa tufba tutta; , ; Vera ti recherà cagion d^ angoscia. Già toccavo la meta ; ma diversi. Sono cosi delle Fanciulle^ \i i ^ ^ ’u Che varj mezzi ancora usar si 4enno, (64) Piritoo e Teseo concepirono V uno per Poltro una stima si f^rànde, ohe giurarono di non àhhan^\ donarsi giammai , o itifMi si prestarono vicendevole mente soccorso in tutte U occtìrrettoo^ Pirotop ^ querie tunque frequentasse taaasa di Teseo, limita sèmpre la sua beneoolenaa per Fedra a* sentimenti d* amìci"\ aia e di stima.Pilade figliuolo di. Strofa ^ ehbé per Oreste un*amicizia con sincera^ ^le.nonjo abbandonò nel- le più pericolose circostanze a rischio di perder anche la vita. ’ (66) Castore e Polluce figli di Tindaro amaron la lor sorella Elena con quell* amore, con cui debbono i fratelli amare le sorelle. Digitized by Google 49 Per adescarle. Non la stessa terra Ogni cosa produce ; atta alle viti £ questa ; quella vuol gli olivi ; e in altra Lussureggian le biade. I nostri affetti Varian come nel mondo le figure. Piegar si sa chi ha senno ad ogni umore; E come Proteo , si farà nell’ onde ( 67 ) Sottile ; ed or sarà leone, ed ora Àlbero 9 ed or cinghiale irsuto. I pesci Altri si piglieran col dardo, ed altri Con r amo ^ e alcuni ancor saranno tratti Àir ampie reti con la corda tesa. Nè giova ad ogni età lo stesso modo; La vecchia cerva scorgerà da lungi Le insidie . Se s’accorge l’ignorante Che tu sii dotto, e ardito una modesta, Si porranno in difesa, onde avvien spesso Che quella che di darsi a un uom d’ onore Ebbe temenza , fra gli amplessi vili Giaccia d’ un servo . Parte avanza ancora. Parte ebbe fin dell’ opra intrapresa ; Fermo qui tenga l’ancora il naviglio. Arte ^am. c (67) Proteo figliuol di Nettuno era un Dio mari-^ no , che si solwa cangiare in ^alsivoglia forma y e di qui ha origine il proverbio : Proteo mutabilior. I3ite e ridite lodi al delio Nome: La desiata preda è alfin caduta In queste reti. A’versi miei ramante Lieto conceda rigogliosa palma; Al Vale ascreo ed al meonio Omero (i) Son Dreferito. Tal di Priamo il figlio (a) Con la rapita^ a Menelao consorte Trionfante spiegò le bianche vele Dair armifera Amìcla, e tal pur era (i) Il Vate ascreò è Esiodo ^ e ph si è veduto al» V annotazione 5 del Lib, /. perchè gli venga dato uts tal nome. Critei de , ad onta della custodia che ne ave¬ va Vargivo Creonte^ senza divenir moglie d*alcuno^ divenne madre d^un figlio, che chiamò Meletigene dal jwmt Me]e«^ in vicinanza del quale parton. Si sa , che essendo Melesigene accieeato , fu sopranno¬ minato Omero, perchè i Cumani chiamavan con tal nome tutti i ciechi ; ma non si sa se questo inimita» ìfil Poeta dicasi meonio perchè Meone fosse suo pa» dre , o perchè da Meone Re de^Lidj fu poscia adot» tato in suo figlio. (a) Paride figlio di Priamo rapì Elena moglie di Menelao nella Città d*Amicla, donde la condusse trionfante in T^oja sua patria Pelope allox che te vinta traeva (J) Sul carro peregrino, o Ippodamia: Perchè, o giovin t’afFretti ? in mezzo alPonde Naviga il tuo naviglio, e lungi è,il poxto Più dt quello ché bramo* A te non’basta Che tratta t’abbia la fanciulla innanzi Io tuo poeta: presa fu con l’arte; Con l’arte ancora conservar si debbe. Non vi bisogna già niìnor virtude Perchè non fu^gan^ritroVatè : è quella Opra del caso , e questa sol delParte. Siimi propizio , o Amore , e Citerea; E tu , Er^tp pur V qhe* il ncfme pqrti ' : D’Àmor , m’assisti» pra a cantar m’accipgo (3) Enomao Re Elìde e^ di Pisa senti coloy, ohe sarebbe eglt-uodid nel ygiorno^ da avesse presoi in isposa la sua figlia Ippodan^a^ Per allontanare dalla medesima à molti giovani , che ambivano d'acquistarsi una 5 I belici fttnóiulia in con^ sorte , gV invitò tutti un giorno a far ^secè il gioco d'una corsa , col patto che. sarebbe^ irpmancabilmente trucidato chi fosse rimasto vinto da lui , e che do-^ vesse > chi aveva la fortuna di vincerlo^ sposare Ip-> podamia. Pelope fu vincitore con Vajnto di bfirtilo , a cui promise , che. nella prima notte de^ suoi spon¬ sali gli avrebbe in ricompensa accordato }L dolce pos¬ sesso 4dla sposa novella. Immernorè egli però della data parola, e del segnalato servigio a lui reso ^ con^ dusse sul carro vincitore in trionfo la bellissima Ip- podamia , e quando Mirtilo gli richiese Vadempirnento delle sue lusinghiere promesse , lo gettò barbaramente in .mare. . . . (4) Da EpMT« , che in greco idioma significa Amo-, re , ha preso il suo nome la Musa Erato. Fu essa, madre di Tamita ^ che cantò il primo di tutti i versi^ amorosi , ed a lei si attribuisce da alcuni greci ùom-^ mentatòri V invenzion della Éiusica c del BaUf^ Cose stupende : con qual arte Amore Tener si possa io vi dirò, bench’ abbia In Vasto mondo ei di vagar diletto. Egli è leggiero , © doppio p^rta al tergo * OrdÌB‘'*di'jpènbo , Onde' riniporgli legge È difiScfr impresa. Àvea'aMa fuga DelP ospito Mibos ckiusa Ogni via, (5) Ma ntì'àmdace sentier trovò con Tali. Poiché Dedalo chiuse il Minotauro, Giustissimo Minos, disse, abbia £ne Ora'il’mio esilio , ed il paterno suolo 11 ceder mio riceva. Io non potei. Perseguitato ogUór da iniqui fati, Vivore in patria, almen morir vi possa. Se a me ricusi un tal favor , che sono Carico d*anni ^ lo concedi al figlio, E se al figlio .noL vuoi ^ lo dona al padre. Queste e molt^ altre ancor cose dicea, • Ma a lui Minos hón permettea il ritorno. Di sua eVentura cèrto», a se medesmo Allor Dedalo disse, hai tu materia Onde mostrar Pingegno; e terra e mare È in poter di Minos : e mare e terra Or ci vieta la foga ; a me rimane Il cammino del ciel ; questo si tenti* — l^tdato , come già si è accennato , fabbricò irs Creta il celebre Labirinto, in cui fu racchiuso il Sfinoiaiiro. A^endògli' Minos vietato d* uscir da quel^ ' io' f non trovò altro mezzo per ritornare alla patria y se non se di fabbricar dell* ali congiungendo insieme varie penne d* aòcelii , ed accingersi in tal guisa a ' 'Volar per il cielo in compagnia d'Icaro suo figlio. Questi per altro innalzò troppo il suo volo, e preci^ pkò miseramente in quel mare , che prese da lui ii nome Icario. Digitized by Google 54 Sommo Giove *, perdona ^ questa impresa: DelP Empireo stellato non aspiro Già le sedi a toccar ; sol questa strada Onde fuggir dal mio Signor mi resta* Se Io stìgio sentiero a me si mostri, 10 r onde stigie varcherò • Debh’ ora I dritti rinnovar di mia natura. I mali aguzzan 1* intelletto. E quando Si avrebbe dato fà che un uom potesse Premer le vie del cielo.? In ordìn vario Dispon le penne , che per V aria sono 11 remo degli augelli ; e unisce insieme Con del ritorto Un 1’ opera lieve. Con cera al foco sciolta insieme accoppia Le parti estreme ; e già della nuov’ arte Era venuta la fatica a fine; Ma intanto che trattava e penne e cera. Rideva il figlio , ignaro che quell* armi Sarian la sua difesa al tergo unite. Con tal naviglio, a lai diceva il Padre, Si può alla Patria far ritorno ; in questa Guisa fuggir Minos, che ogni altra chiude Fuor che T aerea via « Tq che lo pupi, Con questa ch’io inventai arte novella^ Fendi gli aerei spazj ; ma la vista Della Vergin tegea, e del compagno (6) (6) Calisto i Licaone Ra d* Arcadia ^ è soprannominata Tegea, da una Città di tal nome soggetta alV impero del padre della medesima. DaU V illecito commercio , che ebbe essa con Giope , diede alla luce un figlio chiamato Arcade , e fu da Giu¬ none per ciò tra^ormata in Orsa ad oggetto di ven* dicarst deW infedele suo sposo ^ il quale la collocò in oielo fra le stelle col nome , che ancor oggi conserta, d’Orsa Maggiore. Di Boote Orion cinto di spada --— Tu dei fuggir • Con V apprestate penne Mi segui ; io ti precedo, e sia tua cara Batter^ V isteasa via ; da rae guidato Incolume sarai, li’aeree strade Se calcherem troppo vicini al Sole, Al suo caler si scioglierà la oera; Se al mar propinqui batterem le pennei Da’ vapori del mar saran bagnate. Spiega il tuo voi fra ^1 Sole e il mare; i venti Pur anco temi, o figlio ; e all’ aure in preda Dà le tue vele allor che sian propizie. Mentre in tal modo V istruisce ^ ài figlio Il lavoro dispone, e mostra come Muover lo debba : in guisa tal la madre La pennuta ammaestra inferma prole. L’àJe poi di sua man per se costrutte Accomoda al suo tergo, e nel novello Cammin timido libra, in aria il - corpo.. Allor che al volo si accingeva, al figlfo Diò molti baci, e le paterne gnauce Furon di calde lagrime bagnate. Sorgea sul piano un colle assai minore Del monte, e quivi V uno e l’altro corpo Si diede in preda a perigliosa fuga. Mentre le penne sne Dedalo move. Quelle osserva del figlio, e ognor sostiene In aria il corso • Icaro si diletta Del novello sentiero, e ornai deposto Orione figlio Ireo ( annot, 6o del Lib, I. ) Untò di dare un disonesto assalto alla casta Diana ; ma essa lo fece uccìdere da uno scorpione , e poi mossa a pietà lo trasmutò presso a Boote in una costellazione fatta a guisa di spada Ogni timor ^ con arte audace vola Più ibrtemente. Un che insidiava a’ pesci Con la tremula canna, alzato il guardo, Li vide in ariane abbandonò P impresa. Già da sinistra avean passato Samo, E Nasso e Paro e Delio al clario Dio Sommamente gradita ^ ed alla destra Si lasciar dietro Labioto, e Calìnna Per selve ombrosa, e Stampaglia di guadi Feraci in pesci cinta, allor che il figlio Temerario con troppo incauto ardire Spiegò senza ìL suo duce in alto il volo* S’allentano i legami ; al Sol vicina Liquefassi la cera , e i .tenui venti Male sostengon le commosse braccia. Dal sommo cielo spaventato il guardo Rivolse al mare, e dal timor già sorta Si offro al suo sguardo tenebrosa notte. Si liquefò la cera, e i nudi braco! Dibatte ; trema ; e ìnvan ricerca il modo Di sostenersi *« Cadde , e o padre , o padre Gridò cadendo, via son tratto , e T onda Cerulea chiuse al suo parlare il varco. Ma Pinfeiice Padre.(ah non più padre!) Icaro , grida , Icaro , dove sei? Sotto qual asse voli ? Icaro grida, £ nuotanti sul mar mira le penne* Copre P ossa la terra , è prende il mare Il nome suo • Minos già non poteo D’ un uoni frenarle penne ,ed io m’accingo Un Nume alato a trattener? S* inganna Cfii fa ricorso all’ arti emonie, e appresta Dalla tenera fronte del cavallo Lo svelto a forzalppomane. Non Verbe ( 7 ) Pon di Medéa far viv*?re l’amore; Non 1 Tharsfejj^ncàntesmi . Se potesse Una tal'arte ptolàligàrto , avria ' Medea Giasbn', Cfrcfe teénto Ulisse . ( 8 ^ Nè i pallidi apprestati* éill%*dónzelle F'iTtri* Valséro { aU’alrne Son nòcivi, ( 9 ) Ed inspirai) farot .'Ogni delitto Vada put lungi ; se attti essere amato, Amabile ti- ttióstraf I a: ciò^ nTort giova * Solo’ le^ menibtk àlve'r’by^^ e là-faècia. ^ Sii pur Nireó tfaro^ ^11’ aiitibd^ Omero ; ( io) ' ^. t L ; >( 7 ) Q^^àevano gli an tichi , e fra questi ancora Pii- nio ea Aristotile , che si potesse còncìliar l*amore per mezzo éAl^lppòinsLne, cioè di qtàel pézzetté rotondo di carrie .nera ^ che han\ sulla , fronte iì cavalli nati di fres^qp, Jfa Mars^ figlio^^efia/venefica Circe^^ t^aj- ser l a lo ro orig ine i M ar si. Abitarono questi popoli m lidlia non fontani ,àa Uòma ^e Jfùrorio~reputati , èc- celleràPneWarte dellc^ ' niagìq: “ * ' (8) ,iÌÌe«/èa \e Circe fdronp dii^ ihsiAni Ma^he ^ je insieme due a^passioriaté 'mài. cohisposte dmànii\ poicHè 'fiorì pótérono có'loro magici incanti trattenere Ùiasoné\d Utisse i che amavano tèneramente, ‘ ’ (^) t Filtri preparati dalle Maghe , eran composti di fichi salvatici ^ éP uòva e di penne di civetta, di * sangue e di. pòlfnone di ranocchie , e d*os5Ì di cani e 'di serpenti'Sventrati. Lèggasi ài Libro quinto V Ode 'd*Orazio cprìlró Canidia. * ^ (io) Nireo], nafo dd Aglajd e dal Re Cecrope, andò alt*assedio di Trojq ; e vien da Omero nel Li-* hro secondo dell*Iliade lodato per la sua sorprenden^ te bellezza. Ercole amò sommamente Ila figliuol di ‘Teodamahte , c lo condusse con se, quando navigò alla volta di Coléo. MetltP era iri viaggio lo mandò un giórno ad attinger Vacq.ua dal fiume Ascanio nel’» la Misià ma essendo ivi disgraziatarkente caduto^ han finto i poeti , che fosse rapito dalle Nufadi Dea de*fiumu O il tenerello un giorno Ila rapito Dalle callide Najadì : se brami Conservarti Y amor della toA donna, E non vederti abbandonato , aggiogni Deir alma i preg) alla beltà del corpo. È la beltade un ben caduco e frale, Che con gli anni decresce, e a un fisso tempo Fugge mai seiupre • Le violette^ e i gigij Non fioriscono ognor;Ia spina , ^ cui Colta la rosa sìa , rigida viena*,^ ^ ' Vago garzon , i tuoi capelli un giorno Verranno bianchi, e il corpo tuo le rughe Ti solcheranno . Formati ed aggiungi Alla beltade un animo che ^uri: Sol ei riman fino agli estremi roghi* Ni sia rultima ina cura con Farti Ingenuo Padornarlo ^ e di due lingua Renderlo dotto . Non fu bello Dlisso,(ii) (il) Colisse t figlia , come credono alcuni, delVO* etano e dì TeHde, accolse cortesemente il naufrago Ulisse nell* ìsola Ogigia , ov* essa regnala. Dimorò questi per sette anni con la Ninfa suddetta , da cui ebbe varj figli , e poi fu costretto a dividersi da lei per comando de*Numi , quantunque non lasciasse elìa alcun mezzo intentato per ritenerlo sempre appresso di se. Reso Re dei Traci detto odrisio perchè cornane dava alla Traqia nazione degli Odrini, e sitonio^ perchè anticamente la Tracia ^si chiamava Sithon , fu ucciso da Ulisse e da Diomede, mentre andava con un esercito in soccorso di Troja. D* ordine de*suoi Troiani si portò Dolone ad osservar gli andamenti dell*armata de* Greci ; ma incontratosi con Diomede td Ulisse , che pure osservavano la condotta del cam^ po Trojano , svelò a*meiesimi , dopo d*aver preso Vim^ punita y tutte le più segrete determinazioni de* suoi concittadini. Volendo egli poi per premio i cavalli emonj d*Achille , fu ba^aramente trucidato da Ulio^ se e Diomede uccisori di Reso Ma facondo ; c per lui ferito H petto Portar* r equoree Dive. Oh quante volte Di sua partenza si lagnò Calisso^ E dicea che non atte erano a* remi L’onde del mar! Oh quante volte udire Bramò di Troja i casi , ed ei sovente Narrò lo stesso con diversi modi I Stavan sul lido insiem , quando la bella Calisso ehiese la dolente istoria Del Duce odrisio; ed ei con tenue verga ( Mentre a caso la verga in man teqea ) Finge Popra richiesta in sull’arena. Questa» le^disse, è Troja (e fe’sul lido I muri) . È questo il Simoe,e queste fingi Che« sieno le mie tende . Il campo osserva (E intanto lo disegna) che col sangue Sì sparse di Dolon, quando gli emonj Cavalli scaltro d’ involar procura. Fur del sìtenio Reso ivi le tende; In questa uotte da i deitrier rapiti ^ Fui strascinato . Dipingea più cose, Ma improvvisa del mar onda furiosa Via trasse Troja , e col suo Duce ancora . Le trinciere di Reso. Allor la Diva, Vedi quai nomi s’inghiottiron Ponde^ £ vuoi che al tuo cammiò sieno propizie? Ardirai dunque di fissar tua speme In fallace fij^ura? e più del corpo Altro tu non avrai solido e degno? L’accorta compiacenza a noi concilia Gl’ animi, ma l’asprezza e le severe Parole contro noi muovon lo sdegno. Si ha in edio lo sparvier , perchè tra V armi Traggo sua jriU, e i lupi che assalire Hanno in costume il timoroso gregge. Mite è la rondinella , e innocua vive Dall’insidie dell’uomo ; e l’alte torri Abita là colomba a lei gradite. Vadali lungi le liti e i detti amari; Con soavi parole amor si nutre. Stia la discordia tra marito e moglie; Si faggan questi, e credano a vicenda Di difender lor dritti • Ciò conviene Alle tnògli/che ognor funesta dote Recan di lìti . Il dolce suono ascolti Degli • accenti bramati ognor V amica; Legge non havvi per gli amanti ; in loro^ Ìj amore è legge • Parolette grate Reca , e dolce lusinga à lei 1’ orecchio. Onde alla vista tua lieta si faccia. Non io d^ Amor maestro a’ ricohì parlo. Che chi pnote donar > dell’ arte mia Non abbisogna • Chi quando a lui piace, Prendi j può dir, non manca mai d’ingegno. Cedere a Ini dobbiam, che più gradito Sarà dell’opra nostra. Il vate io sono J>e’ poveri, dhe ognor povero amai. Dar doni non poteva, e diei parole. Cauto ognor sìa povero amante , e tenga La lìngua a freno, e soffra quel che un ricco Non soifrirebbe . l^el ponsier mìo torna, Che irato aia di delia mia Bella feci Al crine oltraggio . Un tale sdegno ah quanti Giorni mi fe’ passar pallidi e tristi I Noi credo, e noi compresi , che la vesta Io le stracciassi allor, ma lo diss’ ella, £ comprarne altra a me fu d’ uopo. O voij Che avete ingegno, del Maestro vostro Digitized by Google 6i Fuggite il fallo, e né temete i danni. J8ia la guerra co’ Parti , e ognor la pace Con l’Amica diletta'. Usa gli scherzi, E tutto quel che favorisce Amore. Se a te che l’ami, docil non si mostra Qual vorresti e cortese, il suo rigore So^ri costante , e diverrà benigna. La forza usando, il curvo ramo frangi, Che con dolcezza addirizzar potevi. Varcasi 1’ acqua cón pazienza, e malo Vìnconsi i fiumi, se pigliar tu tenti Contrarie Tonde rapitrici k nuoto.' I numidi leon , le fiere tigri Pan le lusinghe mansuete e miti; Ed al rustico aratro la cervice / A poco a poco sottopone iJ toro. Dell'arcade Atalanta e chi più fiera.(ia) Mostrossi mài? Eppur quella crudele Soggiacque anch’essa al mèrito d* un uomo, Narra la fama , Melamon piangesse, (i3) Sotto un arbor giacente all’ombra, spesso Suoi tristi casi e la crudel Fanciulla. Spesso* portò le ingannatrici reti Sul vinto collo, e con spietato ferro (la) L’arcade Atalanta, figlia di Jasio o d’Aban^ te , fu un.’eccellente cacciatrice ,e si fe* compagna di Diana per consertare illibato il candore della sun verginità, Finta essa p<ù dalla fedele e lunga servitù prestatale da Meleagro o da Melanione , si abbando^ nò finalmente in braccio ni medesimo , ed ebbe in fi^ glio il celebre Partenopeo, ' (i3) Sono tra loro cod diverse le memorie .a- noi lasciate dagli antichi scrittori riguardo a Melanione 0 aid Atalanta , che è impossibile il dar de’ medesimi «Hit distìnta notizia Uccise spesso i barbari cinghiali. L’arco teso d’Ileo soffri piagato, Ma conoscea più ancor 1’ arco d’ Amore. Non vo’che armato le menalie selve Tu salga, e che le reti al collo porti; Hò già t’impongo il petto alle vibrate Saette espor • Dolci più assai saranno, Se udir mi vuoi, dell’ arte mia le leggi. A lei che è ripugnante , ognora cedi; E vincitore partirai cedendo. Eseguisci fedel ciò eh’ ella impone: Biasma Quello che biasima, ed approva Quel che le piace , e il suo parlar seconda. Di rider ti ricordo al riso suo. Di piangere al suo pianto , e i moti ancora A suo piacer del vento tuo componi. Se giocale nella man P eburneo dado ( 14 ) Agita , tu ancor l’agita, e lo getta (14) Oltre il gioco de* dadi era presso i Romani in uso quello dclVAlìosso detto da loro Talut, che con^ sistema in piccoli quadrati d*osso j ne* quattro lati de* quali erano notati separatamente i numeri uno, tre, quattro, sette. Doleva pagar senza lucr^o una mone^ ta chi avesse gettato l* uno, che chiamatasi Ganis o Òanicula. Guadagnata sei monete e ciò che ateta perduto nel gettare il Cane chi scoprita la parte op* posta all* uno ^ cioè il sette che ateta il nome di * Yenns o Gons,* ne guadagnata tre chi gettata il Seniofper cui intendetasi il tre, e quattro chi ates^ se rappresentato U Ghio, che esprimeva il numero quattro. Si rileva da**latini Scrittori che fu VAliosso giocato anche ditersamente ; ma basta per la chiara intelligenza di questi versi U sapere che erano i Cani dannosi ^ mentre esprimevano l* ano ^per cui si dote^ va senza lucro pagare una moneta. Il Gioco , ohe rasfvmbra a guerra , è , come facilmente ri QQtnprew* dp ^ qugllo degli Scacchi, Digitized by Google In modo cV«lIa vinca. L’Àliosso Se trae, farai in maniera cbe la pena Non soffra d’ ^sser vinta, e tuoi saranno Sempre i dannosi cani ; e s’ ella' pone Opera a gioco « che rassembri a guerra, Fa cbo perisca dal nemico vinto Il tno soldato. Sulle verghe steso Tieni r ombrello , e, nella densa folla Per dove idee passare , il varco l’apri; Vicino al letto non t’incresca porre Lo scanno, e fai piede dilioato togli E riponi la scarpa .iDei sovente. Benché ti prenda orror , della Padrona L’algente,mano riscaldare al seno. Non creder turpe, henchè a te rassembri. Con destra ingenna sostener lo specchio, Se a lei ciò piacerà. Chi ’l fiero sdegna (i5) Otaneb.della matrigna in domar mostri. Che ora è nel Ciel , ohe primo egli sostenne. Si crede , tra Ife joniche Fanciulle Che tenesse il cestello, e che filasse Rnstiche lane . Si l’Eroe tirinzio Servi all’impero d'una Bella ; or dnnqne Dubiti di soffrir ciò eh’ei sofferse? Se ti comanda esser presente al Foro -Previeni 1’ ora del comando , e sempre ^eoU ' mnst valorosamente ( Annoi. 17. del Lib. I. ) tutu s mostriyche contro di lui suscitò la tua rnatngna Giunone, e sostenne sulle sue spai- ad Atlante affa- incarico. Innamoratosi egli poi dH)n- '‘iff reale della Lidia, vestì abiti femi- mh, e m qualità d’ancella iella medesima filò vil¬ mente l»inne con quella man valorosa, con cui per le rmrabilt sue gesta s’ era colmato di gloria. ^ Digitized by Google Ne partirai più tardi • Se ^t* impoiàfe Di gire in altro loco’, ogni altra cura Lascia da parte , corri ^ uè la turba '' LMutrapreso cammìti trattenga , e còma ‘ Servo, sé vuol, tu Taccompagna a Casa^- Tolte le mense , e^già sorta^ la liOtte; > * Se fosse in villa,*e tf dicesse: vr<eni> ^ ^ Col piè premi la via , se manca il eocebiò, Che Amor odia gl’inerti . Il btiitasoosò Tempo nè la Canicola assetàtai ^ ' n / Nè per scaduta nòve il sentìev biénco - ^ p’ ostacolò ti aien ^ Simile a gòfei/ra * ^ E r amore , da cui vadano lungi ' ‘ ^ '• I codardi . Nò , sotéo tali itìsegné* II timid’ uòmo guerreggiar tiòu' debbe* La notte, il verno, disastrose strade, ' ’ Dolor cocenti, e ogni altr’aspra fatica Racchiudono que’mòlli ttccampaihetttli* Di pioggik dalle untole tìiscioitu'^ * ‘ ‘ * Ben spesso intrisa avrai la -veste,-è‘Spesso Gelato giacerai sul nudo suolo." ^ Dicesi che dì Cinto il'Nume' nu giorno (i 6) Pascesse le ierée vacche d’ Admeto, £ s’ascondesse in umil capanna.' A chi non converrà ciò che coriTenné ‘ Apollo, che dicesi i/-Nuine- 4 ì'Cinto fper^hè ( Ànrvot. 1^9. del Lib, /. ) nacqueove giace 4 in tal monte y sentì il pin, intenso, dolere ^ quanda Giove fulminò Esculapio di , lui figlio , perchè faceva rivivere i morti con V ajuto della -Medicina. Per veti^ dicenrA pertanto in qualche maniera d* una tale ingiur- ria , egli uccise i. Ciclopi y che fabbricavano le saette a quel Nume supremo , il quale lo spogliò per ques to della divinità, e lo costrinse a pascolar le vacithe 4 * Admeto Re de* Ferei in te staglia^ A Febo ? O ta, che in lungo amor ^impegni, Il fasto lascia • Se un cammiii seeuro £ facil ti si nega, e se alla porta Ritrovi impedimento, allor t’insinua Dal precipizio d’ùn aperto tetto, O da ascoso sentier d’ alta finestra. Lieta ne fia, quando del tuo periglio Intenda la cagion ; di certo amore Sarà per la tua Bella un grato pegno. Spesso potevi dalla tua Diletta Star lontanerò Leandro, ma varcavi ( L’ onda del roar, perchè le fosse noto L’ amante core • Guadagnar l’ancelle Non abbi a vile, e in special modo quella. Che sarà favorita , e ancora i servi. Non temer d’ avvilirti : ognun saluta Col proprio nome, e alle lor destre umili, Ambizioso , d'unir cerca la tua; Ma al servo che ti prega ( è lieve spesa) Porgi piccoli doni, ed in quel giorno Pure air ancella, in cui restò ingannata Leandro amò Con tal forza Ero Sacerdotessa di venere , che spesse volte varcò VEllesponto per visi^ tarla. Essa accendeva Una fiaccola sopra una torre, affinchè potesse il suo Amante camminar piu sicura^ mente , e quando intese , che era il medesimo misera^ mente annegato , si diede in preda aW ultima dispe-* razione , e slanciossi intrepida nel mare, {ìÒ) Ai q di Luglio celebravasi in Roma splendi--^ damente una festa, a cui concorrevano le Servé‘ ve^ stile a Matrone romane , in memoria delV util servii gio che avevano esse in tal giorno prestato alla Pu^ tria. Ecco ciò che ne dice il Macrohio, Post Urbe in captam , cum aedatus esset gallicus motus, res vero publica esset ad tenue reducta, Finìtimi opportuni- Digitized by Google 66 Da veste maritai gallica truppa, E che pagò d’ un folle ardire il fio. Ti fida a me ; fa tua la plebe, e sempre Sia fra (juesta V ascierò , e quel che giace Sulla porta del Talamo . Io non voglio Che ricchi doni appresti alla Padrona; Piccioli sian, ma convenienti e accorti. Mentre è ferace il campo , e mentre i rami Piegan pel peso di mature frutta. Porti fanciullo in un cestel gli agresti Doni , e dir ben potrai che da una villa Suburbana ti vengano, quantunque tatem invadendi romani nominis aucupati praeferant sibi Postlmmium Livium, Fideoatiam Dictatorem , qui, mandatis ad Senatum misis, postalayit , nt si yelleut reliquias suae ciyitatis manere , matres fa* Hiilias sibi et yirgines dederentur . Cumque Patres esseat in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla no¬ mine Phìlotib teu/ Tutela , poilicita est se cum cae- teris ancillis sub nomine Dominarum ad hostes ita- ram : habituqae matrnm familiat et yirginum sumpto, hostibas cum prosequeatium lacrjmis ad iidem do¬ lorii iogestae sunt. Quae cum a Livio in castris di- stributae faissent, viros plurimo vino proyocarunt , diem fbstum apud se esse simulantes. Quibus sopo- ratis , ex arbore caprifico, quae castris erat proxima, signum Romania dederunt, qni oum repentina incur¬ sione snperassent ; memor beneficii Senatus, omnet ancillas manu jùssit emitti, dotemque eis ex publico fecit, et ornatum quo tunc erant usae, gestare cou- cesfit, diemque ìpsum Nonas Gaprotinas nuncupa- yit ab illa Caprifico , ex qua signum yictoriae coe- perunt, sacrificiumque statuit annua solemnitate ce<- lebrandum, cui lac, quod ex Caprifico manat, propter memoriam facti praecedentis adhibetur. Questa è la fedele esposizione del fatto, d cui non pare che si uniformi il Poeta Tu gli abbi compri nella laera via. ( 19 ) Rechi pur Tu ve » e le aastagne care Un giorno ad Amafilli, e che ora a vile Parehè dono legger avrebbe anch* esso, Co’t^rdi pure e con ghirlanda mostra Che memor vivi della tna padrona. Si compra turpemente con tai mezzi D’orbo vecchio l’affetto, e la speranza Di godere i suoi beni. Ahìperan qnelli Che Così vii disegno a donar move. E che ! t’insegnerò teneri versi Io diluviar Fa me lo credi, i carmi Non ton molto graditi ; e benché Iodi Ottengano talor, maggior lusinga Han gli splendidi doni : Un ricco piace Ancor che nato in barbara contrada. Questa è per vero dir l’età dell’oro^ Giacché con Voto compransi gli onori, Criacchè con V oro piegatisi le Belle. Se tu medesmo con le Mute, Omero, Venga privo di doni, ab ! tu seaeciato Sarai di casa. Di fanciulle dotte ^ Havvi turba rarissima , ed un’altra. Che sé reputa tal benché ignorante, L’une e l’altre s’encomino co’versi^ Che ottengan dal lettor lodo pel suono Facile e lusinghiero \ a queste e a quelle Tenue e da aVersi a vii sembrerà dono In loro onore vigilato carme. ^ Usa in maniera ché V amica ognora (19) VendéQasim Ronia ogni torta di frutti e d*al^ tri generi nella Via sacra, che acquistotti un tal nó¬ me , perchè furono ivi conclusi con gran^ sagrifizf i patti fra Romolo e Tazior 68 A far ti preghi quel che util ti sembra, E che far già volevi. Se promessa Abbi ad alcun de’ Cuoi' la li ber Cade, (ao) Fa pur elisegli la chiegga alla padrona. Se ta rimetti al servo il suo delitto,^ Se le catene sue dure disciogU, ; Te ne sia debitrice. ^ A lei la •gloria> A tediatile venga. Sul:tuo eore Mostra ohe elFabbia un prepotènte impèro^ Ma illesi serba ognora i dritti tuoi. Tu che nutrì desio della tua cara ' ^ ^ Consfetvarti V amor , fà oh’ ella pensi Che tu getonito sei di sua Heltade.* Se le sue menàbra in vtiria veste avvolga, Le sii largo (U lodi, e se le doe ' . Cinge, dirai che accrescono i suoi Veazi. Se poi s* adorna con aurata veste, * Dille che più splendente èli’è dell’ oro. Se prende la pelUcela , e tu T approva; * Se la tomita lieve , allora, esclama ' Che, desta incendj, e con ièmmes^a voce Pregala che schivar proeuii il. freddo. Sia il orine in duo diviso, oppur da oaldo Ferro ritorta, tu dirai : mi piace. Di lèi, se.danai, ammirerai le,braccia, Di lei, ^ canta, 1* armoniosa voce,. • ' E a lei dimostra con dolèntii note^ Perchè fpresto diè fine, il tuo scontento. Loda gli abbmcciamenti ,:e in suon piètoso E querulo ie mostra con KJUéiI foraa .. (ao) Presso i Homani eruno cortamente i servi in una condizione sì miserache (^iputavansi fortuna^- a , quando i padroni per un effetto di^somma cUmon^n accordavano loro la liberty, ^ -, Digitized by Google 6p D’insolita jilaowrfe: il. cor t’inonda. Gon questi- un4incoc che-|}iù. violenta Foss’ ella di Medusa ^ e indite: e giusta (ai) Dìvetrài.co», l’ ansante,* Sia .tua cura - Di non sembrane -iagantiatore ; e il volto Kon distrugga i tnoi> detti. Ascosa Térte Giova j e svelata la vergogna apporta, E Ii^ tfe. 00» ragiOp j toglie per. sempre. Spesso Sotba l’ÌAu)tjnA0tì,( iiti quella bella Parte dall’sanitOf,-^ cui vosaeggia Priva Del purpureo, lioór ; rieolnta » quando Il freddo,«cura la?f»reiuej ed era il «aldo La soioglie,). Pìncostante. aere d cagione Di languore, alle-metubra,* Elhi^pur viva Sana, masO'.inat giaceja-in, letto in ferma. Soffrendo. ..drd tmaligqogciol V Infinstoi La tua pìetade:;ecP AQt^ctW> palese Sia alloca .alla fanqiullaj^ fi getta il aenae Di ciO .cbe mieter, debbi, a larga falce.' Nè del liingaauo mal poja',ti, prenda^ , E faccia» le tue man cid che permette. Te rimiri piangente, ed i .tuoi baci : Non r.inore«qa;S<^l-Ìr,;'flon arse labbia , Beva il tàO ;piantp,. 4 Ì» .ciel voti farai. Ma ognor,.palesi,,e di narmr: ti .piaccia Be» spesso,fausti' sogni..:Àn| sua'magione Guida la-ivacohiarella , che con ?ìolfo iaa) (ai) ]ffedasa figlia di Forci^'ed ufl'a delle tre Gorgoni, incontrò-lo tdogn» di Minerva , perché à prestò all’ impudiche iooglie, di Nettuno • nel Tempio della medesima* Questa Dea le trasformò^ pertanto i capelli in serpenti, e fece si che fosse convertito in -sasso chiunque ardiva di riguardarla. (ìa) ponducivàn gli antichi le vecchiarelle nello àuse d^gV frifermi , affinché con le lor preghiere di Purifichi la stanza e insieme il letto, E con tremola man T ova le rechi. Di tua premura avrà cosi 1* amica Kon dubbj segni, e con tai mezzi molti Far dalle Belle istituiti eredi. Ma deir inferma per soverchia cura Deh non volerti procacciar lo/sdegno; Àbbian tuoi dolci uffioj il lor confinej Non le vietare il cibo ; il tuo rivale, • E non la destra tua* pòrga la tazaa Colma de* succhi amari. Or che n^ll* alto ^ Del mar solca la nave, usar non dei Lo stesso vento, con cui già dal lido Le vele hai sciolto. Mentre Amor va errando Novello ancor, con Taso forza acquisti; Stabil verrà, se lo saprai ' nutrire. Ebbe vitel le tue carezze il toro, Che or è de'tuoi timori oggetto, e Talbore, Sotto cui posi , un di fu tenue ^etga. Nasce povero d'acque il fittnré , e forza Acquista nel suo corso, e dà Ogni parte Gli vien tributo di novello umore. S’accostumi con te, che nulla puote Più di tal cosuetudiue giovarti. Mentre l’adeschi, a te grave* non sia Di soffrire ogni tedio • Abbia te sempre Dinanzi al guardò ; ognor tuoi détti ascólti; La notte e il di le pinga il volto tuo* Ma quando poi sicura avrai fiducia Di poter esser ricercato, allora Scacciassero Sa quelle, gli spettri. Epicuro deve soffrire i rimproveri degli Stoici, e VOratore Eschino quei di Demostene , perchè avevano le lor madri Ulk simile impiego che riputavasi vile* Digitized by Google 7 ^ Vanne pur lungi, che la cura sua Sarai benché lontan . Prendi riposo; Ciò che s’afBda al campo riposato Bende ei ben generoso e l’arsa terra Bey e l’acqua del ciel. Finché pxesente (a 3 ) Fa a Filli Demofonte, il di lei seno Senti mediocre amor , ma in vasto incendio Arse allor che le vele ci diede^’ venti. Mentre vivea lontan l’astuto UÌìsse (a 4 ) Penelope soffriva cura mordaeCr Tu ti dolesti pur, Laodamla, (aS) Lontan Protesilao. Brieve tardanza £ mai sempre sicara. Allevia il tempo 11 dolor dell’assenza ^ e dal pensiero > e dà loco a nuovo amor 1’ assente* Mentre tu , Menelao, stavi lontano (26), (a 3 ) Fillidt, figlia di lÀcurgo He di 'Tracia , rice* Vè cortesemente nella Reggia e nel letto il naufrago Demofoonte figlw di Teseo. Quandi egli partì per % Città d* Atene ., colera chiamato dalla cupidigia di regnare , le diede parola di ritornarsene a lei dentro un mese . Aspettò Fillide lungo tempo il suo caro sposo, e poi afflitta e disperata per la tardanza di lui , si tolse da se stessa crudelmente la vita. È noto il verace affetto che aoea Penelope pet Ulisse suo spesole però si può facilmente compren¬ dere quanto fosse vivo il suo dolore per la lunga di¬ mora che fece fi medesimo alV assedio di Troja. ^uS^ Laodamia amo sì ardentemente Protesilao detto in latino Phyllacides daFilaco.4uo avo, che fu sem¬ pre occupata dal più vivo dolore mentre era esso al- V assedio di Troja , e fece far del medesimo dopo la sua morte , una statua di cera , che ogni notte pone- vasi nel letto quando vi andava a dormire. Menelao trovavasi in Vreta , ove .l* aveano ri¬ chiamato i suoi affari , quando Paride di lui confi- mcpte gli rapì la bellissima E.lena pia consorte Sulle piume giacer sole non volle Siena, e nella notte al caldo seno l)eir ospite fu striata. E chi mai puote Di ciò nutriremo Menelao, stupore? Solo partivi, e nel medesmo tetto Era la moglie e T ospite. In custodia T,ii folle le colombe al. falco fidi, Ed al montano lupo il pieno ovile? Siena non ha colpa, e non commise L’adultero delitto ; ei fece quello Che tu faresti, e che farebbe ognuno. Ad esserti iiifedel la donna sfórzi^.j Se il tempo e il loco a lei concedi. Quale Oonsiglio ella usò mai se non il tuo? Che dovea far ? Il suo marito è lungi, Ed un amabil ospite presente, E giacer sola teme in vacuo letto. Ciò a Menelao era noto. Io dal delitto Siena assolvo ; usar volle di quella Libertà, che il marito a lei concesse Cortese c umano. Non così feroce Flavo cinghiai si mostra in mezzo all’ira Contro i rabidi cani, allorché il dente Fulmineo rota , nè così lionessa Che a’cari figli suoi porga le mamme, Nè da piè ignaro vipera calcata ; Coni’ àrde e mostra 1 ’ agitata mente Donna che la rivai trovi nel letto Del suo consorte : e corre , e dà di piglio Al ferrò e al foco, e ogni decor deposto, Rassembrà una Baccante. La spietata (27) Medea nel sangue vendicò de’figlj ^- fay) Vedaii V annotaz. 89 del Lib Del marito il misfatto ^ ed i violati Dritti di sposa. Àltr^empia genitrice, (28) Mirala in rondinella trasformata. Or di sangue macchiato il petto porta. Tali delitti sciolgono V amore Meglio composto e più costante ; e cauto Gli dee r uomo fuggir, gli dee temere. Nè ad una sola donna io ti condanno; Portin migliore augurio i sommi Dei ! Così rigida legge appena puote Seguir sposa novella. Abbiano pure Loco gli scherzi, ma celar ti piaccia Sotto furto modesto il fallo tuo. Da cui già non voler cercar la gloria. Altra non mai conosca i doni tuoi; Nè prefigger tu dei 1 * ora medesma Agli amori furtivi, e in un sol loco Condur le belle, onde non le sorprenda La donna tua ne’ noti nascohdiglj ; E quante volte scrìvi , i fogli osserva; Che molte leggeran più assai di quello Che tu loro scrivesti. Amante offesa Move bene a ragion Tarmi, e sovente Come a lei desti, a te di duol dà causa. Mentre il figlio d'Atréo fu d’ una sola (29) Ov. Arte d^am. d (a 3 ) Progne figlia di Pandìone, e moglie di Teseo ^ fu dagli Dei cangiata in Rondine, perchè vendicane dosi deW ingiuria recata da Teseo a Filomena di lei sorella , uccise Iti suo figlio ^e lo apprestò al Padre barbaramente per cibo, (39) Agamennone rapì Criseide figlia di Crise cerdote d*Apollo , il quale in abiti sacerdotali si portò inutilmente dal medesimo per ricuperarla j tolse Bri* seide ai Achille ; e condusse poi in Grecia Cassandra Contentò e pago, quella visse casta. Ma per i vìej del marito poi Divenne infame. Inteso avèa che Crise, Le fasce in capo e il lauro in man portando, Ottener non potè 1* amata figlia. Inteso avea il tuo ratto, il tuo rossore, O Briseide, e per quai turpi dimore Fosse la guerra prolungata. Queste Cose la fama a lei narrava. Vide Con gli occhi prhprj poi la figlia stessa Di Priamo : vincitor fosti ad un tempo E preda, o Agamennon , della tua preda. Nel cor , nel letto ricevè ella poscia Il figlio di Tieste, e vendicossi Così de’falli del marito infido. Gli amori tuoi tener cerca nascosti. Ma se fian noti e manifesti, sempre Però li nega , nè ti mostra allora Nè più sommesso o più giocondo : reo Ti fa ria ciò scoprir. Novelle prove Le dà deir amor tuo. Queste il sostegno Son della pace. La tua prima amante Fa che di ciò non abbia unqua contezza. Havvi chi la nociva erba consiglia Santoreggia di prender; ma ciò stimò Atro veleno. Mischian altri il pepe Nel seme dell’ortica , e nell’ annoso Vino tritano il callido pilatro. , figlia di Priamo , la qual fu a luì concassa nella di* Vision della preda. Clitennestra sua moglie, e figlia di Tindaro non potè reggere a tanta infedeltà , e /?«- rò accolse nel letto Egisto figlio^ di Tieste , da cui ' { Annotaz. 88 del I*) uccidere il suo marito. La Dea che sul ombroso Érice monte ( 3 o) Ave il suo tempio, no , soffrir non puote Che siau forzati i suoi piacer. Si prenda Pure il candido Bulbo che a noi manda La Città di Megara, e la salace Erba che cresce ne’giardini. L’ova, L’imetto mel, del pin le acute noci Si prendan pur. Perchè alla medie’ arte, Erato , or tu ti volgi f II cocchio nostro Debbe più da vicin toccar la meta. Tu che celavi per consiglio mio Poc* anzi i tuoi delitti , or altra strada Batti, e per mio consiglio i furti scopri. Nè di volubil già merto la taccia: Non col medesmo vento i passeggieri Porta la curva nave ; ora si corre Col tracioBorea, ed or con Euro, e spesso( 31 ) Dal Zeffiro si fan goiihe le vele, Talor da Noto. Osserva come in cocchio L’auriga ora le brìglie allenta , ed ora Frena con l’arte i rapidi cavalli. Compiacenza servii le rende ingrate, E amor senza rivale illanguidisce. Se la fortuna sia propizia, Talme Divengono lascive , e faci! cosa ( 3 o) Venere aveva un magnifico Tempio in Sicilia sul monte Erice , donde fu detta firicina. , Sotto il nome di Bulbo iniendonsi tutte^ le radici rotonde come agl) e cipolle , che i Romani facevan venire dalla Città di Megara fabbricata da Alcatoo figlio di Pelope. {jòi) Il vento Borea f spirando a Settentrione , vien qià dette treicio perchè la Tracia è più settentrional della Grecia y e dell* Italia, Euro spira da Levante [ Zeffiro da ponente, e Noto da Mezzogiorno, Non è serbare in mezzo allieti eventi IL cor tranquillo. Come lieve foco, Che perduto abbia a gradi il suo vigore, Ascpndesi , e nell’ ultime faville La cenere biancheggiale se v’unisci Zolfo , Testinta fiamma manifesta, E a splender torna il consueto lume; Così ove pigra e torpida si giaccia L’alma, destar cop forti e lusinghieri Stimoli è d’uopo in essa allor Tamore. Fa che di te paventi : ognor riscalda L’intiepidito core, e impallidisca Al, solo udir che tu infedel le sia. Oh quattro volte e quante io non so dire Felice quei, di cui si lagna offesa La sua fanciulla, e che giugnendo annunzio D’un tal delitto alle sue triste orecchie Cade, e il color le manca e la favellai Ah foss’io quello, a cui furente straccia Il crine ! ah foss’ io quello a cui con l’unghie Sgraffia le gote, che or piangente mira Or con bieco ciglio, e senza cui Vorria , ma non può vivere ! Se chièdi Il tempo , onde di te la lasci offesa Lagnarsi, io ti dirò : sia questo breve. Perchè lo sdegno suo forza maggiore Con dimora soverchia non acquisti. Con le tue braccia il bianco collo cingi^ E piangente nel tuo seno l’accogli; Asciuga co* tuoi baci il . pianto suo, E i piaceri di Venere concedi A lei che piange. Già la pace è fatta; Con questo mezzo sol cessa lo sdegne. Se feroce divenga, e a te rassembri Veramente nemica » allor le chiedi Un dolce amplesso , e la vedrai placata. Ivi déposte Varmi è la concordia^ £d in qael loco » a me lo credi , nacque La tenera amistade. Le colombe. Che già fecero guerra , i rostri insieme Dolcemente congiungono ; di quelle 11 mormorio son voci, e son carezze. Fu il mondo in prima una confusa mole; Non ordine regnò, non vi fu legge ; £ stelle e terra e mar solo una faccia Mostravan ; sulla terra il ciel fu posto E fu dal mar la terra circondata, £ diviso cessò l’inane caos. Presero ad abitar le fiere allora Entro le selve ; a star gli augelli la aria; £ s’ascosero i pesci entro dell* onde. L’uomo errò allor ne^aoUtarj campi. Ma rozao 9 inerte corpo, e senza genio* T'u il bosco la sua casa ; il cibo l* erba; Lie frondi il letto ; e già per lungo tempo Visser fra loro sconosciuti. Dicesi, Che le feroci loro alme piegasse La dolce voluttà. Lo steiso loco Abitarono insiem Tuoibo e la donna; Non da maestro furon fatti dotti Di ciò che dovean far ; Venere loia La dolce opra compì senz’arte alcuna. Trova da amar Paugel dolce compagna, E in mezzo all’acqae pur con chi s’accoppj Non manca al pesce. Il maschio ainato segue La cerva, ed il serpente a’dolci inviti. Della femmina cede. Insiem congiunta La cagna al can s’annoda. Il suo montone Soffre lieta Tagnella; la giovenca Gialiva è col torello, e la stizzosa Capra 1* immondo becco non disdegna. Parenti le cavalle i maschj segnono Per lungo spazio , e varcan fino i fiumi Che li tengon divisi. A che più tardi ? T’affretta dunque , e alla sdegnata porgi Il bramato sollievo ; questo calma L’ atroce suo dolore, e questo vince I succhi d* Esculapio • Il fallo tuo Dei con ciò cancellar , tornarle in grazia. Mentr’ io cantava queste cose, Apollo apparve » e mosse dell’ aurata lira Col pollice le corde • In man tenea L’ alloro, di cui cinta avea la chioma; ^Queir ammirando vate allor mi disse: O de’ lascivi amor maestro , guida 1 tuoi scolari alfine al tempio mio; (3a) Ivi sta incisa la famosa legge, Che conoscer se stesso a ognuno impone. Amar solo potrà prudentemente Quegli che se medesmo appien conosce, E alle sne forze sa adattar Tìmprese. Procuri che la Bella ognor Io guardi Quel cui Natura diè leggiadra faccia. Si mostri spesso con le spalle ìgnude Chi candide ha le membra ; parli pure Quei che lo fa soavemente, e canti, E beva quel che a bevere e a cantare Con arte apprese, ma non mai interrompa (3a) Alludtd al Tempia consacrato in Delfo ad Apollo ove era scritta a caratteri à* oro qaest^ aurea legge: nosco te ipiam L’altrui discorw P eloquente, e in mezzo Al ragionar non reciti importuno I suoi carmi il Poeta . In questa guisa Febo i^egnomnii, e. voi di Febo adesso Seguit^e i precetti. Ah no ! non ponno Mancar di fe gli oracoli d’ Apollo. Or son chiamato a più'vicini oggetti. Chi sagace amerà ; chi la nostr’ arte In uso saprà porre f avrà vittoria. Non sempre i campì rendon con usura Le biade seminate, e a dubbia n^ve , Non sempre fausto è il vento. Ah! sono brevi I piaceri d’ amor , lunghe le pene. Onde Amante a soffrire il cor disponga: Quante in Ato son lepri , e quante in Ibla Pascolan api, quante olive accoglie II verd' arbor di Palla, • quante il lido Del mat conchiglie ; tanti son gli affanni Che soffrenti in amor , tanti gli strali Jlal felo intrisi che ci passan V alma. A te diran che usci fuora di casa Quando con gli occhi tuoi forse la vedi. Ma creder dei che uscì, che vedi il faUo. Mella notte promessa a te la porta Forse chiusa sarà ; soffri, e le membra Riposa e adagia sull’immonda terra. Mendace ancella forse in tuon superbo Dirà; perchè le nostre porte assedjf Cortese e supplichevole stropiccia Il limitar della crudel Fanciulla, ^ E al capo tolte ivi le rose appendi. Quando vorrà, t'appressa, e quando il vieta Tu vanne lungi. Uomo non dee sincero Di sua presenza far soffrir la noja. Digitized by Google 8o Non sempre con ragion ti potrà Jirer A me fuggir costui non è permesso* Non creder turpe di soffrir ingiurie, Nè d* esser dalla tua Bella battuto, Nè sul tenero piè d’imprimer baci. Ma a che mi fermo nelle tenui cosef Or subietto maggior m’agita l’alma. Io canterò prodigj ; il volgo attonito Ascolti i detti miei, mi sia propizio. A difficile impresa ora m’accingo. Che nel difficil sol glòria si merca. Dall’arte una si chiede ardua fatica. Soffri il rivai pazientemente ; teco Starà vittoria , e n’otterrai trionfo. Non già un mortai, male pelasghe querce(33) Ti dieron tai precetti . Ah i iio, non puote Dir r artè mia di ciò cosa maggiore. Farà un cenno amoroso al tuo rivale, E tu lo soffri ; sctiverà , e t’ astieni Dal toccar le sue carte ; e venga e tomi Senza le tue doglianze ove le piace* Con legittima moglie usi il marito Quest’indulgenza pure, alior che notte Le tenebre distende, e il sonno regna. Non io, Io debbo confessar, non sono In quest’arte perfetto. E che far deggiof Io de’ precetti miei minor mi trovo. Io soffrirò che, me presente, un segno Si faccia alla mia Bella, e il freno all’ira Io potrò por ? Ah mi ricordo ancora ^3) Fabbricarono i Pelasgi un Tempio dedicalo a Giovò , in vicinanza del quale era situato un bosco di querce , da cui davano le colomba risposta umana Che il suo marito nn di le diede un bacio, Ed io del bacio a lei feci querela; Abbonda il nostro amor di crudeltade. Non una volta sol mi fu nocivo Un vizio tal ; piti dotto invero è quello Per cui, lieto il marito, in casa ingresso Hanno altri amanti. Ma saria più grato L’esser di questo ignari. Ah lascia dunque D’amore i furti ascosi , onde non fugga Dal vinto labro, confessando i fallì, Lungi il pudor. Deh risparmiate, o amanti. Di sorprender colpevoli le amate. Schetzino pur , ma almeno a se medesme Perauadan che il fer’ solo in parole. Sorprese, in esse pel rivai maggiore Si fa r affetto ; e dove egual la sorte Fa di due, 1* uno e Paltro son costanti La causa in sostener del danno loro. Favola iu tutto il elei nota si narra: Venere e Marte dagP inganni presi Pur di Vulcan. Ferito il petto avea Marte per Vener da un apaore insano, E divenuto di guerriero amante. Nè rustica o difficile mostroàsi (Non v’è di questa Diva altra jpiù molle) Venere al suppliéhevole Gradivo (34). Oh quante voltè la lasciva risé ^ da (34) Marte si Marna Gradivo da apa/vav, ehe si^ grufiea in greco linguaggio vtbraziorfe d'AVta. Aven^ do Giooo preeijntaio Vulcano in Lenno 'per 1 la defar-^ mità del suo corpo, si tuppè questo misero Diojin tal caduta una gamba ^ e così divenendo zoppo ^ di^ canne ancorst mSgiortncnU deforme. Digitized by Google Sa ^ Di Valcano pei piedi e per le mani Nere e incallite pel lavoro e il foco. Contraffaceva pur di Marte in faccia Sempre piena dì grazie il suo marito^ Ma solean ben celare i primi amplessi, E coprian col pudore il fallo loro; Ma il Sol che tutto vede ( e chi ingannare 11 Sol può maif ) fece a Vulcan palesi L’ opre della Consorte • Ah quai ne porgi Funesti e perigliosi, o Sole, esetuplit Perchè del tuo tacere a lei non chiedi Un dono , eh* avrebb* ella il tuo silenzio Potuto compensare in mille modi. Vulcan sopra e d’intorno adatta al letto Un* invisìbil rete , e finge a Lenno Di far viaggio : a’ noti abbracciamenti Tornan gli amanti, e nudi entrambe sono Ne^ lacci avvinti. Quegli i sonimi Dei Convoca, e fanno L prìgiohier di loro Vago spettacol. Potè appena il pianto Venere allora trattener sul ciglio; Non alla loro nudità potere Oppor la mano, e non coprir la faccia* Uno de’ numi allor ridendo disse : O fortissimo Marte, in me que’ lacci Deh trasferisci pur^ se ti son gravi. Nettuno , appena per le tue preghiere Ebbero i prigionier le membra sciolte. Chela Dea in Pafo, e Marte andonne in tracia. £cco,o Vulcano, il tuo profitto: in prima Celavano il Ipr fallo ; or senza freno Lo commetton, fuggito ogni pudore. Sovente, o stolto , confessar dovrai Che tu dj^rasd da pazzo, e già ( la fama Digitized by Google 83 Karra.) dell’ira tua ti aei pentito* Quest’ io vietai. La 6glìa dionea (35) Or vieta a voi di tender quelP insidie Ch’ ella stessa soffrì. Nè voi cercate Por ne’ lacci il rivai, nò legger quello Che vergato ha^la bella in cifre arcane. Faccian questo (se lor piace) i mariti Che legittimi rese e T onda e il foco. (36) Io'di nuovo, raffermo: in queste carte Nulla vietato dalle leggi chiudo» Nè a pudica Matrona i nostri scherzi Recano ingiuria. Chi a’profani i riti Osò di Cerere svelare, e i sacri ( 87 ) Misteri nati nella tracia Sanio f Non nel' silenzio per coprir gli arcani Gran; virtude abbisogna è colpa grave Però dir'qnfello che (tacer si dehbe^ t Ben a. ragion da Tantalo «loquace (38) Venere , sepondo alcuni , eifbe in madre Dio^ ne 9 e però si chiama la Figlia dionea. (36) Solevano i Romani nelle nozze solenni offerii re alla Sposa V acqua ed il foco \ 'perchè pensavano che si genesUts^ il tutto dall* umore -e dal icàhre ^ ed anzi lavatiri^ Inacqua f stessa i piei^ Sposa ed alla Sposo^ ' , I (87) I Sagrifiz) di Cerere t)ea delle biade, ehe furono , secondò Dtodoro , ' inventati Heltà' Samotrd» eia , si celelfravanà dagli aw^ìd con tal \ segretezza g che acqmdurono il nome di mister (38) Tqntalo , figlio della Ninfa Piote , palesò agli uomini le' supreme, determinazioni, che si manìfesta^^ reno scambievolmente gli Dei in un Convito, cui fu ammesso e^i*pare.da^Giolve.,peTiitaleiempH-^ tà joacpiatO riell^ infermo , iOfl^ à cofitidftaeqMate ,cfudar^ io da una barbara fape, e^ chè è ,eireondatò dàìVacqua e da diversi ' phmi, ékà fuggono àgnor shp'suòl Idìlli i^qmndo *viol*pré*a'^ arsene* Digitized by Google 64 . Fuggono i pomi; o all*assetato labfo L'acqua mai sempre. Citerea comanda In special modo di tener celate Le sacre cerimonie. Io v’ammonisco Che alcun garrulo'a quelle non s’accosti* Se sepolti non restano fra’cesti I mister] di Venere, se i bronzi Per furiose percosse non risuonano, Usi abbiam noi pih moderati, e in mòdo* Che si voglion però tenére ascosi. / Quando le vesti Venere depone, La nudità con la sinistra copre. Nella pubblica via spesso 1 * ugnella. Si unisce al suo compagno, e la fanciulla^ Da tal oggetto altrove il guardo volgew Atto è il talamo chiuso a’furti nostri E a non mirar ciò che la veste > ascóndo* i Non le tenebre noi, ma nube opacUi ì; Cerchiamo, e i luoghi ove 1’ aperta luce - Minor risplenda. Fin d’allor ché il tetto Non difendea dal Sol, non dalla pioggia, £ dava il cibo e in un la quercia albergò. Gli uomini non gustar’ palesemente. I piaceri di' Venfet ma negli antri ^ ' • f i ne^bosqhi; cosi dell’onestade * i preudea cura quella ro^sza gente** \ Ora gli atti si celebraa notturni, , £ nulla più si compra a caro prezzo Che di poter’ parlar: or le donzellò Ovniique cercherai solo onde dica Qiinsla ancora fo. nostra, ed onde .posniA ^ Mòsttktla ò' dito , e &r ohe sia deb vol^ , ' Dc^^b li pòssèsso^tuòVfev;òIa ^ r.«r. poco «iwiihe ^ini «dolSP* aU>Ì , Òose che nègherebbono accadute* £ di favori vantatisi non veri ; E se invàn di toccar, cercare il corpo. Cercano àlmen d’offenderne P onore, Che le accusi la fama ancor che caste. Chiudi, o custode rigido , le porte ; Guarda la tua fanciulla, e cento spranghe A’durissimi stipiti ora opponi. Cosa havvi di sicuro in faccia a questi Adulteri di nome, che creduti Esser desian ciò che tentare invano ? Parchi in parlar noi siam de’veri ainori^ E fedelmente ognor tenghìam celati Col velo deP mistero 1 furti nostri. Deh non voler rimproverar giammai Di nati^ra i difetti alle donzelle. Che fù dissinìularli utile à molti. ^ Perseo che al piè portò le gemìn’ ali (3g) , Tlon del color d* Andromedà lagnossi. Comparve a tutti Andromaca maggiore D’ uim giusta statura , ed Ettor solo (3g) iXèrcurió adatfò *U idi Ud ambedue i piedi di J^érseo^ iluo amiiéo y e fi^ió di Danae e di Giope, de qu§$iix AndrovaeduslegaiOKyad uno scoglio per ra'deillcNeTcìdi,^e,\c]^pe, che dovea^esser dioorata da Ceto mastro marin^, ,perchè Cassìope, madre della medesima ebèè la vanagloria di dire ^ che la sua fi-* glia vinceva > ir^ bellezza le stesse Nereidi, Mosso Perseo a pietà, della' sventurata donzella , uccise il mostro col jmrgli. davanti agli cicchi la testa di Me^ dusa f è dopo d^aveHa in tal guisa saLveta da un tanto pericolo y V ottenne in isposa , he mai le riìf fàpciÒ[ suo fosco colori, essendo ella nata in Etiopia, " Andromaca è figlia di Elione . Re di Tebe e mo* glià di Ettore j il qual chiamava medìo^e la sua statura quantunque fosse veramente sproporziqnatq. Digitized by Google 86 Mediocre la dicea. Quel che or ti lembra Darò a soffrir, deh soffri; e verrà uà giorno Che lieve impresa ti sarà il soffrire^ Mentre ogni pena raddolcisce il tempo. Nuoyo arboscel che in verde scorza cresce^ Cade, se vento placido lo scote ; Ma indorato dal tempo arbor diviene. Resiste a* fieri Noti ^ e alfin s’ adorna , Degl* innestati fratti. Un giorno spio Paò la bruttezza cancellar del corpo,^ , £ sempre il tempo fa sembrar minore Ogni difetto. L* inesperte nari Mal da principio pon soffrir 1* odore Della pelle del toro, ma dalTuso Dome non più risentono mólestia. ^ I vizj ricoprir con dolci nomi Fa di mestier : bruna chiamar si debbo Quella che piùehe pece ha negro il sangue» Se ha gli occhi loschi, a Vener l!as 8 omiglia^^ E se bianchi, a Minerva. Sia 9 Ì scarna ( 40 ) , Che appena in piedi sostener si possa. Gracile la dirai. Nana rassembri, E tu svelta la chiama, e piena quellf .,. Che è turgida oltremodo g, e asconder tenta. Col bene non lontano il vizio ognora. Gli anni mai non cercar , nè sotto quale \ Consol sia nata : al rigido Censore . Tai cure lascierai. Maggior riguardo . Usa per quelle che passate il fiore Hanno di giovinezze » e i più bei giorni, (4.0) Non si sa paacepire corno Ooidio chiami loschi gli occhi di Venere , quando essa fu lodata da Pari^ de. Dubitano alcuni pertanto y che nelF originale la^, ' ripe si 4tiba leggere leu invece di peU» Digitized by Google E cui incomincia a incanutir la chioma* .Utile è questa o più matura etade, 0 giovani ; e aarà ferace in biade Questo campo » ed arar però si debbe. Mentre gli anni il permettono e le forze, Soffrire la fatica. Ah già la curva Vecchiezza con piè tacito s’accosta! O il mar co’ remi solchisi, o la terra Col vomere, o s^impugnin Tarmi fiere, O si usi il fianco, T opra , e la forza Con le fanciulle^è questa una milizia, E con ciò pur s’ accumulan ricchezze. S’ artoge a ciò che la prudenza in loro Maggior sempre delT opere risiede, E l’esperienza sol può far maestro. San compensare dell’ etade i danni Con la mondezza, e in opra e studio ed arto Pongon per ricoprir la tarda etade. Come più brami accarezzarti sanno In mille guise ; in più diversi modi Pittor non puote colorir le tele. Non irritata voluttà per loro Si gode , e danno e gustano il piacere; 10 se non è scambievole Tho in odio, E però fuggo de’garzon P amore. Odio il furor di quella che il concede. Perchè a darlo è forzata, e pensa solo All’ ntil proprio. A me non è gradito 11 piacer che mi dan sol per dovere; Da questo io violentier le donne assolvo. Godo ascoltar le voci che il diletto Mi palesin di loro, e di frenarmi Mi preghino ora, ed or perchè mi affretti. Godo di rimirai languidi gU dicchi . Della mìa bella , che mi dica : è assai. Questi favor natura non concede Air inesperta gìoventCì ; si godono Quando il settimo lustro ornai si compie. Chi soffre sete, il nuovo mosto beva; Di vecchio vin ricolmo a me s’ appresti Vaso che sotto i Consoli vetusti Sia fabbricato. Al sol resiste vecchio Il platano, ed offesi i nudi piedi Sono da’nuovi prati; e chi potria Ad Elena preporre Ermione? Altea (Era forse miglior della sua madre ? Se tu t’ accosti a una noi^, giovin bella, £ sii costante, avrai degna mercede. Già riceve i dae.amanti il conscio lètto; Fuof delle chiuse porte ora rimanti, O Musa ; senaa te sapran ben essi Trovar di che occuparsi, chè lor porge Amore i mezzi. Il valoroso Ettorre (4a) Di cui fu il brando a Troja util cotanto, Giacque pur con Andromaca, ed Achille Con la lirnessia giovine rapita, Allorché dal nemico affaticato Prese ristoro sulle molli piume. Da quelle man di frigio sangue tinte Ricevevi , o‘Brhcide , le carezze, E perciò forse à te più assai gradito Fu alla vittfice destra unir tue meuibra. (4 A Ermione è figlia della famosa Elena moglie di Menelao, (4a) Achille # aseedìafa la Città di Lirnesso , uc¬ cise barbaramente Minete marito della bella Briseide^ che si prese egli stesso in isposa, e che dal noma 4 M(k iiMk Pàtria soprannominata iÀtuwia* Di Venéfe i piaceri » a me lo credi , Non SI deniio affrettar; ma a lunghi torsi Berli. La donnà , se vedrai diletto Che abbia d’èsser toccata , a te non freni Pudore allora inopportuno. Gli occhi Suoi scintillar d*'un tremulo splendore Mirerai , come dalle liquìd’ onde ^ Riflette il Sole i suoi splendidi raggia. ^ Udrai nn lamento e uh dolce mormorio^ Gemiti grati , ed amòtose note. Quando thtte le Vele avrai spiegate, Tu abbandonar non dei la tua diletta. Nè preceder ti debbe ella nel corso. Correte insieme alla prescritta meta. Che il piacer vostro diverrà perfetto. Se giacerete a un tempo stesso vinti. Queste leggi seguir dovete quando A voi concessi siano 02 ] tranquilli, Nè ad iin furtivo oprar timor v* astringa. Quando Tindugio è mal sicuro, allora Tutti forzar si denno i remi, e il fianco Premere del cavai d’acuto sprone. L’opra è condotta al fin. Giovani grati, A me la palma concedete , e il crine Odoroso cìngetemi di mirto. Non presso i Greci Podalirio tanto Fu per la medie’ arte in pregio , Achille Per il valore, e Nestor per pi'udenza; Non fu Calcante così esperto e grande Nel conoscer le viscere, nè Ajaco Nel maneggio dell’armi , e Automedonte Nel condur cocchj ; compio sono espCito E grande nell’amor. Me celebrate, Uomini tutti ; a me si dian le lodi; Nel mondo intero il nome mio ti canti. L* armi io vi porsi come già Vulcano Le diede a Achille. Or con tal doni voi Vincete pur, com’egli vinse un giorno; Ma chi col brando mio potò le fiere Amazzoni atterrar, sopra le vinte Spoglie scriva: Nason ci fa Maestro. Le tenere fanciulle a m^ le preci Ecco che porgono, onde lor cortese Sia de’ precetti miei. Ah t sì, sarete Cura primiera de* futuri carmi porsi contro lo guerriere donne A’ Greci 1’ armi ; or dare a te le deggìo^ Pentesilea, e alle Amazzoni seguaci.(i) Ite alla guerra uguali, e vincan quelle Cui son propizi Venere e il Fanciullo, Che in tutto il mondo ha di volar diletto. Giusto non era il combatter nude Contro gli armati ; e vincerle per voi. Uomini , turpe mi sembrava. Alcuno Dirà fra molti : perchè aggiunger cerchi 11 veleno alle serpi ? e perchè in preda Lasci alle lupe rabide 1’ ovile? Di poche il fallo non vogliate in tutte Diffonder ; pe’ suoi merti ogni Donzella Considerar si dee . Se Menelao Ha di dolersi d’ Elena cagione^ (a) (i) Pentesilea Regina delle Amazzoni andò contro i Greci in soccorso d^ Trojani ,e fu dopo varie glo^ riose azioni uccisa da Achille. Sotto il nome di Greci P intendono però- dal Poeta quegli uomini , che ^ cingono a conquistare le donne qui figurate sotto il nome di Amazzoni. (n) Vedasi V Annotaz, 5 q del Lib. I. e l*Annotaz, ueuSdelldb.If. Ved. Vannot. 38 del Lib. /. eVannot. ao del Lib. II. £ se di Clitennestra i rei costami SoQ gravi ad Agamennon ; se d’Ecleo (3) Il figlio scese co* cavalli vivi. Dalla spietata Enfile^ tradito, Vivo egli stesso a Stige^havvi pur anco Penelope che pia serbossi e fida (4) Al suo marito, benché senza lei Due lustri errasse , e per due lustri ancora Passasse i giorni suoi sempre alla guerra. Protesilao rimira e la consorte, (5) Che , come narran , pria degli anni suoi Vide Testremo fatele scese a Dite Ombra indivisa del marito . Mira La Sposa pegasea dall*empia sorte (6) (S) Anfiarao figlio di EcUo ed eccellente indovino ^ ascose in un luogo segreto per non esser costretto a portarsi alla guerra di Tebe, in cui sapeva di do-* ver certamente morire* Eri file sua moglie allettata da un aureo monile promessole, da Polinice, insegnò a questo ov'egli sfava, celato* 4 n 4 à pertanto Anfiarao forzatamente alla guerra^ ma appena giunse in Te¬ be , gli si spalancò sotto i piedi la terra , e rimase in quella sepolto. (4) Penelope è V esempio deWamor con fugale* Si conservò essa sempre fedele al suo sposo Ulisse , ben* che vivesse egli lontano da lei per lunghissimo spa* zio di tempo , e benché fosse ella continuamente as¬ sediata da mille fervidi amanti. (5) Protesilao andò aneW egli all*assedio di Troja, e fu il primo tra* Greci , che vi perdesse la vitapoi* che Ettore lo ferì mortalmente , nientre scendeva dal* la sua nave. Desolata Laodàmia sua moglie da una tale sventura , ottenne con le sue lagrime da* Numi di poter veder V ombra del suo amato consorte , e neWabbracciarla morì* (6) Soffriva Admeto una malattia coà grave , che secondo la risposta dell* oracolo ^ era necessario per salvargli la vita^ che un uomo o una donmft^ morisse Admeto liberare , onde famoso Rese il suo nome . Evadne a Capaneo ( 7 ) Disse : m* accogli ; il cener nostro insieme Si confonda ; e slanciossi in mezzo al rogo; È la Virtude d’abito e di nome ( 8 ) Femina, nè stupore è, se propizia Si mostra e favorisce al sesso suo. La nostr’arte però queste non chiede Alme sublimi 9 e con minori vele Naviga il legno mio • Per me soltanto S’imparano a trattar amor lascivi. Io insegnerò in qual modo amar si debba La donna, che non face ed arco scote Sempre crudeli ; agli uomini quest’armi Nuoccìon più parcamente 9 io ben lo vedo: Gli uomini più spesso ingannano di quello^ Che ingannin noi le tenere fanciulle; E poche troverai , se cerchi , xee Di perfido delitto. Il traditore (9) Giason Medea lasciò già madre 9 e in braccio Gittossi ad altra sposa. Oh quante volte Per te 9 Teseo 9 Arianna abbandonata (io) per lui4 Alceste sua moglie^ che dicesi sposa pagasea dalla città di Pagasa in Tessaglia , volle essa stessa liberar gen^osamente il caro suo spoeo, ed incontrò con intrepidezza la morte. Quando Eoadne intese che era stato ucciso a/« la guerra di Tebe il caro suo sposo Capaneo ^ conce» pi nell*animo un dolor sì fiero ^ che corse valorosor mente a morire sul rogo dell* estinto consorte. (8) Adoravano i Romani la Dea Virtù vestita in abiti femminili. ^9) Annotaz. 89 del Lih. /• (io) Arianna fu da Teseo abbandamata {Annoi. So. del lÀb» I. ) nell*isola di Nasso j e però avrà te» muto gli Augelli marini provenienti da quella pcffte di mare, in cui viaggiava il suo perfido amante la solitaria t sconosciuta riva Temè gli auge! marini ! E perchè Filli (ii) Calcò per nove volte il sentier stesso. Cerca, e perchè, la chioma lor deposta, Piansero Filli le dolenti selve. L’Ospite, che concetto ha di pietoso. Porse la cauta e il ferro alla tua morte, ( 12 ) Misera Elisa. E che I narrar vi deggio Delle vostre sventure io la sorgente? Voi non sapeste amar ; mancò in voi l’arte, Mentre con l’arte solo amor si eterna. Sariano ignare ancor, ma Cìterea Vuol che per versi miei sien fatte dotte. Mentr’ella stessa innanzi al mio cospetto Si fermò, e disse: di qual fallo mai Si fecer ree le misere fanciulle. Che inermi si abbandonano agli armati? Tu con gemini libri bai resi questi Nell’arte esperti ; or co’ precetti tuoi Tu devi ancora ammaestrar le donne. SteSicoro ohe in pria cantò i delitti (i3) Impaziente FUlide per la lontananza del suo Demofoonte eorse per nooe volte al lido , dà cui do^ vetfa egli passare nel ritorno ; e alfine disperata cd afflitta per la tardanza di lui ( Annoi, a 3 del Lib, li.) si tolse da se stessa crudelmente la vita. Le fabbricarono i suoi parenti un sepolcro , in vicinanza di cui nacquer degli alberi , che in un certo tempo , secondo quello che han scritto i poeti , deposte le lor foglie , piangevano la morte della medesima. (la) Enea , che vien soprannominato il Pio, di^ sprezzando Vamore , che è il nome proprio di Didone, fu causa cVella si precipitasse sulle fiamme ohe ardevano la eittà e la reggia di Cartagine. (i 3 ) Stesicoro siciliano è un poeta lirico ^ che doto-' Sto ne* suoi versi Elena detta tersnoea dal castello ìa D* Elena, poi con più felice lira Disse le lodi sue. Se V indol bene Io tua conobbi, no ^ non sei capace offender Tamorose e culle donne. Per fin che vivi a te tal grazia chieggo. Disse, e di mirto (poiché avea le chiome Di mirto ornate quando a me comparve ) A me una foglia diede e poche bacche. Ricevuti i suoi doni, io mi sentii Invaso dal suo nume, e Paer più puro Splendermi intorno , e facile l’impresa Comparirmi al pensier. Mentre l’ingegno E desto , a me i precetti richiedete, Che a voi, donne, ascoltarli ora è permesso Dal pudor, dalle leggi e da ogni dritto. Siate memori ognor della ventura Vecchiezza, e per voi il tempo ozioso mai Non passerà. Scherzate ora che lice, Nè si consumi invano il fior degli anni, Che come 1 onde fuggono veloci. Tornar non puote alla sorgente il fiume. Tornar non puote la passata etade. Cadete dunque, che trascorre il tempo Con frettoloso piè, nè lieto mai Come il primiero siede. Or bianco miri Questo stelo , su cui già in prima vidi Io rosseggiar le viole, e questa spina Grata al c^pe mi porse un di corona. Stagion verrà che tu , che "fchivi adesso L’amante , fredda e abbandonata in letto cui, nacque y perche^ da essa ebbe erigine la rovina di Troja. Ma i fratelli della medesima , Castore e Polluce Vacciecarono crudelmente ; ed ei per ricuperare la sta , fu costretto a comporre un poema in sua lode» Digitized by Google Giàf&ttsi vecchia giacerai. Notturna Rifsa non fia che la tua porta atterri, Nè sul mattino troverai di rose II limitar della tua casa asperso. Misero me ! come corrotti presto VeggoDsi i corpi dalle rughe , e, come ^ Langue ih nitido volto il color primo! Quei che sul capo tuo bianchi capelli Si miran* or,che fin da’di più acerbi Giuri che furon tali ; ah che ben tosto Si spargeran per tutto il capo. Méntre (i 4) La sua spoglia sottile il serpe lascia. Ringiovanisce ; e rinnovando i cervi Le corna, non rassembrano^ mai vecchi. Fuggon senza speranza i nostri beni; Cogliete il fior, che se non colto vegna, Cadrà miseramente. A questo aggi ungi Che fan più breve giovinezza i parti; Invecchia il campo per continua messe. Non di vergogna a te , Cinzia , fu causa (i5) Il latmio Endimion , nè già doveo Per il rapito Cefalo arrossire (i6) I Serpenti si spogliane ogni anno della luto scorza* I Cervi cangiano ogni anno le qorna ; ma ne * rimangono privi se sian castrati mentre le hanno de~ poste , e più non le varifino, se soffrano una tale ope* razione phma di deporle. Impiegano i medesimi cin^ que o sei anni nel crescere, e però tioono’ solamente circa trentacinque o quarànta anni , ttd ortta di tutte * le fuoole, che gli antichi hanno scritte sulla lunga ìor vita. Buffon nella sua Storia naturale. (15) Cinzia ( Annoi, del Lih, I. ) scendeva dal cielo per godersi Endimione, che qui dicesi latmio per^ chè s^ascondeva ifi Latmo spelonca del monte, di Caria. (16) S* innamorò la rosea Aurora di Cefalo figlio di Mercurio, e però lo rapì « Prgcri sua moglie La rosea Diva. Adori si lasci a parte, Tuttor di pianto a Vetieré^ cagione, Com’ebb’olla Antonia, cotii* ébbe Enea ? (r 7 ) Seguite" tiiir P esémpid delle Dive, O bellezze tóót^aK , é a^ desiosi ' UomìAì noilitìegate il favor vostro.: Siano essi ingannatori ; e che perdete? Mille vi godan pur<;‘tutto rimane Nello stato pritòiér. Gon Fuso il ferro* Si consuma e la‘ pietra ; in Vói non pudte Cosa alcuna peirir , ricever danno. Chi ^vieterà cW dal vicino lùme*^ Il lume non si prenda ? e chi nel vasto Seno del mar V onde serbar procura? Tu mi dirai che non convien che a un uomo Si dia la donna in preda ; ma che perdi Altro che l’acqua che ricever puoi? Non vogliono i mìei carmi o la mia vocb» Al libero dell* uom commercio esporvi^ Ma vietanvi temer le cose inani; Non posson soffrir danno i doni vostri. Me un’aura lieve , mentre siamo in porto» Spìnga, che ,al soffio dì più forte vento Sono per cominciar maggior viaggio. Dalla cnltura io do princìpio. Il vino Ceneroso dan sol le calte vigne, £ sol né’campiVcoltìvatì miri Lussureggiar le biade. £ la bellezza Dono del cielo , e come ah vien superba OQ.Arteà'am. e (17) La Dea Venere éhhe à(jL Arichise il figlio Enea , e da Marte la figlia Anmónia, Bastano . tàli esemp) per provare che ella permise a molti di possederla . Digitized by Google pJbeU^z<i ogui danpa 1 1Ja «ran parte Di voi prirs rù^.A quf»to 4ouo. . Con U coltura la beiti ai 4CqWti Cile si perdo nfgfct^ ^ apci^r cjio eguale A gueili fosse dpU'idalia Diy*. (i8) , Se Io prische fasullo, il corpo Joì;a Non coti custodirò ^ se gli autieri Uomini incolti vissero , se cinse ; Pesante gonna.AndroiMCjayìo non yeggo>(f 9 ) Bagjon 4i,,ayiglia^I es^SA d’un rezzo , Guerrier fu^^mpgli^. Fprsé a Ajace incontro Adorna andap dpvea la sua consorte, (ao) Se a Ini la^ pflle .poi di sette bovi Servia di veste ? Ne^ primieri tempi Rozza regnò semplìcitade, e immense Ricchezze Roma del soggetto mondo Ora possiede. Osserva quale adesso (ai) ^ \ Sia,il OampidogUo, e gual no’giorni andati^ E dovrai dir c]lie ,fa d'un altro Giove. Ventre dicesi idalia dal monte Idale in Cif^ro a lei consagrato, (19) Andromaca fa moglie A*Ettore Capitano deU VArmata Uroijana, Annótàz, 89 del Lih, li. (ao) AJaae figli^di Telamone è oelebràto daOm'e^' ro nella sua Iliade come uno piu valorosi Prine^ che andarono all*assedio di Trofa. Sposò egU an*an^ cella nominata Teemessa; e però dice Or ozio Movit Ajacem Telamone natura ’ Fórina captiTflB Dominuin Teemessa. La Curia fu anticamente , secóndo F’arrone, distribuita in due parti, in una delle quali custodi^ vano i Sacerdoti le cose diwine , ’e neWaltra tratta^ vano i Senatori le cose umane. TaaUr fu un Re de* Sabini così accorto 9 che seppe ottener da Rpmelaiina parte del Regno dopo d*aver perduto un'atroce bai» taglia. La Curia, che di tanto ora' rasaembra Concìlio degna, fu di Tazio a’tempi Di rozza paglia intesta. Qoe'palagi- Ch# ora risplendon sacri a Febo e a’Ooci; Che furon maì^ se non pascolo un giorno Agli aratori buoi f Piacciano ad altri Le cose antiche ; io meco stesso godo D* essere in questa età nato conrorme A’ miei costumi, non perchè si tragga Dalle vìscere cieche della terra 11 dutil oro, o perchè venga a noi Scelta conchiglia da diverso lido; Nè perchè i monti facciansi minori Per i marmi scavati ^ o perchè altere * Sorgano moli ove giaceva il mare; Ma perchè regna or la cultura , e a’nostri Tempi rusticitade agli avi antichi Cara non giunse. non fate carchi 1 vostri orecchi di preziose pietre, Che in mar lo scolorilo Indìan raccoglie; Nè comparite già gravi per Toro Tessuto sulle vesti, onde ben spesso Le ricchezze cercate e le rapite. Dalla mondezza noi sìam vinti. Il crine Si disponga con legge; un pettin dotto R dona e toglie a suo piacer bellezza. Non r ornamento stesso a tutte giova; Quello scelga ciascuna , in cui più splende^ E si consigli col fedel suo specchio. Chiede una lunga faccia che sul capo (za) {2.2) Augusto fabbricò nel suo palazzo un Tempio consacrato ad Apollo Palatino. 1 Duci ^ a* quali ^ dim cesi sacro il palazzo medesimo, sono Augusto e Tim bario, mentre quegli vi nacque , e questi vi abitò» loe Siati ben divisi non velati i crini; Così avea Laodàmia le chiome adorne* Voglion le piene e ritondette guance^ Che della &onte sul confin vi lasci Piccol nodo onde veggansi, gli orecchi, D’an*altra il orin flagelli ambe* le spalle,^ Quale al canoro Apollo allor che in mano Piglia la lira. Come Pagi! Diana Altra gli .abbia legati, alLor che al bosco Peiseguita le fiere pau^ròse. Convien che questa abbia i capelli gonfj; £ strettamente quella il crine implichi* Altra s’adorni in guisa tal la ehioma,^ Che alla cilleuia cetera assomigli (aS); Questa V increspi in modo ohe rassembri Onda marina. Numerar non puoi Quante sulla ramosa elea sian ghiande. Quante in Ibla sian api, e quante fiere S’ascondano nell’alpi, io pur non posso A te narrare le diverse fogge Di dar la legge al crin , mentre ogni giorno Ne sorgono novelle. A molte giova Che sia negletto : crederai che il capo Quelle jerì s^ornasser , che con nuova Cura testé si pettinar’la chioma. Studia con l’arte d’imitar Natura. Era Jole così, quando la vide Mercurio inventò la Lira fatta a gedsa di te» staggine , e questa dicesi cillenia ^ perchè egli nacque nel monte Cillene in Arcadia, Se Ooìdio tornasse a vigere in questo secolo , dorrebbe certamente veder con Rubilo che le nostre Dame seguono con la massima esattezza i suoi proietti nell* adornarsi i capelli. Amò Èrcole ardentemente Jole figlia di Eu» riio, il qual rìcue/ò di dargliela in isposa, quoMtun» Ercole ; presa la cittade » e disse : lo ramo; e tal Pabbandonata ; donna Quando sai carro sosteneala Bacco» E i Satiri gridare : evviva » evviva. Quanto in favor della bellezza vostra Fu Natura indulgente» o donne I Voi In mille modi ricoprir potete Z vostri danni. Invan noi ci asix^ndiamò; Cadono per 1* etade i capei nostri Come le foglie allor ebe Borea soffia. Con le germanicb’ erbe asconder pnote (aS) La donna la canizie » e può con Parte Miglior del vero altro cercar colore. Vanne la donna con la chioma folta f 'glUVaotsu solennemente proméssa, frritmto gli pertanto da una tal negativa, debellò la Città d^Occatia » 09 e questi regnava » e gli rapì la sua di¬ letta denteila. :(a&) si sa veramente auali si fossero quell^er- he germaniche ^ del di egù amore eUrattivo compone- vano gli antichi un medicamento » col quale i capel¬ li bianchi si riducevan neri o biondi. Si Sono però, trovate a’ nostri tempi molte ricette, ohe compensano largamente una tal mancanza. Cosi se i capelli sìan bianchi, si posson ridut neri col far uso d*una po¬ mata, a cui siasi aggiunto una piccola porzione di nero d*aoorio ben macinato » oooero di sughero bru- glato unito all* azzurro di Berlino. Resta pm assai difficile di ridurli biondi » se non si vogUono adope¬ rar polveri d^amido leggiermente torrefatte. La mi¬ glior ricetta che si può per quest* effetto accennare » é la seguente : si faccia una forte liscioìa di cenere di sarmenti ; vi si unisca una piccola quantità di ra¬ dice di brionia e di celidonia; si faccia il tutto bol¬ lire; ed in fine vi Raggiunga altra più piccola pdtr- zione di zafferano dell* Indie , di fiorì di stecaae e di ginestra. Si coli per tela, e si laoino con una tal acqua piu volte i capélli. fOft Per i compri capelli , e col denaro In mancanza de* saoi porta gK altrou Nò il coidprar ciò palesemente teca Ve^ogna i noi vediam che son venduti D* Ercole in faccia e del virgineo coro. (a6) Che dirò della veste f Oro ed argento 10 non ricerco ^ o che rosseggi tinta La lana in tiria porpora. Se mille A prezzo più leggier vi son colori, ,, É qual è dì follia segno piò espresso Che di portar sul corpo i propr} censìf Ecco il color delFaria allor che searca Si rimira di nubi, e il tepid*au8tro Non apporta la pioggia : eccone un altro Simile a te che sostenesti nn giorno Come si narra, e Frisse ed Elle quando (27) Fuggir* le frodi d* Inoe. Imita questo 11 cernleA mare ^ da ciò traggo Il proprio nome, e di tal veste 10 credo Si coprisser le Ninfe. Altro è simile (28) Si rUeva di qui, che in faccia mi Tempia fMrtcata in onore d'Èrcole e delie Muse , avevano i Romani una bottega 9 in cui vendei ansi i capelli. ' (a^) Frisso ed Elle figli dì Adamante Re di Tebe fuggir dalle frodi d* Inoe loro matrigna, salirò* no' sopra il montone ornato del Vello d^oro^ che Mercurio diè in dono a Nefale madre d^ medesimi. Frisso fu da quello felicemente portato in Coleo , ma Elle'precipitò in quel mare , che prese da lei il nome d^ Ellesponto. Con ^esta favola vuol però dire il Poe* ta 9 che era presso i Romani in uso ( e lo è pure cd di nostri ) il colore che si assomiglia a quello dell* oro^ - (aQ) Essendo il giovinetto Croco impaziente di poe* cedere Snùlaoe sua dUetta amante 9 fu trasformato in un fiore che dicesi volgarmente ZefBivano , o che da lui Ica preso il nome di Croco. £t Grocam ia parros yersam cum Smilace flore». Ovid, Metam. TOS AI Croco, e qàaiido accoppia i Ittraihbsi Destrier, con cròcea reste pur' si rela La rugiadosa Dea. Di'Pafo a’mirti ' Questo assomiglia , e quello alle purpuree Amariste , alle rose biancheggianti (29) Uno‘^ ed tin altro aÈa'straniera grue. Le ghiande tuè ti sod pure, o Ainarilli, Nè ri tnancanr le mandorle, e il suo nome Diede alle lane per la eera. Quanti Fiori produce la norella terra ~ Allor che fugge iUpìgro rCrnò, e stilla Gemme la rite ^ tanti beo la lana Color dirersi, e quello scei tu dei> Che col tuo rolto Si confà. Ogni reste Non conriene a ciascuna. I neri ammanti- Fan risplender le bianche. Assai più. bella firiseide, allor che fu rapita, apparre, Perchè le membra accolse in negra reste*. Odora alle brune donne il color bianco: E tu piaceri, o di Oefeo, ( 5 o) In bianca resta allor che di Serifo Passeggiar! le rie* Io diei consiglio Che del capro il fetor sotto V ascelle Non passi, e che non sian per duri peli Aspre le gambe,. Ma non io già deggio Delle caucasee rupi le £snciulle Far dotte, o quelle che di Caico misio {ìi} (29 ÀmaUsta è una gemma , il di. oui colore è- quasi simile a quel della porpora. (So) La figlia di Cefeo à Andromaca: avrà essa probabilmente passeggiai per le vie di Serifo > perchè è questa una piccola Isola del mare egeo , nella quàU fu edueato Perseo suo liberatore. ( 3 r) Gli abitatori del monte Caucaso furore antica-- menteiCome lo sono tuttora, ferocissitni. FI Caico-è unfiu^ me della Frigia e della Lidia ^ che proviene dalla JS/Lsia. Bevano all*onde. Che non siano i denti V*ammonirò per hidblenza foschi, E che si lavin sul mattin 1 ^ guanoe Con man dell’onda aspersa. Voi sapete Pjocacciarvi il candor con distemprata Cera; e con Parte divien rossa quella. Cui non colora il sangue suo la. faccia: Voi con Parte il confin nudo del ciglio Fate ripieno, e voi con tenue pelle Ricoprite talor |e vere gote. Stropicciar gli occhi poi non è vergogna Con la cenere tepida „ o col crocb Che nasce presso te , lucido . Cinno. (3a) Tengo un libretto picciolo, ma grande ^ Opra per il pensiero , in cui i rimedj - ' Qià v’insegnai per la bellezza vòstra» ( 3 d) Con felice successo adoperarono le Dame Ro^ mane la cera distemprata per far fianca la peUe ; e con faUe^ ti Adopera ancora in questi tempi dalle nostre Dame . Ecco il modo di prepararla : ad una parte di cera bianca di Venezia si uniscono otto parti d* acqua , a cui si aggiunge una piccola porzione d*alcali vegetale y e si di^cioglie il tutto finché non si abbia una sostanza consimile al latte* he Dame ro^ mane solevano ancora adornare co* colori , e riempire co*peli ben disposti quello spazio ài pelle nuda che é fra il ciglio e il sopracciglio, s ! • Il le •apercìlium magaa faligine tinctum « Obliqua producit acu. Giovenale. Dalla Cilicia che è irrigata dal fasme Ciano fa» cevano esse venire il zaffarono ed altre céneri atte a purgar gli occhi dagli umori soverchp; e a renderli per cònseguenza maggiormente^vivaci. Ha scritto Opì- dio un piccolo libro de medicamiue faciei quale inségna alle Donne tutti i rimedj, che possono contri» buire a far bella la lor faccia e le loro membra. Quindi riparo alla figura offesa Cercate, che non è per gli usi Vostri Inefficace Farte mia. L’apiaìite Non miri apertamente i vasi esposti. Che Tarte ascosa giova alla beltade. A chi non spiaceria mirar sul volto Stendere quella feccia , e lentamente' Cader pel peso suo nel caldo seno? Quàl dall* immonda lana dell* agnella ( 33 ) €2 ( 33 ) Fahhricavasi in Atene con In lana sudicia e molle un medicamento che i Greci chiamavano Etipo. Le Donne facevano uso di questo per mollificare le ulceri di qualche delicata lor parte. Vedasi Diosco* ride y Plinio il Mattioli nel suo erbario ; che ne parlano a lungo , ed insegnano la maniera di fabbri^ cario, ' Non d può accennare qui il modo , con cui prepa^ radano gli antichi i midolli della Cerva yper averne un composto atto a far bianchi i denti, era i molti medicamenti che hanno per quesV effetto inventati i nostri Chinùci , ci piace di riportar qui la polvere , V oppiata i e le spunghe ; di^ cui dà Mons, Beaumé la ricetta nella sua Farmacia, Ad un*oncia di pomice, di terra sigillata^ e di corallo rosso s*aggiunga mexz*oncia di sangue di Dra^ go, un* oncia e mezza di cremar di tartaro^ se ne fac^ da una polvere sottilissima , e vi si unisca una pie- cola porzione di garofani e di cannella. Per compor quindi V oppiata > si prenda un* oncia della polvere suddetta, due once di lacca rossa da Pittori, quattro di mele di Narhonne, due di siroppo di more ; a queste ù uniscano due gócce d* dio essen-- ziale di garofani, e si avràr un* oppiata , che S4^à op¬ portuna , come la polvere , a ripulire , imbianchire , e preservare i denti da molti incomodi. Una stessa virtà hanno le spunghe preparate , e intrise in una tintura fatta con lìfibre quattro a^ua, in cui abbina hoUUo quattVonce di legno del Bras^* Daraiìne ing^rato odòrè- il 'sugo estratta^ Benché da Atene a noi si mandi t Inverò^ Lodar non so cl^ alla presenza altrui Della cerva i midolli insìem mischiati Piglinsi, e che palesemente i denti Si faccian netti* Utili alla beltade Sono. tai cose , ma deformi troppa Agli occhi nostri* Molte cose fatte Piacciono, e turpi son mentre si fanno» Le statue di Mirone opre famose, ( 34 ) Furono inerte peso e dura massa, Per farsi anello , Toro in pria si frange, E quelle vestì, onde vi fate adorne,, Furon. sordide lane* Era aspro marmo,. Mentre erano a scolpirla intenti, quella Statua nobile in cui Venere nuda Trae fuor dall* onde gli umidi capelli. (35)* Fa che pensar possìam che dormi allora Che tu Vadornì, Io lusingl>ieTa forma Sarai mirata se alla tua cultura le, tre dramme di cocciniglia soppesta , e quattri) di alume di rocca . Quando queste spunghe si sono, im¬ bevute d* una sufficiente quantità d* una tal tintura, si fanno asciugare, si pongono per alcune ore nello- spirito di vino, a cui siasi aggiunte una porzione di- olio di cannella y di garofani,.e di spigo ec.; quindi si spremono, e sì conservano per valersene al bisogno, ih vaso di Oetre ben ehiuso. (34J Mirone discepolo d^ Ageladé seppe formare in bronzo còsi perfettamente le statue , che Petronio dite aver egli compreso nel bronzo V anima degli uomini e delle bestie Alludesi alla famosa statua di PrassiteU , che rappresenta Venere nuda neW atto d^ uscir dal mora. Fu questa collocata in Roma nel Tempio di Bruto Callaico insieme col Colosso di Marte pvesso - il Circ¬ eo ffaminio» Diligente darai T ultima mano. Del talamo le porte ben raccbiudi. Perchè vuoi far^ palese un’opra rozaaf Molte COEC' ignorar gli uomini danno. Di. cui gli ofiendón molte, se non copri Ciò , che & d’uopor di tener , celato. Vedi quelle che pendono^ da un culto> Teatro aurate statue, a osserva bene Qual lieve foglia il legno lor ricopra.. Ma come quelle al popolo* non lice Veder ae non sien poste in vaga mostra^ Così se non elea gli uomini lontani, Non si procuri d’acquistar bellezza. Non vieteiò cbe al pettine abbandoni Palesemente 1 tuoi capelli, quando Scender potran per tutto il tergo aspersi. Di non esser procura allor molesta, • Ne aciorre spesso le mal calte chiome. Sicura sìat quella che il crin t’adorna; Odio colei che le ferisce il volto Con l’un ghie liCi con rapito ago le punge 1 ( braccia Allor d’ancella là detesta. Le tocca il capo, e sull’odiate trecce* Col piaotn suo scende mischiato il sangue* Quella che il capo.ha.quaai calvo ,ipoDga^ Sulla porta il oustode , o della Dea Gibele al ten^pio ad adornar si vada. ( 56 ) ^ ( 36 )’ CibéU aveva in Roma un Tempio, in cui non potevano aver gli uomM V accesso : 4 Sacra Bona maribas non adeunda Des. Tibullo, Insinua pmttauio Ovidio con questa frase Me Donne di non pettinarsi alla pretenza^ degli uomini^ se non so» Mli i ìorq capelli fui annunziato airimprovviso un giorno A una -donzalla; e torbida i non suoi Velò capelli. Uo tal ro 88 or > ricopra La faccia alle nettiicbe, e questa^ infamia Fra le particele Nuore abbia soggiorno. Turpe è Tarmento senza corna, e turpe Senza gramigna è il campo, Tarboscello Senza le foglie, e senza i crini il ^apb» Non-vennero ad udire i miei precetti Semele, Leda ^ o la sidonia donna (37) Che via portò pel tnar fallace Toro, O la tua sposalo Menelao, cW chiedi Bene a ragione, e che a ragion si tiene 11 Rapitor Trojano^Ecco una turba*' Di belle donne e dì deformi a un tempo ( Ahi sèmpre il ben dal male è snperato ! ) Che chiède i miei precetti, ma non tanto Cercan questi le belle , e men dell^rfe Procurano rajoto. Han quelle in dota Beltade senza Parte assai possente. Quando tranquillo è il mar, sicuro bessa^ Il nocchier dal lavoro, e mentre è gonfio Si asside, e in opra pone ogni socConk). Rara è beltà che senza macchie Sia; ^ Le cela , e i vizj del tuo jcorpo ascondi {37) Semeie figlia di Cadmo He di TeÒe e.madre^ di Bacco , Leda figlia di Tindaro, e sorella di Ca- stare e Pollice, Buropa figlia di Agenore He di Fe¬ nicia ove giace la città di Sidone , da cui élla vieti detta Sidonia, furono dotate d*una tal bellezza , che innamorarono vivamente lo stesso Giove, il quale non^ ebbe à vile di prender per esse le più strane sem^ hianze. Queste con Elena mogUè 'di Menelaosi pro» ^ pongono qui dal Poeta , come eiélnpi troppe rari dì: perfetta bellezza. Quanta più puoi'« Se di statura breve Tu sei, t’assidi, onde seder non sembri Allor che in piedi stai. Se oltre misura Però lo fo^si^ allor ti porca , e ascondi Con le vesti su’piedi un tal difetto. Quelle che sono gracili e minute Debbon di grossi drappi ornarsi, i quali Sciolti cader si lascin dalle spallo. Tocchi il suo corpo con purpurea verga ( 38 ^ Chi è pallida ; e chi è nera abbia ricorso Al fario, pesce. Un piò lungo e deforme Sottu candida alunda pgnor si celi, ($9) Nè secche gambe .sciolgansi da* lacci. (38) È certo , gU onticfd aoéoano de* medica^ menti , co* quali ti coloravan la faccia ^, benché non d sappia di qual natura^ quelli si fossero . Il belletto > che si usa pretentemente è composto di rosso e di biancone sarà forse pià efficace di quel che adopra* vano le Daàte romane. Si è per qualche, tempo im-^ piegata Cernita il magistero di Bismuto^ detto altrimenti bianco di spanna com« quello, che avendo un leggiero color d* incarnato, era pià analogo aHa pelle ; ma sì l* una che l* altro anneriscono e guasta¬ no la carnagione, mentre tutte le calci metallici^ ri¬ prèndono una parte del loro flogisto , e, si ripristinano* Si è pertanto sostituita alla cerussa ed al bismuto la pomata di spermàceti^e l* olio di mandorle dolci, unendovi una porziànè di falco'biancò finissimo. Col talco bianco ùmilmente barico ,della parte coloranto de* fiori di Cqrt^mfi j a, ,cui si aggiungono poche goc¬ ce di olio di Beri, per renderlo pastoso è molle, si compone il roiso y che ancor chiamasi-rosso di porto- gallo o roSso'vegetale. ‘ Il /arto pesce é il Coccodrillo y degl* interiori e della sterco del quote sh servivano i Homani e(f i Greci per fare un composto atto a render bianca e splendida, lo pellé. (39) X’Alauda b una pelle moUissiuia, Tenue eoscm conviene ad alte spalici E se il petto sìk turgida, il circondi Fascia, e lo stringa. Se le dità pin^ui^ E scabre T ùnghie avrai, allor di rado Accompagna congesti i detti tuoi. Chi grave dalla bocca esala oddte ' • Digiuna mai non parli ^ e dalla bocca Deir uom stia lungi. Negri, e troppo grandi Se i denti siéno, o in non belFordin natii Massimo il «iso allora apporta danno. Chi ^1 crederiaMiC donne apprendon pure Le. maniere del ti80 ,'e in qùesta parte Nuovo per lor procacciano òtnatoeùto. Non troppo-larga apri la bocca , e brievi Sian le pozzette in ambedne le. gote, E le radiche ognor copra de’denti L’estremità de’labbri , e non bisogna. Affaticar con smoderato riso . Il fianco, mentre deve ancor nel riso. - Dar proprio, delle donne urf dolce sùono'. V’ è pur chi in mille guise il volto- Con male acconce risa*, ed altra credi Piangere allor che tutta allegra ride$ Quella tramanda un, rauco suono ; e stride Cosi inamabilmente, che ^assembra ; Asìnella che ragli, allor che intorue s 5 Alla macina gira.^E'do Ve l’arte ^ Non giugno ? Coù decòro itnpajfan ) A lacrimare, e come, e qhandò sembra, ^ Loro opportune. E che dirò di quelle. Che niegano agli accenti intera forma, E fan con studio balbettar la linguaf ^ Credon che sia lìa grazia ancor nel viziò^. E pronunciano mal varie paròle^ • Digitized by Google rrii E con arte studiata altre ne lasciano. A tutto ciò, che ben giovar vi puote^ Ponete cura, e con femineo passo Imparate a portare il corpo vostro^ Havvi nel portamento anco il decoro. Con cui si fan fuggir , con cui si allettano^ Gii uomini ignoti. Muove questa il fianco Con arte , ed ondeggiar lascia le gopne Air aure in preda, e stesi i piedi porta Con maniera superba. Altra cammina Qual deir umbro marito la consorte (4o). Rubiconda, e con piede in dentro volto rapassi move smisurati •y in q^uesto Serbisi, e in altro pur giusta misura» Rustici ha questa i moti, e troppo quella^ E molli e ricercatk LMraa* parte Della spalla, e r estrema ancor del braccio Di nuda, onde chi posto è al manco lato Veder la possa. -Hi special modo a voi Gioverà che qual neve avete bianca Ina pelle. Quando questa io mira, sem-pr^ Sulla spalla scoperta i bacci imprimo. Col dolce suon della canora voce Fermàr le navi più spedite al corso Le Sirene* del mare iniqui mostri. (41) {40) Condanna Ovidio a ragione come rozze le mo¬ gli degli Ultori popoli forti e a un tempo stesso /«- voci f che abitarono in Italia sul monte Appennino, (41) I>c Sìrerse sono tre barbari mostri che dimora¬ rono nel mar di Sicilia, Col suon lusinghiero deWar¬ moniosa lor voce'allettavano queste in tal maniera i naviganti , che si lasciavano essi predar facilmente. Ulisse per evitare un tanto pericolo , chiuse con la cera ^^^cchie suoi compagni^ e si legò strettamente'^ M albero della na^e ^da cui si disciolse dopo jia Udite qneste, se medesmo sciolse DalParbor della nave, e con la cera Chiuse Ulisse accompagni ambe le orecchie. È lusinghiero il canto . Le fanciulle Apprèndano a cantar ; la voce a molte Senza bellezza conciliò gli affetti. Cantino quel che udirò ne’ marmorei Teatri f ed or versi costrutti in metro (42) Niliaco; e culta femina tenere Sappia per mio giudizio or nella destra 11 plettro , ed or con l’altra man la cetra. Il tracio Orfeo con la sua lira mosse ( 43 ) Le fiere, i sassi, le paludi stigie, Ed il triforme Cane . O della madre Giusto vendicatore al canto tuo Cortesi i sassi fabbricar’ le nlura. Benché sia muto, il pesce ( è nota al mondo Favola) al suon del arionia lira( 44 ) sentito il dolce cànto di quelle . Le donne imparino dunque a cantare ,se ooglionsi conciliare, come dice Otfidio , P qmore degli uomini, ( 4 ^) E!ran famigliari a* Romani le canzonette ame^ rose , e spesso lascile , ahe si cantavano in Egitto , ove scorre il celebre fiume Nilo, (43) Orfeo nato in Tracia da Apollo e da Calilo • pe col suono armonioso della sua Lira fece sì che gli corressero dietro per ascoltarlo , gli alberi , i sassi , i fiumi , e le beloe feroci : Quand* egli intese la morte d* Euridice sua moglie , scese con la lira all* Infernot e con quella intenerì talmente gli Dei infernali, che a lui la restituirono , purché non ardisse di riguar-- darla prima d* uscir dall* Inferno, Non p9té l* amo^ toso consorte obbedire a tal legge , e però ella dovè involarsi a* suoi sguardi subito ch^ ei la mirò ( 44 ) Anfione figlio di Giove e d*Antiope indusse le pietre col suon della Lira a fabbricar le mura della città 4i Tebe. Picesi vendicator della madre, perchè. Si fe* pietoso . Anco a toccare impara Con Tana e l’altra man le dolci corde Del Salterio ; son atte a* cari scherzi* Di Callimaco a te smn noti i carmi. Quelli del eoo Poeta , e quei del tejo (45) Vinoso Vecchio. A te Saffo sia nota (Son più degli altri i carmi suoi lascivi) E quel per cui viene ingannato il padre (46) Del servo Oeta con la callid’ arte. Del tenero Properzio i versi leggi, O quei di Gallo, o quei del buon Tibullo, O i velli insigni per le bionde fila (47) insieme fratello Leto la vendicò dall* ingiurie , che recatale Ideo di lei marito y col trucidarlo nel letto y ove lo sorprese con Dirce sua concubina y a cui pure tolse la vita. Atwne nacque in Metinna , e fu im eccellente Po&^ ta lirico , e nel tempo medesimo un ricco mercante. Ufosid alcuni suoi comùttadini dal desiderio di godere delle sue ricchezze fissarono di gettarlo in mare, men*^ tre egli se ne tornala alla patria. Accortosi di ciò Arione cantò intrepidamente una canzonetta , ed un-' Delfino , allettato da una sì dólce melodià , Vaccai^ se sulle sue spalle y e lo portò in Tanaro promontorio della Laconia, (45) Accenna ora Òoidio i Poeti che piacevano ai suoi tempi , e per lo stile e per le materie galanti , come a* dì nostri piacciono Ariosto , Passo , Guaritù , è Metastasio ec. Fiteta fiorì a* tempi d*Alessandro Magno per li suoi' versi elio^afici , e dicesi eoo Poeta y perche Coo /if ia sua patria. Anacreonte nacque in TeJo , e scrisse mol^ te canzoni veramente leggiadre in onore del buon vi¬ no , delle donne y e del giovinetto Batillo. (46) Terenùo compose una commedia, in cui il padrone , ed il fratello sono ingannati da Geta asti^^ to lor servitore. .'(47) ^^^^one Àttacino cantò ne* suoi versi la spe^ dizione in Coleo degU Argonauti. Il vello d* oro , che jbyGoo'gle ii 4 Che far fanesti, ó Prisso ^ alla tua aaara Cantati da Varrone, q il pio Trojano Di coi non y’ha nel Lazio opra più chiara. Ma forse un dì con 'questi andrà conginnto H nome nostro, nè i miei scritti in Leta Saran dispersi/Dirà aldino : leggi , I culti versi del maestro nostro^ Con cui poteo far dotti uomini c donne.^ Fra’suoi tre libri che hanno infronte scritto II titolo d* amor 9 scegli que^ verai ( 4 j 3 )t Che legger tu potrai con docil bocca Più mollemente ; oppur con ferma voco , Canta P Eroìdi , ignota opera agli altri Ch’egli compieo. Ahi cosi piaccia aFebo^ Pel corno a Bacco insigne/ ed allò Muse, Numi che son propizj a noi Poeti. Chi dubitar potrà ch^ìo la fanciulla Non voglia al ballo istrutta, onde poi toltq Il vino dalla mensa » ella le braccia Volga in composte ed ordinato moto? Amansi i danzator che della scena Sonò spettacol, perchè san con arte : V Saltare y e con decoro. Io mi vergogno Di doverla ammonir di tenui cose, _ questi ivi andarono a conquistare , fu funesto ai Elle sorella di Frisso y perchè ella , come si è accennato y cadde miseramente in mare , mentre il Montone ador^ no d* un tal vello la portava insiem col fratello ih Coleo,, Tl pio Trojsno h, come è noto y Enea, sulle aùoni del quale ha scritto Virgilio quell* aureo Poe» ma che porta il nome d* £aeidb. {èfi) Ovidio fra l*altre sue opere annovera ancora ire libri d* Elegie intitolati gli Amori, ed un libro - intitolato V ^roidi , perchè comprende ventuno lettere amorose y che fa scrioère scambievolmente dagli Eroi all’Eroine^ e dalfEroioe agli £roi. P’istruirla a gettare or l’aliosso, £ a conoscer de’ dadi anco il valore. Or tre numeri getti, ed ora accorta (49) Pensi qual parte segua acconciamente E qual richieda. Canta in finta guerra (5o) Muova i soldati, che da duo assalito Nemici uno perisce. Il Re sorpreso Senza la sua compagna ^ si difenda Da se medesmo , e f’emulo ritorni Per lo stesso seotier.' La tasca è aperta^ E ornai son sparse le pulite palle; (5 i) Quella che prendi sol muover tn dei. Ravvi un: gioco diviso in tante parti (Sai Quanti numera mesi il luhric^anno. Breve tabella prende da ogni parte (S3)- Tre tenni pietre, e il vincere consiste Nel disjpor queste in una dritta Mille giochi vi SOI» che turpe fia A una donzella d* ignorar ; col gioco Si può l’amore conciliar. Leggiera Fatica è appreodero a giocar ; maggiore Opra é il compmrre allora i suoi costumi. C49) Non sappum Diramente per qual ragione si~ éovesse procurare tempi, in cui vivcóa Ovidio di gettar tre numeri nel gioco d^ Dadi. ^ 5 “^ •S£r»/erÌjco»o questi versi al gioco degli Scacchi. (Si) questo un gioco, di cui non possiam dare tucuna notula. Sembraci f che sia questo il gioco, che r pure * *** dell» Dama. ( 53 ) Alludeu (d gioco del Filetto, che . or gioeano' nule campagne i ragazzi. Così b decaduto un gioco - 0^ formava la delizia delle Dame romane, e coi» aecaderanno ancor quelli che si hanno in pregio a‘ dk nostri, ® ' Digitized by Google Mentre s’applica al gioco, incanti siamo, E i reconditi sensi alloc dell’ alma Facoiam palesi. Ci deforma il volto ^ j Il cieco sdegno, e sono ognot col gioco Il desio del guadagno , le .pontese, » 11 sollecito duol, le stolte tìsse.^ j Rinfaccìansi i delitti ; di clamori * V aere risuona, e in sno favor s’invocano Gl’ irati Dei. Non v’ è fede nel gioco Il qual co’ voti non divìen secondo; Vidi le gote ognor molli di pianto: Da voi che amate di piacere all’uomo, Giove tenga lontan questo delitto. Diè la pigra natura allo fanciulle Silaili giochi ; ad altri pii sublimi S* applica l’ uom : per lui sono il paleo» ( 64 ) I dardi, 1 ’ armi , le veloci palle; E il cavallo costretto a gire i^^no. Voi non acosf^il’-campo.o'ra gelata ( 55 ) Vergin , nè voi sulle sue placid’ onde j Porta il toscano fiume* Ah ! voi potete Gire all’ ombre pompeje, anzi vi giova ( 56 ) 1 Quando i destrier del Sole ardono il capo (5 4 ) H Paleo i urto strumento fatta a guisa Jt trottola, eoi quale giocaoano i fanciulli romani fa- tendalo con una sferza girare intorno. ( 55 ) Nel Campo Marzio si esercitavano » romani in tutti que’giuochi cU potevano «P***^"'^* • renderli valorosi guerrien. Era ivi ta Vergine dalla fanciulla che ne scopri la sorgente, ed in quella si lavavano i giratori le di polvere e di sudore. Il Tevere e qui detto fannie tascsno, perchè dall’Appennino la Toscana nel f<u-t il siSo corso alla wta di tioma. ( 56 ) Annoi, q. del fàh. I, ^ Digitized by Google Alla vergin celeste. I sacri a Febo (5^) i’alagi visitate ; egli sommerse In alto mar le paretonie navi. I monumenti ancor» che fur costrutti» Dovete frequentar, da Ottavia e Livia ( 58 ) Una suora del Ehjce, altra consòrte, E quelli pur del valoroso Agrippa, Che ha cinto il capo di navale onore. Della menfitica Iside agli altari (69) Siate frequenti , ov^ ardesi P incenso, E ne’luoghi cospicui a’tie teatri. Di caldo sangue le macchiate arene Ite a mirare, e la prescritta meta. Rapido intorno a coi si volge il cocchia. Quel che si cela ò ignoto , e ciò che è ignoto Nessun desio risveglia ; è lungi il frutto Se manca il testimone a un bel sembiante. Benché nel canto superi Tamira (60) ( 5 ?) Dicé con Ovidio ancora Virgilio, che Apollo nella guerra Azziaca prestò il suo soccorso ad Augu^ sto y il quale aveoagli innalzato un ternpio nel pro^ prio palazzo . Apollo in conseguenr^a , ^Hcondo questi poeti , sommerse le navi egiziane deste paretonie da Paretonio città marittima d*Egitto , che Pompeo avem va armate contro d*Augusto. ( 58 ) Ved^i l*annot, 8 e g del Libro /. Augusto decorò A grippa suo generò della Corona navale dopo d^aver debellato Pompeo ^ ed innalzò al medesimo un portico y che fu chiamato il Portico d’A^rippa. (59) Annoi, li del Lib, /. Dice Sirabone che gia¬ cevano tre superbi Teatri in vicinanza del Campa Marzio. (60) Fu Tamira un poeta tragico che ardì con la sua lira di provocare le stesse Muse ^ credendosi a quelle superiore nella dolcezza del cantoma\dalle medesime fu vinto , ed in pena della' sua arrogwiza gli furono tolti gli occhi. Digitized by Google ii8 Ed Àmebeo , sarà priva d’ onor« L’ ignota cetra» Se di Coo il Pittore Vener ritratta non avesse^ immersa Sare^bbe ancor nelle mailne spume. £ che ricercan maggiormente i sac^i Poeti che la fama ? E questo il fine Cui tendon tutte le fatiche nostre. Fur de’Numi e de'Re delizia un giorno. 1 Poeti , ed immensi ottener premj I cori antichi* Venerando allora, £ d’ una santa maestà ripieno Fu questo nome, ed ebbero sovente Larghe ricchezze. Ennio che il suo natale Trasse ne’monti calabresi , degno Si fé’ d’esser unito al gran Scipione. (6i) Or giaccion senza onor Federe, e il nome Ha d’inerte colui, che i sacri studj Cari alle Muse a coltivar s’accinge» Giova cercar la fama, e chi d'Omero Contezza avrebbe , se in obblió sepolta Ateneo^ Plutarco ed altri parlano con somma lo^ de d*Amebeo ateniese , perchè sonava eccellentemen- te la cetra, Apelle nativo di Coo dipinse Venere nel- ratto di uscire dalVonde marine \ ed Augusto coliocè una tal pittura nel Tempio dì Cesare suo Padre, (6i) ÉrUiio è tra i Latini un poeta che si può da- gV Italiani paragonare a Dante. Ennius ingenio maximus , arte xudis. Owd. Trist, Ub. IL EL I, Fu egli, nativo di Rudia in Calabria , e visse som¬ mamente caro a Scipione Affricano il vecchio , ed a molti altri insigni Cavalieri romani. Morì in età di anni settanta , e dicevi che fu collocata la sua sta¬ tua di marmo nel sepolcro degli Scipioni. Cicerone ^ro Archia Peata , così parla di ciò : Garas fuit Af- iiricano superiori ngster Ennius ; itaque in tepulcro ScipioQum putatur is esse constitutus e marmore. L'Iliade o^ra imxnortal foase rimasa? ^ Chi Danae conosoiata avr^a , se ascosa (6a) Posse étata mai sempre^ e «e già vecchia' Si fo8a''ella lacchiusa eptro la torre? Utile è a voi , bèllé e vezzose donne, Di porre oltre le soglie il vago piede< La lupa a molte agnello insidie tende Per predarne una, e sopra molti augelli Vola 1 Augel dj Giove. Il volto mostri Sposa_ leggiadra ^1 P®poI<>> o fra molti Un solo appéna rimai^rà sua preda. In ogni loco ove si tro^ , attenda Sempre a piacere; ed abi>ia special cura Di sua bellezza. Puote in ogni incontro Sempre molto la sorte. Getta l’amo, Chè in quel gor^o, ovemen lo pensi, il pé^co t alor SI trova . Erran sovente indarno Per boschi montuosi i cani , e il cervo Cade fra’ lacci, mentre uinn l’insegne. D Andromeda l^ata a un duro scoglio ( 65 ) Il niT*** *Pf far, che a un uom piacesse Il pianto sue ? ài cerca spesso un uomo Ne funerali del marito ; i crini Sciolti portar conviene, e sian la gote Di lagrime bagnate . Ma fuggite Gl, uomini che d’aver le ^mbra adorne hi fanno un pregio ; della lor beltade Vanno superbi, e portano le chiome Con ricercata simmetria, disposte. Ciò che dicono a vói, dissèro a m{llé; D’ uno in un altro àmot Tàgando vanno , Senza restarsi in dmha "parte mai. Che d’un tal uomo effemi,nato., a cui Forse molti non mancano amatori. Dee fer la donna ? 11 crederete appena. Ma credetelo'pur , Troja' àncor ferma ( 64 ) Starebbé,se di Priamo avesse ih uso\ ‘ Posto gl* insegnamenti . H'a^yi di quelli Che sotto il mantó di fallate amore ^ ■V* assalgono , e tiòèrcan coh‘ tai mezzi Vergognosi guadagni . Ntìn la chioma Per il liquido nardo nitidissima ^ V'inganni, o breve fascia con cui stringa Le pieghe della veste ; nè v’ illuda Toga che sia di tenue,fil tèssuta;^ O anel con cui s’adorni uno o più. dita. Chi fra questi è più colto, è forse un ladro, E d’ amore arde per la ricca veste. Gridano spesso le spogliate Donne; Il mio a me rendi, e il suon per tutto il foro Rimbomba, e s’ode ; a me deh rendi il mio. Tu da tuoi templi d’oro adorni miri Con le femmine d’ Appia indifferente, ( 65 ) Venere, queste lìti , Ancor vi sono Pessimi nomi'pei^'non dubbia, fama-. ( 64 ) Priamo iruinuava «’ tuoi Trojatti di rtrtdtr ^( 65 ) àoeva nella via appia tomo al quale abitarono molte donne sacrifici che queste rendevano a quella lor lare , consistevano in prestar liberante tl lor corpo alle voglie sfrtnatt desìi uomm Iwrnnio E molte che rimasero ingjinnatp Da molti amanti, or d’ un egual delitto Si trovan .ree. Dalle quetele altrui; Imparate a; temer le^ vostre ; chiusa, Sia mai sempre la porta ad uom fi^lace. Donne ateniesi, uon prestate fade (j66)‘ A Teseo ancor, che giuri • In testimonio» Come invocolli nn giorno, i Numi invoca. Tu del delitto, oJDemofonte , erede. Di Teseo più non meriti credenza, (67) Perchè ingannasti Fillide . Se molto A te pròmetteran, loro prometti j * Con eguali parale . So di doni, Ti siano liberali, lor concedi I promessi piacer, ma se gli nìeghi II dono ricevuto, ancor potrai. La fiamma estinguer deUa vìgil Vesta, (68) Rapir da’templi dTside gli arredi, E air uom porger T. aconito mischiato Con la trita cicuta«tll mio desire , Mi spinge ora a ;fcenarmi, e: tu ritieni. Musa , le brìglie : nè le mosse rote * Ti dian.terror» Tentino in prima il guado Ov..Arte d-am. (66) Teseo abbandoni Arianna in Nassa, (67) Demofe^nte non serbò a Fillide la premesti^ di ritornarsene a lei dentro due mesi, (68) Con questi versi vuol significare il poeta che è capace di commettere ogni sceUeratezza quella don~ na , che nega il favor suo a quegli uomini da* quali ha ricevuto de^ doni, Riputavasi in fatti da* Romani un enorme delitto il rapire il fuoco custodito dalle Vestali, o i .sacri arredi del tempio d* Iside; e da ogni nazione si è creduto sempre colpevole colui che porge alVuQmo /^aconito con la cicuta , cioè il vet^no. Xrli scritti fogli, e T inviate cifre Riceva accorta ancella . Apprendi e vedi Dalle stesse parole che tu leggi, Se finga, o par se son sinceri i prieghi. Dopo breve dimora ognor rispondi^ Mentre , se è bre;i^e, è stimolo agli amanti. Deh non prometti al giovin che ti prega D’ esser docile mai, ma in duri accenti Non.gli negar ciò che dimanda . Tema E speri a un tempo^ e ognor che tu il licenzi Sia minore il timor, maggior la speme. Scrivi culto parole e consuete, Che un famigliare stil più eh’ altro piace. Ah quante volte arse per dólci note II cor di dubbio amante , e fu nociva Una barbara lingua a bella Donna! Benché voi siate nell* ònor perdute. Tutte le cure vostre or son dirette A ingannate i Mariti . Idonea mano D’esperto giovin, di fidata ancella Rechi le dolci lettere , e tai pegni Non sian fidati ad un novello amante. Vidi ben spesso impallidir le donno Per tal timore , e vìvere i lor giorni Miseramente in sehìavitudin dura. Perfido è quei ohe tali doni serba. Che qual fulmine etnèo sono in sua mano. Si può tener, se al vero io non m’appongo, Lungi la frode con la frode ognora; Contro gli armati impugnar 1 ’ armi, logge Nissuna vieta . A imprimer sulla carta S’accostumi la man diverse cifre. Ah ! peran quelli contro cui vi deggio Avvertir di tal cose. In foglio mondo Digitized by Google 123 La risposta si scriva , onde non sembri Da due mani vergato . Al suo diletto Scriva la donna, .come un uòmo amante Scrive air amata » ed usi V uom V opposto. Ma da lieve materia innalzar V alma Ora a me piace a più sublimi cose, E le vele spiegar gonfie dal vento. Opra è del volto i rabidi trasporti Saper frenar : candida pace all* nonio Convien come alle belve ira crudele. Si fan per Tira tumide le guancie; Vengpn nere le vene, e inocchio splende Più truòemente del gorgòueo ‘fòco. (69) Vanne lungi da 'metromba importuna^ Disse’Pallade ^ allór che il volto suo (*^0) Mirò )iel fiume . Se voi iii mezzo all’ ira Riguardate lo specchio ^ alcuna appena ^ liistinguére pbtm W figura. ' Nè dannosa a Voi supérbr^^ facòià j TurgidJ il voltò ; có^ be^nigiii sguardi Deèsi a^es9ar 1 ’ amóre ‘J Odiahio ( e voi Già 1 fó^cre((efé che. ìie siete esperte) ‘ I fasti inambderatl^e spesso chiude Deir odio 1 sómi taciturna faccia. / Guard^ ^uel che ii mira , e ùi olle mente Sorrmi 'a^ueì cjhe rid^ e se à te un cenno §ia . Gorgoni étart t^e mostri \^enimente orribili per ìaHesta ^circonddia di serpi , e per Vocchio spaven^ tegole che ateoanò in: mezzo alla fronte . Chi fissava occhi in faccia*'alle medesime , rimaneva di sasso, (70) Pallàde / sécorido^alcuni y gettò via la tromba, perdhè ^s’accorse chè ih sonarla si faceva troppo gòHf^ la faccia. ‘ ' Con tai preludj il favcitilletlo Amor» Pose i rozzi da parte, e diè di piglio A! dardi acuti della sua faretra. Vadan lungi da noi le donne meste; Ajace ami Tecmessa t noi sol puote Tener ne’lacci suoi lemina allegra. (71) Non fa giammai che a voi porgessi preci, O Andromaca o Teome^sa , onde a me foste O r una o Valtra amiche. Appéna posso Creder che in letto maritar giaceste, Quando, a crederlo astretto io son da^iiglL Fprse ad Ajace la dolente sposa ‘ Avrà detto : mia luce, e gli altri accenti, Cari agli uomin|^ tanto f £ chi mai Vieta, Applicar gravi esempli a tenni cose, E di guerrier non paventare il npmef Cento soldati a questo^ il Duce esperto (72]^ Diè a regger cop la vite ,|è a quello cento Cavalieri, e lasciò'T altro in custodia ^ Delle l^andiere A; qual vedete impresa Atti noi siamo ; e^nel suo posto'o^gntipo ^ Venga locato. Un ricco a voi dia doni^ ' Vi sia propizi o, il Giudice , e ; il facondo ‘ Difenda i dritti vostri .'|loi poeti , Donp possiam far solo di carmi. 3a più degli altri amare il coro nostro; (71} Andròniaca dopo ìa rnòrté ^&toré amato sud sposo , r dopo V incendio di-Trofa-fpssssò for i rn i s uns nm ti alle nozze di Pirro ^ e però vìsse con ^uosto/s^ssai malinconicà. Teemessa , moglie di Ajace, er^ una schiava y e però, secondo Ovidio y. doveva aver sempre Vanirne occupato da una grave, tristezza* (711) Da/ Comandante solevansi affidile^cento sol- dati al Centurione il quale aveva per sua insegna U 9 ramo di vite. Uua grata beltà cott ampie lodi Sappiamo celebirare , e va fainoso Dì Nemesi per noi, di Cinzia il nome. (78) E dove nasce, e dove muore il Sole Conobbero Licori., e chieggon molti Chi sia Corinna nostra. Aggiungi a questo Che son T insidie ignote a" sacri Vati, Che giova V arte nostra a^ lor costumi. Kpa ambiziosa voglia, e non desio D’aver ci punge . Noi sprezziamo il fòro E son graditi a noi V ombra ed il letto. Facili amiamo ognor con certa fede, £ in vasto incendio, il nostro core abbrucia. Con placid’arte docile T ingegno Facciamo , e ben s* adattano co* nostri Studj i postumi. A* Vati aonj, o donne. Siate indulgènti, che gl^inspira un Nume,. E lor son fauste le pierie uive. (74) Ci agita un Dio.; abbiam col Cièl commercio;. Ci vien lo spirto dall* eteree sedi. * Chiedere il pre^o è scelléra^in grande Ad ottimo Poeta . Oh me infelice. Che scelle raggio tal piti non si teme Dalle jauciulle • ALmen dissimulate, Nè vi fate veder tosto rapaci. No , non cadrà nella prevista rete Un novèllo amatore . Il Cav^aliero (y3) Nemesi fu amata a celebrata da Tibullo, Cia* zìa da Properzio , tdcori da Gallo , a Ovidio ha^da^ to ne^ suoi versi alla propria amante il nome, di Corinna. (74) Le Muse si chiamavano le Dive pierie , 0 per^ chi abitarono nel monte Pierio in Tessaglia , o per-- che vinsero e trasformarono in gazze le figlie di Pierio.Non reggerà T indomito cavallo Al par di quello che già al freno è avvezzo* Nè lo stesso sentier batter tu dei Per adescar la verde gìoventude, E le menti già stabili per gli anni* QuelP inesperto, che la prima volta Sotto si pone all* amorose insegne. Che preda nuova nel tuo letto giacque. Te sol conobbe, e a te sia unito ognora; Si cìnga d’ alte siepi una tal messe. Schiva d’aver rìvjaì;ta vincerai, S* ei r amor suo con altra non divide; 1 regni e amor non vogliono compagni. Quel che invecchiò nell’ amoroso agone. Con prudenza amerà, saprà soffrire Ciò che invan soffrirla guerrier novello. Non frangerà le porte, e non furente Fiamma v’ applicherà. Non dell’ amata Farà con 1’ unghie ingiuria al delicato Volto ; e non straccerà della Fanciulla Le vesti, e non le proprie ; e per dolore Non svellerassi i crini • Questi eccessi Convengon solo a’ Giovanetti acerbi Caldi per poca età, per troppo amore. Tranquillo ei soffrirà la cruda piaga; Qual face inumidita a foco lento Abbrucìerassì, o quale in giogo alpestre Fresco ramo reciso : è quest* amore Più certo , è quel più breve e più fecondo. Con sollecita man cogliete i pomi Che fuggon. Tutto ormai s* insegni; schiuse Son le porte al nemico ; e siate fide Mentre ingannate altrui. Facil Donzella Puote mal conservare un lungo amore. Sla la ripulsa rara » e venga sempre Da lieti scherzi accompagnata • Giaccia Alla porta nrosteso , alto gridi: Porta crudele ; e molte cose umile Faccia 9 e molt^ altre minaccioso. Il dolce Noi mal soffriam ; ci sana il succo amaro; Pere spesso la nave » e fausto ha il vento. Ecco perchè non amansi le mogli; Seco stanno i mariti a grado loro. Chiudi la porta 9 e in aspro suon TuBciero Gli dica f entrar non puoi ; escluso, in seno Di lui per te si desterà l’amore. Deh riponete i rintuzzati brandi; Con gli acuti si pugni, ch^ io con l’armi Mie già non temo d’ essere assalito. Mentre ne^ lacci un amator novello Cade, gli fa sperar xhe del tuo letto Solo godrà ; poscia il rivai conosca E i divisi piacer ; senza quest’ arte Amor illanguidisce • Il generoso Destrier,se venga dal suo career schiuso. Corre velocemente , se il preceda Altri nel corso, o se lo segua . Estinto Ancor che sembri l’amoroso foco Con nuova ingiuria si riaccende, ed io, Lo deggio confessar, soltanto offeso Nutro r amor . Non troppo manifesta Sia la causa del duolo ; e ansioso creda ' L’ amante che maggior fia ancor l’offesa Di quello che gli è noto ; ed or l’inciti L’aspra custodia di fallace servo, n geloso rigore or del marito; E men grato il piacer senza contrasto Èeiichè tu sii di Taide più. }asciya,(75) Fingi timpri ; e ancor che per la porta Meglio il possa introdar , fa eh’egli venga Dalla finestra, e nel tuo volto i segni Mostra di Donna da timor sorpresa» Venga l’ancella frettolosa, e dica: Ah siam perduti 111 trepido Garzone Allora ascondi; col timor si debbe Mischiar piacer sicuro, onde 1’apprezzi» Come il marito accorto e il vigli servo Si possano ingannare i’avea taciuto* Tema una Sposa il suo Consorte^ e viva Certa che altri la guarda ; è ciò decente; Vuol ciò il padoi:, la legge, e F equitade. Chi soffrirà che custodita sii Tu , che or la verga del Prétor redense? (76) Odiose vuoi ingann^kT, miei sacri carmi» T’ osservio puro occhi miglior di quei (77) Ch’ebbe il guardiano d’io , sii risoluta, £ tesserai l’inganno • E puote invero Chi t’ ha in custodia a te vietar che scriva Se non si vieta a te di gire al bagno? E se potrà, de’tuoi segreti a parte, (75) Terenzio ha dato il nome di Taide ad una donna lasciva, che forma la parte principale della sua Commedia intitolata /^Eunuco. (76) Parla qui il poeta delle donne schiave y che divenivano libere quando il Pretore aveva toccato al» le medesime il capo con una vèrga detta yindiqta , e che occupavano nelle case delle Matrone Romane unposto corrispondente a quello delle nostre Cameriere. C77) (Giunone diede, cento occhi ad A^go custode d'io, perchè potesse soddisfare esattamente al suo incarico, ma il Dio Mercurio Pàìsdpì col suono del* la lira , e gli recise la testa Recar V ancella i foglj ricoperti Nel caldo seno da una larga fascia^ O nasconderli avvinti infra le gambe, O sotto i piedi f Se a tè ciò il custode Vieti , P ancella porgerà le spalle Di carta invece, e porterà su queste li^amorose tue cifre impresse. Un foglio Con fresco latte scrìtto inganna 1’ occhio^ Con la polve l’aspergi del carbone, * £ legger lo potrai • Del paro inganna Lettera pura in cui sia stato scritto Con la punta del lino inumidito, E le note ‘segrete incise porta . (jB) Intento Acrisie a custodir la Figlia, (*^ 9 ) In opra pose ogni più esatta cura: Eppur col suo delitto il fece eli’ avo. E che farà il Custode, se cotanti Sono in Roma Teatri, e se a suo grado (^8) Non mancano a^dì nostri degli inchiostri sìrw^ patiei y che superano ne^loro effetti la virtù degli antichi. Con un^ oncia di Ut or girlo y e cinque d^ace» to stillato si fa un composto , che chiamasi aceto di Satarno. Con questo si scrioe sulla carta bianca , e quando è asciutta non si scorgono in alcun modo i caratteri. Si sparge quindi sopra la carta una picco^ la porzione d* un liquore fatto con un* oncia d* or pig¬ mento e due once di calce viva sciolta nell* acqua ; éd allora compariscono i caratteri d*un coloraperfet’- tamente nero. Il calore e la luce coloriscono altresì i caratteri scritti con alcune soluzioni metalliche allungate con Vacqua , cioè con quella dell* oro , dell* argento , e principalmenie del bismuto. La tintura di galla è pure ì^n inchiostro simpatico , purché si faccia passar sopra di essa una qualunque marziale dissoluzione, ( 79 } Annota (a del lÀb. Presente Può rimirar le corse de* destrieri f Quando nel tempio d’Isi assister puote (8c) Al concerto de* sistri, e p^pte in altri Lochi ella gire » ove l’ingresso poi È vietato a’ compagni ? Se da’ templi Della Dea Buona può fuggir gli sguardi (8i) D’ogni uom fuor di quel eh’ ella desia f lyientre il Custode fuor del bagno serba Gli abbigliamenti della sua Padrona, Se può mrtivo nel; sicuro bagno Celar 1* Aàotante ? Se ove 1’ uopo il chiegga Per finto morbo giacerà 1’amica, , O se per vero , a lei cederà il letto? . Quando la chiave adultera col suo Medesmo nome cosa far c’insegna^ Nè sol la porta dà il bramato ingresso? S’inganna pur con molto vin la cura Di vigile Custode , ancor che colte Vengan l’uve nell’aspro ispano giogo. (8a) Vi sono ancora i farmaci che al sonno Aggravan le pupille quasi vinte Dalla notte letea • Nè mal trattiene La non ignara ancella l’importuno Con le tarde delìzie, end’ ella possa Star col suo vago quanto più le piace. Che far tante parole, e cosi lievi .Gli uomini non potevano interpénire nel Tenu» pio d'Iside , quando le donne celebravano le sue fo» ste col serbarsi , almeno apparentemente, easte per molti giorni, (81) Era agli uomini vietato V ingresso nel Tem» pio della Dea Buona o sia di Cibele. (8fl) Denota il Poeta il vin poco generoso, che i Romani facevano venire dalia Laleiania in gna provincia di Spagna* Porger precetti , se con picciol dono Si corrompe il Custode ? A me lo credi. Gli Uomini e i Dei guadagnansi co’doni, £ i doni placan pur lo stesso Giove. Che farà il saggio , se de’ doni ancora Gode lo stolto ? Ricevuti i doni, Si farà muto anco il marito istesso. Per tutto Panno guadagnar si debbo Una volta il Custode , e quelle mani Che un di vi diede, vi darà sovente. Feci querela , e l’ho ferma in pensiero Che temer si dovessero i compagni; Nè diretta soltanto all’ uomo è questa. Se credula sarai, carpirann’altre 1 tuoi piaceri, e avrai cacciato il lepre Per esse. Quella, che t’appresta il letto, E che officiósa a te concede il loco. Giacque più. volte , a me lo credi, meco. Nè troppo bella sia l’ancella tua; Sovente meco fe’della padrona Ella le veci. Ah ! dove ora mi lascio Io stolto trasportar ? Perchè contrasto Col petto inerme contro il mio nemico, Ed io da me medesmo mi tradiscof Come pigliar si debba al cacciatore L’auge! non mostra y ed a’ nocivi cani Come inseguirla non la cerva insegna. L’ utll vostro mi piace : io fedelmente Vi spiegherò i precetti , ed alle donne Di Lenno io porgerò contro il mio fato Lè Donne di Lenno in una notte, uccimo i loro mariti , e però Ovidio sotto il nome di tende quelle che con gli uomini sono troppo severe Sà Da me stesso il coltello. Ahi fate in modo ( Ardua non è V impresa ) che crediamo D’ esser amati , mentre ogutìno crede Farcii ciò che desia. La donna miri Con infocato sguardo il fido amante, Tragga dal sen sospir profondo, e chiegga Perchè sì tardi venne. Aggiunga il pianto, E finga gelosia della rivale, £ gli percota con le mani il volto. Tosto vivrà sicuro, e nel suo petto Facile nutrirà per te pietade, E dirà fra se stesso : ah si consuma Questa per me d*amore i e specialmente Se lo specchio consulta, e colto sia, ^ D’innamorar ei penserà le Dee. Ma a te chiunque sii, grave disturbo Non arrechin le ingiurie, e sbigottita Non ti mostrar, della rivale il nome Allor che ascolti, e facile credenza Non presta aMetti altrui. Ah quanto nuoccia Il creder facilmente, a te lo dica Quello che adesso narrerò di Proori. ( 84 ) Scorre vicino del fiorito Imetto ^ A’ be’ purpurei colli un sacro fonte. Di cui le sponde ognor fan grate e molli Verdi cespnglj . Ivi non alta selva (84) Procri figlia d* Eretteo Re Atene per sos- petto di gelosia si portò segretamente nelle selve e né* boschi ad osservar Cefalo figlio di Mercurio , sua Sposo , ed ottimo cacciatore . Mentre egli prendeva ri- .poso in un ombroso colletto , essa celandosi dietro alle siepi , mosse disgraziatamente le foghe degli alberi» Credè Cefalo che s* ascondesse fra quelle una fiera y e però vi scagliò una saetta che gli uccise la lua dì* letta consorte. Un l^co forma; gli arboscelli l'erba Ricoprono, e un soave odore esalano II rosmarin, l’alloro, il negro mirto. Non il tenne citiso, il colto pino, E il fragil tamarisco ivi già manca^ E non folto di foglie il busso. Scosse Da dolci aeffiretti « e da salubre Aura treman le foglie mnltiformi, £ le cime dell^ erbe. Ama la quiete Cefalo. Abbandonati i servi e i cani. Ivi stanco il Garaon spesso s’adagia; Solea cantar : mobil auretta , vieni Onde t’accolga nel mio seno, e allevj Il cocente càlor. Le intese voci Da un malaccorto far recate intere Alle timide orecchie della moglie. Tosto che Procri il nome adì dell’aura, Qnal fosse uua rivale, a terra cadde; Ammutolissi pel dolor ; nel volto Impallidid^ come le tarde foglie. Se colte sieno dalle viti l’uve. Sogliono impallidir dal verno offese, O i maturi cotogni, i di cui rami Piegansi, o le corniole ancor non atte A* cibi nostri. Tosto che; rinvenne. Straccia dal petto suo le tenui vesti. Con V unghie impiaga le innocenti guance. Jndugie non conosce, e qual Baccante Mossa dal J'irso , furibonda vola Per le pubbliche vie, sparsa i capelli. Ma già vicina, in una valle lascia I suoi seguaci ; intrepida e furtiva Nel bosco con piè tacito s’innoltra. QuaPera il tuo consiglio, allor che stolta O Procri, t’ascondeyi ; e quale ardore NelPattonito séno allor ti corset Già tu pensavi di sorprender l’aura Qualunque fosse, e di mirar co’proprj Occhj P infedeltà del tuo Consorte. Quivi d’esser venuta ora Rincresce; Or la rivale di mirar ti piace, Ed or ti penti ^ opposti affetti in seno Destan tumulto. A creder la costringe ( Che quel che tenie ognor crede l’amante ) L’accusatore, il loco , il nome. Quando SulP erbe vide impresse Torme umane, Balzolle il cor nel pauroso petto. Già T ombre brevi aVea il meriggio strette, E in spazio egual giaceva l’Occaso e l’Orto, Allor che di Mercurio il figlio Cefalo Dalle selve ritorna, e T innainmate Guance delTacque di quel fonte asperge. O Procri, tu t’ascondi ansiosa ; ei giace Sull’ erbe consuete, e vieni disse, ZefHro fucile, o molle curetta vieni. Quando conobbe il dolce error del nome, AlT infelice il cor tornò nel seno, E il primiero color sul volto suo. S’alza, movendo il corpo e move ancora Le frondi circostanti ; e fra le braccia Va per gittarsi del marito • Mosso Credendo quel rumor da qualche belva, Imprudente la man slancia sull’arco. Ed ave i dardi già nella sua destra. Infelice che fai? non è una fiera, rw Deponi ì dardi.... Oimè la tua consorte Dalle saette tue giace trafitta. Oh me infelice i eéclamà ; in petto amico Vibri il tuo dardOi o sposo. Ah che fa sempre Da te questo trafitto! Io pria del tempo La morte trovo « noa offesa almeno Da un rivale .^h farà ciò la terra, Ov* io riposi, a nae cara e leggiera. Fra quest’aure ^ che odiai sol per un nome. Già spazierà il mipspirto.. oh Dio!•• vacillo... Mi chiuda i lumi quella destra amata. Le membra moribonde egli sostiene Nel mèsto seno, e la crudel ferita Con le lagrime asperge^ Ella già spira, E la bocca del misero marito Lo spirto accoglie che dal petto incauto Deir infelice, Porcri alfine eeala. Ma sul sentier si torni. lo debbo adesso Agir palesemente , onde il naviglio Indebolito tocchi i porti suoi. Ch* io ti scorga a conviti aspetti forse, e ch’io ti guidi in questo pure attendi? Non t’affrettar; vien tardi, e già sia posta La lacerna i e decente i passi volgi. Grato è a Vener Findugio, e molto giova. Benché bratta tu sii, sembrerai bella, che coprirà la notte i tuoi difetti. Prendi co’ diti il cibo; havvi pur l’arte nel modo di cibarsi; con l’immonda mano cerca non ungerti la faccia; nò mangiar prima in casa, ma t’astieni dal farlo allor che avrai mangiato meno di quel che il ventre tuo capè, e tu brami. Paride, se veduto avesse Elena cibarsi avidamente, avria per lei nutrito sdegno, e detto fra se stesso: Ah fui ben stolto nel rapir costei! Meno disdice a donna il ber, che Bacco £ di Venere il figlio uniti vanno. Sì beva pur fin che il permetta il capo, E Talma e ì piè siaxi atti a* loro nfficj , nè raddoppiati sembrinti gli oggetti. Donna che giaccia per soverchio vino, £ turpe, e di soffrir merta ogni assalto. Sparecchiata la mensa, è gran periglio cadervi per il sonno; in mezzo a quésto Molte si soglìon far cose impudiche. Io di stender più innanzi i^niiei precetti Sento rossor. La figlia dionea Mi disse: utile è a noi quelPòpra ìstessa che in se desta vergogna. A voi si sveli. Donne, ogni fatto. I varj atteggiamenti Noti vi sien, che a tutte non conviene la medesma figura. Tu che sei pel volto insigne, giacerai supina quella che ha bello il tergo, il tergo mostri. Recava Melanion sulle sue spalle le gambe d’Atalanta; se sian belle. Si dee imitare allora un tale esempio. Porti il cavai pìccola donna ; avéa statura immensa la tebana sposa; Suirettoreo cavai però non giacque. Quella che può mostrare un lungo fianco prema con le ginocchia il letto e alquante ritorca la cervice chi le membra Ha giovanili, e senza macchie il seno mentre l’uomo sta in piedi, ella corcata giaccia obliqua sul letto nè già turpe Credete scioglier qual Baccante il crine. (OS) XeSpoifk tsUoa ^ 4fl4rQmcé mQglk E ondeggiando i capei, piegate il collo. Tu pure, a cui la pronuba Lucana macchiò il ventre di rugh , imita il l’arte Quando combatte sul cavai fugace, Ben mille son di Venere le foggie, ma la piò facil, di minor fatica È quella, in cui semisupina giace Sul destro fianco, I Tripodi febei, O il cornigero Ammon cosa piò vera Non conteran di quel che or la mia Musa- se Parte , che ci costa un lungo studio, merita fè, credete, ancor che i carmi Nostri eccedano forse ogni credensà Venere abbrugi le'midolle e l’ossa delle donne, e sia caro ad ambedue Lo scambievol piacer. Un mormorio dolce, e parole lunsinghiere e grate non manchino, nè tacita si stia in mezzo ascari scherzi unqua la donna, tu , cui d’amor negò natura il gaudio, finger lo devi con mendace suono; Lucina è un nome di Giunone, la quale presiede a matrìmon) ed apparti, i Greci dopo d^ a^er ointo i Persiani nella battaglia di Platea, levarono una decima suUe spoglie per fare un Tripode d’oro eonsagrato ad Apollo, Ateneo lo chiama il tripode della verità perchè si ritrovavano verissimi gl’oracoli di questo dio, Ammone è un soprannome di Giove, Quinto Curzio fa menzione del magnifico Tempio che gli fu edificato nella Libia, La sua statua avea la figura d’a- liete , e però si chiama cornigero Ammone. Dava essa de certi oracoli a chi la consultava , ed era a guisa d’un automa, che crollava la testa per additare a sacerdoti la strada, che dovean fare quando la portavano in processione. Ben infelice e miseranda donna È quella, che a sa stessa ìnntil tragga unutile pèr l’uomo i giorni suoi. Mentre e#ò fingerai, che non ti scofira Cerca, é col moto, fin con gl’occhi stessi procura d’ingannar. Faccian palese un frequente respiro e dolci accenti quello che giova. Termini novelli Sa la donna inventare in quegristanti quella, che chiede dopo il gaudio i doni, non sia molesta almen con le preghiere. Nè il pieno giorno introdurrai nel talamo chè giova a voi tener del corpo vostro molte cose celate. Ha fine il gioco. È tempo ornai di scendere da’Oigni che sul collo guidaro il nostro cocchio, e come fero i giovanetti un giorno, così la turba delle donne scrìva sulle spoglie, Nason ci fu maestro. Gianni Carchia. Keywords: ars amandi, erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi, Ovidio, arte amatoria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cardano: l’implicatura
conversazionale del valore civico di Melanippo -- Caritone -- the tasteful
Milanese maschi – prospero -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia).
Filosofo italiano. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s
a Roman notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating
philosopher, but then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic
by Cardano is what he calls, well, his Italian translators call – recall that
Italian philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea
– which is what conversation is – what is conversation is not a game of
azzardo? But Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never
mind Freud – Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso,
Botticelli (“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan
equivalent to ‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a
little medal of Cardano: not so much for his very Roman nose (charming as it
is) but for the backside, which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica
figura del Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità,
coefficiente binomiale e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale
invenzione dell’ implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache
permette il moto libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del
funzionamento del giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos
scio esse immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito
come funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella
matematica tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di
geometria. Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara
Micheri (o de Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con
la famiglia del defunto marito, una relazione clandestina che porta al
concepimento di un quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega
un suo amico di Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara
come governante nella sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli
morirono quasi contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire,
senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto
nella sua autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati
per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi
sono stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse
la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E
trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette
anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari.
Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga
convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel
frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue
doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente
ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.
Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si
trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori
hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora
offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi
lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco
che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non
riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta
sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente,
pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e
morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del
filosofo. Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese
dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate. Ottenne
la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di
Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si
accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette
rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso
nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di
filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo
III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato
d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a
Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle
fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso
per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore
di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di
Francia e della regina di Scozia. Colpito da un doloroso avvenimento
riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli
avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi
costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie
avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e
da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di
uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia avvelenata
con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa il delitto
e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi messa in atto
dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto che la durezza
della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per sfuggire alle
malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti con i suoi
tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla condotta
scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che arriva a
derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che espulsero il
figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse inaspettata la
notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di eresia tanto che il
cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il pubblico insegnamento
della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però a salvare Gerolamo che
fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo Silvestri che non volle
abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse che gli erano rivolte
dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa imprudenza nei
confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per aver compilato un
oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle stelle, scritto
l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto per i suoi
confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo tuteei,
dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le
testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, C. fu messo in carcere
e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione tramite
l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in forma
grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno infamante (coram
congregationem). Si sottopose docilmente alla abiura promettendo in una
lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente filosofia (la cattedra
all'università gli era stata intanto tolta) e di non pubblicare altre
opere. Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la diretta protezione
di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una pensione che gli fu
invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a Bologna..E ammesso
al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua autobiografia De vita
propria. Il punto focale della sua filosofia è il concetto rinascimentale di “uomo
universale" che dà alla sua ricerca della verità un contenuto
enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in parte furono pubblicate
nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono nei dieci volumi della
monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di metafisica, omosessualita,
mascolinita, il machio, il maschile, la medicina, scienze naturali, matematica,
astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli, che si occupa anche della
interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della numerologia, del
paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il contenuti
moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato. Vuole
arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così che la
nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere
dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però
all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei
campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a
fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in
un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di
elaborare Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi
delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e
delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia
(attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni
che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli
effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei
"miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni
astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a
Cristo. Il contributo in matematica Noto soprattutto per i suoi
contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e
dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione
dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente
questi sostenne che C. aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla
come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. C.
sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il
Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del
Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione
Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La
soluzione della equazione cubica è detta comunque di C.-Tartaglia. L'equazione
quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di C.. Nella
prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei
suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero
complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito
della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva
contestato l'anatomia galenica, spinse C. a definire Galeno un cattivo
interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate
come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più
antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre
tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che
soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di
Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca:
eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla
Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale
redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita
seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra
tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un
personaggio molto simile a C. ed inoltre una prova della sua perdurante
popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De Consolatione’
è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo celeberrimo
monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che Amleto tiene in
mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda cosa stia leggendo
e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta inoltre svariati
meccanismi tra i quali: la serratura a combinazione; la sospensione
cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da snodi, in grado
di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà di movimento
dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di trasmettere
un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e viene tuttora
usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche se porta il
suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate in una illustrazione navale. L'invenzione di
questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di
scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo
descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene
l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica
anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia
varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla
superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse
la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito
anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente
risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di C.. Altre opere: Della
sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua
autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi
d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato
contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma –
segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua
reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae”
che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una
sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione
dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De
subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni
empiriche e delle sue speculazioni occultistiche. Della sua produzione
filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:
De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia (medicina). Practica
arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis
algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De
immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De
subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De
libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim
geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum
varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De
causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus
numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de
aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta (politica).
Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus
complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero
raccolte e pubblicate a Lione in 10
volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e
un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto "G. Cardano" della sua città natale,
nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto
cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese. La
blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un
approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis
generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di
San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di
terzo grado" Il Rinascimento. Omeopatia
e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della
"Tempesta” somiglia tanto a Cardano
in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il
pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro
della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva
editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò
l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita”
(Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci
Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico
degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e
giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano,
Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume 1 Frontespizio Lettera
dedicatoria Praefatio Vita C. per Gabrielem
Naudaeum Testimonia Elenchus generalis Index
librorum tomi primi Previlege du roy 1De vita propria. De libris
propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis
Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae
encomium. Mnemosynon. De orthographia De ludo aleae De
uno Hyperchen. Dialectica Contradictiones logicae Norma vitae
consarcinata, sacra vocata Proxeneta De praeceptis ad filios De
optimo vitae genere De sapientia De summo bono De
consolatione Dialogus Hieronymi Cardani et Facii C. ipsius patris Dialogus
Antigorgias seu de recta vivendi ratione Dialogus Tetim seu de humanis
consiliis Dialogus Guglielmus seu de morte De minimis et
propinquis Hymnus seu canticum ad Deum De utilitate ex adversis
capienda De natura Theonoston seu de tranquilitate Theonoston
seu de vita producenda Theonoston seu de animi
immortalitate Theonoston seu de contemplatione Theonoston seu hyperboraeorum
historia De immortalitate animorum De secretis De gemmis et
coloribus De aqua De vitali aqua seu de aethere De aceti
natura Problemata Se la qualità può trapassare di subbietto in
subbietto Discorso del vacuo De fulgure De rerum varietate De
subtilitate In calumniatorem librorum de subtilitate (Archivio) Indice
rerum De numerorum proprietatibus Practica arithmeticae Libellus qui
dicitur, Computus minor Ars magna Ars magna arithmeticae De
aliza regula Sermo de plus et minus Geometriae encomium Exaereton
mathematicorum De proportionibus Operatione della linea Della
natura de principii et regole musicali De restitutione temporum et motuum
coelestium De providentia ex anni constitutione Aphorismorum
astronomicorum segmenta septem In Cl. Ptolemaei de astrorum
iudiciis De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus. De
iudiciis geniturarum De exemplis centum geniturarum Geniturarum
exempla De interrogationibus De revolutionibus De supplemento
almanach Somniorum synesiorum Astrologiae encomium Medicinae
encomium De sanitate tuenda Contradicentium medicorum De usu
ciborum De causis, signis ac locis morborum De urinis Ars
curandi parva De methodo medendi De cina radice De sarza
parilia Disputationes per epistolas liber unus De venenis In librum
Hippocratis de alimento commentaria In librum Hippocratis de aere, aquis
et locis commentaria In septem aphorismorum Hippocratis commentaria In
Hippocratis coi prognostica commentaria In librum Hippocratis de
septimestri partu commentaria Examen aegrorum
Hippocratis Consilia De dentibus De rationali curandi
ratione De facultatibus medicamentorum De morbo regio De morbis
articularibus Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen
Avicenna Vita Ludovici Ferrarii Vita Andreae Alciati De
arcanis aeternitatis (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber
unus Elementa Graeca inventione De naturalibus viribus De
musica Artis arithmeticae tractatus de integris (Archivio)
10.8Expositio Anatomiae Mundini In libros Hippocratis de victu in acutis
commentariaIn libros epidemiorum Hippocratis commentaria De
epilepsia De apoplexia De humanis civilibus successionibus
(Paralipomena) De humana perfectione (Paralipomena) Peri thaumason
seu de admirandis Paralipomena De dubiis naturalibus
(Paralipomena) De rebus factis raris et artificiis humana compositione naturalium De mirabilibus
morbis et symptomatibus (Paralipomena) De astrorum et temporum ratione et
divisionibus Paralipomena De mathematicis quaesitis Paralipomena Historiae
lapidum, metallicorum et metallorum (Paralipomena) Historiae animalium
Historiae plantarum De anima De dubiis ex historiis (Paralipomena) De
clarorum virorum vita et libris (Paralipomena) De hominum antiquorum illustrium
iudicio. De usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente
(Paralipomena. De vita propria. De
libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive
Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis
encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De
uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata,
sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De
sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii
Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione.
Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De
minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis
capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita
producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de
contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate
animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de
aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto
in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In
calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica
arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna
arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium.
Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della
natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum
coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum
segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum
stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis
centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De
revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae
encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De
usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva.
De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per
epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum
Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum
Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum
Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De
facultatibus medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus.
Floridorum libri sive commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici
Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu
Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De naturalibus viribus. De musica.
Artis arithmeticae tractatus de integris. Expositio Anatomiae Mundini. In
libros Hippocratis de victu in acutis commentaria. In libros epidemiorum
Hippocratis commentaria. De epilepsia. De apoplexia. Paralipomena. De humanis
civilibus successionibus. De humana perfectione. Peri thaumason seu de
admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus factis raris et artificiis. De
humana compositione naturalium. De mirabilibus morbis et symptomatibus. De
astrorum et temporum ratione et divisionibus. De mathematicis quaesitis.
Historiae lapidum, metallicorum et metallorum. Historiae animalium. Historiae
plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De clarorum virorum vita et
libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et dignotione eorum,
tum cura et errore. De sapiente. Melanippus and Chariton Italy Greek
athletes Lovers separator. Hieronymus the peripatetic says that the loves
of youths used to be much encouraged, for this reason, that the vigour of the
young and their close agreement in comradeship have led to the overthrow of
many a tyranny. For in the presence of his favorite a lover would rather endure
anything than earn the name of coward; a thing which was proved in practice by
the Sacred Band, established at Thebes under Epaminondas; as well as by the
death of the Pisistratid, which was brought about by Harmodius and
Aristogeiton. "And at Agrigentum in Sicily the same was shown by the
mutual love of Chariton and Melanippus - of whom Melanippus was the younger
beloved, as Heraclides of Pontus tells in his Treatise on Love. For these two
having been accused of plotting against Phalaris, and being put to torture in
order to force them to betray their accomplices, not only did not tell, but
even compelled Phalaris to such pity of their tortures that he released them
with many words of praise. "Whereupon Apollo, pleased at his
conduct, granted to Phalaris a respite from death; and declared the same to the
men who inquired of the Pythian priestess how they might best attack him. He
also gave an oracular saying concerning Chariton - 'Blessed indeed was Chariton
and Melanippus, Pioneers of Godhead, and of mortals the one most beloved. M/M:
Chariton and Melanippus, Blessed Pair: Athenaeus, Deipnosophistae. Like the
Athenian couple Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton
are also seen as symbols of political freedom. Felix & Chariton &
Melanippus erat, mortalium genti auctores coelestis amoris. εὐδαίμων
Χαρίτων καὶ Μελάνιππος ἔφυ, θείας ἁγητῆρες ἐφαμερίοις
φιλότατος. Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by
Iohannes Schweighaeuser Chariton & Melanippus were blessed; Pinnacle
of holy love on
earth. ATHENAEUS MAP: Name: Athenaeus Works: Deipnosophists
REGION 4 Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western
Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt and Eastern
Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans BIO: Timeline:
Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis (modern Egypt) during the
reign of the Antonines. His fifteen volume work, the Deipnosophists, are
invaluable for the amount of quotations they preserve of otherwise lost
authors, including the poetry of Sappho. ROMAN GREEK LITERATURE
ARCHAIC; GOLDEN AGE; HELLENISTIC; ROMAN; POST CONSTANTINOPLE; BYZANTINE:M/M:
Melanippus and Chariton, Two Lovers of Freedom Athenaeus, Deip. XIII.78 Like
the Athenian couple Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and
Chariton are also seen as symbols of political freedom. ut ait Heraclides
Ponticus in libro De Amatoriis. Hi [Melanippus & Chariton] igitur
deprehensi insidias struxisse Phalaridi, & tormentis subiecti quo
coniuratos denunciare cogerentur, non modo non denuntiarunt, sed etiam Phalarin
ipsum ad misericordiam tormentorum commoverunt, ut plurimum collaudatos
dimitteret. ὥς φησιν Ἡρακλείδης ὁ Ποντικὸς ἐν τῷ περὶ Ἐρωτικῶν, οὗτοι
φανέντες ἐπιβουλεύοντες Φαλάριδι καὶ βασανιζόμεναι ἀναγκαζόμενοί τε λέγειν τοὺς
συνειδότας οὐ μόνον οὐ κατεῖπον, ἀλλὰ καὶ τὸν Φάλαριν αὐτὸν εἰς ἔλεον τῶν
βασάνων ἤγαγον, ὡς ἀπολῦσαι αὐτοὺς πολλὰ ἐπαινέσαντα. --Athenaeus,
Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by Iohannes Schweighaeuser. According
to The Lovers by Heraclides of Pontus, [Melanippus and Chariton] were caught
plotting against Phalaris. Even when they were tortured to provide the names of
their accomplices, they refused. Moreover, their plight moved Phalaris’
sympathy to such an extent that he praised them and released
them. ATHENAEUS MAP: Name: Athenaeus Works:
Deipnosophists REGION 4 Region 1: Peninsular
Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4:
Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans
BIO: Timeline: Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis
(modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the
Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of
otherwise lost authors, including the poetry of Sappho. ROMAN GREEK
LITERATURE ARCHAIC; GOLDEN AGE; HELLENISTIC; ROMAN; POST CONSTANTINOPLE;
BYZANTINE. KrisArmodio, che viene riparato dal braccio sinistro del compagno
più adulto. Quel gesto inavvertito o solo genericamente descritto dalle letture
critiche, tese più che altro alla considerazione dei principali contenuti
politico-encomiastici del gruppo si fa segno leggibile invece di una categoria
interiore trasversale a tutte le epoche e alle geografie e tanto presente nello
spirito antico quanto nel nostro: l'omoaffettività. Un uomo della fine del VI
secolo a.C., chiamato Aristogitone, che aveva affrontato un rivale, oggi
potrebbe chiamarsi Marco, Francesco o Giovanni, e compiere un medesimo atto,
allungando poi un braccio come uno scudo su altri Armodio, dai nomi di Mario,
Alessandro e Franco, per la reciprocità, l'attaccamento, il calore e il mutuo
soccorso che il sentimento di essere in due sempre realizza. Quel gesto del
braccio, inventato da Nesiotes e Kritios, fissa dentro un modello di valore
civico per la retorica libertaria il segno di un amore. Armodio e
Aristogitone tirannicidi ateniesi Lingua Segui Modifica Armodio e Aristogitone
(in greco antico: Ἁρμόδιος, Harmódios e Ἀριστογείτων, Aristoghéitōn) furono gli
ateniesi tirannicidi che cercarono di porre termine al potere personale della
famiglia di Pisistrato. Statua di Armodio e Aristogitone, Napoli.
Copia romana di originale greco perduto Sono noti come "i
tirannicidi" per antonomasia, che assassinarono il tiranno di Atene
Ipparco, ma vennero a loro volta uccisi dal fratello di costui, Ippia.
AntefattoModifica Pisistrato riuscì nel 534 a.C., dopo vari tentativi (meno
riusciti) negli anni precedenti, approfittando delle tensioni che laceravano la
città di Atene, ad assumere su di essa un potere personale. Pisistrato fu un
tiranno,[1] prese il potere con la forza, ma, a giudizio unanime degli storici,
fra i quali Erodoto, Tucidide e Aristotele, non ne abusò per modificare le
istituzioni di cui la città disponeva e governò più da cittadino che da
tiranno. Quando morì nel 527 a.C.-528 a.C., i suoi figli Ippia e Ipparco
gli succedettero. Ippia, il figlio maggiore, tese a continuare nella politica
paterna, mentre Ipparcoebbe un ruolo minore nella tirannide, ma l'atteggiamento
del regime mutò profondamente in seguito alla fallita cospirazione. I
fatti si svolsero a quattordici anni dalla morte di Pisistrato. Tucidide
racconta che a far scattare la messa in atto della congiura vi furono motivi
personali di tipo sentimentale. Ipparco s'invaghisce del giovane Armodio che,
secondo quanto racconta lo storico Tucidide, "era allora nel fiore della
bellezza giovanile", dal che si deduce che doveva avere 15 anni. Armodio
era l'eromenos(giovane amante) di Aristogitone, descritto da Tucidide come
"un cittadino di mezza età" - probabilmente aveva 35 anni - e
appartenente ad una delle vecchie famiglie aristocratiche. Le relazioni
sessuali fra un uomo più anziano (l'erastès) e un giovane non erano di costume
sanzionate ad Atene ed altre città greche, sebbene tali rapporti non fossero
omosessuali nel moderno senso della parola, ma pederastici. Certe relazioni
erano governate da severe convenzioni, e le azioni di Ipparco per cercare di
rubare l'eromenos di Aristogitone erano un deciso affronto alle regole
(Tucidide dice aspramente che Aristogitone "era il suo amante e lo
possedeva"). Armodio rifiutò Ipparco e raccontò ad Aristogitone
cos'era successo. Ipparco, rifiutato, si vendicò ottenendo che la giovane
sorella di Armodio fosse esclusa dalla cerimonia di offerta alle feste
Panateneeaccusandola di non essere sufficientemente nobile. Questa offesa fu
così grande per la famiglia di Armodio che egli decise di assassinare, con la
complicità di Aristogitone, sia Ippia che Ipparco e rovesciare la
tirannia. L'uccisione di IpparcoModifica Il piano - che doveva essere
portato a termine con pugnali nascosti nelle corone di mirto cerimoniali -
coinvolgeva anche un certo numero di cospiratori, ma vedendo uno di questi
salutare amichevolmente Ippia il giorno fissato, i Tirannicidi pensarono di
essere stati traditi ed entrarono subito in azione, senza rispettare l'ordine
che si erano dati. Riuscirono così ad uccidere Ipparco, pugnalandolo a morte
mentre stava organizzando le processioni delle Panatenee ai piedi
dell'Acropoli, ma perirono per mano delle guardie del tiranno senza scatenare
ribellioni. Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, tramanda una
tradizione che vede la morte di Aristogitone avere luogo solo dopo una tortura
volta alla speranza che questi indicasse il nome degli altri cospiratori.
Durante la sua agonia, personalmente sovrintesa da Ippia, questi finse
benevolenza affinché egli tradisse i suoi cospiratori, sostenendo che la sola
stretta di mano del tiranno sarebbe bastata per garantirgli la salvezza. Nel
ricevere la mano di Ippia si dice che Aristogitone l'abbia criticato per aver
stretto la mano dell'assassino di suo fratello, al che il tiranno cambiò
immediatamente idea e lo uccise sul posto. Allo stesso modo, una
tradizione dice che Aristogitone fosse innamorato di una etera dal nome di
Leaena(leonessa) che era ugualmente tenuta in tortura da Ippia - in un vano
tentativo di costringerla a divulgare i nomi degli altri cospiratori - finché
questa morì. Si diceva che era in suo onore che le statue ateniesi di Afrodite
furono da allora accompagnate da leonesse [secondo Pausania]. L'assassinio
del fratello portò Ippia a stabilire una dittatura ancora più severa che fu
molto impopolare e che venne rovesciata, con l'aiuto di un esercito proveniente
da Sparta, nel 510 a.C. Questi eventi furono seguiti dalle riforme di Clistene,
che stabilì in città la democrazia. La fama successivaModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Gruppo dei Tirannicidi. La
mitologia successiva venne così ad identificare le figure romantiche di Armodio
e Aristogitone come martiri della causa della libertà ateniese, e divennero
noti come i Liberatori (eleutherioi) e Tirannicidi (tyrannophonoi). Secondo
scrittori successivi, ai discendenti di Armodio e Aristogitone furono concessi
privilegi ereditari come la sitesis (il diritto di mangiare a spese pubbliche
al palazzo del governo cittadino), l'ateleia (esenzione da certi doveri
religiosi), e la proedria (posti in prima fila a teatro). Visto che non si sa
se Armodio abbia avuto discendenti (è inverosimile che li abbia avuti anche
Aristogitone), questa potrebbe essere un'invenzione seguente, ma illustra la
loro fama postuma. La storia di Armodio e Aristogitone, e come venne
trattata dai successivi scrittori greci, è dimostrativa dell'attitudine nei
confronti dell'omosessualità al tempo. Sia Tucidide che Erodoto dicono che i
due erano amanti senza commentare il fatto presumendo la familiarità dei loro
lettori con tale pratica sessuale istituzionalizzata senza trovarvi
stranezze. Nel 346 a.C., per esempio, il politico Timarco fu perseguito (per
ragioni politiche) per il fatto che si era prostituito. L'oratore che lo
difendeva, Demostene, citò Armodio e Aristogitone, così come Achille e
Patroclo, come esempi degli effetti benefici delle relazioni omosessuali.
NoteModifica ^ Con la celebre spiegazione di Cornelio Nepote, nel mondo greco
veniva chiamato tiranno chi era signore di una città precedentemente libera Voci
correlateModifica Omosessualità militare nella Grecia antica Omosessualità
nell'Antica Grecia Pederastia greca TirannideAristogitone e Armodio, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Armodio e
Aristogitone, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.La
storia di Armodio e Aristogitone. Da: Projet Androphile. Portale Antica
Grecia Portale Biografie Portale LGBT PAGINE CORRELATE Ipparco (tiranno)
tiranno di Atene, figlio di Pisistrato Ippia (tiranno) tiranno di Atene,
figlio di Pisistrato Leena di Atene etera ateniese --se Sive Oeconomia omnium Operum Hieronymi Cardam, forum.
Signum t prifixum, ea denotat, qui modo in Iuccm prodeunt. PHILOLOGICA, Logica, Moralia.Vita propria, Libet. Ephemerus, de Libris
proprii». SPe|[)K De Libris propriis,
eoruaaquevfu.exeditRovilliji IV. ltMriijs' De
Libris propriis et eorum usu, ex edit. Henricpetr. V
Aeca De Socratis (ludio. Oratio ad Cardinalem Alciatum,
(ive Tricipitis Geryonis ,
aut Canis Cerberi. In Theffalum Medicum, Attio secunda.
Encomium Neronis. Encomium Podagri. Mneroofynon. De Orthographia.
De Ludo alel. DIALETTICA. Contradictiones logici. De
Vno. Hyperchen. Norma viti confarcinata.facra
vocata. Proxeneta, feude Prudentia ciuili. De
Priceptis ad filios. De Optimovitx genere, De Sapientia. De
Summo bono. De Consolatione. Dialogus Hieton. Cardani, et Facij Cardam patri».
Dialogus Antigorgias, feu De retta vivendi ratione. Diaiogus
Tetim, feu De humanis confiltii. Dialogus De morte, feo Guglielmus.
De Minimis & propinquis. Hymnus, feu Canticum ad Deum, Moralia quidam,
Physica. Vtilitate ex adversis capienda. De Natura,
Thconofton de Tranquillitate. Dialogus de Vita producenda,
feu Thconofton Thconofton. dc Animi immortalitate.
Thconofton feu de Contemplatione. MTheonofton seu
Hyperboreorum. De Immortalitate
animorum. De Secretis. De Gemmis, & coloribus.
De Aqua. Dc Vitali aqua, seu aethere. De Aceti natura.
Problematum fc&ionesfcptcm. Discorso del Vacua. Se la qualita
puo trapaliare di subbietto in subbietto. Dc fulgure. Physica. De
subtilitate. Aftio prima in Calumniatorem librorum dc Subtilitate. DcKcrum varietate. Arithmetica,
Geometrica, Mufua. t 1 A E Numerorum proprietatibus,
Pradtira Arithmetica. Computus minor. Artis magnx, sive de Regulis Algebraicis. Liber Artis
magnx, five quadraginta capitulorum, Si quadraginta
quxftionum. De Aliza regula. Sermo de plus fcminus.
Exxreton mathematicorum. Encomium Geometnx. Operatione della linea,
De Proportionibus numerorum, motuum, ponderum, f onorurm, Delia natura deprincipij,
e regolo Muficali. AJlronomica, AJlrologica, Onirocritica, DE Reftitutione temporum &
motuum cacleftium. De Prouidentia ex anni conftitutionei Aphorifmotum Aftronomicorum fegmenta feptem. Commemarij in Ptolcmxum, de
Aftrorum judiciis. De feptem Erraticarum
ftellarum viribus. De Interrogationibus. De ludiciis geniturarum. De Exemplis cdhtum geniturarum. Liber duodecim
genurarum. De Revolutionibus. De fupplemento Alraanach. Somniorum Synefiorum libri.
Medicinalium primus. Ncomiutn Medicini, De Sanitate tuenda. Contradicentium Medicorum Ubii duo,
olim' impreffi, nunc audtiores. Contradicentium Medicorum
Libri o&opofteriores, nunc primum
in lucem emergentes. Medicinalium fecundus. LVfu ciborum. De Causis,
Signis, ac locis morborum. De Vrinis. Ars curandi parva. De Methodo medendi, fettiones tres priores.dempta quarta que
Confilia quidam continebat, fuo loco redituta.
De Radice Cina- De Cyna radice, seu de Decodis magnis. De Sarza parilia.
De Oxyinelicis usu in plcuritide. De Venenis
Commentarij in librum Hippoc. de Alimento. Medicinalium
tertius. Commentarij in librum Hippocr. De Aere, aquis,
et locis. Commcntarij in Aphorismos
Hippocratis. Conclufiones de Lapidibus Galeni
in explicatione Aphorifmoru. Apologia ad Andream Camutium. Commcncarij in lib. Prognofticorum Hippocrati. Medicinalium quartus
& poliremus. Commentarij in lib. Hippocr. De Septiroeftri partui
Examen agrorum
Hippocr. in Epidem. Lonliha varia partim
edita, partimhaidenusanecdota. Opufcula Medica
lenii ia, (eu de dentibus De Dentibus, liber cjuintus,
seu de morbis articularibus. Floridorum s ive Comtnent. in Principem Hazen.Vita
Ludovici Ferranj, et Alciaci. Miscellanea, ex Fragmentis, & Paralipomenis: L fragmenta. EArcanis xternitatis,tractatus. Politica, seu Moralium,
Laber vnus. Elemehta lingua: Grscx. De Inventione.V.
t De Naturalibus viribus, traftatus. De Musica. De Integris,
traftatus Arithmeticus. Expositio Anatomix Mundini-Commentarij in libros Hippocr.
de Viftu in acutis. Commentarij in duos libros priores Epidem.Hippocr. De Epilcplia, traftatus. De Apoplexia. PARALlFOMENON Itbri.
De humanis ciuilibus fucceffiombus. De humana perfectione. HI. tn«o',
feude Admirandis.De dubiis naturalibus, De rebus
faftis raris ,& artificits.M.S. De
humana compolitione naturalium. De mirabilibus
morbis Stfymptomatibus. Deaftrorum & temporum ratione et divisionibus.
De mathematicis quxlitis. Historix lapidum, metallicorum et metallorum.
Hiftorix animalium. Hiftorix plantarum. De anima. De dubiis ex hiftoris.
De clarorum virorum vita Selibris. De hominum antiquorum illuftrium judicio.
De vfu hominum, et dignotione eorum,
tum cura Sc errore. De sapiente. Hieronymus Cardanus. Hieronimo
Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio – maschile, Prospero,
De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum, ten volumes of “Opera
omnia” analytic index – he wrote about almost everything – including logic,
dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia, same-sex, he criticised
Galenus for not realizing the distinction that at 14, a puer becomes an
adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity studies – masculinity
Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese males were ‘tasteful’
and underrated compared to Milaenese or Florentine males – he lived all over
the place – he had many tutees, whose names survive – he was possibly paranoid
– Silvestri was his best known tutee –analytic index of “Opera Omnia” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Cardano: l’implicatura conversazionale del Pietro
della Lombardia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lumellogno). Filosofo italiano. lombardia -- Grice:
“If William was called Ockham, I should be called Harborne, and Petrus
Lombardia!” -- Pietro Lombardo
rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior di un
manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi,
1160 circa) teologo e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a
Lumellogno esiste una lapide su di una casa che risorda il luogo della nascita),
all'inizio del XII secolo. Ricevette la sua prima formazione teologica a
Bologna, dove acquisì una perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Si recò a
Reims e poi a Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di
questa città insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo si recò alla
corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione del De fide
orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per incarico di
Eugenio III. Quasi certamente è uno dei teologi che nel sinodo parigino presero
posizione contro Porretano. Dopo un breve episcopato morì. Il suo
epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione
francese. ALIGHIERI (si veda) lo nomina in Paradiso. Oltre ai commenti
all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber
Sententiarum (Libro delle Sentenze), per la quale ottenne l'appellativo di
Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri in un genere letterario tipico
della teologia medievale, ossia l'esposizione delle sentenze delle autorità di
fede (i padri della chiesa ed i riferimenti biblici) l'opera del Lombardo, per
l'ampiezza delle fonti e la sua originalità, diverrà il testo di riferimento
per la didattica nelle facoltà di teologia e l'elaborazione letteraria nello
stesso campo. Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito,
adottando anche testi che normalmente non erano contemplati in queste
composizioni, come Il De fide ortodoxa di Damasceno. Con la sua opera il
Lombardo tenta di sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che
la pluralità delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo
scompiglio ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione
agostiniana tra signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze
non appartiene alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia
esegetica. Il testo si divide in quattro parti: la prima tratta di
Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli
angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato originale; la terza
dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia; la quarta dei
sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione tra res (le
prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione
delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano mantenendosi
aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o stile letterario
col quale egli opera una volontaria mimesi. Il testo venne criticato sin
dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo
descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus homo, ossia la persona
divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò
contrastava con la determinazione di origine boeziana per la quale la natura
cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di divino ed
umano. Note Per approfondimenti
vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico
de Agostini, per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo
volume sono tratti da: Abbagnano, Storia della filosofia, Torino, Pomba, e
Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da
Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998)
Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, II, pag. 37 e seg. Novara, Istituto
Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I
contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della
filosofia I, II, III, quarta edizione,
Torino, Pomba, e Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata
ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba); Colish, C., Leiden, Brill; C. Atti
del Convegno: Todi, Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull'alto
Medioevo, Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di
"Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia) C.
su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Pelster, Pietro Lombardo, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su Enciclopedia
Britannica, Siri, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia; C., openMLOL, Horizons Unlimited, C., Les Archives de littérature du Moyen Âge; C. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Rovighi, C., in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, C., Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici
analitici.Chisholm, C., in Enciclopedia Britannica, Cambridge; Illustrare 'k
iSlosofia di C. finora casi trascurata
dagli' storici della filosofia è im lavoro del tutto nuovo spedialmente
per lltalia. Protois affe!rim»a decisamente che C. non è un
filosofo, Thaureau ch'egli è il principe degl’indifferenti in materia fìlosofica.
Entrambe le asserzioni sono affrettate. Solo in Germania C. venne
studiato con maggior serietà e con particolare attenzione! Kogel pubblica a
Lipsia una monografia su C. Questa però parve confusa ed inesatta ad Espenberger
che intraprese un studio acuratissimo della filosofia di C. e della posizione
sua nel Beitràge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalter diretti
da BàumJcer e Herttìng. Di tale pubblicazione mi servii in special modo [Notre
auteur ne fui donc pas un philosophe.] De la philosophie scolastique — Paris, [Cesi
lui qua notes reconnaissons corame le chef des indiffèrents en matière de
philosophie. C. in s. Stellung z. Phil. d. Mittelal, Leipzig. Die
philosophie des C. und ihre Stellung im vwblften Jahrhundert.
Aschendorffschen Milnster] per questi miei appunti sulla filosofìa di C.
sebbene mi pervenisse al momento di stenderli e troppo lardi per farne
Fesaane minuto che essa si merita. Poiché è veramente questo il primo saggio che
si occupa con severa e profonda indagine critioa della filosofia del Maestro delle Sentenze. L'autore dimostra
una profonda conoscenza delle opere patristiche e delle scritture sacre
colle quali esercita opportuni raffronti. Egli non si è poi solo limitato
all'esame del Libro delle Sentenze, ma ha giustamente esteso le sue
indagini alle altre opere meno conosciute di C. e pure ricche di
impvortanti digressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei
Salmi detto anche Salterio, ed i Commentarli alle Epistole di S. Paolo. Solo
non ha tenuto conto dei Sermoni che sottio tra le cose più interessanti se
non più belle del Sentenz.iario, pur nel severo giudizio di Hanreau e
Bourgain, di cui Protois ha tratto dai mss. degli utili estratti mentre
se ne trova l'intero testo con poche varianti nelle Opere Omnia del
vescovo Ildeberto. Essi sono utili per completare la figura intellettuale
di C. Del quale a questo punto ripeleremo le parole: sed terrei
immensitas laboris. In verità quantunque grande sia la nostra buona
volontà non ci dissimuliamo la vastità del lavoro intrapreso : onde lo
restringeremo entro i limiti a noi concessi, raffigurandoci un poco a
quello spigolatore che move fidente sulle orme dei più abili mietitori
pago di fare un piccolo fascio delle spighe dimenticate. HAUREàU
Not. et Extr. t. Ili p. 49. BouBGAiN. La chaire firancaisc au XII siede
Paris, cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol.). I
Padri della Chiesa iniziarono la filosofia oristiana, ma in forma
espositiva, avendo ripugnanza a sottopome troppo minute dimostrazioni le verità
rivelate. È secondo il pensiero di Gregorio una profanazione fassoggettare il verbo
divino ALLE REGOLE DI DONATO. Ma quando, prima chei si diffondessero per tutta
Europa le opere di Aristotile, si attese a studiare con amore i libri dell’Organum
tradotti da BOEZIO, si accede quella tendenza già iniziata nei secoli antecedenti
a fortificare il dogma col sillogismo e l'autorità della ragione. Da
questo connubio della teologia colla dialettica del LIZIO nasce la scolastica
la quale se ha i suoi precursoiri nei primi secoli del cristianesimo non
riconosce i suoi veri fondatori che nel secolo di Abelardo e di C. Essa
nasceva per una necessità di rendere più conformei la fede al sapere più
progredito. E se da una parte non cessa di fiorire la .scuola dei mistici con
Bernardo e gli Ai tempi di Abelardo e di C. non si possede altro
d'Aristotile che la logica, cioè ciò che si chiama l'Organum e comprende:
le Categorie coll'introduzione di Porfirio, l'Ermeneutica, gl’Analitici, i
Topici, la Sofistica nella traduzione di Boezio, (Cousm — Fragments
philosophiques Paris) abati Ugo e Riccardo di S. Vittore, da un'altra il
mal compresso bisogno di libertà di pensiero apre la via ad
interminabili dispute quali giungevano talvolta ad intaccare il dogma, come
accadde per Abelardo. C. apparve come moderatore tra le due opposte
tendenze: la mistica e la speculativa, e valendosi dello stesso
metodo dialettico usato dagli avversarti eerli si propose di dimostrare
come le apparenti contraddizioni che si rileivano nelle Scritture sacre e
patristiche rischi'arate dalla ragione riconducono a rinvigorire maggiormente
te verità della fede. C. però nel Prologo delle Sentenze si scaglia
contro coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la ragion
sommettono al talento, traduce ALIGHIERI, e vogliono fare credere per
verità, i sogni di lor mente inferma. Qui non irationi voluntatem subiiciunt,
nec doctrinae studium impendunt, sed his quae somniarunt sapientiae verba
coaptare nituntiu, non veri sed placiti etiam sectantes. C. è dunque
tenuto dallo stesso compito che egli si era pronosto, cioè di dimostrare
cHte nelle scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni
ragionamento umano si riduce in ultima analisi a dimostrarne la veracità
assoluta, a non imporra egli stesso nuove e diverse dottrine le auala lo
avrebbero condotto fuori della sua serena imparzialità. Se ciò si possa
chiamare indifferentismo io non so, poiché il Maestro delle Sentenze non
sdegna di entrare e di approfondirsi nelle più minute distinzioni e
controversite fìlosofìche, cosi care ai suoi tempi, sforzandosi con passione
di ricavarne le verità da lui srià piresupposte. Nella sua umiltà che
diventò poi lefir-srendaria esrli preferisce lasciar la parola affli
altri, a Gerolamo, ad Ambrogio, e specialmente ad Agostino che è il stio
autore preferito come quello che suipera tutti srli altri padri per
profondità di vedute e copia d’argomenti nelle questioni fondamentali del
dogma. Ma non è vero che il Maestro rimanga empire nascosto e non
ap- [Questi ultimi conobbero oltre Aristotile anche Platone a cui
sembrano dare la preferenza e non furono del tutto stranieri alle vedute
dei neoplatonici. V. Bòbba La dottrina dell’intelletto in Aristotile e
nei 8140Ì pie illustri commentatori; paia di tratto in tratto a mostrarci
la via da seguire, per non perderci nel djedalo inestricabile delle
questioni. JJei «resto i più che hanno parlato di C. si sono
aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze: non hanno letto i suoi
lunghi e lucidi Commentarii alle Epistole di Paolo, e neppure quelli ai
Salmi che egli riunì sotto il titolo sintetico di Psaterium, nom^ i sjuoì
ispirati Sermoni che si trovano manoscritti alla Biblioteca Nazionale
di Parigi, e stampati tra quelli del vescovo Ildeberlo. In tutte
queste opere C. non è solo un puro e disadorno espositore di dottrine.
Certamente il Maestro va considerato precipuamente mei suo saggio delle
Sentenze, il quale lormò testo nelle scuole ed è letto e commentato più
della Bibbia mentre le altre opere vennero più presto dimenticate. Ma
anche qui se egli non espone dottrine nuove, ha però il merito grande e
riconosciuto da tutti gli storici della filosofia di distribuirle con
metodo razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle
altre. Metodo già sperimentato con altro intento d’Abelardo, ma dal
Nostro condotto a singolare perfezione. Egli slesso sull'autorità d’Agostino,
espone l’ordine col quale si deve disputare. (Sent.): Gaeterum, ut in primo libro de
Trinitate Augustinus docet, primo secundum auctoritates Sanctarum
Scriptura- nim utrum fides ita ee habeat demonstrandum est. Deinde
adversus gamilos ratiocinatores elaliores magis quam capaciores,
rationibus catholicis et similitudinibus congniis ad defensdonem et
assertioneim fidei utendum est; ut eorum inquisitionibus
satisf<icientes, mansuetos plenius instrua- mus et illi si nequiverunt
invenire quod quaerunt, de suis menlibus polius quam de ipsa veritate vel
de nostra assertione conquerantur. . Il Deniflb in Carivi, Univer. Paris
IntrodttcHo Methodus Abaelardi in IHo etiam opere quod in schoh's
Theologiae per aliquot saecula adhibebatur usurpata est, dicimus
Sententias Magistri C.Per queste come per le altre numerose citazioni
delle opere di C. ci serviamo della Patrologia dil Migne, Paris. Fu
in apecia»! modo ai metodo da mi usato che si deve J'eaiorme diffusione
del libro delle Sentenze nelle scuole. Esso nel mentre veniva a
soddisfare la naturiate curiosità del conoscere ed a dare la spiegazione
di molte credenze poneva dei limiti alla libertà del raziocinio. Ma
vienne sempre lasciato un cantuccio alle discussioni intermmabili sulle
questioni minori, dalla risoluzione delle quali in un senso o in un altro
poco aveva a soffrirne l'ortodossia. yui si esercitavano le intelligenze,
inquisitionibus satisfacientes, SMANIOSE DI SOTTILIZARE e di
sillogizzare, con tanta maggior sicurezza, quanto minore era il pericolo
di intaccare la fede. Lo stesso C. nel suo saggio non si trattiene
dal diffondersi nell'esame di questioni che a noi sembrano del tutto FUTILI e
vane come quelle ad esempio che riguardano la natura degli angeli. E non è raro anche il caso che le lasci
insolute. Cosi nel libro I, laddove domanda perchè mentre amare è
lo stesso che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo non sono
in essenza costituiti dell’amore col quale si amaaio scambievolmente, CONFESSA
MODESTAMENTE CHE LA QUESTIONE GLI SEMBRA TROPPO DIFFICILE e che egli si propone
più di riportare le dottrine dei Padri che di accrescerle: Diffìcile mihi
fateor hanc quaesti onem, praecipue cum ex praedictis oriatur quaei
siniilem videntur habere rationem quod meaei intelligentiae attendens
infirmitas turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre. Il De Vulf, Hist,
de la phil. Medievale, Louvain, come il Dknefle da un troppo reciso
apprezzamento. Ces sinthèses thèologiquea, dont la premiere idee semble
appartenir à Abelardo ètaient appellées a un succès immense. Il faut en
chercher le secret dans le besoins de la classification et d'
orgànisation qu^on eprouvait devant la masse des materiaux rassemblès, bien
plus que dans l’originante de ceux qui ont appose leur signature a
ce travail de mise en oeuvre. Cosicché il libro fatto per conciliare
ogni controversia sembrò sortire l'effetto contrario. Erasmits in Mattaei
I, iP (cit. Da Fabricius, Bib. m. aevi) e Siquidem apparet illum hoc
egisse ut semel collectis quae ad rem pertinpbant, questiones omnes
excluderet. Sed ea res in diversum exiit. Videmus enim ex eo opere
nunquam fìnìendarum quaestionum non exanima sed maria
prorupisse. Flettrt, Hist eccl. Paris] ri quam uff erre
>k E limsce col coaicmiDa^e. Eam
tameu quaestionjeon leolorum ddligentiae plenius dijudicandam atque
absolvendam ireiiinquimus ad hoc minus sufficientes. Perciò l'opera del
Sentenziario ha un intento assai modesto, né presume di sciogliere ogni
dubbio e di dirimere ogni questione. Qui il Maestro risentei della scuola
di Abelardo il quale (nel trattato Sic et non riconosceva ai pastori il
diritto di emendare le opere dei dottori della Chaesa (Migne) « Hoc et
ipsi eccleisiastici dactores attendentes et nonnulla in suis operibus
corri- genda esse credentes posteris suis emendaindi vel non se-
quendi licentiam concesserunt ». E il nostro C. così dice di sé
: (Sent. in prol.): In hoc
aulem tractatu, non solum pium leolorem, sed etiam correctionem desidero,
maxime ubi prolunda versatur veritatis quaestio, quae utinam tot
haberet inventores quot habet contradictores ! » Il libro delle
Sentenze dove così riuscire più accetto giacché il giogo del dogma era
imposto alla libera riflessione del pensiero con assai più illuminata larghezza
che non fosse abitudine del passato. Tanto che parve a più d'uno
dei suoi contemporanei la sua dottrina pericolosa e Giovanni di
Goimovaglia potè chiamarlo uno dei quattro labirinti della teologia
ponendolo allo stesso livello di Gi- jDerto Porretano, Pietro di
Podtiers, Abelardo. Scopo di C. è di fare un trattato che
risparmiasse al lettore tempo e fatica. È per rispetto ai suoi tempi un
volgarizzatore della scienza teologica dispersa ne^ libri canonici e negli
scritti malagevoli dei Padri e incompiutamente contenuta nei libri di
Abelardo, PuUeyn, Ugo di S. Vittore. Egli compila una specie di
Enciclopedia teologica ove il lettore avesse a trovare senza sforzo
tutto quanto gli facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo. « JNon
igitur debet hic labor cuiquam pigro vel multum docto videri superfluus,
cum multis impigris multisque indoctìs, inter quos etiam et mihi, sàt
necessarius: brevi volumine complicans Patrum sentias, appositis eonim
te- stimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numero- sitatem
evolvere, cui brevitas quod quaeiritur oBert sine labore». E
cosi nel distribuire la materia egli seguì un nuovo ordine sistematico e
compiuto non seguito né da Ugo di S. Vittore, né da Roberto PuUeyn, né da
Abelardo {Am quali pure trasse assai dalle sue doltrine) e pose a ciascun
ca- pitolo un titolo per facilitare le ricerche (Sani, in prol.) Ut autem
quod quaeritur facilius oc- currat, titulos quibus singnlarum capitula
dislingumitur praemisimus. Relijiiooe e scieoza.
Giovanni Scoto Erigena afferma che la teologia e la filosofia
sono una sola e una medesima scienza (1). Ma giustamente si poa&ono
fare a questo punto delle riserve perché la scuola e la chiesa si
accodano nel dire che l'ordine della ifede non é Tordine della jnagione e
che sia pei filosofi come per i teologi vi sono dei limita al
proprio dominio. Con lutto ciò la ragione e la fede non riusdroTio
mai a vivere completamente separate. Ed a torto credano alcuni che si
cominciò propriamente dalla scolastica a coffiy ciliare colla scienza la
religione. Anche ai primi Padri della Chiesa piacque di giovarsi di
entrambe e Clemente Dragone, Agostino, sono nello stesso tempo filosofi
e teologi. L'opposizione alla filosofìa come indegna di essere
applicata ai veri divini, non fu più propria e peculiare dell'età
patristica che della scolastica, le quali non sono già in opposizione, ma
Funa é naturale svolgimento del- l'altra. Questo sforzo di comporre il
dissidio ira Taulo- rità e la speculazione filosofica si continuò per
tutta i se^ coli fino al nostro SERBATI che parlando dell età dei
Padri e dei Dottotti scrive. L'uomo allora sentiva altamente che la
teologia non era divisa da luii, e che, sebbene ella travalicasse,
per l'origine e la sostanza, i limiti della natura, passava dal
ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco in* (1) De
praedestinatione (Collection de Mangin). Coniicitur inde veram esse
philosophiam veram religionem, conversimque veram religionem esse veram
philosophiam, cit. in Coasin Cours de la phU, I p. 344. feriare ad
un altro superiore dello slesso palagio delia mente, con un solo disegno
da Dio fabbricatogli. La teologia in quell'età era senza
contrasto la conduttrice e la custode di tutte le altre scienze, la
signora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato che sarebbe venuto un altro
tempo in cui alcuni pensassero doversd la teologia dividere interamente dalla FILOSOFIA?
Vediamo ora in quale rapporto si tirovassero le verità teosofiche colle
verità filosofiche nel pensiero di Pier bombardo. 11 Maestro
si attiene in massima alle parole d’Agostino (sup. Joan). Credimus ut
cognoscamus, non cognoscimus ut credamus. E nella distinzione XXII
del libro III, là dove esaminia si Christus in morte fuit homo, e risponde
che benché Pietro morì come uomo, tuttavia era in morte Dio ed uomo, non
mortale e non immortale, e tuttavia vero uomo, dice a coloro che voglioo io
troppo sotìsticare sulla ragione di ciò. Illae enim et Jiujusmodi
argutiae in creaturis locum habent sed fidei sacramentum a philosophicis
est liber. linde Ambrosius (De. fide): Aufer argiimenta, ubi fides guaeritur.
In ipsis gymnasìis suis dam dialectica taceat, piscatoribus creditur, non
diaileoticis. Ma questa fede da pescatori però, C. aggiuge più oltre, non è
cosa a noi lutto affatto estranea, peirchè essa non può essere di ciò che
l'animo ignora. E qui egli sente rinllusso del misticismo del suo-
protettore. Bernardo e dei Vittorini che primi lo accolsero a Parigi (Sent. Ili
dist.). Cum fides sit ex auditu non modo exteriori sed etiam interiori,
non potest esse de eo quod animo ignoratur. Ancora è necessario fare con
Agostino una distinlone. Alcune cose non sono intese se prima non si credono. Ma
è pure vero che alcune cose non si possono credere se prima non sono intese, come
la fede in Dio che [Opere edite ed inedite di SERBATI Introd. alla
Filosofia Casale Tip. Casuccio p« 48 sgg. Per maggiori notizie sul tei-
smo degli scolastici vedi : P. D'Ercole — Il teismo filosofico cristiano
Torino — Pbantl - Geschicte d.
Logik] viene dalla predicazione, e queste pai per la fede intendono di
più. Uoc. cil.). Ex his apparet quaedam intelligi aliquando etiam antequam
credanlur al nunc eliam per tldem ampiius intelligìintur linde colligdtur
quaedam non credi nisi prius intelligantur et ipsa per fidem ampiius
inleJlegi. Quanto poi alle cose che mima sono credute che comprese
esse non sd ignorano ael lutto perchè anche si amano (Sen.). Nec ea quae
prius creduntur penitus ignorantur tamen ex parte, quia non sciumtur. Creditur
ergo quod ignoratur non penitus sdcut etiam amatur, quod ignoratur. Pensiero
ripetuto in AQUINO ed in ALIGHIERI. In conclusione C. si libra Ira
un misticismo ed un razionalismo temperato non sfuggendo alla contraddizione,
ma affronlaaidola. Il suo concetto è quello che informa in gran parte il
cattolicismo. La fede non distrugge la ragione ma al contrario le da ali
più potenli per sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna
mtendere le parole d’Agostino: Intellectum ualde cana, e quelle d’Anselmo:
Fides quaerens intellectum. Principia rerum inquirenda sunt prius ut
earum notitia plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea). Dell’arti e
delle scienza del trivio e del quadrivio, secondo la celebre classificazione
data da Marciano Capella e riprodotta da BRIUZI e da Isidoro, LA DIALETTICA ovverosia
la logica che da principio parve una scienza preparatoria avente per
ogge'tio più le parole che le cose, acquistò nelle scuole un tale
sviluppo che fini col proporsà i più alti problemi metafisici e diventare la
prima delle scienze. Tra questi problemi, il più importante, anzi il
fondamentale che sembra raggruppare sotto di sé tutti gl’altri, ed agitò
potentemente l'età di cui parliamo, è il problema degl’universali, quale LA
FILOSOFIA si è posto innanzi in tutti i tempi. Protois scrive che la
questione degl’universali ha a suo autore Roiscelino. Ma ciò è per lo meno
detto male. Già Aristotele nel LIZIO si è posto innanzi il problema
nelle “Categorie” ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione
della Isagoge di Porfirio tradotta da BOEZIO, esso è pure [Haurbaux — De
la philosophie scoi. Paris] enuniciato, ma non risolto, parendo esso al
commeintatore d’Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le
parole Ui Porfirio. M Cosi tralascierò di dire SE I GENERI E LE SPECIA
SUSSISTONO o sono soltanto e puramente nei pensieii, se come bUSbisleaiti
sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppure entro le cose seìusibili e
con esse coeistenti: essendo troppo grave una tale impresa e rictiiedendo
maggiori ricerctxe Porfirio divide cosi il problema nelle sue III
questioni fondamentali e iu in tal modo che esso è segnalato ai
primi scolastici. I I generi e le specie sussistono per sé o
consistono semplicemente in puri pensieri ? II Come sussistenti, sono
essi corporei od mcorporei ? Ed infine: III sono essi separati dagl’oggetti
sensibili o sono contenuti negli oggetti stessi formando con essi qualche cosa
di coesistente? A ragione Porfirio reputa queste questioni di somma
difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è condotti nell'alto mare della
speculazione, ed ognuna di esse sembra pod risolversi nelle suprema
questione della quaile tutte dipendono : Che cosa è l’essere?
JNuUa di più naturale che gli scolastici inoltrandosi a disputare
di un tale argomento con molto ardire ed acutezza d mgegno, ma non con pari
preparazione filosofica sollevassero infinite e tempestose discussioni
che molto spesso non approdavano ad alcun risultato. Tre furono le
scuole principaU che si avviarono ad una diversa soluzione del problema:
quella dei REALISTI, dei NOMINALISTI, dei CONCETTUALISTI. Il nome di realisti è
dato a coloro che affermano che i
generi e le specie -- gli universali insomma -- sono una realtà sostanziale,
una vera entità distinta dall’altre. NOMINALISTI sono detti coloro che
negano la realtà di questi universali, e li ritenevano come semplici
concezioni astratte del soggetto ricondotte ad una idea comime per mezzo
della comparazione. Ma poiché questa conclusione, dovendo ammettere che
tutto ciò che v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di
significato, flatus vocis, porta alla negazione di ogni scienza, sorsero
i CONCETTUALISTI i quali aggiungeno che un tale suono, im tal nome
rappresenta un pensiero, un concetto il quale proviene dalla
somiglianza delle cose diverse: il
che non è sostanziale ma è percepito dall’intelligenza umana come inerente a
una natura individualmente deiterminata. Dopo che Scoto porta agl;estremi
il realismo, venne Roscelino che parve dirigere la dottrina del
nominalismo contro lo stesso dogma sollevando un grave scalpore nelle
scuole. Poiché, se nulla esiste che non sia individuale, il dogma del
divino, uno in tre persone vienne dalla ragione ricalzato nelle sue basi.
È bensì un errore l'uso stesso d’armi dialettiche prò e contro i misteri della
fede, perchè l'ordine della fede non è quello della ragione, ma
d'altra parte è un errore rimediabile. Ed a difesa della realtà univereale
si leva AOSTA (si veda), prima abate di
Bec in Normandia poi arcivescovo di Cantorberv e Guglielmo di Chamoeaux, il
fiero avversario d’Abelardo. Ed è quella del primo propriamente un
realismo mistico, quello del secondo un realismo
scientifico. Abelardo poi è il capo riconosciuto, a volte vincitore,
a volle vinto, del CONCETTUALISMO, col anale si possono trovare molti riscontri
nella filosofìa moderna. Quale dove essere l'opinione dei Dottori della
Chiesa in tanto contrasto di idee? Evidentemente nessuna delle suesposte-
se e quando lo notevano. I realisti confondeno le cose con la generalità delle
idee, i concettualisti negano il reale fondamento delle idee universali, i
nominalisti le idee stesse. I dottori non possono appartenere a nessuna di
queste dottrine pericolose. Essi doveno essere tratti a trovare un criterio
conciliativo, né ciò è diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E
quale è questo criterio? La specie non è solamente un concetto. Essa è
altresì una cosa, non una cosa in sé, a parte dell’oggetto sensibie, ma
nna cosa facente parte con essi, formante con essi qualche cosa di co-esistente.
Tale a un dipresso la posizione dei dottori tra le scuole che divideno i
logici disputanti, corrispondenti sotto altro nome alla scuola
dell'idealismo critico ed alla scuola dell’idealismo
trascendentale. Tra questi dottori concilianti che l'Haureau non
propriamente chiama indifferenti si trova il nostro Maestro delle sentenze,
il quale pero non si occupa espressamente della questione, ma solo ne
tratta per incidenza, ragionando della Trinità nel 1 libro delle Sentenze. Per C.,
l'universale non è come per Guglielmo di Champeaux un solo essere
dappertutto identico e però difficile a
comprendere, ma al contrario colla moltiplicazione numerica dell'individuo
diventa anche in essenza tante volle accresciuto. Se l’animale è il genere,
dice il Maestro, e IL CAVALLO la specie si avranno III CAVALLI ed anche tre
ammali (Sent. I d. XIX, 8) CVM SI ANIMAL GENVS ET EQVVS SPECIES APPELLANTUR III
EQVI IIDEMQVE ANIMALIA. Perciò, quando la specie può dirsi triplice
devono anche essere III gli individui. Tutto dunque si raccoglie
nell'individuo. Ma egli poi aggiunge : SMITH, JONES, WILLIAMS -- Abramo,
Isacco, Giacobbe sono tre individui. Ma, nello stesso tempo, anche tre
uomini e tre animali. Specie e genere non sono quindi forme soggettive,
ma un oggetto che è nelle cose poste al difuori di noi. Ma non si dirà
che l'essenza divina è una specie e le persone individui, come è specie
Tuomo e sono individui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché se l’essenza
divina fosse una specie come l’uomo, come non si direbbe che Abramo,
Isacco e Giacobbe sono un sol uomo cosi non si direbbe una essenza essere
tre persone (Sent.)..Sicut enim dicuntur Abraham, Isaac, lacob, TRIA
INDIVIDUA ITA TRES HOMINES ET TRIA ANIMALIA 10: Nec speoies est essentia divina
et persona individua, sicut homo species est, individua autem Abraham,
Isaac et lacob. Si enim essentia specìes est ut homo sicut non dicitur
unus homo esse Abraham, Isaac et lacob. ita non dicitur una essentia esse
tres personas. Il Maestro quindi, a mio parere, non nega all’universale un fondamento
reale in quanto però va unito all’oggetto sensibile, ma distingue
nettamente le cose temporali dalle cose divine alle quali NON convengono
i nomi di universale e di partìcdare e le distinzioni della
logica. Abael hist. cai.:Erat antem in ea sententia de communitate universaliam,
nt eandem essenti ali ter rem totam simtil singulis suis inesse astrueret
individuis. cfr. Espenberg — Die phil. d C. EsPENBEROER. « Art nnd Gattung sind
dem- nach nicht subjektive Gebilde, sondern objektiv in der una
mngebenden Auszenwelt begrìindet », Teoria della coi>osc^i>za.
i\el Gommenlario delle Epistole di S. Paolo C. -venendo a parlare
delle visioni le distingue 'n tre generi: corporali, spirituali,
intellettuali. E le ultime sono le. più perfette perchè vedono non cogli
occhi corporali ó colla immaginazione, ma per sé stesse. Qui il Maestro viene a
toccare sebbene in modo indiretto della conoscenza che noi abbiamo coi sensi
corporali, ei di quella che acquistiamo colla memoria, la quale ci ripresenta
immagini vere quali abbiamo già apprese coi sensi o finte quali rimmagin
azione forma secondo il suo potere (Collectanea in epist. ad Cor. II, 12). In
bis tribus generibus (scil. visionis) illud primum manifestum est
om- nibus quo vid'etur coelum et omnia oculis conspicua. Nec illud
alterum quo absentia oorporalia cogitantur, insi- nuare difficile. Coelum
enim et terram et quae in eis videre possumus, etiam in eis constituti
cogitamus. Et ali- quaiido nihil videntes oculis corporis* animo tamen
corporales imagines intuemur vel veras sicut ipsa corpora vidimus et
memoria retinemus vel fictas sicut cogitatio formare potuerit. Aliter
cogitamur quae novimus, aliter quae non «novimus w. Altrove
nel Commentario dei Salmi paragona la me- moria al ventre che riceve i
cibi : (Comm.) Sicut enim venter escasi recipit ita memoria rerum tenet
notitiam. Nel libro III delle Scinlenze C. pariando della fede dice che
essa si riferisce soltanto alle cose che non ci appaiono è sostanza di
cose sperate come disse Paolo e ripetè poi ALIGHIERI (1), che conobbe il
Maestro forse più d’AQUINO. E qui contrappone la fede alla conoscenza che
si ha delle cose evidenti, tra te qiiali pone anche l'anima deiruomo che
sebbene non veduta, è da lui intuita cogitando. Concetto raccolto poi e
svilupipato da Cartesio, il quale prende la coscienza umana come il punto
di par- [Paolo (Ep. ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim
snbstan- tia rerum, argumentum non apparentinm . » — ALIGHIERI
(Par.): Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene non
parventi. ieaia dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà che IV
sistenza ci è data dal pensiero: cogito ergo sum. Sent.). c( Non sicul corpora
quae videmus oculis corporeis, et per ipsorum imagines quas memoria
tenemus, etiam absentia cogitamus; nec sicut ea quae non videmas et ex his quae
videmus cogitalionem utromque formamus, et memoriae commendamus, nec
sicut hominem, cuius animam etsi non videmus, ex nosbna coniicimus et ex
motibus corporis hominem sicut videndo didicimur, intuemur etiam cogitando: non
sic vìdetur fides in corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam tenel
oerliseima scientia. CosH nel capitolo già citato delle CoUectanea, il
Maestro tocca della conoscenza che noi abbiamo del nostro intelletto
intellicfendo . E' insomma nella ragione stessa la spiegazione della
nostra ragione (In epist. ad Cor.) Hac visione quae didtur
intellectualis ea cemuntur, quae nec cemuntur corporea, nec ullas gerunt
formas similes corponim, velui ipsa mens et omuis animae affectio
bona. Quo enim alio modo nisi intellisrendo intellectus consoicitur?
Nullo. ». C. paragona l’intellieenza ad una luce interiore che
illumina res<=ere intelligente: (im epist. ad Eph.). Omnis qui
inteiligit quadam luce interi ore illusfrRtiir». Ripete in sostanza
il concetto già espresso da S. Agostino: (in ps. 41 n. 2
Mierne) « omnis qui inteiligit luce quadam non corporali, non carnali,
non exteriore sed interiore illustratur ». Chiarito il modo
di conoscere, resta a parlare dell'oggetto della conoscenza. Che cosa è il
vero? Tutto che è è vero, secondo il concetto della filosofia
patristica, come, e questo Io si vedrà in appresso, tutto ciò che è è
pure buono. Il falso va inteso in un sen®o del tutto privativo, cioè non
è sostanza di qualche cosa, non è ciò che è, ma è ciò che non è.
(In ps.). Veritas enim est de eo quod est. Men- dacium vero non est
subslantia vel natura ìd est, non est de eo, quod est natuiraliter, sed
de eo, quod non est. Ed in altro luogo dice il Maestro : la verità è ciò
che è come vien detto : (in ps.). Veritas est cum res ita est cum
dicitur. Quia ip9e diodi ei faeta suut Paolo
Sostanza e^ accM^ote. S. Agostino concepiva la
sostanza come il concetto di assenza o di naliu-a preso in senso generale
da subsistere peirchè ogni cosa sussiste a sé slessa : omn«is enim res
ad se ipsam subsistil. Ma in senso più particolare, s'intende di
ciò che è soggetto d'altre cose come del colore, delle forane corporee,
ecc. J\on attrimenti Pier Lombardo: (sent.; in ps.). Substanlia intelligitur illud ouod
sumus: homo, pecus, terra, sol; omnia ista substantiae snnt : eo ipso quo
sunt naturae, ipsae substantiae dicun- tur. Nana et quod nulla est
substantia, nihil omnino est. Substantia enim est cdiquid esse ».
Ma in quest'ultima significazione, il detto .^oncetto non
appropriasi a Dio perchè Dio è semplice. (Sent.) « Res ei^o
anutabiles. . . proprie di- cuntur substantiae, deus autem, si subsistit,
ut substantia proprie dici possit, inest in eo aliquid in subiecto et non
est simplex ». E' quindi a torto che parlando di Dio si dice che
è una sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non ©ia Dio, e la
parola sostanza non si dice propriamente che delle creature. Parlando di
Dio è meglio servirsi della parola essenza» Riguardo
all'accidente il maestro delle Sentenze è dello stesso avviso di BOEZIO
che lo definisce : (in Porph. ed. Basii) Accidens est quod adest et abest
praeter subiecli corruptionem. (Sent.) a non sicut ac- cidentia in
subiéctis quaé possunt abesse vel adesse ». S. Agostino e BOEZIO
sono i due filosofi ai quali iì nostro C. attinge con eguale misura. Nelle
Sentenze parla degli accidenti, cioè delle apparenze che gli sembrano
piuttosto esistere senza soggetto che essere nel soggetto, quali il
sapore ed il peso (accidenti) nel sa- cramento della Eucaristia, che sono
senza soggetto, poi- ché quivi non è altra sostanza che quella del sangue
e del corpo del Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti.
Perciò son quegli accidenti per sé sussistenti. (Sent. IV d. XII,
1; in epist. ad Cor.). Si autem quaeritur de acciflentibus quae remanent
i. e. de speciebus et sapore et pondere, in quo subiecto fundentur,
potius mihi videtur fatendnm existere sine subiecto quam esse in
subiecto, quia ibi non est substantia nisi corporis et sangumis dominici,
quae non affìcitur illis accidentibus... remanent ergo illa accidentia
per se subsistentia ad my- slerium riti ». « Natura multiplex nomen
est. Nam et philosophi et e- thici et theologi usu plurimo ponunt hoc
nomen». Cosi Porrelano (in Boet.
ed. Basii). Ma se molli sono i nuovi significati presso i filosofi,
vediamo in quale senso più propriamente l'adopera il nostro Pier
Lombardo. Per lui natura è ciò che é concreata colla sostanza.
(Sent.). Substantiae nomine atque naturae dicunt signifìcari
substantias ipsas et ea quae naturali ter habent scilioet quae concreata
sunt eis sicut ani- ma naturaliter habet intellectum et imaginem et
volnnta- tem et huiusmodi». Le €086 che awemgano per causa seminale,
si dice che aweaigono secondo natura, quelle invece fuori natura
av- vengano soltanto per volontà divina. Ne viene che ogni creatura
obbedisce a leggi naturali. (Sent.). Et illa quae secund'um
cau- sam seminalem fìunt, dicuntur naturaliter fieri, quia ita
cursus naturae hominibus innotuit. Alia vero praeter natu- ram, quorum
causae tantum suni in deo... omnis creaturae cursus habet naturales leges.
yuale sarà dunque la legge naturale ? Quella che eb- bero anche i pagani
(2), che indica all'uomo ciò che è bene e ciò che è male e che si
riassume nel non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a
noi. (in epist. ad Rom.). Etsi non habeat (s'cil. gentilis
homo) scriptam legem, habet tamen naturalem, qua intellexil et sibi
conscius est, quid sit bonum quidve malum; lex enim naturalis iniuriam
nemini inferre, nihil alienum praecipere, a fraude et penuria abstinere,
alieno coniugio non insidiari et caelera alia et ut breviter
dicatur nolle aliis facere auod tibi non vis fieri. Quanto poi alla
persona, il Lombardo, parte dal con- cetto ^ià enunciato da BOEZIO che la
persona è la sostanza individuale d'una natura ragionevole: (ed. Peiper).
Persona est naturae rationalis individua substantia. Ovunque noi troviamo una
sostanza individuale nella specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima
che è so- stanza razionale, è dunque una persona? C. risponde
negativamente ricorrendo all'airtificio di parole ^à adoperato da BOEZIO
nel sfuo libro de duabus naturìs (ed. Peiper). Cioè Tanima è sostanza
razionale, ma non tuttavia persona, perchè non è per se sormns^
cioè è congiunta ad altra cosa. Dio solo può agire contro natura:
(Sent. loc cit) super hunc naturalem cursum Creator habet apud se posse
de omnibus facere aliud, quam eorum naturalis ratio habet; ut. scilicet,
vir^a arida re- pente fioreat, et fructum ^^at. et in juventute sterilis
femina, in senectute pariat, ut asina loquatur et huiusinodi. CICERONE,
De leg.; Atque, si natura confirmatura ius non erit, virtutes omnes
toUentur Nam haec nascuntur ex eo, quia natura propensi sumus ad
diligendos homines, quod fundamentum iuris est. (Sent.) Nam et modo anima
est substantia rationalis, non tamen persona, quia non est per se sonans,
imo alii rei comiuncta. Tuttavia l'anima è persona quando per se est:
onde quando è sciolta dal corpo è persona come è Fangelo.
(Sent.) « Anima, non est persona, quando alii rei unita est
personaliter absoluta enim a corpore persona est siculi angelus.
U^ià Agostino parla di una materia informe dalla quale
sarebbero derivate tulle lè cose che sono distinte e formate.
(de genes. contra Manich. I, 5, 9 Migne). Primo ergo materia facta est
confusa et informis unde omnia fìerenl quae distincta atqua formata sunt,
quod credo a graecis caos appellari). Così pure BOEZIO (edit Basii
p. 1138) parla di una materia informe e siemplice come la ale e di una
materia formata e non semplice come i corpi. Anche per C. le cose create
furono formate da una materia informe (I'n ps.). Quoniam ipse dixit,
idest voluit et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata de
informi materia. E cosi pure nel secondo libro delle Sentenze : (dist.). Alii
vero hoc magis probaverunt et asseruerunt, ut prima materia rudis atque
informis creata sii Postmodum vero ex illa materia rerum corporalium genera
sunt formata secundum species propria. D’Agostino C. deriva pure il
suo concetto della forma. (Sent.) « Dicit Augustinus causas
primordiales omnium rerum in deo esse mducens simili- ludinem artifìcis
in cuius dispositione est qualis futura sii arca. Il Maestro ripete
a questo punto appoggiandosi intieramente ad Agostino quanto Abelardo e
Gilberto Prretano dicono con compiuto linguaggio scientifico
quando chiamaiio le idee forme esemplari della mente divina. Non
così chiara come in questi elementi platonici è l'idea della forma presso
i sentenziarii ai tempi aristotelici. Causalità. Qui il Maestro dà questa
definizione della idea di causa. Tutto ciò che in sé permanendo genera od
opera qualche cosa, è il principio, ossia la causa di ciò che genera od
opera. (Sent.). Si autem quicquid in se manet et gignit vel
operatur aliquid, principium est eius rei quam gignit vel edus quam
operatur. Dio però si dice eh fa ed opera qualche cosa, per- chè è la
causa delle cose scientemente esistenti. (Sent.). Deus ergo aliquid
agere vel facere dicitur, quia causa est rerum noviter existentium. Con
ciò vien presupposto che tutto ciò che avviene, avviene per una causa
necessaria e che nulla nasce che non sia preceduto da una legittima
cagione. C. in seguito si domanda se nulla possa sfuggire o questa legge
di causalità e possa awemare per caso. Ma egli risponde : se qualche cosa
avviene nel mondo per caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina
pìnovvi- denza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina
provvidenza, v'è qualche natura o sostanza che non appartiene all'opera della Providenza.
Ma tutto ciò che è, è buono per la partecipazione di quel bene che noi
chiamia- mo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire per caso.
Inutile è il notare che questo argomento si trova già in Agostino, Ugo di
S. Vittore, Abelairdo. (Sent.) « Si ergo casu aliqua fiunt in
mundo, non providentia universus mundus administratur. Si non providentia
universus mundus administratur, ali- [Vedi EspuNBKBOBB] qua natura vel
substanlia est quod ad opus providentiae non pertinel. Omne autem quod
est... boni illius parteci- patione... bonum est, quod divinum bonum
provideoliam vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo. Le nozioni di
spazio e di misura, ci vengono date da C., laddove parla di Dio che è
immensurabile ed iniCBteso. (Sent.) Neque dime(nsionem
habet (sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum assigmatur
principium, medium et finis et ante et retro, dextera et smistra, sursum
et deorsum quod sui interpositione facit distantiam et circumstantiam...
dicitur in Scriptura aliquid locale sive circumscriplibile et e converso, sci!,
quia diimensionem (bapierus longiltudinis et latitudinis distaai-
liam lacit in loco ut corpus. Più avanti definisce il luogo nello spazio
ciò che è occupato in lunghezza, altezza e larghezza da un corpo (Sent.)
« Locais in spatio est quod lop- giludine et altitudine et latitudine
corporis oocupatur)). Come Dio neppure gli spiriti creati possono
essere circonscritti nello spazio. Essi però possono in certo modo
essere locali perchè quando si trovano in un luogo (non si trovano in un
altro : però non hanno dimensioni e per quanto siano numerosi, non
possono riempirlo. (Sent.) « Spiritus vero creatus quo- dammodo
est localis, quodammodo non e®t localis. Localis quidem dicitur, quia
definitione loci terminatur, quoniam cum alicubi praesens sit totus,
alibi non invenitur. Non autem ita localòs est ut dimensionem capiens
distantiam in loco faciat. C. infine conclude che Dio non si muove né
nello spazio, né nel tempo, che Tanima si muove nel tempo, ed il corpo
nelo spazio e nel tempo. Di qui le loro diverse natuire. Ecce hic
aperte oistendilur, quodi nec locis aec temporibus mutatur vel movetur
Deus, spiritualis au- tem natura per tempus unovetur, corporalis vero
etiam per tempus et locmnn. Che cosa è il tempo ? Ad
una tale domanda cosi risponde S. Agostino nelle Confessioni: Se nessuno
me lo chiede lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chieda non lo so: con
piena fede dico tuttavia di sapere che se nulla passasse, non vi
sa- rebbe un tempo passato e se nulla dovesse avvenire^ non vi
sarebbe un tempo futuro, e se nulla fosse non vi sareb- be un teimpo
presente. C. definisce il tempo, la variazione delle qualità che
sono nella stessa cosa che si muta. (Sent. ) <( Mutari autem per
tempus est variari secundum qualitates quae sunt in ipsa re quae
mutatur... Haec enim mutatio qua fìt secundum tempus, vanatio est
qualitalum . . . et ideo vocatur tempus». L'eternità fa antilesi al
tempo. Il Lombardo come A- belardo ripete qui le parole di Boezio:
Stabilisque ma- nens das cuncta momri quando dice: (In ps.) «Et
video, id est sciam, quoniam tu es proprie qui stabiEs ma- nens das
cuncta moveri. Garattei'a appunto dell'eternità è la stabilità, del tem-
po la mutabilità (in epist. ad Hebr. I) « In aeternitate enim stabilitas
est, in tempoire autem varietas ; m ae- ternitate omnia stamit, in
tamporei alia aocedunt, alia suc- fcedHint. Il problema cosmologico si
presenta al Maestro nel libro II delle Sentenze alla prima distinzione.
Egli dimostra sulla fede delle Sacre Scritture, che non vi è che un
prin- MiGNB ( Espenberger). Quid
est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti expli- care velim
nescio: fidenter tamen dico scire me, quod si nihil prae- teriret, non
esset praeteritum tempus ; etsinihil adveniret, non esset fUtunim tempus,
ei si nihil esset, non esset praesens tempus , cipio solo di tulle le
cose. Alcuni (ilosoli, come Platone ed Anstolile, avevano pensalo che il
mondo avesse molti principii, che la materia che lo comipone fosse
increata ed eterna, che Dio non ne fosse punto il Greatore, ma
sem.- plicamente l' oa^ganizzatore. Ma la dottrina cattolica al
contrario ci insegna che Dio solo, principio di tutte le cose, ha tutto
crealo dal nulla, le cose visibili e le invisibili, il cielo e la terra (Sent.).
Creationem rerum insinuans Scrip- tura deum esse creatorem initiumque
temporis atque om- nium visibilium ved invisibilium creaturarum in
primordio suo ostendìft dicens (g:en. I, 1) In principio creavit deus
caelum et terram. His enim verbis Moyses... in uno principio a deo
creatore mundum factum refert elidens errorem quorundam plura sine
principio fuisse opinantium. Plato namque tria inilia existimavit deum
scilicet exemplar et matenam et ipsam mcreatam sine principio et deum
quasi artificem non creatorem. E altrove conferma che il mondo non è
coetemo a Dio e senza alcun principio, ma creato da Dio come in-
segna la scrittura. (in ps.) « Quia ipse dixit et faota sunt
— hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn. Dio creò ogni
cosa dal nulla : creare è propriamente ricavare qualche cosa dal nulla :
onde a Dio solo compete il nome di creatore (Sent.). Creator enim est,
qui de nihilo ali- quid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid
facere hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit... Ipse est
ergo creator et opifex et factor. C. passa poi ad esamina-re la creazione del
mondo e specialmente .l'opera dei sei giorni commentando il racconto
della Genesi. Le spiegazioni ch'egli offre, sono tolte ai padri antichi
tra i quali S. Ambrogio, Agostino, Gregorio, il venerabile Beda e Giovanni
Grisostomo. Insieme con vedute geniali e profonde, si trovano in
quella parte dei suoi libri ove si paria della creazione, alcune
teorie che le scienze naturali hanno poi definitivamente condannate.
Basta ricordare la teoria dei quattro elementi di cui si compone il cosmo,
e quella che considera il fir- mamento come una immensa volta solida alla
quale sono attaccati gli astri, e Topinione che i piccoli insetti
nascano &6 dalla corruzione dei carpi organici. Ma
il Lombardo espone la scienza dal secolo decimosecondo : d'altronde egli
di tali cose sembra parlare in forma dubitativa e come è suo
costume non fa che esprimere le opinioni che ai suoi tempi
correvano. dell'uorpo o^il'unlv^rso* Là dove parla
della creazione, il Maestro pada anche del fine per il quale l'uomo e
l'angelo furono creati. La somma bontà divina ha voluto far parte della
sua felicità etema a due delle sue creature, all'angelo ed all'uomo
: perciò li creè ragionevoli affinchè conoscessero il sommo bene,
l'amassero, ed amandolo lo jK>ssedesseiro e posse- dendolo fossero
felici. L'angelo di natura incorporea e l'uomo composto di anima e di
corpo furono creati per lodare e per servire Iddio; non già perchè questi
abbia bi- sogno dei servigi umani, ma affinchè l'uomo godesse nel
servirlo, poiché in questo si giova chi serve e non colui al quale si
serve. (Sent.) Factus ergo... homo projter deum dicitur esse,
non quia creator deus et summe beatus alte- rutrius indiguerit officio...
sed ut servirei ei ac fruirelur.'.. in hoc ergo proficit serviens... non
ille cui servi tur. Pensiero che vien perfezionato da S. Tommaso
(Sum. contra gentes II, 46) e dall'ALIGHIERI (Parad.): Non
per avere a sé di bene acquisto Ch'esser non può, ma perchè suo
splendore Potesse risplendendo, dir: Subsisto. In seguito
aggiunge che come l'uomo è stato fatto per Dio, così il mondo per l'uomo,
il quale si trova in un mezzo tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli
stesso deve servire. (Sent. II, I, 8) « Et sicut factus est
homo propter deum i. e. ut ei serviret, ita mundus factus est
propter é6 hominem, scil. ut ei servirei.
Positus est ergo homo 'n medio ut et ei servirelur et ipse serviret; ut
acciperet u- trumque et reflueret totum ad bonum hominis et quod
ac- cepit obsequium et quod impeffidit... ». L uomo infine si
distingue da tutti gli altri animali per la sua aspirazione alle cose
superne, ed è perciò che egli ha il corpo eretto e quasi rivolto al
cielo. (Sent.) « Ecce osl^isum est, secundum quid sit homo
similis dei... Sed in corpore quaaidam pro- prieitatem habet quae haec
indicat, quia §st erecta statura secundum quam corpus ajiimae rationali
congruit, quia a caelum erectum est ». È LO STESSO CONCETTO DI
CICERONE (De legibus). Nam quum caeteras animantes abiecisset ad pastum, solum
hominem erexit ad caelique quasi cognationis domiciliique pristini
conspectum excitavit. E non di CICERONE soltanto. Tra i gentili cf. OVIDIO
Metamorf. I, 84-86 SALLUSTIO Catil. Tra i filosofi cristiani Agostino (de
gen. centra Manich. I, XVII), BRUZI (de anima cap. IX) Beda (in hexaem I)
Abelardo (in hexaem). Tantum enim, ut tradit auctoritas,
cognoscit ibi quiHque quantum diligit. (Sent.) Foteoze
d^ll'anirpa. 11 problema psicologico veniva proposto da Ugo di S. Vittore
in queisti termini: (de sacram.) yuaerunlur autem quiam plurima de
origine animae, quando creata fuit et tolde creala fuit et qualis
creata fuit. (cfr. August. de quant. animae I, 1). August. de
quant. animae). Era questione tra i filosofi secondo Giovanni di
Salisbury (Mei.) se fosse una sola potenza la quale ora sentisse, ora
ricoondasse, ora immaginasse o se pur rimanendo l'anima semplice, essa
fosse dotata di molte potenze (MieNB). Recolo enim fuisse philosophos,
quibus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam esse substan-
tiam animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter prò rerum
diversitate exercet. Eorum ergo opinio est, quod eadem po- tentia, nunc
sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc di- scemat investigando
nunc investigata assequendo intelligat. Sed plures sunt e contrario
sentientes animam quidem quantitatem simpli- cem, sed qualitatibus
compositam et sicut multis obnoxiam passio- nibus, sic multis potentiis
utentem ». V. Espenberger. C. si attiene in ciò a S. Agostino e definisce
quei^le potenze come naturali proprietà dell'anima, yueste sono una sola
sostanza ed esistono nell'animo so- stanzialmente; e noiii
accidentalmente : poiché sebbene rela- tive tra di loro ciascuna è
sostanzialmente nella sostanza oell animo. (Sent.) « Hic
attendendum est ex quo sensu accipiendum sit quod supra dixit, illa tria,
scilicet memo- riam, intelligentiam, voluntatem esse unum, imam
mentem, unani essentiam, quod utique non videtur esse venim juxta
»pix>piietatem sermonis... Illa vero tria, naturales proprietales seu
vii-es sunt ipsius mentis. Sed jam videndum est quoniodo liaec tria
dicantur una substantia. Ideo quia sciJicet in ipsa anima vel mente
substantialiter existunt, non sicut accideiitia in subiectis, quae
possunt adesse vel abesse uiide Augustinus in lib. IX de Trm. cap.
5 alt : Admonemur, si utcumque videre possumus, haec in animo existere
substantialiter, non tanquam in subiecto, ut color in corpore; quia etsi
relative dicuntur ad invincem, singula tamen substantialiter sunt in
substantia sua. Spiegata cosi coli autorità altrui la natura delle
potenze dell anima, il Lombardo distingue nella ragione due parti : la
parte superiore che si volge alle ragioni eteme delle cose, la inferiore
che si piega a osservare le cose temporali! (Sent.) « Ratio
vero vis animae est superior, quae, ut ita dicamus, duas habet partes vel
differentias, superio- rem et inferiorem. Secundum superio«rem, supemis
con- spiciendis vel consulendis intendit; secundum inferiorem, ad
temporalium dispositionem conspicit ». Da ciò deriva la distinzione
ch'egli fa della sapienza e della scienza. La definizione che diedero gli
antichi della sapienza, cioè : Sapientia est rerum divinarum
humana- rumque scientia, va divisa cosi che sapienza si dica pro-
priamente della conoscenza delle cose divine, scienza della conoscenza
delle cose umane. (Sent.). Illa definitio dividenda est, ut
rerum divinarum oognitio sapientia proprie nuncupetur, hùmanarum vero
rerum cognitio proprie scientiae nomen obtineat. L'influsso mistico di S.
Bernardo suo protettore e dei suoi primi maestri di S. Vittore, si fa
sentire in C. là dove afferma che la maggiore o minore quantità di sapere
deriva dalla quantità di amore: (Sent.) Sed qui magis diligit plus coginioscit
». Abelardo definisce Tanima come una certa essenza spirituale e
semplice: (introd. ad theol. Ili, 6) « Anima quippe spiritualis quaedam
et simplex essentia est ». Non diversamente la definisce il nostro C. là dove dice (sent.) « Mens enim i. e.,
spiritus rationalis essentia est spiritualis et incorporea ». Così
Abelardo come C., si riconnettono a Agostino che in più luoghi dei libri
tratta deU anima -n quanto spirituale ed incorporea. L'anima si dice
semplice perchè non si diffonde in e- stensione, ma in qualunque corpo in
tutto o in qualsivoglia paorte di essa è intiera. Cosi quando avviene
qualche cosa nella più piccola parte del corpo, che sia avvertita
dall'a- nima benché non avvenga in tutto il corpo, tutta Tanima
sente perchè non tutta si tien nascosta. (Sent.) Simplex dicitur
anima) quia mole non diffunditur per spatium loci sed in unoquoque
corpore et in toto tota est et in qualibet eius parte tota est. Et
ideo cum fit aliquid in quavis exigua particula corporis quod sentiat
anima, quamvis non fiat in toto corpore, illa tamen tota sentit quia
totam non latet. In ciò segue C. la dottrina professata da Agostino e da
Plotino, il primo nel libro di trinitate, de quantitate animae, de immut,
animae, il secondo in enn. (edit Volkmanm). Ma se l’anima è semplice,
dice il Lombardo nel luogo citato, in confronto del corpo, per sé stessa
non è semplice ma molteplice. Poiché altro è essere operoso, altro
Inerte, altro acuto, altro memore, altro è desiderio, altro è ti-
more, altro è letizia, altro è tristizia, e queste cose ed altre dello
stesso genere si possono trovare nella natura delVa- nima ed alcune senza
le altre ed alcune più ed altre meno, onde è manifesto che la natura
dell'anima non é semplice, ma molteplice « unde manifestum est
animae non sim- plicem sed multiplicem esse naturam. In
conclusione la natura dell’anima offre due lati: è semplice da un lato se
si paragona colla natura del corpo molteplice se si paragona colle sue
potenze Ma ranima è altresì immortale. L'uomo è fatto a somiglianza
di Dio e la somiglianza nella essenza perchè essa è immortale ed
indivisibile (Sent.) Factus est homo ad similitudinem dei -- similitudo in
essentia quia et immortalis eit indivisibilis est. linde Augustinus, de quant,
anim. Anima facta est similiter deo, quia immortalem et indissolubilem fecit
eam deus. Ma la filosofia scolastica fedele al precetto: distingue
prequenier^ come limita e divide il concetto della semplicità deiranima
cosi na limita e divìde quello della immoortalilà, distinguendo il
coooeilto della morte intesa in senso asso- luto di annientamento da
quello della stessa intesa in senso relativo di mutazione : ed in
quest'ultimo senso l’anima non è del tutto immortale (Sent.) In omni
mutabili natura nonnulla mors est ipsa mutatio quia fecit aliquid in ea
non esse quod erat, unde et anima humana quae ideo dicitur
immortalis quia secundum modum suum nunquam desinit vivere^ ha- bet
tamen quandam mortem suam. Riguardo all’origine dell’anima si agitavano ai
tempi di C. due diverse opinioni, l’una del traduzionismo (1) che
pretendeva che l’anima vienne generata come il corpo, l'altra del
creazionismo che pretendeva al contrario che è creata da Dio
direttamente. A quest ultima si attiene naturalmente C. con
Abelardo, Roberto PuUus, Ugo di S. Vittore. Dio creò ranima dal nulla
dice il Maestro: (Sent.) «Flatus factus est a deo, non de deo, non
dealiqua materia sed de Odo di Cambra!: (de pen. orig. II) « Sunt autem
multi qui volunt animam ex traduce fieri sicut corpus et cum corporis
semine vim etiam animae procedere » Vedi Espen. 6, I 101
nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione di coloro che affer- maaio
con Origene che le anime sono state tutte create al principio del mondo,
e quella di coloro che con i Lu^ci- feriani e Cirillo ed alcuna dei
Latini pensano che Tanima si comunichi ai figli per generazione e nello
stesso modo che il corpo. Mentre Tanima non è infusa nel corpo che
quando esso è tonnato ed adatto a riceverla. (Sent.) Sed quicquìd
de anima primi hominis aestimeoitur, de alias certissime sentiendum est,
quod in corpore creentur; creando emim infundit eas deus et in-
fundendo creat ». E più avanti: (Sent.) e( Unde Augustiiniis in
ecclesiast, dogm. animas hominum di<rit non esse ab initio inter
creaturas intellectuales natuT^as nec simili creatas sicut Origenes
fìngit necque in corporibtis per coitum seminum sìcuT Luciferani et
Cyrillns et quidam LatiinoiTum praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus
corpus tantum per coniugii oopulam seminari, creationem vero animae
solum cneiatoirem nosse eiusque iudicio formato iam corpore animam creavi
atque infimdi ». E nel libro IV spiega ancor meglio quest'ultimo
pen- siero ricorrendo all'esempio della casa e del suo abitatore
che vi entra soltaoito quando è ben costruita (Sent.). Sed iam formato
corpori anima datur, non ini conceptu corporis nascitur cum semine
de- rivata. Nam SI cum semina et anima existit de anima, tunc et
multae animae quotidie pereunt cum semen fluxu non proficit Ti'ativitati.
Primum oportet domum compaginari et sic habitatorem induci».
E qui è opportu/no ricordare che questa teoria dell'anima si trova pure
con poche varianti nel canto del Purgatorio laddove il Poeta discorre
della nascita dell'uomo e spiega come (Tanimal divenga fante.
Relazione tra Fanirpa ed il corpo. . Seguendo il concetto
aristotelico dell'età di mezzo, il Lombardo ritiene Tanima come forma del
corpo. (Sent.) « Formatum vero intelligitur corpus propria anima
animatum et informe quod nondum Habet animam. Un tal concetto va
intimamente collegato con un passo della Bibbia: (Exod.) « Si quis
percusserit mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc in-
formalum fuerit, multabitur pecunia; quod si formatmn fuerit, reddel
animam prò anima », C. deride le favole di coloro che immagi- nano che le
anime siano rinchiuse nel corpo, come in un carcere, per i peccati
commessi in cielo (Sent.) Multi in fabulas, vanitatis abierunt dicenls, quod
animae sursum in caelo pecoant, et secundum peccata sua ad corponia prò meritis
diriguntur, et dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt hi
tales post cogilationes suas et... versi sunt in profundum, dicentes
animas in caelo ante conversatas et ibi aliquid vel mali egisse et prò
meritis ad corpora terrena detrusas esse. Hoc autem respuit catholica
fides ». Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea
perchè l’uomo capisse che se potè unire due cose cosi diverse, quali
l'anima è il corpo in una tale unità, non è impossibile ch'egli possa
partecipare per quanto umile alla sua gloria (Sent.) Lufeamque
materiam fecit ad vitae sensum vegetare, ut sciret homo, quia si potuit
deus tam disparem naturam corporis et animae in federationem unam et in
amicitiam tantam coniungere, nequaquam ei impossibile futurum rationalis
creaturae humilitatem ad sua Rloriae partecipationem sublimare. C. non
crede che il corpo sia carcere dell'anima nel senso che sopra si è detto,
perchè f)er es- sere opera di Dio è un bene: ma è pure un carcere
nel senso che il corpo a corrompe e corrompendosi aggrava l’anima (in
ps.) «Vel potius corpus est career non utique secundum id, quod deus
fecit ipsum bonum est, sed secundum id, quod comimpitur et aggravat
animam i. e. oorruptio eius quae venit ex peccali, career est. Altrove
chiama il corpo quasi strumento e servo del- Tanima : (in epist. ad Rom.)
« Si corpus, quo inferiore tamquam famulo vel instrumento utitur anima...
». E cosi pure si legge in un suo sermone : (2P De codem die: In passione
Domini seu in annuntiatione (Protois). Dominus est spiritus noster, anima
tamquam domina, corpus tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur
et si oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ». Che cosa è
infatti Tuoino se non un'aniina fornita di corpo? si domanda Ugo di S.
Vittore (1). Però a que- sto riguardo il Lombardo usa di una certa
moderazione; ed il suo modo di pensare intomo alla persona deiruomo
ci fa credere che egli dà un posto importante anche alla vita. Il Maestro
delle Sentenze sul finire del suo libro principe, cioè alla distinzione,
entra poi a discorreire della morte e della risurrezione del corpo.
E fu il padre Michele da Carbonara il primo a far notare la conformità
che vi è tra le dottrine svolte da Pier Lom- bardo e i luoghi della
Divina Commedia che parlano della risurrezione, quantuncfue la ragione
fondamentale di essa data dal Maestro diversifichi in sostanza da quella
data dal Poeta. Nella risurrezione ciascuna anima separata
riprenderà il coqx), ripigtierà sua carne e sua figura
(Inf.) quale era nel fiore della età: e sarà mage^iore allora
la sua beatitudine e la sua cognizione : « amplior erit eorum
cognitio ». Ciò è diffìcile a spiegarsi, dice il Maestro. Ma è certo che
nell'anima è un vivo desiderio di ripigliare il corpo; riunita al corpo
Tanima ha perfectum naturae suae modum ed ha ampliorem cognitionem.
Altri che verranno poi, si spingeranno più addentro nella questione
come farà S. Tommaso. Ma, dice il Carbonara, il Maestro sta come colui che tira
le linee più larghe d'un quadro, in suU'indeterm inalo; e si legga
at- [Sent., Migm. Quid enim est homo nisi anima habens corpus ? Nel
sermone 11 (in die Cineris ad poenitentes — .Ms. lat. in Protois p. 138): «vita
praesens messi comparatur et aestati, quia nunc inter ardores tentationum
colligenda sunt futurorum merita praemiorum. Carbonara, Dante e C. (Sent.)
con prefazione e per cura di Murari 2
ediz. Città di Castello Collezione di Opuscoli Danteschi inediti o rari
diretti da Passerini. tentamente questo tratto « ^f mmor sU
healitudo sanctorum post iudicium; sì leig'gta attentamente e si vedrà
che se vi è trailo che specchi il canto del Paradiso, questo tratto
è desso. La slessa queslfone, gli stessi punti determinali; ma Insieme
rindeterminatezza, il vago, che neirinsieme domina il Maestro, si risente
nel Poeta. Come la carne gloriosa e santa Pia rivestita, la nostra
persona Più grata fia, per esser tutta quanta : (cperfeobum
natuirae suae modum habebit anima».Omne qaod est, in quantum est, bonum
est. Tutta TEtica scolastica è necessariamente compene- trala
della dogmatica teologica. Quella di C. non diversa in sostanza da quella dei
suoi maestri^ si riat- taeca alle discussioni teologiche intorno alla morale
che ai suoi tempi si dibattevano. La prima questione che ci conviene
esaminare, è quella che riguarda il libero esercizio della
volontà. La libertà, pensa egli con Ugo di S. Vittore (Sent.), di
cui sente più volle l'influsso, chiede di poier compiere non solo il
male, ma anche il bene. (Sent.) « Verum nobis magis placet ut
ipsa libertas arbitrii sit et illa, qua magi® liber est malum, et alia
qua quis liber est ad bonum faciendum. Ex causis enim variis sortitur
diversa vocabula». Il Lombardie si chiede in appresso quali fattori
deter- minano la libertà umana e ne distingue due, cioè la ra-
gione e la volontà. La prima disceme tra il bene ed il male, la
seconda si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la
definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo C. (Sent.).
Liberum verum arbitrium est facultas rationis et voluntatis, qua bonum
eligitur gratia assistente, vel malum ea desistente. Et dicitur
liberum, duantum ad voluntatem quae ad utrumlibet flecti potest.
Arbitrium vero, quantum ad rationem, cuius est facultas et potentia illa,
cuius etiam est discemere inter bonum et malum et aliquando quidem
discrelionem habens boni et mali, quod malum est eligit, aliquando vero
quod bonum est...,.» e più avanti: (Sent.) « Liberum ergo
dicitur arbitrium quantum ad voluntatem, quia voluntaTie moveri et
sponta- neo appetitu ferri potest ad ea quae bona vel mala indicet
vel indicare potest ». Il Lombardo si affretta poi a spiegare un
passo di S. Agostino, ove questi afferma che l'uomo perde il libero
arbitrio dopo il peccato, onde si legge nei Vangeli: (Pel.) A quo erdm devictus
est, huic servus est (Vedi August. enchirid. Migrie). TIon
ciò non si vuol dire che l'uomo perde intiera- mente la libertà, ma solo
quella che ci trattiene dalla mi- seria e dal peccato (Sent.) <( Ecce
liberum arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non
quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed quia libertatem
arbitrii perdidit non quidem a necessitate, sed libertatem a miseria et
peccati. Est namque lib^rtas triplex, scilicet a necessitate, a peccato,
a miseria. A necessitate et ante peccatum et post aeque liberum est
arbitrium. Sicut enim lune cogi non poterai, ila nec modo. Ideoque
voluntas merito apud deum indicalur, quae semper a necessitate libera est
*i iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas, ibi non est libertas; ubi
non est libertas, nec volunlas et ideo nec merilum. Haec libertas in
omnibus est tam in malis quam in bonis. Il Sentenziario perciò nel suo
Commentario nei Salmi (rimprovera coloro che attribuiscono alle stelle ed
al fato, la colpa dei loro peccati facendone in certo modo respon-
sabile Iddio, che è Tautoire del creato: (in ps.) « Ila clamel aeger ad
medicum, et dicat : Cum libero ar- bitrio creavi! me Deus: ideoque si
peccavi, ego peccavi non fatum, non fortuna, non diabolus, me coegit :
sed' ego persuadenti consensi ». io: In
conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già si è veduto, definisce
il libero arbitrio un& facoltà della ragione' e della vodontà colla
quale si sceglie il bene col soccorso della grazia od il male se la
grazia ci manca. Ma questa definizione, aggiunge l'autore, non conviene
a Dio né ai santi che par essere incapaci di peccare, hanno un
libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio è la sua volontà
ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza necessità e liberamente tutto
ciò che le piace. Quella degli angeh e dei santi non può più portarsi
verso il male, perchè essi sono coiiifermati neha beatitudine e
neilla grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure conservato il suo, ma
perchè egli voglia il bene gli è necessaria la grazia del
Redentore. La teoria del libero arbitrio, che il Maestro
professa, intesa a conciliaire il dogma coi dettami della ragione,
non sfugge, come è ben naturale, a gravi difficoltà. Cosi egli è
costretto per quaiinto si sforzi di provare il contrario, a mettere
l'uomo in una posizione non del tutto giusta, rispetto alla sua libertà,
poiché se egli fa il male, ne è tutta sua colpa (ideoque si peccavi ego
peccavi — in ps. loc. cit.) quantunqua non possa andare ^nte dal
peccalo, mentre se fa il bene, il merito è tutto di Dio.
(Sent.) « Non tamen sine libero arbitrio proveoiiunt merita nostra,
scilicet boni effectus eo-rumque progressus atque bona opera quae Deus
remunerat in no- Das et haec ipsa sunt Dei dona. Unde Augustinus ad
Sixtum presbyterum: Cum coronat Deus merita nostra nihil aliud coronai
quasn munera sua. Quamto poi alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose
che debbono avvenire, noi non possiamo fare in altro modo di quello che a
lui è noto, dal che ne verrebbe la nega- zione di ogni libertà umana,
egli non oppone nulla in que- sto punto dove espone la teorica del libero
arbitrio. Ma noi possiamo conoscere il suo parere in proposito,
purché noi ci riportiamo a quel punto del libro P, ove parla della
prescienza di Dio, allora assai dibattuta dalle sette sco- lastiche, come
quella che sembrava condurre a riconoscere il fatalismo. Il Maestro delle
Sentenze per rispondere a questo argomento, fa uso della distinzione così
nota agli scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero
del senso congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si può dare che Dio
abbia preveduto una cosa e ch'essa non avvenga, ma è possibile che essa
non avvenga, e allora Dio non Tavrebbe preveduta. Sottigliezze a cui la
scuola dogmatica è costretta a ricorrere ogni qualvolta vien messa ale
strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo libro: De Fato, libero (mbitrio et
providentia Dei (V lib. Bàie) ove si sforza egli pure si conciliare il
destino la provvi- denza e la libertà deiruomo, finisce col non saper
dare altre soluzioni che quelle poste innanzi dalla scolastica,
confessando però che esse sono piuttosto delle illusioni che delle vere
risposte: Videntur potius esse illusiones islae quam respomiones. Fine
a cui tendiamo tutti é la felicità : (sent.) « Beatos autem esse velie, omnium
hominum esl ». C. ricorda le parole di CICERONE: Beati certe omnes esse
volufnus, ed è lontano dal contraddirvi, ma anzi ne deduce che poiché
tutti desiderano la felicità, tutti ne hanno dentro di sé la conoscenza:
«... sequitiu' ut omnes beatam vitam sciant. Vediamo ora come procede il
Lombardo neiranalisi della felicità. Sul principio del primo libro egli
comincia dal distinguere la differenza che v*è tra usare di una
cosa e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere la nostra
volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per amore e ciò non
avviene in questa vita. (Sent.) « Uti est assumere ali<juid! in
f acultateni voluntatìs. Frui autem est, uti cum gaudio, non adhuc
spei sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui sed tantum uti,
ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui esse amore dnhaerere
alieni rei propter se : qualiter etiam hic multi adhaerant De. ALIGHERI, Purgatorio: Ciascun
confusamente un bene apprende Nel qual si queti T animo, e desira:
Perchè di giugner lui ciascun contende. E poiché questo sembra far
iidsceire eontraddiàoni, egli la rivolse così chiarendo il suo concetto.
Tanto qui come nel futuro si può in certo modo fruire della beati-
tudine eterna, ma mentre in cielo noi la godremo in modo perfetto perchè,
come dice S. Agostino, l'avremo vicina qui in terra, non la godiamo che
per riflesso ed è ciò che ci fa sopportare i travagli della vita.
(Sent.) « Haec ergo quae sibi contradicere vi- demtur, sic
determinamus, dioente», nos et hic et in futuro frui : sed ibi proprie et
perfecle et piene ubi per speciem vi- debimus quo fruemur, hic autem, dum
in spe ambulamus fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil.
Augu- stinus) in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli
ilio fruentas jam beati sunt quo et nos frui desideramus; et quaai'timi
in hac vita iam fruimur, vel per speculum, vel din aenigmate, tanto
nostram peregrinationem et lolera- bilius sustioemus et ardentius fruire
cupimus ». In questa teorioa il Lombardo si liem stretto a Agostino ed
esprime 41 medesimo comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tom-
maso col fine mediato ed iumiediato. guanto alla questione, se si
possa gioire della virtù per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la
vera fe- licità, egli si prova come è suo metodo di conciliare la
prima opinio*ne, che sembra confortata da un passo di Ambrogio, con la
seconda professata da S. Agostino, affermando che la virtù può essere
amata per sé slessa, ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere
ad un fine più elevato e riferire la virtù a Dio come fine ul-
timo. Amoralità d^Ue aztooi urpaoe* Quali sono le azio^ni umane che
si debbono chiamare buone secondo C. e quali cattive ? Egli risponde
suirautorità di S. Ambrogio e di S. Agostino, che ciò che fa buona o
cattiva una azione è Tintenzione. Ed in ciò non discorda da Abelardo che
afferma appunto nelFEtica: « Unde ab eodem homine cum in diversis
temporibus Ilo idem fiat, prò divemsitate tametn
inlentionis eius operatio modo bona modo mala dicitm* ». Infatti il
Maestro nel libro secondo d^e Sentenze (dist. XI, 1) dice quasi allo
slesso modo : « Nam simpliciter ac vere sunt boni illi actus, qui
bonam causam et intentionem id est qui voluntatem bonam comitantur et ad
bonum finem tendunt: mali vero sim- pliciter dici debent qui perversam
habent causam et inten- tionem ». E cita a questo proposito le parole di
S. Ago- stino : (enarr. in ps.) « Bonum eriim opus intentio
facitìK In conseguenza è un'azióne buona confortare i po-
veri se si fa per compassione e misericordia : ma la stessa azione
diventa cattiva se la si fa per ambizione. Vi sono tuttavia delle azioni
le quali sono cattive per sé stesse e che la intenzione non può
rettificare: tali sono la menzogna e la bestemmia. Ksse poi sono
cattive in quanto sono privazioni dell'es- sere, perchè ogni cosa, in
quanto è, è buona : Omne quod est in quantum est bonum. L.a le^^e
fT)orale« Stabilito cosi guali sono le azioni buone o cattive, &
seconda dell'intenzione, restava a determinare quale è il caratieire
morale che deve contraddistinguere le nostre a- zioni e qual norma si
deve necessariamente seguire per muovere al bene : dione insomma dove
deve dirigersi- la buo- na intenzione. In coerenza colle dottrine da lui
professate, •il Maestro pone la regola delle azioni umane nella
legge divina : perciò il peccato consiste in una infrazione alla
legge divina (1). (Sent.) « Peocatum est omne dictum vel
factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid est ipeccatum
nisi legis divanae praevaricatio? ». n C. ammette altresì una legge
naturale, lex natu^ raliSj la quale ebbero anche i Gentili, ma questa non
basta a con- durre a salvamento. Ili Nofli è qui il
luogo di indicare il difetto originale d una tale dottrina che nel porre
fuori di noi la legge del nostro operare, si condanna alla,
contraddizione. Mi basterà ri- coirdare che essa si presenta assai più
sviluppata in AQUINO, il quale pone innanzi iJ concetto aristotelico
della ragione umana, la quale è la natura dell'uomo in quanto è
uomo: ondfe poiché ogni cosa è buona quando è con- forme alla sua propria
natura, ogni cosa sarà buona ri- spetto airuomo quando sarà conforme alla
ragione. Ma questa stessa ragione e natura umana ripete il suo
potere regolativo dalla natura divina : « quod autem ratio umana
sit regula voluntatis humanae, ex qua eius bonitas mensuretur, habet ex lege
aeterrm quae est divina ». (Sum theol..). In conclusione la
filosofia patristica e scolastica, si accorda nel porre il principio normativo
dell'operare u- mano fuori aeiruomo stesso, cioè nella sapienza
divina identica essenzialmente col suo volere. Bei}e ^ n)ale.
Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che tutto ciò che è, in quanto
è, è bene : « Omne quod est, in quantum est, est bonum » (Sent.). E
poi- ché l3io é d'autor© di tutto ciò che esiste Dio é rautore di
ogni bene. (Sent.) (Deus) omnium quae sunt auctor est, quae
in quantum siuiif bona sunt. Ma non viieme di conseguenza che Dio sia
l'autore an- che del male, giacché il Lombardo come tutti gli Scolastici,
concepisce il male come gualche cosa di propria- mente negativo, cioè
come la privazione o la corruzione del bene. (Sent.) « Malum
enim est comiptio yel privatio boni... Quid enim aliud quod malum dicitur
nisi privatio boni?». Anche Agostino nel libro De civitate
Dei (Migne) parla di causa deficiente e non efficiente del cattivo
operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem cau- sani malae volunfalis: non
enim efficiens est, sed defl- ciens, quia nec illa effectio est sed
defeclio ». E di qui trae buon argomento il Maestro a
confutare l'obbiezione di eoJoro che insinuano che Dio essendo au-
tore di tutto ciò che esiste, deve essere altresì autore del
peccato. (Sent.) « Quocirca mali auctor non ^t (scil. deus)
et ideo ipse summum bonum est, a quo ^n nullo delicere bonum est, et
malum est deflcere. Non est ergo causa deficiendi id' est tendendi ad
jion esse, qui, ut ita dicam, essendi causa est, quia omnTum quae
suoit, auctor est, quae in quantum sunt, bona sunt... Ecce aperte
habes quod deficere a deo... malum est ». L.oiT7bardo nel cielo del
5oIe. Entrato €on Beatrice nella sfera del sole Dante,
ap- preoide diairanima di S. Tommaso chi essa sia e chi siano i
fulgor vivi e vincenti Sella sua ghirlanda. Se si di tutti gli
altri esser vuoi certo, Di retro al mio parlar ten vien col viso *
Girando su per lo beato serto, QuelValtro fiammeggiare esce dal
riso Di Graziano, che Vano e l'altro foro Alutò si che piace in
Paradiso. L'altro ch'appresso adorna il nostro coro Quel
Pietro fu che con la poverella Offerse a Santa Chiesa suo tesoro
{Par.);. Qui Buti commenta : con la poverella offerse
fece la sua offerta della sua fa- cilità, come la po-verella della quale
dice rEvangelio di Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva,
ma con buon cuore e peirò Iddio accettò più la sua offerta che
quella del ricco, che, benché offerisse molto, non offerse con si buono
animo. Commento di Buti sopra la Divina Commedia per cura di C. Giannini
Pisa I più dei oammentatapi ricordano le prime parole del prologo del
Liber Sententiarum : « Cupientas aJiquid de penuria a-c temiitate
nostra cum paupercula in gazophilacium Domini miUere ardua scandere
et opus supra vires nostras praesumpsimus». Le parole di C.
chiaramente fidludono al noto episodio della poverella, riportato da San
Luca e da S. Marco e nooi da
Giovanni come erroneamente riferisce il Buli. Dice San
Luca: « Respiciens autem vidit eos, qui mittebant munera sua
in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam vi- duam pauperculam
mittenlem aera minuta duo. Et dixit: Vero dico vobis, quia vidua haec
pauper, plus quam omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia siti
miserunt in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi, omoiem
victum suum quem habuit misit. Così ad un dispreeso racconta San Marco
con leggere vananti : solo è da notarsi che egli chiama la donna
uidua una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col diminu- tivo
tanto affettuoso di paupercula che per essera stJ^lo scelto da Pier
Lombardo fa pensare ch'egli si sia riferito in special modo al passo di
San Luca della Volgata. Ma ciò poco importa : importa invece assai il
notare come l'umiltà della vidua paupercula avesse toccato «profondamente
il cuore di C. il quale nel vergare quelle parole doveva forse ricordarsi
con teneirezzìa di un'altra vedova poverella di un lontano paese di
Lombardia: e come ALIGHIERI che nei veirsi che dedicava ai persooiaggi
della sua^ Commedia soleva «per lo più introduirre Tele- mento soggettivo
dei ricordi ed affetti personali non senza ragione ricordò quel punto e
quello solo dell'opera di C.. L'influenza che il ma^fister
Petrus esercitò sul pensiero del Divino Poeta non è stata ancora tutta
quanta spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11 tkeologus .
Dantes nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il posto d'onore che
gli conviene, ma ad AQUINO commentatore di C.. Se ALIGHERI ed AQUINO non
si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti a poca distanza di
tempo e sono entrambi commentatori e perfezionatori dell'opera ancora
rozza si ma feconda di Pier Lombardo : l'uno raggiunge finalmente colla
sua ma- unifica somima quel connubium fidei ac rationis che il
Magister aveva solo tentato, Taltro ina canta il trionfo
glorioso. Che Dante avesse letto il Rbro delle Sentenze con mollo
amore ci è provato non solo dai versi succitati, ma da numeirosi passi
del Paradiso ove come diremo tosto rimitaziione risulta evidente : ed io
sarei anche propenso a credere che rAlighieri non si fosse Termato alla
lettura di quel libro solo ed a tutti noto di Pier Lombardo.
Qui sono tratto ad accennare fuggevolmente alla famosa questione
del viaggio di Dante a Parigi : questione ove troppo, eletti ingegni si
cimentarono perchè io presu- ma di recare qualche nuovo raggio di
luce. Dante zill'Uoiversiià di Parigi. Giovanni di Serravalle
comme«ntatore racconta. Anagogico dilexit Theojogiam sacram, in qua diu
studuit tam in Oxoniis in regno Angliae quam Parisius in regno Franciae :
et fuit Bachalarius in Universitate Pa- risiensi in qua legit Senlentias
prò forma magisterii : legit Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut
moris est, et fecit omines actus qui fieri debent per doctorandum
in Sacra Theologia. Egli continua poi a dire che Dante non potè
ottenere la laurea perchè gli mancò il denaro per la licenza
(deerat pecunia). Onde tornò in Firenze per acquistarlo, optimus
artista, perfectus Theologus e quivi fatto «priore si diede ai pubblici
uffici e più non si curò della Università di Parigi. Il (racconto di
Giovainni di Serravalle fu accolto dairO- zanam e dairArriviabene con
maggior serietà che mm me- (1) G. TiBABOSOBi — storia della leti.
Hai. Modena - Fratria F. de Serravalle Translatio et comentum totius libri
Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da Colle, nunc primum edito —
Prati - (Jiachetti in fol. ritasse. Secondo un tale» racconto Dante
sarebbe andato a Parigi nella sua giovinezza contro raffestazione del
Villani, del Boccaccio, di Benvenuto da Imola che fanno il viaggio degli
ultimi anni. Ed il chiaro professor Cipolla osserva che è appena
credibile che Dante fossei in cpiel tempo cosi spirovviiyto di credito da
non potere ottenere la somma che gli era necessaria : onde giudica il
racconto di poca probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il rac-
conto appare manifesta quando un poco si pensi al modo come era
organizzata la facoltà teologica di Parigi ai tempi di Dante. Il
buon vescovo di Fermo volendo mostrarsi molto ap- profondito nella
conoscenza dei gjradi accademici com- mette degli errori grossolani : et
fuit Bacchalarius in Universitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma
Ma- gisterii: legit Biblia. Ma si è veduto nella parte storica del lavoro
che Tanno in cui il baccelliere éiventsiV aSententiarius cioè
commentava in pubblico il libro delle Sentenze non pre- cedeva, ma
seguiva la spiegazione della Sacra scrittura: dopo quell'anno il
baccelliere si chiamava baccalaureus forrnatus che risponderebbe mutatis
mutandis al nostro laureando. Perciò Giovanni di Serravalle per essere
esatto come vuol parerlo, avrebbe dovuto invertire l'ordine delle
parole. Ma non vogliaino essere molto esigenti su ciò: c'è ben
altro. Gli omnes aclus qui fieri dehent per doctorandum in
sacra Theologia (1) erano e forse Giovanni di Serravalle lo ignorava, i sermoni
(sermones) e le conferenze (controversia^) che si dovevano tenere nei
.tre o quattro anni che precedevano la licenza ed infine le tre
dispute pubbliche di cui la più solenne veniva chiamata Sorbonica:
ma la licenzia (licentia) che veniva dopo tali prove accor- data e che il
Serravallei chiama con termini vaghi inceptio, conventus^ non esigeva
alcuna pecunia di sorta. Il SerravaUe e tutti i Commentatori si riferivano
aU' accenno Dantesco; si come il baccelUer s'arma e non
paria, fin che il maestro la question propone, per approvaria e non
per terminarla. Par. -
i8, Infatti già il concilio Lateranense del 1179 aveva proclamato
due punti fondamentali : la necessità e la gra- tuità della licenza ed un
tale decreto trovò po'sto nelle De- finire di Gregorio' IX. Solo per
eccezione fu eoncess^o sul finire del Xll a Pietro Comestore, cancellario
di Nótre Dameij per i suoi pregi personali, da Alessandro III, di
pre- levare uoiia piccola rimunerazione per la concessione della
licenza. Ed ancora il Regolamento di Roberto di Courcon insiste
sulla concessione gratuita ed ìncondiziomita della licenza : ed una tale
disposizione veniva conifermata nelle reigole aggiunte dal papa Gregorio
II di cui conosciamo il benefico intervento nei dissensi tra rUniversità
ed di Re di Francia. Nella famosa bolla Parens scientiarum viene prescritto
formalmente « che il cancel- liere non potrà esigere da coloro ai quali conferirà
la li- cenza né giunamento, né obbedienza, né denaro, né cau-
zione, né promessa ». Ora è noto a tutti che lo statuto di Roberto
di Courcon confermato e completato dalla bolla di Gregorio IX, la
quale fu pure rinnovata senza modificazione da Urbano IV continua ad
essere per tutto il secolo XIII 'a legge fondamentale deirUniversità e
pertanto della facoltà teologica di Parigi. Per il che sembra
a me che il fondo storico del racconto di Giovanni di Serravalle venga a
mancare sempre più di consistenza. Carlo Cipolla nel suo dotto
ìavaro Sigieri nella Divi- na Commedia, dopo avere ossei-vato che il
Sigieri ricor- dato tra i beati del canto X deve ritenersi come Sigieri
di Brabante, e non va identificato col Sigieri de Conrtrai {Le
Clero) visisuto in epoca diversa, e neppure con quello di cui si iparla
nel sonetto del Fiore (Castets) avverso ad AQUINO, crede probabile, che ALIGHIERI
fn a Parigi negli ultimi anni di sua vita ed airincirca negli anni
1316-1318 e non vi ascoltò le lezioni di Sigieri di Brabante perché
questi era morto avanti il 1300 ( Feret tornando su questa questione nel
volu- me II deiropera cit. (cap. Les Sorbonnistes) crede errat-ì
così, l'opinione del Le Clerc che del Castets, combatte ^e Giornale
storico den« Lett. It. Voi. Vili — Torino LoescUer] asserzioni di Gaston
Paris, ed airiimesso che il Sigieri di Dante è il Sigieri di Brabante che
quitla cette vie en repu- tation d'une orthodoxie parfaite, non si
discosta mollo dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra di
mion conoscere. Questo sembrerebbe coaidurci assai fuori del nostro
ar- gomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla a questo
proposito della partecipazione dell'Alighieri alle lezioni dd Sigieri non
mi facesse tosto ritornarvi. Egli afferma che « per ciò che
riguarda Sigieri, altro è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo
personale, ed altro è credere che questo ricordo personale sia tale
dav- vero da comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri alla
scuola di quel filosofo. Alle scuole di Parigi i libri del Sigieri eratno
rimasti auasi come lesti agli scolari, tanta Sama le sue lezioni vi
avevano lasciato ». Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io
ag- giungerò che oer spiegare la profonda conoscenza che Dante ebbe
del Libro delle sentenze, non è necessario di credere col Serravalle che
Damle abbia commentato le sen- tenze nella scuola di Teologia perchè lo
studio che in quei tempi se ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e
che già aveva provocato i lamenti di Ruggero Bacone, certo potevano
non poco contribuire a farglielo conoscer© più in là del frontìsipizio e
del prologo. Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama
vi conosce C. ed entrambi egli ricordò con particolar cura nei suoi versi
ove palpita un affetto personale. Ma se poca o nessuna influenza ha la
filosofìa di Sigieri nell’opera d’ALIGHIERI; molta invece ne ha in quella
di C.. Un esempio: Speme dissHo, è un attender
certo Della gloria futura, il qual produce Grazia divina e
precedente merlo. {Par.) P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de
Paris – Ricarcl] Pietro di Dante, TOttimo, la Chiosa Cassanese, ricor-
dano la definizione di Pier Lombardo: «est spes certa exjeiotatio futurae
beatitudinis veniens ex Dei gralia et mentis praecedentibus ». (Lib.
Seni. IH. dist. 26). Iacopo della Lama, rÀnonimo rioooimno assai
meno opportunamente a San Toit^màso: spes est motus appe- Wiiae
virtutis consequens apprehensione boni fulnri ad- nui possibilis adiptsci
». Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti luoghi ove
il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aqui- nale, o meglio dire ove
cosi San Tommaso come Dante attingono -alla medesima fonte: Pier
Lombardo. Qui si ha una traduzione letterale delle parole del Maestro
che appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più fi- losofica.
Ma non è questo il solo punto ove un tale raf- fronto è possibile.
Fu uno dei più assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni, a far notare la
^ainde importanza che ebbe il libro del Maestro nel pensiero di
Dante. JNella prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare
ri884), accennando a Pier Lombardo della cui opera si giova Tespositore
dei salmi di quella Bibbia, promise di occuparsene : « In un altro mio
scritto dove avrò Taiuto di un teologo profondo, e mio buon amico, farò
il confronto tra le «proposizioni teologiche della Divina Commedia
e quelle dei libri delle Sentenze: ed il lettore vedrà che le prime
non sono altro che Tespressione poetica delle secon- de, fedelissima e latta
con invidiabile precisione ». Disgraziatamente Negroni occupato in altri
lavori, non potè adempiere .alla sua promessa, ma dando esempio dì
larghezza d'animo, consigliò ed aiutò l’amico suo Carbone, (Carbonara), poi
prefetto Apostolico deirÉritrea, nell'opera a cui egH non poteva
attendere, e ne promosse la pubblicazione. Carbonara pubblica infatti
Slcuni Studi Danteschi e
Tortona Tip. A. Rossi — Stttdi Danteschi; Dante e S. Francesco;
ALIGHIERI e FIDANZA (si veda) Nella Biblioteca Negroni si trovano
nel carteggio privato le lettere che il Carbone indirizzava a Carlo
Negroni piene d'erudizione e di affetto per l'illustre amico. Trov.ansi
pure tra i copiosi ms. due fa- scicoli; n. 26: Pier L. nel Paradiso; n.
27: Appunti Danteschi. Essi contengono citazioni, note erudite che il
Negroni veniva man mano scrivendo. La malattia e la morte tolsero il
modesto studioso e gene- roso filantropo aUa tranquilla ed utile sua
operositét letterarii^. nel volume I. dedicato al Neuroni,
prese in esame» il I\' Libro delle Sentenze collo studio: Dante e C. Questo
appunto- che è il migliore ed il più originale, entrò poco dopo inella
collezione di opuscoli inediti e rari diretta da Passerini per cura di
Murari. In esso il Carbone che si limita «all'esame delle
distinzioni delle Sentenze, conclude che il seme che è nel libro
delle Sentenze di Pier Lombardo mostra i suoi fiori ed i suoi frutti ini
Dante. Nella tornata del 19 Aprile 1891 airAccademia Ponta-
niana, il socio residente Alberto Agresti le^e una memo- ria dal titolo:
Eva in Dante ed in Pier Lombardo (1) ed anch'egli ricordò a proposito di
questi studi, Tamico Ne- groni e lo studio di frate Michele da
Carbonara. Ponendo a raffronto i passi danteschi ove vien citala
Eva (tacendo di tre che non danno alcun ^udizio della sua colpa : (Purg.)
uno comune con Adamo (Purg.); gli altri (Purg.; Par.), ove si dà un
giudizio sfavorevole di Eva ed il passo del DeViilgari Eloquio ove ALIGHERI
chiama Eva praesumptuosissimam), cerca da quali letture Dante ricavò il
severo giudizio. Combatte To- •pinione di V. Imbriani, (Studi danteschi.
Firenze, Sansoni) che coIFesempio del Boccaccio vuol dimostrare 'i&
scarsa erudizione teologica di Dante. Nella testimonianza di San Tommaso
{Summa) Isidoro {Sentent.), Sant'Anselmo {De pec-orig.), Ugo da S.
Vittore, FIDANZA non trova la ragione delli eccessiva severità
deirAlighieri, bemsì in Pier Lombardo (Lib. II. dist. 22) che così si
esprime: « Adamo non istimò vero ciò che il diavolo aveva
sug- gerito; stimò di peccare in maniera da esserne perdonato.
Forse come vide che la donna, gustato il frutto, non era peranco morta,
prevaricò e volle ainch^'egli fare esperimen- to del legno proibito. Più
però Ta donna, perchè volle usurpare l'eguaglianza della divinità e levata
in superbia nimia vraesumptione^ credette così doversi avverare.
Adamo non volle contristare la donna, ma certo non vinto da carnale
concupiscenza, non sentila peranco in Napoli, Tip. della R.
Università, lui, ma per una certa amichevole heoievotenza per la
quale il più delle volte avviene che si offende Dio per non of-
fender l'amico. In un certo modo Adamo fu anch'egli de- ceptus ! Nella
donn<a /fu majoris tumoris praesumptio : ella peccò in sé, nel
prossimo , in Dio : l'uomo solo ui sé ed in Dio ». E
l'Agresti finisce insomma col concludere che « stu- diare la D. Commedia
al lume dei libri delle Sentenze è tutto un lavoro nuovo che manca alla
letteratura dante- ca ». A me non resta che augurarmi che un tale
1' si compia e che una feconda curiosità subentri alla sterile
dilRdenza nelFaprire il libro di P. L. che Dante non certo per cura della
rima chiamava il suo tesoro. I ìinyiìì
dell'erudizione. Ristrettezza di tempo mi ha impedito di dare, com'era
mio desiderio, maggior svolgimento a questi insufficienti cenni
sull'influenza esercitata dal maestro delle Sentenze sull'opera di Dante
e non sulla Divina Commedia soltan- to. Dell'utilità di una maggiore e
più profonda conoscenza di tali rapporti, è prov:a quanto si è venuto in
questi anni scrivendo dagli studiosii di Dante coll'intento in verità
non sempre raggiunto di recar "maggiore luce airinterpreta-
zione' del poema dantesco. Ancora in un recente fascicolo del Bollettino
della Società Dantesca Italiana. Parodi m una dotta recensione consacrata
ad un apprezzato studio del prof. Surra su La conoscenza del futuro e del
pre- sente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio), si vale
del confronto colla dottrina del Maestro delle Sen- tenze per meglio
chiarire i dubbi che le parole di Farinata non sciolgono sul modo di
conosceniza dei dannati. Contro la tesi del Surra, che fortificandosi del
concetto delFìrra- zionale nell'arte, ampiaonente illustrato da
Fracoaroli, vuol chiudere il passo ^ai diritti 3eireru3ìzioaie,
Parodi dimostra, citando una distinzione del IV delle Sentenze. Ve
animabus damnatorum si qua habent notitican eorum quae hic fiunt, come l’esposizione
di Farinata cresce d'importanza venendo a combaciare colla dotlrin<a
professata dal Maestro. Ed è certo che se la contraddizione non può
essere evitata dal pensiero umano, specie cpiando s'aderge sulle ali
della poesia, tanto in Dante come in C., scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa
«preoccupazioaiei di sfug^rle colla cura più scrupolosa. Non
si può riconoscere tuttavia all'erudizione il dirit- to di andar troppo
oltre, specie nelle sue conclusioni, perchè Terudizioflie è alla poesia
come la ragione è alla fede, che il sapere riconosce potene illumi-
nare senza spiegarla interamente. Se anche col raffronto più minuto
dei passi danteschi ooiropera di C. (non limitato alle Semtenze)
noi potremo trovare nuove e curiose rispondenze che ci dimostreranno le
fonti di sapere e d'inspirazione del Poeta divino, dovremo limitarci a
riconoscere nulla più che la materia preziosa, ma informe trasportata e
nobilitata dal- Fopera (in che è il fatto nuovo) dello statuario.
E\ per limitarmi ad un solo esempio, notevole il modo onde mei
Sermoni vengono disposti gli argomenti morali che il Lombardo distilla da
un qualunque versetto biblico: sono quasi sempre tre i sensi che se ne
ricadano ed il numero 3 entra con una particolare predilezione ìiell
armo- nica e spesso sin troppo misurata distribuzione delle parti
nei suoi discorsi. Queste ed altre minuzie di logica ar- Tres
igitur tortae pani8 tres sunt modi dìvinam paginam in- telligendi Triplex
igitar pani8 eat intellectus: tropologicus, scilicet moralis vel
historicus; mysticus, idest allegoricus et anagogeticum Moralis mores
componit, exhauriens malos et confovens bonos; allegorìcufl mentis acuit oculos
ut mysterioram abdita penetrare valeant; anagogeticus mentes super se
effundit ut in voce exulta- tionis et confessionis, constituto die, e
condensis usque ad domum Dei rapiatur; nam sicut allegoria alitar intellectus,
ita anagoge su- perior sermo vel sursum tendens interpretatur. Moralis,
idest tropo- logicus, est dulcior, historicus facilior, mysticus auctior.
Historicus insipientibus, moralis proficientibus, mxsticus perfìcientibus
congruit.- Sermone: Convertimini fili revertentes . . fine inedita
riportata da Haureau op. cit* chitettura oasi caire a Pier Loonbardo, come
si avverte nello slesso Prologo delle Sentenze', do ve vaino esercitare
il loro influsso nel poeta della Vita Nuova e del Paradiso.
Ma non dal solo Pier Lombardo, bensì da tutta 'a scienza teologica,
Dante raccolse mei grande specchio ustorio della sua mente, la luce che
brilla nel suo divino Poema. Né possiamo comprendere come uno
studiotso deìlla coltura del prof. Amaduocd, possa restringere nel-
rarido opuscolo XXXII di San Pier Damiano, quasi l'unica tonte del poema
dantesco, lo schema dottrinale a cui Damte avrebbe informato, con
perfetta fusione della lettera col- l'allegoria^ la Commedia, e
annunciare seriamente che di- stinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e
fermate {num- sioni} deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato
dalla modesta fantasia di San Pier Damiano, verrà sostituito
nell'esame del poema ai fondamenti ipotetici, il fondamento scientifico,
gli enigmi di sei secoli, troveranno fàcile spie- gazione e sarà aperta
la via ad una nuova valutazione artistica (1). Ma tale via
non Tha aperta Dante stesso coU'opera sua? (1) Z/'
opuscolo XXXII di S, Pier Damiano fonte diretta della Divina Commedia? in
Grùymaìe Dantesco dir, da G. L. Passerini voi. XXI - Firenze, Dischi. cfr.
Parodi La fonte diretta della divina
Commedia — in Marzocco, Firenze. A questa trattazione epero far seguire
prosslntamefite un canltolo, su C. E LA SCUOLA. Ohe per l'economia
dei presente iavoro non potè essere inoluoo. Le origini oscure. La nascita
a Lumellogno. L'ambiente nativo. Dipendenza di Lmnel- il^gno dal Capitolo
Novarese — Stato delle scuole novaresi. Pier Lombardo fu allo studio
Bolog^nese? Gap. il — Nell'ombra del cammino . . pag. 25 Alla
scuola di Leutaldo novarese a Reims. « ParisiUiSi » — La « universitas
scholarium. San Vittore. Santa Genoveffa. Nella luce della fam^i. La scuoia di
Nòtre Dame. L'episcopato. La morte. La tomba di S. Marcello. Le onoranze.
L'opera e la fortuna di Pier Lombardo. Le Sentenze. I Sentenziarii. I
detrattori. Il « tesoro ». Opere edite ed inedite. I Seamoni. LA DOTTRINA
FILOSOFICA. Posizione di C. nella filosofia. Metodo. Religione e
sciens&a. Problema metafisico e conoscitivo pag. 8Ì
Teoria degli universali. Teoria ctella oonoscenza. Problema ontologico e
cosmologico. Sostanza ed accidente. Natura e persona. Materia e forma. Causalità.
Spazio e tempo. CosmoJKJgia — Posizione dell'uomo neirunàverso.
Cap. Problema psicologico. Potenzie dell' aiiim.. Natura dell'ajiima. Origine dell'anima.
Relazione tra l'anima e il corpo. Problema morale. Libero arbitrio. Felicità.
Moralità delle azioni umane — La legge morale — Bene e mailie.
Gap. vi. — Lm dottrina scolastica in C. e Dante Pier Lo!ml>ardo nel
cielo del Sole. Dante adl'Università di Parigi. Influenza di Pier
Loonbardo sull'opera di Dante. Aggiunta necesaaria. I limiti
dell'erudizione. Ritratto di Pier Lombardo dall'incisione del Thevet
« Les vrais portraàts ecc. » Paris. Portico della Canonica di Novara da
un'incisione delle « Monografìe Novanesi » MigUo Vene de la VUle de Paris
du coté de Vlsle N. Dame
(antica incisione). A. N ótre Dame de Paris, (antdca
incisione). Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera
esplicita, una completa saldatura fra la teoria del SEGNO e quella del
linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica
bisogna aspettare il Corso di linguistica generale di Saussure, scritto
quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha
in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica,
come del resto testimonia il trattato DE DIALECTICA De dialectica. In esso sono
riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il
princi pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra verso
segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia na da
quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco gliendo e
formalizzando una lunga tradizione di origine so prattutto medica e mantica,
consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo
che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri ta.
Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa
non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la
pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo
in gene rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo
anche le parole", De Magistro, 4.9). In secondo luogo, gli stoici
avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il
significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun
que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella
singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento
in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un
segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che
le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1
n triangolo semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con
l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De
dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di
distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice
distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di
significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox
articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio
quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1
(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al
/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luogo, infine, distingue la res, che viene definita
come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op
pure che sfugge alla percezione (De dialect.). È così possibile ricostruire il
triangolo semiotico nei se guenti termini: dicibile vox articulata (o
sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere
di designazione, oltre che da quello della signifi cazione. Questo lo spinge a
elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in corrispondenza dei due
aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve nire
che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica
nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora
prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co
me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una
cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio),
nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio
che, come ha osserva to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di
congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di
uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si gnificante
articolato, ma senza essere necessariamente por tatore di significato) ha
subìto nel corso degli studi lingui stici antichi. Dictio è traduzione
di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici,
bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio
Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le
lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua
particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di
un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo
posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so
completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato
alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima
assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In
particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la
parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per
ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore".
E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto
tale alla percezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla percezione
intellet tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e
relazione di im plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché
sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose.
Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere
una concezione semiotica del linguag gio; per Platone, infatti, il nome era
d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero
dell'es senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il
rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe raltro con la soluzione
che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come
una rela zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozione
equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in
cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono
alcune modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva.
In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti no il
rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato
concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di
carattere epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente
sul linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico,
i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere
illustra ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C
"contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente
a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello
della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso
mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u
nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile
(significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello ii).
Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza
dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco, è che la lingua comincia
a tro varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti
costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a
una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come
quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca
e roma na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di
percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre
la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede
un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al
fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che
qualun que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e
l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di
segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il
modello del segno lingui stico finirà per essere senz'altro il modello
semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure,
che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per dere il
carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri stallizzato nella forma
degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo
contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La
seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema
della fondazione della dia lettica e della scienza (Baratin). Fintanto ché il
rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione semiotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co se che
significa. Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni
linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra
Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del
linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo
rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente
informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la
presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima
parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente
quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono
le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,
senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda
parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente
la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in
sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo
caso è quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno in
questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza
(De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra
segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co noscere preliminarmente
l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la
conoscenza della co sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa.
La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es sa si collega
anche la presa di posizione, di marca ugual mente platonica, che la conoscenza
delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché
"qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella
per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili
(sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla
conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi
li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione
"teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive lazione che viene
fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia tanto deli'informazione
quanto della verità (De Mag.). Ma anche con questa soluzione
"teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno
spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in
parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi mento, le parole ci
ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De
Mag.) . In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere. È comunque innegabile che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana
secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa con aggiunte più tarde), ma che
ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e
analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di
se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in
realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni
sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché
(soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione
combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile
ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema arboriforme
(Bernardelli), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco); cfr. p. 236.
La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune
categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a
metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie
quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è
tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella
più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus,
Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze (significabilis, non significanti nome in
senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.)
altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno
udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili (
virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES" La prima relazione
interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente
venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale
distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche
i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res che
fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione
di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105):
"In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono
impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il
bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo,
cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non
quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro
amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua
testa, né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio. L'articolazione
che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali:
usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ.). Le cose di cui si usa sono
tran sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro;
le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per
se stesse. Nel De Magistro Agostino propone anche un nome per le cose che non
sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni: significabilia.
Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun
te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e
cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel De doctrina
Christiana: "Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che
produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem)
qualcos'altro". Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni,
Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui ho brevemente
abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in
nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene
esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale,
di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto
come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati
in base al canale di perce zione Una classificazione incrociata rispetto alla
precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino
infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per
comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior
parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De doctr. Christ., Il,
III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel li,
fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali, come il flauto e
la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba
militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una
posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno
ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di
ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare" (Dedoctr. Christ.,
II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della
testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e le insegne
militari, le lettere. Infine vengono presi in considerazione i segni che
riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui
piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca ristia), il tatto (il
gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu guarita). 10.6.4
"Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale,
anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo
schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi
sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si gnificare, fanno
conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il
fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono esempi anche le tracce
lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i
segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in
questa classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno
quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo
crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli
animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e
come del resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367;
Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il
carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data
quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que
sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov, porre
l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale
di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio,
creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in
corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un
significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici Uno dei punti
fondamentali della semiologia agostiniana è costituito dalla ricerca dei modi
in cui si può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta
soprat tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione
semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di
Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno,
per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per
esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato;
per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione
del significato si rende possibile sol tanto nel momento in cui viene
abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino,
quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre
così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale"
della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che
Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex
tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come
composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il
significato. L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri
me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che
non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo
stesso concetto. Si passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene
individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non
vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad
Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica:
lexl sa rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa
soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del
primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è
che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa
conclusione, pe rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua
decodifica contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a
qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude
nel verso virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa
che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni
negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è
un blocco (una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili
inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di
versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice).” La struttura
implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y,
allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto
al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è
proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che la
semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . 1 In altre opere, al
posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De
Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in
due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico
della pa rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di
"parola", co me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal
parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura
della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è
messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica. Quel
che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due
unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è
prodotto nell'animo per mezzo della parola [di cibile]". La dictio,
inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa
d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito,
in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr.
Lotman-Uspenskij (1975). Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in
the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is
strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from
shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s
different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if
Milano was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one
from Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only
natural that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano –
Plus, the implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in
Piemonte, means that the locals never saw him as one of their own!” -- Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --.
Familia patrizia di Novara. Pietro
Cardano. Keywords: Cardano, implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardano”
– The Swimming-Pool Library. Cardano.
Grice e Cardia: l’implicatura conversazionale del culto
del laico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Cardia is what I
would call the Italian Hart – with a tweak – Italy and religion is Cardia’s
forte – recall that the bishop of Rome has the roots in the ‘pontifex’ of old
Rome, so he knows what he’s talking about!” – Grice: “Like me, Cardia has
philosophised, as what the Italians call a professore di filosofia del diritto,
on the ethical versus legal implicatures of the very idea of a ‘right’
(diritto). We don’t have that economy of vocabulary in Engish – calling Hart
the professor of right would be unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma.
Clifton has chapel services and a focus on Christianity. This is the Chapel:
here, my son, Your father thought the thoughts of youth, And heard the words
that one by one The touch of Life has turn'd to truth. Here in a day that is
not far, You too may speak with noble ghosts Of manhood and the vows of war You
made before the Lord of Hosts. The magnificent Chapel sits at the heart of
Clifton both spiritually and physically and has played an important part of life.
Topped by a striking copper-clad lantern and built from soft red and
honey-coloured stone, the Chapel provides Christian calm, and forms a powerful
link between past and present. It is a place where the community come to mark
milestones and celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual
guidance. Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the
names of all those who have carved out a reputation. High on the walls are
memorials of pupils of another age who died by accident or disease serving the
Empire. One bears the moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good
name endureth forever.’ The Chapel was built to a design by C.
Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J.
Guthrie. Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds
of Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building
is licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol. Stato, Chiese e pluralismo confessionale
Rivista telematica statoechiese.it) Colaianni (ordinario di Diritto
ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di
Bari) Quale laicità. Con questo saggio C. si affaccia sul versante polemistico
della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una copiosa
produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi anni lo
ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni
religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati nel
sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in
quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica, separatistica,
fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di
attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia
travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio
ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere
ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno
effettivamente impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend
favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze
neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di
Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della
commissione governativa Machelon1. Da esso C. deduce che lo stato è ormai amico
delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza degli
affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando l’ostilità del
laicismo ottocentesco nel museo della memoria. C., Le sfide della laicità.
Etica, multiculturalismo, islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo,
destinata alla pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino. Cfr. F. MARGIOTTA
BROGLIO, su Reset Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica Dal
quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate dal
“micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del passato”
e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche con
confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le scuole
private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare l’insegnamento
religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare lautamente la
chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi storico-politica,
condotta nella prima metà del libro, consente a C. di avallare questa laicità
realistica, che ad altri è sembrata più propriamente “praticistica”. A quella
stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati contrasti tra stato e
chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di altri libri coevi3 )
tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A cominciare dal
multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si presenta sotto la
forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino discreto” che in molti
differenzialisti suscitano gli statuti personali, di medioevale o ottomana
memoria, è giustamente visto come una relativizzazione della laicità: a
vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente C. è severo con la “partita
giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità contro i “simboli e la
memoria del cristianesimo” e a favore di quelli dell’islam, per cui “verrebbero
estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi il velo e la preghiera degli
islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei solo apparentemente: il
crocifisso fa problema per la laicità non se portato addosso al corpo, se fa
parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il velo o altri segni
religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè imposto, negli spazi
pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la seconda parte del
libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari scenari. Islam
versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni interpretazione
evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione tollerante,
aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la
quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione
diventa 2 Per esempio a BELLINI nel saggio coevo Il diritto
d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. Come quelli di
ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di BIANCHI, La differenza cristiana, o di
RUSCONI, Non abusare di Dio. Stato, Chiese e pluralismo confessionale
Rivista telematica inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del
XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le
numerose voci laiche dell’islam moderno4 né, a livello istituzionale, ad
annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non
religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’in contrapposizione
alla sharī ‘a” 5. D’altro canto, bisogna riconoscere che abbiamo tutti
sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo”
di un significato improprio e anacronistico, in termini appunto di laicità, che
nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei ricordare qui almeno Barbaglio,
che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel suo La laicità del credente non cita mai
il versetto di Matteo). Storicamente poi, anche a voler retrodatare – seguendo
Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla lotta delle investiture l’inizio del
processo di secolarizzazione, non v’è dubbio che per secoli la chiesa ha
sostenuto la supremazia del potere spirituale ratione peccati o salutis anche
nella sfera mondana. E al giorno d’oggi la più netta distinzione degli ordini
formulata dal Concilio non sta impedendo il tentativo di informare la
legislazione italiana al magistero ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione
medica assistita (divieto dell’eterologa, della diagnosi preimpianto
dell’embrione), al testamento biologico, visto come anticamera di pratiche
eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili in qualsiasi forma
(pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo
del principio di laicità come fondamento di una legge sulla libertà di
religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche C. indulge su questi
punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e contro il
relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero
laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è
evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità. Tanto
rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi
o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con Habermas7 -
“quale ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della
costituzione possono avere per una società [Cfr. l’antologia di BRANCA e
quelle più recenti di V. COLOMBO. 5 Così ne Il linguaggio politico
dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6 Cfr.
BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. HABERMAS, Il futuro della natura
umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (statoechiese postsecolare”, come la nostra. In una
democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica
non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di
supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non paternalistica,
ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri
educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori esterni, ma come
persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia e capaci di
mediarle alla ricerca di quella “giusta”8. Una laicità pluralistica e perciò
non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai
tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia
stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono da una
parte sola. 8 In questo senso rilegge il da mi factum, dabo tibi
ius RODOTÀ, La vita e le regole. 9 Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e
diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (C.) (Convegno Giuristi) Sommario.
Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione. 2. Laicismo,
intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al
modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità
ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. Laicità e multiculturalismo.
Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle
problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché sono diverse e
complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche riflessione storica
che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo
presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi
utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza
perché l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene
altrove, avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie
diverse di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo
concordatario neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta
nel quadro di una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine,
l’Italia sta vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione
etica, e al multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei
rapporti tra religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso.
Quindi, l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo
orizzonte storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più
ampio e saper individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili
conduttori che chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto.
La laicità in Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che
voglio privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e
moderazione, tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e
soluzioni storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più
accreditata ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della
conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra
Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto
focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene
letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere
temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo
cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista
in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di
fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché
permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere
integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i
chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di
lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende
aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata ed
equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario, in modo
speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di moderazione non
intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio generalmente
riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato realmente presente
nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di quella cattolica,
che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione della laicità in
Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in tanti modi, ma
nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido compromesso con
l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita l’affermazione di
tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della classe dirigente
liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio ecclesiae come
obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è
parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento,
ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno (tipicamente
transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a stravolgere le
strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al
potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti,
l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o
stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di
teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e
afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare
teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa
troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di
ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che
sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo
intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la
grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo
della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono
progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni
di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a
nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come
quelle transalpine, la prima che vieta alle congregazioni religiose non
riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi
apra una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il
problema della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande
compromesso italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla
laicizzazione della scuola italiana, con la Legge Casati , non segue la
cancellazione della presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se
l’insegnamento religioso viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in
quelle elementari. La Legge Coppino non dice nulla al riguardo, e questo
silenzio, con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere
l’insegnamento religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da
quasi tutti i Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie
italiane. Neanche si può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un
Regolamento conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello
stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza
religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti
di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che
lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una
scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza
popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può
dire che è poco, invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica
vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha
operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di
fondo tra il sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva
e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle
maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma
importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. L’elogio della
moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza
italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni
settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo
tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla
cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle
correnti laiciste che animano la cultura politica, danno vita al pensiero più
autenticamente anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma
anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa
dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel conflitto,
e nel corto circuito, tra intransigenza cattolica e correnti laiciste sta la
radice di una chiusura provinciale che in Italia condiziona a lungo le
relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette nella cultura
italiana semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il laicismo produce
cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in Francia, laicità
voglia dire tante cose negative: estraniazione della religione dalla società e
dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il
liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo scolastico, riduzione della
Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine
laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni,
diviene da noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio
riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di
matrice ottocentesca che alle correnti culturali di grande dignità che da
Spaventa a Bissolati rivivono poi in Salvemini e in Rossi, e che di più
aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul
piano civile e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo tra
Chiesa e fascismo di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra
la cultura laica ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo
piano, ma con il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli.
Anche l’intransigenza cattolica riaffiora più volte nella storia italiana,
impedisce a tratti di cogliere le trasformazioni della società, di discernere
gli aspetti positivi dalle spinte disgreganti, porta all’arroccamento su
posizioni che potrebbero essere evitate. La critica più autentica a questo
corto circuito non è diretta alle singole posizioni radicali che produce,
quanto al fatto che da lì è derivato un certo isolamento rispetto alla cultura
anglosassone, rispetto ad altre esperienze europee, come quelle dell’Olanda,
del Belgio e della Germania, dove già nell’Ottocento maturano equilibri più
stabili tra religione e società. Una conferma di questo provincialismo sta
nell’incomunicabilità tra esperienza italiana ed esperienza statunitense, alla
quale pure molti laici si richiamano, senza mai averla capita e forse
conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure conosceva la società americana, di
quell’esperienza evoca sempre e soltanto la parola separatismo, non i suoi
contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e di amicizia verso la religione.
Possiamo verificare questa lontananza della cultura laica rispetto alle
correnti del pensiero anglosassone su un particolare problema, quello della scuola
privata, nel quale il liberalismo italiano si è discostato dai canoni del
liberalismo classico per seguire un indirizzo statalistico destinato a dominare
a lungo. C’un dibattito di metà Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante
all’epoca) nel quale Berti critica quei liberali che per paura di monopolio
combattono la libertà di insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto
dall’individuo medesimo, dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri
diritti naturali”. E’ Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la
vera ragione della contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto
che “i paladini” del libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino
della “libertà del papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private
vuol dire favorire la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si
riconosce che il vero liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia
questo liberalismo non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici.
Insomma, al liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da
parte. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In
Italia, però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di
attenuare le asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate
in sede di Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese
conosce, e che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche
su questo problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto
alla storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il
punto di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo
dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia,
pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un
elemento equilibratore nel periodo separatista, con la stipulazione dei Patti
Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione
democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la
presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe
dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti
Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il
lavoro che ha portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo
dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente
liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie
che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e,
dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si
rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del
separatismo. Anche quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la
cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera
il valore politico del patto con il FASCISMO. Non a caso il giudizio delle
forze politiche ANTI-fasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in
due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo
politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei
confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Croce approva la soluzione
della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche
Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la questione romana è ben
risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto avrebbero dovuto farlo i
liberali. Infine, i programmi elaborati dai leader dell’antifascismo durante la
guerra in vista della ricostruzione del Paese, concordano nel non voler
rimettere in discussione i risultati del Trattato del Laterano. Credo si possa
dire che, senza una questione romana risolta, forse non avremmo avuto quel tipo
di rapporti con la Chiesa che l’Italia elabora e che ha saputo anticipare un
modello oggi utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei.
Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza
della cultura laica, l’Italia trova il modo di abbandonare un certo
provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo, supera quel corto
circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono
riconducibili al solo articolo, quanto alla maturazione di una laicità che è
destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che
diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei
totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il meglio della
tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è
superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo sociale della
religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra religione e società,
si conferma e si estende il metodo della contrattazione e dell’incontro, tra
Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun
culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le
differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del Novecento questo
Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più i concordati
tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si contano più
intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose, protestanti,
ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni
ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla
Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà
religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese
come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle
confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia
verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca
integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che
ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto
in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese
ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti. La laicità torna
di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli,
su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si
tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un
uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel
secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello
Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è
oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua
complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che
esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a
pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia,
l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione
teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto
del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie confessioni
religiose, così dobbiamo riconoscere le varie moralità che affiancano o
sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella
religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo
Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono il
campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma nasconde
un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato riguarda
le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e della
coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono
gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire qual è la
verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità nel tempo,
nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar vita a
equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto
che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla
paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge.
L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i
figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto
in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il
“rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività
sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato
frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto
spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non
proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a
qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga
nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se
permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi
all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso
improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente,
questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di
sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una
legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e
individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri
convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per
determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore
della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a
queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale.
Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere
positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre ibridi
di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa pratica non si impone
a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe la
libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti
sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla
chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non
sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono
essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari,
meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora
riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione
riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del
convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel
tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In
questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per
quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica.
Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la
strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune
posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori convincenti,
e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi una forza che
probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica L’analisi si fa
più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo, perché questo
fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande rischio. Una
opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto accogliente e il
suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle popolazioni, delle
pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio se con il
multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società antiche
intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le prime
risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte riflettono
un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo islamofobico che
fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze, che vogliono negare
all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi sembra, però, che siano
prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica sta rispondendo con uno
spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il multiculturalismo sta
facendo emergere una insicurezza dei valori della laicità, della loro validità
e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio che ha dato forza allo Stato
laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra vacillare di fronte a chi
appare più estraneo ai principi di libertà ed eguaglianza. Potrei citare una
pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano slegati tra di loro ma sono uniti
da un robusto filo conduttore. Ne indico alcuni per far riflettere sul loro
significato complessivo. Pochi si accorgono che si sta creando un divario
crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle Chiese tradizionali e quello
che si manifesta di fronte a clamorose lesioni della laicità per motivi di
multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica suscettibilità, quasi la
memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore e di silenzi. Se una
Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si reagisce con veemenza
perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se vengono lanciate fatwe
di morte contro letterati, giornalisti o registi, per offese all’Islam, si
tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non costituiscono
istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio è di
competenza della cronaca nera. 8 Se in un paese europeo si discute su
temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come
espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini,
avvengono omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione
islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla
morte o all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di
arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun
grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo
particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile.
Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere
effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che
discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un
tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie,
alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare
la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si
nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi
separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o
gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via
di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla
Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di
introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la
ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre
corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione
(peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della
poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al
discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo
soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha
sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno
mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce,
violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla
nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le
idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro
possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una
parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere
le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si
aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il cattolicesimo,
e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente vivisezionati per
criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo, di anti-modernità,
per spezzare la loro alleanza con il potere politico. Sull’intreccio tra altre
religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura
liberale, in quella marxista o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica
illuministica e storicistica che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo
fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre
società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti congiunzioni tra
religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto ciò apre degli
interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e li apre non su
un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la laicità ha esercitato
nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri episodi, sta scaturendo una
sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla mutazione genetica della
laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare ad un esito
paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le religioni
tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso altre
religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello
Stato. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e prospettive Per
meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e multiculturalismo
torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia, ancora una volta, si
è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente, non condizionata da
pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la guerra al velo, e a
nessun simbolo religioso, forse perché di simboli confessionali ne conosce
tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese, dai conventi ai battisteri,
alle fogge vestiarie di religiosi e religiose d’ogni genere. Quindi non
avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro può appellarsi alla libertà
di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta rete di accoglienza e
sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti modi di soddisfare
le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede nei contratti di
lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari, tradizioni come
quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato legittimamente un
nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa d’altro. Si sta
trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali, e nella
accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la laicità. Parlo
della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, e più in
genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del cristianesimo,
riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la notizia che
nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati diminuiscono i
presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di persone
aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco una
partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella
simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima
altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi
sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti fondamentali
dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la presenza del
burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono in qualche
parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi pubblici, si
consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti dalle nostre
leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di significato univoco, e
ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della perdita di senso della
laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità si offrisse il
volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra quanto di
autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto appartiene ad
arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il patrimonio
spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e respingere ciò che
collide con il sistema universale dei diritti umani, con la libertà religiosa,
con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere il meglio della
nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare il resto.
Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro
convegno. Trovare l’uomo capace, e l’investirlo de’ simboli della
capacità (culto, o com’altro sì chiami) così ch’egli possa avere agio a
governare secondo la propria facoltà, è l’officio di ogni procedura
sociale. A questo punto il Carlyle riscrive ‘worship’ WORTH-ship,
per accentuarne l’etimologia da ‘worth,’ valore, compincendosi che la ragione
etimologica venga quasi ad attestare la nocessità del fatto che gli sta tanto a
cuore. Per mantenere questa relazione logica Loubatières muta
‘worship’ nell’*équivalent adequat* di *élection* da prima, e poi di
*élite*. ‘Carlyle,’ soggiunge Loubatières, de son pergant et rapide
regard, dénude la racine des mots et des choses.’ Carlyle non è punto
tenero degli studi etimologici. Le parole gli si dischiudono ad un
tratto come si fendono le roccie allo sguardo diabolico del suo jötun
Hymir. Ci fa ripensare a quello che dice Daudet: ‘Il y a dans
cortains mots que nous employons ordinairement un ressort cachè qui tout à coup
les ouvre jusqu’au fond, nous les explique dans leur intimité
exceptionelle.’ ‘Puis le mot se replie, reprend sa forme banale et roule
insignifiant, usé par l’habitude et le machinal.’Carlo Cardia. Keywords: il
laico, filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano deve
essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali –
repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica
roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa –
credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale –
l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana
antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la
critica dei antichi romani al cristianesimo, il culto del laico, worship of the
hero, il culto dell’eroe -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The
Swimming-Pool Library. Cardia.
Grice e Cardone: l’implicatura conversazionale -- La
nudita eroica di Napoleone -- Clark Kent; ovvero, sul sovrumano – trasumanar –
l’eroe di Vico – hero-worship -- Annunzio e il fascismo -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Palmi). Filosofo
italiano. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e
Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of
Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic
botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation
of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known
better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes
‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito
Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista".
Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività
deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa
e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative
anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia,
filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi &
figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi
nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi,
Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello,
Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice
Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi,
G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà,
Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma,
Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo.
Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura
della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna,
Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica
della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile,
Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo,
Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il
Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano,
Editori Del Grifo, Ludi. Bologna, Soc.
Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La
banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano,
M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del
Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi
poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta.
Un inattuale nella sua attualita. i Napoleone non mi sembra per nulla così
grande come il Cromwell. Le sue enormi vittorie, che s’ estesero A 1
«Napoleone fu l'idolo della comune degli " 3 i gli nomini,
perchè a le qualità e le facoltà degli Cn OI k Ni Chi co: i 0 fesso
moderno; auche quand'è all'apice della fortuna; “gli aleggia dentro lo
stesso spirito che troviamo nei giornali del tempo. da 7 si
limitò alla piccola Inghilte che gli alti trampoli ti la statura
dell'uomo per essi lui sincerità parl d'una specie molto inferiore:
NOn quel suo silenzioso. Per 1 L'universo; NOn il « cammino
co lo chiamava; ‘pensiero, il valore, che S1 co
latenti, © 8° accendono poi quasi amm Napoleone vive in un’ epoca che
non avera più este: ; fede in Dio; che considera non-entità jl
significato ; a d’ogni silenzio, d'ogni qualità latente: non PIù sulla |.
È Bibbia puritan& aveva egli & fondarsi, ì scettiche
Enciclopedie. Eppure, tanto ei giunse-
ed meritorio L essere arrivato così lontano. Tl suo carattere :
compatto, pronto ed articolato, in ogni Senso, è in sè - stesso piccolo;
forse, a paragone i quello del nostro i grande Cromwell, caotico ed
inarticolato. Non è « muto profeta che si sforza di parlare.; > ha
piuttosto in sè un portentoso miscuglio di ciarlataneria ! Il
concetto dell’ Hume, d'una fanatica ipocrisia, Con quanto è in esso
di vero, potrà applicarsi molto meglio Napoleone che non s’ applicasse al
Cromwell, Maometto od ai loro
simili, per 1 quali realmente, preso & tutto rigore, conte- neva a
mala pena alcuna stilla di verità. Sin da prim- cipio, appare in quest’
uomo un elemento di riprovevole ambizione, che alla fine lo vince, trascina lui e l’opera sua in
ruma. a SE vi be divenne motto prover= era necessario di Ei a Se
ARen alto il coraggio de’ DARE bisognava tenere aggio de’ suol
uomini e così plesso, non ci son ; via. Fio Non è un santo, mon è
un cappuccino, per Usare la nemmeno un eroe, nell'alto signi
\ x guificato d al capo VI: Napoleone o l' uomo di pagata pa
tutta 1 Europa, mentre il e: o di & da espressione sua; È
; » (Emerson, op. cita È dedi $ A. prrura
SEST è i eglio, lungo e stato ID o resse Ind so,
se non at i oleone ste55° ; atti, ba alcun proposito che sì ;
:orno; ch'è destinato e KI x . ‘no vantaggio può mal ve-
anl a dolo one? Le menzogne SI sco- ul a ruinos@ La
prossima agi ‘ near È e prestar fe al bugiardo; quand
an +1 della più alta impor prono, © se nessuno VOST Da
uand' anche s1a che dica il vero» È ;l vecchio grido: <
Al tei venga creduto. A cr È Una bugia è nulla; al nulla, nom
Potere lupo ‘> a farete, e avrete vare qualch - alla
fine, null er giunta rimess Y x È Dare verain Napoleone una
certa sincerità ; anche è) nella insincerità, bisogna
distinguere quanto è super: ficiale da quanto è fondamentale. A traverso
& que ste sue macchinazioni esteriori, & queste
ciarlatanerie, ch''erano molte e riprovevolissime, vediamo pure
nel- Jla realtà, istintivo e impossi- l'uomo un certo
senso de ) bile a sradicare; vediamo ch' el Sl fondò sul fatto....
SI n lui l'istinto di na- tanto ch’ ebbe alcun fondamento.
I tura è superiore alla cultura. Il Bourrienne ' racconta che i
suoi savants, in quel viaggio d’ Egitto, s' affanna= vano una sera a
dimostrare che non ci può essere Dio. Erano riusciti a provarlo, a loro
grande soddisfazione, con ogni maniera di logica. Napoleone, guardando
su, alle stelle, risponde : «La dimostrazione è molto inge-
gnosa, messieurs ; ma chi ha fatto tutto ciò? » La dot- trina
atea gli passa sopra come un’ ondata ed egli rimane al cospetto del
grande fatto: « Chi f ti ci09 > Similm Ì | fece utto ente
nella pratica: come 0 possa essere grande e trionfare i gni.u9Maro
onfare in questo mondo, egli 1 Mémoires de Mi de Rourri. i
Villemarest, Paris, chez Tadrocat, lui-meme, rédigéa par Mi de
Fauyol Fauvolot do Bonrrionna, amico d'infanzia e segretario
timo di Napoleone, — colui MA i, colui cho formulò, d'accordo co
diem nl DE Oi orrori contenuti ola COLI REA to I ‘ourrienne et nen
erreura volontaires dI RT fontraverso tuttii viluppi, il nocciolo
pra vede, de
direttamente.! tione; ed a quello ten 9 2 bj pei driscalco del suo
palazzo delle Tuileries gli e tappezzerie, dimostrandogli
‘con me fossero magnifiche, e DEF giunta @ He, mercato;
Napoleone, Per tutta risposta, hiese Sa Ni forbici, mozzò una napPInA dl
oro dele o finestra, se la messe in tasca, e tirò via. Qualche Hai
: dopo, la cavò fuori al momento buono, gran È SE rore del suo
fornitore: non era Oro, ma. orpello! ; no- tevole come anche a Sant'
Elena, sempre; sino & # ultimi giorni, egli insista sul pratico, sul
reale: < A che parlare e lamentare? & che, sopra tutto, leticare?
Non ‘gi viene con ciò ad alcun risultato; nulla si riesce, a far
nulla. E se nulla potete fare; tacete! > Parla ‘spesso così a’ suoi
poveri seguaci malcontenti ; è come una forza silenziosa tramezzo alle
loro morbose querele. A E per conseguenza, non possiamo dire che fosse in
n lui pure una fede genuina, Der quant’ era possibile? Ve- i
deva in questa nuova enorme democrazia, che s’ affer- n mava nella
rivoluzione francese, un fatto che non sì può - sopprimere, un fatto che
il mondo intero, con tutte le sue vecchie forze e le instituzioni, non
può metter da parte: di ciò egli aveva il vero intuito, e quell’
intuito trascinava seco la sua coscienza ed il suo entusiasmo : era
la sua fede. Forse che non ne interpetrò bene l’oscura portata ? La
carriòre ouverte auv talents — gli strumenti & chi sa maneggiarli:
quest’ è effettivamente la verità, tutta la verità anzi, e comprende
tutto il si- : bo dell riluzione fece 0 i a ix Ò n ‘ » al
ieri i dda DE nidi pae CE cedono innanzi a quest'uomo Dire ecm vr i
rat dp degli soci dl diplomati e vugle cha ogni ir facoltà di RIGA
RARI HRolnio: egoista, prudente, psn se : ale parvenza altrùi, uè da e
sntisinne. 1a Siocniae da alcuna @ re, da nessuna fretta. » (Emerson,
loco cit, sì VI meg SaIoaaai Si ù Napoleone nel suo primo periodo sie to
“vero democratico ; nondimeno, Per sua natura, QI ati ita mili sapeva che
Ja democrazia, in quanto mai fosse verità, non poteva essere:
RIO ed odiava cordialmente P'anarchia. T1 20 giugno 5 seduto col
Bourrienne in un caflè, mentre la folla Diso, schiamazzando, Napoleone
esprime il più DIOCr, a 3 i- sprezzo per le antorità che non reprimono
que! dio dine. Il 10 agosto sì meraviglia che nessuno prenda 1 o di
que’ poveri Svizzeri : vincerebbero Se uves: dante. Tanta fede nella
democrazia, eP7 comand sero un coman I I pure tant!
odio dell’ anarchia sostengono apoleone IM illanti campagne
grande Opera. Nelle br IO] d'Italia, via via sino alla pace di Léoben,'
81 direbbe che il suo ideale sia questo: fatta trionfare la rivoluzione
francese; affermarla contro questi simulacri aus striaci che 0Sano dirla,
un simulacro! Nondimeno, egli sente pure; ed ha diritto di sentire,
quanto neces? siria sia una forte autorità; e come senz) essa l’opera
della rivoluzione non possa prosperare nè durare. Fre- nare quella granda
rivoluzione devastatrice, che divorava sè stessa ; domarla così, che,
raggiunto il suo intrinseco scopo, essa possa divenire organica, capace
di vivere tra gli altri organismi, tra le altre cose formate, e non
sol- tanto quale opera di devastazione, di distruzione : non mirava
egliin parte a questo come alla vera mèta della sua vita? non s'ingegnò,
anzi, effettivamente, di far IA A traverso Wagram ed Austerlitz, a traverso
Re. SOT aan Hg per osare ed operare, € s'inalzò ica IRE re. Tutti
gli uomini videro sione Cad Ro ioni soldati solevano dire ai dala
avvocati di Parigi, tutti ‘Bisogna che mettiamo là il Pan Diga
‘andarono, e lo messe ni nostro Petit Caporal!> E S ro là; essi, e
tutta la Trancia in tutta la sua DAI massa E poi il
consolato; 1° impero; la vittoria su tutta pEuropa {.. È abbastanza
naturale che il povero luogo- ” n 9 tenente del reggimento
La Fère, potesse apparire ai pro- i ‘n erande fra quanti nomini fossero
da 56 sto punto; quel fatale elem nto di ciarla- 0.
Rinnegando la sua vel chia fede nei fatti, cOn jò a credere nelle
parvenze, brigò per imparentarsì con le dinastie austriache, col
papati, con le vecchie false feudalità, che pure un tempo gli apparivano
chiaramente false; pensò & fondare una e così via — come se la
enorme mirasse che @ dinastia Sua rivoluzione
francese non era dunque € dannato a zogna;> è terribile,
m® il vero dal falso quando v ventosa ammenda, questa, che 1
uomo paghi per avere ceduto alla infedeltà del cuore. La falsa
ambizione ego stica era divenuta ora il suo dio: una volta scesi
sino all’inganno di sè stessi, tutti gli altri inganni seguono
naturalmente, € si cade sempre più e più basso. In quale gretta e
rappezzata miseria, in quale mascherata tea- trale di manti di carta e
d'orpello, aveva ravvolta que- st'uomO la propria grande realtà,
immaginando cor ciò di farla più reale! E quel vacuo Concordato col
papa; che pretende ristabilire il cattolicismo mentr' egli stesso 1
riconosce ch è il metodo di estirparlo, la vaccine religioni e quelle
cerimonie d’incoronazione, quelle con- È sacrazioni nella chiesa di
Notre-Dame per mezzo della Ai. vecchia chimera italiana — « cui nulla
mancava, > come disse l’Augereau,' ca completarne la pompa, Se
non'quel mezzo milione d’uomini, morti per far finire tutto ciò!...>
+ | RIA Ae di Cromwell fu con la spada e con la — ja, e dobbiamo
dirla genuinamente vera. La spada \aneria prese Da or
Francesco Auger at Drama EETUIGIO), ANA onu, duca di Castiglione,
maresciallo e pari di | ‘che fu governatore a Berlino nel 1818, è difese
Tione nel 1814 18 fruttidoro (LT9T); © ne ESTA. i
ETTURA SES ; lui senz alcuna chi- blemi del purttatni Aveva
usato en- ; I a et pretendev® ora difenderle! bagliò credette
troppo vide nell'uomo di -]* i ta
facilità... della fame © di questa 12 Siglo ta (Lor che edificasse
sulle nubi, e: SAR ina, e di arve dal mondo? i ni Sì
‘gua casa IN confusa rund; | i DO art in ciascuno di noi, esiste quest
SE. e potrebbe svilupparsi ove la tenti ciarlataneria,
; fosse forte abbastanza. € on Ma il suo sviluppo; invero;
| come ingrediente riconoscibil e ie DE: Sa a di Napoleone,
& stessa piccina. Che fu dunque 1 opere SI i lpore? Uno sprazzo
come di po malgrado di tanto sca p 3 Re vere da fucile
largamente sparsa; Una fiamma t) di eriche secche. Per un'ora, |
universo intero sembra avvolto dal fumo e dalle fiamme; ma per un' ora
sol- tanto. Poi svanisce, ed ecco riapparire Vl umiverso CON le sue
vecchie montagne ed i vecchi fiumi, con le stelle nell'alto e giù sotto
il benefico suolo. Il duca di Weimar diceva sempre agli amici di
farsi animo, chè questo Napoleonismo era ingiusto, era men- zogna,
e non poteva durare. La teoria è vera. Più questo Napoleone calpestava il
mondo, tenendolo tirannicamente + oppresso, più fiera sarebbe un
giorno la reazione del mondo contro di lui. L' ingiustizia si ripaga da
sè, e con uno spaventevole interesse composto. Non so
davvero a in dina pro alt OG Dio si ha risersata jar lui
Ladino Boo oi SA TmaSoni ne PESI Lira si, Sraianol: cho vuol gio del
HIFEMENE la la mila cl 1 ila son fumi tie tnio parere non
durabile perchè LARA RE LIE ICINLI cod’ artiglieria 0 veder affogare il
suo reg- jelior pal 7 ; cite rimento migliore, anzichè
fucilare quel povero libraio {edesco palm!? Fu un'aperta ingiustizia,
una, tirannia, un assassinio, che nessun uomo, la dipinga pure con
uno strato di colore alto un dito, potrà mai far apparire
altrimenti. Questa ed altre simili ingiustizie s' impres? sero profonde
nei cuori; un fuoco represso balenava dagli occhi degli uomini quando vi
ripensavano.... aspet- tando il giorno! Ed il giorno venne: € la Germania
gli si sollevò d’ intorno. — L'opera di Napoleone sl ridurrà
a lungo andare & quanto egli compì giustamente, 2 quanto la
natura sancirà con le sue leggi, a quanto di realtà era in lui; ® tanto,
e nulla più. Il resto fu tutto fumo e sciupio. La carrière ouverte Aux
talents: questo grande messaggio di verità, che ha ancora da articolarsi
e da adempiersi dappertutto, ei lo lasciò in uno stato affatto
inarticolato. Egli fu un grande schema, un abbozzo, non mai completato:
ed invero, forse che il grand’ uomo è mai altro? Ma egli, ahimè, rimase
in uno stato tr0ppo rudimentale |... È quasi tragico il
riflettere alle sue opinioni sul mondo, quali le esprime là, a
Sant'Elena. Sembra pro- vare la più sincera meraviglia che tutto sia
andato & quel modo: ch’ egli sia stato gettato là, sulla rupe,
e "che il mondo ruoti ancora sul suo asse. La Francia. è
‘grande, anzi è sola grande; ed in fondo Napoleone è la Francia. La
stessa Inghilterra, egli dice, non è per na- ura che un'appendice della
Francia; < è per la Francia n'altra isola d’Oleron. >» Così era per
natura, per l ‘Non può comprendere, non sa concepire che la realtà
«ela confederazione del Reno veniva formandosi, la polizia scoperse al Sci
librai furono arrestati ) ono per avervi avuto parte e Napol
Sa commissiono militare. Quattro degli Roca LARE oro
provincie: due, Schiderer e Palm, condannati a mi % 4 to
Napoloone fece grazia, una il libraio Palm di Norimberga vi atura di Napoleone.
Guardate, infatti : ECCOMI QUI da i 1 Nel 1806, mentre l’
esercito francese occupava ancora la Germania, cuni documenti, che
rivelavano i piani d'un comitato segreto d'insurre- e LEmTURÀ de
mma; che la Francia TR da ci c jeposto al suo P o, Ji non S1a
la Francia. 3 ‘n a credere ciù andezza, © dI DI ipbia
i nesta “iano, COSÌ compatta, così ana, ì g'è involuta;
s'è quasi sua N° 0 ante un temp: e a di fanfaronnadi
da tmosfer: torbida n'ai osto & lasciarsi calpe: LS
contastare come pla si tà alla Francia ed a sè; 0A it A
mire! Napoleone 7 1 costene Ma, ahimè, OF he giov Le, ui ; e
natura, anch’ ess% si dia Essendosi UNA volta staccato 1) st e)
scamp nel vuoto; è Vv ebbe per o di rado tocco ad un
uomo sorte tanto desolata: e dovette morire; povero Napoleone
!.. mento troppo presto sciupato, sino & "&
ecco il nostro ultimo eroe! A si er * * Sa Tiltimo in
un doppio significato, poichè debbono con ‘]ui terminare queste
nostre peregrinazioni a traverso ‘tempi e luoghi così diversi, cercando,
studiando gli eroi. UR ME ne rinoresce: era un piacere per me in quest’
occu: | pazione, sebbene misto a molta pena. È un grande s0g= 5
molto grave, molto vasto, questo che io, appunto darmi tropp'aria di
gravità, ho chiamato cult@ Esso penetra profondo nelle secrete vie
del- ‘e ne’ più vitali interessi di questo mondo; tei ge bro ben
degno di svolgimento. In sei Invece che sei giorni, avremmo potuto far
meglio. lo: chi sa se nemmeno vi sono riu- per penetrarvi un poco,
dovetti Dn DIRE Tronno spesso, con bru- uttate là isolate, senza commento,
ho ‘cortese benevolenza, non voglio ora parlare. per saviezza e
leggiadria, ha ascoltato pazient pozze parole. Sentitamente,
cordialmente, vi rendo zie, ed a tutti dico: Dio sia con
voil Precisely a century and a year after this of Puritanism
had got itself hushed-up into decent composure, and its results
made smooth, in 1688, there broke-out a far deeper explosion, much
more difficult to hush-up, known to all mortals, and like to be long
known, by the name of French Revolution. It is properly the third and
final act of Protestantism ; the explosive confused return of mankind to
Reality and Fact, now that they were perishing of Semblance and Sham. We
call our English Puri- tanism the second act : “Well then, the Bible is
true ; let ils go by the Bible 1 ” “ In Church,” said Luther ; “ In
Church and State,” said Cromwell, “let us go by what actually
God’s Truth.” Men have to return to reality ; they cannot live on
semblance. The French Revolution, or third act, we may well call the
final one ; for lower than that savage Sansculottism men cannot go. They
stand there on the nakedest haggard Fact, undeniable in all seasons and
circumstances ; and may and must begin again confidently to build-up from
that. The French explosion, like the English one, got its King, — who had
no Notary parchment to show for himself. We have still to glance
for a moment at Napoleon, our second modern King. Napoleon does by
no means seem to me so great a man as Cromwell. His enormous victories
which reached over all Europe, while Cromwell abode mainly in our little
England, are but as the high stilts on which the man is seen standing
; the stature of the man is not altered thereby. I find in him no
such sincerity as in Cromwell ; only a far inferior sort. No silent
walking, through long years, with the Awful Unnamable of this Universe;
‘walking with God," as he called it; and faith and strength in that
alone : latent thought and valour, content to lie latent, then burst out
as in blaze of Heaven’s /lightning 1 Napoleon lived in an age when God
was no longer believed ; the meaning of all Silence, Latency, was thought
to 'be Nonentity : he had to begin not out of the Puritan Bible,
but out of poor Sceptical EncyclopMies, This was the length the man
carried it. Meritorious to get so far. His compact, prompt, everyway
articulate character is in itself perhaps small, compared with our great
chaotic /^articulate Cromwell’s. In- stead of 'dumb Prophet struggling to
speak,' we have a por- tentous mixture of the Quack withal I Hume’s
notion of the Fanatic-Hypocrite, with such truth as it has, will apply
much better to Napoleon than it did to Cromwell, to Mahomet or the
like, — where indeed taken strictly it has hardly any truth at all. An
element of blamable ambition shows itself, from the first, in this man ;
gets the victory over him at last, and in- volves him and his work in
ruin. * False as a bulletin’ became a proverb in Napoleon’s time.
He makes what excuse he could for it : that it was necessary to mislead
the enemy, to keep-up his own men’s courage, and so forth. On the whole,
there are no excuses. A man in no case has liberty to tell lies. It had
been, in the long-run, better for Napoleon too if he had not told any. In
fact, if a man have any purpose reaching beyond the hour and day, meant
to be found extant next day, what good can it ever be to promul-
gate lies ? The lies are found-out ; ruinous penalty is exacted for them.
No man will believe the liar next time even when he speaks truth, when it
is of the last importance that he be believed. The old cry of wolf 1 — K
Lie is nMhing ; you can- not of nothing make something ; you make nothing
at last, and lose your labour into the bargain. Yet Napoleon
had a sincerity; we are to distinguish be- tween what is superficial and
what is fundamental in insin- cerity. Across these outer manceuverings
and quackeries of his, which were many and most bian>able, let us discern
withal that the man had a certain instinctive ineradicable feeling
for reality ; and did base himself upon fact, so long as he had any
basis. He has an instinct of Nature better than his culture was. His
savans, Bourrienne tells us, in that voyage to Egypt were one evening
busily occupied arguing that there could be no God. They had proved it,
to their satisfaction, by all man- ner of logic. Napoleon looking up into
the stars, answers, “Very ingenious. Messieurs ; but who made all that?”
The Atheistic logic runs-off from him like water ; the great Fact
stares him in the face : “ Who made all that ?” So too in Practice : he,
as every man that can be great, or have victory in this world, sees,
through all entanglements, the practical heart of the matter ; drives
straight towards that. “N^en the steward of his Tuileries Palace was
exhibiting the new uphol- stery, with praises, and demonstration how
glorious it was, and how cheap withal, Napoleon, making little answer,
asked for a pair of scissors, dipt one of the gold tassels from a
window- curtain, put it in his pocket, and walked on. Some days
after- wards, he produced it at the right moment, to the horror of
his upholstery functionary ; it was not gold but tinsel I In Saint
Helena, it is notable how he still, to his last days, insists on the
practical, the real. Why talk and complain ; above all, why quarrel with
one another ? There is no result in it ; it comes to nothing that one can
do. Say nothing, if one can do no- thing I” He speaks often so, to his
poor discontented follow- ers ; he is like a piece of silent strength in
the middle of their morbid querulousness there. And
accordingly was there not what we can call a faith in him, genuine so far
as it went ? That this new enormous De- mocracy asserting itself here in
the French Revolution is an insuppressible Fact, which the whole world,
with its old forces and institutions, cannot put down ; this was a true
insight of his, and took his conscience and enthusiasm along with it, — a
faith. And did he not interpret the dim purport of it well ? * La
carriers ouverte aux ialens^ The implements to him who “ran handle them
;* this actually is the truth, and even the whole truth ; it includes
whatever the French Revolution, or any Re- volution, could mean.
Napoleon, in his first period, was a true Democrat. And yet by the nature
of him, fostered too by his military trade, he knew that Democracy, if it
were a true thing at all, could not be an anarchy : the man had a
heart-hatred for anarchy. On that Twentieth of June (1792), Bourrienne
and he sat in a coffee-house, as the mob rolled by : Napoleon expresses
the deepest contempt for persons in authority that they do not restrain
this rabble. On the Tenth of August he wonders why there is no man to
command these poor Swiss ; they would conquer if there were. Such a faith
in Democracy, yet hatred of anarchy, it is that carries Napoleon
through all his great work. Through his brilliant Italian
Campaigns, onwards to the Peace of Leoben, one would say, his
inspir- ation is ; ‘ Triumph to the French Revolution ; assertion
of * it against these Austrian Simulacra that pretend to call
it ‘ a Simulacrum 1’ Withal, however, he feels, and has a right to
feel, how necessary a strong Authority is ; how the Revolution cannot prosper
or last without such. To bridleMn that great devouring, self-devouring
French Revolution ; to tameit, so that its intrinsic purpose can be made
good, that it may be- come organic, and be able to live among other organisms
and formed things, not as a wasting destruction alone : is not this
still what he partly aimed at, as the true purport of his life ; nay what
he actually managed to do ? Through Wagrams, Austerlitzes ; triumph after
triumph, — he triumphed so far. There was an eye to see in this man, a
soul to dare and do. He rose naturally to be the King. All men saw that
he was such. The common soldiers used to say on the march : “ These
babbling Avocats, up at Paris ; all talk and no work ! What wonder it
runs all wrong ? We shall have to go and put our Petit Caporal there I”
They went, and put him there ; they and France at large.
Chief-consulship, Emperorship, victory over Europe ; — till the poor
Lieutenant of La Fire, not unna- turally, might seem to himself the
greatest of all men that had been in the world for some ages.
But at this point, I think, the fatal charlatan-element got the
upper hand. He apostatised from his old faith in Facts, took to believing
in Semblances ; strove to connect himself with Austrian Dynasties, Popedoms,
with the old false Feud- alities which he once saw clearly to be false ;
— considered that he would found “ his Dynasty” and so forth ; that the
enormous French Revolution meant only that ! The man was ‘given-up
^ to strong delusion, that he should believe a lie a fearful but j
most sure thing. did not knowJrue from false no\y.wheiLj he looked at
them, — the fearfulest penalty a man pays for yielding . to untruth of
heart. Self and false ambition had now become ^ his god : j^^deception
once yielded to, all other deceptions follow naturally more and more.
What a paltry patchwork of theatrical paper-mantles, tinsel and mummery,
had this man wrapt his own great reality in, thinking to make it more
real thereby ! His hollow ^-Concordat, pretending to be a re-
establishment of Catholicism, felt by himself to be the method of
extirpating it, ^fa vaccine de la religion his ceremonial Coronations,
consecrations by the old Italian Chimera in Notre- Dame, — “wanting
nothing to complete the pomp of it,” as Augereau said, “nothing but the
half-million of men who had died to put an end to all that” ! Cromwell’s
Inauguration was by the Sword and Bible ; what we must call a
genuinely one. Sword and Bible were borne before him, without any
chi- mera : were not these the’’ r^a/ emblems of Puritanism ; its
true decoration and insignia ? It had used them both in a very real
manner, and pretended to stand by them now 1 But this poor Napoleon
mistook : he believed too much in the Dup^~ ability of men ; saw no fact
deeper in man than Hunger and this 1 He was mistaken. Like a man that
should build upon cloud ; his house and he fall down in confused wreck,
and de- part out of the world. Alas, in all of us this
charlatan-element exists ; and might be developed, were the temptation
strong enough. ‘ Lead us not into temptation’ I But it is fatal, I say,
that it be developed. The thing into which it enters as a cognisable
ingredient is doomed to be altogether transitory; and, however huge it
may look, is in itself small. Napoleon’s working, accordingly, what
was it with all the noise it made ? A flash as of gunpowder wide-spread ;
a blazing-up as of dry heath. For an hour the whole Universe seems wrapt
in smoke and flame ; but only ^for an hour. It goes out : the Universe
with its old mountains and streams, its stars above and kind soil
beneath, is still there. The Duke of Weimar told his friends
always, To be of courage ; this Napoleonism was unjust^ a falsehood, and
could not last. It is true dqctrine. The heavier this Napoleon
tram- pled on the world, holding it tyrannously down, the fiercer
would the world’s recoil against him be, one day. Injustice pays
jt- self with frightful compound-interest. I am not sure but he had
better have lost his best park of artillery, or had his best regiment
drowned in the sea, than shot that poor German Bookseller, Palm I It was
a palpable tyrannous murderous injustice, which no man, let him paint an
inch thick, could make-out to be other. It burnt deep into the hearts of
men, it and the like of it ; suppressed fire flashed in the eyes of
men, as they thought of it, — ^waiting their day 1 Which day came :
Germany rose round him. — ^What Napoleon did will in the long-run amount to
what he did justly j what Nature with her laws will sanction. To what of
reality was in him; to that and nothing more. The rest was all smoke and
waste. La carri^re ouverte aux talens : that great true Message,
which has yet to articulate and fulfil itself everywhere, he left in
a most inarticulate state. He was a great Sbatiche, a rude- draught
never completed ; as indeed what great man is other ? Left in too rude a
state, alas 1 His notions of the world, as he expresses them there
at St. Helena, are almost tragical to consider. He seems to feel
the most unaffected surprise that it has all gone so ; that he is
flung-out on the rock here, and the World is still moving on its axis.
France is great, and all-great ; and at bottom, he is France. England
itself, he says, is by Nature only an ap- pendage of France ; “another
Isle of Oleron to France.” So it was by Nature, by Napoleon-Nature ; and
yet look how in fact — Here am I I He cannot understand it :
inconceivable that the reality has not corresponded to his program of it
; that France was not all-great, that he was not France. ‘Strong
delusion,’ that he should believe the thing to be which is not I The
compact, clear- seeing, decisive Italian nature of him, strong, genuine,
which he once had, has enveloped itself, half- dissolved itself, in a
turbid atmosphere of French fanfaronade. The world was not disposed to be
trodden-down underfoot ; to be bound into masses, and built together, as
he liked, for a pedestal to France and him : the world had quite other
pur- poses in view! Napoleon's astonishment is extreme. But alas,
what help now ? He had gone that way of his ; and Nature also had gone
her way. Having once parted with Reality, he tumbles helpless in Vacuity;
no rescue for him. He had to sink there, mournfully as man seldom did ;
and break his great heart, and die, — this poor Napoleon ; a great
implement too soon wasted, till it was useless : our last Great Man
I Our last, in a double sense. For here finally these wide
roamings of ours through so many times and places, in search and study of
Heroes, are to terminate. I am sorry for it: there was pleasure for me in
this business, if also much pain. It is a great subject, and a most grave
and wide one, this which, not to be too grave about it, I have named
He?'o-worship. It enters deeply, as I think, into the secret of Mankind’s
ways and vitalest interests in this world, and is well worth explaining
at present. With six months, instead of six days, we might have done
better. I promised to break-ground on it ; I know not whether I have even
managed to do that. I have had to tear it up in the rudest manner in
order to get into it at all. Often enough, with these abrupt utterances
thrown-out iso- lated, unexplained, has your tolerance been put to the
trial. Tolerance, patient candour, all-hoping favour and kindness,
which I will not speak of at present. The accomplished and distinguished,
the beautiful, the wise, something of what is best in England, have
listened patiently to my rude words. With many feelings, I heartily thank
you all ; and say, Good be with you all ! Domenico Cardone. Domenico
Antonio Cardone. Keywords: Clark Kent; ovvero, sul sovrumano, “Ricerche
filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,”
Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche,
Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus as a philosopher! Tommaso
Carlyle, Il culto degl’eroi – culto, worth-ship, valore, Napoleone, natura
italiana -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool
Library. Cardone.
Grice e Carifi: l’implicatura
conversazionale dell’ablativi relativi – Roman implicata -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “I would call
Carifi a poet rather than a philosopher! He did indeed philosophise ‘in difesa
della filosofia,’ but that should read
of ‘his’ ‘filosofia,’ which he sees as an elaboration on death! My favourite
are his ‘lezioni’ di filosofia and his ‘ablativo assoluto,’ something English
lacks, but ‘deo volente’ doesn’t!” --
Studia sotto Bigongiari, tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino,
profondamente influenzato dalle voci
liriche di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a
essere poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de
“Il segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a
Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito
verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a
nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della
malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi
versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere,
attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per
ricongiungersi al mondo. Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che
incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia,
che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti
filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo
d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza
se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è
l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere
l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre,
dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni,
ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è
una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta
un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante
amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che
continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari
era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto
a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini,
camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua
muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi
versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza
poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si
misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco
filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si
è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia
arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia
parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità.
Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie
un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza. La sua
ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé
stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite
che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero
della responsabilità e della parola, è l’uomo C.. Non bisogna accostarsi a lui
con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica alla
teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non esistono
concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica di
Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso filo
conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose
riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo.
Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo
della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove
l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri. La
conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto
interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo
principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una
dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro.L'uomo del pensiero:
Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si
alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E
conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica,
influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma
anche per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl
e Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio
Tesi Editrice» Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la
sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due
antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi
diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo
quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile.
Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la
forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si
racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui
l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della
Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio» «La raccolta Madre,
proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare
al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un
momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al
buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su
«Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana» Opere Raccolte
poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di
Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano);
Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I
Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco
Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda,
Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere,
Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre
poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti,
Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il
Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il
gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA,
Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I
Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo
d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna
(Raffaelli, Rimini ). Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni,
2008; Georg Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e
Roberto Carifi, Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la
rubrica mensile "Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per
ulteriori notizie si veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel
volume Roberto Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento
edizioni, Da Roberto Carifi, Tibet, Le Lettere,. Da Pistoia in parole. Passeggiate con gli
scrittori in città e dintorni, Alba Andreini, introduzione di Roberto Carifi,
Edizioni ETS,. M. Baudino, Nel mitico
mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C. Viviani, Il mito e il nuovo inquilino,
«Il Giorno», F. Ermini, Il mito per relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei
lavoratori», G. Giudici, Il gesto di Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto
di Callicle, «Alfabeta», M. Spinella, La microfisica del significante poetico,
«Rinascita», nQui sento odor di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il
piccolo Hans», Al fuoco di un altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel
verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi, Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»;
Utopisti e menestrelli, «L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del
Ticino»; I Quaderni del Battello Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per
litanie epiche sull'occidente, «Il Manifesto». Il filo del tramonto e del
rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il luogo del ritorno a casa, «La Nazione»,
La lingua continua a battere dove la carità duole, «Il Mattino», Il buio
mondo che ci avvolge, «Il Sole 24 ore», Il lato oscuro delle cose, «La
Repubblica»; Sul vuoto appesi alla
parola, «La Nazione», Amore senza tempo, «Il Sole 24 ore»,; E per musa
ispiratrice la nostalgia, «Avvenire», Classici pensosi versi, «Gazzetta di Parma», Amore
per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori di Carifi, «La Nazione»;
B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»; D. Attanasio, Amore e
morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli, Carifi: il desiderio è
mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore quando il lume si spegne,
«L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi, «Il Giorno», Doni al confine
del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico della solitudine, «Il Giorno», R.
Figli innamorati del proprio destino, «Avvenire»; Il male come provocazione
estetica – estetica del male -- Chiaroscuro con lampada e scialle, «Il Sole 24
ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»; Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta
di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»; U. Piersanti, Il figlio, «Tutto
Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di Figlio, «La Nazione»; Quel
contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli sospesi tra essere e
abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i sogni, l'addio, «Tutto
Libri», Amore d'autunno, «L'Espresso», Morte
di madre. Quando la poesia "riversa la vita", «Il Giornale», L’elegia
di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra figlio e madre, «La
Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno,
«Il Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore,
«Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un dialogo a distanza
sull'alterità del figlio, introduzione a C. e U. Buscioni, Figure
dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del sublime: la poesia di
Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B. Garavelli, Addio alla
madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il Manifesto»; La religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F.
A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione
Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il
Giornale», Per la sezione bibliografica
questa voce trae informazioni dalla
inglese. Piero Bigongiari
Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog
Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie
su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su
margininversi.blogspot. Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo
di Andrea Galgano su «Clandestino». Grice: “One impotant thing to consider is
the passive voice of the future perfect – TEMPVS PLVSQVAMPERFECTVS PRAETERITVM
– there was a specific form, ‘dedidi’ i. e. an inflected form, only in the
passive voice. However, no record was found of the passive voice, except by use
of what I call an ‘auxiliary’ verb – ‘have’ – cf. my notes on ‘do’ – ‘do’ and
‘have’ as auxiliary. However, the Romans found a way: the ablativo assoluto –
the house given, she proceeded to furnish it. Money having been given to the
merchant, the buyer left – Admirably, as Aelfric noted, in Latin, the
pluperfect, strictly tempus praeterium plusquamperfectum, is formed without an
auxiliary verb . MODUS INDICATIVUS/SUBJUNCTIVUS. Pecuniam mercatori DEDERAT.
Pecunimam mercatori DEDISSET – Ha had given money to the merchart. He should
have given money to the merchant. The Roman even had a choice of the ablative
absolute hrase, consisting of the noun and the perfect participle in the
ablative case. Pecuniis mercatori datis cessit emptor , Money having been given
to the merchant, the buyer left. pecuniis mercatori non datis non cessit
emptor. Money not having been given to the merchant, the merchant killed one of
the buyer’s slaves. The difference is merely implicatural. In the verbal form
(dederat, dedisset) is is explicated that it was the buyer who paid. In the
absolute-ablative case, it is merely implicated. For all the utterer cares, it
could have been the buyer’s slave. Cicero refers to an use of the RELATIVE
ablative which is even ‘more slippery’ and thus optimal for cross examination.
Money Carifi. Keywords: ablativi
relative, filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake
– l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme –
l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger,
conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library. Carifi.
Grice e Carle – le radici del
diritto romano – la legge romana – la natura romana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza -- (Chiusa di Pesio). Filosofo italiano. Grice: “I like
Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is
eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on
Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a
‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social
philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of
joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo. La dottrina giuridica del fallimento nel
diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto
d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli
Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio
comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del
diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto
pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto
nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia
del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani. Positivismo:
ius – fatto – non valore – l’implicatura di Romolo e Remo. Naturalism –
giusnaturalismo – forza – autorita – ius – “LE ORIGNI DEL DIRITTO ROMANO” -- RICOSTRUZIONE
STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA.
Fuit haec sapientia quondam Publica privatis secernere, sacra profanis. HOR.,
poet Ars. LABOR NOR TORINO FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE
D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE Via del Corso. Via Cerretapi. DEPOSITI PALERMO
NAPOLI CATANIA Università, Piazza Plebiscito, 2 S. Maria al Ros.°, 23 (Carosio
) Carosio )TORINO BONA. La nobile Università di Bologna, commemorando in questi
giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in
cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si rese benemerita di tutto il
mondo civile. Agli omaggi, che in questa occasione solenne convengono costi
d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello di un'opera ispirata al
desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa italiana la tradizione
civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed
obblimo. Ritornato di proposito allo studio del diritto romano, in seguito
all'incarico affidatomi di insegnarne la storia nella R.Università di Torino,
parvemi di rileggere uno di quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta
una vita, perché ad ogni lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni,
che prima sono sfuggite. Quegli studii di giurisprudenza comparata, che in
questi ultimi anni si vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel
periodo gentilizio, nel quale debbono essere cercate le fondamenta, sovra cui
furono poscia edificate le città, mi parvero irradiare di nuova luce
l'antichissimo diritto di Roma, e aprire nuove vie per spiegare il processo,
con cui ebbe ad essere iniziata la formazione del medesimo. È strano infatti
che, mentre il diritto romano, fra le grandi elaborazioni del genere umano, è
certamente quella, che ebbe ad essere maggiormente studiata nei frammenti che a
noi ne pervennero e nei suoi ultimi risultati, continui pur sempre ad essere un
grande mistero il processo, con cui i romani giunsero ad elevare un cosi grande
edifizio, e il motivo per cui essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La
causa tuttavia di questa singolarità deve essere riposta in ciò, che per
risolvere il problema delle origini del diritto romano non può bastare lo
studio staccato dei frammenti, nė l'esegesi applicata ai testi, ma
conviene ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse,
colmarne le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e
sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e
di pensare in certo modo alla romana, tener conto delle particolari attitudini
dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo
svolgimento delle sue istituzioni pubbliche e private. Conviene insomma
ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e
cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella
storia dell'umanità. Certo era naturale cosa, che uno studioso della vita del
diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle
attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi
perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze.
Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governa la
formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di
sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi
dei materiali che furono raccolti con tanta diligenza, sopratutto in Germania.
Mi accinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene
alla mia età, ma che ebbe il vantaggio di rendermi aggradevole la lunga fatica,
e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa, unitamente alla convinzione
profonda, che le grandi elaborazioni dell'ingegno umano, mentre cambiarono in
maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche il pregio di
confortare ed elevare il pensiero di coloro, che si travagliano per comprendere
il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo tuttavia una
confessione al lettore benevolo: ed è che il presente saggio, cominciato forse
coll’idea, non preconcetta, ma latente, che il diritto pubblico e privato di
Roma fosse il frutto di una evoluzione determinata dalle condizioni esteriori,
in cui si trova il popolo romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse.
I romani, cosi nel formare la propria città, come nell’elaborare le proprie
istituzioni pubbliche e private, seguirono un processo, che chiamo di selezione.
Anziché essere dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e
di sottometterli alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura
della loro città sono costruite coi massi più solidi delle costruzioni
gentilizie, cosi i concetti, che stanno a base del loro diritto pubblico e
privato, sono trascelti nel seno stesso della organizzazione gentilizia. Ma
trapiantati nella città ed isolati cosi dall'ambiente, in cui si erano formati,
si cambiarono in altrettante concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo
ed accomodando alle esigenze della vita civile e politica. Anche questo e un
processo naturale. Ma non è più il processo, che governa la formazione degli
strati geologici, che si sovrappongono gli uni agli altri e serbano l'impronta
dei bassi fondi sovra cui si vengono precipitando, bensi il processo, che
governa la formazione dei cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da
ogni scoria, si vengono, per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono
costantemente secondo quelle forme tipiche, che ne governano la formazione. Di
quiconseguita, che il diritto romano non èu na produzione determinata
esclusivamente dall'ambiente e dalle condizioni esteriori. Ma è già l'opera in
parte consapevole dello spirito vivo ed operoso di un popolo, il quale,
valendosi di attitudini naturali, che in questa parte si possono chiamare
veramente meravigliose, riusci a secernere e ad isolare l'essenza giuridica dei
fatti sociali ed umani, a modellarla in concetti tipici, a svolgere i medesimi
in tutte le conseguenze, di cui po tevano essere capaci, e a trasmettere
cosi alle nazioni moderne un capolavoro di arte giuridica. Questo è il
risultato ultimo, a cui sono pervenuto. Per la prova del medesimo invito
gli imparziali amici del vero a leggere il saggio, nel quale, malgrado la
varietà immensa dei particolari, cerca di riprodurre quella coerenza organica,
che è la caratteristica dello svolgimento storico delle
istituzioni pubbliche e private di Roma. Le tradizioni e le leggende da
cui appare circondata la fondazione di Roma presentano a primo aspetto un
carattere singolare di contraddizione. Da una parte, Roma ha infanzia. E fondata
di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe regia, condottiero
di una banda armata, il quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe
aperto un asilo agl’esuli e ai rifugiati dalle dalle comunanze vicine. E il
fondatore stesso che da a Roma le sue istituzioni pubbliche e private. Il suo
successore le da l'organizzazione del
culto, finchè da ultimo Roma già ingrandita, mediante l'incorporazione di
popoli e di genti diverse, avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile,
politica e militare per opera di Servio Tullio, che si sarebbe così meritato il
nome di secondo fondatore della città. Per tal modo, la forza dapprima,
poi la religione -- e da ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta
della città, e le sue istituzioni civili e politiche appariscono come una
creazione personale dei re, fra i quali la tradizione avrebbe perfino
distribuito il compito. Il suo fondatore è latino, mentre invece è sabino
l'organizzatore del culto, e da ultimo è probabilmente di origine etrusca
quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione civile e politica e
ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento
durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato, invece, la stessa tradizione
circonda la fondazione di Roma di cerimonie religiose, di carattere
tradizionale, che supponneno una religione già compiutamente formata, e fa
apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e private,
che dove poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che intanto
suppongono una lunga elaborazione anteriore. Di fronte a questa apparente
contraddizione, il maggior problema, che si presenta al filosofo e quello di
sostituire alla storia leggendaria delle origini di Roma una storia viva ed
organica di essa, ricercando le origini delle istituzioni primitive con cui
essa appare nella storia. In questa ricostruzione, la filosofia dapprima si scosto
per modo dalle tradizioni a noi pervenute da scorgere in queste poco più di una
serie di leggende. Ma dovette poi riaccostarsi alle medesime, e finisce per
giungere a questo risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella
storia non possono esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei re.
Debbono essere riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già
compiutasi in un periodo anteriore di organizzazione sociale, che sarebbe il
periodo dell'organizzazione gentilizia o patriarcale. Roma secondo i risultati
della filosofia, avvalorati anche dagli studii comparativi fatti sui popoli
primitivi sopratutto di origine ariana, continua quell'opera di formazione
della convivenza civile e politica, iniziata gia dalle altre popolazioni
italiche, le cui memorie risalgono ad epoca anteriore a quella che è fissata
per la fondazione di Roma. Quindi è presso le genti latine ed italiche, che
debbono essere cercate le origini delle primitive istituzioni di Roma. Secondo
il computo più universalmente adottato, Roma è stata fondata nell'anno – ANNO I
– ed e comparsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano
uscite dall'organizzazione gentilizia, e stano avviandosi ad una vera e propria
organizzazione civile e politica. Senza entrare nella questione dei rapporti,
che possono correre fra [Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla
storia primitiva di Roma accompagnato da una critica finissima per separare il
nucleo primitivo della tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da
vedersi BONGHI, “Storia di Roma”. Per lo studio delle istituzioni poli tiche
importa sopratutto la parte che si occupa appunto della costituzione politica
di Roma, secondo CICERONE, Livio, Dionisio] le stirpi italiche e le stirpi
elleniche e in quella della loro provenienza dall'Oriente (1), questo è certo
che fra le stirpi italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di
civiltà e di potenza le stirpi umbro-sabellica, latina ed etrusca. Scavi
dimostrano che il sito occupato da Roma dove già essere popolato da un'epoca
assai remota e del tutto pre-istorica. E scoperta sull'Esquilino una vasta
necropoli, la cui esistenza dimostra che una città etrusca di grande estensione
ed importanza (Rasena) esiste anche prima del periodo reale leggendario, e
costituisce una prova molto importante contro quella teoria che, attribuendo a
Roma un'origine esclusivamente latina e sabina, tende ad escludere o quanto
meno ad attenuare l'influenza dell'elemento etrusco. Tale provenienza delle
stirpi italiche dalle razze ariane e la conseguente loro, parentela colle elleniche,
colle germaniche, celtiche e slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che
si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza etrusca.
Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostrazione di tale
provenienza Leist, “Graeco-italische Rechtsgeschichte” (Jena), sopratutto nella
parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi comuni agl’arii
dell'India e alle genti italiche ed elleniche. È da vedersi la parte, che si
riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti di rita,
themis e ratio. Quest'origine comune è pure ammessa dal BERNHÖFT, “Staat und
Recht der Römischen Königszeit” (Stuttgart). Per quello poi che riguarda il
vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi nell'oriente dagl’arii
primitivi ebbero a ricevere presso gli’arii dell'India, della Persia, e poscia
nell'occidente presso i greci, gli’italici ed i germani, mi rimetto a quanto ho
scritto in “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino),
i cui primi due libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. Sono a vedersi
in proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Accademia dei
Lincei. Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a
questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di MIDDLETON, “Ancient Rome” (Edinburgh).
Middleton parla di questi scavi e dei resti dell'antichissima Rom. Fra gli
autori che tendono a scemare l'influenza del l'elemento etrusco sopra Roma
primitiva, abbiamo il MOMMSEN, il LANGE, e il Pelham nella sua storia di Roma
antica pubblicata nell’Encyclopedia Britannica, ninth edition, Edinburgh, --
voce: Rome. Combatte questa opinione il Taddei nel suo l”Roma e i suoi
Municipii” (Firenze). Senza pretendere di risolvere la questione, è lecito
osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un
popolo come l'etrusco che ha già delle città in siti vicini, che conosceva quei
riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè,
che rinnovarono più profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma
anche la costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che
abitavano il suolo italico, per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla
stirpe aria, hanno però dimenticata la provenienza comune ed apparivano
distinte fra di loro di origine, di costumi e non hanno fra di loro comunanza
di matrimonii. Solo sono ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di
mercato, ove taceno i conflitti e si praticao gli scambi ed i commerci. Quanto
alla loro organizzazione sociale, esse, secondo l'opinione di Mommsen, del
Leist, del Lange, si trovano nel periodo di transizione dall'organizzazione
gentilizia di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e
del municipio. Però anche a questo riguardo si presentano in stadii e
gradazioni diverse. La stirpi umbro-sabellica apparisce con un carattere pro
fondamente religioso. Sono dedite ancora più alla pastorizia che al l'agricoltura.
Preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi montani e conservano ancora
quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio degli abitanti della
montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città, ma in villaggi
aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e serbano le traccie
di una potente organizzazione gentilizia, di cui puo trovarsi un notevole
esempio nella gens “Claudia”. Queste stirpi anche più tardi dimostrarono poca
attitudine alla formazione di un vero e proprio stato, come lo provano le sorti
dei bellicosi sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo umbro-sabellico. Trovansi
invece già in condizione più progredita, per quel che riguarda l'organizzazione
sociale, la stirpe latina. Il Lazio infatti appare diviso in altrettante
comunanze di villaggio aperte, che sono costituite da una aggregazione di
famiglie e di genti, le quali discendono da un antenato comune, di cui portano
il nome e professano il culto gentilizio. Tali aggregazioni di genti, che
chiamansi tribù, abitano nei vici e nei pagi. Ma, riconoscendo la loro origine
comune, anzichè avere una esistenza del tutto separata ed indipendente, sono
già a far parte di un'aggregazione più vasta, che costi [In ciò sono d'accordo
Mommsen, Histoire Romaine. Trad. De Guerle. Paris, ed anche il Lange, Histoire
intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris. Lange attribuisce alle
genti sabine un carattere più conservatore che non alle Latine [-tuisce poi il “populus”
e la “civitas”. Questa aggregazione più vasta non solo ha comune la lingua, il
costume e la religione, ma eziandio la legge, l'amministrazione della giustizia
e la difesa contro gl’attacchi e l’aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava
di un centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di
villaggio, il quale centro comune era l'”urbs”, così chiamata dall'*orbita*
sacra che la circonda, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza, a cui
riparare nei momenti di pericolo, il tempio del divino patrono – “dius,”
“dius-piter” -- dell'intiera comunanza, il luogo ove si amministra giustizia,
il sito per il mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti
pertanto, più che vere e proprie città quali noile intendiamo, sono piuttosto
inizii di città future, in quanto che esse contenevano sopratutto quegl’edifizii,
che hanno pubblica destinazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita
pubblica per le diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le
varie porte esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi
agl’abitanti dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le
quali, secondo la tradizione, sarebbero state in numero di XXX, erano anche
confederate fra di loro e mettevano capo ad una capitale: Alba Longa. Cid
dimostra come le popolazioni latine già fossero abbastanza progredite nella
loro organizzazione sociale, poichè, pur continuando ancora a vivere nelle
comunanze di villaggio, sono pero già pervenute a concepire e in parte ad
attuare quella vita pubblica comune, che dove poi svolgersi nella città e nel
municipio. Vengono infine la stirpe etrusca, la cui civiltà è ancora oggidi
celata nel mistero, perchè le traccie di essa furono in certo modo cancellate
ed assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già erano in
condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre popolazioni
italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città, conoscevano le arti
e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovano in comunicazione
maggiore cogli altri popoli e sopratutto coi Greci. Anche presso di queste era
largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra la sapienza loro
attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli auspizii, come pure
la tradizione, che presso di essi esistessero libri, (1) MOMMSEN, FUSTEL DE
COULANGES, La cité antique (Paris) - che determinano i riti con cui le città
dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione
dove essere ripartita in tribù ed in curie. Del resto anche l'antica
costituzione della città etrusca, secondo Mommsen, si accosta nei suoi tratti
generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dall’organizzazione
patriarcale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre, in quanto
che la stirpe etrusca, per essere sopratutto dedite alla navigazione ed al
commercio, erano state naturalmente condotte a svolgere di preferenza le
comunanze urbane, che non le comunanze di carattere esclusivamente rurale. I
capi etruschi avevano il nome di Lucumoni. La popolazione delle loro citt
dividevasi in nobili ed in plebei, come pure in tribù ed in curie, e se al
disopra delle singole città apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli
pero che stringevano insieme le varie città, che entravano a costituirle, non sono
cosi intimi e stretti come quelli che esisteno fra le città della
confederazione latina. Esse infine pure presentano le traccie
dell'organizzazione gentilizia, ma queste sono già alquanto più alterate per il
maggior svolgimento a cui è pervenuta la comunanza civile e politica. È a
questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza
civile, che Roma compare nella storia. Per quanto possano esservi dei dubbi
sull'influenza, che su di essa abbiano esercitato più tardi l'elemento latino e
l'elemento etrusco, questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere
costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ramnenses --
guidati da Romolo -- e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che
hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue
mura, di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di “Roma
quadrata”. Festo, v° Rituales: “Rituales nominantur etruscorum libri, in quibus
prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua
sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae
distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad
bellum ac pacem pertinentia ». MOMMSEN. LANGE cerca di distinguere il popolo
dei “Rasennae”, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di
origine aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del “vicus tuscus”,
che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine umbra. È
questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO. Nulla vi ha di
ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla
forza in un sito chiuso e fortificato, siasi dapprima trovata in lotta aperta
colle altre comunanze, che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa
però ben presto esercita una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si
trasforma in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie
comunanze di villaggio, che sono disperse in quell'antico septimontium, che ci
è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il
Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio.
Cosi pure dovette presto entrare nella federazione anche una comunanza di
origine sabina, che era stabilita sul Quirinale. Di qui la conseguenza, che le
tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma,
condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel
periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore, due stadii ben
distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è
ancora che lo stabilimento romuleo, il quale, malgrado la denominazione che già
assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di
origine latina, che è quella dei Ramnenses, ancorchè intorno ad essa già si
trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto,
secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle
comunanze vicine. Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di
origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con
comunanze già prima stabilite sui colli vicini. Allora Roma diviene centro e
capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota
la questione relativa al pomoerium, che alcuni vorrebbero collocare entro le
mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là
delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium. La questione fu
di recente trattata con grande corredo di erudizione da CARLOWA (“Romische
Rechtsgeschichte” Leipzig). Carlowa sembra propendere per l'opinione, che il
pomoerium serve di confine fra il territorio dell' “urbs” e l' “ager” circostante.
Cf. MIDDLETON Il testo di LABEONE è riportato da HUSCHKE, “Iurisprudentiae
anti-Iustinianeae quae supersunt”, Lipsiae. Un accenno a questo concetto
trovasi in Lange, “Histoire intérieure de Rome”. Tuttavia non pare che il
medesimo consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù.] cetto
latino, ossia nella sede della vita pubblica di queste varie comunanze. Questi
due stadii nella formazione di Roma primitiva, di cui non si tiene sempre
sufficiente conto, sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal
giureconsulto Pomponio, secondo il quale Romolo non procede alla divisione
della città in curie subito dopo la fondazione di essa. Ma vi sarebbe invece
addivenuto soltanto “aucta ad aliquem modum civitate” -- cioè quando altre
comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di
partecipare ad una vita pubblica comune. Gli elementi primitivi, che secondo la
tradizione sonno entrati a far parte della comunanza romana in questo suo primo
periodo di ingrandimento, sono dalla stessa tradizione ridotti a TRE tribù,
cioè alla tribù dei TRIBU I -- Ramnenses, che era quella dei fondatori, a
quella TRIBU II -- dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale, i
quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum, come lo
dimostra il fatto che i capi delle due tribù avrebbero regnato insieme e poscia
i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine TRIBU
III -- dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum.
L'origine di questo ultimo elemento è incerta, ma dovette probabilmente essere
etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza
di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine
etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le
genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie
città in prossimità del sito, ove Roma e edificata, Cosi intesa la formazione
di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione
delle tre tribù nella comunanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo
assegnato dalla tradizione al regno di Romolo -- il che però non toglie, ed [POMPONIUS,
L. 2 Dig. Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima
questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città,
che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse
effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma havvi
un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il
numero dei membri dei collegi sacerdotali e quello delle centurie dei
cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla [ 9 anzi spiega anche meglio
come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, ha poi
accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine sabina e
di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di attrazione
sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni relative
alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla
venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta
negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine sabina.
Intanto però il fatto, che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento
romuleo di origine latina, fondato in guisa analoga a quella con cui si
fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal
territorio occupato, spiega il carattere che Roma ha poi sempre a ritenere di
città eminentemente latina, in quanto che gli elementi, che si vennero
aggiungendo al nucleo primitivo, dovettero entrare nei quadri propri dello
stabilimento latino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle
quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum, in quanto che il
nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore (1
). Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine
latina, fu anche foggiata sul modello delle città latine, e che quindi, al pari
dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventa fin dapprincipio una città
federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di
varie comunanze di villaggio. È però naturale, che questa trasformazione, per
cui Roma cessa di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per
diventare centro e capo di una confederazione, abbia fatto sentire la necessità
di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger
l'Aventino, costruzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute
dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di
tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù, che con
correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch, “Les origines du Sénat Romain” (Paris)
e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ, “Manuel des institutions romaines”
(Paris). Il principio “prior in tempore, potior in iure” è dai Romani applicato
non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto pubblico.
Questo concetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74, § 1, Cod.
Theod. 12, 1. “Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate defendi”
[- invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata. Vero è che questa
narrazione di Dionisio e posta in dubbio dalla critica contemporanea. Ma Dionisio
è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era ben
naturale, essendosi estesa la comunanza colla federazione di altre popolazioni
vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato in un sito, a
cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze, e che non fosse la dimora
pressochè esclusiva di una delle tribù confederate, come era della città
palatina. Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o sotto i sei re
che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio del divino patrone comune
– “dius”, “dius-piter” -- siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gl’edifizii
pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il
Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi
reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica -- edifizii che al tempo d’Ottaviano
già sono considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti
oggetto di venerazione e di culto, ed erano custoditi qual memoria di una vita
politica, che ormai ha cessato di esistere. A questo periodo però, che può
dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro, in cui comincia ad
effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di
villaggio in una città, la quale, fortificata e chiusa in se stessa, apparisse
paurosa e potente alle popolazioni vicine. Due cose si richiedevano per una
simile trasformazione. Convenne anzitutto che alla distinzione delle tre tribù
primitive, che ricorda ancor sempre la loro origine diversa, si facessero
sottentrare altre distinzioni, le quali sostituissero al vincolo genealogico il
vincolo territoriale, e che gl’elementi diversi, che sono entrati a far parte
della stessa comunanza politica e militare, fossero anche stretti insieme,
mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la
vigorosa espressione di Floro, comincia a mescolarsi insieme il sangue di
elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un
unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti. Dion. Cfr.
MIDDLETON, Ancient Rome. -- FLORUS, III, 18. “Quippe cum populus romanus etruscos,
latinos, sabinosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit
ex membris et ex omnibus unus est. Questi sono i divisamenti, che,
incominciando da Tarquinio Prisco, già cominciano a delinearsi nella mente dei
re. È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe tentato, secondo la
tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e di rompere così il
modello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il suo tentativo però
trova opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa
interprete dello spirito conservatore del patriziato romano, e quindi l'opera
di Tarquinio Prisco dovette limitarsi a fare entrare gl’elementi sopraggiunti
nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò, che gli viene attribuito di
aver raddoppiato il numero delle vestali, di aver duplicato il numero delle
centurie degl’equites, aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses,
Luceres primi le tre dei Ramnenses SECUNDI, Titienses SECUNDI, Luceres SECUNDI,
e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno portato a CCC il numero dei
senatori con aggiungere ai “patres MAIORUM gentium” quelli “patres MINORUM
gentium” Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già
iniziano dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi
nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già
e incominciata sotto Tarquinio Prisco. L'una e l'altra opera fu poi continuata
da Servio Tullio, che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del
popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli
infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora
sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova
organizzazione militare, politica e tributaria, per cui la popolazione romana
ricevette una nuova ripartizione in V CLASSI ed in centurie, e il suo
territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere
quell'opera gigantesca della cinta, che fu dal nome di lui chiamata Serviana, i
cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità
e dimostrano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che
parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di
quell'agger, che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe
pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle “plebs”,
ormai già fatta numerosa, che con Servio [Cic. de Rep., LANGE -- Tullio sarebbe
entrata a far parte del Populus Romanus Quiritium. È da questo momento che Roma
appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii,
ricca eziandio di una popolazione urbana, che può ancora essere accresciuta
senza che occorra di estenderne il pomoerium. È da quest'epoca parimenti, che
Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria disciplina domestica
e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano
disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza. Noi ci troviamo così di
fronte alla Roma storica, conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e
poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e
nella sua unità compatta di fronte alle altre genti.Tuttavia, anche dopo Servio
Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua
popolazione, ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il
numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato. Per tal modo
essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica, a cui
mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la
circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma
primitiva e non mai abbandonato anche più tardi, che spiega come Roma abbia
potuto cambiarsi in una città, i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto
il Lazio, poi per tutta l'Italia, e da ultimo per tutto il territorio
dell'impero. Se insisto alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per
dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'autorità di Mommsen e
di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto
incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata
fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti
e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito
nella formazione delle città latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen, ed
è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii
inizii e modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non e che la
capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica, mentre lascia
che le genti e le famiglie con [V. in proposito BARATTIERI, “Sulle
fortificazioni di Roma all'epoca dei re”, Nuova Antologia] -- tinuassero la
propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio, alle quali
continud a lasciare i proprii territorii gentilizii. La sua formazione pertanto
non è dovuta ad un processo di aggregazione, ma ad un processo di *selezione*,
cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo. Qui basta il notare che
questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze
molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate.
Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare
le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto Niebhur; a sostenere
con Mommsen che la primitiva proprietà di Roma e una proprietà collettiva come
quella delle gentes, ciò che è smentito assolutamente dal diritto primitivo di
Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla
primitiva costituzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che
rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel
popolo, che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie
istituzioni. Con questo sistema si dove necessariamente giungere a considerare
la storia primitiva di Roma come una serie di leggende, che sarebbero state
inventate da un popolo, che in tutto il resto si è dimostrato invece ben poco
fantastico, nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla
grandiosità dello svolgimento, che ebbe a ricevere dappoi. Pare strano che
nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate
da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si
trattasse di questo o di quel documento storico, ma dal momento che trattasi di
ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma segue
nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le
opinioni inesatte dei grandi filosofi, che pongono gli altri sopra una falsa
via. È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia
di Roma la confusione fatta da Niebuur dell'organizzazione gentilizia
coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio
le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della
città. Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero
scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto
inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri;
MOMMSEN che dice che le genti erano incorporate tali e quali nello stato con
tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contenevano e che il
gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato. LANGE,
con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni
costo i caratteri della famiglia nello Stato romano. Parmi invece un processo
assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello,
che ha già ad esser iniziato da Bonghi, di prendere Roma, quale essa si
presenta nelle tradizioni esaminate col sussidio della critica. Dal momento che
Roma si è veramente staccata da una popolazione latina, è naturale che essa sia
stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata
tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare, accanto alla
vita patriarcale e gentilizia, quella vita pubblica, che dispiegasi appunto
nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le
tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione
gentilizia, ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo
aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa
quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse
continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale. Solo richiama a
se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che
prima si compievano nel seno dell'organizzazione gentilizia, ed è in tale
intento che essa intraprende l'elaborazione del proprio diritto. Una volta poi
che quest'opera è iniziata, Roma, con quella tenacità di proposito, che è
sopratutto propria del popolo romano, non si arresta nell'opera sua sinchè non
sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e
municipale, ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città,
di colonie, di provincie organizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli
abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città. La qual opera e compiuta
da Roma seguendo sempre quel medesimo processo, a cui erasi attenuta nella sua
primitiva formazione. È per questo
motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni di Roma
senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli
studii topogra e il Sumner Main [E, “L'ancien droit,” trad. Courcelle
Seneuil,dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e
la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa
stessa che “un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone
legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitive” -- il che
certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata
più a lungo quando si discorre della
costituzione primitiva di Roma. [fici recentemente fatti intorno all'antica
Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione
progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene
anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo
senato, dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito, dei suoi collegi
sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue
istituzioni, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in
quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore
grandezza. A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore
assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è
Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi
tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie. Vi hanno quelle relative
alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici, che
sono collegati con essa, e queste fino a prova contraria debbono essere
ritenute per vere. Perchè trattasi [Vi ha questo di particolare nella storia di
Roma, che lo svolgimento di essa, sotto qualsiasi aspetto sia considerato,
presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne deriva che tanto le
investigazioni pazienti e minute quanto le ricostruzioni ardite, che si vennero
succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intelligenza di Roma
primitiva. Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica, della
sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia, dei suoi
monumenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche.
Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa, che vi sono
autori che, seguendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi
collegi sacerdotali, cercano di inferirne gli stadii della sua formazione
progressiva, come tenta di fare Bouché-LECLERCQ (“Les Pontifes de l'ancienne
Rome”, Paris, e “Manuel des institutions romaines”, Paris). Altri, che
tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un
istituto particolare, come sarebbe quello del senato, come WILLEMS, “Le sénat
de la république romaine” (Paris), come pure Blocu (“Les origines du sénat
romain,” Paris), od anche quello dell'ordine dei cavalieri, come tenta di fare
Belot (“Histoire des chevaliers romains,” Paris). Non può però esservi dubbio
che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli
sopratutto, che, come Vico e Niebuur, ne ricercano la storia nelle lotte degl’ordini,
che entrano a costituirla e nello svolgimento delle istituzioni giuridiche e
politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che
conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Il diritto forma la
filosofia costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giureconsulti, ma
ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come
egli dice, “disiecti membra poetae” potè giungere a ricostruire in parte
l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura.
Henriot, “Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome” Paris] d'un
argomento che ha un carattere pressochè sacro per il popolo romano, e in cui
concentra tutta la propria vita, per guisa che esso continua sempre a svolgere
con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono
posti durante lo stesso periodo regio. Hanvi invece le tradizioni, che si
riferiscono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accompagnate,
a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che danno vita ed
attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla
leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale
che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero, come osserva
Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte dell’alterazioni,
che sono causate dal partito diverso, a cui appartengono gli scrittori, ma
siccome trattasi di istituzioni, che hanno un processo storico non mai
interrotto, cosi egli è ben più facile di ristabilire la verità, che non quando
trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non collegandosi così
strettamente col resto, potevano dare argomento ad altrettante leggende, che si
arricchivano di nuovi particolari, a misura che si veniva ripetendone la narrazione.
Dopo aver cosi seguita la formazione progressiva della comunanza romana vediamo
ora gli elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della medesima. È da
vedersi al riguardo Bonghi, “La fede degli storici superstiti di Roma antica”,
che anche ora non è pubblicato, malgrado il desiderio che l'illustre autore e
gl’italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che egli solo è in
condizione di compiere. Rivista storica italiana. IUna delle circostanze più
accertate della condizione di Roma primitiva si è, che nella popolazione della
medesima comincia fin dai primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello
cioè fra il patrizii – descendenti dei ‘patres patriae’ -- e la plebe. La
tradizione cerca di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo apre un asilo,
ove si potessero rifugiare coloro che per qualunque ragione avessero dovuto
abbandonare la propria città. Ciò farebbe credere che la distinzione fra i
“patres” della “patria” (e suoi descendenti) e la plebe e in certo modo nata
con Roma, quando non e certo, che cotale distinzione già esiste in altre città,
e non vi fossero formole antiche, che accennassero al doppio elemento coi
vocaboli di populus et plebes. Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che
entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già avessero
con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata
nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio,
uno dei primi provvedimenti di Romolo e quello di affidare al plebeio la
coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali,
e di collocarle sotto la clientela del padre, il che sarebbe anche confermato
da Cicerone come pure da un luogo di Festo, secondo cui il senatore e chiamato “pater”,
in quanto che e incaricato di fare distribuzione di terre ad un ordine
inferiore di persone (tenuioribus). La distinzione fra il populus e la plebes
trovasi ancora in un documento importantissimo, cioè nella lex latina tabulae
Bantinae, ove è ripetuta più volte la frase “quisque eorunt sciet hanc legem
populum plebemve iousisse” -- formola
che ha certo grande importanza quando si consideri che era tradizione romana
quella di conservare le formole arcaiche nel tenore della propria legge. Quella
formola dimostra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che,
quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza, per qualche tempo
ancora i due vocaboli serbarono rispettivamente la primitiva loro
significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, Friburgi. Quanto
al testo di Dionisio, esso è riportato nella traduzione latina nel Bruns,
Fontes. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di CARLE, “Le origini del
diritto di Roma”. Questo è certo che il pater e il plebeio, anche quando
giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far parte dello
stesso popolo, il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della fondazione,
continuano sempre a costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente
distinte, fra le quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comunanza di
tradizioni, nè il diritto di connubio. Mentre il pater si presenta colla
tradizione di un passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e
deve forse essere cercate nello stesso Oriente, e con una organizzazione
potente, le cui traccie si mantengono ancora durante il periodo storico. Il
plebeio, invece presentasi dapprima come una massa mobile, composta di elementi
eterogenei e di origine probabilmente diversa. Il plebeio ha pochissima
importanza negl’inizio di Roma, ma viene sempre più crescendo in numero e in
potenza, anche perchè, a differenza del pater, può continuamente accogliere nel
proprio seno nuovi elementi. Durante il periodo regio, il plebeio non sembra
ancora essere in condizione di affrontare la lotta col “pater”, ma cominciando
dalla repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di
diritto e dalle discussioni, che seguono fra I due ordini, si può raccogliere
che le differenze essenziali, che servivano a distinguerli, erano
essenzialmente le seguenti. Il pater anzitutto e e si ritene il fondatore della
urbs e il solo membro della civitas. Il plebeio e un elemento, che trovasi in
condizione inferiore e che per la maggior parte e sopravvenuto più tardi, nè puo
quindi, secondo le idee del “pater”, pretendere ad un pareggiamento completo. Il
“pater” ha un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza
venne ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo. “A patres
senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus,
ac si liberis propriis.” V. Bruns. Questi passi unita mente a quello di
CICERONE, De rep. “Romulus habuit plebem in clientelas principum descriptam” --
rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come LANGE (“Histoire
intérieure de Rome”) e Padelletti (“Storia del diritto romano”) ostengono, che
l'origine della plebe sia posteriore alla fondazione della città, ed abbia solo
avuto origine «coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel
territorio dello stato, avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla
concessione in proprietà di terreni da coltivare. Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd.,
clientele. Il “pater” quindi puo indicare la serie dei proprii antenati e
dimostrare che i medesimi sono sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi
trovato in condizione servile. Il plebeio, invece, se si deve credere alle
ragioni poste innanzi molto più tardi dagl’oratori patrizii, allorchè
trattavasi di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a togliere il
divieto dei connubii fra i due ordini, non conosce ancora la famiglia
organizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati, per cui una
unione plebea non e dal “pater” considerata come “iusta nuptia”, nè santificate
dalla partecipazione al medesimo culto. E un semplice “matrimonium”, in cui il
vincolo di parentela e determinato piuttosto dalla cognazione *maternal*, che
dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che ancora dopo la legge di Le
XII Tavole il pater non puo comprendere una comunanza di connubio – iusta
nuptia – fra un pater (say, Charles III) e una plebea (say, Diana), come lo
dimostrano le parole di Livio relative al plebiscito Canuleio. “Rogationem
promulgavit, qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium
rebantur.” Da ultimo, una differenza importantissima consiste anche in questo,
che solo il pater possede un “auspicium”, cosicchè tutti gl’atti, che lo
riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso. Il plebeo, pur
avendo una religione e feste [(1) Gellio, Noc. Att., 10, 20 chiama la plebe
quella parte della popolazione romana, nella quale “gentes patriciae non
insunt.” È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra pater e plebeo gl’oratori
di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le gentes
con parole, che riassumono i titoli di superiorità del pater. “Semper ista
audita sunt eadem: penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes habere, vos
solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc.” Pare tuttavia che non
possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le quali però
costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere duplice. O
queste gentes potevano derivare dalle popolazioni delle città latine, che già
avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie, sebbene non
fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di queste gentes
accade più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far parte della
nobiltà, cerca essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia, il che comincia
ad es sere possibile dopo la legge Licinia Sestia, colle quali il plebeo e
ammesso al console. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli
erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat.). Così pure Cicerone
ci parla di una “gens” Minucia, che sarebbe stata *plebea* (In Verr., I, 45 ).
Fra i filosofi sull'argomento sono da vedersi il Voigt, “XII Tafeln”, Leipzig,
e il KARLOWA, Röm., R. G., -- Liv., – “popolari, non possedeva gli auspicia, nè
aveva un proprio culto gentilizio -- “sacrum gentilicium” --. Queste differenze
sono tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far
parte della stessa comunanza, e pero naturale, che essi non potessero entrarvi
alle stesse condizioni. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può
inferire, che in Roma primitiva la superiorità, che si attribuiva il pater sul
plebeo, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più
progredito nell'organizzazione sociale, ed era prima uscito dallo stato di
confusione, di privata violenza e di promiscuità primitive, che esso riteneva
in parte essere ancora proprie della plebe. Il pater sa indicare i proprii
antenati, ha conservato gelosamente le proprie tradizioni, ed e già pervenuto
al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più e la “gens”, che
aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le
tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver
assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città, in cui
provvedevano ai comuni interessi ed obbedeno ad una legge, espressione della
volontà comune. Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città del
loro esercito, e spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le
moltitudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e
fortificata un'aggregazione di genti patrizie. Ma chi tenga conto della umana
natura, che in questa parte non sembra ancora essersi modificata, non può certo
meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima – “prior
in tempore, potior in iure” -- , e si siano cosi prevalse del vantaggio, che
loro somministra una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per
conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile. Piuttosto
è da ammirarsi la tenacità e perseveranza del plebeo, il quale, composta [Quinto
all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle
buone ed acute osservazioni l'articolo di FREEMAN nell'Encyclopedia Britannica, vº
Nobility, ove il pater romano è posto a paragone cogli Eupatridi di Grecia,
colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, “Histoire
des Romains,” Paris, chi parla del “pater” come di un'istituzione propria della
società primitiva e nota le analogie e le differenze fra il pater di Roma e i
bramano dell'India. Cfr. Muirhead] dapprima di elementi eterogenei e priva di
qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare
l'organizzazione propria dei pater, creare genti plebee accanto alle genti
patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e
che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto, di quello cioè della
proprietà quiritaria, riusci a valersi del medesimo come di strumento e di
mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e politica, e perfino
l'ammissione a quegli auspicia, a quei sacerdotia, e a quella scienza del
diritto, che solo molto tardi vennero ad essere comunicati al plebeo. Questo
intanto può aversi per certo, che la formazione del pater e del plebeo costituisce
in certo modo la questione fondamentale della storia politica e giuridica di
Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma
questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dove poi
avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che un servo entra a far
parte della famiglia ed il cliente ri-entra anch'essi nell'organizzazione
gentilizia. Di più tanto il servo come il cliente, al lorchè riescono a
svincolarsi dal “pater”, entrano a far parte della plebe, che è quella
veramente, che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e
politico col “pater”. Quindi è che nè il servo, né il cliente come tali
riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile. Il cliente scomparisce
a poco a poco o si trasforma in semplice salutator. Il servo si mantenne bensì,
ma non giungono mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come
capaci di diritto. La questione limitasi pertanto al pater ed al plebeo ed è
quindi l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra
la storia primitiva di Roma. Cio non ostante, sinchè non siansi esaminate
l'organizzazione dei patres e la composizione della plebe, non pud certo
affrontarsi il problema della origine delle due classi. Basterà unicamente, per
l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che
esisteno fra di esse negli inizii. Queste lotte per il pareggiamento sono
largamente esposte da LANGE, “Histoire intérieure de Rome”. I risultati poi
della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, “Le elezioni e il
broglio nella repubblica romana” (Milano) e sopratutto in “Le assemblee
elettorali”] di Roma, la superiorità pressochè incontestata del “pater” e
l'ossequio pressochè servile del plebeo nei primi tempi della città dimostrano
abbastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere opera della
legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ha a trovarsi. Dovette
essere il frutto di una lunga evoluzione storica, la cui preparazione deve
essere cercata in un periodo anteriore di organizzazione sociale. Non può
esservi dubbio, che l'origine di una distinzione, così altamente radicata nel
costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei
cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi
italiche, di origine aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo,
sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione,
che deve certamente rannodarsi ad una divisione ben più antica, e le cui
traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità, che è quella fra la
classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a stabilirsi in un
determinato suolo, e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più
tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri hanno prima occupato e
sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che
nel sopraggiungere delle stirpi italiche migranti dall'Oriente dovette
certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello,
che accadde più tardi allorchè le popolazioni germaniche invasero il principato.
Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella
promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza, che ci ricordano ancora
gli filosofi latini quando ci parlano di “connubia more foerarum” e di “viri
duro ex robore nati”, dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una
protezione giuridica e di una forte organizzazione sociale. Dovettero [Sono
sopratutto i filosofi latini, come interpreti delle primitive tradizioni e
leggende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo, in cui si trovano
le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di
Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando
eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È
veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva
delle genti italiche la raccolta, che l'Henriot ha a fare dei testi dei filosofi
latini, che possono avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col
titolo: “Mæurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes
latins” (Paris) sull’età dell'oro e sull'imperio della forza. È poi notabile
come tutti i filosofi accennino al concetto di un “diritto” della “natura”,
preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande
efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine
della legge] allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon
minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo, e furono questi
cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia –
il pater del patriarcato -- territoriale, militare e patriarcale ad un tempo,
che era il solo ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di
violenza. Fu questa patriarcato – ottimati -- che comprende il padre nella
famiglia, il patre nella gente e il pater nella tribù, ed abbraccia cosi tutte
quelle genti, le quali, memori forse di istituzioni che eransi altrove
elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine ed alla lotta la potente
organizzazione gentilizia, che una volta formata si chiuse in certo modo in se
stessa e riguardo come di origine inferiore tutti coloro che non appartenevano
alla medesima. Fu questa aristocrazia del ‘pater’ potentemente organizzata per
gentes, che costituì la classe privilegiata e che merita dapprima anche di
essere considerata come tale. Ma accanto alla medesima dovette naturalmente
formarsi una classe subordinata, i cui gradi corrispondono precisamente ai
varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in quanto che comprende il servo
nella famiglia, il cliente nella gente, ed il plebeo, che cominciano a
comparire colla tribù. Per tal modo nelle popolazioni, che si vengono così
organizzando, si disegnano per spontanea e naturale formazione, due strati, che
si corrispondono fra di loro, e mentre in una lunga e lenta evoluzione, di cui
non sopravisse alcun ricordo, salvo nella lingua e negli oggetti trovati nelle
tombe, il ‘pater’ della famiglia si cambiano in ‘pater’ nella gente e quindi in
‘pater’ nella tribù, anche i servi mano messi dal ‘pater’ mutansi in clienti
del ‘pater’ ed il cliente rimasnne senza ‘pater’] formano il primo nucleo della
plebe. Il pater – qua Padri, patrone e patrizio – e, in sedimenti successive, la
classe alta dei vincitori, dei proprietari delle terre, dei primi organizzatori
di una vita sociale. Il servo, il cliente ed il plebeo rappresentano i varii
stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di quelli che, per avere
una prot zione, si accalcano intorno allo stabilimento di una casata patrizia.
Il primo puo indicare suoi proprii antenati ed escludere qualsiasi origine
servile. Il plebeo, se giunsero col tempo ed essere indipendenti dal patriziato,
appartennero probabilmente alla classe del servo e del cliente, e non ha
dapprima quelle giuste nozze, che accertano la discendenza per la linea
maschile. È in questo modo che il patriziato venne formandosi l'alto concetto
della propria superiorità e che giunse fino a dire, se non a credere, che
discende dal divino (il che del resto non era intieramente falso dal momento [
- che ha elevato a divinio il proprio antenato). Mentre la plebe, memore forse
della servitù antica, trovasi dapprima in una abbiezione pressochè servile, da
cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo
potente di famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma.
Intanto pero fra le due classi vi ha questa differenza. La prima tende a
tircoscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una
organizzazione così gerarchica, come era l'organizzazione gentilizia, la quale
non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre gente. La plebe,
appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi
nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa puo accogliere i
vinti che non siano ridotti in ischiavitù, gl’emigranti che non siano ricevuti
come cliente. Non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie, ma anche
individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino
di protezione e di tutela. Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine, la grande
differenza è questa, che nelle origini, solo il pater ha una vera posizione di
diritto. Il plebeo non ha dapprima che una posizione di fatto. Il pater e il
popolo da esso costituito è un ordine. La plebe non è che una moltitudine, una
folla non ancora organizzata. Il pater ha tradizioni militari, religiose,
giuridiche. Il plebeo non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che
possono formarsi in una folla di provenienza diversa e di formazione del tutto
recente. Il pater ha una religione gentilizia, formatasi nel suo seno mediante
il culto degli antenati. Il plebeo non ha che un complesso di credenze
popolari, che ancora abbisognano di ricevere una forma religiosa. Ben si
comprende quindi, che la distanza e grande e che dove essere assai malagevole
di raccogliere i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto,
che potesse essere comune ad entrambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due
ordini, importa di ricercare più particolarmente l'organizzazione già formata
del pater, e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi comprendere il
plebeo – Livio: “En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de
caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos.”
Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato primitivo di Roma
concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da quelle tre stirpi
di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la comunanza romana.
Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi quelle che figurano
come più antiche, genti di origine sabina, ed altre, in numero forse minore, di
origine etrusca. L'origine diversa poi facilmente persuade, che le loro
istituzioni tradizionali dovevano anche essere dissimili, e che quindi quella
completa analogia di istituzioni, che in esse apparisce più tardi, do vette
essere l'effetto di una lenta assimilazione, che vennesi operando gradatamente
mediante la loro partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica. Tuttavia,
malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il pater
romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini
della città le traccie di un'organizzazione potente di carattere patriarcale,
che è l'organizzazione gentilizia. Non è qui il caso di cercare, se questa
organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello
stato di conflitto e di privata violenza, che dovette avverarsi all'epoca delle
migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già
avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni
indigene, il che sembra essere più probabile. L'enumerazione delle primitive
genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine
e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può
trovarsi in Bonghi, “Storia di Roma”, Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ.
Ivi l'autore cerca perfino di determinare la parte, che nel diritto si attribuisce
alle varie stirpi] questo in ogni caso deve aversi per certo, che è in virtù di
questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero
essere diverse di numero e di potenza, appariscono pero foggiate sul medesimo
modello. Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di
dissoluzione; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato
nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e
politico, dal quale è assai difficile sceverarlo. Ciò non ostante dalle
vestigia, che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito
eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che
l'organizzazione gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in
gradazioni diverse, tutte strettamente connesse fra di loro. Esse sono: la
famiglia fondata sull'agnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla
clientela, e da ultimo la tribú, in cui già compare nei proprii inizii la
distinzione fra il patriziato e la plebe. Sarebbe certo cosa di grande
interesse il ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia ha
prese le mosse dalla famiglia, o dalla gente, o dalla tribù. Ma ciò ci
recherebbe a quel l'epoca e a quel sito, in cui le stirpi arie ponevano le
prime basi dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più
piccolo e più naturale dei gruppi, che era la famiglia. Qui pero non e inopportuno
il mettere innanzi, almeno a titolo di congettura, che dei varii gradi
dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la
migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il
gruppo della “gens”. Ciò è dimo [Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER
MAINE, Ancien droit, ma non è invece quella seguita da Leist, Graeco- Italische
R. G., il quale parmi non distingua sempre abbastanza due cose affatto diverse
fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione politica,
considerando come altrettante divisioni del populus, non solo le tribus e le
curiae, ma anche le gentes. Senza voler quientrare in una questione, chemi
trarrebbe troppo per le lunghe, non posso però tralasciare di notare, che la
così detta famiglia patriarcale non deve ritenersi come la famiglia veramente
primitiva, poichè essa è già una famiglia, le cui fattezze vengono ad essere
trasformate a causa del suo entrare a far parte della organizzazione
gentilizia. È nota in proposito la discussione, anche oggi non definita, fra il
Sumner MAINE, “Early law and custom” (London) da una parte, e MORGAN e Mac-Lennan
dall'altra, come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER
Maine, dallo SPENCER, Principes de sociologie, strato dal fatto, che è dalla
gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso ha ricevuto
dall'antenato comune e che deve trasmettere poi ai proprii discendenti, e che,
anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche nuova incorporazione
nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si effettua nè per famiglie,
nè per tribù, ma per genti. Mentre la famiglia è il gruppo più ristretto ed
unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una vera e propria comunanza
di villaggio, in cui si preparano gli elementi costitutivi della città, la
gente invece è il gruppo intermedio, che da giustamente il suo nome e la
propria impronta all'organizzazione gentilizia, perchè di sua natura è un
gruppo più elastico e pieghevole di tutti gl’altri, e che può meglio
accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione. La “gens”
infatti è più forte e numerosa della famiglia, perchè continua a stringere
insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono anche unite
tra di loro da un medesimo culto, e intanto è più compatta della tribus, la
quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di origine diversa o
hanno già dimenticata l'origine comune, può già fornire argomento a dissidii
fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla. La gente poi è per sua
natura tale, che ora può cambiarsi in una carovana in migrazione, ora
attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a
guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere
questione di preminenza, perchè è la consuetudine, che designa chi debba
esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i
suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si
vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che,
aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, danno origine alla tribù,
la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così
di avviamento alla convivenza civile e politica. I tre gruppi tuttavia sono
sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si vengono sovrapponendo
l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello,
che è quello del gruppo patriarcale, e si vengono reciprocamente influenzando
per guisa, che tutti appariscono come strati diversi di un'unica
organizzazione. Di qui la [Cfr. Willems, “Le droit public romain,” Paris] conseguenza,
che tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza
civile e politica, compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di
convivenza civile, colla differenza tuttavia, che nella famiglia prevale ancor
sempre il vincolo del SANGUE, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile
e politico, mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente
patriarcale. Cio premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione
gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumendole dalle
traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi
ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno
mantenere le forme esteriori della medesima. In cio sarà bene incominciare
dalla famiglia, come quella che ha ad esser meglio conservata e intanto
costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Per quanto
sia vero che la famiglia, quale presentasi più tardi nel diritto quiritario,
sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia
forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di
origine patrizia. Fra gli altr’argomenti l'importantissimo è questo, che una
moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione
ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una
organizzazione famigliare, che presuppone una lunga serie di antenati e perciò
una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle
origini il vocabolo di “patres” indica sopratutto i capi delle *famiglie*
patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci [Quanto ai caratteri
comuni al gruppo patriarcale degl’arii, alla “gens” romana ed al gévos dei
greci ed alla letteratura copiosissima sull'argomento, mi rimetto alla mia
opera: “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), ed
all'opuscolo, “Genesi e svolgimento delle varie forme di convivenza civile e
politica” (Torino). Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle
istituzioni primitive presso le genti di origine aria, oltre le opere già
citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm. Königszeit,
Stuttgart, e Leist] vano dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di “patricii”
indica “figlio del pater.” Lo stesso provano eziandio le nozze confarreate,
certamente proprie del patriziato, che nella leggi attribuita a Romolo ed a
Numa sembrano essere il solo modo con cui si puo contrarre le giuste nozze. Si
aggiunge infine il carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il
quale non è e non può essere un carattere originario, ma è una conseguenza
della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte.
Dal momento infatti, che in questo periodo non esiste ancora una vera comunanza
civile e politica, diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne
assumesse le funzioni e le veci, e che perciò anche la famiglia, in quanto ne
fa parte, venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del
PADRE, che non sul vincolo del SANGE. È questa la causa per cui la famiglia
primitiva Romana sembra, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del SANGUE,
per guadagnare in forza ed in potenza, unificandosi sotto la potestà del
proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si
riponeva nella potestà del PADRE, er una conseguenza logicamente inevitabile,
che come il PADRE prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia,
cosi l'agnazione, ossia la DISCENDENZA dal padre, per la linea MASCHILE, dove prevalere
nella composizione diessa. È in questo senso, che la famiglia primitiva Romana
viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il
primo anello e come il nucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia.
Essa infatti ha una costituzione eminentemente monarchica, perchè tanto le
persone, che la costituiscono, quanto le cose, che ne formano il PATRI-MONIO,
dipendono esclusivamente dalla potestà del padre. La famiglia patrizia poi è un
vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè
infatti vive il PADRE, nel cui potere essa trovasi unificata, la famiglia è un
vero corpo vivente, che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che
vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi
il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono
ancora continuare a tenere [Dion., 2, 25 e 2, 63, testo è riportato da Bruns,
Fontes “Leges Regiae”] indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico
costume romano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio “ercto non
cito” -- le quali significano in sostanza che non si dovesse procedere alla
divisione immediata del patrimonio. In tal caso si mantiene fra gli agnati un
di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i
beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della
famiglia, e si ha così quella famiglia in largo senso, di cui ci parlano ancora
i giureconsulti, che la chiamano “familia omnium agnatorum.” Questa indivi
sione dove certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa
per cui, oltre la famiglia nel vero senso della parola, che comprende tutti
quelli che sono soggetti alla “patria potestà”, venne delineandosi una famiglia
più vasta, che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere
unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita
insieme e a costituire un tutto – “consortium” -- stante l'indivisione del
patrimonio. Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi
poscia cambiato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che [Mi
fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche “ercto
non cito” e ciò in base a quello che ci attesta Servio, il quale interpretando
questa espressione, dice appunto, che essa significa “patrimonio vel hereditate
non divisa” -- Serv., in Aen., VIII, 642 (Bruns, Fontes). Queste parole furono
poi applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in virtù
della quale, secondo l'attestazione di Gellio. “Comnes simul in cohortem
recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et
coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium, quod
iure atque verbo romano appellatur cercto non cito.” Che poi queste parole
siano in certo modo un'antica clausola testamentaria, con cui il padre proibiva
la divisione immediata appare da ciò, che “ercto” deriva certamente da “ercisco”
e “cito” è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente ». Vedi
BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique latin, Paris, pº Ercisco e Cieo. Che poi veramente presso
gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile,
l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato da KARLOWA, Röm. R.
G., ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum, lib. I, cap. 19, De vendenda
hereditate. Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis
immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi
consorti, si emere vellent. È questo forse il motivo, per cui presso i romani
un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia per parecchie
generazioni, e un vicus poteva essere costituito per intiero di famiglie
appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei. Cid sarà
meglio dimostrato ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio >.
della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona,
come quelli che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti
dalla medesima gente. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia
patrizia primitiva, vuolsi sempre aver presente, che essa non è già un
organismo isolato, ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il
nucleo più ristretto. Diqui la conseguenza che quel potere del padre, che
giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà
limitato sia dal tribunale domestico, che circonda il capo di famiglia, sia dal
consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù, per guisa che i
temperamenti, che non vi sarebbero nella natura del potere paterno, si
incontrano invece nel costume e nell'organizzazione gerarchica, di cui la famiglia
entra a far parte. È per questo motivo, che tutti gli atti, che toccano in
qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero l'adrogatio, che
serve a perpetuarla quando manca una prole diretta, il testamento, che modifica
le regole con suetudinarie relative alla successione, ed anche il matrimonio
per confarreatio di uno dei membri della famiglia, devono essere fatti coll'
intervento, colla testimonianza e perfino coll'approvazione dei capi di
famiglia, che entrano a formare la gente e la tribù; il che ancora appare dalle
formalità, che accompagnarono questi atti nei primitempi di Roma. Intanto è
incontrastabile, che anche la successione legittima e la tutela assumono un
carattere del tutto gentilizio, in quanto che l'una e l'altra, sebbene non
stabiliscano delle differenze per causa del sesso o per causa di primogenitura,
mirano però fino all' evidenza a conservare il patrimonio e l'amministrazione
di essa nella [Leg. 195, $ 2 e 196, Dig., De verb. signif. (50, 16 ): Communi
iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium agnatorum, nam, etsi patre
familias mortuo, sin guli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius
potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et
gente proditi sunt. Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza
classica, che non poteva più favorire quella indivisione che era tanto accetta
agli antichi romani, conserva però sempre il concetto della famiglia degli
agnati, non più desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma
dalla circostanza che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed
erano stati sotto la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi
sull'agnazione l'articolo di SEMERARO, “Enciclopedia giuridica italiana”, vº “agnazione”,
vol. I, parte 2*, pag. 720. 32] linea agnatizia. Il che può scorgersi ancora
nella legislazione decemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa
parte riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di successione e
di tutela, che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il
periodo gentilizio. Quanto al testamento, esso era certamente conosciuto in
questo periodo, ma collo spirito che prevale nell'organizzazione gentilizia si
può affermare con certezza, che esso, dovendo essere fatto coll'approvazione
del consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè
servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente, dovette invece servire
per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni. Intanto è pure
da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel
periodo gentilizio, in quanto essa comprende eziandio nella propria cerchia un
numero più o meno grande di servi, che in antico sono anche detti “famuli”, dal
vocabolo “famel”, che in lingua osca significa appunto “servo”; dal quale,
secondo Festo, sarebbe anche derivato l'antico vocabolo “famuletium”, che
avrebbe significato servitium. È infatti per mezzo dei servi, a cui era [Si può
ricavare l'importantissima conseguenza, che a suo tempo servirà a spiegare
molte istituzioni del diritto romano primitivo, che il concetto di comproprietà,
in virtù del quale i figli durante la vita del padre sono comproprietarii
dell'heredium, e dopo la morte di esso in certa guisa eredi di se stessi (“heredes
sui”), come pure quello, in virtù di cui è dal novero degli agnati, che si
debbono ricavare i tutori delle femmine, degli impuberi e dei furiosi, sono
tutti concetti, la cui origine rimonta ed è anzi un effetto della stessa
organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte. Quanto al
testamento fra le genti patrizie non dove certo essere applicazione del
principio: a uti paterfamilias super familia tutelave suae rei legassit, ita
ius esto », ma doveva mirare sopratutto all'”ercto non cito”. Il testamento
esiste, ma nell'intento di serbare il patrimonio indiviso e di trasmetterlo
tale di generazione in generazione. L'importante concetto di questa
comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in uno degli ultimi
lavori di Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente saluto, nel suo
ultimo diligentissimo lavoro col titolo: “La saisine héréditaire en droit ro
main” (Paris) pubblicato nella “Nouvelle revue historique de droit français et
étranger”, ove, combattendo iMaynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi
erano immediatamente investiti dell'eredità, senza che occorresse accettazione
della medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al
concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto
dell'organizzazione gentilizia prima esistente, idea, che egli già aveva in
germe, come lo dimostrano le parole con cui egli conchiude il suo lavoro, ma
che non ebbe più campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes,
pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano (familia rustica, familia
urbana) che la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da
bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carattere speciale alla
vita economica dell'antichità e coopera a dare alla famiglia antica il
carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù
ebbe per effetto, come ben nota Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non
venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo
produttivo, perchè il servo e impiegato non soltanto nella produzione, ma
benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni
famiglia tende a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di
famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed
armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere
eziandio al commercio dei proprii prodotti Puo tuttavia affermarsi con
certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto
ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli
anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale (quae ex
pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che
presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di
greggi e di armenti (2 ). e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 15.
Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi PERNICE, M.
Antistius Labeo, Halle, ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui
fanno parte, sopratutto MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, Leipzig. Fra
questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabolario
giuridico, di “agree”, che, secondo BRÉAL, nel suo significato primitivo suo
nava « spingere, stimolare », e si applica sopratutto al gregge; quello di grex
talvolta applicato al popolo; quello di ovilia adoperato per significare i
recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii; i
vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come
vocaboli di origine pastorale (Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di pecunia, di
peculium, di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come
VARRONE (Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare. Romanorum populum a
pastoribus esse ortum, quis non dicit? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto,
bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum, quod est flatum, pecore est
notatum. Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato
primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che
pascolavano nei compascua della tribù, e poscia nell'ager pubblicus della città,
la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura,
concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium. Questo G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. Del resto quello, che qui importa, e sopratutto
di mettere in evidenza il carattere gentilizio della famiglia; poichè essa, fra
le istituzioni anteriori alla comunanza, è certamente quella che conserva più
lungamente il suo carattere primitivo. Quindi anche nel periodo storico si
troveranno nel patriziato romano quelle stesse formalità solenni e quelle
cerimonie religiose, che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia
durante il periodo gentilizio. La sola differenza consiste in questo, che
all'approvazione dei padri del gruppo gentilizio nella comunanza civile e
politica sottentrerå - o la testimonianza dei dieci Quiriti che rappresentano
le curie in cui divi devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici, siccome
accade nelle confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure
dei Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento, che per il
patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in
calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve
esposizione dei caratteri della famiglia del patriziato romano dimostri
abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto
primitiva, come alcuni vorrebbero considerarla, in quanto che la medesima già
erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze, a causa della
influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia, di
cui e entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale dovette
uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano; ma è già una
famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi per la
lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da associa
zione domestica, religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche questa
la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensibile, se non fosse
riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico pertanto
conferinerebbe il risultato, a cui giunsero SPENCER ed altri sociologi, secondo
il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pastorale, che avrebbe
determinato la formazione e l'afforzamento di quell'organizzazione gentilizia,
che trovasi così profondamente radicata presso il primitivo patriziato romano (V.
SPENCER, Principes de sociologie, Paris). Tale è ad esempio l'opinione del
Sumner Maine, che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER. La gens e la
sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia, quale comparisce
più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica
famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò
è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in
fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e
politica, viene tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica,
ad essere sottoposta ad un processo di dissoluzione, in quanto che una parte
delle sue funzioni di un tempo, quelle cioè che avevano un carattere politico o
militare o legisla tivo, finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla
città. A cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità di Niebhur,
sulla fede di un testo di Dionisio, a cui diede una interpretazione che non può
essere ammessa, pose gli investigatori della storia primitiva di Roma in un
indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la
gens non fosse che una ripartizione politica della città. Per tal modo
l'organizzazione politica della [NIEBHUR, Histoire romaine, trad. Golbery,
Paris, ove parla: des maisons patriciennes et des curies e specialmente a pag.
19. Ivi l'illustre storico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le
curie, pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò
così l'organizzazione gentilizia nella città, concetto, che d'allora in poi ha
dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva, per guisa che
occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in
tribù, queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli
autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo
un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa
distinzione. Citerò fra gli altri KARLOWA, Röm. R. G., il quale continua ad
essere intitolato: “Das Volk und seine Gliederungen (tribus, curiae, gentes)”,
quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes; ed iLeist, Graeco-
Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione. Così pure il WILLEMS (“Le
droit public romain,” Paris)che continua ancor esso a dire, che le curie si
suddividono in gentes. Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi
scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si
raccoglievano ex generibus hominum, il che significa solamente, che nella
composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei
comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus
insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes.] città venne ad
essere confusa con quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e
politico si confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a
sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori,
le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse
in una via, che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii, che
si vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che
anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di
organizzazione sociale, che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale
dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente, era poi stata trasportata
nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche (1).
Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per
circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle
sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo
carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte
trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di
ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto
alle dekádes di Dionisio, il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una
divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una
divisione del senato -- MUELLER, Philologus. Si può infatti comprendere che i
senatori, che erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e
che così pure si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si
può veramente capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di
arme, potessero suddividersi in gentes, le quali, essendo un ampliamento della
fa miglia, comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di
seguito. (1) Il merito di aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale
presso le stirpi Arie, è da attribuirsi sopratutto al Sumner MAINE, L'ancien
droit, chap. V. La société primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163.
Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il primo che abbia, se non
provata, almeno intuita questa organizzazione patriarcale delle genti primitive
fu sopratutto il nostro Vico, il quale per compro varla ebbe a citare quegli
stessi versi di Omero, in cui parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi
(V. 22, Scienza nuova, ediz. Ferrari, Milano, ove parla dell'economia poetica e
dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali
prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag. 118 ); versi del resto, che già
erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto
dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non
solo presso i Greci, ma anche presso i Barbari. Plato, Leges, III, Ed. Didot,
Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti
gli Arii e quindi anche ai Greci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma
più argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del
diritto, lib. I e II, e sopratutto a pag. 90 e seg.) i 37 esse più di tutte le
altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi
e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono
le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico. Di qui la
conseguenza, che, a parer mio, i veri caratteri dell'organizzazione per gentes
possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive
genti del Lazio, che non nella stessa India, ove l'elemento religioso
preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita
primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la
gente, anzichè essere una divisione artificiale della città, deve invece es
sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione
gentilizia. Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in
quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria
potestà, maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da
cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il
culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti
Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle
genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come
proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite
comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da
qualsiasi rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo
patriarcale, la “gens” è quella che possiede elasticità maggiore, perchè
talvolta può avere le proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo
infatti è talora indicata la stessa gens. E talvolta invece può avere già dato
origine a tante pro [Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per
significare la “gens” nel seguente passo di Festo. “Familia antea in liberis
hominibus dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et
materfamilias; unde familia nobilium Pompiliorum, Valeriorum, Corneliorum
(Bruxs, Fontes). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt (“Die XII
Tafeln”, Leipzig). In ciò si ha una nuova prova che la familia e la gens fanno
parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si scambiano
fra di loro. Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il vocabolo di
familia per indicare il populus, loro pare invece di essere più esatti,
paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti capita.
Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il vocabolo
familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso di
persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande e
numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia,
da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui
proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare,
secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare,
che in tristi circostanze appariva ardua alla intiera città. Non è dubbio
tuttavia, che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero
avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla familia in
stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità
notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio
che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la patria
potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio, probabilmente chiamato
here dium, che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona del
proprio capo. Di qui la conseguenza, che tutti i discendenti nella linea
maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio
e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo
costituivano la famiglia in stretto senso; ma questa poi continuava ancora a
mantenersi e a considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa
trimonio indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare. Che se
invece i fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano
a dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni
l'unità primitiva, in allora venivano ad esservi altrettante famiglie, di cui
ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima
gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il
proprio antenato. La “gens” comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa
della famiglia, e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che
come tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum, finchè il loro
patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità,
allorchè questa divisione era seguita. È di qui che provenne la difficoltà,
ancora non superata, per distin di cose, ora un complesso di persone, ora
soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il
complesso dei servi (familia rustica ed urbana).] guere gli agnati dai
gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire
negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa
indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano
trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero
poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto.
Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead, che l'ordine degli agnati,
cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione
artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e
alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gl’artificii nelle epoche
primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che
quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio, che abbiamo
quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe. Per contro il gruppo
degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea
durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale, come notd più tardi il
giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa
persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse
distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles,
che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato, ma che non
avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della
stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la
le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati,
mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni
domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente. C [Che
l'ordine degl’agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale,
è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell' “Historical
Introduction”. Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo
accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e
172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di
Ulpiano da lui citati, ove il giureconsulto mentre dice che: lege duodecim
tabularum testamentariae hereditates confirmantur », usa invece, quanto alla
successione legittima, l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege
duodecim tabularum descendit », espressione che pure adopera altrove quanto
alla tutela legittima. È però evidente, che qui il giureconsulto non parla solo
della successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi
anche degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il
ragionamento del MUIRHEAD, converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto
il sistema della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve [La
gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso
il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in
quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile,
che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire
una sola aggregazione gentilizia, finchè tutte le famiglie continuassero ad
avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato. Potevano
perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di
persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche
allora il nome primitivo della gens è sempre conservato, ma ciascuna delle
diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen, che ne costituisce in certo
modo la caratteri stica, ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono
seguire le propaggini tutte della stessa pianta. Cosi accadde, ad esempio,
della “gens” Claudia, la quale già numerosissima conserva ancora una sola
denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina
diversi, che indicano in certo modo il punto, in cui sopra un unico ceppo
cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della “gens”
Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui
anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cerca di
imitare l'organizzazione gentilizia, si veggano delle gentes plebeiae staccarsi
da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo
di clientela, che stringe l'antenato, da cui parti la formazione della gente
plebea, a gente patrizia. Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia
vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto; poichè furono
appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione
gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima esistente nelle
tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per
cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di successione, che era
disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi
quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la
successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione
dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia; in cui
già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare
dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il
che è pure ammesso dal MUIRHEAD. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si
tornerà sul gravissimo argomento, discorrendo della successione legittima in
base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da
vedersi il Voigt (“Die XII Tafeln”) - poteva avere un gruppo, che, ad una
compattezza pressochè uguale a quella della famiglia, accoppiava talvolta il
numero e la forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da
uomini di energia tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie
genera zioni quelli, che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria, e come in
essa potessero anche perpetuarsi tradizioni diverse, ostili o favorevoli alla
plebe dapprima e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che
spiega la perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie,
malgrado una quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne
l'azione. Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive, di
fronte alla potenza assorbente della città, finirono per scompa rire fin dal
periodo regio con Servio Tullio, le genti invece per. durarono per parecchi
secoli, sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui
numero veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a
dare un contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per
secoli erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero
fini per consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti
patrizie, che si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del
gruppo gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante
l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà, come lo dimostra
il fatto, che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di
ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai
trovavasi in decadenza. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali
si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti
italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei
particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè, primo, alla
discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto, e nel
sepolcro comune; secondo, ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a
costituirla, per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi
mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è
quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità
dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il pontefice Q. Muzio SCEVOLA
volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è
quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe.
Esse avevano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza
vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che
esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai
mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza
eziandio, che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui,
il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue
con quello servile. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie
diffinizioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da
altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato
comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune – “qui
inter se codem nomine sunt” -- non esclude certamente, ma conferma il carattere
della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non
interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò, che la plebe
stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza
dal divino riconosce però, che il vocabolo “Patrizio” nelle sue origini
significa “ingenuo”. Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e
poscia tutti i cittadini romani avessero *tre* appellazioni. La prima – “prae-nomen”
-- indicava l'individuo. L’altra e il vero nome – “nomen” -- designa la gente, a cui egli appartene in
quanto la gente e in certo modo il gruppo che contene le diverse famiglie. La
terza infine – “cognomen” – designa la famiglia, in quanto questa era una
particolare diramazione, della gente. A queste appellazioni si potevano poi
anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis: « Gentilis dicitur ex eodem genere
natus, et is qui simili nomine appellatur ». Bruns, Fontes; VARRO, De lingua Latina.
“Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis; ut
enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine
declinatae gen tilitates nominales.” Bruns, Fontes, Isidoro. “Gens est
multitudo ab uno principio orta, appellata propter generationes familiarum, id
est a gi gnendo uti natio a nascendo.” Bruns; CICERO, Top. “Gentiles sunt qui
inter se eodem nomine sunt.” “Qui ab ingenuis oriundi sunt.” “Quorum maiorum
nemo servitutem servivit.” “Qui capite non sunt deminuti.” V. anche Livio. Per
ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, “Du droit de cité
romaine” (Paris), e sopratutto la trattazione veramente magistrale del
MarQUARDT, “Das Privatleben der Römer,” che nota come vi fossero gruppi, che
non avevano cognomen, come gli Antonië, i Duilii, i Flaminii ecc. Quanto agl’esempi
citati nel testo a pag.40, è pare a vedersi Bonghi, “Storia di Roma”, “Appendice
sulle primitive genti patrizie”, nella parte, che si riferisce alla gens
Claudia e Cornelia] uno o più soprannomi – “agnomina” -- che servivano a
contraddistinguere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra
famiglia, o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistinzioni
operatesi nella stessa famiglia. Può darsi che in antico potesse esservi anche
qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva
l'individuo, come lo dimostrano i soprannomi di “Regillensis”, “Collatinus,” e
simili. Di questo si ha un indizio nel fatto, che allora quando il territorio
di Roma e veramente distribuito in tribù locali, anche la indicazione della
tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette
anzi il soprannome suo particolare. Del resto, questi caratteri particolari
della “gens” sono anche comprovati dalla radice “gen,” comune alla “gens”
latina e al “genos” dei greci, che significa “generare” e produrre; come pure
da ciò, che i nomi gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e
che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius
sepulchri sono di carattere eminentemente privato. Così è pure dei sacra
gentilicia, i quali da Festo sono annoverati fra i sacra privata, che sono a
spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pubblica, che si compiono
invece a pubbliche spese. Solo sembra far eccezione il ius decretorum. Ma
oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza
in cose d'ordine privato, il medesimo puo facilmente essere spiegato quando si
consideri, che la genteha compiuto un tempo funzioni politiche, che non puo
scomparire di un tratto anche colla formazione di Roma. Tali sono le
appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio
Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT. VARRO,
De ling. lat. “In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab
oppidis, alii aut non habent, aut non, ut debent, habent.” BRUNS. FESTUS, p
Publica: “Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro
montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata, quae pro singulis hominibus,
familiis, gentibus fiun.” Bruns. I casi ricordati dalla storia, in cui le
gentes si sarebbero valse del ius decretorum, sarebbero i seguenti. La gens
Fabia vieta ai suoi membri il celibato e la esposizione degl’infanti (Dionisio).
La gens Manlia proscrive il prenome di Marcus (Livio). Affine, la gens Claudia proscrive
il prenome di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi
ricordi. Più tardi però e il Senato, che prende simili provvedimenti, vietando
il prenome di Marcus agl’Antonië (Plut., Cic., 19), e quello [È invece assai
più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della
gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico. Non si può
anzitutto accertare, se la gens ha sempre e costantemente un proprio capo – “princeps
gentis” --, o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o
indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa
da compiere, come quando, ad esempio, Atto Clauso abbandona Regillo per recarsi
a Roma. Questo però è certo, che la gente dove avere un consiglio di anziani o
di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conserva e trasmetteva
le tradizioni della gente. Era nel suo seno, che si sceglievano gli arbitri e
gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii
capi di famiglia, che appartenevano alla medesima gente. Era questo consiglio
parimenti, che sull’ “ager gentilicius” fa degli assegni di terre ai clienti,
ed attribuie gl’ “Heredia” alle nuove famiglie che si formavano nel seno
della gente. E il medesimo ancora, che poteva richiedere il servizio militare
non solo dei suoi membri – “gentiles” -- ma anche dei dipendenti da essa – “gentilicii”.
Cosi pure era questo consiglio, che sovra intende alla condotta dei singoli
capi di famiglia, prevenne e reprime l’abuso dell'autorità domestica, ed impede
eziandio che i capi di famiglia, contro il buon costume della gente,
disperdessero quei beni – “bona paterna avitaque” -- di cui in certo modo erano
custodi nel l'interesse proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano
trasmettere ai proprii eredi. E la gente infine che, in mancanza di prossimi
agnati, e chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e
che dove perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella
dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones (Tacito). Parteno
eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da
vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, “Le droit funéraire à
Rome” (Paris), dove dice che la gens conserva il suo sepolcro gentilizio,
finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri,
cioè fin sotto il principato. E allora che incominciano i sepolcri di famiglia
od ereditarii. Secondo quest'autore, mentre i liberti partecipavano ai sacra
gentilicia, e quindi probabilmente anche al sepulchrum gentilicium, essi invece
erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale hanno diritto soltanto gl’agnati.
In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi Voigt, “Die XII
Tafeln,” ove parla dei poteri al medesimo spettanti.] fani prima di essere
pervenuti alla pubertà, come pure doveva essere essa, che facevasi vindice
delle offese, che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a
costituirla. Da ultimo, fra i membri della gente esiste l'obbligo della
reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti,
riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie, e vendicati se
fossero stati uccisi od ingiuriati. Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del
nome, quello del culto, e quello del sepolcro, e facile il comprendere come un
gruppo così intimamente connesso, unito nel passato e nell'avvenire, in vita e
dopo la morte, nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente
distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città. Esso
continua, durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni
tutte sue proprie, come lo dimostrano i vocaboli di “gentilis” e di “gentilicius”,
l'esistenza anche nel periodo storico di un “ager gentilicius”, quelli dei “sacra
gentilicia”, del “sepulchrum gentilicium”, per modo che, anche prima del
formarsi di Roma, dove svolgersi tutto un “ius gentilicium”, che governa
appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo
gentilizio. Esso quindi non deve confondersi col “ius gentilitatis”, che indica
il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il “ius
civitatis” indica i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi
dubbio, che il vocabolo di “iura gentium”, che poscia ebbe a prendere un così
largo svolgimento, dove nascere già in questo periodo per indicare appunto i
rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i capi delle medesime. Quanto
ai poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi
Voigt, “Die XII Tafeln”. La bibliografia copiosissima intorno alla gens può
vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ, “Institutions romaines”, come pure nel WILLEMS, “Le
droit public romain”. Fra gli autori che tentarono la “ri-costruzione” del “ius
gentilicium”, sono a vedersi sopratutto KARLOWA, Römische R. G., MUIRHEAD,
Histor. Introd. Parmi tuttavia importante il distinguere il “ius gentilicium”,
che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella
dei dipendenti da essi o gentilici, il “ius gentilitatis” che significa il
complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i “iura
gentium”, che governano i rapporti fra le varie gentes. Fra gl’istituti di
questo “ius gentilicium”, quello che più merita di essere preso in
considerazione è certo quello della clientela, essendo essa una delle cause del
numero e dell'importanza, a cui giunsero i gruppi gentilizii. I clienti,
durante il periodo storico, costituiscono una classe inferiore di persone, che
appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere ereditario,
in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda. Le due
persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario, sono indicate coi
vocaboli di patrono e di cliente, il quale ultimo vocabolo, secondo l'opinione
ora generalmente adottata, deriva da “cluere”, che significa audire nel senso
di essere obbediente. Come tali, i clienti entrano a far parte della gente, a
cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la quantità di gentiles.
Ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel gruppo gentilizio una
classe di uomini, di condizione inferiore, che in una posizione già alquanto
migliorata corrisponde all'ordine dei servi e dei famuli in seno
dell'organizzazione domestica. Il servo e il famulo non partecipano al ius
gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium. È Dionisio quegli,
che ci ha conservato l'enumerzione più particolareggiata delle obbligazioni e
dei diritti, che intercedono fra il patrono ed il cliente, attribuendo
l'istituto della clien [Willems, “Le droit public romain” -- Non potrei però
convenire in ciò, che Willems considera i clienti come una classe speciale di
cittadini di diritto inferiore, perchè la clientela in ogni tempo e sempre
considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un rapporto di
diritto pubblico, che basta ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I
clienti poterono poi avere tale qualità quando hanno degli assegni in terre dal
proprio patrono, mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce
come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio
persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni
in giudizio, ma abbisognano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una
conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione
politica. BRÉAL, Dict. étym. lat., vo Clueo. Cfr. MUIRHEAD, Encyclopedia
Britannica, vº Patron and client] -- tela allo stesso Romolo. Ma egli è
evidente, che anche la sua descrizione già altera alquanto le fattezze della
clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile e
politica un'istituzione, che ee ata e si era svolta nell'organizzazione
gentilizia. Secondo Dionisio, il cliente ha delle obbligazioni, nelle quali si
può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi-feudale. Il cliente infatti
deve al patrono riverenza e rispetto; deve accompagnarlo alla guerra;
soccorrerlo pecuniariamente in certe occasioni, come nel caso di matrimonio
delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri,
come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia, ed anche
quelle dei sacra gentilicia. Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero
dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano
ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate
facevano parte dell' “ager gentilicius”, proprietà collettiva della gente; il
che non rende esatta, ma spiega l'etimologia as segnata al vocabolo di
clientes, che si dicevano così chiamati “quasi colentes”, perché avrebbero
coltivate le terre dei padri. Infine, Dionisio parla perfino dell'obbligazione
del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come
la clientela, adatta al gruppo gentilizio, venne ad essere un'istituzione
ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica. Alla sua volta poi
il patrono dove al cliente protezione e difesa, e quindi e tenuto a provvederlo
diciò, che fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia,
il che facevasi mediante concessione di terre, che il cliente coltiva per suo
conto. Esso dove di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone,
rappresentarlo in giudizio, apprendergli il diritto – “clienti promere iura” --
, ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo [È Servius,
In Aeneidem, 6, 609, che vuol derivare il vocabolo di “clients” da “quasi
colentes”. “Si enim clientes quasi colentes sunt, patroni quasi patres,
tantundem est clientem quantum filium fallere.” (Bruns). Parmi tuttavia che,
tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi
colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto
all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che
anche l'etimologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata. Questo passo
di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispettive del patrono e del
cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela a Romolo, è
riportato dal Bruns, Fontes] modo in considerazione di membro della gente,
ancorchè in condizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il
cliente venne bensì dopo gl’agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i
quali appartenevano ad un altro gruppo. Questi obblighi poi scambievoli, in
mancanza di sanzione giuridica, sono collocati sotto la protezione del “fas”
come lo dimostra la legislazione posteriore di Le XII Tavole, la quale,
sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire – “si patronus
clienti fraudem fecerit, sacer esto” -- ed al pari di tutti gli altri rapporti
gentilizii hanno un carattere ereditario. Infine, siccome patrono e cliente
appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio, ancorchè in posizione
diversa, cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi
reciprocamente in giudizio, condizione anche questa, che, consentanea al
carattere dell'organizzazione gentilizia, ripugna invece a quello della
convivenza civile e politica, ove ognuno deve avere il mezzo di poter far
valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità, che accorda a tutti la
propria protezione. Basta questa esposizione per dimostrare, come la clientela e
un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che
continua ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti a Roma, ove
tuttavia si trova compiutamente disadatto, perchè ripugna a quell'uguaglianza
di posizione giuridica, che deve esservi fra coloro, che partecipano alla
medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o
quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che trovansi
in condizione inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno
della protezione del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui
la conseguenza, che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in
lotta fra di loro si [MASURIUS SABINUS – “In officiis apud maiores ita
observatum est.” “Primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato,
postea adfini.” HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. -- Aulo Gellio invece
accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite.
Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della
famiglia è affermato da Festus, vº Patronus. « Patronus a patre cur ab antiquis
dictus sit, manifestum; ut quia ut liberi, sic etiam clientes numerari inter
domesticos quodammodo possunt >; Bruns. Cfr. Karlowa, Römische R. G.,
attenneno ancora strettamente alla propria organizzazione e rappresentano in
certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima Roma. Ma dopo
il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusce solo più a
mantenersi di nome, anzichè di fatto. Senza più importare quegli obblighi di
carattere religioso ed ereditario, che ne conseguivano un tempo. I clientes si
scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche
l' “homo novus” nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il
corteo, e diventarono anche semplici salutatores; il che tuttavia non tolse,
che il vocabolo “cliente” sopravvive alla istituzione da esso indicata, e
rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale
di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono ha
certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il
pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompare nei
rapporti fra i cittadini romani. Noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei
cittadini romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un ius
applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gentilizie, col quale un
individuo, un municipio, un re od un popolo straniero ricorrevano al patronato
di un cittadino romano per far valere o avanti al Senato o davanti ai
magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di
far riconoscere. Così pure nell'interno di Roma, la clientela, ancorchè
scomparsa come istituzione giuridica, continua pur sempre ad esercitare una
grandissima influenza sopratutto nel periodo dell’elezione -- nel quale tutte
le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno
stato di cose ormai scomparso. Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat.
ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa
istituzione. Sonvi però autori, che, come MISPOULET, vorrebbero scorgere
nelmedesimo la forma contrattuale della clientela. “Les institutions politiques
de Rome” (Paris). In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che il ius
applicationis poteva essere la forma, che riveste il rapporto della clientela
nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto dell'epoca
gentilizia. Le formole epigrafiche, da Mispoulet citate in nota, si riferiscono
alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somiglianza di
quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clientela
potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa puo anche
essere analoga a quella ricostrutta da Voigt. “Te mihi patronum capio. At ego
suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio”. C. “Le
origini del diritto di Roma”. Quanto alla clientela, e sopratutto disputata ed
ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine di essa. Si è
sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da
Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fossero i primi abitanti del
Lazio ridotti a vassalli; che fossero gl’immigranti in Roma in seguito
all'asilo aperto da Romolo; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la
quale opinione, posta innanzi da Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che
corre fra gl’obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora
si mantengono durante il periodo storico a carico dei *liberti* verso il
patrono. Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la
clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al
carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta da Mommsen,
per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi
dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia, sarebbero diventati
clienti nel seno della gente, a cui appartene il proprio patrono. Ciò e non
solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che,
se cosi non e stato, i servi manomessi si sarebbero trovati abbandonati a se
stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi
protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e
politica. Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale
e spontanea, che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa, e tende così
a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad
essere naturale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi
gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costumanza per cui
coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti
come clienti o gentilicii nella gente. La clientela in tal modo venne a
costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il
servo, e si comprende eziandio come la sua co-abitazione in una famiglia
potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del
sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella
qualità di servo e preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente, L'esposizione
più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che
ebbero a professarle, occorre nel.WILLEMS, “Le droit public Romain”, e nel
Borché-LECLERC, “Instit. Rom.” È in questo senso che il concetto del Mommsen
può essere accettato. Ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che
qui dovette verificarsi un processo, che è comune a tutte le istituzioni, per
cui, una volta creata la configurazione giuridica della clientela per mezzo di
elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si poterono poi
fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati
da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la
protezione o difesa di esso. Come quindi e naturale, che il servo affrancato
dal capo di famiglia divenne cliente della gente a cui esso appartene, così
dovette pure essere naturale, che una volta creato il rapporto religioso,
giuridico ed ereditario della clientela e compresi nella medesima anche gli
immigranti, che si rifugiano presso la gente, vincolandosi mediante il ius
applicationis ad uno dei membri di essa, che ne diventava il patrono. Quelli,
che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti,
essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di
religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza. Quelli, che erano
soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel
sito da essi occupato. Quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno
stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano concessioni di terra e
riconoscevano così il patronato delle medesime. Tutti quelli insomma, che in
un'epoca di lotta e di violenza cercano protezione e difesa presso la gente, e
che questa, per affinità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter
accogliere nella comunanza gentilizia, assegnando pero ai medesimi una
posizione subordinate. Cio intanto dimostra come la clientela e una istituzione
indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale. Serve ad
incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si sarebbero trovate
nell'isolamento e percio prive di diritto, e quindi, mentre da una parte
accresce il numero e la forza delle genti, dall'altra procura al cliente una
protezione giuridica, di cui e stato altrimenti privato. In questo senso non è
certamente [Questa più larga estensione data all'origine della clientela, che,
senza escludere l'opinione di Mommsen, la comprende, sembra essere giustificata
dal seguente passo di Gellio: “Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum
sese dediderunt”] destituita di fondamento la potente intuizione del nostro
Vico. Vico ritenne che la clientela o come egli la chiama il “famulato” e un
mezzo indispensabile per giungere al governo civile, in quanto che essa e il
primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono,
coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un
gruppo, a cui non apparteneno per nascita, senza tuttavia essere assorbiti
intieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi. Non può quindi essere accolta l'opinione di
coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il
servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel
l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in
stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene
ancora totalmente all'organizzazione gentilizia, il comparire invece della
plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù,
donde la conseguenza che la città formandosi soffoca la clientela, mentre verrà
invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la
propria attività ed energia. Al disopra della gens compare infine nella
organizzazione delle genti italiche un'aggregazione più vasta, che è quella
della TRIBU, come lo dimostra il fatto, che, secondo la tradizione, sarebbe dal
confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che
sarebbe uscita Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento
romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori a Roma, è certo la più
difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa,
per le funzioni esercitate, e tra le varie aggregazioni quella, che più si
accosta Roma, così è anche quella, che per la prima e assorbita dalla medesima,
per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse
perduto, se non l'avesse [Vico, Scienza nuova, Lib. II. – “Della famiglia dei
famoli innanzi delle città, senza la quale non potevano affatto nascere le
città” – Milano] conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario,
e non ne fossero rimaste le vestigia nelle VI centurie degli equites -- VI
suffragia -- composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secondi. Gli
è perciò che come e assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione
più ristretta dalla famiglia, cosi non è meno difficile il constatare in qual
modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga
ad apparire la seconda. Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù
primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali
si venivano raggruppando intorno al capo di una gente prevalente fra tutte le
altre, da cui desumevano il loro nome complessivo, il quale percio e ricavato
dalla persona che guida la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita.
Così, per arrestarsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio
accertata, si può essere certi, che la tribù dei “Ramnenses” rica il proprio
nome complessivo da “Romolo” *e* da “Remo”, che sono a capo di essa, secondo la
tradizione. Il che è pure di quella dei “Titienses”, il cui nome deriva da Tito
Tazio, capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale. Nel che è anche a
notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da
quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens “Romilia”, “Titia”
è “Claudia”, le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei
Tities o Titienses, e dei Claudienses. Di qui pud indursi, che la [Non mancano
negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù; ma di regola
essa suol essere considerata come una ripartizione della città, nè cer casi di
ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la
formazione della città. Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le
tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori
introdotte da Servio Tallio, desunte invece dalle località, ove erano
stabilite. Cfr. CARLOWA, “Römische Rechtsgeschichte”. Non può certamente essere
accettata l'etimologia di VARRONE, De ling. lat. (Bruns), il quale vorrebbe in
certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che
sarebbe stato fra esse distribuito. “Ager romanus, primum divisus in partes *tres*,
a quo tribus appellatae Titiensium, Ramnium, Lucerum.” Infatti l'opinione di
Varrone in questa parte è contraddetta da Livio, da Servio, da Dionisio, che
fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome
dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le
tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il [tribù
comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggregazione di gentes,
le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza, si
raggruppano intorno al capo della stirpe prevalente fra di esse e mentre conservano
in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un nome, che
desumono dal proprio capo. Questa formazione novella viene poi ad essere
determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere
occasione a questo aggregarsi delle gentes. Di qui la conseguenza che la tribú
- o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei
Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una
spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una
propria comunanza di villaggio, come era di quella dei Titienses già stabilita
sul Quirinale. Tanto nell'uno quanto nell'altro caso la tribu assume immedia
tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione del divino domune
patrono – “dius”, “dius-piter” -- perchè
fra le genti non si puo comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo
religioso che la stringa insieme. Qui intanto l'unificazione del gruppo divenne
indispensabile, anche per l'intento che la tribù si propone di conseguire, e
quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che
prende il nome di “praetor” o di dic. fatto, che egli dopo continua con dire. “Ab
hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis, Suburana,
Palatina, Esquilina, Collina, etc.” Del resto non pud neppure ammettersi, che
occorresse una divisione dell'agro fra le TRE TRIBU, dal momento che ciascuna
continua ad avere il proprio terrritorio, salvo che si tratta, non di una
ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente amministrativa, come
dovette appunto essere. Secondo Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è
incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi
studii sui pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de'
Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e QUIRINO quello della tribù dei
Titienses sarebbe stato quello di QUIRINO e di Giano. Quello infine della tribù
de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità
sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a
Quirino, come pure di Giove e di Giano. Si può aggiungere, che del triplice divino
rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che sono quelli di Marte,
di QUIRINO e di Giove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricava indizi dei diversi
stadii, che Roma ha a percorrere nella sua formazione progressiva. “Institutions
Romaines”] tator, se la tribù si trova avviata ad una spedizione; di iudex in
tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già
ferma in un determinato sito; dimeddix, come accadeva presso gl’osci, ed infine
anche di rex, sebbene questo vocabolo, sembri comparire di preferenza quando
trattisi del capo di una città propriamente detta. Tuttavia questo capo suol
essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita, che non
dall'elezione; come lo dimostra il fatto, che i due duci della tribù dei
Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere *gemelli* debbono
conoscere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città,
o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo
della tribù dei Ramnenses, Romolo dove già trasformarsi in reggitore della “civitas”,
formatasi mediante la confederazione di varie tribù, in allora, secondo
Dionisio, e già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del Popolo. Però
accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a
chiamare dei patres, perchè è effettivamente composto dei capi delle singole
genti, e a cui probabilmente già viene data la denominazione di “senatus”.
Infine, nella tribù già può avverarsi la riunione – “comitium” – degl’uomini,
che colle armi – “iuniores” -- o col consiglio – “seniors” -- possono
provvedere alla comune difesa od al comune in teresse; donde la conseguenza,
che già nella stessa tribù può venirsi iniziando il concetto eminentemente
concreto ed organico del “populus”, salvo che gl’elementi per costituirlo si
ricano ancora direttamente dalle varie genti – “ex generibus hominum” -- cosicchè
la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente
gentilizio. Questa naturale formazione
della tribù dimostra, come la medesima corrisponda fra le genti italiche a ciò
che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di “vîc” o comunanza di
villaggio, e fra I greci col vocabolo di dñuos. Essa costituisce in certo modo [Dion.,
HAUSSOULIER, “La vie municipale en Attique”. Devo però far no tare che, secondo
l'autore, il demos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e
politica e corrisponderebbe alla “curia” e più soventi al “pagus”, sebbene a
mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La “curia”,
infatti, è una divisione politica di Roma. Il “pagus” e la località, in cui
dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il demos corrisponda a
quest'ultima.] il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione
patriarcale, perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si
in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio, da essa pero già si vengono
elaborando quegl’elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica,
finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della “civitas”,
il quale più non dispiegasi nel “pagus” come la “tribù”, ma bensi nell' “urbs”.
Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di “ri-costruzione”
concettuale, che la tribù mal puo essere l'ultimo stadio dell'organizzazione
patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città;
ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla
tribus, che si sono ricavati i primi elementi, in base a cui si costituie Roma,
come lo dimostrano anche i vocaboli di “tri-bunus”, “tri-butum”, “tri-bunal”, i
quali tutti richiamano la “tribù”, e quindi era conforme al processo
costantemente seguito nelle formazioni italiche, che l'edifizio novello di Roma
si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con
correvano a costituirlo. D'altronde è noto, che le tribù di Servio Tullio hanno
un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive.
Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non
sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù, il
cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata
la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di
genti patrizie, che già riconoscono un capo, si venne formando una comunanza
plebea, che provede al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle
genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il
bisogno di questo nuovo elemento puo essere sentito dalle stesse genti, per
quanto esse coi loro servi e coi loro client sono organizzate in guisa da poter
bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle
Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi in Roma, vedi Carle, “La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale”] come pure: Genesi e
sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica, colle opere ivi
citate. La distinzione è fatta nettamente da Dionisio, il quale chiama la tribù
primitiva “qulai revikai” e quelle di Servio Tullo “qulai totikaí”.antiche
formole, in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che
dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e
militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto
dalle consuetudini e dalle tradizioni, mentre invece si chiama plebes dapprima
e poscia plebs (da “pleo”, riempire) quella moltitudine ragunaticcia, che dopo
essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali
venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio, potè poi una volta formata
accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia
delle istituzioni sociali, che il compito più difficile nella grande povertà
delle idee primitive è la formazione di un nuovo gruppo. Ma quando esso è
formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un potente
richiamo per tutti gl’elementi, che per questo o quel motivo si vengono
staccando dall'organizzazione prima esistente, e che abbandonati a se cercano
un nucleo novello a cui possano aderire. Riassumendo questa lenta e faticosa
ricostruzione dell'organizzazione sociale delle genti Italiche anteriore a Roma,
credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa
siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea formazione,
costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo
l'uno all'altro, in modo pero che gli elementi, che formansi in ciascuno di
essi, subiscono delle trasformazioni allorchè passano in quelli che vengono
dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della provenienza
delle genti Italiche, è molto probabile, che esse già recassero con sè
l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto
quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle
genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo, le lotte fra vincitori e
vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono
la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi
dell'organizzazione gentilizia e condussero alla formazione di una potente aristocrazia
territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse anche i vinti nei
quadri del proprio ordinamento, collocandoli però in una posizione subordinata
a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia, per rendersi atta a
sostenere i conflitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando
sotto il potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di
padre per assumere quella di sacerdote, di giudice, di uomo di guerra e di
fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le persone, cheda
lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in servi o famuli, due vocaboli
che si contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che rimarranno
distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei vincitori e quella
dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico della costituzione
della famiglia gentilizia, che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria
fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta, che i giureconsulti
romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degl’altri popoli. La
gente invece continua sempre a ritenere alquanto dell'elasticità primitiva, nè
giunge ad una concentrazione uguale a quella della famiglia. Ma intanto, memore
del culto del proprio antenato, custode gelosa delle proprie tradizioni,
riunita e resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia
anch'essa in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il
perno del l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le
famiglie, dall'altra, aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù.
Intanto però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella
famiglia, salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e
quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza, e
vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti.
prendono un carattere pressochè giuridico nel patronato e nella clientela. Così
pure nella gente, accanto all'elemento monarchico della famiglia, già viene a
svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico, il quale
costituisce un consiglio degl’anziani, che concentra in sè medesimo le
principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo, nella tribu havvi
pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi
una gente, che predomina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta come
di stirpe regia. Di qui la conseguenza, che in essa compare la figura di un
capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre,
conservasi il consiglio degl’anziani, che già mutasi in senato, perchè è già
composto dei capi di genti diverse, ma intanto aggiungesi l'elemento
democratico o popolare, che componesi di tutti gl’uomini, che, ricavati dalle
varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio. Cio
però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli altri
gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi
dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percio più un'esistenza di
fatto, che non un'esistenza di diritto. Essa è dapprima riguardata con
disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e
dal diritto delle genti. Ma cio non toglie, che passandosi dall'organizzazione
gentilizia a Roma essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta
coll'antico ordine di cose. Per tal modo si ha nel periodo gentilizio una vera
formazione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii elementi, che
entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica. Che anzi,
mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e
gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base a Roma. “Tantae
molis erat romanam condere gentem.” Non è già che questo processo di naturale
formazione sia proprio soltanto delle genti italiche, in quanto che le traccie
di essa appariscono evidenti presso tutte le stirpi di origine aria. Nessuna
però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più
determinate e precise delle stirpi italiche, e sono esse parimenti che,
gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo
gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento di Roma. Ciò è stato
provato largamente dal SUMNER MAINE, “L'ancien droit.” È poi interessantissima
a questo proposito la comparazione, che fa Revillout fra l'organizzazione
domestica dei romani e quella che vigeva presso gli Egiziani nella sua opera
col titolo, “Cours de droit égiptien” (Paris) della quale può considerarsi come
un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di celebrazione del
matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, “La condition juridique de la
femme dans l'ancien Egipte” (Paris). Fra i problemi, che presenta la storia
delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo
degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di “proprietà”,
che suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo
modo venne ad essere il modello, sovra cui si foggia la proprietà presso la
maggior parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi
pervenute sembrano presentare alcune contraddizioni a prima giunta
inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo la formazione di Roma, si
rinvengono ancora le traccie di una proprietà collettiva, conosciuta sotto il
nome di “ager gentilicius” e di “ager compascuus”, mentre dall'altra la
proprietà quiritaria si presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi
assoluto ed esclusivo, che sembra perfino escludere la possibilità
dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva. A cio si aggiunge, che
mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin
dai più antichi tempi in condizioni tali da concentrare nelle sue mani tutto il
capitale – “pecunia” -- allora
esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte del
territorio, dall'altra la tradizione parla di una ri-partizione fatta da Romolo
del territorio di Roma e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri – “bina
iugera” -- ai capi di famiglia, che lo
segueno, il quale assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio – “heredium”
-- del più antico patriziato, che era quello della tribù dei Ramnenses. Ecco i
principali passi di filosofi che si riferiscono all'argomento. VARRONE:: “Bina iugera,
quod a Romulo primum divisa viritim, quae heredem sequerentur, heredium
appellarunt”. PLINIO: “Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique
maiorem modum attribuit (Romulus).” Lo stesso Plinio: “M. Curii nota dictio
est, perniciosum intel legi civem, cui septem iugera non essent satis. Haec
autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto.” (Brons, Fontes). Se ne
ricaverebbe pertanto - Non è quindi meraviglia se le congetture a questo
proposito siansi avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni ritenneno
che la proprietà privata in Roma sia stata una creazione dello stato. Contro
questa opinione si è osservato che l'idea di una sovranità territoriale e
affatto ignota ai romani, per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe
loro parsa un segno di soggezione odioso tanto, che fino al principato, Roma e
l'Italia ne furono escluse. In senso contrario, si fa pero notare, che non può
ammettersi che la proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione
storica, che sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma
avrebbe esordito con un concetto della proprietà, che presso gli altr’popoli
non si rinviene che quando essi sono pervenuti al termine della loro
evoluzione. Ne deriva che, lasciando in disparte le gradazioni diverse delle
opinioni intermedie, le teorie estreme si potrebbero ridurre essenzialmente
alle seguenti. Vi ha l'opinione di Niebhur, di Mommsen, seguita anche da molti
altri, fra cui noto De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gl’altri
popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata
in proprietà esclusivamente privata ed individuale, che colla ammessione della
plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo stato ai che ai
primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri,
mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per
contro gli assegni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai
plebei ed anzi ai più poveri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale
dice che Numa divide fra i cittadini l'agro pubblico conquistato sotto Romolo –
“agros divisit viritim viribus” (De rep.). Ma in ciò è contraddetto da Dionisio,
il quale parla di una distribuzione da Numa fatta ai più poveri, Quanto
agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed
è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri.
Ciò è attestato fra gl’altri da Columella, De re rustica. “Post reges exactos
Liciniana illa VII iugera, quae plebi tribunus viritim diviserat, maiores
quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta.” Ho
citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri
o capi di famiglia fu quello di II iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri
sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad
avere i loro agri gentilizii. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con
annotazioni di Cogliolo, Firenze, si sforza, e a parer mio, inutilmente, a
dimostrare che il piccolo “heredium” di II iugeri puo bastare ai bisogni della
famiglia, stante la coltura intensiva applicata al medesimo.] singoli cittadini;
e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui
sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto
che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di
Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere
spiccatamente privato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia
pervenuto il regime della proprietà. È poi degno di nota che siccome oggidi la
ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di una
questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie
diverse intorno all'ordinamento delle proprietà, così la ricerca delle sue
origini presso un popolo, le cui istituzioni esercitarono tanta influenza sopra
tutti gl’altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema economico e
sociale. Sonvi infatti coloro che, come Laveleye ed altri autori più o meno
apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della proprietà, vogliono
trovare, anche presso [L'autore, che primo approfondì i concetti dell' “ager
publicus” e dell’ “ager privatus”, è certamente Niedhur, “Histoire romaine.”
Niedhur però sembra partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non
esiste proprietà privata, e che questa e costituita mediante gli assegni stati
fatti alla plebe. La sua opinione e seguita da Puchta, “Corso delle Istituzioni”.
Trad. Turchiarulo, da MOMMSEN (“Histoire romaine”). Segue pare questa opinione
De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull’ “ager publicus”, “ager privatus”, e
sulle “lex agrariae”, inserti nell'”Enciclopedia giuridica italiana”, come pure
nel suo precedente lavoro, “La gens in Roma avanti la formazione del comune” (Napoli).
PADELLETTI. La questione dell'origine collettiva della proprietà comincia
dall'essere posta in campo dal Sumner Maine (“L'ancien droit, -- Histoire de la
propriété primitive”). Essa poi fu allargata da Laveleye nel “La propriété et
ses formes primitives”, dove si oc cupa della proprietà presso i romani. Di
recente poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà
primitiva presso i germani, in occasione di una dissertazione letta da FUSTEL
DE COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui
sostiene che anche i primitivi germani conosceno la proprietà famigliare e
privata. Alla discussione presero parte GEFFROY, Glasson, Aucoc e Ravaisson, e
ne usce una specie di studio comparativo fra la proprietà e la famiglia romana
e la proprietà e la famiglia dei primitivi germani. Compte rendu de l'Académie
des sciences morales et politiques. L'opinione del Fustel DE COULANGES, quanto
alla proprietà privata già conosciuta dai germani, e stata già sostenuta in
modo anche più esclusivo da Ross, “The early of Land-holding among the Germans”
(Boston)] i Romani, le traccie di una proprietà collettiva, mentre altri,
sostenitori invece della proprietà privata ed individuale, cercano di avere per
sè l'autorità di un grande popolo per giustificare la forma di proprietà che è
loro prediletta. Il vero si è che tanto l'una come l'altra teoria solleva dei
grandi dubbi. Da una parte infatti, quando si riconosca presso i romani solo
una proprietà originariamente collettiva, viene ad essere inesplicabile come un
popolo, che suole procedere così gradatamente nella trasformazione delle
proprie istituzioni giuridiche, abbia potuto senza altro operare una
rivoluzione così radicale nel concetto della proprietà. Dall'altra, se si
sostiene che la proprietà romana e senz'altro una proprietà assoluta ed
esclusiva, non è men vero che il popolo romano sembre rebbe appartarsi da tutta
l'evoluzione della proprietà, quale almeno sarebbe stata formolata da coloro,
che si occuparono delle forme primitive dalla medesima assunte. In questa
condizione di cose non puo negarsi la gravità e la importanza del problema, e
questo è certo che il medesimo non potrà mai essere risolto, finché non si
ricerchino le condizioni della proprietà presso le genti del Lazio, per
mettersi cosi in caso di apprezzare le trasformazioni, che esse ebbero a subire
nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza civile e politica.
Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non e inopportuno di premunirsi
contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si vennero
introducendo intorno alla legge di evoluzione storica, che governa la
proprietà. Laveleye cerca di stabilire sopra una grande quantità di fatti una
legge storica, secondo cui la proprietà comincia dall'esistere sotto forma collettiva
e poi sarebbe venuta assumendo un carattere sempre più individuale, lasciando
così sottintendere, che l'unico rimedio di ovviare a questa individualizzazione
soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri
inizii. L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo, “La propriété et
ses formes primitives” (Paris), e la legge storica ricordata nel testo è da lui
formolata nello stesso primo capitolo, il che giustifica alquanto la censura
fattagli dal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le
idee del LAVELEYE trovano molti seguaci e possono anche essere accettate in
certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica generale un
fenomeno, che ebbe solo a verificarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè
nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe [Senza entrare ora nella discussione
di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori
imparziali, fra i quali Spencer, hanno
già dimostrato, che una legge di questa natura non puo essere ammessa, in
quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di una
proprietà privata ed individuale. Quindi è che l'unica legge storica, relativa
all'evoluzione della proprietà, che allo stato attuale degli studi possa
formolarsi, e che la proprietà, essendo una istituzione eminentemente sociale, ha
in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi
dall'organizzazione sociale. Sopratutto poi la storia delle istituzioni
giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si
presentano strettamente connesse con quelle della famiglia, cosa del resto che
può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno della
famiglia e certamente quello di assicurare il proprio sostentamento. Siccome
pero la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale, entra essa
stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è l'organizzazione
gentilizia, cosi anche la proprietà finisce per assumere tante con figurazioni
diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può
scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da quelli,
che sostengono che nelle origini e prevalso il regime collettivo della
proprietà, quali e le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il
cui ter sempre notare a LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia
provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione primitiva, non si puo
neppure sostenere che la forma di proprietà, che trovasi durante
l'organizzazione gentilizia, sia la forma primitiva. Quanto alla letteratura
copiosa sull'argomento, può vedersi il dotto lavoro di VioLLET (“Précis de
l'histoire du droit français”, Paris). L'autore ritiene, che la proprietà
privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine
ha prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe
stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa
proprietà collettiva si e poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un
carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e
privata ha prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega,
come ciò abbia potuto accadere, mentre il passaggio può invece essere seguìto
presso i romani. SPENCER, Principes de sociologie, Paris, ove egli parla “de la
fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la
propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs.”] ritorio, secondo
consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una
viene ad essere assegnata alle singole fa miglie. L'altra è lasciata a prato ed
a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero
determinato di capi di bestiame; e l'altra infine è considerata come proprietà
della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare
certi diritti i singoli comunisti. Or bene se la legge dell'evoluzione storica
della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di
poter affermare in base ai fatti, che la storia della proprietà a Roma non solo
non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le
traccie più evidenti di tale evoluzione. Non è dubbio anzitutto, che presso i romani
le sorti della proprietà e quelle della famiglia procedettero strettamente
connesse fra di loro. Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il quirite entra
nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia
e di proprietario sopratutto del suolo, e che nel diritto primitivo di Roma i
poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così
strettamente uniti fra di loro, che un solo vocabolo, quello appunto di familia,
comprende le une e le altre. A ciò si aggiunge che è un principio,
costantemente applicato dai romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno
stadio di organizzazione sociale, nè alcuna corporazione anche di carattere
sacerdotale senza che le debba essere assegnato un patrimonio, il quale,
indicato col vocabolo generico di “ager”, [LAVELEYE, come pure il SUMNER Maine,
Village Communities. London, Early history of institutions. London, Early law
and custom. London. Questa è la significazione che il vocabolo “familia” riceve
nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere, emere,
mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la
proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie
significazioni del vocabolo “familia”, coi testi che loro servono di appoggio,
possono vedersi in Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, Notae
ad Tit. « de usufructu », vº Familiae. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma]
può essere chiamato, secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus,
publicus, communis, peregrinus e simili. Ciò prova fino all'evidenza, che il romano
primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente
radicato, che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà, che le
serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento, e che questo concetto e
da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono
primitivamente modellate sulla famiglia. Non è quindi possibile il sostenere,
che la proprietà privata o meglio famigliare possa, presso i romani,
considerarsi come una creazione dello stato, ma conviene necessariamente
ammettere che e conosciuta già prima, se appena fondato lo stato, il primo atto
che esso compie, secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai
singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere
l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cercarne
l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata. Vero è che sono
pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di
cose, che esiste anteriormente a Roma. Ma tuttavia anche con pochi frammenti
non è impossibile la ricostruzione di questa condizione anteriore, quando si
tenga conto del processo costantemente seguito dai romani, anche nel periodo
storico, che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le
istituzioni, che hanno ad elaborarsi nel periodo anteriore. Intanto un primo sussidio può aversi in
questo carattere del l'organizzazione gentilizia, per cui essa, a misura che
giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al
precedente, viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore,
in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento. Come più tardi la
sede esteriore della “civitas” è stata l' “urbs”, così le sedi esteriori dei
varii gruppi gentilizii sembrano, presso le antiche genti italiche, essere
state indicate coi vocaboli certo antichissimi di domus, di vicus e di pagus. De-RUGGERO,
Enciclopedia giuridica italiana, vº Ager publicus-privatus. Ciò può vedersi nel
Pictet, Origines Indo Européennes; Paris, come pure nel BRÉAL, Dict. étym. lat.
ai vocaboli indicati. Non vi è dubbio, che tutti questi vocaboli già esistevano
anteriormente alla [Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi
proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un
piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa
costituiscono un tutto, che con un vocabolo non meno antico poteva es sere
chiamato heredium da “herus”, od anche mancipium, perchè di pendeva
direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri
al medesimospettanti, o infine anche familia, perchè comprendeva tanto i liberi
quanto i servi. Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più
tardi il concetto di “dominium” e si capisce anche che di questo dominium, il
quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più
preziosa, quella, da cui il capo di famiglia si separa più a malincuore e che
egli vorrebbe perpetuare nella famiglia, continua sempre ad essere riposta in
quel nucleo primitivo, che costitue l'heredium, e che nel diritto quiritario
prese poi il nome di mancipium. La riunione poi delle abitazioni di diverse
famiglie, provviste di un cortile e cinte da uno spazio, a somiglianza diquelle
che Tacito ci descrive presso i germani, viene a costituire il vicus, il quale
di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle
familiae, che dividono il medesimo culto e appartengono alla medesima gente. Il
vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi
le circostanze attestateci da Festo: che i vici si trovavano di preferenza
presso quei popoli, che non avevano ancora delle città, quali erano i Marsi ed
iPeligni; che essi erano stabiliti fra i campi – “in agris” -- ; e che se essi
già avevano un luogo di mercato, non avevano però sempre un luogo, dove si
amministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza
del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus. Cio dimostra,
che se il vicus puo svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro
esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che
con essi erano indicate. Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero
stragrande dei passi raccolti da Voigt, “Die XII Tafeln” -- TACITUS, Germania. Festo,
vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ogni altro
vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le
significazioni diverse, che il medesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina
il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi – “in agris” -- , ed è a proposito
di questo primo vicus, che egli dice: “sed ex vicis partim habent rempubblicam,
et ius dicitur, partim nihil eorum et -- talvolta in guisa da prendere le
proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede
di una comunanza puramente gentilizia. E poi naturale, che come le singole
famiglie in esso avevano il proprio heredium, cosi anche il vicus, sede della
gente, fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano
anche fare gli assegni ai clienti. Viene ultimo il “pagus”, ove esiste un sito
per il mercato, ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi
giustizia, sito, che probabilmente può già essere chiamato forum, almodo stesso
che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza
alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur,
negotii gerendi causa. Poi trova il vicus nel seno degli oppida, e dice che
comprende « id genus aedificiorum, quae continentia sunt his oppidis, quae
itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus
discriminis causa sunt distributa ». Tuttavia, anche nella città, il “vicus”
indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno
accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes. L'interporsi di un
elemento estraneo nel seno del vicus e poi naturalmente impedito da quella
antica consuetudine romana, per cui il fratello vende al fratello, il vicino al
vicino, il consorte al consorte. Che poi esistesse veramente una proprietà
spettante al vicus e destinata ad uso comune degl’abitanti di esso lo
dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale *persona giuridica* fa
contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin.-- Del resto anche il
Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. -- È da
vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle
lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes. Quanto al concetto
del vicus e delle “vicinitas” presso i germani vedi Ross, Land holding among
the Germans. Boston. Il vocabolo di “forum” è uno di quelli, che ci indica il
processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo, venivano
trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al concetto
ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che “forum” significa il
vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto
al defunto. V. Bruns, Fontes. Poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina, che le
genti latine « quo conferrent suas controversias et quae vendere vellent quo
ferrent, forum appellarunt. Infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua
consueta diligenza ci dice che “forum sex modis intellegitur; primo
negotiationis locus; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones
haberi solent; tertio cum is, qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum
civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc.” (Brons). Per tal
modo, il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col
tempo a convertirsi nel sito, ove il magistrato romano risolve le controversie
fra le città ed i popoli.] serve ad indicare tutte le cariche della città. Nel “pagus”
per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può ritenere con
certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il complesso delle
abitazioni occorrenti per un'intera tribù. Ciò del resto è dimostrato dal fatto,
che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima
esisteno nella stessa località. Così pure, nota Lange, e dimostrato che il
pagus Succusanus e sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro
tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di
un pagus Aventiniensis e di un pagus laniculensis, nei quali nomi è anche degna
di nota la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le
popolazioni, che compongono le tribù. È poi anche naturale, che questo pagus ha
pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità
vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi “compascuus”, e che
comprenda talvolta eziandio, oltre il sito destinato per il pascolo, anche
delle siloae e dei saltus. Intanto da questa configurazione esteriore
dell'organizzazione gentilizia si può inferire che, almodo stesso che questa
venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche
le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra. L'ager [LANGE,
Histoire intérieure de Rome, NIEBHUR, Histoire Romaine. Del saltus è da vedersi
la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo, pº Saltus. I saltus
potevano essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città, ed
anche di proprietà privata. È poi degno di nota, che il vocabolo “saltus”,
allorchè già si venivano formando i latifondi per modo che, secondo Plinio, sei
persone possedevano metà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per
significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dal
principe, sovra cui dimora una popolazione, di carattere pressochè colonico,
che dipende più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non
dalle leggi del principato. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto
nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente una importante
iscrizione, che contiene una petizione della popolazione del saltus al principe.
Fondandosi su di essa ESMEIN, sostiene che in questi saltus comincia a formarsi
l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique.
Paris, V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain. Paris] si viene, per dir
così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si vengono
sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium, se nel
contado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appartiene
alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium, la
familia, il mancipium. Ma siccome ogni capo di famiglia, oltre questa parte
sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante,
composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale, che
accanto al concetto dell'heredium si formi quello del peculium, accanto a
quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium
quello del nec mancipium; distinzione, che tornerà poi in acconcio per spiegare
a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le resmancipii e le
res nec mancipii. Che veramente questa forma di proprietà già preesiste alla
comunanza romana viene ad essere provato da cio, che fin dal primo formarsi di
questa occorrono i concetti di herus, di heredium, di heres, il qual ultimo
vocabolo ha pur la stessa origine di “herus” e scrivesi talvolta anche
semplicemente “eres”, per guisa che anche questo vocabolo significa, se non il
proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza di
Festo, secondo la quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur ». Non vi ha
poi dubbio, che con questi vocaboli ha eziandio strettissima attinenza il
vocabolo di herctum o erctum, che significa ripartizione da erciscere, donde
proviene la denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae.
Tuttavia, comegià si accenna, è un costume antichissimo quello indicatoci
dall'« ercto non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a
mio avviso, quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più
antico dei con [Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium
dal dottissimo lavoro, di recente pubblicato da Voigt, così benemerito degli
studii sull'antica Roma, col titolo, “Die römischen Privataltertümer und
römische Kulturgeschichte”, estratto dall' Handbuch der klassischen
Altertumswissenschaft, pubblicato dal Beck in Nördlingen. Quivi Voigt ritiene
che l'heredium comprenda l'hortus, l'ager, la cohors o chors, il pomatum, più
tardi detto anche “pomerium”, e di più la casa, detta anche tugurium, che
comprende il granarium, il foenilium, il palearium ecc. Ivi poi si trova citata
tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche l’italiana, così spesso
trascurata. Anche Voigt sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al
dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla correlazione, che
sembra esistere eziandio fra heredium e peculium, mancipium e nec mancipium,
sorzii e delle società, che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia
vano indivisa l'eredità ed il patrimonio. Intanto la conseguenza viene ad
essere questa, che i vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di
pater familias rimontano tutti al periodo gentilizio, e segnano, insieme con
herus ed heredium, l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata
la figura molteplice del capo di famiglia. Di questi vocaboli però quello che
significa meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente
di man ceps e di mancipium, ed è questa forse la causa, per cui il vocabolo,
che prevarrà più tardi nel diritto quiritario e quello di “mancipium”, al quale
solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Quiritium. Non vi è poi
dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager
gentilicius, che era quello spazio, non compreso negli heredia, che trovavasi
nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà
collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi
fare degli assegni ai clienti, i quali però non hanno una proprietà, ma
ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario. Dell'esistenza
di questo ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un
esempio durante il periodo storico, in occasione della venuta a Roma di Atto
Clauso, e della sua gente. Questi viene di Regillo per porre la propria dimora
nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè
per negare, che egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che dove
certamente essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca. Questa
induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium
agnatorum, trova una conferma nel diligente lavoro di POISNEL, “Les sociétés
universelles chez les Romains,” specialmente in quella parte ove si occupa del
primitivo consortium, accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra
fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio. “Nouvelle revue
historique de droit français et étranger”. È anche degna di nota l'attinenza
fra i vocaboli di consortium e di consors con quello di “sors”, che dapprima
indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym. lat.,
vu Sors. Ciò è anche confermato dall'espressione di familia inercta nel
significato di indivisa, ricordata da Paolo Diacono [Cfr. in proposito i passi
citati da Voigt, Die XII Tafeln. Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione di Esmein,
“Les baux de cinq ans en droit romain” – “Mélanges d'histoire de droit”, Paris.]
della sua venuta a Roma, ha, secondo la tradizione, compresi ben MMMMM clienti.
Questo è certo, che dal momento che egli abbandona la sua sede originaria e
veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio, gli fu dato un
tale spazio di terreno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare II iugeri in
godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti XXV
iu geri per sè e la sua gente. Questo assegno di territorio, mediante il quale e
la gente Claudia, che diede il nome a quella tribù rustica, non impede, secondo
Dionisio, che e eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso
di Roma, ove puo abitare egli e la sua famiglia. È facile il vedere, che qui
occorrono i concetti tanto dell'heredium, quanto dell’ager gentilicius, e si ha
pur anche la prova, che nell'organizzazione gentilizia e alla stessa gens od al
consiglio di essa, che si appartene di fare il riparto fra le singole famiglie
ed anche gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza, che, fra le
varie forme della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra
tutte le altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè al modo
stesso che è nella gens, che si formano le famiglie, cosi è pure dall'ager
gentilicius, che si ricano gli heredia. Cosi pure è anche probabile che, in
mancanza di eredi suoi, i quali possono in certo modo essere considerati quali
comproprietarii dell'heredium, e in difetto eziandio di agnati prossimi, che
mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornano all’ager
gentilicius, cioè alla sorgente stessa, da cui essi furono staccati. Da ultimo
sonvi eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà, che considerasi
come spettante alla intiera tribù, e che prende il nome di ager compascuus, di
compascua, di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla
pastorizia, e di communia o communalia nell'Etruria. Puo darsianzi, che un ager
compascuus puo esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la
deffinizione di Festo – “compascuus ager relictus ad pascendum com muniter
vicinis.” Ma in ogni caso non vi ha dubbio, che questo compascuus ager certo
esiste nel pagus e già dava origine ad una [Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. L'esistenza
di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori.
Basti il seguente di FRONTINO – “Est et pascuorum proprietas, pertinens ad
fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui
busdam provinciis pro indiviso.” Bruns, Fontes] specie di pubblico reddito
(vectigal), consistente nel contributo, che doveno dare gl’abitanti, che ivi
pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo, che all'epoca romana viene
poi ad essere indicato col nome di scriptura. Una prova dell'esistenza di
questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di
reddito pubblico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio, il quale, dopo
aver detto che pecunia a pecude appellatur, cosa del resto che è attestata da
tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare importantissimo – “etiam nunc
in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet,
quia diu hoc solum vectigal fuerat” -- il che vuol dire in sostanza, che i romani,
in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col
vocabolo primitivo dei “Pascua”, che costituivano la proprietà collettiva della
tribù, tutta quella parte della proprietà collettiva del populus, ossia
dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricava qualche reddito. Del resto
l'esistenza di questo ager compascuus e anche accennata in quel tradizionale
riparto, che Romolo fa fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina,
poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto; l'altra
alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia; e la terza sarebbe
stata appunto l'ager compascuus, che e anche la prima forma di ager publicus,
in cui le genti patrizie, probabilmente dedite ancora in parte alla pastorizia,
potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti. Credo che le cose premesse
dimostrino abbastanza che, anche anteriormente alla formazione di Roma, la
proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che
entravano nella stessa organizzazione gentilizia, per modo che vi era una
proprietà privata o meglio famigliare, una proprietà gentilizia, e una
proprietà spettante alla comunanza della tribù. Di queste varie forme di
proprietà, quella che predomina era la proprietà gentilizia, perchè da essa usceno
e ad essa ritornano gli heredia, come poi erano anche i capi di famiglia delle
varie genti, che hanno il godimento dei compascua; nel che può forse trovarsi
l'origine pro [NIEBHUR, “Histoire romaine”, Voigt, “Die römis. Privataltert.”, LANGE,
“Histoire intér. de Rome” --- Plinio -- Dion. NIEBHUR, Hist. rom. - babile di
quel fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie
riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager
publicus, il quale a Roma non è che una trasformazione ed un ampliamento per
mezzo della conquista del primitivo ager compascuus. Queste varie forme di
proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si
vengono temperando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridicamente
illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel costume gentilizio
viene ad essere trattenuto da una quantità di temperamenti, che ne impediscono
qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia. Quindi anche quel potere, che
più tardi e affidato al “praetor” di interdire nel iudicium de moribus quel
padre di famiglia che disperdesse i bona paterna avitaque, dove certamente
rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente appartenne al
consiglio degl’anziani della gens di frenare queste dispersioni e prodigalità
del capo di famiglia con un iudicium, che e de moribus e con una formola, che
certo dovette essere analoga a quella adoperata dal praetor. oLe cose premesse
intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in poche parole
alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano
primitivo. La prima di esse sta in vedere se gl’antichi heredia, ossia quei
bina iugera, che Romolo distribusce ai capi di famiglia e di cui Varrone dice
che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, doveno o non
ritenersi inalienabili, e se i figli doveno considerarsi come com proprietarii
del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che
subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e [Questa esclusione dei plebei
dall'agro pubblico è attestato da un testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli
Annali di qualche autore più antico – “Quicumque propter plebitatem agro
pubblico eiecti sunt.” Bruns, Fontes, -- il che è pur confermato da un passo di
Sallustio. “Regibus exactos servili imperio patres plebem exercere, agro
pellere.” Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., accenna per nota, che anche in Grecia
vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti.] privata colla formazione di
Roma – ANNO I -- , noi possiamo perd affermare con certezza che questo concetto
dell'heredium esiste già anteriormente ed erasi naturalmente formato durante il
periodo gentilizio. O che l'heredium doveva potersi alienare dal capo di
famiglia, perchè, se questa alienazione non e stata possibile, non si
comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium, come pure non si
comprende l'esistenza certo antichissima di un iudicium de moribus, di- a retto
appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione di questo patrimonio,
che nel suo concetto informatore era destinato ad essere trasmesso dai genitori
nei figli e da questi ai nipoti. O che tuttavia questa alienazione, durante il
periodo gentilizio, dovette essere gover nata da solenni formalità e dovette
forse anche compiersi colla approvazione o quanto meno colla testimonianza dei
notabili del villaggio. O che infine nella primitiva organizzazione gentilizia
i figli si riputano comproprietarii sopratutto di quella parte del patrimonio
paterno che costituie l'heredium, il che e in certo modo indicato dal vocabolo “heres”,
che in antico avrebbe significato comproprietario, e che posteriormente continua
a significare la medesima cosa mediante l'espressione più completa di “heredes
sui”. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e detentore del
patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo
probabilmente il motivo, per cui non dove nei primi tempi di Roma avere nulla
di ripugnante al modo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del
diritto quiritario primitivo, che ora a noi appare cosi ostico e pressochè
inesplicabile, per cui tutto ciò che appartiene od è acquistato dalla moglie,
dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del
padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo
ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia. Questo
concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana
sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che
dove esistere nel costume della medesima; comunione ed intimità di cui il
diritto non si occupa, perchè non dove occuparsene, ma che sono largamente
attestate da tutti gli scrittori, che richia -- Ciò è anche confermato dalla
nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur,
quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini
existimantur ».] mano la memoria della primitiva famiglia, governata dal “mos
pa trius, ac disciplina”. Ad ogni modo la conseguenza ultima della nostra
ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè l'individuo era
ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizzazione gentilizia, per
maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad essere libero
cittadino di una libera Roma. Intanto se si ammette che nell'organizzazione
della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente è quella della
proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la proprietà
privata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della proprietà
collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza, che il sistema di
successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per cambiarsi
in successione legittima, dovette proporsi essenzialmente per iscopo di
mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima
potesse passare ad estranei. Si comprende pertanto, che in base al costume
gentilizio la proprietà va ai figli, che ne sono comproprietarii, ed anche agli
agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma
appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non
individualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano
la comunanza gentilizia. Il motivo è questo, che se la legge di Roma puo
favorire il riparto immediato fra gli eredi, il costume invece di una comunanza
gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito, come diceno i
Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei patrimonii; perchè essa mira, non
a favorire lo svolgimento dell'individualità del capo di famiglia, ma a rendere
compatto per quanto è possibile il gruppo, in cui gli individui vengono ad
essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo incontrastabile, che la
successione, quale compare nei primitivi tempi di Roma e quale esiste
anteriormente, non ammette nè distinzioni di primogenitura, nè distinzioni di
sesso, quanto alle persone che erano chiamate a succedere. Ma si può anche [Cic.,
Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor
robustos filios, quinque filias, tantam domum, tantas clientelas Appius regebat
et caecus et senex... Tenebat non modo auctoritatem, sed etiam imperium in suos;
metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo
mos patrius ac disciplina.]- essere certi, che il costume dovette certamente
dirigersi costantemente, se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire,
che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le
femmine colla libera disposizione della parte di sostanza, che loro apparteneva,
potessero compromettere gli interessi della gente. Ciò infatti viene ad essere
comprovato dalla tutela perpetua, a cui le donne erano soggette per parte degli
agnati -- tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine la
libera disposizione delle proprie cose, e che col tempo divenne per modo
odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovano modo di sottrarvisi
mediante quell'espediente giuridico, di carattere eminentemente romano, che è
la “coemptio fiduciaria.” Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del
testamentum, non può esservi dubbio, che esse doveno certamente esistere nel
costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in
quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate, come
appare da ciò che le XII tavole, nei frammenti a noi pervenuti, non parlano
dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione
preesistente. Di più e ben naturale, che il concetto dell'una e dell'altro doveno
presentarsi naturalmente a capi di famiglia, che da una parte erano tutti in
tesi al culto dell'antenato e dall'altra sono fissi nel pensiero di perpetuarsi
in una posterità, che continuasse il proprio culto gentilizio. Istituzioni
quindi, come l'adrogatio e come il testamento, sono acconcie e indispensabili
ad una organizzazione come la gentilizia, ma intanto cosi l'una che l'altra non
possono nella medesima servire come mezzo per soddisfare ad un affetto o ad una
predilezione capricciosa, ma dovevano avere l'unico scopo di provvedere alla
perpetuazione della famiglia e del suo culto. Questa coemptio fiduciaria, in
virtù della quale la donna passa in manu di una persona che non divenne marito
di lei, nell'intento solamente di farsi manomettere da lui per essere liberata
dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio. E questa coemptio, che fa dire
a CICERONE, pro Murena, che i tutori, anzichè essere i protettori delle donne,
si erano cambiati in un mezzo per liberarle da ogni tutela. Cfr. MUIRHEAD. Puo
sembrare poco logico, che io qui discorra, trattando della proprietà, anche
dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia,
ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa
che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui [Questo carattere è
incontrastabile per ciò, che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale e una
istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una
famiglia ed un culto, che sarebbero andati perduti per difetto di prole
maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa
sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba
giudicare dalle formalità, che sono poscia seguite dal patriziato nella
comunanza romana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge,
l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie)
conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi
nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul
ceppo sterile di un'altra si opera fra le famiglie della stessa gente, puo
forse bastare l'approvazione del consiglio della gente, ma se seguiva invece
fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, dove
certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. La cosa invece potrebbe
lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento, ma se si
considera, che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis,
cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto
analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo spirito
informatore del testamento in questo periodo gentilizio dove essere del tutto
analogo a quello, che ispira l'adrogatio. Il testamento per sua natura è tale
che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propria morte, l'impero
di una volontà arbitraria, così può anche es sere il mezzo per impedire, che si
avveri fra gli eredi quella ripartizione e quell'uguaglianza di parti, che può
essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo, che la
successione invalsa nel periodo gentilizio, secondo cui succedevano prima i
figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata
era bensi già intesa a conservare il patrimonio nella gente, ma intanto aveva
an cora due inconvenienti dal punto di vista gentilizio. L'uno di essi consiste
nel diritto, che i figli hanno di venire ad una ripartizione immediata
dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra, e in ciò ha
un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la
famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può
essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano.] vasi per
stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e
femmine, il che fa si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla
famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio. Queste
conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi
di famiglia, che mirano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a
perpetuarlo come tale nella famiglia. Si può quindi essere certi, che i capi di
famiglia, che si ispirano a questo concetto e che nel fare testamento dovevano
anche avere l'approvazione degl’anziani, che pure avevano la stessa tendenza,
non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla
famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per impedire la
pronta ripartizione del patrimonio, usando le antiche parole « ercto non cito »
– o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei
figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine, come quella, che
dove essere riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della
famiglia perpetuantesi nella linea maschile. Mone della famiglia e del suo
culto. Si può quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non
dovette certamente essere un mezzo per disporre liberamente e a capriccio delle
proprie cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario; ma dovette
servire alle medesime per conseguire quello scopo, che anche oggi si propongono
bene spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate,
allorchè, dettando il loro testamento, cercano d'accentrare la loro fortuna in
una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio
antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia.
Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo
convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie,
anche anteriormente alla formazione di Roma, già conoscevano una proprietà
privata, attribuita al capo di famiglia. Ciò pero non toglie, che quest'ultimo
fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle proprie cose per
atto tra vivi e per testamento, che trovasi invece riconosciuta senza alcun
confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo spirito dell'organizzazione
gentilizia si informava tutto all'intendimento di serbare integro il patrimonio
alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap prima e in mancanza di essa
alla gente. Come dunque potrà essersi operata presso un popolo, di spirito così
eminentemente conservatore, una trasformazione cosi radicale nel carattere
della proprietà da cambiare la medesima di proprietà gentilizia in quiritaria,
allorchè esso passò dal periodo gentilizio alla convivenza civile e politica?
Ecco il gravissimo problema, al quale non credo che siasi data ancora una
soddisfacente risposta, a causa del l'idea universalmente accolta sull'autorità
di Niebhur e di Mommsen, che lo stato romano siasi formato mediante la fusione
e l'incorporazione di varie genti e tribù. Secondo questi autori infatti, lo stato
costituendosi avrebbe in certo modo incorporato in sè la proprietà gentilizia,
cambiandola cosi in territorio nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto
di una parte di esso a favore dei singoli capi di famiglia, ritenendo il
restante come ager publicus. Fra gli autori, che trattarono largamente e di
recente il gravissimo tema, mi limito a citare De-Ruggero, come quegli che
riassume nettamente la opinione universalmente seguita. Egli, dopo di aver
premesso che prima della formazione dello stato esiste soltanto la proprietà
collettiva o gentilizia, la quale appartene alla gens e non alle singole
famiglie, viene alla conclusione seguente. Fondatosi quindi il comune e lo stato
con la unione di più genti, esso sarebbe divenuto, come la gente stessa nel
periodo della sua autonomia, proprietario del territorio generale di tutte le
genti romane, cioè, del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue
singole famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni (fundi), rimanendo
gli altri proprietà comune. Cosi anche lo stato lascia ai privati una parte del
territorio come proprietà (adsignatio romulea) e ritiene per sè un'altra parte
destinata a tutta la cittadinanza (ager publicus). Di fronte ad una teoria così
recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita, mi sia lecito
osservare, che anzitutto non è provato, che prima della formazione dello stato
non vi fosse che la proprietà gentilizia, e che la gente non lascia alle
famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni terreni. I vocaboli certamente
preesistenti di herus, heres, heredium, che senza alcun dubbio si applicano al
capo di famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già
preesiste fra [DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica
italiana. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute in “La
gens avanti la formazione del comune romano” (Napoli), e che stanno pure a base
del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa
Enciclopedia giuridica italiana.] le genti del Lazio; poichè se così non fosse
stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare
gli assegni fatti ai capi di famiglia, e gli assegni si sarebbero fatti alle
genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia, o meglio a ciascun
individuo, che segue Romolo nella sua intrapresa. Viha di più, ed è che,
tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del “mio” e del “tuo”
– il “nostro” -- presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata, non può
essere probabile che le gentes e le tribù, che potevano essere ed erano in
effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono
ancora ad esserlo dopo, si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado
la loro origine diversa, per starsi paghe “ai bina iugera”, assegnati da
Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del patriziato primitivo Ramnense
si riducesse soltanto ai II iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come
la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto
non consta, che siavi veramente alcun autore antico, che accenni a questa
specie di societas omnium bonorum, per cui si sarebbero messi in comune tutti
gl’agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo, in base ad un costume tradizionale
fra le genti latine, che dove già esistere prima e che e applicato anche più
tardi in occasione dell'impianto di colonie, divide Roma in parte fra i proprii
seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per il culto, ed un'altra
riservò a titolo di pascolo comune. Intanto pero le varie genti, che
parteciparono alla fondazione di Roma, dovettero continuare a tenere i proprii
agri gentilicii, come lo dimostra il fatto, che anche all'epoca di Servio
Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti
patrizie, che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime.
Vi ha di più, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il
regno stesso di Romolo, a favore del popolo romano, coi quali questo avrebbe
ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo marzio, che
avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni
queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella
propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii
gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati. Inoltre se Romolo,
come dicesi, avesse imitato [I testamenti, a cui qui si accenna, sono quelli
ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4, 6, e che egli attribuisce
l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino il sistema gentilizio, i capi di
famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro
assegnati, mentre la proprietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre
noi sappiamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà
quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di
cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del ritenere con
Mommsen, che Roma risulta dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e
tribù; poichè è naturale che con un tale sistema lo stato avrebbe dovuto
incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi
di famiglia. Solo sarebbe a spiegarsi come lo stato, creando esso la proprietà
famigliare e privata, l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata, senza
confini e senza alcuna sua ingerenza, quale appare essere stata la proprietà
quiritaria. Tutte queste incoerenze invece scompariscono quando si ritenga che
il comune romano non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma
intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non
distribui quindi ai privati altre terre. Quanto alla divisione dell'agro fra le
tre tribù, a cui accenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione
puramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del
territorio, che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della
stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria, ed anche
la famiglia, con cui essa appare strettamente congiunta, non possono essere che
quella proprietà e quella famiglia, che già esistevano nell'anteriore
organizzazione gentilizia, salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione
stessa, apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato
dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo stato certi campi siti presso
Roma, e da lei ereditati dal proprio marito; e l'altro alla vestale Gaia
Taracia, che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il
Tevere, che presero poscia il nome di campo marzio, dove si radunarono più
tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii. Ma
essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini
romani non hanno mai creduto che lo stato fosse il proprietario di tutto il
territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager
publicus privatus, nell'Enc. giur. it. Devo però dichiarare che questa
divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandissima per l'autore,
così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano.] biente in cui si
erano formate. La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai
singoli capi di famiglia, o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò
che essi entrarono nella comunanza non come membri delle genti ma nella loro
qualità di capi di famiglia, donde la conseguenza, che di fronte alla nuova
formazione della convivenza civile e politica, mediante una federazione fra le
varie tribù, più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di
famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente collettivo (ager publicus).
Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i
quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve
l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo
non entrano già i membri delle genti, come tali, ma soltanto i capi di famiglia
in quanto sono ad un tempo proprietarii di terre; il qual carattere del populus
viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a
cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in
proporzione del censo. Questo e non altro e il processo seguito nella
formazione di Roma, e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e
della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario. Per ora intanto,
prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero
svolgendo fin qui, cercherò di riassumere logicamente e sotto forma di ipotesi
quello svolgimento del l'istituto della proprietà, che più tardi appare
comprovato nell'ordine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed
avventurosi, appartenenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina – “nomen
latinum” -- si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua
guida abbandonino la loro residenza gentilizia, per recarsi a fondare uno
stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il
rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo
necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi
in esso, per essere in caso di difendersi dalle popolazioni vicine, le quali,
per appartenere forse a stirpi diverse, non possono vedere di buon occhio
quest'ospite novello e pericoloso. Quanto al suolo conquistato ed occupato, è
naturale che si cominci dal ripartirlo, secondo le regole tradizionali seguite
dai maggiori. Del suolo quindi sono fatte tre parti. Una è assegnata al loro
capo, al culto, ai publici edifizi. L’altra è divisa fra i singoli capi di
famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali potranno essere
ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia
continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo
abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case, con un cortile ed un
orto. La terza, infine, è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di
famiglia, che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un
corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico. Fin qui
però noi non abbiamo ancora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento
romuleo da essa fondato sul Palatino. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità
seguite con altre comunanze stanziate sui colli vicini, gl’uomini atti alle
armi e abili per consiglio di queste varie tribù, rappresentati dal proprio
capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi
di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza
civile e politica. È naturale allora, che il centro e la [Cfr. De RUGGERO, V °
Ager pub. priv., -- ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo
come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi
posteriori, puo naturalmente essere attribuita, nella ricostruzione che si fa
posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore
e al legislatore di questo. Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo
riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla
d'improbabile, in quanto che lascia anche le sue traccie nella centuria in
agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE. Non mipare che
siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione
di Roma, come è accaduta. Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris
non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus
conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso, che era
conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e
da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO,
vº Ager pub. priv. – “Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina
iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt.” Cfr.
NIEBHUR, Histoire romaine] fortezza dell'urbs si trasportino in un sito, a cui
possano avere facile accesso gl’abitanti delle varie comunanze, quale e il
sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la
comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È
pero a notarsi, che per eseguire un simile accordo, siccomei capidi famiglia
entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù,
così non e punto il caso, che si mettano in comune gli agri gentilizii e i
pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù sono prima ricche ed
agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii
servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò
che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa
comprende i pubblici edifizii, i templi consacrati al divino, che la protegge,
non che l'arx o fortezza, che serve per assicurare la comune difesa. Intanto,
di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita
civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di
terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'importanza giuridica,
politica e militare negli inizii di Roma, sono la proprietà e la famiglia
unificate sotto il proprio capo. Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa
mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e
che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga
soggiogandone le popolazioni e conquistandone il territorio. Allora e naturale che
questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi
considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager
privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia. Questo infatti
è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. Però, a misura che
si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da
sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che
cooperarono alla sua conquista, ne domandino la ripartizione almeno parziale.
Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico – “adsignationes viritanae” -- sono
fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di avere
quella pro prietà, che è riputata necessaria per partecipare alla comunanza; ma
poscia, di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager publicus, si
comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una
parte dell'ager, che è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli,
che partono per fondare una colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve
per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà, quel censo, quell'”ager
privatus censui censendo”, che è ritenuto necessario per far parte della vera
cittadinanza. Un'altra parte invece e venduta ai pubblici incanti (ager
quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un
corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà
ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di
quella ricca ed agiata, che possiede già il capitale per acquistarlo; ed il
secondo, quello cioè dato in affitto, finirà col tempo per dare origine a
quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre-vendite, dalle
quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine
dell'ager publicus puo ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere
sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori
nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia ritenuto opportuno di
mettere in vendita. Questa parte continua naturalmente ad appartenere all'ager
publicus e ancorchè immensamente ampliata colle conquiste corrisponde in certa
guisa ai pascua o compascua, che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si
comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del diritto che hanno
di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il
loro diritto di occupare questa terra in certo modo abbandonata e di spargere
in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla
loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale,
non essendo stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata,
ma costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per
qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e danno occasione di
[Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali
sappiamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che
primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti, e NIEBHUR, che loro dedica
un saggio che può vedersi nell' Histoire romaine. Ora poi sta preparando un
lavoro di lena sugli agrimensores Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono
contenute nel testo, sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli
agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui infatti io non mi
proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in
evidenza il processo, che i romani hanno ad applicare costantemente nella
distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste.] svolgersi
alla protezione pretoria, la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto
giuridico del possesso. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è
cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle
ripartizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e
capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sarebbero dal senato
autorizzati a farla, e quindi tra il patriziato antico, a cui si aggiunge col
tempo la nuova nobiltà plebea, e la plebe minuta viene ad esservi una
opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi
riparti per impedire le occupazioni e per limitare le occupazioni stesse, che
col tempo minacciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni
ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una
usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo
conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di
occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso. Di qui le lotte intorno
alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e
infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale
dell'epoca, allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero
insieme contro una plebe minuta, che già comincia a cambiarsi in una turba
forensis, e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as
suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le
distribuzioni di frumento. Con cio non intendo però di ammettere l'opinione di
Niebhur, di SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della
possessio coll'ager pubblicus. Io credo che la *possession*, come istituzione
di *fatto* più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la
medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei
dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela
giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones
nell'agro pubblico: cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero
di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più
tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in
quest'ordine di idee, aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius
già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager
publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius
ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur
». (Bruns, Fontes) -- la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager
publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce
dall'occupatorius. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi
eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie, alle città benemerite
del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie,
questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa,
traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema,
che si applica per la popolazione di Roma, il sistema cioè delle adsignationes
viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli
agrimensori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una
imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai
cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita, a cui il
senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un
corrispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura
comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una
città, non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di
delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione
si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi
strade, dell'acqua pendente, a quelle indicazioni insomma, che in un periodo
ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio, che dalla natura
stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così
quell'ager, che gli agrimensores chiamano “arcifinius”. Infine anche nelle
porzioni di agro pubblico, che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager
quaestorius, ager vectigalis), possono esservidelle parti, che, per essere
scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli,
e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a
quelli dati in af fitto « in modum compascuae », il che significa che essi, a
somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà
o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato
gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o di possessione
privata, con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e
il cui godimento possono dare occasione a questioni fra i giureconsulti per
vedere se, vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del
pascolo accessorio, anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o
nell'affittamento, sul che [Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus,
BRUNS, Fontes] giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti
dell'intenzione contraria dei contraenti. Pongasi infine, e anche quest'ultima
supposizione è stata una realtà, che la piccola tribù del Palatino, mutatasi
poi nella Roma dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora
conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo. Ma essa continua pur
sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa,
nella proprietà e nel possesso, nel territorio italico e nel suolo provinciale,
quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo
dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa
di Roma. Certo questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei
fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per
mettere ordine in una materia, che le minute indagini hanno tal volta resa
intricatissima, e danno anche un esempio sensibile del processo semplice, ma
sempre logico e coerente, che Roma ha ad applicare non solo nell'estendere il
concetto della sua proprietà a tutto il territorio da essa conquistato, ma
anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della sua legislazione al
mondo allora conosciuto. Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e
pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni diverse sanno
conseguire i grandi effetti. È questo un esempio di quella dialettica potente e
pressochè celata, che senza apparire negli scritti dei giureconsulti, i quali
sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle fattispecie, trovavasi
tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente del popolo da essi
rappresentato. Ci sono altre applicazioni di questo processo dialettico, che,
mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le
parti più disparate della giurisprudenza romana. [Higinus, 117. « In his igitur
agris quaedam loca, propter asperitatem aut sterilitatem, non invenerunt
emptores; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum
compascuae; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea
attingunt finibus suis ». Bruns, -- Frontinus poi, De controversiis agrorum,
soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuorum)
controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns -- È da
vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, “Dei pascoli
acces sorii a più fondi alienate”. Bologna. In una organizzazione come quella
che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla,
che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il
ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata, che potessero
meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a
questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo
di “legge” e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica.
Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva
delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa
natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione
originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altri popoli,
significa ormai l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle
singole volontà individuali. Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente
collettivo ed i singoli, fra lo stato organo ed interprete della volontà comune
e I membri che entrano a costituirlo. È quindi inutile cercare della legge, nel
senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo
compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale
pertanto non si può rinvenire la distinzione fra il tutto in sè e le parti, che
entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata.
Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale suppone di
necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste
norme non dovettero mancare nel periodo gentilizio. Anzi si può anche
aggiungere, che fra le varie forme di organizzazione sociale quella, che tende
più di qualsiasi altra a stringere in certe regole precise cosi i rapporti
domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia, la
quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità, finisce per trasmettere,
di generazione in generazione, non solo IL SANGUE e degli antenati, non solo il
patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle
tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse
nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto,
cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un
naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso,
per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una
significazione religiosa. È questa tendenza, cheha condotto tutte le comunanze
gentilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto
forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo produsse fra le altre genti
che appartengono alla medesima stirpe, quando fra esse non si fosse formato un
nuovo focolare di vita, che fu quello che brucia nel tempio di Vesta,
cambiatasi in patrona della città. Che anzi non dubiterei di affermare, che
quello stesso spirito conservatore, che appare in Roma primitiva, sopratutto
per parte del patriziato, non è che una trasformazione di questa tendenza
naturale delle comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie, quando
sono pervenute a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio
informatore di esse. Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e
a fare entrare ogni elemento in quadri precisi, determinati dal costume e
consacrati dalla religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita, i
cui elementi nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri
antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel
nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per
la conservazione di esso, come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno
scopo religioso e santo. È questo culto del passato, che contraddistingue le
genti italiche [È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva
per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città ha pur
essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta, la quale per tal modo di dea del
focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare di Roma.
Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al “locus
Vestae” hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino
presso il foro e fuori della Roma quadrata; il che serve a provare sempre più,
che la vera città, di cui dove essere centro il tempio di Vesta, non era già lo
stabilimento romuleo primitivo, ma bensì la città dei Quiriti, che risultò
dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di
Vesta dimora, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale, come
custode della città, dove pur trovarsi nel centro di essa. Cfr. LANGE, Histoire
intérieure de Rome, -- dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza
acuta e profondamente critica, appena hanno analizzate le proprie tradizioni,
rivestite anch'esse di carattere religioso, le abbellirono e trasformano colla
propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa
Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace
le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che
contenevasi in esse. Questo intanto è certo, che appena noi possiamo arrestare
lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi
furono argomento di storia, ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della
loro civiltà, che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi
riconosciamo immediatamente, che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono
celate in un remotissimo e misterioso passato, hanno già assunto un carattere
sacro e religioso. Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la
ellenica, ma eminentemente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le
emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia,
per modo che le genti italiche, sempre occupate dal divino, che sovraintendono
a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni
della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana
questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita; mentre
per i fatti di importanza maggiore per il gruppo, è la volontà del cielo, che
deve essere consul [Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, che
mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace
di chiudersi nella stretta veste delle formole legali, Roma invece possede una
delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad
applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli
alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare
il diritto ad un ideale sempre più elevato. Del resto il primo, che con occhio
veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei greci e dei romani,
è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. D'allora in
poi il paragone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come Mommsen,
LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata,
come MAINE, op. cit., Freeman, Comparative politics, London, Hearn, Arian
Household, London, IHERING, L'esprit du droit Romain. Per maggiori particolari
in proposito mirimetto al libro: La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale,. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche
prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a
dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche] tata.
Di qui quella osservazione antichissima del volo degl’uccelli, che è d'origine
latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio,
che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile
degli auspicia, che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una
consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo. Per attenersi tuttavia a quel
complesso di norme, che riflettono la vita, intesa questa distinzione in un
senso che possa applicarsi al periodo gentilizio, noi troviamo che anche in
questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a
racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con
vocaboli di significazione determinata, la cui semplicità primitiva sembra
indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli
di “mos”, di “fas” e di “jus”, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi
con una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del “mos” infatti
noi abbiamo una definizione conservataci da Festo. “Mos est institutum patrium,
id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.”
Qui è notabile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo,
per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure
l'esplicazione che viene dopo, la quale, restringendo in apparenza il contenuto
del vocabolo, indica in sostanza che la parte. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la
divination dans l'antiquité, e lo stesso autore, Institutions romaines. Questo
ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da
Servio, In Aen. “Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue
nuptias” e da CICERONE, De divin. “Nihil fere quondam maioris rei nisi
auspicato ne privato quidem gerebatur, quod etiam nunc nuptiarum auspices
declarant.” Per quello poi, che si riferisce agl’auspicia, alle varie loro
specie, alla procedura solenne, da cui erano accompagnati, ed alla
importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu
anch'essa un effetto della formazione di Roma, non ho che a riferirmi alla
trattazione magistrale di Mommsen, “Le droit pubblic romain”. Trad. Girard,
Paris] prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si
rifere alla religione ed alle cerimonie di essa. Questo carattere religioso non
ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di “fas”. Poichè il fas
delle genti italiche è paragonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei
Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da
ogni altro elemento estraneo, fini per significare quelle norme di carattere
esclusivamente religioso, che si riferiscono agli auspicia, al l'arte augurale
ed alle cerimonie del culto. Infine i più recenti investigatori del significato
primitivo del “ius”, quali Leist, Bréal,
al quale aderisce anche Muirhead, e diavviso, che il medesimo nelle proprie
origini avesse eziandio una significazione religiosa. Cosi Bréal ritiene, che
il “ious” antico dei latini, cambiatosi poscia in “ius”, sia perfettamente
conforme al iaus, che occorre nel più antico vocabolo, la cui significazione è
alquanto vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di « volontà,
potenza, protezione divina ». Questa primitiva signifi [Festo, vo Mos. È poi
notabile come lo stesso Festo, confermando il carattere religioso, comune
al mos ed al fas, definisca il ritus dicendolo un “mos comprobatus in
administrandis sacrificiis ». Bruns, Fontes, -- Festo, v° Themin, scrive. “Themin
deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse
existimabant, quod et fas est.” Bruns, Fontes. Lo stesso concetto ha ad
esprimere Ausonio, Edyl.: “Prima deum Fas Quae Themis est Graiis.” Per altri
passi è da vedersi Voigt, Die XII Tafeln. È poi degno di nota, che nelle
formole antiche occorre sovente la frase “secundum ius fasque”, la quale indica
in certo modo il bisogno di dare al diritto anche l'appoggio del fas. BRÉAL
tratta la questione in “Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en
latin” nella “Nouvelle revue historique de droit Français et étranger” -- la
cui conclusione è la seguente: “Le droit, qu'on a appelé la création la plus
originale du génie latin, et qui a l'air de sortir tout d'une pièce de la tête
des décemvirs a ses origines dans le passé le plus lointain. Il est inséparable
des premières idées religieuses de la race. Questo è pure il concetto di LEIST,
Graec. Ital. R. G., MUIRHEAD, Hist. Introd., segue l'opinione del Bréal. Parmi
però, che questa etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella
dalla radice s < iu, che significa stringere, legare, unire, la quale
indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae.
Questo è certo, ad ogni modo, come nota Bréal, che le parole mos, fas e ius
debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da
altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. cazione del vocabolo spiega
poi come tanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro alla “lex”,
sebbene questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ritenessero la
legge come un dono del divino; come pure spiega quel sentimento, le cui traccie
occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in
dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente. Intanto
questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi
neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui
furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale
essidebbono perciò considerarsi come specificazioni ed aspetti diversi. Questo
concetto, secondo Müller ed anche secondo Leist, sarebbe stato dagli antichi arii
significato col vocabolo di rita, il quale esprime ora l'ordine che regge
l'universo, col suo alternarsi del giorno e della notte, ed ora l'ordine stesso
della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il disparire degli
esseri viventi. A questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i
concetti del “ritus”, del “ratum” e della “ratio” dei latini, ed anche quello,
che essi indicano coll'espressione di “rerum natura”, per guisa che anche il
concetto di “ius naturale” nel senso che ha ad essergli attribuito da Ulpiano
di un “ius quod natura omnia animalia docuit” puo rannodarsi a questi primitivi
concetti. Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o
di ratio la sapienza antichissima degl’arii associa altri con sarebbero quelli
di fari, iubere, iustitia, iudes, iurgium, iniuria e simili. Una trattazione
poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una
larghissima erudizione, occorre in Voigt, Die XII Tafeln. Leist. Ciò
confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin.: “palam est autem
vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit:
civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus
creari,et leges scribi caeperunt.” Questo è certo poi, che a questo diritto
naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i filosofi latini.
Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Conviene quindi indurne che il concetto di
un diritto della natura comincia in certo modo ad essere sentito
dall'universale coscienza, e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una
elaborazione filosofica. In proposito la classica opera del Voigt, “Das ius
naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer”, Leipzig] -cetti, che sono
espressi coi vocaboli di orata, a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini,
due vocaboli che sovente procedono uniti: di dhāma, che egli dice analogo alla
Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos
dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma
già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex,
il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi. Parmi tuttavia che la parentela
ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata, quando
si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di
ratio, si associano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi
inferirne con fondamento, che il ratum, da cui derivò poi ratio, significava
l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il
mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola
religiosa, significano i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o
volontà operosa, che muove e regge l'universo. Il fas quindisarebbe la stessa
volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è
interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi
dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto
intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti
italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del « do ut des ». Il
mos significa la stessa volontà divina, ma non più in [ Leist. Questo scindersi
dal concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio “Fas et iura sinunt” che
Servio commenta con dire – “id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad
religionem fas, ad homines iura pertinent.” In Aen. (Bruns, Fontes). La parentela poi fra i
vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata da Leist con una quantità di passi da
lui citati nella Graec. It. R. G. Ciò appare da tutte le formole primitive, che
si indirizzavano agli dei di una città nemica, per ottenere che i medesimi
abbandonassero la città stessa. V. HUSCHKE, Iurisp. anteiust. quae supersunt,
Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, che il culto
romano e una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones >
che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani
il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che
necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile,
se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume – “rite”.
Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi romani l'idea secondo la
quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni
argomento scorgono una specie di contratto.] quanto si rivela con segni, la cui
interpretazione è lasciata al sacerdote. Ma bensì in quanto si palesa in quella
tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla
consuetudine. Infine il “ius” è sempre questa stessa volontà divina, ma in
quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che
appartengono alla comunanza, nell'intento di provvedere alle esigenze della
medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse; ma
siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro,
così è molto difficile il precisare la significazione di ciascuna, sopratutto
nel periodo gentilizio, allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà
divina era l'autorità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. È
poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si
presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò,
che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con
quello di “usus.” Ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per
lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità sopra
la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova, che queste nozioni
doveno elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti
dall'Oriente sul suolo italico, ove hanno poiservito per l'educazione di
stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà. Sebbene qui non
possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi
venuti formando, non è tuttavia inopportuno di avvertire, che, nelle origini,
il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere
il “mos”, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno
delle comunanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si
trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e
religioso. È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una
distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione
religiosa, e l'altra una sanzione giuridica, mentre una parte continua sempre
ad avere un carattere puramen temorale e costituisce ciò che le genti latine
chiamano “i boni mores”. Intanto egli è certo, che le genti italiche si
presentano con questi varii concetti, già compiutamente formati, e che fra essi
ha già acquistata una incontestabile prevalenza quello del fas. E il fas, che
primo ha a ricevere elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e
pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la volontà divina,
di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la protezione del fas,
che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso
che più tardi sarà sul modello del ius pontificium, che verrà a formarsi il ius
civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per
porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza, siasi
sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole,
che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale.
Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che
costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti italiche, ci
preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne
svolgendosi ciascuno di essi. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche,
più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di
Themis, Nemesis, Adrasteia. Esso è l'espressione della volontà divina, in
quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo
irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni.
Nel fas pertanto non è solo compresa una parte, che si riferisce ai riti e alle
cerimonie del culto, ma una parte eziandio, che contiene delle norme che
riguardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per il divino non è
propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche
sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie
genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in
comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui
debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che
sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un
carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospitium), che ha un così
largo sviluppo presso le genti primitive, e che poi ricompare, come hospitium
publicum, dopo la formazione [Per una più larga prova di questa analogia, vedi
CARLE, La vita del di ritto, cogli autori ivi citati] della città, come pure è
il fas che consacra le obligazioni, che intercedono fra il patrono ed il
cliente. È esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze
incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti al divino, e alle
promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno
straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i
membri della famiglia, quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie
tribù; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti
fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicurarne l'adempimento
non trova altro mezzo, che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas,
che esercita tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto
ispiratore delle cosi dette leges sacratae. Chi poimanchi a questo complesso di
norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende
gli uomini reca pure offesa al divino, e quindi deve espiare il proprio fallo, mediante
certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium
e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo
studio di esso; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi
anche fare, allorchè altri cade in fallo per semplice imprudenza (imprudens).
Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota, a cui rimontino le
tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che
abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo, dolo sciens, prudens), e
quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si
avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare
l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il
diritto quiritario dove fare un passo in dietro, come quello che dove
applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo. Che
se il fallo sia tale [Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi Lange, De
sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae -- Sono
poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora
sanzione giuridica, si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò
serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico,
appare dal diligente lavoro di Bertolini, Il giuramento nel diritto privato
romano. Roma. Cio è dimostrato dal fatto, che la distinzione fra l'omicidio
commesso di proposito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges
regiae attribuite da non potersi espiare in questa guisa, in allora il reo viene
assoggettato ad una specie di espiazione sacrale, la cui forma tipica consiste
nella capitis sacratio. Questa dove essere pena gravissima durante il periodo
gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto ad una
specie di scomunica religiosa e domestica, che lo stacca dal gruppo gentilizio,
di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori della legge, per guisa che
sebbene il sacrifizio della sua vita non potesse essere accetto al divino, esso
puo pero essere ucciso impunemente da chicchesia. Di qui il carattere di
espiazione sacrale, che informa ancora tutto il diritto penale di Roma, durante
il periodo patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio, supplicium,
di consecratio bonorum, di interdictio aqua et igni, i quali confermano
l'osservazione di Voigt, secondo la quale le genti patrizie avrebbero ravvisato
nei delitti più un'offesa al divino che non agl’uomini, a differenza delle
plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno materiale. Non potrei
quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali, supponendo le genti italiche in
una condizione del tutto primitiva e come nella loro infanzia, mentre sotto un
certo aspetto sono già nella loro età matura, vogliono ad ogni costo trovare
nel diritto penale le traccie della vendetta. Se cio intendasi nel senso che
erano i singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del
proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza
di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso.
Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero
spesseggiare una reazione violente e una vendetta, cio più non può conciliarsi
col rattere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a
Numa. V. Bruns, Fontes. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente in ciò,
che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres iurisconsulti. Che
anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola, i fatti commessi
contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla piacularis hostia,
quando fossero compiuti per imprudenza; mentre non ammettevano espiazione,
quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal seguente passo tolto da
VARRONE, De ling. lat. Praetor, qui diebus fastis tria verba fatus est, si
imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat
eum expiari non posse.” Altri esempi occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust.
quae sup., Voigt, XII Tafeln] religione e dal costume. Non potrebbe certo
affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in
cui dovette dominare la forza, la vendetta e la violenza. Ma l'organizzazione
patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per uscire da
tale condizione di cosa. Quindi, se si deve giudicare dal diritto primitivo di
Roma patrizia, sarebbero così poche le traccie, che rimangono in esso della
vendetta, nel senso che suole attribuirsi a questo vocabolo, da doverne
inferire che nel periodo gentilizio la religione, compenetratasi in ogni atto
della vita, ne aveva già cacciata la vendetta ed aveva esclusa perfino la
composizione a danaro, almeno nella cerchia delle genti patrizie. Che se il
padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e la figlia adultera e
contro l'adultero (sorpresi in flagrante), o contro il ladro, egli lo fa più
come giudice e come investito di un carattere sacerdotale, che non come uomo,
che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta. La religione già
incatena le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe, che ancora si
trovano le traccie della vendetta e della composizione a danaro, le quali poi
ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale, come quella che
era comune ad entrambe le classi. Fra gli autori, che cercano di dare una larga
parte alla vendetta nel diritto romano, havvi il MUIRHEAD, Hist.introd. Egli
argomenta da ciò, che colui il quale commetteva un omicidio per imprudenza dove
fare l'offerta di un ariete agli agnati dell'ucciso. Da ciò che il vendicare la
morte di un congiunto ucciso e un dovere per i superstiti per acquetare i mani
di lui. Dal diritto del padre e del marito di uccidere la figlia o la moglie
sorprese in adulterio unitamente all'adultero. Dal taglione, le cui traccie
ancora rimangono nella legislazione decemvirale, e perfino dal diritto del
creditore di chiudere nel carcere il debitore, chemancasse ai proprii impegni.
Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la preponderanza
dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il diritto
decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso la
quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il
taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain.
Trad. Meulenaere. Paris, -- ove discorre della giustizia privata e delle forme,
con cui essa e esercitata. Finchè quindi si dice, che sono i singoli capi di
famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal pubblico potere,
perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto, di cui furono
vittima, si afferma una verità indiscutibile. Ma ciò non deve più confondersi
coll'esercizio sregolato di una vendetta, che non prende norma che dalla
violenza della passione, dal momento che la religione e la consuetudine già
hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere
soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che l'organizzazione
gentilizia ha appunto per iscopo di porre termine alla pri vata violenza fra
coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù.Accanto però a queste
regole dell'umana condotta, che già sono munite di sanzione religiosa, sonvene
delle altre che, appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi
esprimerci, una morale. Esse vengono indicate col vocabolo di “mos patrius”, di
“mores maiorum”, di “boni mores”, e costituiscono un complesso di norme
direttive della condotta, le cui traccio si trovano più tardi ancora nel
iudicium de moribus, at tribuito al Praetor, e sopratutto nel “regimen morum”,
affidato alla custodia dei censori. Anche questi “mores maiorum” si sono venuti
formando durante il periodo gentilizio, nella cerchia sopratutto delle familia
e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la
reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento
della fides, anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione
giuridica e che fossero fatte anche ad uno straniero. Sono questi boni mores,
che da una parte conteneno in certi confini il potere delle varie autorità, le
quali, giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine; e che dal
l'altra colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della
comunanza coloro, che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di
sanzione giuridica. Così, ad esempio, furono i boni mores, che ancora molto più
tardi condussero l'opinione pubblica dei cittadini Romani a condannare al
disprezzo quei prigionieri d’Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione
del ritorno, credettero di liberarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di
ritornare immediatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro
[Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro, allorchè scrive – “Etiam
hosti est aequus, qui habet in consilio fidem.” Del resto sono diversissime le
guise, con cui i filosofi esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle
promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis, del
foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione, il concetto
della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che immutabile
sanctis Pondus inest verbis; concetto che trova poi la sua espressione
giuridica nell' “uti lingua nuncupassit, ita ius esto.” Così pure nell'Andria
di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un
vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole – “coactus tua voluntate
es” -- concetto che trova pur esso forma nell'assioma giuridico, “Quae ab
initio sunt voluntatis ex post facto fiunt necessitates.” Per altri esempi può
vedersi HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires] promessa. Del resto è sempre
questo concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della
classica giurisprudenza, nella compagine soverchiamente rigida del diritto
civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che
talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai
sempre l'existimatio anche sulla capacità di diritto, e l'introduzione
dell'infamia, della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una
configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui
sia incorsa una determinata persona. Al qual proposito non e inopportuno di
osservare, che quella separazione fra l'elemento esclusivamente GIURIDICO ed il
meramente morale, che tarda così lungamente ad operarsi nella scienza,
presentasi invece con una meravigliosa nettezza nel diritto di Roma, il quale,
dopo essersi separato dal fas e dai boni mores, continua logicamente la propria
via, e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana
(“dura lex, sed lex”), che solo più tardi e temperato nella classica
giurisprudenza, la quale di nuovo richiama in esso quell'alito morale, da cui
almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto. Intanto, per ciò
che si riferisce ai boni mores, non è più la religione, che si incarica di
punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano
sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli
antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degl’anziani nella
gente ed il magister pagi nella tribù, che sovraintendono almantenimento di
questa morale. Mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna
al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni
ignominiose, o abbiano mancato alla fede promessa, o abusato del potere loro
spettante, o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che, senza senza
essere colpite [Cfr. Muirhead, Hist. Introd. Basta leggere le commedie di
Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la
significazione larghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse
altamente sentita l'importanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di
queste, quando quelli cominciavano a venir meno. Ciò verrà ad essere largamente
provato nel ius Quiritium, dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si
riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini.] dalla
sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disapprovazione generale.
Se il modo in cui formasi questa generale opinione e l'influenza, che essa
esercita, male possono scorgersi ancora a Roma, in cui già scomparve ogni
traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente
compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti
si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove
le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputazione dei figli. Se ora si
vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio, apparisce fino
all'evidenza, che e soltanto, collocandosi in un posto intermedio, fra il fas
da una parte ed i boni mores dall'altra, che puo riuscire e farsi strada quel
ius, che dove poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della
comunanza civile e politica. Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di
agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per
acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi
in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos
propriamente detto, ma a quella formazione giuridica, che viene poi ad essere
indicata col vocabolo efficacissimo di “consuetudo”, il quale in certo modo
contiene in sè la propria deffinizione. Colui che manca a queste regole non
offende solo il divino e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad
obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appartiene e si sottrae
cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali
viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in
seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere
evidente sopratutto l'offesa [Servius, In Aen. -- VARRO valt morem esse
communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus *consuetudinem*
facit ». Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere meramente
MORALE, in *consuetudine*, che ha carattere strittamente GIURIDICO, è indicato
anche da molti passi dei giureconsulti, che possono trovarsi raccolti
nell'Heumann, “Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts”. Jena, Va Mos e
Consuetudo] alla comunanza, a cui altri appartiene e il danno che vengono a
soffrirne gli altri membri della comunanza. Di qui la conseguenza, che comincia
già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, come una specie di
selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono
sceverando alcuni, che assumono il carattere *giuridico* propriamente detto.
Naturalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre,
fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche,
religiose e civili ad un tempo. Ma intanto già comincia ad avvertirsi il
carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli
puramente morali e religiosi, per ottenere l'adempimento dei quali non può più
bastare una sanzione meramente religiosa, né la disistima generale, ma vuolsi
una specie di sanzione co-attiva da parte della intiera comunanza e
dell'autorità che la governa. Al modo stesso, che già fra le genti e le tribù
si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei
conciliabula, quei fora, che sono il primo nucleo, intorno a cui verrà poi a svolgersi
l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una convivenza, i cui precetti
hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già cominciano a
presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico. Che anzi,
per continuare nello stesso paragone, al modo stesso che Roma, limitata
dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi ad essere
il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e viene
infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private, e a
sottrarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di
carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche [Questo
concetto, per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo, ma reca un
danno alla intiera comunanza, che ora noi diremmo danno sociale, è un concetto
profondamente sentito dai romani, il quale ha ad essere variamente espresso dai
filosfi latini. Basti riportare dall'Henriot questi versi di Pubblio Siro:
Multis minatur, qui uni facit iniuria: Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus;
Omne ius supra omnem iniuriam positum est. O quello di Orazio: « nam tua res
agitur, paries quum proximus ardet ». Come pure le frequenti scene di Plauto e
di TERENZIO, in cui una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio
e chiede aiuto con formole, che hanno una precisione giuridica: “Obsecro vos,
populares, ferte misero atque innocenti auxilium. Ovvero: Obsecro vestram fidem,
subvenite cives ».] questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii
abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul
fas, viene col tempo accrescendosi sempre più, e richiamando a se una quantità
di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non hanno che un carattere
religioso o MORALE. Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a
spese degl’elementi, da cui si è staccato. Quando poi sentesi forte abbastanza
per procedere per proprio conto, afferma senz'altro la propria indipendenza, e
assume, per opera dei romani, un processo tutto speciale nel proprio
svolgimento, che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche
tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricava il suo
primitivo nutrimento. Quel carattere pertanto di rigidezza, che suole
condannarsi nel diritto dei Quiriti, è la miglior prova della sua potenza ed
energia; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto a tale da
potersi svolgere senza più tener conto della considerazione MORALE o religiose --
al modo stesso che Roma, teatro del suo svolgimento, ormai e pervenuta a tale
da cercare ancor essa di spogliarsi di ogni traccia della influenza gentilizia
e patriarcale. Questo è poi degno di nota, che anche quando il ius viene ad
affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a svolgersi sotto
due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi.
Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di imitare la
solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito della
forma di “lex.” Quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato, dà una forma
solenne ed espressa alla propria volontà – “iubet atque constituit” -- creando
cosi il “ius legibus introductum”. Intanto si mantiene sempre un altro aspetto
del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella formazione
lenta delle proprie consuetudini, che i romani considerano come il frutto di
una tacita civium conventio – “ius moribus constitutum”. Ad ognimodo però il
ius, prenda esso il carattere di una *regola*, che il popolo pone a sè stesso,
o di una norma, che formisi tacitamente nel costume, è pur sempre il frutto di
un accordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere considerato come
l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli
individui. Finchè esso è in via di formazione può essere argomento di
discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del popolo, che
chiamansi contiones; ma allorchè la legge viene ad essere posta e costituita
con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox populi viene ad
essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti coloro, che
cooperarono a formarla, non eccettuati quelli che erano di avviso contrario. Vi
ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben presto un altro,
per cui distinguesi una parte del diritto, che si riferisce all'interesse
generale della comunanza, e chiamasi ius publicum; e una parte invece, che si
riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli individui, che
entrano a costituirla, e chiamasi ius privatum. Il primo si forma sulla piazza
e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi, lascia le sue
traccie nella storia politica di Roma, e si esplica mediante gli accordi e le
transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe. L’altro viene elaborandosi
pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e trova i suoi
interpreti nei pontefici e nei giureconsulti. Intanto però l'uno e l'altro sono
in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il
di ritto pubblico è in certo modo il palladio, sotto la cui protezione può
nascere e svolgersi il diritto private. Insomma al modo stesso, che l'urbs e il
frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle
abitazioni pri vate gl’edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi
della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti
gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere alla
difesa ed all'interesse comune; cosi anche la formazione del diritto e
attribuita ad una specie di elaborazione, che venne operandosi nella coscienza
generale di un popolo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a
costituirlo, [È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e
privato, Savigny, Sistema del diritto privato romano, trad. Scialoia. Sopratutto
importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano,
sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto – “duae positions” -- e non
deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricava dallo spirito del
diritto romano, secondo cui “ius privatum sub tutela iuris publici latet”, De
augm. scient., de iust. univ. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi
nel campo del diritto, è da consultarsi Voigt, Die XII Tafeln, come pure lo
stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig] mediante cui da tutti
gli elementi morali e religiosi, che già si erano formati durante il periodo
gentilizio, si vennero sceverando tutti quelli, che potevano ritenersi
indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. Roma insomma
che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre
ingrandendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a
costituirla, deve essere considerata come il crogiuolo, in cui si gettarono
indistintamente tutti gl’elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed
isolarne quella parte, che ha un carattere essenzialmente giuridico, politico e
militare. E questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo
mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si
presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in
certo modo compiendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande
verità il filosofo coll'esclamare: Fuit sapientia quondam Publica privatis
secernere sacra profanes. Poichè tale veramente e il compito delle città
primitive e quello sopratutto di Roma. Il nucleo di questi precetti, di
carattere esclusivamente giuri dico, e dapprima assai scarso, e si ridusse a
quel poco che Roma, ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad
un'organizzazione come la gentilizia, che ancora aveva tutta la sua vitalità ed
energia. Poscia però col crescere di Roma, coll'estendersi delle sue mura, col
fondersi insieme degli elemeuti, che entrano a costituirla, coll'in corporarsi
di nuovi elementi nel populus, quel ius, che prima ha solo una posizione
subordinata, si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata,
ed e riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. E
allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio, che gli e affidato,
si riaccosta di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico, da cui
aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non
riconosce più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica – “iuris
ratio”. Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo [Orazio,
Ars poetica] le proprie istituzioni dal passato, ci fa però assistere alla
formazione lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze
della convivenza civile e politica, e differenziandosi sotto molteplici
aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il
suo processo, ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso, in quanto che
è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che
venne svolgendosi “rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente.” Che questo
sia stato veramente il processo, con cui si esplica il diritto in Roma, risulta
poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non
occorre altra dimostrazione. Bensi importa, ed è assai più difficile
determinare, quali siano i rapporti, che primi hanno ad assumere un carattere
giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presenta questo
primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura
domestiche e nel seno della famiglia la religione comune, la riverenza verso il
proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza
confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di
parenti, da cui egli è circondato, creano un'organizzazione di tale natura, che
può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ricorrere al
diritto propriamente detto. Che anzi, se il diritto cerca di penetrare nelle
mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una
violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità,
come lo dimostra ancora il padre di Orazio, uccisore della sorella, allorchè
osserva che, se il proprio figlio non ha a ragione uccisa la sorella – “iure
caesam” -- e toccato a lui di provvedere. Se quindi la moglie, i figli, gli
schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e consacrati dalla
religione, e il padre stesso, che e vindice dei loro [Liv., Hist., I, 24. Di
qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'opinione di coloro, i
quali vorrebbero senz'altro attribuire al re, come primo magistrato di Roma, la
giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. CLARK, Early roman law. Deve
invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD, Histor. che la giurisdizione
criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla
giurisdizione dei capi di famiglia, e a quella che apparteneva alle singole
genti, quanto ai delitti, che erano commessi da membri, che entravano a
costituirle.] falli, salvo che in certi casi di maggior gravità, come quando
trattisi della moglie adultera, non stata sorpresa in flagrante, egli dove circondarsi
del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso.
Allorchè poi l'azione, che reca danno altrui, sia stata compiuta da un altro
capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, e fra i due
capi di famiglia, che la questione e risolta, e se quest'ultimo non intenda di
riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non ha nulla di ripugnante al
modo di pensare dell'epoca, che egli consegni la persona, che ha recato il
danno, al capo di famiglia, che ha a soffrirlo, mediante l'antichissimo
istituto delle noxae deditio. Cosi pure [È noto a questo proposito come nel diritto,
distinguasi fra “noxia” e “noxa”, per cui mentre il vocabolo “noxia” significa
il danno, veniva anche dai filosofi adoperato per significare la colpa, mentre
il vocabolo “noxa” si adopera per significare il peccato, il delitto, ed anche
la pena di esso -- donde la espres sione di noxae deditio, la quale trova poi
una larga applicazione, tanto nei rapporti fra i capi di famiglia, quanto
eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù nel “ius pacis ac belli” nel
periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes). Intanto dalla estesa
comprensività del vocabolo di “noxa” o di “nocia”, nella sua significazione
primitiva, parmi di poter inferire con fondamento, che nelle origini uno stesso
vocabolo significa ad un tempo la colpa, che cagionava il danno, e il danno,
che deriva da essa, e che non dove esservi distinzione fra colpa e danno di
carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dove
distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrattuale od aquiliana. I
concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto romano, ed è solo
col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che
costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto
fondamentale. Un altro carattere del diritto si è anche questo, che esso prende
di regola le mosse da un vocabolo di significazione materiale, e poi gli
attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata o figurate.
Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo “rupere”, che significa il rompere
materialmente un membro, od altra cosa; ma fu poscia recato ad una significazione
traslata, attestataci da Festo, per cui rupere significa damnum dare, al modo
stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni maniera di
danno. È uno dei processi più consueti nel diritto di Roma, quello per cui una
volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a
tutte le configurazioni affini. Come si estese il parricidium ad ogni uccisione
di un uomo libero. Così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il
danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passa poi ad
indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dottissimo lavoro del collega
G. P. Cuironi, “La colpa nel diritto civile” (Torino). Di quest'opera credo di
poter dire, senza offendere la modestia dell'amico, che servirà a rimettere in
onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la] gli è tenendo conto
della posizione rispettiva, in cui in questo periodo si trovano due capi di
famiglia, che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure,
che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare
un esempio, quella del “furtum lance lincioque conceptum”, in cui abbiamo un
capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di
entrare nella casa del vicino, in cui teme sia stata nascosta; ma cio a
condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa, in
cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano
(lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio), che gli
impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa
perquisizione domiciliare dove per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al
cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di
derubato vi era stato nascosto. Del resto in questa condi grandezza della
giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una
configurazione giuridica, la medesima non deve più essere perduta di vista
nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle
vicissitudini delle legislazioni e della giurisprudenza, ma deve sempre essere
richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale.
L'autore tratta dei concetti di “rupere”, di “rupitias”, di culpa della lex
Aquilia.] Esmein in “La poursuite du vol et le serment purgatoire”, trova le
traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi per il “furtum lance
lincioque conceptum”, anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele,
che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le
coperte del cammello, sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato
da MACROBIO, Saturnalia, I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a
cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa, perchè avendo rubata una scrofa
uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva
giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di
quella. Ciò dimostra come questa procedura siasi naturalmente formata presso
popoli diversi. Ma non posso convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui
nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle forme
esteriori della procedura. Poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi
abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a
quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa (Esmein,
Mélanges d'histoire de droit, Paris). L'autore poi, il quale avvertì che il
piatto, tenuto fra mani da colui, che ricerca la cosa derubata nel “furtum
lance lincioque conceptum”, ricorda in certo modo la libazione propiziatoria ai
lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è
Leist, Graec. Ital. R. G. Sul “furtum lancie lincioque conceptum” è da vedersi il
saggio di Gulli, “Del furtum conceptum secondo la legge delle XII Tavole.
Bologna] zione di cose, mancando ancora un'autorità, che siasi fatta ella
stessa investigatrice e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato
che prosegue il ladro, il marito offeso che tenga dietro all'adultero e
sorpreso l'uccida, e si richiederà ancora lungo tempo prima che, in Roma, l'autorità
pubblica si incarichi direttamente della punizione di questi e di altri
misfatti. Che se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso, e
anche naturale, che impegnisi una lotta fra le due famiglie, e che associandosi
alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il DUELLO mutisi talvolta in
un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse
entrano a far parte. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che
entrano a costituire la gente, quali sono i rapporti fra il patrono ed il
cliente, ed anche i doveri della ospitalità, poichè essi cadono sotto la
protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite mediante la pubblica
disistima, e coll'intervento dell'autorità patriarcale e del consiglio degl’anziani,
custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già
vengono ad esservi diversi capi di famiglia, che hanno una propria familia, un
proprio “heredium”, un proprio “peculium”. Cosi comprendesi come nel “vicus”
già puo sorgere delle controversie di carattere GIURIDICO fra i diversi padri.
Controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo
stesso di parentela, che intercede fra le famiglie che appartengono alla
medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di
qualche anziano, che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad
un amichevole componimento. Il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo
per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende
possibile il commercium, manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare
giustizia. Infatti, il carattere esclusivamente patriarcale dei rapporti, che
intercedono fra i membri di essa, rendono [Ciò accade sopratutto, quanto
all'adulterio, che comincia a formare oggetto di un “iudicium publicum” solo
colla legge Iulia, De adulteriis, che e una di quelle con cui Ottaviano cerca,
ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. [In proposito
l'interessante articolo dell'Esmein, “Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia,
De adulteriis” – “Mélanges d'histoire de droit”. Quanto al vicus e al difetto,
che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi giustizia] ripugnante
l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra
i padri o capi di famiglia, che discendono dal medesimo antenato e hanno per
mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. Nella tribù
invece, già si trovano di fronte capi di famiglia, che appartengono a genti diverse
e che più non discendono dal medesimo antenato, nè partecipano allo stesso
culto gentilizio. Quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere in
qualche modo all'amministrazione della giustizia, più non essendovi un'autorità
di carattere esclusivamente patriarcale, che possa imporsi ai capi di famiglia,
che sono di discendenza e d'origine diversa. Dovette quindi probabilmente
essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della giustizia, che
suggere l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus –
“magister pagi” -- , la cui primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi
di “iudex” e di “praetor”, ed anche da quello di “tribunal” (derivato
certamente da “tribus”), che significa dapprima il seggio, più elevato sovra
cui collocavasi quegli che e chiamato ad amministrare giustizia, e indica così
anche esteriormente la posizione cospicua, in cui egli trovavasi di fronte agli
altri membri della comunanza. Queste controversie intanto non puo naturalmente
sorgere che fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro
tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto, perchè
sia necessario che intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga.
Ma hanno piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle
proprie ragioni e di conoscere il processo, che deve seguire per ottenere
giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza. È questo il motivo, per
cui presso tutti i popoli la prima forma che giunse ad assumere il diritto e
quella dell' “actio”, che è il complesso degli atti e dei riti solenni, che si
debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrate. Atti
e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi gesti e
coi riti. La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso il
magistrato, perchè – “sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit
animus prudens” -- trovasi soventi accennata dai filosofi latini, come indizio
della dignità, a cui era assunto colui, che e chiamato ad amministrare
giustizia. V. Henriot, “Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome”).]
giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per
contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cui dovette passare
l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e
riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia.
Che se si volesse spingere anche più oltre questa ri-costruzione logica e
concettuale del diritto romano, che ha a svolgersi nel seno della tribù,
potrebbe affermarsi con certezza, che le due prime figure di rei, contro cui la
giustizia umana associa i proprii sforzi colla giustizia divina e colla
esecrazione della generale opinione, dove essere quella del parricidas e del
perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia, che per
il carattere patriarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre
rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a
chiamarsi col nome di fratelli, che è il grande misfatto contro la legge umana
e divina, il quale puo mettere in lotta le famiglie fra di loro, ed anche
rimanere impunito, quando l'autorità comune non si mette in movimento contro di
esso. Nè ripugna al carattere della comunanza patriarcale, che la punizione del
parricida acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse
accompagnata da certe pratiche, che possono anche avere un significato
simbolico, e che potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono
quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione del parricida; pratiche tradizionali,
che anche oggi in parte sopravvivono e non possono dirsi compiutamente
abbandonate anche presso le nazioni civili. Così pure dovette essere un
processo del tutto natu [Questa circostanza, che tutti i membri della comunanza
patriarcale si chiamano fratelli, è attestata dal Sumner MAINE, “The early
history of institutions”, e qualche cosa di analogo dovette accadere ancora
nella tribù italica, ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia sono
generalmente indicati col vocabolo di patres; poichè di questo stato di cose
rimasero ancora le traccie in Roma. È nota la punizione tradizionale contro il
parricida, ricordata ancora nel Digesto: “Poena parricidii more maiorum haec
instituta est, ut parricida, virgis sanguineis verberatus, deinde culleo
insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia; deinde in mare
profundum culleus iactatur ». Qui il giure-consulto lascia travedere, che la
pena del parricidio e conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale –
“mos maiorum”. Essa pertanto dopo essersi mantenuta nel costume più che nella
legge, contro i parricidi in senso stretto, ha poi ad essere sanzionata dalla
lex POMPEIA, De parricidiis] rale, che condusse l'opinione generale di una
comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che getta la
perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di
essa. Cosicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso, che davano al
nemico, con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di “perduellis”.
Cio intanto darebbe una spiegazione molto probabile e naturale del fatto, che fa
meravigliare gli stessi romani, per cui Romolo, prima e Numa, dopo chiamare col
nome di “parricidas” anche l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per
cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in
Roma avrebbero assunto il nome di “quaestores parricidii” e di “duumviri
perduellionis”. Anche qui la legislazione di Roma comincia dal riconoscere come
pubblici reati quelli, che già hanno cominciato ad assumere questo carattere
nello stesso periodo gentilizio, e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man
mano quelli la cui repressione appare necessaria. Vi ha di più, ed è che nella
tribù già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che
sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri
dell'organizzazione gentilizia, ma già cominciano ad es sere indipendenti dal
patriziato, sebbene ancora si trovino in condizione assai inferiore e non
abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a
questa condizione parmi non sia temeraria la congettura, che mi permetto di
avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non
dovette soltanto cominciarsi lo svolgimento dell'elemento giuridico, ma questo
diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali; in quanto che altro
dovette essere il diritto, che governava i rapporti fra i padri, che appartenevano
alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro parità ed
uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto, che venne a svolgersi
nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine superiore
dei padri e quello INFERIORE della plebe, il quale non potè a meno di ritenere
qualche traccia della superiorità che [La questione del “parricidium” e della
perduellio scorreno delle leges regiae.] si attribuivano i primi e
dell'inferiorità di condizione, in cui sanno di trovarsi i secondi. È solo col
dare la debita parte a queste due forme del diritto, le quali del resto trovano
la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare
certe istituzioni del diritto romano, quali sarebbero quelle del “mancipium”,
del “nexum”, della “manus iniectio” e simili; le quali sono tutte forme
giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro
discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se
si comprende infatti che un plebeo, il quale non ha altra garanzia da dare che
quella della propria persona, e costretto a dare a mancipio sè stesso o la
propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità, che era propria del
nexum, e che il patrizio insoddisfatto puo mettere la mano sopra di lui e
trascinarlo nel suo carcere, mediante la procedura della “manus iniectio”. Questi
modi di procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia
appartenenti alle genti patrizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni
passarono poi effettivamente nel diritto quiritario; poichè anche questo e
l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, hanno sopratutto per iscopo di
governare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello
per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di
trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi. E quindi
opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo
diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto
peculiari al diritto quiritario. Lo svolgimento di questa teorica tratta
appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. I giureconsulti
col dire che il “ius hominum causa constitutum est”, enunciarono una verità che
trova una piena conferma nei fatti, quando seguasi il processo, con cui il
diritto vennesi formando fra le genti del Lazio. Finchè trattasi di persone che
appartenno al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità patriarcale,
stabiliti in seno delle varie aggregazioni, possono bastare a qualsiasi
emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai
diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro; poichè in allora,
mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, convenne di
necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto.
Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto, che possono
spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario, e dileguare una
quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto,
senza cercarne la causa nelle condizioni sociali che ne determinano la
formazione. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuridici,
sorgeno dapprima fra i capi di gruppo, anzi che fra i singoli individui, che sono
assorbiti ed unificati nel medesimo. Di qui le solennità, che dove
necessariamente accompagnarne gl’atti, come quelli che non riguardavano gli
interessi particolari di questo o di quell'individuo; ma si rifereno
all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato, e così hanno, per usare
il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto
amore di formalismo, che guida un popolo così eminentemente pratico come il
romano nella formazione del proprio diritto; ma questo, nei suoi esordii
apparve ingombro di formalità e difinzioni, solo perchè, dopo essere stato
preparato in un periodo di organizzazione sociale, e trapiantato in un altro
dallo spirito conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità
artificiose, i romani si valgono invece di quelle, che si sono formate nella
realtà dei fatti in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono
rese necessarie dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si
vengono svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica. Nel che seguono
un processo, che non abbandonno neppure più tardi; quello cioè di non creare
giammai una forma novella, finchè quella già prima [Il formalismo è certo uno
dei caratteri più salienti del diritto di Roma. Si comprende quindi, che I
filosofi se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine,
L'ancien droit, in cui si occupa delle finzioni legali, e sopratutto poi
JHERING, che ha a dedicarvi buona parte del “L'esprit du droit Romain”. La
conclusione, a cui sarebbero venuti questi filosofi, e, che questo formalismo
del diritto di Roma dove essere attribuito alla predilezione del popolo romano
per l'elemento esteriore; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i
popoli, e proveniente da ciò, che i medesimi riguardano più alla forma che alla
sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in
lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno,
che comparisca presso tutti i popoli. Esso compare soltanto, al lorchè
istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si
comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli non si può dire, che
essi siano amici della formalità; perchè essi cercano di esprimere ciò che
sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una
mimica, la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata, tende ad essere
l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi, il
formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo, è invece l'effetto dello
spirito conservatore, che trasporta una forma creata in un periodo ad un altro,
in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione. Tutte le forme che si
conservano come tali sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa, che sono
trapiantate in un'altra, la quale più non le capisce, e quindi si limita ad
osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale,
nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se divenne
formalista, e perchè il patriziato romano vuole conservare le vestigia del
passato e fare entrare nella forma preparata nel periodo gentilizio un nuovo rapporto
che e creato dalla convivenza civile e politica colla plebe. Non è quindi da
ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza
di esso; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che
alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente
congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare la forma
antica, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova, che si viene alla
conseguenza, per cui “a forma dat esse rei”. Ciò che accade nel diritto,
avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua formazione adatta la
parola al concetto; il che non impedisce pero, che più tardi, trasportandosi la
stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate, la
cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa.] esistente possa
ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di
Roma questo diritto e veramente disacconcio, dal momento che allora soltanto si
usce da una condizione di cose, in cui il padre rappresenta effettivamente quel
complesso di persone e di cose, che dipendeno da esso. Quindi e naturale che
per qualche tempo il diritto conserva quel medesimo carattere, che aveva
acquistato durante il periodo gentilizio. Solo comincia a diventare artificioso
e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto di Roma, quando al PADRE
si venne sostituendo il CITTADINO, e più ancora quando al cittadino si sostitui
L’UOMO LIBERO e L’UOMO NUOVO. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel
pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il PADRE, che compia tutto
ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato, per guisa, che esso sia PADRE
(quanto ai figlio), PADRONE (quanto al servo), PATRONO (quanto al cliente), e
rappresenti il gruppo da lui governato, ogni qualvolta trattasi di entrare in
rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la
imponente figura non tanto gli scrittori di cose giuridiche, che lo
irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente
giuridico; ma i filosofi latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, APPIO
Claudio, capo di una grande famiglia, custode geloso dell'antico costume, il
quale continua, ancorchè vecchio e CIECO, ad esercitare, venerato e temuto ad
un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un numero
grandissimo di client. Del resto anche il diritto lascia di quando in quando
travedere quest'aureola patriarcale, che circonda il capo di famiglia, come lo
dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio. “Moris fuit, unumquemque
domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod
appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo
suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.” Tuttavia anche
questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere
essenzialmente giuridico. Mentre invece, riportandoci al periodo gentilizio,
questa figura primitiva presentasi anche [Cic., Cato maior -- È poi sopratutto
nei filosofi latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può
facilmente scorgere la differenza fra la patria podestà, quale era
giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in
proposito Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome. Bruns,
Fontes juris romani antiqui. Edit. V, Friburgi] più imponente col suo carattere
patriarcale e religioso ad un tempo; e quindi si può comprendere come
l'acceptum, l'expensum, lo sponsum, lo stipulatum, l'actum, il iussum del capo
di famiglia si cambiano in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il
substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore. Un
secondo carattere poi sta in questo, che il diritto presentasi fra questi capi
di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse, come il solo mezzo per
stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non
fosse riconosciuto non ha altro espediente, che quello di ricorrere alla manuum
consertio, la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle
tribu, mantenne le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui rancori si
verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione. Accenno qui ad un
concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel
diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che
potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso
vige. Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi
stevano nel costume e nella consuetudine; ma comincia dal comprendere quelli,
che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. E in
questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium, che si aggira su
pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili
evenienze; poi trasformasi nel “ius proprium civium romanorum”; quindi
assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium; e da
ultimo giunge ad informarsi persino al ius naturale; concetti questi che, se
non avevano ancora una configurazione scientifica, viveno però già nella
coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia.
Ciò mi conferma in una antica convinzione, che ho già avuto occasione di
esporre nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, la
quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche primitive il diritto non
confondesi colla forza; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e
la violenza. So che questa opinione ha ad essere combattuta da egregi che si
occuparono dell'argomento, e fra gli altri da Zocco-Rosa, Preistoria del
diritto. Milano, e da Puglia, L'evoluzione storica e scientifica del diritto e
della procedura penale, nota; ma i fatti mi inducono a persistere nella
medesima. Non è già che io nego, che siavi stato un periodo, in cui abbia
predominata la forza e la privata violenza: ma quando presentasi il diritto,
esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di
reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono l’esagerazioni
e gl’eccessi. In questo senso aveva ragione il filosofo di scrivere – “Nam
genus humanum. Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub
leges arctaque iura.” Lucretius, De rerum natura. Cio è anche dimostrato dal
carattere del tutto particolare, che assumono le guerre in questo periodo, e
che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia di Roma. Tali guerre
infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di carattere
pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze e le
parentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie tribù
e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie, che si
sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere
riprese nell' anno seguente. Ciò fa quasi credere, che queste genti primitive sono
in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso, perchè è
contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di
guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci. Un ultimo
carattere infine, sta in ciò, che la formazione del diritto non si ha dapprima
nei rapporti interni dei singoli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le
famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i
primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre
l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a
svolgersi fra i diversi capi di gruppo. Di qui la conseguenza in apparenza
strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto, che
governava i rapporti fra le varie genti, precede la formazione del diritto
privato propriamente detto: il che è dimostrato anche dalla considerazione, che
nei filosofi si discorre dei “iura gentium”, prima ancora che si discorra del
ius quiritium e del ius civium romanorum. Infatti, i iura gentiun, i foedera,
le sponsiones fra i capi delle varie genti sono già rapporti, che si sono
svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius
quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla
stessa Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane,
che ci è descritto dai filosofi latini. Intanto e sopratutto sui mercati, ove
compareno i varii capi di famiglia, ed ove, oltre gli scambi, si puo anche
trattare le alleanze e le paci, che comincia la formazione del diritto; il
quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenano a genti diverse, e
che non erano ancora soggetti al medesimo diritto, dove necessariamente essere
dapprima piuttosto un “ius gentium”, che non un diritto, che potesse chiamarsi
ius civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra
i cittadini della medesima città quelle forme, che si sono prima elaborate nei
rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie. Si può quindi
affermare, che anche quel diritto pdi Roma, che appare nella storia con
caratteri di maggior rozzezza e violenza, non trova sempre la propria origine
nella forza, come molti sostengono; ma che in parte ha invece un'origine
essenzialmente *contrattuale*, come la città, in cui esso era chiamato a
ricevere il suo svolgimento. Il diritto, anziché doversi confondere colla
forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di violenza,
e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè
esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un
medesimo diritto. E solamente più tardi, allorchè la città comincia ad essere abbastanza
forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità civile potè
penetrare eziandio nelle mura do [Non mi dissimulo l'arditezza di una idea, che
conduce in sostanza a dire, che si forma dapprima il ius gentium, che non lo
stesso ius civile, e che il ius quiritium e un diritto, formatosi dapprima fra
le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i quiriti: ma questo processo
è per tal modo confermato dai fatti e ne appariranno man mano prove così
evidenti, che mi sembra impossibile il poterlo negare. Del resto la ragione di
esso trovasi in questo, che mentre la famiglia poo fare a meno del diritto nei
suoi rapporti interni; questo invece e indispensabile nei rapporti fra le varie
famiglie e fra le varie genti. Che anzi, dacchè sono nel dominio delle
induzioni, aggiungerò ancora, che ai iura gentium dovette precedere il senso di
quei iura naturalia, quae natura omnia animalia docuit; per guisa che il
diritto nel suo svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze
spontanee dell'umana natura. Poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le
varie genti. Solo più tardi e comparso nell'interno di Roma. Esso insomma nei
fatti seguì un processo del tutto opposto a quello che segue la scienza del
diritto in Roma; la quale comincia invece dalle cautele del *ius civile*. Poi
venne ad abbracciare anche l'equità del *ius gentium*. Più tardi soltanto
giunse ad innalzarsi all'umanità del *ius naturale*. Vi ha però questa
differenza, che i iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli
istinti dell'umana natura, e i primitivi iura gentium consistono in un
complesso di pratiche fra le varie genti, imposte dalle necessità di fatto;
mentre il ius gentium accolto dal praetor e il ius naturale dei giureconsulti
sono già nozioni astratte, a cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il
ragionamento, e forse neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio
della filosofia, atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi
rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale,
a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita
sociale, lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi
arrecate.] mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere
esclusivamente morale o religioso, imponendo un diritto, a cui tutti devono
inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. I caratteri
del diritto che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti,
appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine
abbiano avuta una portata veramente giuridica, quali sono quelli di “connubium”,
di “commercium” e di “actio”, e dalla significazione, che questi vocaboli hanno
anteriormente alla formazione stessa di Roma. Infatti non può esservi dubbio,
che questi tre concetti già avevano un contenuto preciso, allorchè comparve la
comunanza romana. Ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che
appartenga a questa od a quella persona, ma piuttosto dei rapporti, di
carattere pressochè *contrattuale*, che esistono fra le famiglie, le genti e le
tribù e i capi rispettivi delle medesime. L’ “action”, nel suo significato
giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che
essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi,
ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di
essere nel buon diritto. E solo più tardi, che questi vocaboli, i quali
significavano primitivamente dei rapporti, che intercedevano fra le varie genti
e i loro capi, trapiantati fra i cittadini vennero a costituire altrettanti
capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali, sotto cui ebbe poi a
svolgersi il diritto quiritario. È poi degno di nota, come questi vocaboli, che
primi acquistarono una significazione giuridica, abbiano questo di particolare,
che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal modo come il diritto sia
veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad essere il “vinculum
societatis humanae”. Nel “connubium” infatti abbiamo una persona, che esce da
una famiglia per entrare in un'altra. Nel “commercium” abbiamo una persona,
che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà, addiviene a quelle
molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di cui si intesse la
vita sociale sotto l'aspetto economico. Nell' “actio”, infine, abbiamo
parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto da
un'altra persona, lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima,
appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita
sociale. Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può
affermare con ragione che “hominum causa constitutum est.” Intanto ciascuno di
questi concetti è eminentemente sintetico e comprensivo per modo che ognuno può
servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti; il che apparirà
ancora, allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli,
finisce per con chiudere: “omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad
actiones pertinet.” Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente
combattuta sopra tutto in Germania, e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il
grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al
diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non ha nè
valore storico, nè valore intrinseco. Traité de droit Romain. Trad. Guexoux,
Paris. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha
fra la classificazione teorica di Gaio, e i concetti da cui il diritto
quiritario prende le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che
stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado il tempo per
cui durò l'elaborazione di essa, possa difficilmente ammettere, che qui
trattisi, come il SAVIGNY dice dell'opinione individuale di un giureconsulto, e
che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco. Essa invece
ha valore storico ed intrinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la
giurisprudenza romana, in quanto che e facile il dimostrare a suo tempo, che
nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e
quindi alle persone non e che uno svolgimento del concetto primitivo del “connubium.”
Tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal concetto di “commercium.”
Infine, quella che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di
un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo di “actio”.
Cfr. al riguardo Carle, “De exceptionibus in iure romano” (Torino). L'autore che
pose meglio in evidenza la correlazione fra “connubium”, “commercium” ed “actio”,
e LANGE, Histoire intérieure de Rome. Che anzi i giureconsulti proseguirono lo
svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo
svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe
singolarità del diritto romano solo si puo spiegare, in quanto che la
dialettica giuridica non consente di confondere due ordini diversi di idee. Di
più se fosse qui lecito di porre innanzi una considerazione, che puo parere TROPPO
filosofica, non dubito di affermare, che nel concetto romano la distinzione
seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta
la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e
infine, violato, affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica
e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il
diritto *personale*, il diritto reale, e l'azione, che serve a difenderli. Fra
questi concetti presentasi anzitutto quello di “connubium”, che nella sua
significazione primitiva indica la facoltà, che appartiene ad individui, i
quali appartengono a genti diverse, di imparentarsi fra di loro, mediante
quelle nozze, che dalle genti sono riconosciute come giuste e legittime. Esso
ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto
concetto, che hanno le genti patrizie dei proprii antenati e del SANGUE, che
corre nelle loro vene, questo dove essere un rapporto, in cui tendevano
piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che
appartenevano al medesimo “nomen” -- e questo il latino, il sabino o l'etrusco
– hanno fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla
tradizione, secondo cui, se i Ramnenses vuoleno il connubium coi Titienses,
doveno ricorrere alla violenza ed alla forza; il che pero non tolse, che il MESCOLARSI
DEL SANGUE delle due tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi
per formare una medesima Roma. Furono infatti le DONNE di origine SABINE che
secondo una tradizione, la quale è certo ben trovata -- si interposero fra i
mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli, dando perfino il loro
nome alle curie, in cui essa è ripartita. Cosi pure si comprende, che anche fra
le genti, che appartenevano allo stesso “nomen” e facevano anche parte della STESSA
tribù, il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui [È questa
la significazione primitiva, che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi
di “connubium” fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. E solo nel
diritto quiritario, che il “ius connubië” passa a significare il diritto di
addivenire alle iustae nuptiae, e venne così a dare origine a tutti quei
rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che
deriva la manus, che fonda la famiglia; la patria potestas, che spiegasi,
allorchè nascono dei figli; e infine la stessa successione legittima, la quale
si avvera, allorchè, morendo il capo di famiglia, si discioglie quel gruppo, e
si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. Questa tradizione
è riferita da Livio e da Dionisio: ma non sembra essere confermata dai fatti,
perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano
essere tolti più dai luoghi che dalle persone. V. LANGE, Hist. intér. de Rome. Ad
ogni modo questa è una tradizione, che è certo ben trovata, in quanto che
dimostra l'importanza, che dove avere un avvenimento che la rompe col passato,
e rende possibile il connubium fra persone che non appartenevano al medesimo
nomen, preso nel senso di stirpe e di schiatta. E questa prima MESCOLANZA DEL
SANGUE latino col sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata
da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep.]
l'uno in origine rappresenta la classe dei vincitori e l'altro quella dei
vinti. Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè
fra i patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie
gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non dove
confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere
anche più tardi per accomunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe. Intanto
pero questo connubium, frammezzo a genti, che costitui vano per così dire
altrettante piccole potenze, riducesi in realtà a staccare una donna da un
gruppo, di cui prima fa parte, per trasportarla in un altro; il che importa eziandio
un cambiamento nel culto gentilizio, perchè la donna abbandona il culto dei suo
padre per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le
giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della “confarreation”, a
cui assisteno i capi di famiglia della gente e delle tribù, a cui appartene lo
sposo e la moglie, e che importa la comunione delle cose divine ed umane. Di
qui la conseguenza eziandio, che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse
diventare [A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche
praticassero l'endogamia o l'exogamia (V. SPENCER, Principes de sociologie), si
dove rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè
ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di
parentela, fra quelle persone cioè, fra cui esiste, secondo l'antico linguaggio,
il “ius osculi”, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel
senso, che il Patrizio, per scegliere la propria compagna, non puo uscire dalle
genti che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine
tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla
origine, furono anche in seguito i più facili a mescolare il proprio sangue con
altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Torino. Parmi
allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la “confarreatio”
come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori seguono tale
opinione EsMein (“La manus, la paternité et le divorce” – “Mélanges d'histoire
de droit, Paris); Glasson (“Le mariage civil et le divorce, Paris), e pare
anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul “Matrimonio e divorzio nel diritto
romano” (Bologna). Del resto varii indizii di questa origine patrizia della “confarreatio”
si hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei X testimonii che
ricordano le X curie delle tribù, e in ciò che le leggi regie da Dionisio
attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze confarreate. V.
Bruns, Fontes. Per ciò che si riferisce alla famiglia romana è fondamentale
l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano. Padova] proprietà del
marito, o di colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito; e che la
medesima, per entrare nei quadri del gruppo, a cui venne ad aggregarsi, cadesse
sotto la manus del capo di famiglia, ed acquistasse la posizione migliore, che
puo esservi nella medesima, che era quella di figlia – “filiae loco”. Viene in
seguito il “commercium”, il quale in questo periodo non significa ancora quel
complesso di diritti, che scaturiscono dal dominio, ma ha il suo vero e proprio
significato di rapporti commerciali, che possono intervenire fra i capi di
famiglia, appartenenti a genti diverse. Qui il rapporto è assai più
superficiale, ed è per sua natura tale, che può essere di reciproco vantaggio
per i contraenti. Il “commercium” pertanto prende un più largo sviluppo; ed
esiste non solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso indispensabile
dalla coesistenza sul medesimo suolo, ma anche fra coloro, che appartengono a
stirpi diverse. Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere
attitudine maggiore ai commerci, fannosi in certo modo intermediarie dei
medesimi fra le varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche
sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco. Sono questi
commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a
cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e
fisse – “conciliabula”, “for a” --. È poi un grande vantaggio [Anche qui la
significazione primitiva del vocabolo “commercium” appare da ciò, che Roma fin
dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il “commercium”.
È solo per opera del diritto quiritario, che il concetto di commercium,
applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al “ius commercii,” il
quale poi, sviscerato negli elementi, che entrano a costituirlo, viene a
scindersi; nel “ius emendi ac vendendi”, che operasi colla “mancipatio”; nel “nexum”,
da cui deriva la teoria delle obbligazioni; e infine nella “testamenti factio”,
che comprende la facoltà di fare e di ricevere per testamento, e quella perfino
di essere testimonio nel medesimo. Cfr. Lange, Histoire intérieure de Rome. Per
tal modo, nello svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione
legittima e la testamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee
in quanto che la prima dipende dal connubium, e l'altra deriva dal commercium.
Questa forse è la vera ragione della massima. “Ius nostrum non patitur eumdem
in paganis testato et intestato decessisse, earumque rerum naturaliter inter se
pugna est.” Pomp., I, Dig. È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una
volta, che hanno separato due ordini di idee, non li confondano più insieme. Secondo
il SUMNER Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una
comunanza incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle
proprie fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine; vantaggio, che e una
delle cause, per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio
delle popolazioni latine, potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed
assimilazione potente] le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente; fra le
quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che serveno per trattare le
paci e per il mercato (Village Communities). Secondo Maine, si ha un indizio
dell’associazione del commercio e della neutralità negli attributi di MERC-V-RIO,
dio comune alle stirpi di origine aria, che da una parte sarebbe il dio dei
termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono
del commercio, dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto
da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito
si fanno gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti,
deriva questa importantissima conseguenza, che come in quest'epoca non si
distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguesi il diritto
commerciale, da quel diritto, che ora si chiama internazionale. L'uno e l'altro
erano compresi nel ius gentium, il che spiega come questo vocabolo talvolta
indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda
anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non puo però esservi
dubbio, che il ius gentium, allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per
opera del “praetor”, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e
stranieri, ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto
bene dimostrato da Fusinato nel suo accurato lavoro “Dei Feziali e del diritto
feziale”, Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor.
filol.; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un
collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in
una materia, che certo ne ha grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità
sull'argomento è Voigt, Das ius naturale, bonum et equum, gentium, etc. Leipzig,
dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium. Fra il modo
di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza,
che essi ritenne il concetto ed anche la denominazione del ius gentium, come
opera riflessa dei giureconsulti; mentre per me il ius gentium esiste nel fatto
e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche
nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le
espressioni di iura gentium, e di iura naturalia, mentre dopo i vocaboli
adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano
l'unificazione, che vi si è operata. MOMMSEN, Histoire Romaine, da tale
importanza alla posizione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la
popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città
commerciale. PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano)
e parmi in verità che il fatto, per cui Roma divenne l'emporio delle genti del
Lazio, possa essere spiegato senza dire, che essa fosse una città sopratutto
commerciale; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come
era Roma nei propri inizii, puo essere grandemente utile di essere in tal sito,
da richiamare il commercio [E sui mercati, dove convenivano persone
appartenenti a comunanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più
semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche
la compra e vendita, che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era
già divenuta una grande città. Solo deve avvertirsi, che questa compra e
vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano
a comunanze diverse, fra cui non esiste forse comunione di diritto, non dove
naturalmente ritenersi perfetta, se non era accompagnata dalla tradizione della
cosa e dal pagamento del prezzo, come ha a stabilire anche più tardi la
legislazione decemvirale. E qui parimenti, che dove nascere e svolgersi quella
sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal
diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per
dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni. Sono eziandio queste fiere,
che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione
eminentemente commerciale l'ha resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi
elementi. Del resto anche i romani senteno l'eccellenza della posizione della
loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. Non può quindi, a parer mio, essere
giustificata l'opinione di coloro i quali ritengono, che solo più tardi si
fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio,
che certo già esisteno nei rapporti fra le varie genti, sonno state invece
importate di Grecia, per ciò che si riferisce alle convenzioni private.
L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprende
dapprima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una
codificazione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle
consuetudini. Esso quindi comincia dal comprendere solo quella parte di esso,
che era confermata da una “lex publica”, come lo dimostrano le antiche
espressioni di “agere per aes et libram”, di “facere testamentum, nexum,
mancipium secundum legem publicam”. Quindi, accanto al ius quiritium, visse
sempre in Roma un ius gentium, che, senza aver ricevate le forme quiritarie, e
però sempre adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai
recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor peregrinus. Ciò
è provato dai filosofi latini e sopratutto da Plauto, che ne danno come usuali
e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre
penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o
stipulatio, atto romano per eccellenza, dai romani applicato nei trattati
pubblici e nelle convenzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche
l'avessero comune colle elleniche, e che la espressione spondeo fosse anche
comune ai due popoli. Ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo d’altri,
nè aspettarono ad adoperarlo solo piu tarde verso come sostengono fra gli altri
il MurueAD, Histor. Introd. e Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte. Solo
può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai
recuperatores, la sponsio o stipulatio penetra anche nello stretto diritto
civile ed e adottata come forma propria del medesimo] dero più tardi occasione
al giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie
per concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione
agreste; delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare
riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che
queste non hanno più la sobrietà e precisione antica. È qui infine, che dove
prepararsi la formazione di un ius gentium, che ha dapprima un carattere
commerciale, come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto
proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensabile per le transazioni
commerciali fra i capi di famiglia, appartenenti a genti ed a tribù diverse.
Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium, formatosi sulle fiere
e sui mercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi
dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum: cio
però non toglie, che le origini di quelle lente formazioni, che si verificano
nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in
un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo
appariscono degne di osservazione e di ricerca, quando si scorge il corso
maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse. Da ultimo non può esservi
dubbio che, già nel periodo gentilizio, dovette essersi formato il concetto
dell' “actio”, ma questa non significa un mezzo accordato dalla legge o dal
pretore, per far valere in giudizio un proprio diritto, ma e, per dir cosi, il
diritto stesso, che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di
atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento. Il poco che
pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'HuSCHKE, Iurispr.
anteiust. quae supersunt, ed è una prova dell'attitudine dei veteres
iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di
giuridico, modellandolo in una formola tipica, che puo poi servire per tutti i
casi dello stesso genere. Accostasi a questo concetto dell' “actio”, nella sua
significazione primitiva, l'ORTOLAN, Histoire de la legislation romaine, Paris,
parla dell'azione nel periodo decemvirale. “Action est une dénomination Générale.
C’est une forme de procéder, une procédure considérée] È a questo punto, che si
può trovare la ragione, per cui il diritto di tutti i popoli e quindi anche il
romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura, che non come
legge, che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di
famiglia è esso il sovrano nella propria casa, egli NON HA BISOGNO CHE LA LEGGE
VENGA A RICORDARGLI QUALI SIANO I SUOI DIRITTI. Questo diritto egli porta con
sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza. Quindi, se il medesimo diritto
venne ad essere violato, egli non può aspettare che lo Stato, che quasi ancora
non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ha ad
essergli arrecato. Come quindi è il capo di famiglia che vendica l'adulterio, o
che corre sui passi del ladro che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa,
mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno osa
ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che,
quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un
figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza
della intiera comunanza, che è suo quel fondo, quello schiavo, quel figlio.
Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del
diritto. Prima il diritto esiste allo stato latente, ed ora si produce, si
afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo. Quest'azione
tuttavia, non è ancora la “legis actio”; perchè in compierla l'uomo offeso non
ispirasi ad una *legge*, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso
intimo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto,
sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di
famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere
anche alla violenza ed alla vendetta. Quindi è, che se per avventura verrà a
formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre
da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio
diritto, dall'altra contenga il prorompere violento di colui, che ha ad essere
dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la
constituer.” Qui però l'autore parla già della “legis actio”. Ma se noi andiamo
più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora “legis actio”, ma semplicemente
“actio”, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di *agire*,
ed è anzi il diritto stesso in azione. Cfr. Carle, La vita del diritto. È poi
notabile, come per i latini il vocabolo “agere” indichi un'azione continuata,
che può scindersi in parti diverse; mentre “facere” si adopera di preferenza
invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico
contesto.] offeso nel proprio diritto, l'occasione non dove certamente essere
trascurata. E quindi prima il mos, che comincia coll'additare la via
consuetudinaria, a cui debbe appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio
diritto. Poi e il fas, che intervenne anch'esso e dichiara empio chi non segue
quel determinato rito. Ed infine sarà anche il ius, che venne notando in certo
modo i varii stadii, per cui passa quella procedura, e obbliga i contendenti a
passare, almeno per forma – “dicis gratia” -- , per ciascuno di questi stadii. E
in tal modo, che all'actio violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo
sottenne la legis actio, consacrata dalla legge, compassata e lenta, quasi per
attutire le passioni irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorda ancora
gli stadii dell'anteriore violenza, quasi per ricordare che a quella dovrebbe
farsi ritorno, quando la legge non e rispettata. Non è quindi da approvarsi, a
mio avviso, l'opinione di coloro, i quali ritengono che il prevalere delle
norme procedurali nel diritto, e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò,
che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo
fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della
convivenza civile e politica. La causa del fatto sta in ciò, che l'opera della
legge negl’inizii e sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto,
quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui
diritto e violato. In questa parte diritto privato e diritto penale segueno
analoghe vicende. Al modo stesso, che la legge penale non mira tanto a punire i
misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla vendetta, e rende cosi
obligatoria quella composizione a danaro, che dipende dall'accordo delle parti:
cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli
comprendeno più la forma che la sostanza; ma perchè il primo e più urgente
bisogno di una società, in via di formazione, e quello di impedire fra i
consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ragioni.
Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da
vedersi: Del GIUDICE, “La vendetta nel diritto longobardo” (Milano). Sembra poi
attribuire la precedenza delle norme di procedura, presso i popoli alla
prevalenza, che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner
Maine, The early history of institutions, ove, discorrendo della forma
primitiva dei rimedii legali, scrive che in uno stadio delle cose romane i [Intanto
non vi ha forse nel vocabolario giuridico parola, che presenti al giureconsulto
filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli
di “agere” e di “actio”, e che lo fa rimontare più oltre nelle tenebre e nella
oscurità del passato. Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di
« spingere », questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gl’antichi
abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di
popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti. Memori e
quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo
vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col
popolo – “ius agendi cum populo” -- , ed anchequella di colui, che forte della
convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di
lotta, che dove essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie
ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed
indipendente non dove esser così facile il conseguire che essi si sottoponessero
ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è quindi
meraviglia se l'avvenimento dove loro apparire così importante, che ritennero
opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno dovuto
attraversare per giungervi. Allorchè sorgeva una controversia fra capi di
famiglia, appartenenti alla medesima tribù, il modo più naturale di risolverla
dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed
amichevoli compositori, che doveno essere concordati fra le parti, come lo
dimostra un antico costume, che gli filosofi latini attribuiscono ai proprii
maggiori. Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la
controversia, dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio; del
che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti
dall'ordine dei padri diritti ed I doveri sono piuttosto un'aggiunta della
procedura, che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri. BRÉAL, Dict. étym. latin., v° Agere. Cic.,
Pro Cluentio. “Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione
cuiusquam, sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter
adversarios convenisset.” Del resto, anche secondo la legislazione decemvirale,
sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di
componimenti, come lo dimostra il fram., Rem, ubi pacant, orato, tavola II,
legge 14, secondo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln, o senatori, e
solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il
partito deg’ottimati e quello popolare, poterono anche essere scelti fra gl’equites.
La cosa però venne a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano
d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che
essi, compresi vivamente del proprio diritto, trovandosi sul fondo stesso o
davanti allo schiavo, oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare
altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi
cede, lo studio della natura umana ci insegna anche ora, che non è punto
improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis, a cui secondo
Gellio e poi sostituita la “vis festucaria”, e che si effettua cosi fra di essi
una vera e propria lotta, che prese il nome “dimanuum consertio”. È però
consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono cosi
in lotta fra di loro, puo anche interporsi fra di esse una persona autorevole,
la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole,
che più tardi sonno pronunziate dal praetor nella procedura quiritaria – “mittite
ambo hominem”. Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dall'autorità
stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza, in cui
furono sorpresi, chiamano entrambi a testimoni il divino, che la ragione è
dalla parte loro, e per dare energia maggiore alla propria affermazione
aggiungono alla medesima una scommessa, la quale, per essere accompagnata
dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta
fra di essi, può prendere il nome di “sacramentum:. Si ha cosi una successione
di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in [La
legge che trasporta dall'ordine dei senatori a quello degli equites la capacità
ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da
C. Gracco, la quale dove però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono
fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da
vedersi in proposito ORTOLAN, “Histoire de la législation Romaine”. Aulo Gellio,
Noct. attic. -- Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che
guadagna colui che si appiglia alla violenza, trovasi maravigliosamente
espresso da OVIDIO, Fastorum. “Et cum cive pudet conseruisse manus.” È però a
notarsi, che Ovidio limita quel senso di pudore alle violenze fra i cittadini.
Con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa.] terposta, ad essere
giudice non tanto della ragione o del torto dei contendenti, quanto piuttosto
della scommessa intervenuta fra i me desimi; sebbene però venne ad essere
naturale conseguenza del suo giudizio, che debba ritenersi aver ragione chi
vince la scommessa e torto colui, che perde la medesima. Fin qui pertanto, non
si ha che un processo di cose sociali ed umane, di cui si potrebbero trovare le
traccie anche ai nostri giorni, e che dove certo essere frequente, allorchè le
contese sono sostenute dai capi di gruppo, che non conosceno altra autorità
superiore, salvo quella, che sono accettata di comune accordo. Pongasi ora, che
questo processo di cose si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come
le italiche, siano use a modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli
atti tipici della loro vita giuridica, e allora si puo facilmente comprendere,
come siasi venuta formando quel l’ “actio sacramento”, che costitui poi
l'azione fondamentale di tutto il diritto quiritario, e e dai quiriti
conservata con cura così gelosa, che, già abolite le altre azioni delle leggi,
l' “actio sacramento” continua ancora a celebrarsi davanti al tribunale
quiritario per eccellenza, che è il tribunale dei centumviri. Non è quindi il
caso di ridurre questa primitiva azione ad una pantomina incomprensibile, nè di
cambiare il popolo maestro al mondo nel diritto in un architetto di formalità e
di sottigliezze senza scopo; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle
vicende, che ha a percorrere l'amministrazione della giustizia, riportandola in
quell'ambiente patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla
nelle sue primitive fattezze. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio
l'opinione messa innanzi da una grande autorità, quale è il Bekker, e che e poi
anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an [È
già da qualche tempo, che rivelasi nei filosofi la tendenza a dare una
spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento. Se ne possono
vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain, Bruxelles; nel SUMNER
MAINE, Early history of institutions, nel MUIRIEAD, Historical Introduction,
nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa. Non credo tuttavia che essa
sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che
siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca
anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade descrive, sopra uno dei
compartimenti dello scudo di Achille, una procedura del tutto analoga a quella
dell'actio sacramento.] tiche della stessa “actio sacramento”, quelle altre
forme di azioni, che sono indicate col vocabolo di “manus iniectio” e di “pignoris
capio”, in quanto che le medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della
forza per far valere il proprio diritto. Lasciando per ora in disparte la “pignoris
capio”, che ha solo una importanza secondaria, per i pochi casi in cui fu
ammessa, importa anzitutto notare, che il vocabolo di “manus iniectio” può
essere tolto in due significazioni diverse, anche secondo la legislazione
decemvirale. Havvi anzitutto la “manus iniectio”, a cui ricorre colui che, dopo
aver invitato inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magistrato, gli pone
addosso la propria mano e lo trascina in ius, somministrandogli però quei mezzi
di trasporto, che possano esser necessari per lo stato di malattia, in cui egli
si trovi. In questo senso però non havvi ancora una vera “legis actio”, ma solo
un mezzo per ottenere la comparizione del convenuto davanti al magistrato.
Invece la “manus iniectio”, in quanto costituisce una “legis actio”, consiste
nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus,
l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere, e
costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè
sia soddisfatto. BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin. Del
resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING, L'esprit
du droit romain, Trad. Maulenaere, Paris, salvo che egli dà poi alla “manus
iniectio”, come “legis action”, una significazione del tutto speciale. A questa
“manus iniectio” accennasi nella prima legge delle XII Tavole. “Si in ius
vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em capito. Si calvitur pedemve struit,
manum endo iacito.” -- Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la “manus
iniectio” puo essere considerata come una vera “legis actio”, in quanto che
essa non richiede l'intervento del magistrato e ha solo luogo quando trattasi
di esecuzione. E questo il motivo, che induce il JHERING a dare una
significazione speciale alla “manus iniectio”. Quanto alla letteratura
sull'argomento e alle discussioni, che di recente sorgeno intorno alla
questione, se la “manus iniectio” dove ritenersi come una “legis actio”, è da
vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd. Parmi tuttavia, che il dubbio non possa
esistere, quando si tenga conto della significazione larghissima, che ha il
vocabolo di “legis actio” nel diritto; nel quale esso indica in sostanza i
diversi genera agendi in conformità di una lex publica, per modo da comprendere
la stessa in iure cessio, allorchè serve per effettuare una adozione, una
emancipazione, una manomissione, od un trasferimento di proprietà.] Quanto alla
manus iniectio Voigt, Die XII Tafeln. Or bene la “manus iniectio”, cosi intesa,
non può certamente essere considerata, come di formazione anteriore all' “actio
sacramento”. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie,
per cui passa lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora
un'epoca, in cui non eravi amministrazione di giustizia; la “manus iniectio”
invece, quale appare nelle XII Tavole, suppone già stabilita una
amministrazione della giustizia, in quanto che essa è un modo di procedere
all'esecuzione contro colui, che o siasi obbligato colla solennità del nexum, o
abbia confessato il proprio debito davanti al magistrato, o sia stato
condannato al pagamento. Nè serve il dire, che la “manus iniectio”, essendo un
mezzo per l’esercizio delle proprie ragioni, dove essere applicata anche in
altri casi; mentre la legislazione decemvirale la circoscrive ai casi da essa
determinati, nell'intento di impedirne gli abusi. A ciò infatti si può
facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si
può comprendere una procedura solenne, come quella dell' “actio sacramento”, in
cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi
nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto
ripugnante una procedura, come e quella della “manus iniectio”. Non è un'eguale
che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli puo
essere profondamente convinto del proprio torto. Fra due eguali, che siano in
contesa, può comprendersi la “manuum consertio”, e in seguito l'accettazione di
un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro, e si
lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere. Con ciò tuttavia
non voglio dire, che la “manus iniectio” e direttamente introdotta dalla
legislazione decemvirale, e che non esiste anteriormente alla medesima. Ritengo
anzi, che essa dove già esistere da lungo tempo: ma intanto a questo proposito
mi fo lecito di avventurare la congettura, che la “manus iniectio” dove essere
una speciale forma di procedura, che non si adopera già nei rapporti fra i capi
di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedeno fra il
creditore patrizio ed il debitore plebeo. Si comprende infatti, come un'aristocrazia
territoriale, come quella delle genti patrizie, puo anche adoperare modi simili
di procedura verso una classe, che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato
l'origine servile. Quindi è, che la “manus iniectio” deve essere considerata
come una delle istituzioni, che non appartiene al diritto, che dovette formarsi
nei rapporti fra i capi delle genti patrizie, ma bensi a quello, che dove
formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che
spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'ha solo ammessa contro i
nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe lotta cosi lungamente
per l'abolizione del nexum, il quale forse era ancora un segno dell'antica sua
soggezione servile. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato
delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto
corrisponde alla vendetta nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è
esistita la vendetta anche fra le genti italiche, così dove anche esservi un
tempo, in cui fra queste esiste l'esercizio privato delle proprie ragioni.
Questo tuttavia può affermarsi con certezza, che l'intento supremo
dell'organizzazione gentilizia e quello di impedire fra i membri di esse cosi
la vendetta, che l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. E a
questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a
forze riunite riuscirono a cacciare dalla comunanza la violenza, che continuo a
dominare fra le persone, che non appartenevano alla medesima e quindi non
avevano fra di loro comunanza di diritto. Quindi non è più nell'organizzazione
gentilizia, che deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal
momento che in essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento
supremo e quello dimettere termine allo stato anteriore di violenza. Fin qui si
considerano soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono
fra i capi dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte
origine a quel diritto, che e poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium
romanorum più tardi. Ora importa cercare invece, quali rapporti corressero fra
i varii gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del
primitivo ius pacis ac belli. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente
considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente
patriarcale, e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra
i varii capi di famiglia. E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di
rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre
in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che
lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra. Esse invece non
erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si consideravano
come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro comunanza di
diritto. Era quindi facile, che fra loro scoppiasse la guerra, ma questa non e
però lo stato naturale di esse. Ciò e come dire, che due persone che non si
conosceno e non hanno fra di loro alcun rapporto giuridico sonno fra di loro in
lotta. Puo darsi che esse siano in reciproca diffidenza, e che stiano in
guardia: ma non percio puo dirsi che siano in guerra effettiva fra di loro. Ci
vorrà pur sempre qualche causa, od anche semplicemente un pretesto, perchè
l'una si arresti minacciosa contro dell'altra. Sarebbe qui inutile citare tutti
gli autori, che professano questa opinione; mi basta ricordare LAURENT,
Histoire du droit des gens a Roma; il JHERING, L'esprit du droit romain, il
quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle genti
antiche nella città, a cui esse appartengono; il che è certamente vero, ma non
proviene unicamente dalle guerre esteriori, ma anche da ciò, che, creandosi una
nuova forma di connivenza sociale, e naturale, che tutte le forze ed energie
vitali si concentrassero in essa. Anche Fusinato sembra dividere la stessa
opinione nel suo lavoro: Dei Feziali e del di ritto feziale, Roma, « Atti della
R. Accademia dei Lincei », Memorie, Classe scienze mor. stor. filologiche, -- al
quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima sul tema. Egli
tuttavia già trova, che il popolo romano e stato, fra le altre genti, il meno
esclusivo su questo punto, a differenza di PADELLETTI, Storia del diritto
romano. Che questi e lo stato dei rapporti fra le genti primitive è provato
dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra “hostis” e “perduellis”.
“Hostis” chiamasi quello straniero, con cui non sonno rapporto di diritto, e
contro il quale il popolo romano si riserva piena ed intera la propria autorità
giuridica e la propria libertà di azione. “Perduellis,” nella sua
significazione, e colui con cui era scoppiato il dissidio, e col quale, per
mancanza di un comune diritto, venne ad essere necessità di appigliarsi alla
guerra. E solo più tardi, che il vocabolo di “hostis” assunse una
significazione più dura e significa il nemico. In allora le significazioni
accettate furono le seguenti. “Peregrinus” chiamasi colui, col quale non havvi
nè amicizia, nè ospitalità, nè alleanza; “hostis” quegli, con cui Roma trovasi
in guerra aperta; “perduellis” infine colui, che nell'interno dello stato
cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'interesse
della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note relative, il
quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri
popoli, per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un
tempo. Per parte mia ritengo, che i romani in questa parte si governano colle
norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il
primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono
circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si
ritenne in stato naturale di guerra cogli altri popoli; perchè in tal caso
tutte le formalità dell'antico ius foeciale si converte in una commedia
inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le
varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in
sostanza nella significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. Dig. Quanto
a questo passo di PomPONIO, egli, anzichè affermare che gli stranieri sono
nemici, dice anzi espressamente che – “si cum gente aliqua neque amicitiam,
neque hospitium, neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem
non sunt.” Tuttavia siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto,
così contro di “aeterna auctoritas esto” -- donde la conseguenza, che se le
cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose
loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è grave, ma essa non è una
conseguenza dello stato di guerra, ma bensì di ciò che fra i due popoli non
esiste comunanza di diritto. Nè vorrei si dicesse, che la questione sia
soltanto di parole, poichè se la guerra e lo stato naturale, non si sa come
CICERONE scrive: “Nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis
geratur, aut de nuntiatum ante sit, et indictum.” De off, e De Rep. Del resto
anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie del
diritto feziale e semplici formalità esteriori, il che certamente non dove
essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere introdotta. essa
[mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che, come tutta legge, tende a
conservare i vocaboli nella loro significazione arcaica, il vocabolo di «
hostis », continua ancora sempre a significare colui, col quale non esiste
comunione di diritto, come lo dimostrano le espressioni ricordate da Cicerone
di “status dies cum hoste” e l'altra “adversus hostem aeterna auctoritas esto.”
Del resto, che il vocabolo “hostis” negli esordii non suonasse nemico, nella
significazione, che noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo, viene anche
ad essere dimostrato dall'analogia evidente, che corre fra i vocaboli di “hostis”
e di hospes, il quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significa o
protettore dello straniero o straniero ricevuto in protezione -- donde anche i
vocaboli di hospitium e di hospitari. Fermo questo concetto dei rapporti, che
intercedeno fra le genti, che non entrano a far parte della medesima tribù
e non hanno perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere facile il
comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse derivare
dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il “ius pacis ac belli” dove
avere un'origine contrattuale, analoga a quella, che abbiamo riscontrato nei
rapporti privati fra i diversi capi di famiglia. Infatti al rapporto di
carattere negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono estranee le
une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o di guerra.
Tanto l'uno come l'altro indicano, che le genti sono già uscite da quello stato
di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro. Quindi perchè siavi
lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una conven [BRÉAL,
Dict. étym. lat., Paris, vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi
dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una mirabile
chiarezza da CICERONE, allorchè scrive. “Hostis enim apud maiores nostros is
dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus.” “Quamquam id nomen durius iam effecit
vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in eo, qui contra arma ferret,
re mansit.” De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V,
I (Bruns, Fontes). Intanto l'analogia, che vi ha fra hostis straniero, ed
hospes, che significa e lo straniero ricevuto in protezione, come pure il
fatto, che nelle origini “per-duellis” significa il nemico esterno ed interno
ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non
distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle
guerre esterne. E solo più tardi, nel seno della città e nei rapporti delle
città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i
reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte
interne.] zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di “pax”
e quello di “pactum”). Al modo stesso che, accio siano in istato di guerra,
occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di
genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano pero
l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il “ius pacis
ac belli” già erasi formato anteriormente alla formazione della comunanza
romana, e che la medesima in questa parte non fa che attenersi a pratiche e a
riti, i quali, preparatisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di
un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualche modificazione ai
rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città. Di qui in
tanto, deriva la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale,
essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di organizzazione sociale,
acquisce un carattere artificioso, che lo fa talvolta apparire come un
ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si fa per
una giusta causa, ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della
guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente,
in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale
ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trovano le genti.
Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si vengono a stabilire
pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a
rapporti fra i capi delle medesime. Cosi essi finiscono per modellarsi e per
ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere
fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le
gradazioni diverse, in cui possono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur
quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto, in cui possono essere le
varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione di pace. Cosicchè
i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esiste
la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati
fra i capi, da cui essi sono rappresentati. I vocaboli, intanto, che indicano
questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia, di
hospitium societas. Prima presentasi l' “amicitial”, che indica quel rapporto
contrattuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di
esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in
tempo di guerra. La gente “amica” è quella, a cui si puo, in caso di bisogno,
ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole
commercio. L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della
gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una
gente amica, questa non puo appropriarsela; il che e potuto fare, allorchè non e
esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto. Possono tuttavia esservi dei
casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù
diverse, porgano occasione al sorgere di controversie. Quindi fra i patti, che
accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più
tardi noi troviamo indicato col vocabolo di “actio” e specialmente con quello
di “reciperatio”; il quale è certamente bene appropriato per significare il
rapporto, a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in
terpretazione a cui esso da luogo. È nota in proposito la definizione di Elio
Gallo. “Reciperatio est, cum inter populum, reges, natio nesque et civitates peregrinas
lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res reciperenturque, resque
privatas inter se persequantur.” La sua interpretazione non può dar luogo a
dubbio, quando diasi al vocabolo di “lex” la sua significazione primitiva di
convenzione e di patto; interpretazione, che del resto è anche imposta
dall'espressione di “lex convenit.” È evidente infatti, che qui trattasi di un
patto intervenuto prima fra le tribù e più tardi fra i popoli, le nazioni e le
città, nell'intento di permettere ai membri delle genti, delle tribù e delle
città di far valere rispettivamente le proprie ragioni presso la gente, tribù o
città, con cui trovansi in rapporto di amicizia; come pure è evidente la
correlazione, che intercede fra questo vocabolo e quello di “rerum repetitio”,
che costitue uno dei preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di
guerra. Questo vocabolo è poi meglio spiegato da quello di reciprocare, il
quale, secondo Festo, significa « ultro citroque poscere » cioè far valere
rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo, che anche oggidi conserva
l'antica sua significazione in quei trattati fra gli stati e le nazioni, che
chiamansi di reciprocità e di reciprocanza. Ciò infine spiega eziandio, come si
chiamano recuperatores quei giudici od arbitri, che sono chiamati a risolvere
le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri.
Infine si viene anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che e sempre
un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una
autorità giudiziaria, pressochè permanente, la quale, mentre decide le
questioni con stranieri, puo anche essere chiamata a risolvere delle
controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto, in cui non si trattasse
di applicare il ius quiritium, ma piuttosto quei iura gentium, che fin dai
primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito
dei “re-cuperatores”, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero
chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero
essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carattere pubblico fra i
popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le
altre, in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo
ad un altro, e alla prosecuzione delle cose private. Se quindi e lecito
avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca,
in cui ancora mal si distingue la ragion pubblica dalla privata, i
recuperatores, che sono persone scelte fra le due genti amiche, possono essere
arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie, perchè queste tenevano del
pubblico e del privato ad un tempo. Allorchè invece, al disopra delle genti,
venne a formarsi la città, e per tal modo comincia a distinguersi la cosa
pubblica dalla privata, i recuperatores hanno circoscritta la propria
competenza alle controversie di carattere privato. Fu in allora che i
recuperatores si manteneno per le controversie di indole privata, e che i “fetiales”
sono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii popoli. E allora
parimenti che la recuperatio e il modo, con cui gli individui “res privatas
inter se persequuntur”, mentre la “rerum repetitio” divenne un preliminare
della guerra. E allora infine che i iura gentium si vennero biforcando, e
mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimane ad indicare un complesso
di norme, che governa i rapporti di indole privata, quello invece di ius
foeciale o di ius belli ac pacis e adoperato per indicare i rapporti di
carattere pubblico fra i popoli e le città. Anche qui insomma non si fa che
applicare un processo, le cui traccie sono evidenti in ogni argomento, il quale
consiste nel “publica privatis secernere, sacra profanes” -- Di qui deriva
quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sembrano avere nelle
proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo a coloro, che
avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece grandemente l'opera
di coloro che tentano fondarsi sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera
compiuta. Al modo stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene
l'ospite, il quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in
certo modo a far parte della famiglia; cosi nei rapporti fra le varie genti, al
disopra dell'amicitia, viene a comparire l'hospitium. L'ospitalità, che diventa
un ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità
presso tutti i popoli primitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati
gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità,
oltre al fondarsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas, e
se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un carattere
ereditario. L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia,
come lo dimostra il fatto che gli antichi giureconsulti disputano perfino, se
gl’ufficii verso l'ospite dovessero precedere o susseguire quelli verso il
cliente: nella quale questione, [Quanto alla definizione della recuperatio,
HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. Questa congettura, che d'altronde è molto
semplice, ha il vantaggio di risolvere parecchie controversie, che sono
largamente trattate da Voigt, Das ius naturale, gentium, etc., e dal Fusinato,
Dei Feziali e del diritto feziale. Essa spiega anzitutto come una sola frase,
quello di “ius gentium”, possa presentarsi con un duplice significato (V.
FusInATO, dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in
secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle
controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle
di carattere pubblico. Di qui una divergenza fra Fusinato da una parte, che
vorrebbe negare ai recuperatores ogni competenza giudiziaria in interessi di
pubblica natura e il SelL ed il Rein da lui citati, che sostengono invece
un'opinione diversa. Credo poi che non possa essere posta in dubbio l'analogia
strettissima fra recuperatio e rerum repetitio, sebbene i due vocaboli abbiano
ciascuno una propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca
actio, mentre rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per
riavere ciò che gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra. Del resto
questa stessa analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le
noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui
discorre lo stesso Fusinato. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di
fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le distinzioni, che si
vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza
stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata
la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores sono in Roma
an’autorità giudiziaria, pressochè permanente, appare da ciò, che essi non sono
ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai
soli cittadini.] -- mentre vi era chi colloca prima le persone affidate alla
tutela del capo di famiglia, poi il cliente, quindi l'ospite. Masurio Sabino
invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti però sono concordi nel ritenere,
che l'ospite dove avere la precedenza sui cognati e sugli affini. Non puo
quindi essere temeraria la congettura, che l'ospitalità e la clientela sono
nell'organizzazione gentilizia due istituzioni, che hanno una correlazione fra
di loro; colla differenza, che la ospitalità importa solo una difesa e
protezione provvisoria, mentre la clientela importa un rapporto di protezione
permanente. Sotto quest'aspetto pertanto, si puo dire che il cliente venne
prima del l'ospite. Ma, quando, invece si consideri che la clientela importa
subordinazione e dipendenza, mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che
l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro, ben si puo comprendere il
motivo, per cui Masurio Sabino concede sotto questo aspetto la precedenza
all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato sono in
rapporto di UGUAGLIANZA fra di loro, il che non accade del patrono e del
cliente. Così il concetto dell'amicitia, che quello dell'hospitium, dove nel
periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. E solo
posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù usceno le città, che cosi
l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione, che si opera in
qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico
e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa
del re dapprima e del magistrato dappoi servì per accogliere gl’ospiti del
popolo romano; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello stato
dalla persona dei singoli cittadini, si dove anche distinguere l'amicizia e
l'ospitalità in pubblica e in privata. Cosi e un effetto della pubblica
amicizia, che il cittadino romano, quando e fatto prigioniero di guerra, gode
senz'altro del diritto di postliminio, appena ponesse il piede nel territorio
di un re alleato od anche solo amico, poichè da quel momento comincia ad essere
“pubblico nomine tutus.” Parimenti l'hospitium pubblicum, allorchè e accordato
non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a
cambiarsi in certo modo nella [V. sopra il passo di Masurio Sabino -- Dig.] concessione
della civitas sine suffragio: il che rende non destituita di fondamento
l'opinione di coloro, i quali, dietro l'autorità del Niebhur, vogliono trovare
nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva significazione, che, secondo
Festo, e stata attribuita al vocabolo di “municipium”. Infine al disopra
dell'amicizia e dell'ospitalità, presentasi la “societas”. Qui non trattasi più
di semplici officii di cortesia, ma di obbligazioni che già assumono un
carattere giuridico; poichè la “societas” fra le genti, al pari della societas
fra i privati, è un accomunare le proprie forze per il conseguimento di un
intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera
insieme “associate”. I patti e le condizioni di questa “societas” possono
essere molto diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offensiva
delle genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di
qui la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospitalità possono anche trovare
origine nel fatto e nella consuetudine; la “societas” invece suppone una
convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con
essa viene a sorgere il concetto del foedus, il quale ha larghissimo
svolgimento e da luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio.
Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo, che l'essenza del
“foedus” sta nella “fides”, che stringe quelli che entrano in confederazione
fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello
stesso ufficio, a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia.
Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di
societas e di foedus, è [NIEBhur, Histoire romaine. Questa opinione e sostenuta
dal TADDEI, Roma e i suoi municipii, Firenze] Senza negare che possa esservi
esistito un qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium, nella
prima delle significazioni che è attribuita a quest'ultimo vocabolo da Festo,
vº Municipium, vuolsi però avere presente che l'hospitium è istituzione di
origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la
convivenza civile e politica.] però facile l'avvertire, che i medesimi,
sopratutto negli inizii, dove avere significazione diversa. Mentre infatti la “societas”
indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di “foedus”
invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo
rapporto viene ad essere stipulato. Che anzi, siccome fra le genti non si
distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di carattere privato:
cosi il vocabolo “foedus: si presenta dapprima con una larghissima
significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto nei filosofi,
significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano stringere tutti i
popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà: convenzioni e
rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di “foedera generis humani”,
poichè il popolo che vi venisse meno sembra in certo modo uscire dal novero
dalle umane genti. Tali so fra i romani l'inviolabilità e l'immunità dei
legati, senza la quale e stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che
non hanno fra di loro comunione di diritto; tale e eziandio quel costume
veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve
tregua, accio i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di
più, anche nei rapporti fra le genti, il “foedus” non significa soltanto la
confederazione o l'alleanza; ma puo significare qualsiasi accordo, che venisse
a seguire fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la
decisione della guerra ad un duello fra individui scelti negli eserciti che si
trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addivenne alla
deditio di un popolo ad un altro e se ne fissano le condizioni. Il “foedus”
insomma indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare
nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò, che, malgrado tutti i dubbii che
possano avere gl’etimologi, non sotrattenermi dall'esprimere la persuasione
profonda, che il vocabolo di “ius foeciale”, con cui si indicava il complesso
delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così
in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di “ius
foederale”. Gl’etimologi non possono accertare che “foedus” origina da “fides”,
nè che “foeciale” derivi da “foedus”. Ma questo è certo, che le parole di “fides”,
“foedus”, e “foeciale”, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno
una strettissima attinenza, quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è
questo il motivo, per cui continuo a scrivere “ius foeciale” a vece di “ius
fetiale.” Quanto alla larghissima significazione pri [Intanto il “foedus” è il
rapporto fra le genti e le tribù, che suppone un maggiore progresso
nell'organizzazione sociale. Qui infatti non è più il caso di un semplice
ufficio di amicizia e di ospitalità; ma trattasi già di un rapporto che assume
il carattere GIURIDICO, in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù,
che vi addivengono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene
queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è
perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della
stipulazione giuridica, che le genti latine recarono non solo nelle convenzioni
private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura; stipulazione che, a
mio avviso, dovette probabilmente essere prima adoperata per i rapporti di
carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato. Quanto alle
formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se più tardi potè
essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore, che serve per
dargli il carattere di iustum, come lo dava al testamento, alle nozze e a
qualsiasi altro atto; questo è però certo, che le cerimonie, che accompagnavano
la conclusione del foedus nel periodo, in cui si vennero formando, dovettero
avere una reale ed effettiva significazione. Non dove quindi nel periodo
gentilizio esservi un “pater patratus”, che addivenisse alla formazione
dell'alleanza: ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che da essi erano
rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure dovette anche avere
una efficace significazione l'obtestatio deorum, per cui chiedevasi il divino in
testimonio del patto, che interveniva fra di essi, e si poneva il trattato
sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro colui, che
venisse meno al patto intervenuto, e simboleggiando, col ferire con un coltello
di selce la vittima, il modo, con cui il divino avrebbe colpito il violatore
del patto. [mitiva di foedus, essa
appare sopratutto dall'uso che ne fanno I filosofi latini, pei quali indica
dapprima qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui
abbiamo una parola, che si rifere dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un
tempo; argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo
significato di foeduse presentito dal nostro Vico, allorchè chiama le
religioni, le sepolture ed i matrimonii “i foedera generis humani”. Il duplice
significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di Livio
– “Aenean apud Latinum fuisse in hospitio: ibi Latinum, apud penates deos, dome
sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data.” Questo è
provato anche da ciò, che nel primo caso narratoci di un patto se [Questo ad
ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso
e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ha certamente a
precedere la formazione della comunanza romana, e dove anche prima ricevere
applicazioni molteplici e diverse, durante il period gentilizio. Il foedus può
essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra diverse
tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti delle
armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già,
anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fa
così larga applicazione fra il “foedus aequum” ed il “foedus non aequum”.
Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione
e di trattato, serve, come ricorda Gellio, per dettare la legge ai vinti; altri
in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero
sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e
di subordinazione verso quello che sta per vincere, il che costituie appunto il
“foedus non aequum” e da origine ad una specie di clientela di un popolo verso
un'altro, che nell'epoca romana e poi indicata coll'espressione « at maiestatem
populi romani coleret »; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della
guerra, si pone termine alla medesima con un “aequum foedus” e si veniva,
secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e
all'abbandono del territorio occupato.] si pone. Per quanto poi si riferisce a
quella distinzione fra foedus e sponsio, stata invocata qualche volta dai romani,
sembra che la medesima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica,
trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città. È
noto in proposito, che i romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo
il “ius foeciale”, che è quello relativo al combattimento degl’orazii e dei curiazii,
DIONISIO ci narra, che il medesimo e solennemente stipulato, e che due
cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a
nome di ciascuno d'essi. Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. Ritengo poi
verosimile l'opinione di Pantaleoni, ricordata da Fusinato, “Le droit
international de la république romaine” (Bruxelles) – “Revue de droit
international”, secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della
pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è
veramente nel carattere romano. Quanto alle varie specie di foedera fra le
città ed i re è da vedersi Livio. Esempii poi di foedera non aequa possono
vedersi in Gellio, Noc. att., e nello stesso Livio] stipulato coll'intervento
del “pater patratus” e colle cerimonie tutte del “ius foeciale”, mentre “sponsio”
e la pace giurata soltanto dal generale. Mentre il primo obbliga direttamente
il popolo pomano, l'altra invece, quando non fosse ratificata dal senato,
obbliga solo a fare la consegna del generale, che ha giurato la pace. Ora è
evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè
trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la
guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace
circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere
religioso, che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre
quindi ancora l'artificio del “pater patratus”, nè l'intervento dei feziali,
perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo. Quando invece
trattasi di una città, tanto più se retta a repubblica, il generale non può più
dirsi che rappresenti il popolo e il senato, e quindi egli non può addivenire
che ad una semplice “sponsio”, la quale, per essere cambiata in un vero
trattato, abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle
cerimonie del diritto feziale. Intanto pero, siccome il generale è colpevole
per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo
oltre i limiti del suo mandato; cosi il senato, che non ratifica il suo operato,
si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che
altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali
non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione
civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei romani:
poichè per essi il loro generale era anche il loro capo effettivo, e quindi puo
obbligare direttamente il popolo da lui rappresentato. Non parmi quindi, che possa
essere il caso di introdurre qui la triplice distinzione, a cui accenna Mommsen
nel “Le droit public romain” fra la semplice “sponsio” del capitano, il foedus
foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è dichiarato abbastanza
chiaramente da Livio, che tanto il foedus che la sponsio, se siano fatte in iussu
populi, non possono obbligare il popolo romano. Quindi la distinzione viene ad
essere questa: o la convenzione è opera del solo capitano, in iussu populi ac
senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una
semplice sponsio; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i
feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione dove essere
un effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizzazione
politica. Cfr. Fusinato, “Dei Feziali e del diritto feziale.” Non credo poi si
possa ammettere con Mommsen, che sulla forma del foedus ha esercitata una
visibile influenza la teoria del contratto, in quanto che nel foedus sarebbesi
adoperata per analogia la forma della stipulazione, come quella che era
considerata come il modo generale e di diritto comune per contrarre le
obbligazioni. Ciò è del tutto impossibile: perchè è certo che esisteno già il
foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già
si stipulano con quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti
costruissero la teoria della stipulazione e ne fanno applicazione alle
convenzioni private. Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai romani
nei rapporti col divino, nella formazione della legge, nella conclusione dei
trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile
romano ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che
ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca.
Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i
rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato; la quale deriva da
ciò, che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra
capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie
genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi
però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella
della sponsio, che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima
nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cio
è anche attestato da Gaio, che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria
della stipulazione privata alla sponsio del generale romano; poichè, se si
venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur. V.
Mommsen, Le droit public romain, il quale, secondo la traduzione Gérard, di cui
mi valgo, scrive. “En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a
fait employer ici par analogie les formes de la stipulation, parce qu'elle
était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des
obligations.” Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa
proposizione non possa essere accolta, e che sarebbe vera piuttosto la
proposizione inversa. Infatti secondo MUIRHEAD, Hist. Introd., e molti altri,
la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe penetrate in
Roma, che verso l’epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei
rapporti fra le città ed i popoli, aveva già ricevuto tutto il suo sviluppo.
Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione del MUIRHEAD, in quanto che ritengo
che la sponsio e romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche [Un'altra
applicazione del foedus era anche quella, per cui tribù e genti, che potevano
anche non essere in guerra fra di loro, stringevano fra di loro un'alleanza, i
cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una
lega difensiva ed offensiva ad un tempo; la cui idea tipica pud essere ricavata
dal foedus latinum, detto anche foedus Cassianum, il cui tenore ha ad esserci
conservato da Dionisio. È poi notabile, che queste specie di alleanze fra tribù
e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i
capi di gruppo, cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità,
per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che
tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi
profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna
ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato
dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum, secondo la quale la
pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare: « dum coelum et terra
eandem stationem obtinuerint.” Infine un'altra importantissima applicazione del
foedus nelle epoche primitive, è quella, in virtù della quale più tribù, che
possono anche essere di origine diversa, societatem ineunt fra di loro, nel
l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita
pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione
dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo, sovra cui ebbe ad
essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto
che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e
pressochè con trattuale. Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il
vincolo della comune discendenza, non poteva esservi che quello della fides, e
quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel
diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse
prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu
stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che
la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni
private, non era più il caso di confonderle insieme. Da questa nasceva l'actio
ex stipulatu, mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti
tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la
propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum, il ius gentium e il ius
belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. Dion.] 154
della città. Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale,
perchè è l'effetto del primato, che una gente acquista sopra le altre che la
circondano; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù,
che entrano a costituirla, accordo, che riveste appunto la forma di un foedus. Intanto
egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che
nell'organizzazione gentilizia, in cui prima do minava esclusivamente il
vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e
contrattuale, questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una
elasticità e pieghevolezza, che essa prima non poteva avere. Infatti egli è
sopratutto da questo punto, che nel seno della tribù e della città, costituita
mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i
quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento, o ser vono
invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo
altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della
comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della
concessio civitatis sine suffragio, della secessio e della colonia; la cui
nozione è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. In virtù
della cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima
comunanza civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della
medesima. Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la
cooptazione delle genti Al bane, dopochè Alba fu, secondo la tradizione,
distrutta da Tullo Ostilio, e fu applicata eziandio alla gente sabina,
capitanata da Atto Clauso.Questa origine federale delle città costituite sul
tipo latino pud servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro
qualità di socii coi Romani abbiano messa innanzi la pretesa, che Roma e il
Lazio dovessero dare origine ad una comu nione ed unità di governo; per cui dei
consoli uno dovesse essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato
dovesse comporsi in parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr.
WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad. Bollati, Torino. È poi questa
istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo di Roma patrizia,
la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti collettivamente
considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura applicabile
all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui (1). Non pud poi
esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione eminentemente
patrizia, doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie religiose; perchè
la gente, che era ammessa nella tribù o alla città, diventava eziandio
partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli auspicia, ed il suo capo
poteva anche conseguire un seggio nel senato. Quasi si direbbe, che la
cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla adrogatio per la
famiglia. Quindi si comprende, come al modo stesso che l'adrogatus, per essere
disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima addivenire alla
detestatio sacrorum; così anche il gentile, per uscire dall'ordine delle genti
patrizie e passare, ad esempio, nella plebe, il che chiamavasi transitio ad
plebem, doveva pure appigliarsi ad una specie di abdicatio o detestatio
sacrorum; alla quale dovette appunto assoggettarsi Clodio, allorchè abbandono
l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter essere nominato tribuno [È poi
degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad essere applicata ai collegi
sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva mente tratti dall'ordine
patrizio, e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii
pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu applicata l'elezione
popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi tributi. Quando poi
la città cesso di essere esclusivamente patrizia, in allora noi vediamo
svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione della civitas
sine suffragio, in virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che
venivano a prendere il [Dion., III, 29; Liv., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit
public romain; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte. La necessità di una specie
diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente passo di
Servio, In Aen. 2, 156: « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in familiam vel
gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat, et sic ab alia
reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem, è da vedersi Cic., Brut., 16, e
Aulo Gellio] nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano
ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa
però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel
ius suffragii e nel ius honorum. Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a
mettere le basi di quel sistema mu nicipale, per mezzo del quale tutti gli
abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città italiche,
finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la patria
communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria amministrazione
municipale. Questo carattere dei municipia, i quali in sostanza erano città per
sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di Roma, fu espresso
da Gellio con dire, che imunicipia, a differenza delle colonie, veniunt
extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però non tolse, che il
concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni profonde, le
quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo attribuisce a
questo vocabolo (). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva accrescendosi il
numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas, se ne contrapponevano
invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare altrove una parte
della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio della stessa città,
come accadeva nella colonia, sia che una parte di essa si trovasse in
condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva alla
secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle colonie,
che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel costume delle
genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche, sebbene il suo
scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che, secondo la
tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che una colonia
di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali,
collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria, colla approvazione
di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e
colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi
iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con
dire, che le [I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla
colonia, possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier,
Introdution historique au droit romain, Bruxelles, la quale contieneun numero
grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia.] colonie «
ex consensu pubblico, non ex secessione conditae sunt ». Di qui la conseguenza,
che la colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù
o della città, dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per
guisa che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi
effigies parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini
della città, da cui sonosi staccate, comequelle, che continuano ancor sempre a
mantenersi in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt). Punto non
ripugna, che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo; in
quanto che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni
agricole, che partivano da una tribù, sta bilita sopra un territorio, per
trasportarsi sopra un altro suolo, quando quello prima occupato più non potesse
bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte,
allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia, nulla impedi che esso
potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari,
commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe,
quando essa, raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una
factio forensis e a diventare pericolosa. 126. La secessio invece sembra
contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non
havvi accenno ad alcun rito religioso, sembra aver trovato origine piuttosto
nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio. Ad
ogni modo la secessio, intesa in largo senso, ha luogo allorchè un ele mento
già ammesso nella comunanza, trovandosi incompatibile colla medesima, se ne
stacca volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede. Lasciando
anche a parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero
mai un esito definitivo, può forse scorgersi un esempio di secessio, ancorchè
dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma
coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere
distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite, che entrò di nuovo a far
parte della cittadinanza romana. Servio, In Aen., I, 12; Gellio. L'importanza
delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Scienza
nuova. Intorno alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la
trattazione del WALTER, Storia del Dir. Rom., Trad. Bollati.Quanto alla
tradizione circa la gens Fabia, vedi Bonghi, Storia di Roma. Alla secessio, che
è volontaria, si contrappone invece l'expulsio, quale fu quella, che ebbe ad
avverarsi per la gens Tarquinia; espul sione, che per la intimità del vincolo,
che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa a
tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino,
marito a LUCREZIA, il cui oltraggio, secondo la tradizione, e stata occasione
allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo, che condusse
alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto questi varii
istituti, unitamente all'amicitia, all'hospitium, alla societas e al foedus,
che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra
le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel periodo
gentilizio, dimostrano abba stanza come la città, la quale era uscita dalla
federazione e dall'accordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si
operavano nella stessa guisa. Essa aveva mezzi diversi per accrescere o scemare
il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè infatti la
città fu esclusivamente patrizia, potevano bastare la cuoptatio o la expulsio,
mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta dall'ordine patrizio,
e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi
patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono così a far parte dello stesso
esercito e dei medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte
e la concessio civitatis dall'altra, e quest'ultima potè essere consen tita cum
suffragio o sine suffragio. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla
tribù e poscia dalla città, serve a questa per trapiantare le sue propaggini
altrove; mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui
popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria
amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare
alla vita pubblica della città, senza però essere ammesse agli onori ed al
suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in
tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi,
pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria
originaria, otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di
Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria. Così
viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo
e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le popolazioni, ammesse alla
cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della
grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del
mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo. Solo più ci resta a
vedere, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già
aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. In
proposito già si è dimostrato, come non possa ammettersi il concetto, pressoché
universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato
naturale delle genti italiche. Esse invece si considerano come straniere le une
alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto. Quindi al modo stesso
che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di
pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia
uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere considerate
come in stato di guerra. Quanto alle cause, che possono far scoppiare una
guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le
tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette
dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui
confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere frequenti
le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud
ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o gli
uomini singoli,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano
commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così
pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti
a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e
dell'altra, come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di
Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra.
Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe [A questo proposito però
fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu
l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere
parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere
la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella Repubblica Romana.] riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non
ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento
singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti
di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si
incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile
da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più
forte fra i figli di Tarquinio, e che la moltitudine dei combattenti si arresti
a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà
ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a
questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così
radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal
capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra, erano appese nel
tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui
rinnovavasi il memorabile fatto. Per quanto questimodi di pensare e diagire
possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un
rap porto fra due Stati; questo è però certo, che i medesimi trovano una
naturale spiegazione nel fatto, che durante il periodo gentilizio i rap porti
fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi,
che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i
popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è
dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum,
come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante
significa già il pubblico nemico. Ciò spiega eziandio le traccie, che occor
rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo,
che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli [È ovvio osservare
l'analogia,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci
descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle
gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime
parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che
da me furono letti. (2) A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym. lat.,
vº Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus
in bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo
derivd duellum, così da bis potè derivare bellum. Del resto il vocabolo di
duellum per bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri
Plauto chiama i Romani « duellatores optimi »] cato a risolvere una
controversia privata fra individui; il che in so stanza costituisce il processo
inverso di quello, in cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato
qual mezzo per risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal
medesimo ordine di idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati
e viceversa. È nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di
quella analogia costante, che non può a meno di essere notata fra le formalità,
che accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle, che accompagnano
l'azione che il capo ili famiglia propone in giudizio. 130. È solo infatti
questo modo di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato
al modo di pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una
spiegazione del tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che
accompagna appunto la dichiarazione di guerra. Per quanto tale procedura, tras
portata dallo spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in
cui erasi formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come
un complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e
la prepotenza di un grande popolo; questo è però certo, che essa, ricondotta
col pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di
modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi
in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente
sentiti. Questo intanto è fuori di ogni dubbio, che i varii stadii del dramma
corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in
un'epoca patriarcale. Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla
medesima in vasero il territorio della comunanza, saccheggiandone i raccolti ed
(1) Le formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da
Livio, nel libro primo delle sue storie, ove descrive il processo per la
dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al
cap. 24; e quello per la deditio al cap. 38. Come è notabile la solennità di
esse, così è degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie
procedure, le quali perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo
concetto. Quanto alle divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi
di ricostruzione di formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi
rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale. G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma. [esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è
profonda mente commossa, e il capo di essa, che è pur sempre il padre co mune
di tutti, accompagnato da altri capi di famiglia, recasi in persona sul confine
del territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando
in testimonio le divinità patrone della sua comunanza, quella che protegge il
confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il
danno sofferto, e questo ripete a chiunque incontri per la via, e da ultimo
sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte
preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta
mente il torto sofferto, e repetitio rerum, dal chiedere la restituzione delmal
tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite, egli ritorna con esse, e
cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati,
mediante la noxae deditio; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo
l'obtestatio deorum, con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e
tutti gli altri Dei, che il popolo, di cui si tratta, è ingiusto e vienemeno al
diritto (populum illum iniustum esse, neque ius persolvere). Viene infine
l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso,
dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get
tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue
accompagnato dalle parole: « bellum indico facioque », e si ha così in un solo
atto l'indictio belli e l'initium pugnae. È fuori di ogni dubbio, che questa
procedura, eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso
per essere adat tata ad un popolo, come il romano: poichè il medesimo aveva una
co stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si
erano recati per la rerum repetitio, dovevano poi tornare per avere l'avviso
dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra, che
trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non
perde le sue primitive fattezze. Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo
una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo;
tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro
collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire
le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace, senza avere alcuna
competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva
alla guerra o all'alleanza; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la
repetitio rerum, accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio deorum,
quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il
colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali,
che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non
toglie, che le procedure del diritto fe ziale, al pari delle antiche procedure
dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un
organizzazione sociale di altra indole e natura, affidate alla custodia di un
collegio sacerdotale, rese complicate dei varii congegni di una costituzione
politica, che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun
sero di necessità un carattere alquanto artificioso, e apparvero come forme,
vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo,
che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale, ed era
venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il
diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca
remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole
accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie
genti. Era pero naturale, che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse
destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne
l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte, appare sempre lo
spirito conservatore del popolo romano, che continuò a conservare e a tenere in
onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto, di cui essi erano i
depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso. Intanto non pud
essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella, che
abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento. Siccome però queste procedure
non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero
ritenute, ma sono forme tipiche di fatti, che un tempo dovettero seguire nella
realtà: cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al
duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due
privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente
conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire
diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra
due capi di famiglia, i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che
ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una
persona autorevole, scommettendo di essere dalla parte della ragione e
chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può
esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal
tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel
popolo ha commessa, e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la guerra «
extremum remedium expedien darum litium ». Quello è il processo, che si è
seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e per indurli ad
accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice: questo è il processo, che
deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra. Che poi vi
fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne precedesse una
dichiarazione di guerra, appare dalle dure conseguenze, che il consenso delle genti
aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo gentilizio era un
vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè uno non avesse
portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro. Era guerra di uomini e
guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le for mole che ci
furono conservate, con cui quel popolo, che faceva delle stipulazioni e dei
contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare a se il favore
delle divinità del popolo, con cui era in guerra. Una volta poi, che questa era
intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo stato naturale dei due
popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o per seppellire imorti o a
causa della cattiva stagione, la guerra si continuava finché non si veniva ad
un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di uno dei popoli in
guerra. La deditio era per un popolo ciò, che per un privato il darsi a [È
mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto Danz, prof. a
Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi ragionamenti sono
riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata. Intanto tutto questo sforzo
di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto il diritto
primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una costruzione
essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se invece si
ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri tempi essere
up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo pretendere che
l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un ufficio diverso,
potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle loro analogie
esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il diritto pubblico e
privato,durante il periodo gentilizio. Queste formole ci furono conservate da
MACROBIO, Saturn., il quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di
un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A.
Furio Anziate, scrittore di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono
riportate dall' HUSCHKE, Iurisp. an teiust. quae sup., pag. 11. - 165 mancipio,
cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere
altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità,
che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la
propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno
dualismo con quella dei vincitori. Che anzi i Romani applicavano anche a se
stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del
diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il
cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra, e a fare
astrazione dal tempo, che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico.
Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra, che spiegano quanto dovesse
essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori
e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di
matrimonii, nè di reli gione, salvo dopo una lunga convivenza nei quadri
dell'organizza zione gentilizia, in cui i vinti formarono la classe dei servi,
dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono
quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo,
in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto, la
famiglia, le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto:
dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si
conosce nè la patria, nè il nome, nè l'epoca precisa, in cui siano vissuti; ma
se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti
i concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di
questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette
essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato; ora importa stu
diare le condizioni della plebe, la quale se non ha per sè il passato, dovrà
perd avere una gran parte nell'avvenire della città. La formola della
deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile: che in essa intervengono
anche i Feziali; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua
potestate (il che prova che un popolo, al pari di una persona, poteva essere
sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale
della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum, urbem, agros, aquam,
terminos, de « lubra, utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique
romani ditio « nem? – Dedimus. At ego recipio ». Le cose premesse intorno
all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono
finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della
plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii
della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante
dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città, è
certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si
comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed
abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra
i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di
Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco
Marzio sarebbe stata tras portata a Roma. Certo un tale avvenimento non potè a
meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare
l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo
fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la
medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma;
cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per
l'ordinamento di essa.L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine della
plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel
Willems, Le droit public romain, pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des
institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera, ancora in corso di
pubblicazione, del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo: Storia del diritto romano
dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova, 1886, pag. 274;
opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli
studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi
della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure
de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la
plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii, il cui
nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è
dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure
seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte] Non può parimenti ammettersi
col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati
contro l'ordine dei padri, in quanto che, durante il periodo regio, la plebe
non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato;
lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad
essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si
aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in
opposizione fra di loro, comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela,
che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto,
che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela, come due termini
inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi
state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che
poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia
della Roma primitiva, e nota che il Celio, l’Appio e il Cispio, secondo una
osservazione stata fatta di recente, hanno un nome identico a quello proprio di
genti plebee. Anche il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 258, viene alla
conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie; ma che essi
costituissero una corporazione distinta, la quale, dopo l'istituzione del
tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa. La
corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex
publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis; al modo
stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i
decemviri, che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione,
che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla
lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della
stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che
quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe, che non riesce mai ad
inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra
abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad
essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo
tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un
contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica, che
in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del
diritto romano, pag. 19, e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che
l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI,
il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini,
ammessi a far parte della assemblea delle curie. Il luogo, in cui il V100
svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib.
II, Cap. XXXII, dove scrive: « che le prime repubbliche sorsero dagli
ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li
signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro;
e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro,
furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini »: Di qui appare,
che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla
formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua
lotta col patri ziato; donde si può argomentare, che anche nella plebe
primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di
varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela. Cosi stando le
cose, ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte si
accosta a quella del Vico, secondo cui il nucleo primitivo della comunanza
plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si
trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi
dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo
fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente
avrebbe potuto, fin dal periodo regio, prendere così grandi proporzioni da
imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città. Quindi è, che l'opinione
del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il
quale, tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in
condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi
stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica
costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie, chiuso
e fortificato in sè stesso, formasi naturalmente una specie di comunanza plebea;
la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai matrimonii
della città patrizia, pud tut tavia giungere ad una certa indipendenza dalla
medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e mediante l'esercizio
dei mestieri e delle professioni diverse (2 ). Tuttavia anche l'opinione del
Niebhur (1) MOMMSEN, Histoire romaine, I, Chap. V, pag. 103 e segg. Questa
opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la République Romaine,Paris,
1878, pag. 15. (2) Ritengo che anche oggi il Niebhur sia l'autore, che è
pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della plebe. Di regola
esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe sia stata composta
delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima sottomessa. Tale è, ad
esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS dal Bouchè-LECLERCQ, op.
e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato: « La commune et les
tribus plébéiennes » della Histoire romaine, mi ha convinto che il NIEBHUR si è
fatta una idea più larga della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno
bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto
coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva
nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata
e distinta dal patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine
suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit., pag. 149).
Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio
compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato
di inferiorità e di abbiezione, pressochè servile, in cui una parte almeno
della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte,
che non si comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di
terre, che fossero stati sempre indipendenti dal patriziato. 137. Tutte queste
considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata, che il
fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella
sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già
preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere
dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche
invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero
dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti;
in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione
genti lizia, e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella
loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe
dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più
fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia, e tentarono di fare
entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella
condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di
conflitto, che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di
classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso, che è
nell'epoca feudale, che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di
classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede
eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima
origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche
primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la
posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente
organizzazione dei vincitori; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano
per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa
suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro
inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il
nostro Vico. La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione
di padri; mentre è la città patrizio-plebea, che ci porge lo spettacolo della
lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose,
e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170
138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato, che fra le
varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed
organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e
costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano
delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e
all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere
stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee.
Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e
pressochè di vas sallaggio, rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in
certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo, che comprende
vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza
rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del
proprio diritto, cioè il ius nexi manci piique (1). Tuttavia, se ciò può esser
vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza, che certamente
un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe
ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga
nizzazione gentilizia. Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata
del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che
tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo
affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla
condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la
storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi
degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo, vº Sanates, quale è riportato
nel Bruns, Fontes, pag. 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal
Mommsen). Io credo tuttavia, che la medesima, dandoci un concetto del tratta
mento giuridico, che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma,
possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione
della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi
l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi
la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma
voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione
gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione, che ha sede contigua allo
stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra
invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo
nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di
esso. Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno
alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie
tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri, ed
altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione poi
di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione
gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente, che
era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a
sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di
origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri,
consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando
intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza
zione gentilizia, che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie, una
moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso
della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono; al
modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite
da famiglie, che un tempo erano vassalle del feudatario. Siccome però
nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello,
mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed
acco. gliere tutti coloro, che, per questa o quella considerazione, si trovano
spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo, dopo essersi
staccato dalla stessa organizzazione gentilizia, venne richia mando e quasi
attraendo a sè rifugiati di altre comunanze; servi fuggitivi; immigranti, che
non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato, o che, per motivi
religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di
vinti, che perdevano territorio, religione e famiglia; abitatori di vici, che
si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse; cultori
di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle
circostanze dello stabilimento patrizio; popolazioni stabilite superiormente od
inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima
accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai
forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome
era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo
perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi
la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese
nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante
l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8, ebbe a
scrivere: « E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis, sine discrimine liber
seu servus esset, avida novarum rerum, perfugit; idque ad caeptam magnitu dinem
roboris fuit ». 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo
primitivo si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo
at torno a sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona
moltitudine o folla. Il nome pertanto, che le fu dato, corrisponde alla
impressione, che questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che
non conosceva altra organizzazione fuorchè la gentilizia. Le genti infatti non
potevano scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa,
che per esse non aveva quel carattere religioso e sacro, che avevano tutte le
loro istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè
divisa in curie, nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato, che la
diri gesse, nè era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis
comunione sociatus », e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra
populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche; dualismo, che per
essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in
tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia, se ne hanno di
quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato, come sarebbero le città
etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali
sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per
quest'elemento novello, che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria
gerarchia, dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più
tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano
trasformarsi nei comizii tributi; ma al lorchè il numero di questa plebe venne
facendosi sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di
necessità essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere
belligero, quale era la romana. 140. Narra infatti la tradizione, per bocca
almeno di Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe
collocata la plebe nella clientela del patriziato, e incaricato i padri di
farle assegnidi terre, a titolo di precario, non dissimili da quelli, che essi
facevano ai clienti. In verità per una città eminentemente patrizia, come era
Roma primitiva, il miglior modo per organizzare la folla, che aveva seguito
l'esercito del fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da
essa fondato, era quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione
gentilizia. Fin qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale, ma è
costretta ancora nei quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna
nascente di Roma od 173 anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli
esuli dalle altre città (questo vetus urbis condentium consilium, che non è poi
cosi improbabile, come ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia
mare nei dintorni della città una quantità di individui e di capi di famiglia
di provenienza diversa; anche la clientela venne ad essere insufficiente per
comprendere nei proprii ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè
forse essere di origine ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze
diverse da quelle dai fondatori della città. Era stata la lunga coabitazione
come servi e famuli nella famiglia, che nell'anteriore organizzazione
gentilizia aveva servito a preparare la clientela delle genti patrizie. Questa
preparazione invece mancava nel nuovo elemento, che accorreva nei dintorni di
Roma; per tal modo l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela
venne ad essere inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare
un'organizzazione al nuovo elemento. Quasi si direbbe che, collo svolgersi
della città, l'antica forma, sovra cui si era modellata l'anteriore
organizzazione sociale, che colla tribù già erasi alquanto sgretolata, venne a
rompersi affatto. Quindi mentre tutto prima era compreso nella gerarchia
gentilizia, colla città in vece comincia a farsi palese e a colpire lo sguardo
questo ele mento novello, che guadagna e richiama a sè tutto ciò, che sfugge
all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette colpire l'ordine stesso
dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere, che l'or ganizzazione
gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma col tempo fu necessità
arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva essere trascurato per
una comunanza come la Romana di carattere eminentemente belligero, e che
abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire le file del
proprio esercito. Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im portante per
il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio potente per la
formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non
dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe, poteva anche trovare in essa un
appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi infatti,
memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante, a cui avevano
affidato i proprii auspicia, lo volevano naturalmente ligio ai proprii
interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città
l'organiz zazione per genti e per tribù, per quanto la medesima male si accon
ciasse alla nuova condizione. Gli è
questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai
re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare
la plebe. Mentre Romolo, dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la
coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto
la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere
un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due
importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai
più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che
appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac
crescere l'ager publicus; il quale provvedimento produsse l'effetto, che la
plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato
dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al
patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il
quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai
patres (2). Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re
alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario,
come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius; ma in
tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più
direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno
sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città. L'altro
provvedimento, ricordato da Plutarco, e che egli dice essere stato altamente
lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2, 9: « Romulus postquam
potiores ab inferioribus secrevit;mox legem tulit et quid utrisque faciendum
esset disposuit: patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et
iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes
exercerent » (Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta
da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep., II, 14, secondo cui la
ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO
vuole che siasi fatta ai più poveri, II, 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I,
pag. 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe,
ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi
cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm. R. G., I, pag. 63 ). Ciò
tuttavia pon toglie, che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal
patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale
protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così
gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente. -
stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e
all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri
(collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli
orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei
vasai e l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie
riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere
posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen, e che probabilmente
i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere
precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle
prime ad essere compresa nella plebe romana: ma non è punto improbabile che,
come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre,
cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi
delle arti e professioni diverse, o di consacrare almeno l'organizzazione, che
già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione (1). Non è
quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di
meglio da sosti tuirvi; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure
alquanto leggendarie dei re, piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non ha
neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di
vero. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii di
Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato fin
dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e
l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad
una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e
mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi
infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli
possidenti, ed (1) PLUTARCO, Numa, 17: « De ceteris eius institutis maximam
admirationem « habet plebis per artificia distributio; haec vero fuit:
tibicinum, aurificum, fabrorum « tignuariorum, tinctorum, sutorum, coriariorum,
fabrorum aerariorum, figulorum; « reliquas artes in unum cöegit, unumque ex iis
omnibus fecit corpus; consortia et < concilia et sacra cuique generi
tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore, che sembrava
porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo
stesso MOMMSEN, De collegiis ac sodaliciis; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD,
Histor. Introd., pag. 11; ma pare che nella Storia Romana accetti la
ripartizione stessa come una verità di fatto. - - una plebe, composta di
artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse. L'ideale
della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una
proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al
sostentamento di sè e della propria famiglia; quello insomma di avere
quell'heredium o man cipium, che pur appartiene al capo della famiglia patrizia.
A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle circostanze di essa,
dovette probabilmente dalla città patrizia essere riconosciuto quel diritto,
che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo lazioni vicine, che sono
indicate col nome di forcti ac sanates, cioè il ius nexi mancipiique. Cid pud
essere argomentato da cid, che Roma di regola suole seguire gli stessi processi
in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che questa plebe, che risiedeva
fuori della città, e costituiva in certo modo una popolazione circostante alla
medesima, fosse trattata nel modo stesso, in cui da essa furono poi trattate le
altre popolazioni vicine. L'altra parte della plebe invece, mancando di altra
organizzazione, cerca di rafforzarsi, come farà più tardi anche la popolazione
commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante le corporazioni di arti e di
mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe rurale, convengono in Roma i
giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per conoscere anche i
provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune; mentre gli altri, che
apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri, formano fin
d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della quale si
formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire sotto la
censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane. 143. Già
erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando
sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza all'organizzazione
della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la potenza, le diede anche
un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo avvenimento fu
l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della popolazione di
Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella del trasporto
od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di Roma per opera
di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui conquistate.
Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale, vivamente
affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita per la
difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento, la cui origine
era analoga a quella del patriziato, e che aveva già un'organizzazione
domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso
del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie
delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando
in essa un elemento, che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e
politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che
contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era
stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi
sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina; così fu sopratutto
latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona
parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la
plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine
servile, avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale;mentre
questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un
certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri
dell'ordine patrizio, portò forza, organizzazione, tenacità nella plebe e ne
assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per
uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente, e aggregandosi alla nobiltà
abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di
frumento. 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura, importa
farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma
dall'altra. Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica
fra varie comunanze di villaggio, ed erano troppo vicine per poter coesistere.
L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover
scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano
capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella, che riusciva vittoriosa. Il
patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi
dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che,
trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre
per parte le sorti della guerra (1). (1) Questo intento della guerra Albana è
messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio
nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo
squartamento Metto Fuffezio: « Quod bonum, faustum G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era
lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e
riconosciuta, ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse
preva lere: senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei
tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie
(1). Conseguenza dell'esito del duello fu, che la città soccombente perdette la
propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie
albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i
Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti
pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso
Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores. Tutta la
popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva
entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di
essa, cioè la più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde,
quando Anco Marzio vinse altre comunanze latine, e ne aggregò la popolazione
alla plebe romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco
Marzio aveva trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ).
145. È a questo punto pertanto, che la plebe acquista in Roma una vera
importanza, e che viene ad essere indispensabile di trovare un modo per farla
entrare, ancorchè a condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo
cominciato con Tarquinio Prisco, e condotto a compimento da Servio Tullio (3).
Mentre Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque,
Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare
plebi; primores in patres legere: unam urbem, unam rempublicam facere ». (1)
Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 35. (2) Questi fatti attestati
dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile
l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia
civile e costituzionale di Roma, lib. I, cap. 6, pag. 97 a 113, Torino, 1881,
secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico, mentre la plebe
sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle
città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel
dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio. Del resto l'ipotesi
del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione
regia, Lib. II, cap. IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi
italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per
l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i
rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine
dei cavalieri, raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella
condizione, in cui prima si trovava; Servio Tullio invece inizia una
organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che
nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione
economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica. È da questo punto
parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che
la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità
della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo
ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto, che le istituzioni del
patriziato e quelle del nuovo elemento, aggiuntosi alla plebe, non erano a
grande distanza fra di loro; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima
organizza zione domestica, ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne
erano di quelle che un patriziato, meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi,
avrebbe potuto accogliere nel proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe
e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali
fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui
entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla
plebe primitiva, in parte di origine servile, è un fatto riconosciuto da tutti
gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange
e molti altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile, Le
elezioni e il bro glio, pag. 142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata
nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova, quanto
sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità
italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli
onori in quella cittadinanza, a cui più o meno recentemente erano ascritte ».
Di qui la conseguenza, a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione
romana, eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare
nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica, immobile nella mano di
pochi ». La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato. 146. Se
posta questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione della
medesima, si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui essa
appare nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una
deffinizione di carattere negativo. La plebe infatti è negli esordii di Roma
tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto
trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia; ma
che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a
far parte dell'organizzazione gentilizia. Essa è, come dice Gellio, quella
parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui «
gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora quella parte di tale
popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione
gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città
patrizia. Al modo stesso, che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non sia
cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un
altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose,
che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche
più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una
persona senza appartenerle ex iure quiritium; cosi alla domanda in che consista
la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere, che essa è quell'elemento,
che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di esso, consacrati
dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul territorio della
città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione giuridica e politica
di essa. Ora e sempre sarà questo il punto di vista, a cui si colloca il popolo
romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra il suo culto, sopra la
sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra il suo diritto, e in
base al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente dell'universo, secondo
la posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle proprie istituzioni. Questo
modo di (1) GELL., Noct. att., X, 21, 5. - 181 - procedere del resto non sembra
esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o
peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli
altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia
mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio
di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre. dono di avere il
diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può
anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche
primitive, in cui ogni popolo, chiuso in sè stesso, mal conoscendo il
rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa, facendo sè il centro dell'universo
(1). È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del
tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti
patrizie, chiamò plebe tutto ciò, che non era compreso nei suoi ordini, cioè
nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium,
dopo che già comprende va la plebe, vide una folla e moltitudine di peregrini e
di hostes in tutti quelli, che non erano compresi nei quadri della città
romana. Di qui con seguita, che la definizione di quell'elemento, che è il solo
ad essere tenuto in conto, implica eziandio la deffinizione negativa di quello,
che ne costituisce il contrapposto. 147. Se quindi è solo il populus delle
gentes, che possiede un diritto, ne verrà comeconseguenza, che la plebe non può
negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad
esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo
qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi all'organizzazione
del populus, e di penetrare, sotto questo o quell'aspetto, nei suoi ordini e
nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal diritto. La plebe
insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto, e che si viene avviando
alla conquista di una posizione di diritto. Essa è nella stessa posizione, in
cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso
dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1)
Fo qui applicazione di un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro
alla natura dell'uomo primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima
degnità della sua Seconda scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita
natura della mente umana, ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè
regola dell'universo ». Solo è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per
ignoranza,ma perchè veramente attri buivano a se stessi una superiorità sugli
altri. 182 nanza romana: mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra
sociale, la plebe ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto
il pareggiamento civile e politico. Qui, comenel resto, il processo della
logica romana è sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono
formando nell'interno della città, e che poi si vengono sempre più allargando,
finchè non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna
città. 148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato
delle istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano
istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto: ma a cui il patriziato non
annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia, anche considerate sotto
questo aspetto, le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un
' analogia, che possa paragonarsi con quella, che esisteva fra le istituzioni
delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro
partecipazione alla stessa co munanza civile e politica. Anzitutto si
cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo
trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas,
di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il
vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione.
Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma
trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed
umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè
avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa
quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto
ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad
una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi
non tanto la pro prietà, quanto la possessio, che dapprima tiene luogo di essa.
In fine sarà eziandio, mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire un capo
di famiglia plebea, i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi congiunti ed
anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da esso lasciati; e
avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio pro herede, che
il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era coerente al
principio dell'agnazione posto a fondamento della successione quiritaria (1).
Tutto ciò insomma, (1) GAIO, Comm., II, 53, 54. 183 in cui predomina l'usus
auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato dalla legislazione
decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto ciò che si fonda
di preferenza sul fatto che sul diritto, è da ritenersi di origine plebea, e
solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto il nome di
usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il motivo,
per cui, allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere giuridico a
queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e prescrivere
delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più tardi dalla
giurisprudenza, perchè siavi usu capione, e perchè il possesso possa ottenere
protezione giuridica. Ciò del resto era una conseguenza delle condizioni reali,
in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un patriziato, dalle an
tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme e regole fisse, le
quali se non avevano sempre un carattere giuridico, avevano almeno un carattere
religioso e morale; in una comunanza invece, composta di individui e di
famiglie di origine diversa, priva di tra dizioni e di recente formazione, i
rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati, che dall'usus. Credo
non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha
questa induzione per spiegare l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma,
e sopratutto quell'usucapione, che appare introdotta dalla legislazione
decemvirale. Colla medesima viene ad apparire l'unità di concetto, a cui si
informarono idecem viri, allorchè introdussero contemporaneamente l'usus
auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto della proprietà immobile
e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico
mezzo per mutare al più presto la posizione di fatto, in cui trovavasi la
plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega eziandio come la primitiva
possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo, nè buona fede, e come sia
stata necessaria una lunga elaborazione, perchè potesse uscirne la teorica del
possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le quali hanno fra di loro
strettissima attinenza. Così pure si spiegano le definizioni di Ulpiano e di
Modestino, secondo cui: < Usucapio est dominii adeptio per continuationem
possessionis anni vel biennii », senza che richiedasi altra condizione. Lo
stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per trattenere l'istituzione da
essi accolta in limiti tali, che non la rendessero pe ricolosa per la
convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e consentendo alla moglie,
che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione della manus, mediante il
singolare istituto del trinoctium. Intendo però di riconoscere, che un
avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel MUIRHEAD, Histor.
Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura intorno all'origine
della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente articolo sull' «
Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi Mélanges d'Histoire de droit,
Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184 149. Parimenti, è sempre sotto
l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui trovasi la plebe, che i suoi
commercii non possono essere governati da forme solenni, simili a quelle che si
erano for mate fra i padri delle famiglie patrizie; ma dovettero svolgersi con
forme semplici, quali erano suggerite dai bisogni di una comunanza, in seno a
cui non era ancora organizzata una vera propria pro tezione giuridica. Fu
quindi certamente nei rapporti della comune plebea, che dovette anche svolgersi
l'emptio-venditio, accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del
prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per cui presso gli antichi, secondo
Festo, emere pro accipere ponebatur, in quanto che emere era vera mente
prendere la cosa comperata (1). Fu in essa parimenti, che dovette aver origine
quel singolare istituto della fiducia, il quale serve qual mezzo per accordare
una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa, che
deve servirgli di malle veria (2 ). Fu parimenti in essa, che dovette svolgersi
quel modo aver allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano
apparire disparate, e dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte
indirizzata a dare carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza
di fatto presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè
incomprensibile, che un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi
allora il Romano, e del quale una parte aveva già attra versato, e non
inutilmente, tutto un periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare
contratti, come l'emptio venditio, la locatio conductio, e simili. Essi
dovevano certamente esistere, quand'anche non fossero per avventura penetrati
nel diritto qui ritario. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd., COGLIOLO, Prefazione,
pag. XI, alla traduzione del GOODWIN, Le XII Tavole, eseguita dal Gaddi, Città
di Ca stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale,
per cui la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche
coinune alla Grecia; il che dimostra, che dovette essere determinata da comuni
necessità, in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che
appartenevano a genti e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere
la cosa, quando non ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto
della fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea,
perchè fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non potevano
ricorrere che a quella. Si spiega pertanto il largo uso, che se ne fece nel
diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento, per la
nomina di un tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti altri casi
ancora, che dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario
propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini
e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi,
affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad
una persona di sua confi denza. Questo costume è anzi il perno, intorno a cui
si aggira il Trinummus di PLAUTO. 185 - semplicissimo di fare testamento, che
ci venne più tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed
arcaiche, e che dovea servire più tardi come base al testamento quiritario per
aes et li bram, per cui il plebeo, che muore senza figliuolanza, affida ad un
amico il suo patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà
poi distribuirli, quando egli sarà morto. Del resto è questo il modo che ancora
oggidi torna opportuno all'emigrante, che, trovandosi in pericolo di vita ed
essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico, che avrà la
fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare, perchè
lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella
ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di
fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del
fedecommesso, che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare
nella cerchia rigida del diritto civile romano, fini tuttavia per trionfare
negli inizii dell'Impero e trionfo, perchè popu lare erat (1). Quel testamento
quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto
coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii
della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie, e ad
impedire che il patrimonio uscisse dalla gente; per i membri invece della
comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia, un rimettersi, (1)
Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102, ed anche Gellio,
XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una
persona « si subita morte arguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium
suum,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet ».
Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello
che poi si svolse nel testa mento per aes et libram, fu il
fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per
passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i
Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del
fedecommesso, che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in
fatti, Comm. II, 285, scrive: « ut ecce peregrini poterant fidem commissam
facere et ferre: haec fuit origo fideicommissorum »; il che mi conferma
nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo, di fronte al diritto già
elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più
tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di
Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario,
abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai
comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di
TERENZIO, I, 5: « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei ». È da vedersi
in proposito l’Henriot, Mours jurid. et judic., I, pag. 411 e segg. 186 che
altri faceva ad un amico o ad congiunto, acciò egli distribuisse le sue cose
per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi
dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo.
Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento, che era nata e
si era svolta fra capi di famiglia, che sentivano la loro superiorità ed
indipen denza; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus
iniectio, ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero
incomprensibili fra capi di famiglie patrizie, ove sono già penetrati il fas ed
il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia, l'uso di
farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata (1). Così
pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa
ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena
di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto
sofferto, e perfino anche per un adulterio;perchè queste sono tutte
istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una
comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di
carattere religioso, che era così fermamente stabilita presso il patriziato (2).
La plebe (1) L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere
religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la
troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la
descrizione, che ne troviamo in OMERO, Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo
scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata
dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio, essa poteva esistere fra la plebe,
come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la
significazione giuridica, che vi attribuì il patriziato. In questo senso
ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i
debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. (2) Questa
varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni
sociali compiutamente diverse, può essere facilmente compresa. Il patrizio
sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi
può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del
fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un
individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di
formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno
materiale che gliene deriva, che consideri la noxa (colpa ) come una noxia
(danno): che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla
composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che
dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa
attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel
delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso; mentre il
patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a
ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza. Tutte le istituzioni
insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore, che non hanno
una storia nel passato, ma che trovano direttamente la propria radice nelle
tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è
soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele
mento, che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea. Non
chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono
circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli
auspicia, che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso;ma
solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia
docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un
altro vergine di esse, che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto,
che finirà per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei
rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come quindi esistevano, fin dagli
inizii di Roma le traccie del ius gentium; cosi vi erano anche quelle del ius
naturale, non come idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto,
ma come un complesso di forze e di energie inerenti all'umana natura, che
spingevano una comu nanza in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e
a tutte le esigenze, che si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi
verrà ad essere nozione astratta, negli inizii è forza ed energia, che spinge,
come direbbe il Vico, l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam. Basta
questo per dimostrare, come anche negli usi della plebe potesse esistere un
materiale greggio, che potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto
quiritario. Per tal modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi,
poterono già esi stere, come usi, da un'epoca ben più antica. Cid serve intanto
a spiegare come nel diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di
atti e di negozii, senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere
nel delitto un'offesa collettiva; mentre questi non sente ancora che il danno
privato, che possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel
diritto quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e
solo a poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII
Tafeln, I, pag. 434. 188 mercio per un popolo, le cui istituzioni giuridiche e
politiche già dimostrano assai progredito. Qui intanto, per non spingere questa
ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due
istituzioni fondamentali del diritto privato, che sono la famiglia e la
proprietà. 151. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della
famiglia, quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le
iustae nuptiae,madei semplici matrimonia, quasi ad in dicare che i plebei
potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i
loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi
di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere
una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non
sembra tuttavia, che la congettura possa spingersi fino al punto, a cui la
spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a
costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli
di origine etrusca, abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo
conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati
nella condizione del matriarcato. Senza affermare, nè negare il fatto, perchè
mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando
questo fosse stato, ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il
vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la
pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione
della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione.
Quindi quello solo, che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella
plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia,
costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla
affinità. Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto, la quale
consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora
entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia, cosi non aveva ancora
potuto subire quell'artificiale ordinamento, che veniva ad essere necessario
per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un
tempo. Era quindi naturale, che la plebe, non avendo l'organizzazione
gentilizia fondata sull'a [Cfr. Muirhead, Histor. Introd., e il Bachofen, Das
Mutterrecht Stuttgart] gnazione, cercasse modo di rafforzarsi mediante vincoli
più natu rali e più facili a comprendersi, quali sono appunto quelli della co
gnazione e dell'affinità. Non è quindi il caso di contrapporre alla famiglia
patriarcale una famiglia matriarcale; ma solo di dire, che la plebe, non avendo
la famiglia fondata sull'agnazione, aveva in vece quella fondata sulla
cognazione, in quanto che quella potrà aver valore per le genti dalle antiche
tradizioni, mentre questa pud essere capita e sentita da chicchessia. Qui però
si potrebbe opporre che, così essendo, male si com prende come nel diritto
quiritario a vece della famiglia, fondata sul vincolo del sangue, che certo dal
nostro punto di vista avrebbe do vuto essere preferita, abbia invece avuta prevalenza
la famiglia, fon data sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia
riuscita a correggere almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid
tuttavia può essere facilmente compreso, quando si consideri, che la città, in
cui trattavasi di entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i
forti ed i ricchi, mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i
poveri; che quelli avevano una posizione di diritto, e che questi erano solo
tollerati per la loro posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario, che
la plebe, sopratutto quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino,
la cui organizzazione domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si
sforzasse di imitare anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo
le famiglie plebee, che erano pervenute al ius imaginum, si sforzassero di imi
tare perfino l'organizzazione per gentes in un'epoca, in cui essa åveva già
certamente perduto della propria importanza. Del resto è incontrastabile, che
di questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie
nella legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni
domestiche, che dovettero probabilmente essere di origine plebea. Così, ad
esempio, è notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc
cessione legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo
dei cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di
proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente, quello di appellare da
una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto: disposizioni, che
possono considerarsi come sopravvivenze e quasi accenni di vendetta privata, la
quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe. Insomma
la conclusione ultima sarebbe questa, che Roma, fin dai suoi esordii, non
ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la umile
apparenza di un'istituzione plebea; che tuttavia questa famiglia naturale, nel
periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo modo soverchiata
dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato; e solo riusci di nuovo più
tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo indiretto nella cer
chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e del diritto delle
genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza, perchè colla famiglia si
connette tutto il sistema della successione e della tutela legittima, le quali
perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel
diritto quiritario. Cid intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello
stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del
testamento, perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di
un sistema di successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in
tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti
patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie, e
che col tempo, col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per
divenire grave allo stesso patriziato. 154. Per quello poi, che si riferisce
alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima,
prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato
dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a
stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia. Dapprima
queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai
padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti, sovra cui si
arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi
attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da
alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed
all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab
bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes,
publici privatique, quia non mancipatione sed usu (1) Cfr. MUIRHEAD, Histor.
Introd., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui infatti è
evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico, ma anche di
possessioni di carattere privato, e furono queste, che do vettero appunto
essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso
Festo, ove scrive: occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus
frequentari propriis, ab aliis occupatur (2), indicando cosi l'esistenza di una
consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne
sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi
in questo modo, in seno alle comunanze plebee, lo dimostra l'importanza, che
presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto,
che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto
delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili; disposizione
questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti,
presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una
comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi
altra autorità, che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli,
che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro
prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal
possesso, e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse:
dominium rerum ex naturali possessione cae pisse, Nerva filius ait; eiusque rei
vestigium remanere de his, quae terra, mari, coeloque capiuntur; nam haec
protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com
prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era
costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente
il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni
per l'usucapione di quelle immobili; e cið nell'intento di poter trasformare
con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà.
Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine
dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto
esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones (Bruns, Fontes, pag. 354):
la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs). Festo,
Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager occupatorius non
doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns, Fontes, pag. 348, nota 6).
Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm. R. G.; Paulus, L. 1, § 1, Dig.] munanza
invece, la quale sia in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi,
importa di abbreviare il termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto
mutisi al più presto in uno stato di diritto. Con tale sistema una famiglia
plebea, quando fermava il piede sopra un suolo incolto od abbandonato (possessio,
da pedum quasi positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già
ne diventava proprietaria ex iure quiritium, e intanto, appena un posto
rimaneva vacante, veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve
tempo era considerato ancor esso come legittimo proprietario. Certo non poteva
esservi un migliore sistema per po polare immediatamente il territorio
circostante a Roma, e per popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo,
finissero per prendere interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città
patrizia, sotto la cui protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare
anch'essa proprietaria del suolo (1 ). Ciò però non dovette accadere di un
tratto; ma solo a misura che i commerci fra Roma patrizia e la popola zione
circostante conducevano alla formazione di un comune diritto. 155. Fu quindi
solo col tempo, che queste possessioni, tollerate dai padri, od anche dai
medesimi o dal re assegnate ai plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi
in una specie di proprietà di fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano
colla propria famiglia. Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne
potevano ricavare e che portavansi al mercato, porgeva anche alla plebe
occasione di entrare in commercio col patriziato. Si comprende quindi, che
quando le cose furono a tal punto, che i re sentirono la conve nienza di
aggregare la plebe alla cittadinanza romana, anche per afforzare l'esercito
della città patrizia, dovesse sorgere naturalmente l'idea, attuata poi da
Servio Tullio, di ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia,
e avevano uno spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia.
Siccome poi la plebe non conosceva altra proprietà, che la privata, o meglio
quella, che ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra
come i Romani comprendessero l'importanza, che aveva la proprietà per
interessare la plebe alle sorti della Repubblica: « Sed quoniam res pecuniaque
familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque
in patriam, fides quaedam in ea, firmamentumque erat ». Fu questo, aggiunge
Gellio, il motivo, per cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando
non se ne potè fare a meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193
partiene al capo di famiglia, non aveva agro gentilizio, e non doveva neppure
dapprima essere ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus
della tribù, al modo stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione
dell'ager publicus, la quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio
dell'ordine pa trizio; cosi ne derivò la conseguenza, che l'unica proprietà,
che poteva essere riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea,
perchè era la sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata.
Cid può servire a spiegare il fatto, che da Servio Tullio in poi quasi più non
si discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere
alle genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium, dei praedia censui
censendo, e dell'ager publicus. Questi sono l'unica proprietà della plebe;
mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza
del patriziato. Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca
alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum, piuttosto che
alienarla, e la lotta, che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni
dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza
di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio, che derivava da essa,
erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato: così viene
eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario
assumano un carattere essenzialmente mercantile, e siano tutti fatti entrare
forzatamente sotto le figure del nexum e del mancipium, come meglio apparirà
più tardi. Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente,
quanto ai rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii
della comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della
plebe siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa
organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri
della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro, che si
trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed
importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria
comunanza plebea, che doveva di necessità essere presa in considerazione.
Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica
riconosciuta dal patriziato; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se
stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla, la quale ha bensì
una esistenza, C. Le origini del diritto di Roma.] di fatto, ma che è priva di
qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato. Di qui il dualismo fra i
due ordini, che, nato già nella tribù, viene a costituire il gran dramma della
comunanza civile e politica. In questa infatti son chiamati a convivere due
elementi: di cui uno ha una posizione di diritto, ha la città, ha gli auspicii,
le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una posizione di fatto,
più tollerata che riconosciuta, e non può fare as segnamento, che su quello
spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie famiglie, ed è solo
poggiandosisopra di esso, che potrà entrare a fare parte della comunanza. Per
quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni religiose, giu ridiche e
politiche, non corre una minore differenza fra i due or dini. Mentre il
patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei suoi antenati, dei
concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e trovasi fra le strette
dell'organizzazione gentilizia, che dopo aver fatta la sua forza, comincia ora
ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in un'aristocrazia chiusa in se
stessa; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al tempo stesso il vantaggio di
en trare nella vita politica, senza la memoria dei maggiori ed il culto di
essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni, e trovasi cosi in
condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi genze, ai bisogni
e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò si aggiunge,
secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della plebe per la
prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da ogni vincolo
sociale e gen tilizio, deve essere riguardato come persona, ossia come capace
di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior concetto, a cui
abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico noscere l'uomo
libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto l'influenza
dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al problema
di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero delmedesimo (1)
KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 64. L'autore, che ebbe giusta mente
a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto privato di Roma, è
quello che l'uomo libero, come tale, sia capace di diritto, è il compianto
Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in HoltZENDORFF's,
Encyclo pädie, I, pag. 105, 4.ed. — È da vedersi in proposito il Brugi, Le
cause intrinseche della universalità del dir. rom., Prol., Palermo, 1886. 195
diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e stretto nei vincoli
del passato, mentre l'altro, per le speciali sue condizioni di fatto, non aveva
per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema per la plebe era
quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di diritto, e per
il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla entrare nei
quadri della sua città, senza comunicarle che gradatamente quel fascio di
tradizioni reli giose, giuridiche e morali, di cui esso era gelosissimo
conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la logica
giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi
meraviglioso. La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne
formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro.
È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti
esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo
dell'organizzazione genti lizia; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche
penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli
tica, che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione
gentilizia. Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme
solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso
e morale, viene ad essere di origine patrizia; mentre tutto ciò, che trova
origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel
diritto, e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi
piuttosto di origine plebea. La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due
elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il
diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti
elemen tari della proprietà e della famiglia, che erano i soli, che fossero
comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti
gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto
pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni,
di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in
certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica, per
guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce
per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è
formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente. Solo resta a spiegare,
come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del
diritto quiritario nello stretto senso, che suol essere attribuito a questo
vocabolo. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della
logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del diritto privato di
Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di
violenza, che desta un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e
spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo, come l'opera
esclusiva della forza. Tale impressione è prodotta specialmente da certi
vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium: vocaboli, che
portano con sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non
deve essere annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò
il potere spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso
dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la
potenza, che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la
difesa, che la manus accorda a tutti coloro, che da essa dipendono. Si
aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro, che corrisponda al me
desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre
stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri
vocaboli, come quelli di mancipium, di nexum, di manus iniectio, che non solo
si ispirano al concetto della forza, [ È abbastanza noto in proposito che alla
manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua significazione
materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico; il che però non
toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso svolgimento presso i due
popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere del padre sui figli. V.
in proposito: VIOLLET, Histoire du droit français, Paris, 1886, pag. 412, cogli
autori citati a pag. 447. Del resto fra il primitivo diritto romano e il
primitivo diritto germanico vi hanno ben altre istituzioni, che si
corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un interessante raffronto
fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la commendatio presso i
popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone, sembrano recare con
sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da un'altra. È quindi
assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas delle genti patrizie, e
dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe, abbiano potuto scaturire
concetti di questa natura, a cui manca non solo quell’aureola religiosa, da cui
sono circondate le istituzioni gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera
indipendenza, che con traddistingue le istituzioni primitive dei popoli
italici. 159. Ritengo tuttavia, che questa apparente contraddizione fra questi
concetti del primitivo ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito
alla sua formazione, possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a
cui ho accennato più sopra parlando dell'actio sacramento e della manus
iniectio, e sulla quale importa qui di insistere più lungamente. La congettura
sta in questo, che nelle istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune,
che si erano formate nei rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò
nel seno stesso delle genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre,
le quali dovettero invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte
e nei conflitti fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius
quiritium primitivo non governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra
di loro e appartenenti alla stessa tribù; ma dovette eziandio reggere i
rapporti fra le genti organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per
la maggior parte di origine servile, che ancora circondava i primitivi
stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale, che la prima parte del ius
quiritium portasse le traccie della fiera indipendenza di quei capi di
famiglia, dei quali nemo servitutem servivit; la seconda invece doveva portare
quelle della soggezione, a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer.
tamente presumersi, che questi due ordini di persone potessero en trare in
rapporti giuridici fra di loro, sopra un piede di assoluta eguaglianza. Quindi
mi sembra naturale, che il primitivo ius qui ritium, a somiglianza del diritto
feudale, che ebbe poi a formarsi in una condizione di cose non dissimile da
questa, debba in qualche parte portare le traccie della superiorità, che si
attribuivano i vincitori, i conquistatori, i primi organizzatori di una
convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i
con quistati e quelli, che, non essendo ancora pervenuti ad una organize
zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e di difesa. Questo è certo
che anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica
fra Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata; come lo dimostra ancora
l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac
sanates, ai quali, secondo Festo, sarebbe stato accordato unicamente il ius
nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico, che intercede fra
Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento,
che quel nexum e quel mancipium, che poscia vennero a significare dei rapporti
privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che
correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e
pressochè vassalle, che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi
qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto, che fino ad ora potè
solo essere accennato, ma non svolto. Il medesimo consiste in ritenere, che la
condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia, dovette essere
analoga a quella, in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac
sanates, in base alla legislazione decem virale. È un magistero eminentemente
romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le
stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva
era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in
condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi
poscia trovati i forcti ac sanates. È quindi naturale e del tutto pro babile,
che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e
che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai
forcti ac sanates; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi
mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la
proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto. Ciò era necessità,
perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe; e intanto spiega
eziandio, come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario, comune
ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium, i quali perciò,
al pari di quello del commercium, al quale corrispondono, si svolsero dapprima
fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni fra i
membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte usato
il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come una
popolazione circostante alla città, con cui non poteva a meno di essere in
commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique,
che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 -
poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle
mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto
dell'urbs, quel diritto, che prima governava i rap porti, che intercedevano fra
due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due
ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello, che era
dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza
dello svolgimento del ius quiritium. Certo questa non è che una congettura
fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una
spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non
mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al
riguardo. Intanto, come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a
comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti
ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il
signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte
della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa
peculiare condizione giuridica. & neaco (Il solo passo, che a noi pervenne
intorno ai forcti ac sanates, è di Festo, ed il medesimo è ancora in tale
stato, che fu assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d.
XII Tafeln von den Forcten und Sanaten. Vienna, 1866, ritiene che il passo
delle XII Tavole, a cui Festo accenna, vº Sanates (Bruns, Fontes, pag. 664),
fosse così concepito: mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto ».
Questa lezione stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag. 171, fu
respinta dal MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare
la condizione dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a
comparazione coi nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire, quale
potesse essere la speciale posizione giuridica. Il Voigt, Die XII Tafeln,
I,pag. 273 e 733, Tab. XI,6, ricostruirebbe invece la legge in questa guisa: e
nexum mancipiumque, idem quod Quiritium, forcti sanatisque supra infra que
urbem esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en
trare in particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo
della legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN; ~ Nexi mancipiique forcti
sanatesque idem iuris esto »; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure
dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il
proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè
verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella
della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium,ma non
aveva ancora il connubium. Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il
Mommsen nella nota al Bruns, Fontes; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd.,
pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum
mancipiumque forcti sanatisque idem esto »; pure avrebbe la medesima
significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di. la quale 200 161.
Del resto, checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere
ammesso, che il ius quiritium, il quale, sebbene comparisca con Roma, pud
tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte
si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che
si trovavano in condi zione affatto diversa, in quanto che alcuni di tali
gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani:
mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che
le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia, se
alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e
dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e
della dipendenza, in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso, che i
ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità
delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per
ripararsi contro i cataclismi del suolo: così i resti, che ancora ci rimangono
del primitivo ius qui ritium, in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai
tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero
richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria, per usare l’es
pressione del Vico, le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem
naturam. Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di
fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli
scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono
preoccuparsi tanto della loro libertà, quanto sentire il bisogno di ripararsi
sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e
a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo
di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta
campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed
alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal
mancipium e dal nexum, pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò
un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili, che poteva
nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti
fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore; ma bensi un diritto
rozzo e violento, che risentisse in certo modo della lotta, da cui esso usciva,
e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva,
in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse
l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra
dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende
quindi come in questo periodo, la manus, armata di lancia, pronta da una parte
ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra,
e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse
presentarsi come l'espressione più, naturale e più energica ad un tempo per
significare il potere giu. ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra
tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità
della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali,
secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione
di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del
corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno, la destra alla
fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le
ginocchia coloro che implorano, non avevano che ad applicare il medesimo
processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della
famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva
prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie, figli, clienti e servi?
Non era essa, che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna,
e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne?
Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato, poteva
solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro
autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto (1) Buona parte di questi
concetti trovasi accennata qua e là dal Vico; na è avvolta in una forma
fantastica, proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani
come i rappresentanti di quell' epoca eroica, che, secondo le sue teorie,
avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che
egli chiama umani; idea, che finì per condurlo a considerare come una leggenda
tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però
non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a
Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente
patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In
proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei
Giureconsulti romani, Firenze, 1856, pag. 14 e segg., ove parla dell'origine
del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607: «
Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes: ut
aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae, unde haec
tangunt rogantes. Iure pontificali, si quis flamini genua fuisset amplexus, eum
verberari non licebat.] posti a servitù, e primi erano pervenuti a fondare una
vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in quanto è
l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza necessaria per
re spingere ogni aggressione, dovette prima formarsi nei rapporti fra le
famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti interni della
famiglia; perchè la causa, che determino questo irrigidirsi della famiglia, non
fu interiore alla medesima, ma bensì esterna, ossia la necessità di provvedere
alla lotta per l'esistenza. Dal momento per tanto, che il concetto di manus ha
un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore ed internazionale, ne
consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il concetto della manus, in
quanto indica un potere, che non ebbe giammai a soccombere sotto la schiavitù,
non potè essere applicato che ai capi delle famiglie patrizie, e non già alla
folla e alla moltitudine, di cui erano circondati gli stabili menti dei padri.
Si comprende pertanto, come nel diritto quiritario primitivo continuamente
comparisca la manus, la quale è quella, che lotta nella manuum consertio; che
rivendica nella vindicatio; che trascina il debitore nella manus iniectio; che
distendendosi lascia in libertà lo schiavo (manu emittit); che obbliga la
propria fede nella dextrarum iunctio; e da ultimo è anche quella, che
afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium. Essa quindi non ha soltanto una
significazione relativa alla costituzione interna della famiglia, ma dap prima
ha sopratutto una significazione, quanto ai rapporti esteriori in cui la
famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la rende unita e compatta nel
respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi, che essa verrà a significare
il complesso dei poteri giuridici, che ap partengono ai quiriti, in quanto essi
costituiscono una specie di ari stocrazia fra la moltitudine e la folla, da cui
sono circondati. Però almodo stesso, che la manus in questa significazione è
già il frutto di una specie di astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del
qui rite. Senza entrare nell'etimologia della parola e senza discutere se la
medesima venga da quiris lancia, o da curia, come vorrebbe il Lange; questo è
certo che in ogni caso il vocabolo di quiriti non significa i membri delle
genti patrizie individualmente considerati; ma li indica in quanto appartengono
ad uno stesso populus, che ora ra dunasi nelle curie, ed ora costituisce un
esercito. Come tali i qui riti trovansi in una posizione privilegiata e quindi
sono essi sol tanto, a cui appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario;
sono essi soli, che abbiano le iustae nuptiae; che sappiano consultare gli Dei
cogli auspizii; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni
proprie della città. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore
alla fondazione della città, e in quello della città esclusivamente patrizia
non intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui
essa è circondata. Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi
si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa
condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di
condizione, in cui si trovavano le due classi. Il plebeo, che non ha una
posizione giuridica, e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio,
quando voglia entrare in rapporto con esso, non può avere altro mezzo che
quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum, per guisa che, se esso non
paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio, assoggettandosi cosi
alla manus iniectio. Di qui la conseguenza, che i durissimi concetti del
mancipium, del nexum, della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii
del diritto quiritario, in cui presero poi una significazione speciale,
dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe,
prima che entrassero a far parte della stessa comunanza; il che spiega appunto
quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è
loro inerente. Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono
talora cercarsi in un periodo anteriore a quello, in cui essi appari scono e
cominciano a prendere una forma determinata e precisa, cosi anche questa
significazione dei vocaboli di mancipium, di nexum, di manus iniectio non è
ancora quella assolutamente pri mitiva; ma conviene cercarne le origini nelle
lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti,
fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra
luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i
vocaboli, di cui si tratta. 164. Nella povertà del linguaggio giuridico
primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad assumere significazioni molto diverse,
che però riduconsi a due essenziali; a quelle cioè per cui significa: - o ciò
(1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I, pag. 29. 204 che è soggetto al potere del
capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel
primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato
ridotto in schiavitù; poi indica eziandio tutto cid, che può essere preso e
assogettato colla manus: quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis;
infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il
complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di
famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo,
contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che
il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio
ad esprimerlo, in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi
ridotto in schia vitù; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e
persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali
erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano
dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata, per cui
essa designa il potere del capo di famiglia, tanto le persone, che le cose
soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium.
Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine
essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo
di famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua
ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera;
come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de
mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo. Quanto
al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes, pag. 214. Non potrei ciò
stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente a proporre
per i vocaboli di mancipium e di mancipatio, colla quale egli direbbe, che
mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del manceps, e che
perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli deriva, che mancipare
non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum capere (Histor. Introd.).
Oltrecchè questa etimologia non servirebbe veramente a spiegar meglio la
significazione primitiva del vocabolo; parmi eziandio che contraddica all'uso,
che i giureconsulti fecero di questo vocabolo, attribuendo costantemente al
medesimo una significazione passiva, la quale indica piuttosto la soggezione di
una persona o di una cosa, che non il potere che appartiene sulla persona o
cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che mentre occorrono talvolta le
espressioni di habere manum, habere potestatem, habere dominium, i
giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel senso di
significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205 Se non
che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò, che è soggetto al capo di
famiglia, ma indica eziandio il trasferimento, di cui possono essere oggetto le
cose, che entrano a costituirlo. Ciò è dimostrato dall'espressione vigorosa
della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium, facere
nexum, al modo stesso, che direbbesi facere testamentum. Or bene non vi ha
dubbio, che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma zioni
profonde nel proprio significato. Facere mancipium infatti dovette negli inizii
indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la presa
del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di
questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex
eo, quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in
quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al
vin citore. Cio però non tolse, che il concetto del facere mancipium si
applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio,
od anche a persone, che dipendevano da esse, come accadeva nella noxae deditio.
Che anzi è molto probabile, che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi
a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare
protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio. Infine, allorchè il
mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui
significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia,
anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che
la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli
atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia (2 ). che
non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per
designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la
cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il
significato, che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare
il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di
capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato
dall'ablativo, come accade nell'usucapio, nell'usureceptio e simili. (1) A
questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi
tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio
quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur »,
BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione della mancipatio
nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze,
1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio, noi riscontriamo nella
medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette
essere dapprima il modo effettivo, con cui il vinci tore afferrava il vinto, in
base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù. Il suo concetto quindi
nacque anch'esso nella lotta e nella violenza; ma poscia dai rapporti fra
vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla
stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come
lo dimostra la seguente deffinizione di Servio: manus iniectio di citur,
quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata, rem nobis de bitam vindicamus.
Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può
conciliare coll'esistenza della pubblica autorità, non fosse riconosciuto dal
diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto. Infatti nel diritto quiritario
noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per
trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato;
ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un
mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato. La manus
iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione
contro il proprio debitore; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi,
cioè: contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris
confessi); contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro
coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie
applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che
ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento
dell'autorità giudiziaria; mentre quella, che riguarda il nexum, ri monta
certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza, il che fa
credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta
attinenza col nexum. Cio miporge quindi occasione di discorrere brevemente di
esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle
istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il
patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166.
Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul
diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota; ma si può affermare con
certezza, che essa rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza
romana: poichè la tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti
diretti a limitare gli effetti, che derivavano da esso. Lo stesso è a dirsi
della legislazione decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a
trattenere in certi confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato
a ragione dal Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce
soltanto nei rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua
abolizione si riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come
è anche dimostrato da ciò, che Livio consi derd l'abolizione di esso come una
vittoria della plebe sopra il pa triziato. Vero è, che questo fatto può anche
essere spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli
imprestiti alla plebe, e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento
di questo « ingens vinculum fidei »; ma parmiche il carattere vero di questa
istituzione possa essere più facilmente spiegato, quando si cer chino le cause,
che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di
colui, che, non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore,
obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione,
in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio, anteriormente alla
formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto,
non aveva altro mezzo, per trovare protezione o credito, che o di dare a
mancipio se o la fa miglia, o di vincolarsi col nexum. Quello era una specie di
dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva
sulla propria persona. Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto
fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non
attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso; cosi in parte si comprende che
il diritto del creditore sul debitore, sia stato spinto a quelle estreme
esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili (1). 167. Quanto al
vocabolo poi non può esservi dubbio, che esso ebbe ad assumere significazioni
molto diverse. (Liv. VIII, 28, in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud
initium liber tatis factum est, quod necti desierunt »; e più sotto: « victum
eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom., III, pag. 375. Della
portata e degli effetti del nexum, come pure del mancipium, si discorrerà più
sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei
concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile, che il nexum
nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui
sottoponevasi lo schiavo fuggitivo; ma che poscia dalla significazione
letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica. Tuttavia
rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli
storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti
nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob
bligati colle forme solenni del nexum. Del resto anche questo vo cabolo, al
pari di quello dimancipium, significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a
cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo
stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che
tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium,
dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali
trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il
patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde
delle altre istituzioni del diritto quiritario, che esse si svolsero dapprima
fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate
nei rapporti dei quiriti fra di loro. Al modo istesso, che i concetti di
connubium, di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le
varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto
quiritario; così i concetti del mancipium, del nexum, e della manus iniectio,
dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi
poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in
istituzioni proprie del diritto quiritario. Di qui il carattere di rozzezza, di
violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed
anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che
vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte
della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse
ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti
italiche, anteriormente alla fondazione della città, che si vennero
ricostruendo a poco a poco, noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano
poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che
ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi
elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo
di famiglia; - 209 quello di un elemento aristocratico, che era rappresentato
dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele
mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle
tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi
ricevere nella città tutto lo svolgimento, di cui poteva essere capace. Furono
questi elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica,
servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero
naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re, al
senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in
pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le
basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti
patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso del fas e
dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai concetti
fondamentali del connubium, del commercium e dell'actio sacramento, ed aveva
elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a
poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e
lo svolgersi della convi venza civile e politica. Esisteva parimenti, ancorchè
solo in via di formazione, un diritto proprio della comunanza plebea, fondato
so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua
forma, più alieno dalle solennità, più libero da ogni influenza del passato
poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica. Da ultimo
già cominciava ad elaborarsi un diritto, che non poteva dirsi proprio, nè del
patriziato, nè della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e
primitive i rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto
uscito dal concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del
capo di famiglia patrizio, ed aveva dato origine ai concetti del mancipium, del
nexum e della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi
convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario. È
quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di
rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando
l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima
trovavasi confuso, viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il
quale, assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee, finirà
per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che
erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica. C., Le
origini del diritto di Roma. De ultimo, anche per quello che si riferisce a
quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali,
già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i
concetti dell'amicitia, dell'hospitium,della societas, e del più importante fra
tutti, che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il mezzo
per far partecipare più tribù alla stessa vita politica, militare e giuridica,
e per dare cosi origine alla città. Questa parimenti, traendo profitto dagli
istituti della cooptatio, della co lonia, della concessio civitatis sine
suffragio, del municipium, pos sedeva anche i mezzi per accrescere la sua
popolazione e per esten dere il proprio impero. I materiali quindi erano in
pronto: solo rimane a vedersi il pro cesso, col quale Roma, gittandoli tutti
nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò, che in essi eravi di
vigoroso e di vitale, e sia così riuscita a ricavarne lentamente e gradatamente
la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il quale svolgendosi
sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi elementi, finirà
per diventare tale da poter essere accettato da tutte le genti. Intanto una
delle cause, che condurrà a questo risultato, sarà la distanza stessa, a cui
trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire alla formazione della
città. Sarà tale distanza infatti, che forzerá la costituzione di Roma a
percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere capace, e che obbligherà il
diritto privato di Roma a riconoscere la capacità di diritto ad ogni uomo,
purchè libero. Per tal guisa tutte le gradazioni del senso giuridico, dalle più
semplici e naturali alle più sottili e raffinate, cadranno sotto l'elabo
razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto romano dovrà sopratutto
essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e pre cisa espressione di
un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed umani, che nacquero e si
svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica. - 1 LIBRO II. Roma e le
sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio ("). CAPITOLO I.
Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella storia non vi ha forse
avvenimento, il quale abbia eser citata maggiore influenza sulle sorti
dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza
civile e politica. Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza approfondita la
storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro popolo, che abbia
più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito nelle proprie
istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo
punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera tura così copiosa, che
mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia, che può riferirsi ad
ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro è quello unicamente
di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma
primitiva; così mi limitero ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in
esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali si fonda
l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una traduzione,
quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla
bibliografia, essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di
storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto
romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del
Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio
quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns,
del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG, ecc.; in Inghilterra quelli del
MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e
del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già, o che mi occor rerà di citare
in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a
dovere, mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale.
A ciò si aggiunge, che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si,
che esso, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le
traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la
nuova formazione. Di qui la conseguenza, che quando si riesca a penetrare il
processo logico, stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si
potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di
essa, e il modo, con cui furono costrutte le sue mura; ma eziandio la serie di
quei concetti fondamentali, che, preparati in un periodo anteriore, ricevettero
poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è
veduto, come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua
distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e
clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto
dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la
formazione della città. Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi
elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri,
abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una
continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia, o
fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa, che si
introdusse nell'organizzazione sociale? 172. Le teorie, che furono escogitate
in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in
numero e diverse nei risultati a cui giunsero; quindi per noi sarà necessità di
arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior
parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un
ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un
ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia; essa sarebbe un
edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre
sul medesimo modello. A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a
diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente, e che le genti, riunendosi
insieme, avrebbero dato origine alle tribù; cosi l'aggregazione delle tribù in
un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli,
avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia
e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita,
ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog --- - - 213 giata la comunanza
civile e politica. Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia,
e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe
che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto
tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione,
che il tribunale domestico compieva nella famiglia, e il consiglio degli
anziani nella gente e nella tribù; il populus non sarebbe che la riu nione
delle gentes, per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo, che appartenga ad
una di tali gentes; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i
territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto
sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si
trovavano, e con tutte le fa miglie, che entravano a costituirle (1). Tale a un
dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire,
che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta
all'incorporazione di varie tribù (2). Il Lange invece, mentre si studia in
tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla
famiglia, e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal
seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a
riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto,
il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e
redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece
scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente
militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano, e il suo potere
sarebbe, in sostanza, un militare im perium, destinato sopratutto a mantenere
la disciplina nell'esercito, e percid accompagnato dal ius gladii; la curia da
conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da
quiris, asta, che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante; il populus
romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di
lancia; e infine le gentes stesse, in cui egli ritiene ancora che si dividano
le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza, ma già
raffazzonati secondo le esi (1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad. DeGuerle.
Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv. (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad.
Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag. 121. (3) Lange, Histoire intérieure de Rome.
Trad. Berthelot et Didier, Paris, 1885, pag. 37. 214 - genze di un esercito;
donde quel numero fisso di trenta curiae, in cui sarebbe ripartito il popolo
primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes. A
queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria, così splendidamente esposta dal
Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata la
famiglia e la proprietà, la gente e la tribù, sarebbe pur quella, che avrebbe
fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per lui
l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; mentre l'urbs
sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di questa
associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere essen
zialmente religioso. Non è a dubitarsi, che queste varie opinioni contengano
tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle analogie e degli
argomenti, che le servano di appoggio; ma intanto ciascuna di esse,
collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare in
modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva di
Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente, la quale non può
altrimenti essere ricostruita, che riportandoci nell'ambiente stesso, in cui
essa ebbe a formarsi. È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare quel
carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella storia,
senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener conto
delle necessità reali ed effettive, a cui le genti primitive cer carono di
soddisfare, creando la comunanza civile e politica. Or bene io non dubito di
affermare che, collocandosi a questo punto di vista, apparisce fino
all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere
considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione
gentilizia prima esistente; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue
un indirizzo (1) V. IHERING, L'esprit du droit romain. Trad. Maulenaere. Paris,
1880, I, $ 20, pag. 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere
militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò
anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si
accosta lo SchweGLER, Rö mische Geschichte, I, pag. 523. (2) FUSTEL DE
COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv. III, Chap. IV, p. 155. È però a
notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul
carattere confederativo della città primitiva. Cfr. pag. 147. 215.
compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione
dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra,
come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già
fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi
tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una
lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati
(arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei
momenti di pericolo, e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi
proprii armenti in un'epoca, in cui erano quotidiane le scorrerie e le
depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno
pertanto, a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato
quello di provvedere alla co mune difesa. Poscia, siccome la sicurezza è
condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che,
accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti (fora ), a cui
le genti convenivano per scopo di commercio, e dove, occorrendo, si tratta vano
anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve
anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la
trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie
comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento
della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di
convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità, non
propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti; e fu anche in
questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di
sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il
concetto della città non sboccið di un tratto, ma ebbe ad essere provato e
riprovato in varie guise sotto forma di arces, di oppida, di fora, di
conciliabula, di comitia, e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa
lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città
dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita,
assunsero un (1) Questa idea, che è fondamentale nella presente trattazione,
ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel
lib. I, ai numeri 5, 14, 66, 99. - 216 - carattere sacro e religioso, per modo
che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose.
L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi
inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia. Essa per tanto,
fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di
gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma
piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui dal seno stesso
dell'organizzazione gentilizia, si viene sceverando ed isolando tutto ciò, che
si riferisce alla vita pub blica. Quindi la città primitiva viene ad apparire
come un centro e un focolare di vita pubblica, fra varie comunanze di
villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a svolgersi nei vici e
nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia materialmente consi derata,
cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie origini, come la riunione delle
abitazioni private; mapiuttosto come la riunione in una orbita sacra degli
edifizi, aventi pubblica destinazione, come la fortezza, il santuario comune,
la dimora del re (custos urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo (forum
) ove si tiene il mercato e si am ministra la giustizia, il sito ove si tengono
le riunioni (comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse; donde la curia,
il qual vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle
persone che vi si riuniscono. Che se poi la città primitiva sia riguardata
negli ele menti, che entrano a costituirla, essa non è più l'organizzazione
delle gentes o delle tribù, nelle quali si comprendevano anche le donne, i
vecchi ed i fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle
gentes e dalle tribù, che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica;
di quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati
(iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle
deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di
una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli
edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui
fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo,
coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed
all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che
intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse
appartengono alla medesima cittadinanza, e parteci pano alla stessa vita
politica e militare. La città latina pertanto, e quindi anche Roma, che è un esemplare
tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus,
corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo
svolgersi di una comune vita poli tica, frammezzo a popolazioni rurali, che
continuano ancora a svol gere la loro vita domestica nelle comunanze
patriarcali. Allorchè essa compare, quella organizzazione gentilizia, che aveva
prima com piuto le funzioni di associazione domestica e politica ad un tempo,
si viene biforcando: mentre la vita privata continua a spiegarsi nelle pareti
domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia, la
vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi
origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il
movimento della città. Di qui la conseguenza, che la città, dopo aver ricavato
gli elementi, che entrano a costituirla, dalle comunanze che la circondano,
finisce per preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia, e
sopratutto di quelle gradazioni di essa, che prima compievano eziandio una
funzione politica, quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela. Le
istituzioni invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a
costituire le due basi dell'organizzazione sociale, sono i due elementi
estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè
medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica; e la città
dall'altra, poichè essa, essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad
attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono
conferire a darle forza e con sistenza. Di qui la conseguenza, che le due
figure preponderanti, negli inizii della città, vengono ad essere il pater
familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il
populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che
esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla
città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà
necessario un lungo svolgimento, prima che la città si possa affatto spogliare
di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia, e
prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico,
che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio. 176. Si può quindi
conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello
della città si avverano in guisa com piutamente diversa, e sono avviati in
senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo
dell'organizzazione gentilizia, in tutte le sue gradazioni, consiste in una
stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e
intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello, che è quello
della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un
processo di aggregazione, ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi
diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale, come la tribù; ma
tende invece ad isolare l'elemento giuridico, po litico e militare dagli altri
aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè
confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale. Di qui derivano
alcune importantissime conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia, per
quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la
famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora
considerarsi come una pro duzione naturale, come quella che è composta di
gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo,
vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune;
la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto,
della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi
un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed
alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia, comprendendo persone,
che si suppongono derivare da un medesimo antenato, tende a mantenere una proprietà
comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo,
tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che
loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che
riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio
co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine
il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e
nella discendenza, per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un carattere
ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e politica,
appena essa compare, viene ad essere quello della capacità e dell'elezione.
Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo erasi iniziato presso
le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le conseguenze, di cui
poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di incubazione della
città può 219. già ritenersi compiuto, e quindi le cerimonie, che ne
accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere sacro e religioso. È
cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per conoscere a quale dei
due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg gimento della città.
Tuttavia la Roma Palatina, finchè è contenuta. nei limiti dello stabilimento
romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città; ma è piuttosto lo
stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita di preferenza
alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora patriarcale nella
medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che non è ancora
eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii; i suoi anziani,
i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a costituire la tribù; e
infine anche il suo populus, che è composto ancora di persone, che si ritengono
unite dal vincolo della comune discendenza, come lo dimostra la loro stessa
denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del proprio capo. Non è quindi
appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo la tradizione, procede
alla costituzione politica della città. Secondo Livio, ciò accade soltanto dopo
la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi perfino la morte di Tito
Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che la città assume un
carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole tribù infatti
continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad avere delle
proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium, che mutasi nella fortezza delle
varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo nel
sito, che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato il
locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi colle
curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che, secondo
il rito, dovevano trovarsi nel cuore stesso della città. Non consta quindi che
le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le proprie
terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il governo di
essa, come lo dimostra il fatto, che secondo la tradizione vi sarebbe stato un
breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero (Livio, I, 13; Cic., de
Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86. « Novae curiae (scrive Festo)
proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum amplae erant veteres a
Romulo factae ». Tuttavia vi restarono an cora sette curie, che continuarono a
compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes, pag. 346 ). 220 regnato
contemporaneamente: il che significa, che ciascuno di essi avrebbe conservato
la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi meraviglia, se la città
primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie dell'organizzazione
gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una vera e propria città
si operò solo gra datamente. Intanto però la trasformazione viene ad essere
iniziata e proseguita senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin.
colo della discendenza si sostituisce quello della federazione e del l'accordo,
e alla trasmessione ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A
ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione
diversa da quella delle altre città latine, da cui trovavasi circondata. Essa
infatti non costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie
comunanze rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta
alla vita rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii
agri genti lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di
terra, ove avevano potuto costruirsi una casa, circondata da un orto. Per tal
guisa in Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa,
o di pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte
eziandio, e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la
propria dimora gentilizia, aveva posta sede permanente dentro la città, o in
prossimità di essa. Fu in questa guisa, che Roma diventò ben presto, secondo
l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato, al
pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra
diverse comunanze, cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano, la cui
vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi
costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche
oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come,
durante lo stesso periodo regio, Roma da sola già potesse conchiudere un foedus
aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia
stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le
abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta
Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per
cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che
il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di
tempo fra le mura della città, 221 e un altro invece alla campagna (ruri),
frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie: consuetudine, che anche oggi
può dirsi mantenuta dal patriziato romano. Di qui la conseguenza, che Roma, in
una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello
svolgimento, che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine. Essa
riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata, l'elemento sacro dal pro
fano, la vita urbana dalla vita rustica, la vita militare dalla vita civile; ed
effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un
linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa
parte competere con essa. Di queste varie distin zioni, quella, che cominciò ad
effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione
fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento
sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era
partecipe del culto gentilizio, fu anche ammessa a far parte della cittadinanza
romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo
prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte
dominata dalla turba forense. Infine il dualismo fra la vita militare e la vita
civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella storia di
Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa. Il suo populus è un'assem blea
ed un esercito ad un tempo; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque;
i suoi cittadini hanno un periodo di età, in cui partecipano al servizio
attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito di riserva; gli atti
stessi più importanti della vita, quale sarebbe, ad esempio, il testamento,
possono farsi in guisa diversa, secondo che trattisi di cittadini in tempo di
pace, o di soldati in procinto di venire a battaglia; la quale distinzione poi
mantiensi co stante per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud
distin guersi in comune ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è
uomo di toga e di spada ad un tempo, e si acconcia alle esigenze della pace e a
quelle della guerra (rerum dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui
importa di mettere in evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città
venne ad introdursi fra la vita pubblica e la privata; in quanto che fu questo
il grande intento, a cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano
costantemente i 222 poeti latini, i quali non trovano espressione più efficace
per indicare la corruzione del costume, e il perdersi delle buone tradizioni,
che l'accennare alla confusione della cosa pubblica colla privata (1). È questo
il dualismo veramente fondamentale, che, una volta in trodotto, finisce per
riverberarsi, con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di
altri dualismi, che compariscono costan temente nelle stesse circortanze
sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni
diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è
ovvio il considerare, come in seguito alla forma zione della città, accanto
alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva i varii membri
dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è il rapporto,
che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza militare e politica.
Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra gentiles e gentilicii,
viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra
cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera hominum, che sono sparsi nei
pagi e nei vici, e che comprendono senza distinzione tutti coloro, che si
suppongono discendere da un medesimo antenato, si svolge il concetto del populus,
che dapprima non comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli
uomini validi ed ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare
alla difesa ed al governo della cosa pubblica. Procedendo ancora innanzi,
accanto al concetto della res fami liaris, che comprende il complesso degli
interessi privati di una de terminata persona, si esplica il concetto della res
publica, il quale, per essere più astratto, compare più tardi, che non quello
del popu lus; ma finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il
complesso degli interessi comuni alla intiera città, ed a tutto il popolo (res
populi). Intanto così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere
un'autorità che le governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col
vocabolo di manus, nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica
invece sarà indicata col vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri
sono cosi distinti (1) Per dimostrare l'importanza, che nel concetto romano ha
la distinzione fra il pubblico e il privato, basti citare il Trinummus di
Plauto, questa commedia, così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta
occorre una censura contro i corrotti costumi, si lamenta sempre questo
mescersi del pubblico col privato. 223 fra di loro, che la subordinazione più
estesa nel seno della famiglia non toglie, che altri possa esercitare tutti i
suoi diritti come cit tadino, e partecipare come tale agli onori ed alle
magistrature. La distinzione poi, che è nella natura dei rapporti, viene natu
ralmente a riflettersi eziandio nel diritto, che è chiamato a gover narli. Di
qui la distinzione che, iniziata fin dalla formazione della città, viene col
tempo facendosi sempre più netta e precisa fra il diritto pubblico ed il
diritto privato; il quale ultimo, secondo il con cetto romano, non deve già
essere soffocato ed assorbito dal diritto pubblico, ma trovasi invece collocato
sotto la tutela e la protezione di esso. Non può quindi essere ammesso il
concetto del Lange, che in parte è anche quello del Mommsen, secondo cui il
diritto pubblico verrebbe in certo modo a modellarsi sul diritto privato:
poichè il processo che si segui in Roma si avverd invece in senso contrario ed
opposto. Non fu il diritto pubblico, che si modello sopra il pri vato; ma fu il
diritto privato, che venne svolgendosi in quella guisa e in quei confini, che
erano consentiti dalla costituzione politica della città. Quindi è che il
diritto privato di Roma non si formo di un tratto, ma venne svolgendosi
gradatamente, a misura che le esigenze della vita civile fecero sentire il
bisogno del suo ricono scimento. Ciò ci è dimostrato dal fatto, che fin dalle
origini di Roma noi possiamo trovare poste le basi di tutto il diritto pubblico
di Roma, mentre la vera elaborazione del diritto civile romano, co mune alle
due classi del patriziato e della plebe, incomincia solo più tardi. Prima si
fondò la città, e poi si pensò alla formazione del suo diritto, ed è anche
questo uno dei motivi, per cui il diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare
per tutti i popoli. Intanto, in prosecuzione del medesimo processo, anche la
legge, che è l'espressione delle volontà riunite e concordi, viene a distin
guersi in les privata ed in lex publica, di cui quella esprime l'accordo di due
o più contraenti, mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà
collettiva del popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche
i sacra vengono a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per
cid, che si rife [ La distinzione fra la lex publica e la lex privata è
accennata più volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm.
I, 3; II, 104; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN
nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris
romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo: Leges publicae populi
romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine
deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure
richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata, secondo che
il danno, che ne deriva, e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai
singoli individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza;
distinzione, che riflettesi eziandio nei iudicia, i quali fin da Servio Tullio
cominciano a dividersi in iudicia publica e pri vata. A queste si potrebbero
aggiungere ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un
medesimo concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e
lascia dapertutto le traccie del suo passaggio. È in questo senso, che le
proprietà si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri
vatus e di ager publicus; che i rapporti stessi, che possono correre fra
cittadini e stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas,
l'amicitia, l'hospitium, il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in
privati. Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e
privato, di virtù pubbliche e private, e se la distinzione si inoltri nei
particolari più minuti della vita, co sicchè anche i servi stessi si
distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus l'equus, che è
somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad essere denominati
equo publico. 182. Conviene quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere
profondamente sentita, se essa lasciò le proprie traccie in qual siasi
argomento. Non occorre poi di notare, che l'esplicazione dia lettica dei due
concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette naturalmente essere il
frutto di una lunga evoluzione; ma se questa potè accadere colla fondazione
della città, mentre prima non erasi avverata, la causa di un tal fatto deve
trovarsi in ciò, che la città non si propose di agglomerare genti e famiglie,
ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita pubblica dalla privata. Che se
si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare,
che la formazione della città cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e
di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione
dei sacra publica ac privata, è da vedersi Festo, vu Publica sacra (Bruns,
Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº 3. Quanto alla
distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata, è da vedersi
Mommsen, Le droit pubblic romain. Trad. Girard. Paris, 1887, I, pag. 101, cogli
autori ivi citati in nota. 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu
infatti la città, che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli
antenati, suscitò l'affetto per la propria terra, e il culto per coloro, che si
sacrificavano per essa, e quell'illimitato amore di patria, che informa tutta
la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al cittadino ro
mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che accanto al
culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una legge,
espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota, e costituire
in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile. Fu essa ancora,
che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle famiglie e
nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione, diede origine a
quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città, da cui
doveva poi uscire la storia; al modo stesso che, accanto al comando del padre
ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza,
le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui sono circondate,
ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla, a cui si indirizzano. Fu
essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli eroi e dei
principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia militare e
po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza
politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið parmi di
poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro, che
considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano, noi
diremo con un re. cente autore, che è il Pelham, appartiene, quanto alla sua
struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della
convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica. Certo
esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di
cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso, le quali tendono
sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei
mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città
all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera: La vita del diritto nei
suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, nº. 34, pag. 94 e segg., e alla
dissertazione: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po
litica. Torino, 1878. (2 ) Pelham, vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia
Britannica, ninth edition. Edinburgh, 1886, vol. XX, pag. 731. C. Le origini
del diritto di Roma.] mazia dello Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei
gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più
non si mantiene, che come una corporazione di carattere esclusivamente privato.
In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben nota il Gentile, lascia a
grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella delle
primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo colla
divinità, da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei
discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il populus od il
demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e non mai a
deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il diritto a
partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto direttamente
esercitato, e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori dello Stato
è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1). Il Re, fin
dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato, e questo è
l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che
concorsero alla sua formazione, i quali, nella propria elezione, più non badano
esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare al
valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo punto
di vista, che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di
riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire
più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il
carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella repubblica romana, Milano, 1879, pag. 2 e 3. 227 . Le cose premesse hanno
abbastanza dimostrato, come nella formazione primitiva dell'organizzazione
sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da quella, che governa le
formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono evidenti, allorchè fra i
gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e quasi sperimentando in
varie guise la convivenza civile e politica. Tuttavia questo concetto deve
essere completato con osservare, che nella storia delle cose sociali ed umane,
ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione novella, e questa
trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi, di cui si tratta,
sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente, riunirsi per
guisa, che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e potente, quanto è
più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta incuba zione può
anche succedere una pronta e rapida formazione: il che talvolta accade ancora a
' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella storia primitiva di Roma,
allorchè la nuova città, dopo essere stata lungamente preparata, presentasi
nella storia pressochè con sapevole della propria destinazione. Tutte le
incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si potrebbe dire con ragione, che
la co stituzione primitiva di Roma, al pari di Minerva, sembra uscire
compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti si possono ancora
scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione di una religione,
comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo essenziale, a cui Roma
intende; la costituzione politica di Roma invece sembra in certo modo essere il
frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia dell'edifizio, tanta
l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si esprimono le singole
istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del nuovo Stato ha di sè
medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera comune. Noi ci troviamo
228 di fronte ad un popolo, che con uno sforzo collettivo giunge a mo dellare
ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe riuscire un pensatore, che
raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di isolare da una quantità di
materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò, che si riferisce alla vita
politica, giuridica e militare. Tutte le energie naturali e sociali sembrano
concentrarsi in un'opera sola, e ben può dirsi con Ennio e con Cicerone, che
fin dai propri esordii: Moribus antiquis res stat romana virisque. Secondo la
tradizione, bastó un solo regno per porre le basi di una costituzione, che
richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le sue parti (1): nè la
tradizione pud essere così facilmente respinta, come vorrebbe la critica
moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo comprendere l'entusiasmo
potente, da cui poterono essere stimolati re, senato, sacerdozii e popolo,
allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande concetto. 185. L'urbs,
dopo la federazione delle varie tribù, viene ad essere collocata in un sito, a
cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi così in tale posizione
da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la prima, fra le
comunanze italiche, da cui trovasi circondata, l'ha rotta colle tradizioni, e
si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a stirpi e a nomi
diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno parentele ed aderenze
nei territori contigui, e probabilmente continuano a tenervi delle possessioni,
e possono così esercitare un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a
qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della
nascente città, la fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere
tenace e perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di
essa, potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento.
Anche lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo,
di aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città, era na turale, che essa
dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep., V,
1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma
all'epoca romulea, e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur,
unius viri consilio non solum ortum novum populum, neque ut in cunabulis
vagientem relictum, sed adultum iam pene et puberem? » (De rep., II, 11). Lo
stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero
spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia. Il
grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi
diversi e di unificare così la città, tanto nelle mura, che la circondano,
quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a stringerne
insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna
sembrano cosi procedere di pari passo. I suoi fondatori già hanno una lunga
esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve
essere accompagnata la fondazione di una città. Cominciasi pertanto dagli
auspizi, per conoscere « quod bonum, felix, faustum, fortunatumque siet populo
Romano», e per tal modo anche la re ligione viene ad essere posta a base della
nuova formazione. Quanto alla sua costituzione interna, tutto sembra essere
preparato ed ac concio. I concetti politici di Roma primitiva, nella loro
sintesi po tente, possono essere paragonati a quei massi rozzamente modellati,
che sovrapposti gli uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per
il proprio peso e la propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli
uni con gli altri. Essi non escono da una costituzione scritta: ma erompono
dalla stessa realtà dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e
coerenti in tutte le loro parti, le quali, una volta accolte nella
costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico, fino a che non
abbiano ricevuto tutto lo svi luppo, di cui possono essere capaci. Le forme
esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì ricavate da
istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore, ma il contenuto
di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto
all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente sentito, e quindi
non è meraviglia, se la nuova città proceda verso il proprio scopo con
l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito, e se dei suoi fondatori possa
dirsi col poeta: cui lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec
lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della città presentasi determinato
in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore geometrico, che rende pos
sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars
poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti
dall'organizzazione gentilizia preesistente, i quali però, mirando ad un
intento novello, ricevono uno svolgimento compiutamente diverso. L'urbs è una
selezione dalle comunanze di villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii,
che hanno pubblica destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il
populus non è tutta la popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri,
che col braccio e col consiglio possono cooperare all'interesse comune; la
civitas non è più un vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione
alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo; il
munus non è il complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale,
ma il complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire
al medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica
(1); la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il
complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini,
considerata come un tutto organico e coerente; infine la lex publica è il com
plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di
partecipare alla stessa vita pubblica, e quindi per la formazione di essa
debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città. 188. Intanto
perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che
quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama
pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata; poichè mentre quello si
reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità
e sull'ele zione; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo
invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si
fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata
dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella
gente, in questo invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è
restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 )
dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive,
quae multitudinis universae consensu, atque legitimis in unum convenientis
populi comitiis, alicui mandatur per suffragia, ut capere eum eamque oporteat,
et statim, certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare », Qui però
il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta, che non quella
che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium.] individui
vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città.
Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. —
Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa, che sembra ancora
circondare la formazione della città; maanche questa religione non deve più
confondersi con quella preesistente; essa non è nè il fondamento, nè l'intento
supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges (1);
ma è soltanto una consacrazione dello scopo, che viene a proporsi la nuova
comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i
suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si
contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole
genti. $ 2. Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae). 189.
Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono
come un riverbero di quelle, che esistevano nel periodo precedente e quanto
alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali; ma se si riguardano più
da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e
che tende a diventarlo sempre più. Così è certamente vero, che la città viene
ad essere divisa in tribu; ma è evidente, che questa divisione in tribů,
trasportata nell'interno di una stessa comunanza, non può più considerarsi come
una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una
ripartizione del suo territorio. Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per
qualche tempo la denominazione antica, ten dono necessariamente a trasformarsi
in altrettante divisioni territo riali; poichè col mescolarsi degli elementi
riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce
per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare
di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza
di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla
pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria
sede nel territorio dell'altra? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique,
liv. III, chap. 5, 6, 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re
tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi
ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che
dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto
apparteneva l'augure Atto Nevio. La sua opposizione tut tavia non mutasi che in
una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù, se non di diritto, verrà
ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla
discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale, e sarà cosi
conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In
questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale, a quello della
discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto (1). 190. La
distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per
cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato
circa il carattere originario delle curiae, e sull'autorità del Niebhur si è
soventi sostenuto, che esse non fossero, che aggregazioni di gentes, e che si
ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente
ammesso, che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an
teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti
latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la
base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si
mantenne esclusivamente patrizia. Essa, al pari del populus, di cui è una
suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad
un tempo; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis );
un proprio culto, che fa parte dei sacra publica; un proprio santuario (sacel
um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di
comitia curiata. L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa
divisione abbia un carattere del tutto artificiale, e miri a uno scopo
preordinato, che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling. lat.,
IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù, come di una divisione
piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 31, il
quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si
applicherebbe di preferenza agli equites. (2) Niebhur, Histoire Romaine. Trad.
Golbery. Paris, 1830, II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto
parlando delle gentes nel lib. I, cap. III, al nº. 28 e seg. e nelle note
relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un
ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto
possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di
Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e
questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni (foris, militiae).
Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli
gentilizi fra di loro, e che essi, come attesta Aulo Gellio, siano anche tratti
ex generibus homi num (1); ma le curie sono già composte di uomini scelti, di
viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi
limiti di età, e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto,
salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle. È
quindi incomprensibile, che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali
comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato,
senza riguardo nè all'età, né al sesso. Solo può dirsi, che i membri della
curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto: o in rapporto colle
famiglie, colle genti, colle tribù, da cui ebbero a staccarsi, e sotto
quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles; o rimpetto al populus ed
alla civitas, di cui entrano a far parte, e sotto questo aspetto sono dei viri,
dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio, che non debbono avere altro
pensiero, che quello della res publica. 191. Quanto alla suddivisione in
decuriae, che è solo accennata da Dionisio, essa non può certamente essere
confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur; ma può
essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel
contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le
centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I [Aulo Gellio, Noctes
Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai
comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix, ad Quintum
Mucium, e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti: « cum ex
generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia; cum ex censu et aetate,
centuriata; cum ex regionibus et locis, tributa ». Fu anche fondandosi su
questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero
in gentes; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso
suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a
quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla
discendenza, mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo, e
quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù, a cui erano
ascritti i cittadini. 234 senatori (patres) ed i cavalieri (celeres, equites)
nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle
curie, e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se
niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce
il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto
il comando di un tribunus celerum, o di un magister equitum; mentre il senato,
nella concezione estetica ed armonica della città primitiva, rappresenta
l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio, e costituisce
veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi
ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno
delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della
città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di
cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per
ogni curia; donde il con cetto, che anche le curiae si dividessero in decuriae.
Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse
vera mente nel seno delle curie: mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile,
che le curie si potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può
dire: che la ripartizione in tribù, qualunque potesse esserne la significazione
primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una
ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e
dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e
militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito,
cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto
un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un
carattere sacerdotale, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano
confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites
e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò,
che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il
che dovette pure essere degli equites, il cui corpo, secondo OVIDIO, Fast.,
III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi
turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium, Ramnium, Lucerum
fiebant » (V. Festo, vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de
curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia, dei quali si sa, che
erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot,
His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152; e il Bloy, Les origines du
Sénat romain. Paris, 1883, pag. 102-105. 235 - che serbarono più a lungo,
allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari; che da
ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo
è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti
zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò, che Cicerone disse più tardi
della famiglia, che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse
ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie. § 3. — Il
pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium, patrum
auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua
composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc
ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere, ed in quali forme
esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta, poichè
il potere in genere viene ad essere indicato, ora col vocabolo di potestas, ed
ora con quello di imperium; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere
tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico, che in questa
parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi,
che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la
città, presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti
più difficili, eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare
intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva
l'assemblea della tribù. Erano così in pronto l'elemento monarchico,
l'aristocratico e il democratico; nė ai fondatori della città patrizia poteva
ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero
trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato
rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del
potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città;
ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso. Il re
infatti non è più tale per nascita, ma è creato dall'elezione; il che deve pur
dirsi del senato, e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una
moltitudine, ne una folla, in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un
esercito di uomini di arme, ed un'assemblea, debitamente organizzata, di uomini
di senno e di consiglio. Il re, il senato ed il popolo, adunato nei comizii,
vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca il
pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al vocabolo
adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia, poichè
occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora quello di
imperium. Dei due vocaboli tuttavia quello, che a mio avviso appare più largo e
comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale, per la propria ge
neralità, può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione del
pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere del
magistrato (potestas regia, consularis, censoria ); quello del popolo (populi
potestas) e talvolta eziandio quello del senato, al modo stesso che può anche
adoperarsi per significare il potere domestico e privato. Potestas insomma,
nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in tutte le
sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie, che, contrapponen dosi
talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium, possa anche assumere una
significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi (1) Questa incertezza
di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli altri, dal
KARLOWA, Röm. R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il voca bolo di
potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il MOMMSEN,
secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga, e quello di
impe rium la più ristretta; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio corrente
il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature
maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano
imperium. Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato: « Cum imperio dicebatur
apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium; cum potestate est,
dicebatur de eo, qui negotio alicui praeficiebatur ». Le droit public romain,
I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva, che quel vocabolo di imperium, che in
un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso
ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I,
pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione
di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di
potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium
usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora
per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di
famiglia accadde alcun che di analogo. Questo potere infatti in origine era
indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas; ma ciò non tolse, che
questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè
la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui
figli. Ciò significa, che i vocaboli presentansi dapprima con una
significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti
primitivi, di cui sono l'espressione; ma quando poi questi concetti si vengono
diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre
essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237
- più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma
siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi, così ben presto nella
indeterminazione primitiva, compariscono i vocaboli, che esprimono gli
atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli
di imperium, che applicasi di prefe renza al potere del magistrato; quello di
auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas,
che, applicato al popolo, indica il potere di esso, in quanto iubet atque
constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma
intanto sono concepiti in una sintesi potente, che renderà possibile a cia
scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito. 195. Ciò può scorgersi
anzitutto quanto al concetto di imperium, che indica di preferenza il potere
del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita, nè
dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano
ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa
miglia, alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di
imperium. Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più
efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono
l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del
re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di
regola indicato col vocabolo di imperium, è cosa che appare da tutti gli
antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin
zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est ».
De le gibus III, 12, § 28; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii
di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive: « vidit singulari imperio
et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi
cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas », nel qual passo il
potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del
senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep., JI, 8. [Magistratus,
scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una magistratura
politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo (Le droit
public romain, I, pag. 8 ); e aggiunge poi a pag. 10, che il magistrato, quanto
alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci dentro
la città. Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che
simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non
so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso
Mommsen, che il re non riceva il proprio potere dal popolo: tanto più, che gli
scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare,
magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa, dal
fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le
scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo
di famiglia, e non poteva perciò essere negato al capo della città. È tuttavia
degno di nota, che questo imperium, formatosi mediante la riunione dei poteri
spettanti a ciascuno, appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi,
che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori (fasces)
indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere
collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti
ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo
a quel magistrato, il quale, mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene
ad essere imponente e pauroso per ciascuno; e che se il magistrato ordini al
littore « col liga manus », il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196.
Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato, non si potrebbe
certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba
essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente
sentita, trattandosi di una città, che fin dalle proprie origini era il frutto
della con federazione di elementi eterogenei e diversi; né si può aspettare,
che un popolo, il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del
capo di famiglia, possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del
magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta; è potere
religioso, militare, politico e civile ad un tempo; ed è concepito in una
sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen, per ricostruire il potere
primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si
vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali
sono il console, il pretore, il dittatore ed il censore. Fu solo l'esperienza,
che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare anche un
eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare scomposizione del
potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare funzione finisce per dare
origine ad una ma gistratura speciale. Tuttavia, anche allora, cercherebbesi
indarno una circoscrizione netta di qualsiasi potere, cosicchè il magistrato ro
mano, che può talvolta essere reso impotente per un atto di minima (1) Mommsen,
Op. cit., pag. 5 e 6. 239 importanza, viene ad avere un potere pressochè senza
confini, al lorchè trovasi appoggiato e sorretto dalla pubblica opinione. Lo
stesso è a dirsi della patrum auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che
come quello di potestas, presentasi con significazione alquanto vaga ed
indeterminata, e che trovasi applicato eziandio, cosi in tema di diritto
pubblico che di diritto privato. Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di
notare, che il vocabolo auctoritas, nella varietà delle significazioni, che
sogliono essergli attribuite, significa costantemente l'appoggio,
l'approvazione, la ga ranzia, che si arreca o si assume per un determinato atto.
Tale è la significazione fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di
iuris auctoritas, di usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris
auctoritas, o del venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al
compratore, auctor fit dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione
del vocabolo di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed
esercita l'imperium, dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit;
mentre il senato trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia
almagi strato, dall'altra auctor fit, cioè accorda la propria approvazione alle
deliberazioni del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la
loro età e per il loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il
consulere, e quindi, senza avere propria iniziativa, completa in certo modo
l'opera dell'uno e dell'altro; poichè per mezzo del senato le misure prese dal
re vengono ad avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio, e le delibera
zioni del popolo ricevono consistenza ed autorità, mediante la sua approvazione.
Finchè dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed
indeterminato; ma durante il periodo repub blicano quest'autorità,
essenzialmente consultiva, riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per
penetrare in qualsiasi argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la
grandezza di Roma non fu L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al
re, è bellamente espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo: « Itaque hoc
consilio et quasi senatu fultus ». De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas,
che il senato esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi
coll' auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo, perchè non trattasi qui di
integrare una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e
l'autorità, che viene dall'età e dall'esperienza, ai provvedimenti, che ri
guardano il pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 47. 240 solo
opera della fortezza del suo popolo, nè dell'energia del suo ma gistrato, ma
benanco della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e
il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198.
Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen nare alla
questione tanto controversa, fra gli autori, circa la signifi cazione da
attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas: col qual vocabolo alcuni
intendono l'approvazione del senato; altri invece l'approvazione, che, durante
i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare alle
deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che con
esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ).
Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e
più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica,
quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può
in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse.
Durante il periodo regio, il vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun
dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente patrizia
erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia
costituivano il populus e l'assemblea delle curie. Più tardi invece, allorchè,
accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed
anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente
comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei
patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo, ed aveva ancora una
propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una
delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e
credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un
medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una
medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono
vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain, 5me éd., Paris 1883, pag.
208 e dal Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris 1886, pag.
16, nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande
chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma
nelle sue diverse forme (Rivista di filologia, Così pure ebbe nuovamente a
trattarla il KARLOWA, op. cit., pag. 42 a 48; il quale finisce per associarsi
all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas patrum debba ritenersi
per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la conseguenza, che d'allora in
poi, per indicare l'approvazione del senato si usd di preferenza il vocabolo di
senatus auctoritas, in quanto, che il senato aveva già cessato di essere
composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a raccogliersi fra gli
equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio (patres et conscripti);
mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente per indicare
la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento patrizio,
dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero state votate
nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò, che si usano
promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores fiunt ». Siccome
però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del
patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della
patrum auctoritas era stata abolita, l'espressione siasi talvolta adoperata per
significare l'una o l'altra approvazione (1). (1) Nella gravissima questione,
che è tuttora aperta, gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui possiamo
valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum, durante il periodo regio
esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione del senato,
come risulta dal racconto di Livio, relativo all'elezione di Numa, ove i
patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I, 17, ed
anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce l'auctoritas al
senatus; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun dubbio ad
approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute, in quanto
che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio, XXXII, 6;
IV, 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano: nullum plebiscitum nisi ex
auctoritate senatus passuros se perferri; 3º Che oltre a questa approvazione
del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da
Livio, ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex, o di qualche
provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40, 55, 59; IV, 7, 17, 42, 43 ecc.
Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica
conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie,
composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle
leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera
riunione del populus, così essa, accid ritenesse sempre una parte nella
formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum
auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu
una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla
introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della
costituzione primitiva, secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi
il concorso di tutti gli organi politici dello stato. Ciò che è accaduto
dell'auctoritas patrum, si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed
anche della proposta dell' interrex, che pure appartengono all'assemblea
esclusivamente patrizia, quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie;
mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva
seguito lo svolgersi della costituzione, e aveva così cessato di C., Le origini
del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a questo
riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della costituzione
pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di ogni altro
potere. Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al
concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento
all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia, che essi considerano
come una specie di investitura divina. Parmi invece, che la genesi dello Stato
romano essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe
nel populus quiritium, il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii
centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum,
la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura
anche questa, ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori,
corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva, in cui ogni organo
politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del
magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo
politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che
esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni dell'as
semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza, poichè la
lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta
dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e
la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di
opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento
nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del
concetto di lex, e di quello dell'interregnum. Del resto delle opinioni poste
innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal
KARLOWA, che intende per patrum auctoritas l'approvazione dei soli senatori
patrizii, perchè essa non si concilia coll'espressione dei patricii auctores
fiunt, patricü coeunt, interregem produnt e simili, e perchè crea una divisione
nel senato, che è incompatibile col carattere di unità coerente, che ebbe
sempre questo corpo. Mentre l'assemblea delle curie diventava una soprav
vivenza dell'antica' costituzione, il senato invece si mantenne sempre vigoroso
e vi tale, e subì modificazioni analoghe a quelle del populus, senza mai
portare le traccie di dissidii che fossero nel suo seno, poichè la nobiltà
plebea, che entrava in esso, aveva già le stesse tendenze dell'antico
patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo periodo, fosse venuto a
significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato in modo incontrastabile
da quella disposizione della legge decemvirale: « connubium patribus cum plebe
ne esto », dove il vocabolo patres non comprende certo soltanto i senatori, ma
tutti i patrizü; come pure dal fatto, che gli storici parlano soventi dei
iuniores patrum, la cui intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che
questa proposizione sia abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli
autori per significare il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di
questo potere, dicendo che il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit,
constituit; espressioni, che indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo
avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è da lui confermato, allorchè nel
discorso de lege agraria 2, 7, 17 dice: « omnes potestates, imperia, curationes
ab universo populo romano 243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre
la sorgente del pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di
quel l'aureola religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di
Roma. Lo Stato romano esce dalla confederazione e dal contratto, e quindi al
modo stesso, che la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il
potere pubblico si forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai
singoli quiriti, e che è rappresentato dalla lancia, di cui essi sono armati.
Quanto agli auspicia, che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a
dare una consacra zione religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione
di sapere giudicare, se questo o quel provvedimento, da prendersi nel pubblico
interesse, possa essere o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica
del magistrato debbono considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i
padri fanno al magistrato di quegli auspicia, che appartengono a ciascuno di
essi. Cid è dimostrato dal fatto che, du rante l'interregno, gli auspicia
ritornano ai padri (ad patres re deunt auspicia ); il che significa, che in
origine dovevano appartenere ai padri stessi, i quali, nell'interesse delle
loro genti e famiglie, as sumevano quegli auspicii, che il magistrato romano
doveva invece consultare, quando si trattasse di qualche deliberazione
importante per il popolo stesso. Tuttavia se ai patres tornano gli auspicia, è
però sempre al populus, che spetta di creare il magistrato, che debba succedere
nell'imperium, come lo dimostra la tradizione, per venuta fino a noi, della
elezione diNuma. Si aggiunge, che è solo dopo il conferimento dell'imperium,
fatto mediante la lex curiata de imperio, che il re dapprima e le magistrature,
che gli sottentrarono più tardi, possono entrare nell'adempimento del proprio
uffizio. Ri tengo pertanto, che a questo proposito non possa essere accolta
l'opi nione del Mommsen, la quale riesce pure inammessibile per il Kar
proficisci convenit ». Lo stesso è indicato da Festo, allorchè parlando del
magi stratus cum imperio, dice, che esso è quello al quale « a populo dabatur
imperium ». Malgrado di ciò convien dire, che l'opinione contraria, come si
vedrà in seguito, ha la prevalenza presso gli autori anche recenti, che si
occuparono dell'argomento. Si accostano però al concetto da me sostenuto il
Mainz, Introd. au cours de droit romain. Bruxelles, ed il GENTILE, Le elezioni
e il broglio nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto
chiaramente e giusta mente, a parer mio, che « i pastori della leggenda
riconoscono Romolo per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità,
riguardano ancor sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente
della sovranità ». 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non
conferirebbe l'impero, ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se
cosi fosse infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio,
anche prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà, che
servirebbe ad obbligare il popolo, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il
vero invece si è, che anche in questa appare il carattere eminentemente
contrattuale della costituzione primitiva di Roma, per cui anche il
conferimento del potere supremo si opera colla forma propria della
stipulazione, in quanto che havvi il magistrato, che prima di entrare in
ufficio rogat imperium, ed havvi il popolo, che con una legge glie lo
conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i diritti e le obbligazioni,
che una legge di questa natura può loro conferire. Una prova poi di questo
riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per parte del patriziato, in
quel fatto di Valerio Pubblicola, che in tempo di pace e dentro la città
ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere daimedesimi le scuri,
come pure nel fatto, che gli imperatori, quando già si erano fatti onnipotenti,
sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale concetto, di essere
investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il concetto, che il potere
supremo risiedesse nel popolo, non poteva in nessun modo affievolire l'imperium:
poichè al modo stesso che il popolo doveva ubbidire alle leggi, che si erano (1
) Che il magistrato non possa entrare in ufficio, e tanto meno esercitare l'im
perium, prima della lex curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE,
nei quali si dice: « consuli, si legem curiatam non habet, rem militarem
attingere non licet » (De lege agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora:
« sine lege cu riata nihil agi per decemviros posse » (Ibidem, II, 11, 28). Dal
momento quindi, che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a
quello del regis im perium, non si comprende come il Mommsen, Staatsrecht, I,
588 s. possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che
vincola i soli sudditi, e meno an cora, che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e
82 possa sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in
azione, che colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii
centuriati, i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati
avrebbero poi conferito l'imperium. Ciò è contraddetto ripetutamente da
CICERONE, de Rep. II, 10, 17, 18, 20, che parla appunto della lex curiata de
imperio a proposito dei primi re. Non solo deve negarsi, che questa lex entrò
in azione solo colla costituzione Serviana; ma deve dirsi piuttosto, che essa
da quel momento perde della propria importanza e riducesi ad una semplice
sopravvi venza dell'antico ordine di cose, in cui erano i patres, che
investivano il re del. l'imperium, e a cui ritornavano gli auspicia. - 245 da
lui votate nei comizi, così esso doveva eziandio inchinarsi al potere, che
aveva conferito al magistrato per mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo
potere riusciva tanto più efficace ed imponente, in quanto si fondava sopra una
volontà collettiva, che ve niva a sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è
anche questo il mo tivo, per cui il potere del magistrato romano veniva in
certo modo ad essere senza confini, finchè aveva l'appoggio della pubblica
opinione. Fermo cosi il concetto della costituzione primitiva di Roma, quale
esce dalla logica delle istituzioni (logica, che nel fatto dovette anche essere
più rigorosa e coerente di quella, che a noi possa esser riu scito di
ricostruire ), riescirà più facile di ricomporre insieme i cenni, che gli autori
ci conservarono di questa primitiva costituzione e di comprendere il vero ed
intimo significato della medesima. § 4. Il re ed il regis imperium. 201.
Dei concetti politici del periodo regio, quello che presentasi modellato in
modo più vigoroso e potente è certamente il potere del rex. Tutti i poteri
infatti, che nel periodo anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi
vocaboli di magister populi, di magister pagi, di dictator, di praetor, di
iudex appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica del regis
imperium. Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di
tutte le manifestazioni del potere, che eransi avverate nel periodo gentilizio,
e dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri,
che, durante il periodo repubblicano, saranno poi affidati alle diverse
magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione potente del
populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere necessarii
nell'interesse della cosa pubblica; nė vi ha costituzione scritta, che gli
prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che
questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno
incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli
imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere
troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della
città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel
cuore stesso della città, accanto al sito, ove deve bru 246 ciare perenne il
focolare della vita pubblica, che si conserva nel tempio di Vesta. Che se, per
provvedere al pubblico interesse, debba abbandonare la città, dovrà lasciare
nella medesima un proprio delegato, che prenderà il nome di praefectus urbis. È
quindi anche il re, che provvede al lustro esteriore della città, che progetta
e costruisce quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia, e che
non furono le meno durature fra quelle costruite nell'eterna città. È nella
successione dei re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso
intento di ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie
dimostrano abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi
ai primi re, ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non
eccettuato quello, che aspird alla tirannide. 202. Cid quanto alla custodia
materiale dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re,
condottiero di un popolo, che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere
religioso, militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi
caratteri. Finché dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo
dell'esercito (impe rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di
pace che in tempo di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano.
Esso è augure sommo, e tale appare Romolo stesso; è pontefice massimo, come lo
dimostra il fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano
compare soltanto colla repubblica, allorchè sentivasi già il bisogno di
limitare in qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si
riferiva alla religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex
maximus ed il rex sa crorum; e fino a un certo punto esso è ancora il pater
patratus del popolo romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni
dei più antichi trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu
lazione del foedus e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o
foeciale, mentre gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così
approvano tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è, che già fin dal
periodo regio noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa
creazione è opera del re stesso, nè essi hanno, anche nella città patrizia,
alcuna partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio,
I, 1, a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri: « inde foedus ictum inter
duces, inter exercitus salutationem factam.] sercizio del pubblico potere; ma
sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle
tradizioni giuridiche, politiche, internazionali delle genti e delle tribù, da
cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione
legislativa, che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma,
per trattarsi di città, che risultava dalle confederazioni di genti, che
appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il periodo
regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum,
dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis; ma anche questi non
sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati. Di qui la conseguenza,
che è solo il re o qualche suo delegato, che può essere preceduto dai fasci dei
littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo
può convocare il popolo e il senato, salvo che egli deleghi questo potere al
tribunus celerum o al praefectus urbis (2). È quindi vero, che colla creazione
del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le
manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo
svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e
politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina
l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio, e da esso
incomincia quella differenziazione del potere pubblico, che dovrà poi operarsi
nella città. 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi
nell'imperium regis, indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che
compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica, più che
l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò, che
può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di
imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a
compiere nella città, che non da una precisa e particolareggiata determinazione
del (1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva, mi rimetto
a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV, § 2º. (2) Secondo il
LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 115, sarebbe, valendosi di questo
potere, che Giunio Bruto, come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino,
quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei
Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali
non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio
uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono
distinguere atteggiamenti diversi, che cominciano a diffe renziarsi mediante i
vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae. A lui quindi si
appartiene di assumere gli au spicii, allorchè trattasi di qualche
deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse, cosicchè, già fin da
questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia
privata. Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri,
ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle
cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare
se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium
domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si
perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità, se i
Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città, e
vollero che i consoli, entrando nella medesima, facessero togliere le scuri dai
fasci, e facessero abbassare anche questi, allorchè concionavano il popolo,
compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la
provocatio ad populum fosse tolta di mezzo, allorchè si trattava di mantenere
la disciplina dell'esercito; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il
magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra. In virtù
dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in
tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe
il duce della fanteria, mentre il tribunus celerum sarebbe quello della
cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso
nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio
militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In
virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi: ra duna il senato;
amministra giustizia, non nella propria casa, ma all'aperto, in cospetto della
cittadinanza; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain, I
pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia, e
del compito affidato agli auguri. Sulla distinzione fra l'imperium domi e
l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit.,
I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag. 135 e
157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia
sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i
senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più
sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri, i
quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi
vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti, in
base a un numero determinato, dall'assemblea delle curie. I primi scelti fra i
giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re;
mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio; donde
la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine,
e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè
l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið
l'abbiamo in questo, che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione
fra il numero degli equites e quello dei patres, col numero delle curie;
correlazione, che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites
si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si
arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato
costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites,
i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio
voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più
tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere
ai pubblici spettacoli (1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella
costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed
intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto
all'opera personale del re. Egli impone tasse, distribuisce terre, costruisce
(1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci
vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre
dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio, I,
35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova
questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del
popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso
Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo,
ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano
poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere
militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a
tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato; sebbene siavi chi
attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del
senato (Mem. Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii. Può darsi, che la
tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi
seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte
esagerata l'opera personale del re; ma ad ogni modo, quando si consideri che il
primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii
ele menti, che concorrevano alla formazione della città, si dovrà sempre
riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a
quell'elemento, che era chiamata ad unificarle. Allorchè trattasi della
formazione di una città (e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una
nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore
al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o
a quella delle provincie; sarà infine soltanto, allorchè saranno ferme le basi
della grandezza dello Stato, che potranno svolgersi largamente il iubere e il
constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri
mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come
quello, che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che
furono poscia affidati a magistrature diverse. Nelle forme esteriori può ancora
assomigliarsi ad un padre: ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo del
popolo (prin ceps), è il duce dell'esercito, e il magistrato della città. Un
carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato, quale appare nella
costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di
senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia, come lo è
certamente quello di patres, che fu dato ai senatori, e che essi conservarono
anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser tali. Può darsi
eziandio, che il primo concetto del senatus potesse essere suggerito da quel
consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del primitivo capo di
famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che provvedeva all'interesse
comune della gente. Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il senato
romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere eminentemente politico, e
che presentasi come l'applicazione di un concetto, che i Romani avevano
profondamente radicato, il quale consisteva in ciò, che tanto il regis imperium,
quanto il iussus populi abbisognassero di un ritegno in quell'autorità, che
viene ad essere attribuita dall'esperienza e dall’età. Di qui conseguita, che
la patrum auctoritas, allorchè comparenella costituzione primitiva di Roma, non
è un'autorità, i cui limiti siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una
costruzione logica, che potrà col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di
cui può essere capace il concetto ispiratore della medesima. Di essa, come
dell'imperium regis, non potrebbe dirsi quale sia l'influenza, che verrà ad
esercitare sulle sorti di Roma; solo si conosce la funzione che, in base al
proprio concetto informatore, è chiamata ad esercitare nella costituzione
politica della città. Saranno poi gli eventi, che additeranno al senatus la via
che dovrà seguire, i limiti in cui dovrà contenersi, e i casi eziandio, in cui
dovrà forzare il proprio ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la
logica dell'istituzione dovrebbe contenerlo. 206. Siccome perd la funzione del
consulere, per essere una fun zione intermedia, ha per sua natura una
indeterminatezza molto maggiore, che non quella dell'agere e del iubere; così
ne viene, che i poteri del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi
mento posteriore un carattere vago ed indeterminato, che dipenderà
dall'influenza effettiva e reale, che i membri, che lo compongono, saranno in
condizione di esercitare sull'andamento della cosa pubblica. Possono esservi
dei consigli che, per le persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in
comandi, per quanto siano accompagnati dalla formola « si eis videbitur »; al
modo stesso, che possono esservi dei responsi e degli avvisi, che, per
l'autorità della persona, da cui partono, possono anche valere come sentenza,
contro cui non sia consentito di appellare. Queste esplicazioni sono frequenti
nella lo gica romana, e sono esse, che possono spiegare in qual modo il se nato,
pressochè lasciato in disparte dallo spirito intraprendente dei re, che
dovevano preferire l'appoggio dell'elemento popolare e quello anche della plebe,
abbia potuto, senza romperla affatto col concetto ispiratore della propria
istituzione, cambiarsi colla Repubblica nel l'organo più potente della
costituzione politica di Roma, per guisa da attribuire ai proprii avvisi
(consulta ) l'autorità di vere leggi; (1) Parmi di trovar espresso questo
concetto, a proposito di Romolo, in CICERONE, de Rep. II, 8. 252 mentre invece
coll'Impero viene ad essere ridotto a concedere la propria autorità ai decreti
di un principe, al cui arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207.
Del resto questo carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli
organi della costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio, occorre un
magistrato, come quello del censore, che in caricato dapprima di una funzione,
che sembrava non adatta alla di gnità di un console, quale si era quella della
compilazione del censo, cambiasi poi in censore del pubblico e del privato
costume, in elet tore supremo del senato, e per la dignità finisce in certo
modo per essere considerato come superiore allo stesso console. Nè altrimenti
accade anche delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni della plebe, i
quali negli inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano che a difendere i
debitori dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai maltrattamenti del
console; ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori della plebe, in
accusatori del patriziato, e nell'organo certamente più efficace del
pareggiamento giuridico e politico della plebe; finchè da ultimo il potere
tribunizio, che continua pur sempre ad essere circondato dal favor popolare,
mutasi ancor esso nella base più salda, sovra cui poggi ildispotismo imperiale.
È quindi sopratutto in Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto
vale quanta è la tempra della persona, che trovasi investito di esso, e quanto
è l'appoggio, che esso trova nella pubblica opinione, con quest'unica
limitazione, che esso deve trattenersi nei limiti del concetto, a cui si
informa dai proprii inizii. Questo concetto da una significazione materiale
potrà passare ad una significazione morale e politica, sic come accadde del
censore, che da compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla
difesa potrà anche passare all'accusa, in uno scopo di difesa, siccome fecero i
tribuni della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente percorso
da una logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non solo nelle
istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo carattere perd so
pratutto si appalesa nell'istituzione del senato. Potere consultivo nelle
proprie origini trovò opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di
cambiare i proprii senatusconsulti in leggi; ma anche in quei senatusconsulti,
che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare
sulla comunanza un ' autorità di carat tere consultivo e pressochè di
protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai
Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare
all'argomento, questo è certo che tutti gli autori sono concordi nel descrivere
il senato come elettivo fin dagli inizii di Roma. Festo anzi ci attesta, che la
nomina attribuita al re era più libera di quella, che più tardi appartenne al
censore, in quanto che l'essere lasciati in disparte dal re (praeteriti sena
tores) non era riputato ignominia; il che fu invece di quei ma gistrati,
uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per entrare nel senato, non vi
fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal medesimo, se già ne
facevano parte (1). 208. L'incertezza invece è grande, quanto alle funzioni,
che da esso furono effettivamente esercitate; il che provenne probabilmente da
ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago ed indeterminato, gli
autori, e fra gli altri Dionisio, non potendo attribuirgli dei poteri
determinati da una costituzione scritta, dovettero sforzarsi ad asse gnargli
quei poteri, che sembravano convenire alla funzione, che esso era chiamato ad
esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue funzioni, anche durante il
periodo regio, furono essenzialmente con sultive. Esse anzi sembrano ancora
tenere del patriarcale, come quando i senatori son chiamati a fare ripartizioni
di terre fra le popolazioni di classe inferiore, e quando ad essi viene
affidata, almeno secondo Dionisio, la punizione dei delitti meno importanti,
mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui più gravi. Non può invece
ammettersi, perchè ripugna al carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver
chiesto l'avviso del senato, fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se
questo fosse stato il carattere degli avvisi dati al re, che da solo aveva per
tutta la vita quei poteri, che poscia furono non solo suddivisi fra magistrati
diversi, ma anche attenuati e limitati quanto alla propria durata, per maggior
ragione i senatusconsulti avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo
carattere, allor chè, durante il periodo repubblicano, il senato venne ad
essere pres sochè onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli
avveni menti,cheil senato, durante il periodo regio, non abbia potuto
esercitare tutta quella influenza, che spiego più tardi; cosicchè, quando volle
(1 ) Festo, V ° Praeteriti senatores (Bruns, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2,
12, 14, il cui testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag.
4 e 5. 254 - contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle
innovazioni dal medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri
e dei sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto
Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi
inefficace di fronte ad un re a vita, che aveva per sè l'appoggio del popolo
non solo,ma anche della plebe, la quale già cominciava ad esercitare
un'influenza, se non di diritto, almeno di fatto. Quindi fu solo colla cacciata
dei re, che il senato, consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni
anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte, divenuto così
custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori,
potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica, di
cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla
logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze
intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi
vamente patrizio; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare
i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre
il processo logico, che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere
il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere
concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece
che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine;
quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento, che sembra
appunto essere il numero adottato per le altre città latine, e per gli stessi
municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano (1).
Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a
chiudersi in sè stessa,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in
questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare
nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire
difficoltà, finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui, che
appartenessero alla plebe. Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in
guisa tale, che poteva accogliere, senza difficoltà, qualsiasi nuovo elemento.
Di più (1) Liv. I, 8; Dion., II, 12; Cic., De Rep., II, 12. Che il senato o
meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse
solitamente di cento, appare da ciò, che essi talvolta erano perfino chiamati
centumviri. Cfr. Willems, Le droit public romain, pag. 535. 255 l'Aventino, che
sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza
plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta
Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie
si possano stabilire. Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre,
che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere
al proprio sostentamento. Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie,
che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse
appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione
gentilizia e le numerose clientele, siano in condizione tale da offrire un
contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve
venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si
disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero
accolte nell'ordine patrizio, mediante la cooptatio, e quando non potessero
ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a
costituirle, non fossero ammessi a far parte delle curie. Quanto a quest'ul
time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana,
nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei
componenti ciascuna curia, le curie costituiscono dei quadri, che possono anche
accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del
senato; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al
numero di cento, e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione,
e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie: ma, una volta completato
questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al
partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si
avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie.
Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero
prefisso, poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi,
siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento:
così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche
il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non
contrastare cosi colla composizione simmetrica della città. 210. Come e quando
siasi fatta quest'aggiunta, non è bene atte stato. Alcuni, ritenendo che Roma
avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive,
direbbero, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses,
gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses, e gli altri infine dai Luceres:
la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco, al quale ap punto
si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa
spiegazione sarebbe abbastanza verosimile, allorchè non fosse contraddetta
dalla tradizione, che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle
tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto, allorchè
una nuova tribù veniva aggregata, non si comprenderebbe come potesse parlarsi
di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione
appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento
sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel
numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza, che la spiegazione più
verosimile del processo, che è stato seguito in questo argomento, sia quella
stessa, che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che
costituirono Roma primitiva, non potevano essere tali da offrire il numero di
trecento senatori, e Livio ci dice appunto, che il numero del senato primitivo
fu di cento, per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di
sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che
sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono
due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città
esclusivamente patrizia, contribuirono ad un forte aumento del patriziato
romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba,
in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già
notato altrove, più che una vera e propria scon fitta, deve piuttosto essere
considerato comeuna specie diduello giu diziario, a cui si rimisero i due
popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della
vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella circostanza
infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la
république romaine, Paris, 1878, I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du
Sénat romain, Paris, 1883, pag. 43 e 55; i quali pure accennano alle diverse
opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio
farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca
anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione
delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da
CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi
Sabini. De Rep., II, 8. (3 ) V. sopra, lib. I, Cap. VIII, nº 144. 257
tradizione narra, che la parte povera della popolazione latina entrò a far
parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti
patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir
accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto, che così accadde. Ora
l'effetto naturale di questa coo ptatio era, che i capi di queste genti
dovessero essere ammessi nel senato, il che non avrebbe potuto essere fatto,
senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le
testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero
simile il supporlo; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare
espressamente alle proporzioni di tale aumento, attestano però che esso dovette
aver luogo. Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver
duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali
cittadini d'Alba; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia; e di
aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un
contributo dal nuovo popolo. Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel
patriziato e nel senato all'epoca di Tullo, in occasione della distruzione di
Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut
tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che
Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a
trecento, il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo
e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri
cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero, che il secondo
centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense; ma ciò non
può essere ammesso, in quanto che l'ordinamento politico della città, per opera
di Romolo, era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù, come lo
dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro
nome dalle donne sabine; inoltre, cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato
quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212.
Quanto all'ultimo aumento, la tradizione e concorde nell'attri (1) LIV., I, 30;
Dion., III, 29. (2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres
legit »; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit,
qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant ». (3) PANTALEONI, Storia civile
e costituzionale di Roma. Appendice III, pag. 645 a 672. G. CARLE, Le origini
dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel
modo, in cui sa rebbesi operato. Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il
numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che
anteriormente fossero soli cento cinquanta, il qual numero non può essere
ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai
quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di
Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori.
Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane: ma è
ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella
comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio, siano rimaste tutto questo tempo
senza rappresentanti nel se nato. Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono
che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali,
a suo avviso, deriverebbero il proprio nome da Lucer, che in Etrusco
corrisponde rebbe a Lucius (1); ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi
derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana,
non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes, ricarate da
essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica, che dovevano
esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza; il qual
fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone,
secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni
Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già
compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede
razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state
forse collocate in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti,
da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di
origine Etrusca, come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al
seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio, che non la
leggenda di Tanaquilla, comemaiTarquinio, appena giunto a Roma, abbia potuto
avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare
e da ottenere colle (1) PANTALEONI, op. cit., pag. 660. (2 ) L'opinione di
VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio, in Aen., V, ove scrive: « nam
constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem
contra Titum Tatium, a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde
quidam venit cum exercitu; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est ». Del
resto anche Livio, I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres
primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la
dignità regia. Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente
romano, che è quello di porre come primi quelli, che veramente sono tali, e
quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium;
quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle
medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza.
È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il
proprio avviso; al modo stesso, che anche più tardi nei co mizii centuriati
erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu,
e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu. Cid dimostra,
che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene
indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in
appli care il principio: « prior in tempore, potior in iure ». 213. Le genti
insomma, che, a nostro avviso, si vennero ag giungendo, escono da quelle
stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva
dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano
potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele, che già potevano avere in
Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi
accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una
rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a
trecento; il quale, essendo in correlazione con quello delle curie, non ebbe ad
essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero.
D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la
città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a
rinchiudersi in sè stessa, e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e
le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli
altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata,
all'avvenire della sua città. Bene è vero, che si verifica ancora più tardi la
cooptazione della gente Claudia: ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti
nel senato, perchè bisognasse aumentarne il numero, e poi trattavasi di una
gente soltanto, la quale, per quanto numerosa, non poteva occupare tanti seggi
nel senato, da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son
fatto lecito di proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei
senatori, parmi, fra le moltissime che si posero innanzi, che si concilii più
facilmente colla tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far
procedere di pari passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli
dell'or dine dei cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi
negare, che nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono
essere simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro. La medesima intanto ci
prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del
senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta
dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo, il quale
all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano
talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non
sarebbero stati tolti dalle genti patrizie; e cid fra gli altri attribuiscono
allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito
dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum
gentium, denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il
quale consi derava come un suo privilegio la gentilità. A ciò si aggiunge, che
in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè
deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della
cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non
erano ancora ammessi a far parte delle curie. Ritengo quindi in proposito, che
l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello
svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini,
sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella, che
l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del
l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie;
poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della
costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga
trasformazione (1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera:
Le Sénat de la République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public
romain, pag. 46, sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel
senato, che a misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale
opinione trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a
Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da
Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata
(ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante,
perchè il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una
modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere
nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes, ma furono scelti fra
i magistrati, uscenti di ufficio: ne consegui per una naturale evoluzione di
cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi per
nascita, poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto.
Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa
trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener
luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già
pervenute al ius imaginum, e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia,
poterono perfino entrare a far parte delle curie; le quali, se avevano perduta
ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor
tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro,
che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano
desiderare di apparire loro eguali, anche nella no biltà di origine. § 6. – I
comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono
l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente
patrizia, appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva
di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza
e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale, che può
quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose; ciò però
non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero
foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi,
allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si
circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro
comparire essi hanno un carattere religioso, militare e politico ad anche nel
senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi
delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del
senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie
dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale
inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300, come quello, che
corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota, che egli
attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo (1).
Essi, nella costituzione politica della città, corrispondono all'assemblea
patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo, per accordarsi
con esso intorno alle cose, che possono interes sare la comunanza. In questo
però le curie già differiscono da quella, che non comprendono tutta la
popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia
coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica.
Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza,
alla vita pubblica le varie tribù, la cui confederazione è concorsa a formare
le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono
noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che
fanno discendere il vocabolo da quiris, asta, che sa rebbe stata l'arma del
quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante; nè l'etimologia può dirsi
inverosimile, quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è
chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere
qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue (3). Altri invece, fra
i (1) Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei
comitia curiata, è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING, L'esprit du
droit romain, $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V, 32: «
comitia curiata, qui rem militarem continent », e da un altro di Cicerone, De
lege agraria, II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia
ottenuta la legge curiata, non può as sumere il comando militare (rem militarem
attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di
quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome
stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere
perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza
questo carattere militare: poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il
carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una
semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia
o dalla lex Moenia. Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle
curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che
si mantennero gli auspicia, come lo dimostra la nomina dell'interrex, la quale
viene ad essere loro affidata, in quanto i patres o pa tricii delle curie sono
i soli depositarii dei primitivi auspicia, e sono le curie, che presiedute dal
pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari.
Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con
una significazione pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ,
Manueldes institutions romaines, Paris, 1886, pag. 6 e 7, e il BourgeaUD, Le
plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, pag. 39. (3) Cfr. PANTALEONI,
Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, pag. 617. 263 quali, il
Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium, città
sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono
per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale
opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso, con cui sarebbero
indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites,
più che l'origine, sembra indicare l'ufficio, il compito, a cui essi sono chia
mati di fronte alla città, poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua
sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire
il vocabolo da ciò, che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti
significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere,
che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia, esprime pur sempre il
medesimo concetto, poichè è la lancia, che è il simbolo del potere di chi
appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia, che sono i membri delle
curie. I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali, in quanto hanno
partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica, mentre nei rapporti
esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra
corrispondere, sotto un certo aspetto, a quella indicata coi vocaboli domi,
militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè
sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici
notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di
discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones.
In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro; intervenire i
patres, quali moderatori del populus; e tenersi anche orazioni (conciones), le
quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai
personaggi della loro storia, dovettero però essere ispirate alle circostanze,
in (1) NIEBAUR, Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal
WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero, che
il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci
è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites: « Quirites autem, dicti post
foedus a Romulo et Tatio percussum, comunionem et societatem populi factam
indicant ». (2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 29. Inering, L'esprit
du droit ro main, 1, $ 20, pag. 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non
è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini
delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata
curia. 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii,
tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un
esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium
(1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano
primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue
transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere
e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole
la transazione proposta; ma allorchè il periodo delle trattative è finito, più
non occorre che una interrogazione ed una risposta, so lenni, ed allora: « quod
lingua nuncupassit, ita ius esto ». È in questo senso soltanto, che deve essere
inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè
discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o
respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere.
Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute
nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio, che
ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse
pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro
(2 ). 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se
la volontà divina si palesasse favorevole, o non alla delibera zione, che si
stava per prendere; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi
templum; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle
pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto
alla distinzione fra comitium e contio, vedi il KARLOWA, Röm. R. G. I, pag. 49.
È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo,
ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal
seguente passo di Paolo Diacono: « Contio significat conventum; non tamen alium,
quam eum, qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur ».
Ciò pur conferma Liv., 39, 15. (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente
seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v. fra i recenti Karlowa, Röm.
R.G., pag. 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva
nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera
il carattere del populus primitivo; il quale, composto di capi di famiglia e di
persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche
prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga
mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º,
parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta
la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse
consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse
l'impor tanza del proprio uffizio. Da una parte eravi il re o magistrato, che,
dopo aver premessa la formola: quod bonum felis, etc., invitava il popolo
(rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta
fattagli colla formola: velitis, iubeatis, quirites; e dall'altra vi erano i
membri delle curie, che rispondevano affermando (uti rogas), o negando
(antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle
assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri
comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa
prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende
dal voto complessivo delle curie; nel che abbiamo un indizio del vincolo
potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in
quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva, ma quello dei
gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla
stessa organizzazione gentilizia, in cui non si può comprendere l'in dividuo,
che aggregandolo ad un gruppo; ma dall'altra dovette anche condurre alla
disciplina del voto. I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di
un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza; disciplina
questa, che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed
anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria, e la
tribů. Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino
superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre
un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un
augurio (omen ); donde la denominazione di curia principium, che viene ad
essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione
stessa delle delibera zioni comiziali. sono 219. Sopratutto poi importa determinare,
quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati; il che riesce assai
difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi
dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato. Secondo Dio nisio,
il quale talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di
Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello
indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra; sarebbe essa, che
conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o
gentes, mediante la cooptatio; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi,
e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto dei
fatti, dei quali ci pervenne notizia, ben poche sarebbero state le occasioni,
in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol
dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere
determinato da una costituzione scritta; ma deve ri guardarsi come un potere in
via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli
avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore.
Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe tutti quei
poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È
esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale; è
esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così
l'inizio del suo potere legislativo; è esso infine, che già avrebbe avuto
l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo
dimostra la provocatio ad populum, che si fa rimontare all'epoca dei primi re,
e si sarebbe dispiegata, secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio, uccisore
della propria sorella. 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno
speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non
parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere
consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie; la quale, sotto
un certo aspetto, è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e
coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle
famiglie, e del loro culto, e sotto un altro aspetto è una riunione di
carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di
Giano, protettore della città, deve avere lo sguardo rivolto in due opposte
direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della
tribù, (1) DION., 2, 14, scrive in proposito: « populo vero haec tria
concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex
rogationem ad eum tulisset ». (2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente,
ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali
funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al
l'organizzazione gentilizia, e deve curare che il culto di essa non venga ad
interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso; dall'altra invece è
membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve
aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi
suprema lex esto ». Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole
diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri
comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le
cose attinenti al pubblico interesse, sonvi i comitia ca lata, convocati dal
pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli
atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia. Nei
primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il
magistrato; si assolvono o condannano coloro, che appellarono al popolo. Nei
secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso, i quiriti
si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in
essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines; come pure
è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo
l'organizzazione gentilizia, e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in
questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona
sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia
sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo
culto, per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in
essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum, che è la rinuncia al
proprio culto gentilizio, per causa di adrogatio o di transitio ad plebem; come
pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio: cooptativ,
che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a
costituirla. È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum, che vien
detto appunto in calatis comitiis; il quale, secondo il concetto delle genti
patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello, che alterava le
norme relative alla successione genti lizia, e quelle riferentisi alla
trasmessione dei sacra. Cid è provato dal fatto, attestatoci da Cicerone, che
il ius pontificium, nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per
porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità; donde
l'espressione popolare, che occorre soventi nei comici latini, di haereditas
sine - 268 sacris, per significare un vantaggio conseguito senza i pesi
inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista, sotto
cui debbono, a parer mio, essere considerati i comitia calata, ci spiega quel
carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma,
il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di
disporre delle proprie cose per testamento; dal l'altra vuole, che i
testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi
privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo, e li ritiene come
relativi ad argomenti di diritto pubblico. Gli autori vollero spiegare la cosa
con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante
leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e
coll'approvazione del po polo. Riterrei invece, che in questa istituzione dei
comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere
meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato
nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande
intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e
il loro culto, e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza,
che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione
dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad
essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia: quindi questi atti
continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi
sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica,
ma ancora i sacra privata. Quindi conviene ammettere, che le curie non
prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a
darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che
viene ad essere provato dalla formola, conserva taci da Aulo Gellio,
relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia
calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio, Noc. Att.. XV, 28 e 3, il
quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla
ripartizione dei sacra, in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è
attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. (2) Vedi libro I, cap. IV,
$ 4, nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio, Noc. Att., V, 19. Ivi si dice che a
adrogatio per rogationem populi fit », ed è riportata la formola, che è quella
della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis,
iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita
vos, quirites, rogo ». 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata
nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il
tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban
donerà così presto. Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii
centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i
proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte
all'anno, più non dovette approvare il te stamento, ma solo prestare la propria
testimonianza. Ciò è dimostrato dal fatto, che il testamento in calatis
comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram, in cui i
quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium
mihi perhi bitote). Intanto però, anche quando l'adrogatio e il testamentum
furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia
dell'antico stato di cose nel concetto, ricordatoci da Papiniano, secondo cui
la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora
degno di nota, che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni
importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta
littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero
perfino questa competenza, per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano
l'organizzazione gentilizia, e sopratutto, quanto all'adrogatio. Questa fu
praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio, i
quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie,
seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi
le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma
ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la
questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della
assemblea delle curie; ma (1) Papin., L. 4, Dig. (28, 1). La conclusione
sarebbe questa, che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia
dell'antica organizzazione gentilizia. Tale carattere poi in parte avrebbe
cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si
introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata
da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i
quali, secondo Gaio, Comm., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in
essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione
periodica dimostra, che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e
che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria
testimonianza. Fu questo il motivo, per cui il testamento in calatis comitiis
potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram, ove i quiriti si
riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm., II, 103. 270 credo
opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di
determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del
diritto pubblico, che sotto quello del diritto pri vato; premettendo però fin
d'ora, che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo
regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle
curie (1 ). $ 7. Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma.
222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del
carattere speciale della primitiva assemblea curiata: ma intanto per scoprire
certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate, quando non
fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli
svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità, ritengo
opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo
sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in
cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni
della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad
epoche compiutamente di verse, ma che intanto funzionano contemporaneamente.
Ciò è vero sopratutto per quello, che si riferisce ai comizii. Roma patrizia, e
forse anche Roma, durante tutto il periodo regio, non conosce altra assemblea
del popolo, che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso
e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus
romanus quiritium, di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva
esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che
ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo,
intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium, già inteso in
senso più largo, che è la centuriata. Anch'essa è mo dellata sulla prima, e
secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta
dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento, che non partecipava al
culto gentilizio, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e
sacerdotale, e (1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo
stesso libro, cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia
anche poli tico. Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap
presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non
entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa, dirimpetto alla
centuriata, un' assemblea di patres, perchè com prende coloro, che discendono
sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero
populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie;
perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del
censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti
pa trizie, continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus,
cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati
la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto, a distinguersi
dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai
patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de
imperio, sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della
loro im portanza, e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di
carattere puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento
della costituzione primitiva procede ancora regolarmente: ma la cosa si fa più
malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare
un nuovo elemento, che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia
plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la
sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius
connubii col patriziato, nè il ius honorum. È quindi naturale in essa
l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il
patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a
diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un certo
riguardo una fazione nello Stato, poichè i suoi interessi si contrappongono a
quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero reggitore dello
Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori. La plebe però ha
già un proprio magistrato, sotto cui si organizza, che è il tribuno della
plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi, quanto
all'auctoritas patrum, questo stesso capitolo, § 3º, n° 198, pag. 240 e seg.
colle note relative. 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio
interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali
dapprima hanno più un'esistenza di fatto, che non di diritto: ma che intanto,
fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente
a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e
politica fra la plebe e il patriziato. Essi perciò mettono in accusa patrizii
avversi alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio. Proibirli
è impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole, che ogni
sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e
perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che
ha per sè il numero e la forza, e che, ricorrendo ad una secessio, potrebbe
mettere a repentaglio l'avvenire della città (1). L'unico partito pertanto, che
rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta, è quello di
riconoscere queste riunioni e di farle entrare, per quanto sia possibile, nei
quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i
concilia plebis in comitia tributa: in comizii, cioè, che comprendano eziandio
tutto il popolo, ma non più in base al censo, come l'assemblea delle centurie,
ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana.
È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il
quale, nel 283 U. C., dopo lunghe lotte, ottiene che la plebe possa nominarsi i
suoi tribuni nei proprii comizii; ma con ciò questi non possono ancora prendere
che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere
obbligatorii per essa. Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a
pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti
obbli ghino anche il patriziato, il che si opera per mezzo delle leggi Va leria
-Orazia, Publilia e Ortensia; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne
pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per
tutto il popolo, segnano però, come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La
proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni
della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto, pacionem, quam
volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die
Tafeln, I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n. 12. Qualcosa di
analogo ci è pure accennato da Livio, 39, 15: « ubicumque multitudo esset, ibi
et legitimum rectorem multitudinis, censebant maiores debere esse »; ed è
questo forse il motivo, per cui i concilia plebis cominciano a diventare
potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus
plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex, i varii stadii, per cui
passò la risoluzione del gravissimo problema (1). 224. Giungesi cosi ad un
periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi
tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi
vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e
sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie, si
riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e
diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi
sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo
romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere
militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme,
che sappiamo essere state introdotte, senza saperne precisare il come ed il
quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea
tributa, più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria
iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere
di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso, cioè la
nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè
serbare intatto il proprio carattere primitivo; ma poscia la fusione sempre
maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di
grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la
dignità sacerdotale di curio maximus; al modo stesso, che i pochi discendenti
delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i
quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa, e poterono essere
presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le
cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii
centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e
questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti; quelli
serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio,
fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1)
Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se
guente § 2º, n ° 232 e seg. dove si discorre del concetto romano di lex. Quanto
alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi
il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag. 593, ove parla dell'elezione
dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 18
274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della costituzione politica
di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia, a ricordare l'antico
dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati ridotti ad essere la
riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e circoscritti a funzioni
di carattere essenzialmente reli gioso, e i concilia plebis, che ricordano
ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo col patriziato, e nei
quali continuano a nominarsi le magistrature esclusivamente plebee (1). Intanto
è ancora degno di nota, che la trasformazione, che si opera nei comisii tri
buti, accade anche nei tribuni della plebe, i quali, sebbene debbano sempre
essere trattidalla plebe, diventano però a poco a poco magi strati urbanidel
popolo romano; comepure accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad
essere pareggiati alle leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato
nel capitolo seguente. Questo è il solito processo, seguito dai Romani, nello
svolgimento delle proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per
mette di poterlo ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel
racconto storico, che a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi,
intensiva ed estensiva ad un tempo, e quindi si può es sere certi, che se un
concetto entri nella compagine romana non scomparirà, se prima non siasi
ricavato da esso in profondità ed estensione tutto ciò, che contenga di
vigoroso e di vitale. Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli
organi, che entrano a costituirla, importa ora di considerarla nell'esercizio
delle sue principali funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per
risolvere la questione così contro versa relativa alle analogie ed alle
differenze, che possono intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis.
È noto in proposito, come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea
tributa (Histoire romaine, III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima
(concilium plebis), avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi
così cambiata in comitium tributum. Il Mommsen invece (Römische For schungen,
Berlin, 1864, I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due
assemblee tribute: l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra
esclusivamente plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione
possa essere accolta, ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di
interesse esclusivamente plebeo, quali erano la nomina dei tribuni e degli
edili plebei, mentre il vero potere legisla tivo, elettorale e giudiziario
appartiene ai comitia tributa, i quali soli possono con siderarsi come un vero
organo della costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans
l'antiquité, Paris, 1887, pag. 57 a 76; Karlowa, Röm. R. G., pag. 118; MORLot,
Précis des instit. polit. de Rome. Paris. La primitiva costituzione di Roma
nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere generale della medesima. e 225.
La costituzione primitiva di Roma, finchè si mantenne esclusivamente patrizia,
si presenta con un carattere di unità e di coerenza, che indarno si cercherebbe
più tardi nelle istituzioni po litiche di Roma. Vero è che la plebe, entrando a
far parte della comunanza politica, recò nella medesima il movimento e la vita,
rese possibile per Roma un avvenire, che non avrebbe mai conse guito la città
esclusivamente patrizia, la quale da sola tendeva più a chiudersi in se stessa,
che ad estendersi; ma è vero eziandio, che colla plebe penetrò il dualismo in ogni
aspetto della costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii
disciplinati del popolo rac colto nelle curie, si svolsero i concilii talvolta
tumultuosi della plebe; ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della
plebe; ed alle leggi votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so
vrapposero i plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma
venne in certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore
della medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in
quanto che dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano
associati, ma che non erano intimamente uniti fra di loro, di cui uno
pretendeva di avere per sè la priorità ed il diritto, mentre l'altro aveva per
sè il numero e la forza. Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della
primitiva costituzione di Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi,
che sopravvennero coll' ammessione della plebe alla cittadinanza, e quando ciò
si faccia non si può a meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla
coerenza, che presenta la costituzione esclusivamente patrizia. Essa è un vero
organismo, che componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad
adempiere la propria funzione: ma che tutte intanto si suppongono e si
completano a vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere
al popolo, ma questo non potrebbe esercitarla, se 276 non fosse posto in azione
dall'imperium del magistrato; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas
del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium, e
dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa
populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni
della costituzione siano considerati nel loro movimento; poichè mentre ciascun
aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio
concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune,
senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione
politica di Roma ha fatto dire a Polibio, che essa appariva mo narchica,
aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava
rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere (1); ma se altri poi la
consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi
caratteri ad un tempo. L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi
potestas sono altrettante concezioni logiche, destinate col tempo a ricevere
tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per
modo, che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di
essi una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi
elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti
gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere
impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi; donde
l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio,
la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse, in quanto che tale
intercessio, o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma
iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima
magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio,
Histor., lib. VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto
dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione, come appare
dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain,
pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che
l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di
svolgersi, perchè i tre elementi od organi della costituzione erano
potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva
già allo stato latente il germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto
che in essa niun provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse,
pud damentale della costituzione
primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo,
ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia, secondo che
essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale. Intanto quando trattasi
della res publica, ossia di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza,
tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio contributo. È
infatti almagistrato (rex, interrex, tribunus celerum, praefectus urbis) che si
appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il senato; il ro
gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche proposta;
l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si spinge fino
alla maggiore estensione, di cui possa essere capace. E invece al senato, che
si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio avviso al
magistrato, o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente pericolo,
« ne res publica detrimenti capiat »; e l'auctor fieri, se è questione invece
di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il
iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex, sotto la qual forma si
manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi della
elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione
collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto compiuto,
cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa
compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di
quegli atti, che, per propria natura, interessano l'intiera comunanza, quali
sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato, e
l'amministra zione della giustizia; dai quali poi discendono le tre
manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel
periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il
suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del
potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum,
alla rogatio, ed al senatus consultum, il quale, se colpito dall'intercessio,
non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum,
perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo
viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op. cit., (1) Ho già insistito
su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della
primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del
diritto romanu col titolo: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato
di Roma, Torino, 1886, pag. 13. pag. 317. 278 del potere sovrano nella città
antica, che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere
giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti, che vuolsi cercare
in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma,
dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico, che
dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2. Il concetto romano di lex
nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum. 228. Nel
considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum
creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si
presenta questo vocabolo. Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più
individui in una stessa volontà, e viene così, fin dagli esordii, a
distinguersi in lex privata, che significa una convenzione od una norma, che
altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex
mancipii, lex testamenti), ed in les publica, che significa la volontà
collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui.
Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di
convenzione o di contratto, quello di lex publica continua ancora ad avere una
estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi
delibera zione solenne del popolo. Parlasi infatti di una lex belli indicendi,
foederis ineundi, coloniae deducendae, agri adsignandi e simili; e fino a un
certo punto la nomina stessa del magistrato, o almeno il conferimento
dell'imperium, spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge.
Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale
iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue
così da qualsiasi de liberazione, relativa ad una persona o ad un fatto
particolare (1). Ciò (1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la
lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato
dell'accordo di tutti gli organi dello Stato, viene ad essere una communis
reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata; donde la conseguenza,
che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece
è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è
quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della
stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la
legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum. È in questa guisa, che vuol
dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione: ma
intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di
più volontà in un medesimo intento. Tale significazione sembra pure essere
indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo, la
quale perciò non indica tanto la forma scritta, assunta dalla legge, come
vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo
intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex, secondo il primitivo concetto
romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo
dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni
comiziali, e la reverenza e il culto, di cui la legge viene ad essere l'oggetto
in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo. Di qui
alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza, che la forza obbligatoria della
legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto
piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con
ciò si vuol dire, che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver
assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta
zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente
ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è
dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso, e
impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas.
Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più
tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro, lasciando
perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per
i contraenti ». (1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere, suole
appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66: leges, quae lectae et
ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non
sempre felice nelle sue etimologie, non ha punto l'intenzione di proporne una.
Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym. latin, vº
lego, che il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di
raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare
questa etimologia al vocabolo di lex. Così si potrà anche compren dere la lex
privata, la quale certo non pud essere derivata da ciò, che i contratti fossero
scritti; ma da cid, che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et
BAILLY, Dict. étym., vº lex. Un passo, in cui il vocabolo « legere » prende
questa an tica e larga significazione, è il seguente di Virgilio: Iura,
magistratusque legunt, sanctumque senatum. (Aen., I, v. 431). - 280 vece, che
la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se
questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può
ritenersi vero per la lex romana (1). Questa non potrà essere votata senza che
prima si assumano gli auspicii; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente
patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come
lo dimostra il fatto, che assume la forma di una vera e propria stipulazione
fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con
stituit); come pure il concorso nella formazione di essa di tutti gli organi
della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della
città, deve essere considerata come una « communis rei publicae sponsio ». Essa
sarà ancora riguardata come una volontà divina; ma il popolo già si attribuisce
facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa
relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale
della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici: « lex est,
quod populus, senatorio magistratu rogante, iubet atque con stituit », può già
essere applicata alla legge, durante il periodo regio; salvo che in questa
definizione più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città
patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo
dalla legge Ortensia. Vero è, che più tardi il patriziato cercò di dare
sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò
accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni
importanza politica; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano
pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu
naturale che si cercasse di accrescerne la importanza. 230. Intanto questo
carattere, eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine
federale della città, ed anche la necessità, secondo il concetto primitivo
delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli
organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del
diritto primitivo (1) V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité
antique, liv. III, chap. XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud,
Leplébiscite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 91 e segg. Quest'ultimo nega
il carattere contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non
potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno consentito; ma egli è evidente, che
l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al
maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò
a far parte della comunanza politica. Allora infatti venne ad essere necessità,
che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che
questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus
maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre
l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio
che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione
della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres;
donde la conseguenza, che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta
dal magistrato, votata dal popolo, e poscia ancora approvata non solo dal
senato, ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la
distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas,
ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa,
perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del
patriziato; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono
facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca, in cui erano già scomparse
e l'una e l'altra (1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio
diventò assai più difficile, allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag
giungersi eziandio il plebiscitum, che costituiva in certo modo una lex
inauspicata. Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo, perchè è
l'opera soltanto di una parte di esso; e quindi, al pari dei concilia plebis,
in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di
diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di
essi cerca talora di forzare la mano al senato. In questa condizione di cose
viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare
nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa,
allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus,
quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi
scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo. È in questa
occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre
leggi ad epoca diversa, il cui contenuto, conservatoci dagli scrittori, sembra
essere identico (ut plebiscita (1) V. sopra capitolo II, § 3, n ° 198, pag. 240
e segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent); ma che intanto
sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione.
La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che
anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che
presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio, essere supe rata,
quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma,
secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi
politici dello Stato. 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia, dell'anno
304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino
tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 );
ma ancorchè la legge nol dica, questo è certo che, secondo il concetto
informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere,
allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite
tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse (1) Così si esprime il Soltau,
die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin, 1888, pag. 107. La bibliografia sulla
questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris,
1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo
una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi
dere tale opinione, poichè vi fu un tempo, in cui la differenza fra plebiscito
e legge si ridusse unicamente alla persona diversa, che ne prendeva
l'iniziativa, secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato. Vero è
che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i
patrizii;ma il motivo, per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti
non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii
tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste
nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent »,Gaio,
Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i
plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii
poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia
le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti,
e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex
tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il Mommsen, è da questa
legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati, e quindi egli riterrebbe,
che nei termini conservatici da Livio, III, 55, come proprii della legge
Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi
adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem
populum teneret (Römische Forschungen, I, pag. 164-5 ). Non parmi, che questa
opinione possa essere accolta, sia perchè tutti i giuristi fanno partire il
pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge
Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di
plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma
piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome
alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum:
tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale. 283 - leggicenturiate.
Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe
potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento, che potesse obbligare
tutto il popolo; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi
essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo
dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere
l'ap provazione del senato a plebisciti, come quelli di Canuleio, di Icilio e
altri ancora. Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a
cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione
di un provvedimento da essa desiderato. Suc cede quindi una seconda legge, che
è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che
la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate, ripete in un altro
l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però
evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa, perchè in
virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più
essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende
probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo
periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della
plebe, sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i
tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per
ottenere, che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233.
Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso
Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il
WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe
equipollente a quella di senatus auctoritas. Tale opinione è divisa dal Bour
GEAUD, op. cit., pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit
der Ple. biscite, pag. 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua
dissertazione: Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di
Filologia », Torino, 1884, pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi
di scrittori antichi, citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di
patricii auctores, mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas,
fra cui è notabile il passo di Livio, III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS
non possa essere accolta. Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse
dall'identico interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il
senato a fare opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe,
possano talvolta aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di
patrum aucto ritas. V. in proposito ciò, che si è detto nel capitolo precedente
83, n ° 198, pag. 240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre
riuscire nell'intento, finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu
quindi, in seguito ad una di queste secessioni, che sulla proposta del
dittatore Ortensio, uscito dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una
legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete pur sempre la stessa formola;
ma intanto toglie di mezzo la necessità della previa approvazione dei padri e
produce, se condo Pomponio, l'effetto, che « inter plebiscita et legem species
con stituendi interessent, potestas autem eadem esset (1) ». Fu neces saria una
secessione e ci volle un dittatore per vincere questa legge; ma ve ne era ben
donde, poichè, a mio avviso, non vi ha forse nella storia della costituzione
primitiva di Roma una rivoluzione più ra dicale di questa. Con essa infatti
l'antico concetto di lex, quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad
essere sovvertito; in quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione
non coope rino tutti gli organi politici dello Stato; poichè d'allora in poi
anche un solo elemento, la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per
tutto il popolo. Strappo più grave non poteva essere arrecato alla costituzione
patrizia: ma tentasi ancora di rimarginarlo nel senso, che fu da questo tempo
probabilmente, che la nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie, e che
il patriziato antico si valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire
anche ai comizii tri buti, i quali poterono anche esser presieduti da
magistrati patrizii, e furono anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo
i concilii un tempo della plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e
solo cambiò il criterio, che doveva essere di base alla riunione, in quanto che
i comisii centuriati si adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base
alle tribù. Da questo momento il senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra
la lex e il plebiscitum parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve
aver tolta dimezzo la patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di
scrittori e giureconsulti, che erano meglio in caso di apprezzare il valore
tecnico delle parole. Pomponio L. 2, 8, Dig. (1, 2 ), oltre l'espressione già
riportata nel testo, scrive: « pro legibus placuit et ea plebiscita observari »,
e aggiunge al $ 12: « plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est constitutum
», con che accen nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i
plebisciti. Così pure Gaio, Comm., I, 3: « lex Hortensia lata est, qua cautum
est, ut plebiscita omnem populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata
sunt; Giustin., Instit., I, 2: « sed et plebi scita, lege Hortensia lata, non
minus valere, quam leges, coeperunt ». Lo stesso confermano Aulo Gellio, Noc.
Att., X, 20 e XV, 27; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15, 10. — Cfr. ORTOLAN,
Histoire de la législation romaine, pag. 161, n. 178 et suiv. e il Madvig,
L'État romain, trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare
frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure
amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e
quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore, ed attivo
nell'organizzazione dello Stato. Che anzi i comizii tributi possono anche
essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae, o
di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd
ancora i concilia plebis: ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la
sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto
però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il
senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della
legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che
il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla
effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au
spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri
populum teneri » viene ad essere condotto a forzare la propria funzione
consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei
senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno i seguaci del partito
popolare protestano contro questa violazione della logica inerente
all'istituzione del senato, poichè questo ha influenza suffi ciente per far
valere la propria pretesa. Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti
finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse »; indicando
così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito (2 ).
Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno
impunemente: cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e
sopratutto quelli del pretore,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione,
finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum, che viene poi a conver
tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo punto lo
Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig, L'État romain, I,
260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap. III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso
in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus
der Institutionen). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione
stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex, e di aver così
iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli
organi politici dello Stato. (2 ) ULP., L. 8, Dig. (1, 3 ). 286 grande, perché
possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica costituzione
patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli elementi
costitutivi dello Stato; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno di
questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa. È per questo motivo,
che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa, durante
gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati preposti
all'ammini strazione della giustizia, si mutano in certo modo in legislatori
(ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i giureconsulti sa ranno
autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di leggi (responsa
prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano pur sempre a
procedere sulle traccie antiche; così l'edificio non solo potrà mantenersi
saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e grandioso, quanti
più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà invece quando
mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la distinzione antica
fra l'interesse pubblico e il privato, che, per salvare un edifizio, il quale
tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni cosa nelle mani di un
solo, la cui volontà, in base ad una apparente investi tura del popolo, legis
habet vigorem (1). Questo sguardo allo svolgimento storico del concetto di
legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi, deve essermi per
donato; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle origini, che poteva
comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo dimostrano le
divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento. (1) Ulp., L. 1,
Dig. (1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem; utpote quum lege
regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium
ac potestatem conferat ». Per tal modo la lex, che era un tempo il frutto
dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai l'opera di un solo; ma
intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente di ogni potere sia il
popolo; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla
populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in Roma sembra essere
compendiato da POMPONIO, allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la plebe,
il patriziato ed il senato, con chiude dicendo: « Ita in civitate nostra aut
iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod sine scripto
in sola prudentum interpretatione consistit; aut sunt legis actiones, quae
continent formam agendi; aut plebiscitum, quod sine auctoritate patrum est
constitutum; aut est magistratuum edictum, unde ius hono rarium nascitur; aut
senatus consultum, quod solum senatu constituente inducitur sine lege; aut est
principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps constituit, pro lege
servetur », L. 2, 12, Dig. (1, 2). 287 $ 3.- L'elezione del rex, l'interregnum,
e la lex curiata de imperio. 235. Per quello che si riferisce al magistrato
supremo del popolo romano, il concetto, a cui si informa la primitiva
costituzione pa trizia, consiste nel ritenere che, come è immortale il popolo,
cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia, nè l'imperium,
indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È questo concetto,
che spiega, come, morto il re, auspicia ad patres re deant; è questo parimenti,
che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati annui
succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono ancora
gli auspicia, proporre il proprio successore; è questo infine, che può
somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione
dell'interregnum, non che la procedura solenne per l'elezione del re, che,
introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e
colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che
in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite
elucubrazioni. 236. Un recente autore, il Bouchè Leclercq, ebbe a scorgere nel
l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re, « un capo lavoro di
casuistica, in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani
» (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione
architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova
del loro acume teologico e giuridico. Parmi invece assai più semplice e più
verosimile il ri tenere, che i romani, in questo, come in altri casi, non si
compiac ciano nella creazione di formalità, come tali, ma intendano piuttosto a
conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti, che accompagnano
l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re,
come alcuni vorrebbero: ma provano sol tanto, che i romani avevano altissimo il
concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa, che prima
avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano
parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886,
pag. 15. 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al
l'elezione del magistrato, per trattarsi dell'atto forse più importante per la
comunanza, dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato.
Ciò stante, anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale,
che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e
consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de
imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come
capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche
considerarsi come un indizio, che in un anteriore periodo di orga nizzazione
sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano
ritornare, allorchè il re veniva a mancare. 237. Per conchiudere, questa
istituzione dell' interregnum, ar gomento di tante discussioni, deve essere
considerata anche essa come un naturale processo, che dovette spontaneamente
formarsi in una comunanza primitiva, uscita allora dal seno dell'organizzazione
gentilizia: processo, che è perd rivestito di quel carattere religioso e
solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli,
che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere
gentilizio, formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e
memore delle tradizioni del passato, era na turale, che, mancando il capo
comune, il suo potere religioso, civile e militare dovesse passare al padre più
anziano della più antica decuria del senato, e da questa trasmettersi successivamente
ai principes delle altre decurie, che venivano dopo, in base all'an zianità,
accið non venisse ad essere offeso il senso geloso, che i capi di famiglia
avevano della propria uguaglianza, e non potesse neppur nascere il timore, che
uno di essi « regni occupandi consilium iniret ». Era naturale parimenti, che
la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più
anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza,
che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che
fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto
esclusivamente di membri delle genti patrizie. Maturata così la proposta, è
l'interrè, che deve farla; le curie, che debbono approvarla; la presa degli
auspicii, che deve inaugurarla; e infine fra l'eletto e la comunanza deve
intervenire quella specie di con venzione e di accordo, che avverasi mediante
la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce
l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo, e dall'altro vincola
quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale
di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si
trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero
adottare; cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo
casuistico e sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale
conseguenza del modo di pensare e di agire di coloro, che concorrevano alla
formazione di essa. 238. Ad ogni modo il caso, di cui ci fu serbata memoria
parti colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro
cedura solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta
ancora con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra
gli dei col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi
delle decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le
insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I
padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium, agitano il
partito se non fosse il caso di non più nominare il re: ma di lasciare, che il
potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta
la vita. Il partito non prevale fra il popolo, il quale non ama di avere cento
capi, a vece di un solo, e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina. È
l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a
crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create:
deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio,
che è descritta in modo particolare da Livio; e viene ultima la proposta della
lex curiata de imperio, la quale, non ri cordata da Livio, è invece ricordata e
ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re, quasi ad indicare l'importanza,
che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio, che questta procedura, che
egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio
farebbe già rimontare allo stesso Romolo, non è stata abbandonata più tardi: «
hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta »,
cioè esclusa la violenza, a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso,
accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re (1) (1) Livio, I, XVII;
Cic. De Rep., II, 13, 17, 18, 20; Dion., II, 57; PLUTARCO, Numa, 2. Di fronte a
queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle, Le
origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione
del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro; essa deve essere l'opera di
tutti gli organi dello Stato, ed assume un carattere pressochè contrattuale fra
magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il
concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli
auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta; quindi è l'antecessore,
che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa
farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono
aboliti. Tuttavia, anche in questa parte, l'accoglimento della plebe nel
populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva
costituzione; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime
discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso essere
spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il periodo
regio, l'interres era uno dei patres del senato, ai quali redibant auspicia.
Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi e delle
centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad essere non
più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei; del che
alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di patres et
conscripti. Comunque stia la cosa, questo è certo, che il senato, divenuto
patrizio -plebeo, non poteva più rappresentare gli antichi patres o patricii,
che erano stati i fondatori della città, e ai quali redibant auspicia. Erano le
curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere
esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di
origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano
l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano
ritornare gli auspicia. Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in
altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex,
come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum »,
« patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto, secondo certe regole
tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum
auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata
da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di
ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199,
pag. 244, in nota, consentire col Karlowa, Röm. R.G., pag. 52 e 82 e segg., il
quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto
colla costituzione di Servio Tullio. 291 interregem produnt» e simili, e ciò
perchè l'interrex, facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex
primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia, durante il periodo
della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra
i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum
interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est »
(1). Come sia accaduto questo cambiamento, se cioè per legge o per il logico
sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con
certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico, che governo tale
modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre
istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti
riconoscono la strettissima attinenza, che sono la patru patriciorum auctoritas
per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la
proposta dell'interrex, accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti,
durante la vacanza del magistrato. Tutte queste istituzioni non sono che
conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres
sunt»; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato, nè un
interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato, senza l'intervento
dell'ordine patrizio, il quale, di fronte al nuovo popolo, corrispondeva ai
patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci
afferma Cicerone che « curiata comitia, tantum auspiciorum causa, remanserunt »,
come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una
imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap
presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per
XXX lictores) (2 ). Intanto però, anche coll' introduzione dei comizii
centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad
essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha
sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat); il popolo delle classi
o centurie, che lo elegge (creat); il senato, che continua a dare la propria
auctoritas alla elezione (auctor fit); e da ultimo l'assemblea delle curie, che
lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio,
per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14. (2) CICERO, De lege agraria, II, 11, 27
e 28. 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto
atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se
non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva
costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono
i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur
essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano, non riesce
però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma.
Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma
piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza
dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta
dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi (1) Ho cercato qui di
riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva
costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando,
alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum
au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono
spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur, seguìta anche dal Becker,
Röm. Alterth., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro la patrum
auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra
alle curie fin dal periodo regio; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public
romain, pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas
la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la
proposta dell' interrex; sonvi il Rubino, e fra i recenti il Karlowa, Röm.
R.G., I, p. 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di
patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad
essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex. Vi banno infine
quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire
qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei
magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie,
e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni,
che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie,
che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e
delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora
tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità
passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è
l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum
nell'antica Romu (Rivista di Filologia, Torino, 1884, pag. 297 a 395). Se
guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella
soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico
concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che
tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio
(BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas
(WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo,
che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto
sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli
antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana. 293 cato
(1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la
plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono
ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un
magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii
delle curie, che è l'interrex; così vengono ad esservi deimagistrati,
esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe,
che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si
rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si
viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii
centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii
tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori; di
quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato
maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si
confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del
l'opposizione, che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è
ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono
nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati
di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano
pro-magistrati nelle pro vincie. Per noi la cosa può sembrare singolare: ma pei
romani era un processo regolare e costante, in quanto che essi, al modo stesso
che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella
città, così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie,
prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati
dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX, 41, il quale dice, che i tribuni
furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere
come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del
patriziato; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei
suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le
curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è
con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr.
Bonghi, Storia di Roma, pag. 593 e segg. Non parmi tuttavia, che si possa far
rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa, poichè i tribuni della
plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa
è una prova, che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri
comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi;
mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i
concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma
(1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio. § 4.
– L'amministrazione della giustizia, la distinzione fra ius e iudicium, e la
provocatio ad populum nel periodo regio. 241. Per quello che si attiene
all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione
fondamentale, intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella
che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale,
apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il
senato ed il popolo. Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo
si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e
la criminale, sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti,
come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio, e
delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores
parricidii e duumviri perduellionis ) (2). Senza pretendere di volere risolvere
le gravissime questioni, che si agitano in proposito, mi limito unicamente ad
osservare, che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene
il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo
svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni
primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio, sono: la
potestà di giudicare, che appartiene al re; la distin zione fra il ius e il
iudicium, per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i
iudices, gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i
quaestores in materia crimi nale; e da ultimo l'istituto della provocatio, che
col tempo sarà quello, che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal
magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi,
che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere
giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius
dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si
parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma,
diventavano proconsoli o propretori nelle provincie. Cfr. in proposito MOMMSEN,
Le droit public romain, I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor. introd.,
Sect. 15, pag. 59. 295 - sintetica del regis imperium, sebbene non esista
ancora la sepa razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium, è cosa a parer
mio chenon può essere posta in dubbio. Non può quindi essere accolta l'opinione
del Maynz, che quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione
criminale al popolo (1 ). Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un
concetto, che sembra essere general mente adottato, secondo cui si vorrebbe in
certo modo riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia
e di qualsiasi misfatto. Questo concetto ripugna col processo seguito nella
forma zione della città, e dell'imperium regis. Almodo stesso, che la ci vitas
non assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie, ma è dovuta ad una
specie di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche
e militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali;
così anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate
sottrazioni, che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano
ai capi di famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza, che negli esordii
dovette per lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu
risdizione propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo
ancora i capi di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e
continuarono ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta
nelle famiglie; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene
narrato da Livio. Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del
magistrato fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e
po litica, che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla.
Questo concetto consiste in cid, che il re primitivo non si impone ai membri
delle genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi, in quanto sono
quiriti, cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica.
Quindi il re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il
vindice delle offese tutte, che possono patire i membri di esse; ma è il custos
urbis, ed è incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges
publicae, che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e
politica, a cui addivennero le varie comunanze. Nel resto continuano ad essere
competenti i singoli padri e capi di famiglia, V. Maynz, Introd. au cours de droit
romain, n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione
criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti
gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali,
secondo il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del
sodalizio, come lo dimostra, fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui
sacerdozii, che da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura
che nella cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni
private, che la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e
si potrà esten dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti
domestiche e da persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia, potranno
tuttavia produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale
della giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una
prova eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione
della giustizia, così civile come penale, fra il ius ed il iudicium. Sono note
le discussioni, che seguirono in proposito, e non mancarono anche coloro, che
attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei
romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora, fra il diritto ed il fatto:
cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto, mentre il
giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto. Una simile distinzione non
si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur
ius;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi
formando la città, che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi
infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze
patriarcali. L'effetto, che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà
quello di produrre, fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai
capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che
appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz, op. cit., n. 20, pag. 60, e MOMMSEN,
Le droit public romain, I, pag. 187: « Magistri (scrive Festo, po magisterare),
non solum doctores artium, sed etiam pagoram, societatum, vicorum, collegiorum,
equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da vedersi
a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V, n ° 88, pag. 109
e nota relativa. (2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo
modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des
actions chez les Romains, Paris, 1845, vol. I, § 29. Cfr. Carle, De
exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione tratta il
BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5. 297
custode della città. Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che
questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta
un'accusa od una controversia, consisterà nel decidere, se il fatto, del quale
si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione
domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico, che a
lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto, del quale si tratta,
siavi qualche lex pu blica, che debba essere applicata. Se quindi, ad esempio,
l'Ora zio avrà uccisa la sorella, e sarà trascinato innanzi al re in ius, la
questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in
questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che
la sua figlia è stata iure caesam, o se trattisi invece di tal fatto, alla cui
repressione provveda una lex publica. Ed è questa appunto la questione, che
risolve Tullo Ostilio, il quale, secondo Livio: « concilio populi advocato:
duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació » (1).
Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di
carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere,
se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica, e se perciò si dovrà
accordare diritto di agire secondo la legge. Solo allora il magistrato gli dirà
di agire secundum legem publicam: oppure più tardi, allorchè vi sarà una
speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia, questa pubblicherà
nel proprio editto quali siano i casi particolari, in cui actionem dabit. Non è
perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto, che, secondo il
diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione; ma
soltanto si deve dire, che il diritto in Roma si venne lentamente e
gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere
la questione, se in quel caso determinato dovesse, o non, essere accordata
l'azione. Spettava quindi al magistrato (in iure) di decidere in ogni caso
particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle
leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere: ma, una volta decisa
affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I,
26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio, si ricava, che la
questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era
una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si
trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317.
298 il proprio ufficio, e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores
parricidii, o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale, od
anche ad un iudex e perfino ai recuperatores, se trattavasi di una controversia
civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al
magistrato. Questo è certo, che già nel periodo regio vi furono queste varie
maniere di giudici; ed è anzi probabile, che già esistessero i iudices selecti,
il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori;
come lo dimostra la testimonianza di Dionisio, ed anche il fatto, che fu così
anche dopo, e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio,
che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti,
che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da
un consilium; come ap pare dal fatto, che, secondo Livio, a Tarquinio il
Superbo fu mossa l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per
se ipsum exercebat ». Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto
dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo
del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza
patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento
dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile, sembra che
il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana, alla quale
puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei
centumuiri, come si vedrà a suo tempo. 244. Intanto è sempre dal modo, in cui
la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita
pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che
dovette essere seguita negli esordiidella città, così nei giudizii civili come
nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza, che deve essere
amministrata giustizia, come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa
contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al
tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa
(2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49.
Abbiamo poi Dionisio, II, 14, che dice parlando del re: « de gravioribus delictis
ipse cognosceret; leviora senatoribus committeret; donde si può inferire, che
anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca pitali, ricavarsi
dal senato. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., pag. 54. (2 ) Liv., I, 49. 299 procedura
dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una assoluta parità di
condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi tare, cosi nei
giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di certame, che un
tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un misfatto, sarà
il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso le prove, sovra
cui si appoggia la propria accusa, e se si tratterà invece diazione civile,
sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od anche quella della
iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già si era formata
nella stessa tribù patriarcale: mentre un tempo essa era il modo di pro cedere
del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della tribù, venne poi
ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità, che ricordano
l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal quirite contro '
il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio, fu l'effetto
necessario di quella separazione del ius dal iudicium, che, come si è
dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una giurisdizione
pubblica, accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e patriarcale, in
quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione se in quel caso
dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem publicam,
conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un arbiter
per la risoluzione della controversia; donde l'antica de nominazione della
iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in ciò,
che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di
procedura, senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state
introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di
famiglia, pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una
medesima città, hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate
legis actiones, in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge
pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci
resta a discorrere di una istituzione, che era (1) Quanto all'origine
gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib.
I, n. 104. (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una
delle più antiche legis actiones, Comm. IV, § 12, sebbene poi il manoscritto di
Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla
medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag. 197, e il BuonamiCI, Storia
della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a
ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è
indicata colla denominazione di provocatio ad populum. Si dubita dagli
scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed
alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del
popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli
affidare. Per parte nostra, di fronte alla testimonianza di Cicerone, che,
augure egli stesso, ebbe a dire, che della provocatio ad populum parlavano i
libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi (1 ).
Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas,
durante il periodo regio, ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso
dell'Orazio parla di una provocatio ad populum, accordata da Tullo « clemente
legis interprete », parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto
di provocatio ad populum, che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto
valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero
esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se
l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini
dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore. Si aggiunge, come appare dalle cose
premesse, che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale
negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di
loro e consapevoli del proprio diritto, che non posteriormente, allorchè il
populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè
del patriziato, che era il populus primitivo, e della plebe; di una classe
dirigente e di una classe, che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una
tale costituzione primitiva, secondo cui la populi potestas era la sorgente di
tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium, veniva ad essere naturale
e logico, che se il ius dicere apparteneva al re, il con dannato dovesse poter
ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la
provocatio. Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex
horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio « duumviri
perduellionem iudicent: si a duumviris provocarit, provocatione certato ». Era
poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio,
venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento (1) Cic.,
De Rep., II, 35: « Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii
libri, significant nostri etiam augurales », 301 legale, che viene appunto ad
essere descritto da Livio, a proposito del giudizio dell'Orazio, in quanto che
ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri,
che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti
all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e
l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo aveva
dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus,
trattandosi di reato di carattere politico, quale era la perduellio, poteva
anche passare sopra alla questione puramente giuridica, per giudicare invece ex
animi sententia, e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio,
«admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente
nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de
provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto, il quale
fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano
(unicum praesidium libertatis); ma allora le circostanze erano cambiate, perchè
il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs, e
quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse
solo consuetudinaria, a tutto il nuovo populus quiritium, comprendendo in esso
anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa
istituzione della provocatio ad populum, solennemente consacrata, doveva
esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale, in quanto che
essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare
una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in
definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo. Tuttavia anche
qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo
interrotto, allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i
patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai
concilia plebis. Fu (1) Liv., I, 26. (2) Non potrei quindi ammettere l'opinione
del KarlowA, Röm. R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le
leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum, vorrebbe
inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE
parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma
vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale,
cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium. 302 allora, che la
legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii
centuriati potessero pronunziare una condanna capitale (1 ). Ciò però non
impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il
proprio diritto di accusa, sopratutto per i delitti di carattere politico, e
per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la
conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi
il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali, e dd i
comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene
pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per
legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones
perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di
delitti (2 ). Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la
coerenza della primitiva costituzione patrizia; ma di aver provato eziandio,
come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare, sovra cui si
foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa
fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva, che la
costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum, nec
una hominis vita, sed aliquot saeculis et aetatibus », era tuttavia riuscita
superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata
dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con
logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore
all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità: nam, dice lo stesso
Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse
dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset; neque cuncta in
genia, conlata in unum, tantum posse uno tempore providere, ut omnia
complecterentur, sine rerum usu ac vetustate (3). Veniamo ora alle leges
regiae. (1) Cic., De leg. 3, 4: « De capite civis nisi per maximum comitiatum
ne fe runto », disposizione questa, attribuita alla legislazionedecemvirale, la
quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e
contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia
plebis. (2 ) Cfr. Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, de
adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris, 1886, pag. 71 et suiv. (3
) Cic., De Rep., II, 1. La legislazione regia durante il periodo esclusivamente
patrizio. $ 1. - Del contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva
legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città patrizia
concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa, era naturale, che,
anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd
esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente, che col
partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro
una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che
anzi, a questo proposito, un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione
del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie
stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma,
cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del
diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei
seguenti termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla
figliuolanza; la manus ed il potere del marito sulla moglie; il concetto per
cui « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio,
IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga,
di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma,
che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant,
quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di
porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche
di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la
forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent »
(Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che
non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto
ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua
esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del
credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se
occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal
concetto, che la forza generi il diritto, sarebbe dovuto all'influenza
latina: « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio, il
riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure
religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni
che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica
giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire
l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e
dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda
il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del
l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non
privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero
evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a
ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si
sarebbe sentita che ad una data più recente;ma dovrebbe probabilmente essere
attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os
servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti
transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma
dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto
riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole
solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1).
Non può certamma dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima
quello stretto riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e
delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e
privata » (1). Non può certamente negarsi, che la ricostruzione dell'in signe
giureconsulto appare come una verosimile congettura, quale del resto è
annunciata dallo stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la
stretta attinenza, che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato
nello svolgimento delle primitive istitu zioni: e ciò lo condusse a questa
ripartizione di parti, che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la
tradizione attribuisce ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia, con
tutta la reverenza all'opinione di un insigne, crederei che questa
ricostruzione del diritto primitivo di Roma non possa essere accettata, neppure
come ipotesi e congettura, perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e
il suo diritto si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero.
248. Non credo anzitutto, che la costituzione, anche politica di Roma, possa
considerarsi in certo modo come una composizione di elementi diversi recati da
questa o da quella stirpe. In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura
della città primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre
città latine, Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per
partecipare ad una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli
elementi, che sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina, la
quale fu anzi concepita sopra un'unità cosi organica e coerente, che non può
essere riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2
). Re, senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi
elementi si aggiungono, il re potrà sce (1) MUIRHEAD, Historical introduction
to the private law of Rome, Edinburgh. 1886, pag. 4. (2 ) In questa parte
divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro «
che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella
sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in
uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino
pelasgiche ». A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo
fondarono e diedero il proprio nome alle città, ma che posero eziandio quelle
linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono
assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4, pag. 54. Questa
opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham, Encyclopedia
Britannica, XX, vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di
una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei
cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi
sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re
sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del
collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già
attribuite allo stesso Romolo; nè tutto ciò, che si riferisce
all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che
già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem
(1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie
a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre
ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli
parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2).
Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei
contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca,
poichè, se stiamo alla tradizione, questo cerimoniale esteriore rimonta alla
fondazione stessa della città, e quindi sarebbe anteriore all'epoca, in cui,
secondo il Muirhead, si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si
aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un
privilegio di questa o di quella stirpe; ma sono comuni a tutti i popoli, che
attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo
strato, una causa naturale in ciò, che in questa condizione di cose, gli atti
ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di
gruppo, acquistano una solennità, che ora direbbesi internazionale, la quale si
conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica. Infine
non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al
concetto, che il diritto scaturisce dalla forza, debba considerarsi come di
provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto
dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus
quiritium (1) Dion. II, 25 (BRUNS, Fontes, pag. 6 ). (2) Che questo sia un
carattere comune a tutti i popoli, che trovansi nell'orga nizzazione
patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe,
nelle varie opere sue, e di recente dal Leist, Graeco-italische Rechtsge
schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lib. I e II, seguendo le
migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato
nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente) nelle
sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono;
come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es.,
la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali
appariscono non meno amiche della forza, e fino anche della prepotenza, di
quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti,
che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e
più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle
singole affermazioni del Muirhead, che io qui intendo di fare; ma piuttosto
dalle cose pre messe intendo inferire, che, trattandosi di genti, che probabilmente
erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel medesimo stadio di
organizzazione sociale, le istituzioni fondamentali del di ritto privato, salvo
le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere essenzialmente comuni
alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui prevaleva il carattere
religioso; tutte compievano i loro atti con solennità e cerimonie esteriori,
che richiamavano un precedente periodo di organizzazione sociale; e tutte
possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia, e gli istituti della
gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare con certezza,
dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto primitivo, quale ebbe
a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo, chepotrebbe chiamarsi della
comunanza del villaggio. La stirpe tuttavia, che diede il primo modello, in cui
furono poi fuse le istituzioni analoghe, che erano già possedute dalle varie
genti, fu anche, quanto al diritto privato, la stirpe latina, la quale appare
come fondatrice della città; il che punto non tolse, che, stante il comporsi
dei varii elementi, si allargasse poi il concetto della divinità, patrona
comune della città, e si ammettessero man mano anche istituzioniproprie di
altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece anche più tardi, sul
l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover affermare, che quella
potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma, appena compare, deve
sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui Roma ebbe la sua prima
origine. Per verità, anche prima della fondazione di Roma, le popolazioni
latine erano quelle, che avevano già mag giormente svolto il concetto di
federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive, e perfino
anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri elementi nel
proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle istituzioni
degli altri popoli. Ciò è tanto vero, che nella storia primitiva di Roma l'ele
mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato, e più tardi, quando
diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso; l'elemento
sabino fu quello, che, essendo ancora più tena cemente vincolato
nell'organizzazione gentilizia, si dimostrò il più esclusivo e il meno
favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo
essere stato il primo a modellare la città, entrò anche dopo in copia maggiore
a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe
operosa e battagliera, che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova
di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co
munanze italiche, combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi
Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro
civiltà; mentre quanto ad Alba, la considerò come sua madre patria, e anzichè
estinguerla e soffocarla, dopo averla vinta, pre feri di accoglierne il
patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima, continuando quel
processo nell'organizzazione sociale, che da essa erasi iniziato. Fra Roma da
una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra, vi fu pressochè una guerra di
sterminio, sopratutto fra le due prime, mentre fra Roma e il Lazio vi fu
soltanto una lotta di precedenza; perchè due città foggiate sullo stesso
modello, come Roma ed Alba, non potevano coesistere l'una in prossimità
dell'altra (1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione,
da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli
eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ. e costituz. di Roma, I, nei
primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume,
avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione
patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i
Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori
gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente
use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma
primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già
eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la
dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che
contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del
popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota
letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi,
nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca. Anche
questi nuovi studii mi confermano nella conclusione: che l'organizzazione
gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca
della formazione di Roma, la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa
divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere
la sua teoria, devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che
sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di
Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso, egli sia fra gli autori re centi
uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla
formazione del diritto Romano, dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma
continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti
alle stirpi latina, sabina ed etrusca, ed è ancora questo il concetto, che egli
pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era
naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna
dovesse recare il proprio contributo, anche alla formazione di un comune
diritto, e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte, che
a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero, che alcune volte egli
si trova imbarazzato del fatto, che il diritto quiritario primitivo si presenta
del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche
primitiva, e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già
certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur
sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta,
come ho cercato di dimostrare, che Roma è una città formata sul modello della
città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo, costituisce
dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio,
in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le
avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le
genti Claudia e Fabia: che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al
concetto della città federale; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta
alla città, che potrebbe chiamarsi corpora tiva. Roma partì dal tipo latino e
quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione: poi sotto
l'influenza etrusca diventò anche una città unificata; ma serbò tuttavia anche
in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un
centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. Tale difficoltà occorre al
MUIRHEAD, per esempio, allorchè a pag. 50 parla del. l'opinione di coloro, che
sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili,
ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi
di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti
invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra
duata, così della città, come del suo diritto civile e criminale, non che della
giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. sarà facile il comprendere come,
nella formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso
lemosse da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi
colla comunanza civile e politica, sia poi venuta lentamente assimilando tutte
le istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso
le altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi.
tiva, che essa aveva data al suo diritto. Questo è stato certo il me todo, che
Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato; nè,
conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo
averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa. § 2.
Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo
regio.Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo
diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa
diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad
accostarsi invece a quella, che, ci verrebbe ad essere indicata dalla
tradizione. Mentre la critica infatti, dopo aver resi leggendari i re, nega
pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di
regia, e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o a
semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione
invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un
periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare
a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la
città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di
vita pubblica fra comunanze, in cui continuavasi la vita domestica e
patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una
specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi
rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica
sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale: quindi se questa
poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già
prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma
dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento, ed è questo appunto,
che dovette compiersi durante il periodo regio. Ne ripugna il credere, che ciò
siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato, come le
genti, che fondavano la città, erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma
avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano
prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del
di ritto: ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un
diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in
parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che,
leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella
convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella
selezione ed unificazione legislativa, che era il più urgente bisogno per una
città, che risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città
in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad
iniziare il processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare
alla stessa vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella,
destinata ad un grande avvenire. Era mediante la città, che l'uomo o meglio il
capo di famiglia cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria
famiglia o gente, e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico
energico e potente abbia potuto penetrare re, senato, sacerdoti e popolo.
Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le
grandi famiglie plebee, allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come
eguali nella città, do vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle
genti patrizie, allorchè sentirono di costituire un populus, malgrado la loro
ori gine diversa: e quindi non è punto probabile, che essi abbiano dovuto
mantenersi del tutto estranei alla elaborazione di quel diritto, che doveva
governarli, e che tutto lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo.
Se essi eleggevano il re e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si
comprende veramente come essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera
legislativa, che era una con seguenza inevitabile della formazione della città
(1). (1) L'opinione, qui combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN, Die Quellen des
röm misches Rechts, Leipzig, 1823, pag. 234 e segg., in un'epoca, in cui tutta
la storia primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova
ancora oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op.
cit., pag. 309; il KARLOWA, Röm. R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist.
Introd., pag. 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste
sopratutto nella nota espressione di Livio: « vocata ad concilium multitudine,
quae coalescere in populi unius corpus, nulla re, praeterquam legibus, poterat,
iura dedit ». Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una
piccola comunanza, formata da persone, che poco prima ancora vivevano
patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra
elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande
avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re,
padri, pontefici, auguri e popolo fossero continui, e che perciò potesse anche
formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò, che potesse esservi di
comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era
la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e
Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia, siano state veramente
quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte, e che in
tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera
mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe,
e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non
dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della costituzione
primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto,
che quegli uomini avevano per l'età, e la loro disciplina domestica spiegano la
solennità, con cui essi votavano nei comizii, e il loro limitarsi a rispondere,
appro vando o negando; non possono però escludere, che quelle discussioni, che
erano inopportune al momento della votazione, potessero anche essere
indispensabili e frequenti in seno ad un popolo, che senti con tanta energia la
vita pubblica, e l'influenza della medesima. Il popolo romano, fin dalle
proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero
una regola conventuale: ma fu un popolo, i cui membri appresero ben presto a
dire la verità nella vita pub blica, quantunque i suoi membri continuassero ad
essere ligii ed ossequenti all'autorità del padre nella vita domestica. dedit,
adoperato invece di iura tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di
iura dare et accipere sono talvolta sinonime di quelle di iura ferre, come lo
dimostra fra gli altri Aulo GELLIO, XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita «
quae, tribunis plebis ferentibus, accepta sunt». Si aggiunge che Livio in
quello stesso passo insiste sulla necessità di vere leggi per incorporare
elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani
significò sempre un provvedimento proposto dal magistrato e accettato dal popolo.
Ad ogni modo questa proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla
confederazione coi Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di
una tribu militare, si comprende che egli potesse iura dare; mentre si
dovettero richiedere vere leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a
partecipare alla medesima città. La loro caratteristica prevalente non è nè la
religiosità, né l'indole guerriera, ma piuttosto quell'equilibrio e
contemperamento di facoltà umane, in cui consiste il senso giuridico e politico.
La qualità, che prepondera in essi fra le facoltà affettive, è la volontà
pertinace, costante, e fra le facoltà intellettuali è una logica, che analizza
con un acume senza pari i varii elementi dell'atto umano, e che quando ha
afferrato un concetto non lo abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da
esso può ricavarsi; due qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica, che si
corrispondono perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia
giuridica e politica di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo
processo, che inizia tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa
formazione del diritto pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza, che
tanto nella politica, quanto nel diritto,Romanon procedette maiper semplice
agglomerazione ed incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte
le genti, ma accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del
proprio edificio. Roma nella storia dell'umanità rap presenta, per cosi
esprimersi, un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori
del periodo gentilizio, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli
altri popoli conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della
vita sociale l'elemento giuridico e politico, e questa selezione e questo
isolamento essa cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi
che per comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella,
che suole essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che
possa negarsi ai Romani un sentimento profondamente religioso; ma essi non si
trovano punto sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità,
che soffoca l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale
invocata e resa benevola con determinati riti, doveva condurre il popolo romano
ad insperata grandezza. Si aggiunge, che questa carattere religioso, finchè
Roma fu esclusivamente patrizia, era co mune a tutti i membri del populus, i
quali tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era
quindi possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente
sacerdotale, che con ducesse al risultato, a cui si giunse in Oriente, di fare
preponderare per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento
politico e il giuridico. Quanto alla differenza, sotto il punto di vista
religioso, fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di
tener distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma
esclusivamente patrizia, in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui
membri, uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le
cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in
cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza. In questo secondo periodo
infatti il populus viene a comprendere due classi: l'una, poco numerosa, ricca
di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche; e
l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza, ma che è nuova alla vita civile,
priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato
il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che
la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un mezzo
di superiorità per il patriziato, il quale se ne vale per tenere in rispetto e
in riverenza le masse. È solo allora che il diritto, le cui origini erano già
celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute
inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli
archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e
della elaborazione di esso; mentre quest'arcano e questa segretezza non
poterono certo esi stere negli esordii della città, allorchè la conoscenza del
diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1). Cid
mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione
del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella, che suole generalmente essergli
assegnata; ma per riuscire in qualche modo a determinarla, importa ricercare
anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali in Roma
primitiva, quanto alla formazione del diritto. l'India e quelle trasportatesi
nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera: « La vita del diritto
nei suoi rapporti colla vita sociale », pag. 92, n ° 33, e agli autori, che ivi
sono citati. (1) Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche
di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU,
Dissertation sur la politique des Romains dans la religion. 314 $ 3. – I
collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla formazione del diritto
primitivo. La caratteristica di Roma è
una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi
aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città
fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata, cosi anche la
re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei
culti e delle credenze proprie delle varie genti; ma fu an ch'essa il risultato
di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel
proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico, il
quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto
pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia
). Ciò è dimostrato dal fatto, che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai
Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e
Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore,
l'altro il fondatore stesso della città, e l'ultimo infine sembra talvolta con
fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca. Intanto
una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio. Questo
concentrasi dapprima nello stesso re, il quale è augure sommo e pontefice
massimo; ma poscia il re stesso, pur conservando gli auspicia del magistrato
supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali, i quali hanno un
carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito
esclusivamente religioso,ma anche una vera importanza civile e politica. Cotali
sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un
carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio, compiono ad
un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di
essere i custodi e gli interpreti delle tra (1) La triade di Giove, Marte e
Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti
i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv.,
I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò
sopratutto sotto l'influenza etrusca, ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto
che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e
Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315
dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di
quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata
come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni, che in Grecia
furono lasciate ai poeti, i quali in antico avevano ancor essi un carattere
sacerdotale, in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali, i cui membri
sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii
religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur
sempre a prendere parte alla vita civile e politica, e sono i custodi fedeli
del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie
tribù primitive, a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto
l'aspetto politico e militare, così sembrano pure avere na propria
rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di
tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il
numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un
posto facevasi vacante, il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio,
mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio. Cosi
es sendo composti i collegii sacerdotali, essi erano in condizione di
contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano
concorse alla formazione della città; e potevano col re, che era il loro capo,
contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo.
Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di
questa o di quella tribù, ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo
dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium, di
fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di
sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle
tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere,
che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si
effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti,
sotto cui il diritto può essere considerato (1). (1) Non ho creduto qui di
dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè
questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per
la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che
erano di provenienza straniera. Esso quindi non esercitò alcuna diretta
influenza sul diritto specialmente privato; sebbene sia una prova evidente del
con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose
degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op.
cit.,pag. 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, pag. 323-24. 316
257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano
costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe
stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale.
Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le
deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono
cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii
privati: come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di
consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e
delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati (1). È
indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales, in cui serbavano le proprie
tradizioni e la propria giurisprudenza, e senza voler penetrare nei concetti, a
cui poteva ispirarsi l'arte loro, egli è certo, che essa fu una crea zione
originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica, che dimostra lo
spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al
collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli
auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che
potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni
dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del
templum, ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse
spaziare la vista, per modo che gli auspizii potessero essere osservati;
delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla
scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere
edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati
dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni
augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia, il
quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser
citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico
interesse (3).Era poinaturale, che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 )
Ciò è attestato da Cicer., De div., I, 16, 28. — Cfr. MOMMSEN, Le droit public
romain, I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta
in senso così largo, da com. prendere non solo l'avium inspectio (donde
l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde
l'aruspicium. Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine
latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito
il PANTALEONI, Storia civ. e cost., appendice III, relativa ai Luceres. (3 )
Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag. 119. 317 sivamente patrizia, erano i custodi di
riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente,
allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande
autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un
potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta
inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie. La
loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale
scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum
auctoritate coniunctum », e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i
comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi
tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere
presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di
fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli
auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono
il loro avviso sulla osservanza del rito, con cui siansi tenuti i co mizi,
solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso.
259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del
ius foeciale; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il
fatto, che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio, ed era
comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione
del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio, ed ora ad Anco
Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché
Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui
istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti
della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti
pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi
riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo
sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando
Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato. Quello dei due popoli,
che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di
naturale formazione, durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis,
che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII,
pag. 139 a 166. 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano
il porco, che sacrificavano; anzi con tanta più forza, quanto era la forza di
lui » (1). Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice
della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace; l'una e
l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo; mentre i feziali
sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative
al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere
civile e politico, e potranno talora essere chiamati a decidere delle
questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca, nè almerito
delle cause di guerra, ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura
(2). I feziali sono in numero di venti; riempiono i posti vacanti, mediante la
cooptatio; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus
nel proprio seno; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus
fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così
l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in
ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio; indica lo stadio più
pro gredito, a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù;
dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole
componimento, prima di addivenire alla guerra; ed è una prova di più, che i
fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della
parola, ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le
quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a
che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza
civile e politica (3 ). 260. È poi probabile, e l'ho dimostrato a suo tempo,
che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città, il (1)
Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79. (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal
FusiNATO, Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei
venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può
forse essere un indizio, che il diritto feziale, comune ancora ai Latini e ai
Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non
apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina, già
si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente
patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli,
che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è
un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra
l'amicitia, l'hospitium,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè
sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate
specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla
politica dei Tarquinii, che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze
vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo,
che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica
seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non
si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le
popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla
tradizione attribuita a Romolo, e in ciò presenta un carattere del tutto
opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene.
Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum, la concessione
della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium, singolare
istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra, e partecipando
alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran
dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè
trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche
gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare
dall'istituzione, graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai
municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione
di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una
cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ).
Intanto però anche qui è (1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib. I,
Cap. VII, nº 118. (2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di
Tarquinio il Superbo: « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat, ui
peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset; neque hospitia modo cum
primoribus eorum, sed adfinitates quoque iungebat ». (3) Inteso in questa
guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema
stesso, che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di
interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa
dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più
vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra, Lib. I, Cap.
VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad
un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel
repubblicano al senato, il quale, essendo un consesso permanente ed accogliendo
nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio, poteva mantenere quella
continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la
storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio, come il collegio dei
feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre
genti, non abbia avuta l'influenza effettiva, che appartenne agli auguri e ai
pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare
applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini
erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto
feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di
colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1). 261.Non vi ha poi dubbio,
che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città
patrizia è, senza alcun contrasto, quello dei pontefici. È questo collegio che
riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a
differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè
composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re, e poscia dal
pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in
quanto costituisce una famiglia religiosa. Cid appare da questo, che il
pontefice massimo, durante la repubblica, e quindi anche il re,nel periodo
anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da
esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in
cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito (2). Il collegio dei
pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione
religiosa, ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso
costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e
poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum, compiono i
sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da
un altro (1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua
dissertazione: De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883.
(2) Cfr. Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871; Ma nuel
des Instit. romaines, pag. 510 a 533. 321 - canto invece il collegio dei
ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non
siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in
quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata, per mezzo dei
proprii cala tores. Quindi è pure col suo intervento, che compiesi la cerimonia
solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti
patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai
pontefici coll'intervento di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie
delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso
parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del
popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum, i quali, durante
il periodo della città patrizia, dovettero ottenere un ' approvazione analoga a
quella, a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola
conservataci da Aulo Gellio, relativa all'adrogatio, la quale senza dubbio
doveva essere analoga a quella del testamentum. Per verità ho già cercato di
dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto
dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano
alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la
superiorità del patriziato, e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni
costo. Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche
eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce
alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra. 262. Tuttavia
l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che
questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al
mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima
elaborazione, me diante cui il diritto, che, erasi formato fra le genti e i
loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par
tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet (1) Questa
funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che
sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio,
I, 20: « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis
subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque
adsciscendo, turbaretur ». Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al
testamentum, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I,
Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II,
nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma. 21 322 tero essere in questo
periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium, e furono
in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati
dalle varie tribù, ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad
unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse.
Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei
pontefici, presieduto appunto dal re, dovette essere un cooperatore potente di
quell'unificazione legislativa, di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette
anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo
dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima
collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale,
trattandosi della legislazione di un popolo, i cui componenti prima quasi non
conoscevano altra autorità, che quella del fas, che anche questo primitivo
diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di
tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio. Intanto però in questo
periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero
potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che
potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i
custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il
populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche
ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una
repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati
esclusivamente dalle genti di origine patrizia, le funzioni del collegio dei
pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i
sacerdoti del popolo Romano: ma intanto non escono che da una parte di questo
populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di
questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli
auspicia e ad essere la reggi trice della città. Si aggiunge, che il potere
religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re, viene poscia
attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar
sempre più al diritto un'aureola religiosa; sebbene sia vero che questa se
parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione
del ius sacrum dal ius civile. Intanto però, cosi l'uno come l'altro sono
conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum
), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la
legislazione decemvirale, durante il quale sono i pontefici, che compiono
quell'elaborazione giuridica, che sarebbe stata impossibile permagistrati
annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse. Sipud
quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al
patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici; cosa del resto, che è
concordemente attestata da Pomponio, da Valerio Massimo, da Cicerone e da
altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei
rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1).
Di qui la conseguenza, che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a
procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi; ma intanto
la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium; nè è a
credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro;
poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto, essendo una magistratura
sacerdotale, erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui
religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito
militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di
questa scienza del diritto, conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio
dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti,
molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi
stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del
diritto pontificale, sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di
diritto sacro; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei
giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza, mentre
quella, che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia
più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli
ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur (1)
Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della
Repubblica, è attestata da VALERIO Massimo, II, 5; Livio, IX, 46; Cic., pro Mu
rena, 11; De legibus, II, 8, 9; De oratore, III, 33. I passi relativi sono
raccolti dal Rivier, Introd. histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il
considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome,
come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo
Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare
come il primo giureconsulto di origine plebea, furono pontefici massimi, o
quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano
tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium, come appare ad evidenza
dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp.
anteiustin. quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo, che a
misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei
giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente
restringendosi al ius sacrum, e fu in questa guisa che alla separazione, che
già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato, venne
poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile
strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi
del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della
repubblica, venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo
ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo
aspetto doveva dipendere da un'altra classe: il qual concetto ci conduce a
combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta, circa quella
legislazione, che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae ». § 4.
Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza
noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra; tanto più se trattisi di
un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva
di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la
storia, senza pur nominarli; anche la legislazione, che era aimedesimi
attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di
tempi posteriori. Parve che un popolo, il quale era solo chiamato ad ap provare
o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva
nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente
religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e
attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come
opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN:
Die Quellen des römisches Rechts, Leipzig, 1823, trovò uno strenuo
oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è
divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il
contenuto delle leges regiae, mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità
e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2, l'opinione del Voigt, se in
qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR,
dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a
molti. Cid si capisce, trattan. dosi di persone educate a tutt'altra scuola; ma
intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della
storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi
spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria
formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non
fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una
necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone
appartenenti a genti patrizie, memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non
è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e
conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato
a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in
base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza
civile e politica. Ciò non potè accadere, come narra Pomponio, finchè Romolo fu
solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina; ma dovette
divenire indispensabile, allorchè la città, la no mina del suo re, la sua
religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione
e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi,
che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che
riguar. davano il comune interesse, di adottare la forma della legge, la quale,
elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata
dai padri del senato, approvata dalle curie, poteva veramente ritenersi come
l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio,
allorchè ci dice, che il popolo romano era cosi composto, che « nulla re, nisi
legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset ». Era solo a questa
condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani,
potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo
diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può
costituire un argomento in contrario; perchè il primitivo populus diRoma era
composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose, che
ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria famiglia. Del resto a
voler anche ammettere, che quella parte della legislazione regia, la quale ha
un carattere esclusivamente sacro, potesse, fin da quella prima epoca, essere
lasciata intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici; egli è però
certo, che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e
politico ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi
della costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere
e proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura
regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al
modo stesso, che, secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua
parte la procedura relativa alla nomina dei re: ma in man canza di prove in
contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano
alcun motivo di alterare le cose, e cono scendo il carattere del popolo,
osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non
fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e
proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a
cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa
primitiva condizione di cose, la maggior parte dei rapporti giuridici abbia
continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume,
dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra
le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento, che
doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si
chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e
politica. Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo
primitivo di quel ius quiritium, che cominciava a sceverarsi dal fas e dai
bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus
et necessitate exigente »; cosi esso non potè formarsi di un tratto, nè essere
fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma
dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine,
limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità
facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi
svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di
questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore: ma
il fatto stesso, per cui essi erano trapiantati in terreno diverso, dovette far
sì, che essi mutassero carattere. 266. Se intanto potesse essere
lecito anche solo tentare di rico struire il processo, con cui dovette formarsi
il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla
formazione progres siva della città, crederei di poter rich iamarlo alle
seguenti leggi fondamentali: (1) Liv., I, 8. - 327 l• Un primo effetto di
questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti
venivano ad essere cittadini della medesima città, dovette esser quello di far
trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei
concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e
specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte
nevano ai iura gentium, diventarono proprii del ius quiritium; cosicchè il
commercium, il connubium, l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro
capi, diventarono rapporti fra i quiriti; donde la spiegazione di quelle
solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto
primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire,
poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima
erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto
di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto
quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio
che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti
fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto
uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido, e
cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius
quiritium. Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze
delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium,
nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono
in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia.
Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie
gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e
del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure
l'actio sacramento, che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti,
nel seno delle tribù, potè conver tirsi in una procedura fra quiriti, e siccome
eravi un magistrato, a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si
manteneva distinto dall'iudicium, così fu naturale, che accanto all'actio sacra
mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza
conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito
quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328
consistere in ciò, che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo
staccate dall'ambiente, in cui si erano formate, si trovarono libere dai
vincoli, in cui prima erano trattenute, e poterono cosi ricevere tutto lo
svolgimento, a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse
si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta; e potè così essere
sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii
della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere
un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo
considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli
incombono come cit tadino; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus)
attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi
stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia (pater
familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis
sulla moglie, sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in
qualsiasi guisa delle proprie cose; come creditore può appropriarsi e perfino
dividere il corpo del debitore. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di
Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento
dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni
istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che
costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la
superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin
dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto
astrazione da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le
quali perciò diventarono istituzioni tipiche, e poterono essere portate
dapertutto, perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu
mediante questo processo; che i Romani poterono essere per il diritto ciò, che
i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla
prima formazione della propria città, e continuarono sempre ad applicarlo,
senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata
inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che può essere
intuito, ma non insegnato. Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose
poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione, per opera di una
logica istintiva e naturale, sentita universalmente da un popolo, che mi rava
diritto al proprio scopo, e che, poste le premesse, sapeva deri varne le
conseguenze. 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui
potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù,
ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire
le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci
pervenuta nelle sue fattezze genuine: ma che intanto non merita punto di essere
senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori (1). Essa porta in
sè un'impronta efficace di verità, in quanto che si presenta con un carattere
del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia, e
le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa; del
che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami,
che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al
diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5. – La famiglia e la
proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato
l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle
leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia. È evidente, che essa riducesi
in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia, che viene ad
essere portato nel seno della città. Ma intanto separata dall'orga nizzazione
gentilizia, in cui erasi formata, e dalla quale era tempe rata in qualche
parte, presentasi con linee così rigide e precise, da riuscire a noi pressochè
incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi. Dei
varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne
ricordano che un solo, e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio,
la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può
benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il
matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice, che Romolo avrebbe condotto
all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito: « uxorem,
quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica, che tutto nega, relativamente
alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore
della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il
contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si
presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in
condizione tale da prendere una parte effettiva, anche nella formazione delle
leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem
cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum ». Noi ab biamo qui il matrimonio
primitivo, esclusivamente patrizio, accom pagnato da una cerimonia religiosa;
esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci
testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù
primitiva; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in
certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito; il che però
non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico. È al marito, che
appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie; anzi due
fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può
riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte: ma egli
deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico, il quale è ancora una
istituzione eminentemente gentilizia (1). Il vincolo matrimoniale, stretto
coll'intervento della religione, è per per sua natura indissolubile, in quanto
che non potrebbe compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa
far divorzio da esso. Di qui una legge, che Dionisio chiama dura, la quale nega
alla moglie difar divorzio dal marito;ma intanto questi può ripudiarla,ma solo
per cause determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della
prole, la sottrazione delle chiavi e l'adulterio. Che se il marito abbandoni la
moglie per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà
alla moglie, l'altra sarà sacra a Cerere: che se egli la venda, dovrà essere
immolato agli dei infernali (2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla
moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio; ma le cerimonie
religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono
ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio; son fissati i casi
per il ripudio; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1)
Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci
furono conservate da Dionisio, II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns,
Fontes, pag. 6. (2) Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium,
è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente
l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico
matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium, nel
senso vero della parola; il quale dovette avere origine dal divertere della
moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu, e poi si concretò in
una istituzione giuridica, che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr.
Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit,
pag. 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume
un carattere più sacro, la quale è cosi concepita: « paelex aram Iunonis ne
tangito; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito »: la
qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da
Festo, secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ),
significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna
non poteva entrare nella casa, ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice
appunto delle giuste nozze; in caso contrario doveva sacrificarsi una
piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi della
patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta
la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio, e la facoltà di
venderlo fino a tre volte per trarne profitto; alla qual legge se ne aggiunge
un'altra di Numa, secondo cui il padre, che abbia consentito alle nozze confar
reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane,
più non è in facoltà di venderlo. Devono poi i padri educare tutta la prole
maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto
minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato, nel qual caso deve prima
essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato;
disposizione questa, che richiama ancora le consuetudini proprie della vita
patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed
in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri
chiamarsi quella, attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in
istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse
estratto il feto: alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta
verisomiglianza, quel passo di lex regia, conserva toci da Paolo Diacono,
secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3). (1)
Festo, v ° Paelices (Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi possono
vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig, 1876, § 2º, pag. 8.
(2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà, sono ricordate da
Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15; II, 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata
da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, pag.
7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO, L. 2, Dig. (11, 8):
mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta. Il Voigt ritiene
doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8
13, pag. 75. 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico
della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas, in quanto
che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora, che venga a cattivi
trattamenti verso la suocera, mettendo cosi in non cale il rispetto dovuto
all'età, incorrono nella capitis sacratio; la quale è pure la pena, in cui
incorre il patrono, che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che
venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia (1). 270.
Per quello poi, che si riferisce alla proprietà, nulla ci fu con servato circa
il carattere intimo della medesima; ma dalle disposi zioni, che Dionisio
attribuisce a Romolo relativamente alla clientela, e dall'incarico, che secondo
Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di
terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che
la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio, e che in
questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive,
sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno
della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della
proprietà privata. In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine,
che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle
varie tribù, viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i
quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio
heredium. Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii
gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle divinità
patrone dei confin., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione quiritaria,
e si introduce così la terminazione fra le proprietà private. Tutti quindi son
tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono consacrati a Giove
Termine; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro,
sarà soggetto alla capitis sacratio (3 ). (1) Così,ad esempio, secondo il
Mommsen in Bruns, Fontes, pag. 7, nota 6, una legge, attribuita a Tullo
Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer verberit, ast olle (ille)
plorasset, puer divis parentum, sacer estod; si nurus, sacra divis pa rentum
estod. » Per i divi parentum si intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op.
cit., § 7, pag. 41. (2) Dion., II, 9; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres
(Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit.,
$ 9, pag. 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di legge, che consacrano
isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non
ripugna, che, trattandosi di genti, le cui istituzioni nei partico lari
potevano essere diverse, le medesime abbiano anche potuto fare argomento di
disposizioni legislative, elaborate dai pontefici, pro poste dal re, appoggiate
dal senato, ed approvate dalle curie. Quanto alla sanzione religiosa, che
accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente, se si tiene conto del
carattere religioso del popolo delle curiae, il quale esce allora allora
dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di
un ' aureola religiosa e sacra. Solo ci resta a vedere quali siano le traccie,
che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia, alla
quale occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a
ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini
della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della
perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia
quella parte del suo diritto, dicui giunsero a noi più scarse reliquie,
tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come
anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica. Anche il
delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto
presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro
l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto
un'offesa contro la divinità. Chi l'abbia com messo di proposito (dolo sciens),
di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio bonorum;
mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la famiglia
di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia dell'of feso
(1). Ciò vuol dire, che il concetto gentilizio del delitto e della (1) La più
notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che occorra nella
legislazione regia, è quella che si desume dalle due leggi attribuite a Numa,
rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella relativa
all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti termini: « In
Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di peso nel seno
della città. Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a cui accennano
le leges regiae; in quanto che non parlasi nè del furto,nè dell'ingiuria, nè di
quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente preveduti dalle XII
Tavole. Ciò non significa certamente, che questi misfatti fossero ignoti, nè
che i medesimi fossero impuniti: ma soltanto, che le leges publicae (quelle
almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato alla pubblica
giurisdizione la repressione di essi; ma avevano continuato a lasciarli alla
prosecuzione dell'offeso, che doveva perciò seguire le pratiche tradizionali,
formatesi nelle tribù, le quali già avevano ricevuta una consacrazione
religiosa (1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati nelle leges
regiae, già può introdursi una distinzione; sonovi dei delitti, che possono
essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie, comprendendo anche fra questi
quello contro la proprietà, consistente nella rimozione dei termini; altri, che
sono contro la religione, quale sarebbe l'incesto della Vestale e l'abbandono
dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi crimina publica,
in quanto che, fin dagli inizii della città, sonovi autorità incaricate dalla
pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi ancora nella propria
integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di famiglia, il quale in
certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico; come pure sono san
cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso, comela capitis
sacratio e la consecratio bonorum. Quanto ai reati contro la religione, appare
invece la giurisdizione dei pontefici; giurisdizione, che alcuni autori,
fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in questo periodo,
avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più larghi confini. Il
carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del collegio dei pontefici,
per cui esso appare come depositario e custode delle tradizioni gentilizie, ci
impe disce di seguire una tale opinione, in quanto che il carattere sacrale del
delitto e della pena in questo periodo non è creazione dei pon ut si quis
imprudens occidisset hominem, pro capite occisi, agnatis eius in contione
offerret arietem ». Bruns, Fontes, pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce
all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr.
MUIRIEAD, Histor. Introd., pag. 54 a 55. 335 - tefici, ma è un carattere
proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora nel la
città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione criminale, che
gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle
Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della patria potestà,
di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici,
che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano
dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un delitto, che da una
parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta
sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale, nei
tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e
l'amante, flagellandolo fino alla morte, e dall'altra si facevano sacrifizii di
purificazione per la città. Da questo caso in fuori non trovasi traccia di
giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici; nè vi ha
motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i
romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale
(1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo
il concetto del pubblico delitto; perchè è con esso, che incomincia l'esercizio
del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale. Già ho accennato
altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai misfatti non
presentasi svolta fin dai propri inizii; ma viene invece estendendosi, a misura
che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte alla giurisdizione
domestica del capo di famiglia. Qualche cosa di analogo accade eziandio nello
svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi misfatti, perseguiti
dalla pubblica autorità, compariscono coi nomi di parricidium e di perduellio;
e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero istituiti due speciali
magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum viri perduellionis; fra
i quali intercede perd questa differenza, che mentre i primiappariscono quali
magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere nominati, caso per caso
(2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 187. (2 ) Ciò è
dimostrato dal racconto di Livio, I, 26, relativo al fatto dell'Orazio, in cui
i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re, mentre dei quae
stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº Quaestores, che parla di
essi, come di autorità permanenti, create « ut de delictis capitalibus
quaererent ». 336 Son pochi i passi, che si riferiscono all'uno e all'altro
misfatto, donde la conseguenza, che non solo gli autori moderni, ma anche gli
storici antichi attribuiscono significazione diversa ai due vocaboli. È noto
infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole di parricidium
l'Orazio, uccisore della propria sorella, Tito Livio parla invece di perduellio
(1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in esami e passi di
antichi autori, che sono a noi pervenuti; esa minare le opinioni principali
emesse dagli autori in una questione, che ha una copiosissima letteratura; e
poi cercare di ricomporre i testi che si riferiscono all'argomento per
ricavarne il processo logico e storico, che dovette essere seguito nella
configurazione di questi primitivi misfatti. 274. Quanto al parricidium, i
pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una certa quale meraviglia,
per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva lasciato senza pena e neppur
rite nuto possibile il parricidium, nello stretto senso della parola, avesse
poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di parricidium, il che sa rebbesi pur
fatto da Numa, al quale si attribuisce una legge, secondo cui: « si quis
hominem liberum,dolo sciens,morti duit, parricidas esto ». Quanto poi alla
perduellio si sa con certezza, che questo vocabolo deriva certamente da
perduellis, che in antico significava il nemico, con cui erasi in guerra, e che
il medesimo comprendeva, tanto il tradimento verso la patria, mediante pratiche
tenute col ne mico esterno di essa, tradimento, che suole essere indicato
special mente col vocabolo di proditio; quanto eziandio le perturbazioni ed i
sovvertimenti contro la cosa pubblica, tentati all'interno, per i quali era
specialmente adoperato il vocabolo di perduellio. Circa quest'ultima però
abbiamo una descrizione abbastanza completa di un primitivo processo per causa
di perduellio in Tito Livio, il quale in questa parte, come ben nota il Bonghi,
« sembra dare al proprio racconto un colorito particolare e diverso dal
rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi espositore preciso delle forme
antiche e solenni, con cui sarebbe seguito questo primitivo giu dizio » (2 ).
Furono questa scarsità di passi e questa incertezza negli antichi au tori, che
provocarono molte indagini per spiegare il fatto, per cui negli (1) Dion., III,
22; Festo, vº Sororium tigillum; Livio, I, 26. (2) Liv., 1, 26; Bongai, Storia
di Roma, I, pag. 102 e pag. 129 e segg. 337 inizii col vocabolo ili parricidium
sarebbesi indicato ogni omicidio, ed anche le cause, per cui gli antichi autori
in un medesimo fatto poterono ora ravvisare il carattere di parricidium, ed ora
quello di perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono
degne di nota sopratutto le seguenti: quella messa prima innanzi del Gebauer,
ed ora anche seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori
tedeschi, secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere
paricidium, cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari
o di un eguale (2 ); quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui
il vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un
congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina
dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe
dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle
genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi
uomo libero (4 ); e da ultimo quella sostenuta, fra gli altri,dalWalter e dal
Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è recente,
ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De
iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi
citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale, Parte speciale, vol. I,
pag. 137, $ 1138. (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem
occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae, vol. I, pag. 64, § XI, il
quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, «
omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova, e fu accolta come osserva
il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania. Di recente
poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità: Über
die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag.57, nota 130. L'opinione
stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA, Princ. di diritto penale, III,
pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione «
paricidas esto » significasse « capital esto », cioè condannabile a morte; ma
tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione
messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte.
Casellae, 1839, pag. 433-466; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer.
Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con
grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER
in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux
parricidii », letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis
scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è
anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea: « De parricidii
notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna,
che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e
significherebbero qualsiasi delitto, che per sua natura sia tale da chiamare la
pub blica vendetta, e da eccitare una ripulsione universale (1). 275. Or bene
con tutta la riverenza, che deve certo aversi per un autore cosi benemerito
degli studii sul diritto primitivo, quale è il Voigt, non ritengo, che possa
adottarsi l'opinione da lui seguita, secondo cui parricidium significherebbe il
paris excidium. Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma
l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica, in quanto che, se si
tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta
parità di diritto. Vi ha di più, ed è che, mettendo il concetto della parità a
fondamento della figura criminosa del pa ricidium, ne verrebbe come
conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium, quando un pari
uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in
condizioni uguali fra di loro; il che certo non può richiedersi. Infine male si
comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un
con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza, mentre vediamo,
che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche
di altra natura, che compariscono nell'antico diritto, vengono piuttosto ad
essere determinate da circostanze este riori di fatto, come accade dal furtum
manifestum, nec manife stum, conceptum, ed oblatum, ed anche della distinzione
della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi
cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si
passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale, o da una
concreta ad un astratta, di quello che non accada il contrario. Quanto al fatto,
che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi
scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri,
che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle
doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui
occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal;
quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò, che son vi pure (1) Questa
opinione enunziata prima dal WALTER, Storia del diritto romano. Trad. BOLLATI,
8 766, vol. II, pag. 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz, Introd., $
18, 1, pag. 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin: Die
perduellio unter der römischen Königen. Tubing, 1841, pag. 10-14. 339 dei
codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano
cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium. Vero
è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano
accennare a questa origine del vocabolo; ma non è punto improbabile, che,
allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione
nella lex Pom peia de parricidiis, siasi anche allora cercato di spiegare nello
stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo
primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari
ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis
excidium, ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela, e che
poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino, anche
per quella specie di parentela, che viene ad esservi fra i cittadini di una me
desima città. Per verità, quando così fosse, il vocabolo di parrici dium
avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla
parola, in quanto che, come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva
del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata
piuttosto l'espressione di parentici dium, che non quella di parricidium, in
cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre (2 ). Lo stesso è a
dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città,
significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi
sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta
con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e
quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla
testi monianza di Plutarco: singulare est, quod Romulus, cum nullam in
parricidas statuerit poenam, omne homicidium appellavit parricidium. Qui
infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino, che
sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso,
sarebbe ISIDORO, De orig., X, 225, il quale scrisse: « parri cidium et
homicidium, quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus
pares »; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del
vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile
all'epoca sua. Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN,
Das altrömische parricidium. Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit., §
10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium
ogni omicidio, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo
la for mazione della città, la parola fosse stata ristretta a significare
l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione
sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e
perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più
gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è, che
soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e
comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da
espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto
primitivo; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si
svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro, ei due crimini sono
perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli,
anche questa viene ad essere completamente diversa; poichè, per formare la
figura del parricidium, si riguarda alla persona dell'offeso, mentre, per
formare invece quella della per duellio, si parte invece da quella
dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava
nemico. Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla
privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità; mentre nella per
duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva, la quale,
trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu. rezza, scorge in
esso una somiglianza coi nemici esterni della città, e perciò lo qualifica col
nome stesso, che darebbe al nemico, con cui trovisi in aperta ostilità. 278.
Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in
Roma primitiva, possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si
tenga conto, che la città risulto dalla confederazione delle tribù, e che
percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù,
vennero a trapiantarsi nella città, colla differenza, che quei concetti, che
prima erano intergen tilizii, per cosi esprimersi, diventarono invece concetti
interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa, per il diverso
punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato (1)
PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è fondata, già
presentansi formati così il concetto del parricidium, che quello della
perduellio; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo
Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi
criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa, che queste due figure di
reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia, e che il
parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia
o di una gente: la quale uccisione costituiva l'unico misfatto, che non
dipendesse dalla giurisdizione domestica, e che dovette per il primo essere
punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di
guerra fra le genti; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità
fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia
entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium
si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque
partecipasso alla comunanza, tanto più che i partecipi di essa dapprima erano
veri padri, e che la perduellio, mentre prima significava le ostilità fra le
genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città,
poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini.
Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia, ma anche
altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di
qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene
cosi ad essere natural mente spiegato ciò, che ci attesta Plutarco: che Romolo,
senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato
ogni omicidio parricidium: in quanto che quello, che era parri cidio nei
rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un
quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città; al modo
stesso, che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico
dell'intiera comunanza, nel seno della città. Solo potrebbe notarsi, che non si
deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad
un'altra: ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè
in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili
trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta
hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad
un altro; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis (Bruns,
Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli
ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che
quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium, a
misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano
sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores
parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il
vocabolo apparisce disadatto, ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi
i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto
alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium,
potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei
misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un
figlio o di una figlia. La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come
negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato: ma intanto,
se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che
cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare
l'enormezza del delitto. Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab
bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso,
prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella
legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto, dandogli
tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione
di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela, e a tal uopo far
rivivere l'antica pena tradizionale. Fu allora, che il vocabolo di parricidium
abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un
parente e di un congiunto, il che appunto si fece colla legge Pom (1) Questa
trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia,
che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei
quaestores parricidië, e del processo seguito dai Romani nello svolgimento
delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della
diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui
solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum ». Non sarebbe poi qui il
caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio,
ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine: ma
ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile,
allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano
talora affidate allo stesso magistrato. Cfr. al riguardo il Villems, Le droit
public romain, pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia, per il
vocabolo di parricidium, alla significazione più ristretta, che esso viene ad
assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente
giuridica, ma piut tosto oratoria, per cui parricidas viene ad essere chiamato
il tradi tore della patria, l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col
proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro
per l'umanità (1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto, per cui un medesimo
de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella, abbia po
tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual
parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo, che il fatto
dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere
molto dubbioso. Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera,
e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa; ma dall'altra
l'uccisione era stata commessa, allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio
vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui
inflitta, come pena contro coloro, che piangevano la morte di un nemico della
patria. L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato
un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva
operato, come un perduellis, come una persona, che si era posta al disopra
delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il vincitore,
trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in base a quella
distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel iudicium,
viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In darno il
padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per trattarsi di un
misfatto, che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua figlia; qui il re
ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e quindi ritiene
trattarsi di perduellio e conchiude: « duum viros, qui Horatio perduellionem
iudicent, secundum legem facio ». Dura era la legge relativa al perduelle, in
quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva avere avvolto il
capo, essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a colpi di verghe,
(1) Cfr. BRÜNER, Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che parla di parricidium
patriae, civium, e scrive: « sacrum, sacrove commendatum, qui clepserit
rapsitve parricida esto ». Cfr. CARRARA,Op. cit., § 1139. 344 « intra pomoerium
vel extra pomoerium ». Il tenore della legge era quindi tale, che i duumviri
dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore « colliga manus»
quando l'Orazio propone appello al popolo, il quale l'assolve in memoria del
fatto compiuto, e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene esclamando
fra la folla, che la propria figlia era stata iure caesam. Tuttavia l'Orazio,
anche assolto, fu costretto a passare sotto il giogo, donde l'erezione del
tigillum sororium, e la sua gente, secondo Dionisio, dovette anche offrire una
piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva il caso di un
omicidio commesso per imprudenza. Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio,
che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il passare
sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto, e il
sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio
involontario (1). 281. Tuttavia, a mio avviso, la ragione che rende più
verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale
in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel
medesimo processo, che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I
concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso
che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo
conquistato, e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti
quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un
nuovo contenuto, di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le
genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, pag. 132,
nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui
sostenuta: « Horatium, quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset, eaque
caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam
adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur ». Osserverò
poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato
come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico
esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione
forzata alle leggidella patria; altra prova, che non solo si tolse
dall'ostilità esterna la figura della perduellio, ma in parte anche la pena,
con cui essa era punita. Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti
fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della
stessa comunanza, diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno
si chiamò hostis. 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la
perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato, ma
al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co
struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita, che
il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese
contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la
perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato, e quando
questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen
lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca, che comincia ad apparire la di
stinzione fra il reato comune e il reato politico; ed è fin d'allora, che si
sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati
politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la
sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi
i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio, diventerà
poi fondamentale nella legislazione decemvirale. Intanto le cose premesse
bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una
giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione
criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata, che l'autorità
pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi
pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano
nell'organizzazione gentilizia, le quali, sebbene continuino ad essere indicate
cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa. Di più anche
nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza
sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della
costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi
del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che
il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una
potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati
dall'anteriore orga uizzazione gentilizia. I concetti del diritto primitivo di
Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano
di scegliere e di con densare ciò, che hanno appreso nel periodo precedente.
Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di
diritto pubblico, che di diritto privato. La condizione dei clienti e della
plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse
dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e
quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re,
debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia, in quanto che si riducono
in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian
tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento, ed a prendere una
nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale
potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi
inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i
clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai
clienti, la loro posizione giu ridica, in questo primitivo stadio della città,
non viene ancora ad essere modificata, in quanto che essi continuano sempre ad
apparte nere più alla gente, che alla città: perciò essi, per quanto si può
ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e
cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio, continuano ad avere gli stessi
diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo
gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà, ma continuano
a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii;
ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al
magistrato della città, ma perciò debbono valersi della protezione e degli
uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo
stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un
gran numero di autori (2 ). Le curie sono (1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si
espose intorno alla clientela, nel Lib. I, Cap. III, § 3º, pag. 46 a 52. (2)
Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain, pag. 46 e seg. e del
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg., nota 2. Il prof. COGLIOLO
nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del
Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri,
il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere
state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in
condizione subordinata, anche per il semplice motivo, che, quando così fosse
stato, il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto,
avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in
occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi
dipendono ancora più dal cenno di esso, di quello che dipendano direttamente
dallo Stato. Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non
possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla
elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che
abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana,
che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e
militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in
proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei
comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze
dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le
votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana
fu quella, che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla
organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a
fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui
starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio
della loro indipendenza politica; donde la conseguenza chemolti fra essi sono
poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le
pretensioni di essa. 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è
assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di
Roma primitiva, è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i
primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del
diritto privato. Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di
Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi (1) Che
le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re
cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati, appare dal seguente
passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit; per
patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius
». 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po
tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che
essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii
curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla
nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella
primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa. Essi
quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi
avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito, cioè
inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia, malgrado quest'attestazione concorde,
dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del
Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo
della città patrizia. La loro opinione trovò favorevole accoglimento; ma in
questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato, che vi fu un tempo, in cui
dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il
dubbio, che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie. Che anzi,
siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione,
vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a
sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città.
Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle
fonti le origini della città, come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il
Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una
città esclusivamente patrizia, ed alla esclusione della plebe primitiva dal far
parte dell'assemblea delle curie (1). 285. Non è qui il caso di entrare in
discussioni erudite sull'argo (1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche
seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg.; dal LANDUCCI, Storia del
diritto romano, pag. 357, nota nº 2; dal Peluam, Encyclop. Britann., vol. XX,
pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti
in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare, che se la sua
autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto
al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera,
col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio
delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo
storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega come
l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio
delle origini, sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò
quell'argomento, come può scorgersi quanto alle origini della famiglia, della
proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera
sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia, donde pro
ceda. Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo, che intese a supplirvi colle
proprie note. 349 mento; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo,
che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile, che
la plebs abbia potuto essere ammessa, fin dagli inizii, alla civitas e quindi
anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I
cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive, perchè un
elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un
tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi
organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un
piede di uguaglianza, in guisa da entrare a far parte della civitas e della
curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche, erano anche
corporazioni strette dal vincolo di una religione, chenon era ancora accomunata
alla plebe. È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è
sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi
fosse mai stato servo nè cliente, potesse diun tratto accettare un voto del
tutto eguale con un plebeo, che poteva forse essere stato prima suo cliente o
suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva
indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti
primitive, che non conoscendo altro vincolo, che quello del sangue, dånno
sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che
quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le
collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo
del loro ordine colla moltitudine o folla, da cui si trovavano circondati.
Questa pa rità, secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am
messa dal patriziato, nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi
ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il
patriziato primitivo, fondatore della città, volesse per generosità accordare
spontaneamente cid, che era ancora in condizione di negare, e che non concesse,
che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile, in quanto
che la curia, come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a
deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano direttamente
all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria; poichè
il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente, da cui
esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto,
che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle
curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse
mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero
imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie,
che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco
nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche
famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche
i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è
meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai
sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far
parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350
anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga
convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi;
anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non
mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per
importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a
fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo
stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii
tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori,
agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie,
la cui importanza non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere
possibile più tardi; ma l'ammet terlo fin dagli inizii, è uno sconvolgere ed
invertire ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti.
Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal
partecipare ad una stessa corporazione religiosa; mentre i fatti dimostrano,
che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad
accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò
non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso,
ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle
centurie, che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla
proprietà e sul censo. Le cause, che cooperarono più tardi a ravvicinare i due
ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia
ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più
tardi anche i liberti; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure
acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e
il patriziato; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana
assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al
fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria, che il vocabolo
populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può
essere facilmente spiegato, in quanto non è questo il solo caso, in cui i
Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato. Del resto il
vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte
le altre concezioni giuridiche e politiche; esso comprendeva l'uni versalità
dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe,
finchè questa non faceva parte della città, cosi doveva comprenderla, allorchè
essa, in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie
Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia
primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo
periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato; il qual
compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come
il ius quiritium, allorchè giunse al suo completo sviluppo, mentre in tema di
diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum, che entrambi,
a nostro avviso, furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto
privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii. Quanto al primo di
questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con
certezza, che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col
patriziato; il che però non significa, che essi non potessero contrarre fra loro
delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di fronte
al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione quindi,
che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe sarebbe in
questo periodo stata ammessa al solo ius commercii (1). Così avrei ritenuto
ancioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti della
iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è
quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius
commercii (1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può
darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte; ma ora il
processo logico, che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di
ogni informazione diretta, mi conduce ad affermare, che non dovette essere il
ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì
il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra, è quello stesso
diritto, che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad
accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di
forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium, nella larga significazione
che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di comprare e di
vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium, suppone una
certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede. Siccome quindi
le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere compiutamente ai loro
bisogni: così non poteva dap prima essere il caso, che riconoscessero ad una
classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di eguaglianza, ma loro
dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium, ossia quello di avere
una proprietà, che poteva essere alienata, e il ius nexi, ossia il di (1) Tale
è, ad esempio, l'opinione del LANGE, Histoir. intér. de Rome, I, pag. 61. 352
ritto di potersi obbligare, mediante il nexum. Le conseguenze pra: tiche nella
sostanza potevano essere le stesse; ma intanto la supe riorità delle genti e il
vassallaggio della plebe venivano ad essere riconosciute. Ed è questo il
motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella città, il nexum ed il
mancipium, come accadde anche in tutto il resto, cessarono di significare dei
rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le circondava, per diventare
rapporti interni, e costituirono cosi i primi concetti quiritarii, comuni alle
due classi. Più tardi però, anche questi vocaboli, che ricordavano una disugua
glianza di condizione fra le due classi, apparvero disadatti, e nella
successiva elaborazione del diritto quiritario furono sostituiti da altri (1).
Non può dirsi pertanto, che in questo periodo siasi già cominciata
l'elaborazione di un vero ius civile, ispirato ad un concetto di ugua glianza
fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere un diritto proprio delle
genti patrizie, che parteciparono alla formazione della città, e che
costituisce il primitivo ius quiritium; ed un di ritto che governa i rapporti
fra la città patrizia e la plebe, che la circonda, il quale si risente ancora
delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo il motivo, per cui
la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la sua esistenza
giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo del diritto
pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare, che influi
potente mente su tutto lo svolgimento, che ebbe ad avverarsi più tardi, e
merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato. (1) Non mi
trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi nel Lib.
I, Cap. X, nº 160, pag. 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui enunziate
apparirà anche più evidente, quando si tratterà della costituzione Ser viana e
della sua influenza sul diritto privato di Roma. Colla venuta dei Tarquinii a
Roma, si inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in
parte essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata
dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di
scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata
memoria. Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co
stituire la città, avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le
latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo;
mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re, nè forse avevano avuto
nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di
origine latina, la gente Tarquinia, di origine etrusca, ricca di capitali e
numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi
quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa
è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio,
ne guadagna per modo la fiducia, da diventare dopo la sua morte tutore dei
figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della
propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono, mediante il suffragio
del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei
padri: « eum, scrive Livio, ingenti con sensu populus romanus regnare iussit »
(1). Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che
questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia, che la
città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici
latini avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè le nuove genti appariscono
in concordia con tutti gli ordini della città, e il capo di esse, chiamato con
tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla
patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle
costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità
e di forza, che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più
verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a
quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche, durante il
quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi
famiglie, vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove
miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di
Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove
genti nei proprii quadri, e mentre da una parte, per la fortezza già
sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire,
dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei
pubblici edifizii, sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa già
conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca, cosicchè la nuova
immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio e il
seguito, che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo (3).
289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i segni
di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua
popolazione viene ad essere come raddoppiata, ed il nuovo elemento sembra dare
alla città un indirizzo mercantile, come lo dimostra il fatto, che dopo la
dominazione dei Tarquinii (1) Liv., 1, 34; Dion., IV, 2. (2 ) Müller O., Die
Etrusker. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituz.di Roma, pag. 134, ove si
impugna appunto l'opinione del Müller. (3) L'opinione qui accettata è conforme
a quella, che ho cercato didimostrare più sopra, relativamente agli aumenti nel
numero dei senatori. Lib. II, cap. II, § 5, nn. 212 e 213, pag. 258 e segg. 355
Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio,
un trattato di navigazione con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca
Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione
fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che
potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio
avrebbe distribuito spazi intorno al foro, accið i privati vi potessero
costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin
gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali,
essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie
mura (2 ). A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri
mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne
sostituissero altre di carattere territoriale e locale. Cid secondo la
tradizione avrebbe pur tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il
patriziato per mezzo dell'augure sabino Atto Nevio, osser vando che la
primitiva città erasi fondata mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di
essa consacrati dalla religione dovevano essere mantenuti (3). Non vi fu quindi
altro mezzo che di fare entrare il nuovo elemento nei quadri antichi, il che
Tarquinio avrebbe cercato di conseguire: lº aggiungendo alle centurie dei
cavalieri, altre centurie, che serbarono il nome antico, ma presero la deno
minazione di Ramnenses, Titienses, e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato
di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres minorum gentium; 3º
raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e destinando anche alla
custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i duoviri sacris faciundis,
i quali, portati poscia a dieci e più tardi a quindici, finirono per cambiarsi
in un collegio sacerdotale, che sovraintendeva și culti di provenienza
straniera (4 ). (1) La memoria di questo trattato di navigazione, conchiuso nel
primo anno della Repubblica, ci fu serbata da POLIBIO, III, 22, 24, il quale
l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già diventato
difficile a comprendersi. (2) Liv., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a
Tarquinio di aver già intrapresa la cinta, che prese poi il nome di Serviana.
(3 ) Liv., I, 36; Dion., III, 70, 72. (4 ) Dron., III, 67; IV, 62.
L'istituzione dei duoviri sacris faciundis ora è attri buita a Tarquinio Prisco
ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo svolgimento storico di questo
collegio sacerdotale è da vedersi il Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination,
Paris, 1882, IV, pagg. 286-317, come pure il Manuel des institu tions romaines,
Paris, 1886, pag. 545 e segg. 356 Intanto anche la religione subì l'influenza
del nuovo elemento, ma in proposito fu giustamente osservato, che la religione,
importata da questa immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed
arcano, che vuole essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece
dell'influenza greca, come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e
Giunone (1); il che sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una
città etrusca, potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo
la tradizione sarebbe stata Corinto (2 ). Della plebe quasi non si occupa la
tradizione; ma si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine
avevano ac cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così
quella etrusca dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di
commercianti, di uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad
accrescere la plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di
ravvicinamento fra patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era
divenuta un elemento indispensabile per rafforzare l'esercito, e la
cooperazione della plebe urbana era anch'essa necessaria per compiere quelle
opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri stica di questo periodo della
storia di Roma, e che erano natural mente richieste dall'ingrandirsi della
città e dal nuovo indirizzo preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano
venute a tale, che coll'ampliarsi della città, anche i quadri del populus
dovevano essere allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della
plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da
esso col tivato, poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della
città. Fu questa l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio;
altro re, che appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente
ha finito anche qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto
essere l'effetto del concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze
operose, che vennero a (1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p.
149. (2) È noto che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo
diretta mente da Tarquinia, sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio. (3
) Quanto all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve
dersi Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung. Leipzig,
1884, I, pag. 32 e segg. 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo
indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio
Tullio: mentre la tradizione latina, unitamente al carattere della sua riforma,
che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero credere di
origine latina, una tradizione invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci
fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo
direbbe di origine etrusca, e gli attribuirebbe il nome di Mastarna (1). Tutta
l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua
costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del
principe autore di essa, o alla tenacità del popolo che ebbe a svolgerla, essa
corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione
della città. Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio, in cui domina
ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo, in cui i
due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del
censo, finiscono per avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento
giuridico e politico. Può darsi, che anche altre città abbiano avuta una
costituzione analoga, come, ad esempio, Atene per opera di Solone (2 ); ma non
ve ne ha certamente un'altra, che per la tenacità e la perseveranza degli
ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo ricavarne un più sicuro e
graduato sviluppo. Ben è vero, che anche per Roma vi fu un periodo, in cui
l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di tirannide; ma nel resi
stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio fu estremo, quello cioè
di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste a repen (1) L'oratio,
che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure
honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed. V, p. 177. Ivi
l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la
storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e
trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative a Servio
Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia,
mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca. Le diverse opinioni degli eruditi
sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che
esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate
dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag. 201, nota 14. (2) Quanto alle analogie fra
la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni storiche, che
poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il GROTE, Histoire
de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV, chap. 4me, pag. 137 a 216,
come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con dizione
dei nexi e degli addicti in Roma antica. - 358 al taglio le libere istituzioni,
malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi la città.
L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento storico
fosse ripreso punto stesso, a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito della
costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto pubblico, ma
ancora quella del privato. Fu il non averne tenuto conto sufficiente che, a mio
avviso, ha impedito di dare una spiegazione plausibile dei più singolari caratteri
del diritto primitivo di Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della riforma
Serviana eimezzi che servirono ad attuarla. 291. Fu abbastanza dimostrato, che
la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice agglomerazione,
che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama confusamente insieme;
ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto entrano nel suo
ordinamento simmetrico e coerente; donde la conseguenza, che se un mutamento si
introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur riflettersi e
riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia, e appare
ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di unire due
popolazioni, che si trovavano, come si è veduto, in condizioni sociali
compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa comunanza
civile, politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento
impossibile, perchè la distanza fra di loro. era ancora troppo grande, e certi
istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente
custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due
ordini, erano la proprietà e la famiglia, e il solo inte resse, che li aveva
condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e
delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro
partecipazione alla medesima città: quindi è che la costituzione serviana,
sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento, che era
escluso dalla città patrizia, finisce però per dare una base più ristretta alla
par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica. Mentre
il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso, l'organizzazione
gentilizia, e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce
dalla costituzione di Servio, viene ad essere composto di capi di famiglia e di
proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito, e più
tardi anche della medesima assemblea, in base alla sola considerazione del
censo, e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi,
che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere
paragonata ad una società, in cui ciascuno viene ad aver diritti ed
obbligazioni proporzionate al proprio censo, il quale viene così ad essere
considerato come una garanzia dell'interesse, che altri può avere all'avvenire
e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare
colle curie dei patrizii, ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii,
i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii
una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte
cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto
militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal
censo. In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è
lasciata integra ed intatta; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo
novello, che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè
ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la
sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo,
per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente
diversa, anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come
favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come
favorevole alla plebe (2). Essa era tale, che da una parte doveva essere
accetta al patriziato, il quale, mentre riteneva ciò, che era esclusivamente
suo proprio, trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio
erario, più ampia la città, di cui continuava ad avere le magistrature e gli
onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa, ancorchè
sulla base esclusiva del censo, veniva (1) Che questo fosse il concetto
informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio, XVI, cap. 10, n
° 11, il quale dice espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis
vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides
quaedam in ea, firmamentumque erat ». Il paragone poi della comunanza
quiritaria, in base alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già
occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p. 193. (2 ) Il diverso
apprezzamento,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic.,
De rep., II, 22; Liv., 1, 42, 43; Dion., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi,
op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che
prima non aveva, ed è abbastanza noto, che quando trattasi di un'aggregazione
sociale, il passo più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la
forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio
valore. Questo è certo, per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini
sembrano essere concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per
guisa che ad opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che
prima aveva esercitato più di fatto, che non di diritto; tantoque consensu,
quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova
costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di
dare a ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può
avere per l'incremento della medesima: interesse, che si ritiene dover essere
misurato dal censo. Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con
mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni
di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o
regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in
classi ed in centurie; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano
maestra, dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la
città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii, aventi pubblica
destinazione e riuniti in un piccolo spazio, a cui mettevano capo le varie
comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali
comunanze, le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni
pri vate. Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del
contado; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e
frequente, e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento
per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno
più duraturo in seno alle comunanze di villaggio. La città intanto, chiusa e
fortificata nelle proprie mura, difesa da un esercito, il cui contingente viene
ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente
organizzato, assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce
(1) Liv., I, 46. 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine (1). Così
pure è da questo momento, che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e
a confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci
adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e
coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano
una certa consapevolezza dell'avvenire di essa; poichè il nuovo circuito
comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio, il
Gianicolo, ma anche l'Esquilino e il Viminale, alcuni fra i quali sono ancora
spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere
ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si
verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare, che
sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia
essa au menta bensi il suo nucleo centrale, ma serba ancor sempre i ca ratteri
primitivi della città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad
essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere
dispersa per le campagne e fuori delle mura; cosicchè la città continua sempre
ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere
altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto
non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni,
che per consuetudine invalsa i re sogliono fare alla plebe; il che si gnifica
che le famiglie, le genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie
terre (4 ). 294. Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva
necessario, che all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 )
L'intento eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal
fatto, che gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento
di essa si possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa
esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova
Antologia », 1887, fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente
espresso da Floro nel passo citato al lib. I, cap. I, nº 10, pag. 10, nota 1.
(3) MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 59 e segg. « L'ampliamento delle mura, scrive
NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti
destini della città, e che aperse la via ai suoi futuri progressi o. Op. cit.,
II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati
da Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio, IV, 9, allorchè scrive: «
agrum publicum di « visit civibus romanis, qui ob rei domesticae difficultates
aliis, mercedis causa, ser viebant ». e 362 denza si aggiungesse una nuova
ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere
di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza, e
per fissare il tributo, a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid
si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali si
suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono
senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina,
Collina e Palatina: mentre le rustiche continuano per la maggior parte a
prendere il nome dalle genti patrizie, quali sarebbero l'Emilia, la Cornelia,
la Fabia, la Galeria, l'Orazia, la Menenia, Papiria, Pollia, Sergia, Romilia,
Voturia, Voltinia, ed altre; solo eccettuata la tribù Crustumina, che sarebbe
stata la prima ad essere denominata dalla località. Cid indica che nel contado
continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro possessioni. Il
numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto, ed anzi, secondo alcuni
storici, fra i quali Livio, le tribù rustiche comparirebbero solo più tardi.
Questo è certo pero, che la ripartizione, anche del ter ritorio rustico, era
una conseguenza del concetto informatore della costituzione serviana, e che il
numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede occasione la cacciata dei
Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio, che ne fu la conseguenza,
appare ri dotto a quello di venti. La cooptazione della gente Claudia
porto le tribù a vent'una, e da quel punto la storia ricorda tutte le date, in
cui la conquista di un nuovo territorio conduce alla for mazione di nuove tribù,
fino al numero di trentacinque, che poi si mantenne immutabile (1). Non è già
con ciò, che Roma non abbia fatte nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi
cittadini si fecero rientrare nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto
una base locale, si mutarono cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere (1)
Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della
città nelle quattro tribù urbane, Dionisio, IV, 15, invocando la testimonianza
di Fabio, gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè
il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di
spiegare comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al
numero di 20 soltanto. Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere
quella data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la
diminuzione di varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi
guidati da Porsena. Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca, in cui si vennero
aggiungendo le altre tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a
vedersi il Willems, Le droit public romain, pag. 34 e segg. e il Morlot,
Institutions politiques de Rome, Paris, 1886, p. 71 e segg. 363 ascritti tutti
i cittadini romani, senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi (1).
295. Sopratutto poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana
fu l'istituzione del censo; poichè è in proporzione del censo, che vengono ad
essere determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver
presente, che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui,
ma solo i capi di fa miglia, quelli cioè, che per non essere soggetti a potestà
altrui possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia,
ancorchè in realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia
deve essere duplice, cioè comprendere tanto le persone quanto le cose, che da
lui dipendono; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone
e le cose, dipendenti dalla stessa potestà, si presentarono come un tutto
indistinto, che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium. Il
padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto
a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo, deve dichiarare
anzitutto, ex animi sententia, il suo stato civile, cioè il suo nome, il
prenome, il nome del padre o del patrono, la tribù a cui trovasi ascritto,
l'età, il nome della moglie, il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare
eziandio il patrimonio, che a lui ap partiene in proprio; non quello cioè, che
appartenga alla sua gente, ma quello che è collocato in suo capo, che gli
appartiene ex iure quiritium, che fa parte del suo mancipium, il quale in
significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb
(1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere la questione
tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero divisioni di
territorio, oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa ammettersi
l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero compreso
che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii
(Op. cit., IV, 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di genti
patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o sezioni
dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione di
Dionisio, IV, 15, il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù,
ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come
luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes
romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi
singuli habitarent »; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane fossero
un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio
circostante a Roma. Cfr. il Morlot, op. cit., pag. 57 e seg., ove espone le
varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle
tribù. 364 bono essere valutati nel censo. Sarà poi in base a questo censo, che
sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè che
per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno cosi ad
essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto l'aspetto
politico, militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa semplice
indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette, sopratutto
negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il popolo
forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe la
lotta per il diritto. Per la città serviana la formazione del censo ha quella
stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la
determinazione del contributo, che altri deve arrecare alla for mazione del
capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la
ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni
individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e
l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza. In
essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato, e viene ad
essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato
esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in
lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel
censo serviano, non è la proprietà gentilizia, che apparteneva al solo pa
triziato, ma è la proprietà famigliare e privata, che era la sola, che fosse
comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza, che tutte le altre
forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte,
cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni
relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la
circostanza, che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose,
che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di
familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as
sumessero una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un
tempo. Cid non accadeva già, perchè si confondessero persone e cose, ma perchè
le une e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona.
Tale doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV, 15, verso il
fine. Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie
del MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag. 2 e quella del Voigt, Die XII
Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli
manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio,
Firenze, 1887, pag. 5, nota 8, ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma
1888, pag. 100, nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti,
dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno
un'assegno di terra in proprietà quiritaria, che valga a farli ammettere in una
delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di mancipium
o di nec mancipium, perchè è solo il primo, che conta nel censo di Servio
Tullio, e se il medesimo non giunga ad una certa misura, altri non potrà essere
censito, che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad essere confinato
nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle centurie, in cui si
raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i
quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver
interesse alla difesa della patria comune. Si comprende quindi l'affezione
tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella città, si attacca
al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè è questo, che gli
assicura una posizione giuridica, militare, economica per sè e per i proprii
figli, quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come
il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum,
che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a
ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una istituzione di questa
natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il romano, in un momento
storico, in cui la grande opera, a cui si intendeva, era la formazione della '
città. Quando si pensi tuttavia, che trattavasi di un popolo, il quale una
volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le conseguenze di cui poteva
essere capace, che possedeva una mirabile potenza, che chiamerei di astrazione
giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele mento giuridico da tutti gli
altri con cui trovasi intrecciato, e che questo popolo fu costretto per secoli
a misurare la propria posizione politica, militare e tributaria attraverso il
crogiuolo del censo, si pud in qualche modo giungere a comprendere il punto di
vista rigido ed esclusivo, a cui esso fu costretto di collocarsi e le con
seguenze, che possono esserne derivate nella elaborazione del suo diritto. Ciò
spiega intanto l'importanza immensa, che si diede per tutto il periodo dalla
repubblica alla istituzione del censo; le cerimonie religiose, da cui esso era
preceduto ed accompagnato; le cure, che pose nel medesimo lo stesso Servio, il
quale, secondo la tradizione, ebbe a farlo per ben quattro volte; le pene
gravissime, cioè la vendita al di là del Tevere, da lui stabilite contro
coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere nel censo (incensi);
l'opportunità, che si senti più tardi di creare talvolta un dittatore per la
sola for mazione del censo, e di affidare poscia la formazione del censo ad una
speciale magistratura (censura), a cui potevano esservene delle altre superiori
in imperio, manessuna che fosse superiore in dignità. Ciò spiega infine la
singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma il concetto del censo, il
quale negli inizii comincia dall'essere una valutazione, che potrebbe chiamarsi
puramente economica dei singoli capi di famiglia, e poi finisce per cambiarsi
in una specie di valutazione politica e morale di tutti i cittadini. Cid
infatti è comprovato dalla trasformazione, che accade nel censore, che isti
tuito dapprima per la materiale formazione del censo, reputata in degna delle
cure dei consoli, finisce per acquistare tale un potere, da eleggere senatori,
fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere note di ignominia su chi venga
meno al pubblico o al privato co stume, prendere le persone da una classe per
confinarle in un altra, e trasportare a suo beneplacito tutta una classe di
popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o viceversa, e ad essere cosi
l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva, che i varii individui e le
varie classi recano al benessere delle città. 298. Infine è anche il censo, che
serve di base alla classificazione del populus nelle classi e nelle centurie.
Non è già, come alcuni credettero, che coloro, i quali non avevano un certo
censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a quella tribù; ina essi vi
erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure nella classe dei
proletarii, la quale secondo Aulo Gellio, « honestior aliquanto et re et nomine
quam capite censorum fuit ». Gli uni e gli altri non facevano di regola parte
dell'esercito, perché né la repubblica avrebbe avuto garanzia dell'interesse,
che essi avevano a combattere per essa, nè essi avrebbero avuti i mezzi per far
fronte alle spese per il proprio equipaggio. Quelli invece, che giungevano ad
un certo censo appartenevano agli adsidui, per l'assiduità appunto a compiere
il loro ufficio civile e politico (munus), sia pagando le imposte (ab asse
dando), sia ubbidendo alla leva, sia per la sede fissa, ove po tevano essere
cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes) (1). (1) Il criterio, che
servì a distinguere i varii ordini di persone indicati coi voca boli di capite
censi, proletarii, adsilui e locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo
GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà
367 I vocaboli di classi e di centurie, ed anche il luogo, ove si riu nirono i
comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo di convocazione di essi (per
cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le
riunioni di questi comizii, rendono verosimile il concetto stato svolto
sopratutto dal Mommsen, che questa riparti zione siasi presentata dapprima con
un carattere principalmente militare. Cið poteva anche essere opportuno per
ovviare a quella opposizione del patriziato e degli auguri, che aveva
incontrato l'an tecessore di Servio; e sembra anche corrispondere all'intento,
che si propone la comunanza serviana, che è quella di provvedere so pratutto
alla comune difesa. Egli è però certo, che se la costituzione per classi e per
centurie è negli inizii organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un
esercito, essa è però in condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea
di un popolo; perchè i suoi quadri possono essere allargati in guisa da non
comprendere solo un esercito, ma tutta la popolazione di una città (1). 299. Ad
ogni modo nel loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio
costituiscono un vero esercito, di cui venne ad allargarsi la base, in quanto
che nella sua composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla
discendenza, ma unicamente al censo. Nelle sue file possono essere compresi
tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o
regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella famigliare e
privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che i
proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità, e che i
capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in
quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo
spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo « rem saluberrimam
tanto futuro imperio, e chiama Servio a conditorem omnis in civitatem
discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid
interlacet ». (1) Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom., I, cap. VI, e col
Peluam, v° Rome, « Encych. Britann.., XX, pag. 731 che lo ha seguito, che
l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con quello
delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che
anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle
funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le quali
di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla circostanza, che
mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del censo, non dovesse
servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie classi aves sero ad
equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente militare mal potrebbe
conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: «tum classes centuriasque, et hunc
ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum, vel bello ». 368 dare se essi
entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere conto delle formalità
e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni esclusivamente patrizie. La
sua unità è la centuria, che nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini; le
centurie poi vengono ad essere aggruppate in classi, che sono in numero di
cinque, e che alcuni vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le
centurie, che vengono prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che
possono procacciarsi un completo equipaggio indispen sabile per coloro, che primi
debbono sostenere l'urto del nemico. Esse in numero di 80 costituiscono la
prima classe. Dopo vengono le centurie della seconda e terza classe, in numero
di 20 per ogni classe, le quali sono già meno completamente armate, ma
costituiscono con quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono
le centurie della quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e
questa di 20 centurie, reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che
serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi
diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores
(da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero
di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo. Ciascuno di
questi corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini)
ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la
forza normale della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle
legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di
legnaiuoli (fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines
et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano
assegnate. Per quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna
classe, il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle
origini dovesse essere valutato in iugeri (1). (1) È abbastanza noto, che il
censo per la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per
la terza di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500
secondo Dionisio; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la
fortuna dei cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera, e in de terminare
qual fosse il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio,
che l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal possesso delle
terre, argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist.
rom., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e
ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a cinque mila assi,
cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello
della seconda a 15, 369 Intanto però in questa organizzazione militare del
populus con tinuano a tenere un posto distinto le centurie degli equites. Di
queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi
et secundi, e sono ancora composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi
stanno a parte, son determinate dalla na scita, e costituiscono i sex suffragia;
poichè è da esse che si trae a sorte la centuria principium, quella cioè, che
sarà chiamata a votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono
ag giunte da Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi
ordini di cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare
che, pur ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa
organizzazione, basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per
togliere alla medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei
suoi quadri tutta la popolazione della città; trapasso, che non offrirà gravi
diffi coltà quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni
primitive di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo,
che si fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo
anche entrare in esso un contenuto diverso da quello, che sarebbe indicato dal
medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio; ora importa di
vedere lo svolgimento storico, che esse ebbero a ricevere e la con seguente
influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della
terza a 10, della quarta a 5 iugeri, e quello della quinta a 2 iugeri incirca,
ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi.
Röm. R.G., I, pag. 69-70. Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il
WILLEMS, op. cit., pag. 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al
riguardo, e il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites
e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti
lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum, Roma, 1888, e del
TAMAssia, I Celeres, Bologna, 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites
non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i
celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre
presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che
nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una
rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo
e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per
qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites, e
la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº
191, pag. 233 e 234. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 -
CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di
Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che
ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può
essere posta in dubbio, e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1).
Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che
attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli
annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai commentarii
di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu narsi i
comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non vere: ma
dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la
persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni
serviane, e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette
riprenderne lo svolgimento al punto stesso, a cui era stato interrotto. Ad ogni
modo se si tenga dietro alla evoluzione storica, quale si rivela negli
avvenimenti, si può affermare con certezza, che le istituzioni politiche di
Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non
mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia, combinati
perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana.
301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre
trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella, in virtù
della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus
romanus quiritium. Questa espressione (1) NIEBHUR, Histoire romaine, II, pag.
91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838;
Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém. de l'Acad.
des Inscript. et belles lettres », année 1866, vol. 25, pag. 107 a 223: Herzog,
Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig, 1884, I, § 5,
pag. 37 a 48; KarlowA, Röm. Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12, 13, pag. 64 a 85.
(2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non
sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 242. - 371
infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie,
venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e
delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites, che d'allora
in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che
ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario
(classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei
comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle
curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono
anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle
proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli
auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del
populus romanus quiritium, prendono il nome di patres o di patricii, come già
si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio
e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli
cioè di populus e di plebes; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè
quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città, i
ritentori degli auspicia e dell'imperium; quello di plebes, che designa
l'elemento, stato di recente ammesso nella medesima; e quello infine di
populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a
far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere
col Mommsen, che uno dei significati di populus sia stato quello di leva
plebeo-patrizia; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione
primi tiva del vocabolo; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano,
che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli (1) Le formole di
convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling. lat., VI, 86 a 95,
sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I classici testes sono poi
ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è
probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes
et libram, di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a
suo tempo al cap. IV, § 4 di questo libro. (2) V. sopra, lib. II, nº 198, pag.
240 e seg. e le note relative. (3) È questo appunto il concetto di populus,
quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio
infatti, Noct. Att., X, 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver
distinto il popolo dalla plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis,
omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes
civium patriciae non insunt », il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm.,
I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2. 372 uomini validi ed
armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia,
e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana (1). Questo
populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del
popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che
entrano a costituirlo; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di
proprietarii di terre, che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono
de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da
tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti
dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità
indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto;
ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed
il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose,
che da essi dipendono; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium,
che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo
(2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale
della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale, che
anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione
col medesimo. E così accade appunto del senato, il quale accompagnando lo
svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere
fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre, i quali
per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres, donde la formola patres
et conscripti, finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento, che
siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature
e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad
assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece
non accadde del magistrato, poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische
Forschungen, I, pag. 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre
dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le
trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia
che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan
DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8, colle note
re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente
dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro
l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali
più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta, anche nelle
magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli
altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi
sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già
potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo; mentre il
magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad
apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un
rappresentante imparziale del popolo. Di qui la conseguenza, che anche le
lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte
ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato
a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi
essen ziali della costituzione politica, e quindi si trasformano a poco a poco
le loro principali funzioni, che, come si è veduto, consistono nella formazione
delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della
giustizia, tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto
abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento, di cui potevano essere
capaci. Cid appare quanto al censo, il quale, come già si è accennato,
incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi
cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il
punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte
di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo, mentre lo
svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi
del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che
essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio,
che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia
dell'ordo senatorius; abbiamo gli equites, che perdono il carat tere
essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per
formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris, e
costituiscono una specie di aristocrazia del censo, (1) V. il cap. IV del
presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la
plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà, la quale, dopo aver lottato
coll'an tica, finisce per confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che
col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato
e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello
del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono
conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è
assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e
le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero
il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in
altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che
avesse rag. giunto certi limiti nel censo, il quale, fissato dapprima in iugeri
di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono
così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi
secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee meglio
organizzate, che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia
notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello,
per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano
essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie. Anch'essi
quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato, che
li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli
auspicia, debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle
deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella
votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di
cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo,
fondatore della città; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia, che
viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium, il cui
voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così
attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città, viene
il riguardo all'età, in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni
classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ),
malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli
inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni sono accuratamente
seguìte dal Madvig, L'État romain, trad. Morel, Paris 1882, tome 1er, pag. 135
e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto. Viene poscia la considera
zione del censo, in quanto che le centurie, che votano per le prime sono, dopo
le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e queste sono in
numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la maggioranza, senza
che più occorra di passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd
nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano
egualmente; ma, come già accadeva nelle assemblee curiate, l'esito definitivo
dipende dalla maggioranza delle centurie. Qui parimenti si presentano le
distinzioni fra comitia e contiones; come pure dovette introdursi eziandio la
distinzione fra comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si
compievano pei quiriti i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano
essere durati lungamente, perchè erano una semplice imitazione dell'antico,
senza che avessero lo scopo dei comizii calati delle curie, che era quello di
mantenere salda ed integra anche nella città la primitiva organizzazione delle
genti patrizie (2). Così pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori
della città, continuano ad esercitare una specie di prote zione e di tutela,
sotto il nome di patrum auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono
ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa
imitazione dell'antico non impe disce che tutte le principali funzioni vengano
a concentrarsi nei co mizii centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi
fondamentali dello stato, come le leggi Valerie-Orazie, la legislazione
decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da ultimo la legge Ortensia; sono essi
parimenti, che nominano i magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i
censori, quei magistrati insomma, il cui potere può essere considerato come una
suddivisione di quell'imperium, che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da
ultimo fu davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella
provocatio ad populum, che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie;
il che spiega comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero
dire a CICERONE, De leg., III, 19, 44: < descriptus enim populus censu,
ordinibus, aetatibus plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse
in tribus convocatus »; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II,
22. (2) L'esistenza di comizii calati, proprii delle centurie, è attestata
espressamente da Aulo Gellio, XV, 27, 1. (3) V. quanto alla patrum auctoritas
ciò che si è detto al nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il
console, abbia finito per rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da
cui poteva esservi appellazione al popolo, il quale venne cosi ad essere
direttamente investito della giurisdizione criminale (1). Intanto si comprende
eziandio come la lotta fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto
pareggiati, abbia dovuto concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e
come quindi il patriziato per assi curarsi una prevalenza nel seno delle
centurie, abbia dovuto dividere i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò
i medesimi potessero essere collocati nelle classi e possibilmente nella prima
di esse, la quale aveva una prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la
disorganizzazione delle genti, che erasi già iniziata colla costituzione di
Servio, con tinud necessariamente collo svolgersi delle istituzioni da lui
intro dotte; poichè quei clienti, che sotto l'impressione immediata del
benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini dell'antico patrono, se ne
emanciparono ben presto, allorchè il censo loro assicurò una indipendenza,
mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla stessa plebe. Conviene tuttavia
riconoscere, che la plebe negli inizii del l'organizzazione per centurie male
poteva riuscire nella lotta contro un patriziato reso forte e numeroso mediante
l'appoggio dei proprii clienti. Di qui la conseguenza, che la plebe resa
impotente alla lotta nei comizii per centurie, dovette appigliarsi a riunioni
che non avessero più la loro base nel censo, ma bensì nel luogo di residenza e
nel numero. A tal uopo la plebe, guidata ed organizzata dai proprii tribuni,
seppe trarre profitto di un'altra istituzione ser viana, che è quella della
tribù locale, ricavando da essa uno svolgi mento, che probabilmente non doveva
essere nella intenzione di quegli, che l'aveva istituita. 306. La tribù nella
costituzione serviana non era che una ripar tizione locale, fatta in uno scopo
essenzialmente amministrativo, cioè per fare il censo, per fare la leva
militare e per ripartire i tributi. Essa però aveva il vantaggio su tutte le
altre ripartizioni, che mentre le curie non comprendevano dapprima che i
patrizii, e le centurie e le classi non accoglievano che i locupletes od
adsidui, le tribù invece comprendevano anche i proletari, i capite censi, gli
aerarii; quindi in essa esisteva un germeessenzialmente democratico, (1) Cfr.
ciò che si è detto più sopra intorno alla provocatio ad populum nel pe riodo
regio, n ° 245 e 246, pag. 299 e segg. 377 che non poteva mancare di svolgersi
col tempo. Era infatti naturale, che i tribuni della plebe, per radunare la
medesima, non potessero indirizzarle il proprio appello, che per tribù
(tributim ), e che quindi si facessero già in questa guisa quelle prime
riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto le tribù, che avevano
dapprima un carattere essenzialmente locale e comprendevano realmente le
persone, che dimoravano in quel determinato quartiere, si cambiarono in effetto
in altrettanti quadri, in cui poterono essere compresi tutti i cittadini
romani, senza tener conto del sito effettivo, in cuiavessero la propria
residenza. Si avverò anche in questo, ciò che è accaduto in molte altre
istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base reale nei fatti, ma col
tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e in forme tipiche, in
cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro non potrebbe
appartenere. Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la più
comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale; la
indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del
cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più
democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto
dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii
centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca; si tengono perciò
nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe
del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i
comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione politica,
finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti, quando sono
giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii, quando
siano convocati da un magistrato, a cui questi appartengano, e sono convocati
solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non saranno
più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies fasti.
È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si dà per
tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende anche il
(1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO, Saturnales, I, 16,
$ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto P. Rutilio Rufo,
parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure, ad mercatum
legesque accipiendas Romam venirent ». Husche, Jurisp. antijustin., pag. 11.
378 nome di tribus principium. Nel seno poi di ogni tribù il voto è dato
viritim, e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla maggioranza
delle tribù. Questi comizii hanno però il vantaggio della più facile
convocazione, in quanto che possono essere convocati da magistrati patrizii e
da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i provvedimenti, che
essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici plebisciti, secondo
l'autorità che li propone (1); il che spiega come i comizii tributi si siano
gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso nell'ultimo periodo
della repub blica. Mentre essi infatti richiamano a sè la sola elezione dei
magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili con sole pene (1)
Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati e dei comizii tri
buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224, pag. 273 e segg. e
per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i plebisciti ai numeri
231, 232 e 233, pag. 281 e seg. Solo mi limito ad aggiungere che negli ultimi
tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare vere leggi, allorchè erano
convocati da veri magistrati, come consoli e pretori, oppure plebisciti,
allorchè erano convocati da tri buni della plebe. Trovo una prova di ciò
paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal Bruns. L'una è la lex
agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui intestazione è così concepita:
« tribuni plebei plebem ioure rogarunt, plebesque ioure scivit », sebbene in
tale occasione abbiano preso parte alla votazione anche i patrizii come lo
dimostra il fatto, che ivi si aggiunge: « Tribus principium fuit, pro tribu Q.
Fabius, Q. filius, primus scivit », il quale Fabio dovette probabilmente essere
un patrizio della gens Fabia (Bruns, Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è
la les Quinctia, de aqueductibus, dell'anno 745 di Roma, che è così intestata:
« T. Quinctius Crispinus populum iure rogavit, populusque iure scivit, in foro
pro rostris Aedis divi Iulii pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit;
pro tribut Sex... L. F. Virro primus scivit ». Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui
infatti appare ad evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della
plebe parlasi di plebes e di plebiscitum, ancorchè la riunione comprenda anche
i patrizii: mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso
chiama ai comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad
essere un populiscitum, ossia una lex nel senso primitivo dato a questo
vocabolo. La cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della
intestazione alla lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la
riunione dei comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe,
ancorchè in base ad un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi
perciò di convocazione della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p.
91). In questo periodo quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da
comizii tributi e la loro differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da
un vero magistrato (console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno
della plebe, che convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime
riunioni intervengano anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice
Pomponio, che « inter plebiscita et leges species constituendi interesset,
potestas autem eadem esset ». L. 2, 8, Dig. 1, 21. pecuniarie, finiscono invece
per assorbire tutto il potere legislativo. È a notarsi tuttavia, che mentre la
legislazione dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente
politico e costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli
ordini, quella in vece, che usci dai comizii tributi, ha un carattere
eminentemente sociale, e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto
privato (1). 308. Si può quindi conchiudere, che la costituzione serviana per
vade le istituzioni politiche di Roma per tutto il periodo repubblicano. I
concetti della medesima cominciano dall'avere una base nella realtà, ma
finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni logiche, a cui si dà tutto
lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa guisa il censo di
economico divien morale, le centurie di militari si con vertono in politiche,
le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui tutta la cittadinanza
può essere compresa, per quanto la me desima dimori eziandio fuori della città.
Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio, al pari delle mura che ne
portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a tutte le
trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per tutto quel
tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed istituzioni. Vero
è, che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su quelle, che erano
prima adoperate; ma conviene dire che « spiritus intus alit », e che questo
nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far loro capire un
contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche, quando siano
diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle nuove, ma sempre
sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma seguì costantemente
nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un analogo processo ap
pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e graduata, che ebbe a
ricevere il diritto privato di Roma, sovra il quale la costituzione serviana ha
certamente esercitata una influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia
essergli attribuita, come spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. (1)
Quanto alla legislazione comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI,
Storia delle fonti del diritto romano, Milano. La costituzione serviana e la
sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium. 309. Se fu agevole il
mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto
pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita, ma non meno
importante, che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato. A questo
proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si
arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle
istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio, che egli
pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti; che egli distinse i
giudizii pubblici dai privati; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei
debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La
probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non
può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi
profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse
eziandio nel diritto privato. Tut tavia è certo, che le mutazioni nel diritto
privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto
mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che
era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti, in cui esse venivano a
trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le
reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi
quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero
ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato, e che
possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione
serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per
aes et libram, i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium, la
distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti
insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV, 9, 11,
attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver
voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore;
ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza, che fa riportare a Servio
tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed
alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di
un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione
del primitivo diritto. Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi
rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce, quando siansi
collocati nel sito, ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere
del popolo, le sue istituzioni politiche, il suo metodo di serbare i vocaboli,
cambiandone anche il contenuto, ed il criterio informatore della riforma
serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette
iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue
linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso.
310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di
porre innanzi a questo proposito una congettura, la quale a prima giunta potrà
apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che,
procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto,
finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci
porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri
primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che
con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus
romanus quiritium, che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta,
così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria
elaborazione di quel ius quiritium, che fu ilnucleo primitivo di tutto il
diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo
svolgimento, non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad
assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana. Non si vuole già dire
con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium; ma quelli non
comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle
istituzioni di carattere gen tilizio, che erano proprie del popolo delle curie,
e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1).
Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della
legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia,
dalla quale risulta che la famiglia, la proprietà, il delitto e le pede
continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel
periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag. 329 e segg. 382
Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e
siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie, prendono il nome di
quirites, così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium, in
cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le
genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore, da cui esse erano
circondate, ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati
ai rapporti, che erano l'effetto della nuova condizione di cose. Si conservano
pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri,
che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di
terre; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario;
quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che
dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli, che dapprima designavano il
diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da
cui era circondata, vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius
quiritium, comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni
logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo
insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium,
di commercium e di actio, che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie
genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così
in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni
proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) (1); così quel ius nexi mancipiique,
che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe
circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium,
venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario. Fu in
questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira
ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne
presenta un'altra, che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle
classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto
i concetti del nexum, del manci pium, della manus iniectio (2). 311. Si
aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche (1) Questo è ciò che
ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326 e segg. (2 ) Cfr. a questo
proposito ciò, che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe,
anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383
a risentirsi delle circostanze sociali, in cui essi vennero a consolidarsi.
Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva
nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti,
cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo, che servi ad isolare
l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di
carattere diverso con cui trovasi confuso. Il diritto perdette cosi alquanto
del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o
sintetico sul concetto del mio e del tuo; esso inoltre assunse un'im pronta di
rigidezza pressochè militare, quale poteva convenire ad un popolo, che
presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano
l'asta come simbolo del proprio diritto, e « ma xime sua esse credebant, quae
ab hostibus caepissent ». Il censo viene in certo modo a misurare il contributo,
che ciascuno reca in questa specie di società, e quindi, mentre esso è la
stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve
anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune
difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che
dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il
punto di vista esclusivamente giuridico, facendo astrazione da tutti gli altri
aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate. Per tal modo il quirite,
come tale, non è più nè patrizio nè plebeo, ma viene ad essere isolato da tutti
i suoi rapporti gentilizii; si considera come un caput; conta come uno nel
censo, e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose,
che da esso dipendono. Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di
proprietà, che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium, e la
significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo
indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed
hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche, che esprimono
disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere
considerato (1). (1) Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo
plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui
persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi
insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il
diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del
proprietario sopra una cosa; ma siccome persone e cose figuravano nel censo,
come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico
comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o
della stessa familia. 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un
autore, che accenni a questa tacita elaborazione, ma la medesima risulta da
diverse circostanze, le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere
il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca
serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen, che una delle
significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata
quella di indicare la « leva patrizio plebea », leva che ha cominciato appunto
ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca
cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium, di
iura gentilitatis, di ius gentilicium, che dovevano essere ancora frequenti
durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di
ius quiritium, e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium.
Cosi pure non vi ha dubbio, che le altre forme di proprietà non vengono più
tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium, che vedremo a
suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium,
quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione
del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune:
come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così
serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere
quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad
essere l'emblema del diritto quiritario, che il populus assunse un carattere
essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a
quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium, tribunale essenzialmente
quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta, che si infiggeva
davanti al medesimo (3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1)
MOMMSEN, Röm. Forschungen, I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del
concetto di mancipium, e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec
mancipii mi rimetto al seguente lib. IV, cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3) L'origine
del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia
del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla. Per ora mi
limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo: «
festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quod
maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent; unde in
centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur ». Parmi infatti di scorgervi un
nesso, se non storico, almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come
un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò, che conquisterà
sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista,
sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii
giuridici, che potevano essere in uso, venne facendosi la scelta di quelli, che
si riferissero direttamente al diritto quiritario. Di qui le espressioni di
legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia, di negozii,
che si com pievano secundum legem publicam, espressioni tutte, che noi tro
viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento
storico, in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto
comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che
dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes
et libram, il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli
atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del
cittadino nella comunanza quiritaria. 313. Per verità basta porre l'istituzione
del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e
militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale
concetto fosse indispensabile: lº di determinare quali fossero le persone, che
dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio, che
è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium );
3º di determinare le forme pubbliche cium. Ora se vi ha epoca in cui il quirite
assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra, questa è certamente
l'epoca serviana; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto
informatore dell'hasta, della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si
adopera, e del centumvirale iudicium, che deve essere appunto preceduto
dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto
dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor.
Introd., pag. 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag.
168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana
l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente
combattuta dal WLASSAK, Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag. 131 a
139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non
abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere
assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di
sostenere, che non abbiamo una prova diretta, che l'esistenza dei centumviri
rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero; ma ciò non basta per
escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia
pervenuta notizia. È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di
antichità remota, e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è
proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo
romano, che rimonta appunto all'epoca serviana. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse
essere trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse
soprav venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram );
4º di richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del
quirite, fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens)
e colla testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza
(classici testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura, che debba
essere di preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio
sacramento ), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone
tolte dalle classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al
diritto stesso (cen tumvirale iudicium ). Non può certamente sostenersi, che
tutte queste istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico
diritto romano, possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana; ma
si può almeno affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del
concetto informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel
diritto di Roma trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di
istituzioni, in cui si ac centua il carattere quiritario, e come queste
acquistino un carattere prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di
carattere genti lizio sembrano per il momento essere lasciate in disparte.
Spiegasi parimenti come il mancipium siasi distinto dal nec mancipium; come
l'espressione pressochè militare di mancipium sia sottentrata a quella
gentilizia di heredium; come diversi siano i modi per la trasmissione delle res
mancipii, e di quelle che non sono tali; come i diritti del quirite
compariscano in certo modo come illimitati e senza confine, poichè egli,
essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad essere
riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si comprende
eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto quiritario, e
come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche fra i
cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni
gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius
quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico,
che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria,
che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al
patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus
quiritium. Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi, che prima
erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo
della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da
certi concetti, come quelli del nexum, del mancipium, della manus iniectio, che
eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore.
314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa
singolare formazione del ius quiritium, che doveva poi eser citare tanta
influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel
carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe
dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima
fra esse è la costituzione serviana, in virtù della quale all'organizzazione
essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella,
in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di
famiglia e di proprietarii di terre. Siccome infatti la famiglia e la proprietà
privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse
solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza. Quindi
un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui
si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo, che al punto
di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie, che si
frapponevano fra la famiglia ed il popolo, quali erano le genti e le tribù
primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel
patriziato; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius
quiritium nello stretto senso della parola, in quanto che di fronte al censo
più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle
proprie cose. Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle
istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata
nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il
diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si
cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere
essenzialmente militare. Quella distinzione pertanto fra res publica e res
familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio, ora viene
ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii
vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione
serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui
intercedevano così gravi differenze, era quello della comune difesa, e forse
anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il
nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente
militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto
ciò che riferivasi al connu bium, al culto gentilizio, agli auspizii,
continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio
del patriziato: quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini,
dove vano essere atti di carattere mercantile, quale era appunto l'atto per aes
et libram, il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni,
e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di
carattere quiritario. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio
emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del
proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale
punto di vista, a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo,
che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo
considerare i capi di famiglia come altrettanti capita, ed il complesso dei
loro diritti come un manci pium, ossia come una questione di mio e di tuo. Era
soltanto in questa guisa, che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza
poteva essere applicata quella iuris ratio, elaborazione propria del genio
romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli
elementi affini. Fu questo il processo, mediante cui il diritto potè essere
sottoposto a quella logica astratta, per cui le per sone perdono in certa guisa
ogni personalità concreta e diventano dei capita; le fattispecie si riducono ad
una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei
fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante
costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere
cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si
presenta più rigida, più esclusiva, fu certamente l'epoca serviana, perchè in
essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto
del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere
acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del
diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di
astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo, quale sa
rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva
chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un
lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle
tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più, ed è che senza un'astrazione di
questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei
quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella
comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di
terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e
costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì,
che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa, che nel suo
genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti
del vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà,
ma hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano
l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire
un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti, le cui linee son
dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei
giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente, che ci rende così difficile
il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo proposito
sono altamente persuaso, che questa dialettica non può essere sorpresa che alle
origini del diritto quiritario. Posteriormente infatti il numero infinito dei
particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im possibile di
comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio, mentre la sintesi primitiva del
diritto quiritario, le cause che ne determina rono la formazione, e la logica,
che ebbe a governarla, possono facil mente somministrarci la chiave per
comprenderne il successivo svi luppo. Lo studio di questa struttura primitiva
del diritto quiritario, sarà argomento del seguente libro, e conclusione del
presente lavoro. Per ora intanto, onde non essere costretto ad interrompere la
esposizione della struttura organica del jus quiritium col racconto degli
avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso, credo opportuno
di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui cercherò di
riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la plebe, che segui
nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la legislazione
decemvirale. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della
costituzione serviana, non impediscono, che tutti siano concordi nel
riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini.
Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale, sovra
cui potè misurarsi col patriziato, ed una assemblea, in cui potè impegnare la
lotta. Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo
Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli
eguali sotto un aspetto, tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri
aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito, nei comizii centuriati, nei
tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei
sacerdozii, e nel diritto (1 )? Finchè durd il regno di Servio Tullo, la lotta
non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso
Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era
nello spi rito della costituzione da lui introdotta. Egli quindi rinnovo a più
riprese il censo; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti;
concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo;
distinse i giudizii pubblici e privati; institui giudici privati per la
decisione delle controversie di minore impor tanza, e probabilmente eziandio la
Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della
parola, e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori (2). Fu in
tal le que (1) ARISTOTELES, Politica, ed. Bekker. Lib. V, pagg. 1301 e 1302.
Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE, De rep., I, 49,
allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit
conditio civium? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in
eadem republica ». Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la
dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno
stabile assetto; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse
civitatis statum putant ». (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a Servio
Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad essere
accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione della
storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla punto
dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion., IV, 22, 4, 10, 13. 391
modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che
continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come l'iniziatore
di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione
nel patriziato, come lo dimostra il fatto, che egli avrebbe dovuto confinarlo
ad abitare nel vicus patricius (1). Dopo Servio così il patriziato che la plebe
si trovarono di fronte ad un pericolo comune, che fu il tentativo di tirannide
di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e
mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið
dall'altra di comprimere il patriziato, non curandosi di convocare il senato,
nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti (2). – Ne consegui una sosta
nello svolgimento dei concetti ispiratori della costituzione serviana: sosta
forse più appa rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la
libertà di tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi
dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al
dispotismo di un solo. Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i
due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad
essere naturale, che l'evoluzione si ripigliasse, ritornando a quelle
istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero
essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti
Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio
Tullo, e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di
Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata
l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e
per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli autori poi, che ricordano il
passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che
il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a
vita, il consolato, magistrato duplice ed (1) « Patricius vicus, scrive Festo,
dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si
quid molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus opprimerentur ». Bruns,
Fontes, ed. V, pag. 351. (2) Dion., IV, 25; Liv., I, 49. Cfr. Bonghi, Storia di
Roma, I, pag. 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a
Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv., I, 60; Dion., V, 2. 392 annuo (1). Il potere
pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio, colla sola
differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile,
in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del
popolo romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum, o
rex sa crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus,
chiamato a presiedere il collegio dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il
potere sovrano non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero
in ciascuno di essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre
agli atti compiuti dall'altro. Che anzi, ad impedire che la continuità
dell'imperium possa essere interrotta col passare da un console ad un altro,
tocca al magi strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore, e
nel caso in cui egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere
coll'istituzione dell'interregnum, conservando il concetto ed il vo cabolo, che
erano già in vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle
lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della
dominazione romana, che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi
dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e gradatamente
suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo repubblicano; per
guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in
certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1)
Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente
mutato il carattere del potere spettante al magistrato, occorre in Dion., IV,
72-75; in CiceR., De rep., II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne
fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex maximus
dati soltanto dalla repubblica, mentre prima era il re stesso, che era il sommo
sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri,
Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p. 8 e 9; e il Willems, Le
droit public romain, pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa storica del fatto
sta in questo, che colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium,
comprendendo anche la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso, che
aveva finchè era ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del
popolo romano assume un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i
pon tefici, pur rappresentando il popolo come famiglia religiosa, continuarono
ad essere i custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato,
da cui erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per
parte dei patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e
segg., ove ho cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex, la patrum
auctoritas e la lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della
costituzione esclusivamente patrizia. 393 mentre le magistrature minori
(questori, edili) sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che
dapprima erano nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per
essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo (1). È in questo modo che
si spiega come mai siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella
forma di governo, senza che si alterassero le basi fondamentali della costi
tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle
guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa
rente concordia (2), come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere
tolti da famiglie ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i
consoli stessi, che propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè
rientrano nelle città, e consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad
populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli
esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una
lotta, che direbbesi un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato
nel conservare i suoi privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap
profittarsi di tutte le opportunità per ottenere concessioni novelle. Egli è
durante questa lotta, che già si pud scorgere come nella massa plebea venga
distinguendosi la plebe ricca ed agiata, la quale essendo pari in ricchezze
aspira alla comunanza dei connubii e degli (1) La specializzazione
dell'imperium del magistrato è uno dei processi più degni di nota, che presenti
lo svolgimento delle istituzioni repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari
del potere giuridico del capo di famiglia, parte da un'unità e sintesi potente,
a cui succede durante la repubblica una differenzazione, la quale,mentre è
determinata dall'incremento della città e dalle lotte fra patriziato e plebe,
obbe. disce però sempre alla logica fondamentale del concetto primitivo di
imperium. Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag. 5; Herzog, Op. cit., I,
§ 32, pag. 580 e segg., e ciò che si disse in proposito al nn. 201-204, pag.
245 e segg. (2) La diversità di trattamento, usata dal patriziato alla plebe,
nell'epoca che seguì immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore
alla morte di Tarquinio il Superbo è accennata da Liv., II, 21, 6 e da
Sallustio, Hist. fragm., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii
esistevano già prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza, che prima
era adoperata. Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum, che Livio
chiama « unicum libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii
della repubblica colla lex Valeria, proposta dal console Valerio Pubblicola. La
provocatio doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una
espressa consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far
parte del populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245, pag. 300 e 301. >>
394 onori, e la plebe povera e minuta, che sopratutto teme il carcere privato
dei creditori patrizii, e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus,
mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza,
accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di
questa lotta, che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo, cosicchè una
sommossa provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può
condurre alla istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una
mozione per restringere l'arbitrio del magistrato, finisce per riuscire ad una
proposta di generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo
conflitto, che le proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti
ad un tempo, anche di natura diversa, e cid perchè essi mirano a tenere unite
la plebe ricca ed agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa
lotta si mantiene quel carattere pressochè contrattuale, che ha governato la
formazione della città; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e
ad accordi, stipulano dei foedera, e cercano persino di dare aime desimi quella
consacrazione religiosa, che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges
sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria
coesistenza nella città, minaccia di abban donare la comunanza e di fermare
altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo
obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere
essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non
appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere
determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei
fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una
sola, cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini; ma
essa prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora
dall'arbitrio del magistrato, ora (1) Questa distinzione della plebe in due
parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
Rep. Rom., pag. 24. (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam, la
quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta ».
Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti,
che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano
popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma.
Cic., De domo, 20, 53. Festo, vº Satura. Cfr. WILLEMS, op. cit., pag. 184. (3 )
V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ
potestatis natura eiusque origine. Leipzig, 1883. 395 dalla ripartizione
dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto, ed ora infine dal divieto
dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima
dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal modo quella plebe, che memore
dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita, si contenta di
chie. dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che
quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da
questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e
politico, ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i
suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii
tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis.
situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si
agito fra il patriziato e la plebe, ma piuttosto di cercare quali fossero le
condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto
privato. È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo
di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte
politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che
accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le
testimonianze, che ci pervennero in proposito, sono del tutto contradditorie.
Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai
contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che
tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia, e che
tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima (3). Non vi è quindi altro
modo di uscire dalla difficoltà, che di argomentare lo stato del diritto
privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi. (1) Un
riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol
gersi la lotta, fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto,
occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd., part. II, sect. 17, pag. 83-88. Per un racconto
più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II,
pag. 111 a 217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare
svolgimento della costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië
tributi ai numeri 233-34, p. 271 e segg.; dei plebisciti ai numeri 231-32-33,
pag. 281 e seg.; e dei tribuni della plebe n ° 249, pag. 292 e seg. (3 ) Dion.,
V, 2; Pomp., Leg. 2, § 3 (Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del
diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa
perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa
sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto, che in questo periodo quell'attrito
delle classi, che appare nel campo politico, dovette avverarsi eziandio nel
dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le
tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la
magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime
sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata,
malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare
l'organizzazione della fa miglia patrizia. Di più siccome eravi fra il
patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di
connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium,
comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed
il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere
mercantile, che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto
all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes
et libram. Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il
tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie
classi e poscia dalle varie tribù, rimonti all'epoca di Servio Tullio,
converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente
presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione
del jus qui ritium, come quello che anche più tardi appare chiamato a ri
solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera
tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai
decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca
distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei
tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le
questioni di stato (2 ). Infine è (1) Quanto all'istituzione dei centumviri e alle
varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo precedente, nº
312, pag. 384, nota 3. (2) È del tutto incerta anche l'origine dei decemviri
stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi sarebbe quello,
che occorre in Livio, III, 55, il quale parla di iudices decemviri, stati
dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della plebe colla
legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK, Römische
Processgesetze, Leipzig, 1888, pag. 139 a 151, sostiene che i decemviri
stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di Livio ma
sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che giudicavano
delle questioni di libertà e distato. Cic., pro Caec., 33. V. per l'opinione
comunemente ricevuta Keller, Il processo civile romano (Traduz. Filomusi,
Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a Servio Tullio,
come giudici per le cause 397 pur probabile, che gli edili della plebe, come
ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a risolvere
quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle fiere, e che
comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle costumanze della
plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo il console,
pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si riferisce
alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia, lasciare
una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo collegio
infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato alla
custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio
ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza
maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex
maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende
pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono
il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica, come
riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei
primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium, come di una scuola a
cui venne poi formandosi il ius civile (1). Intanto è naturale, che i pontefici,
come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per iscopo di
applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo collo
svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero continuando
quella elaborazione di un ius quiritium, che erasi iniziata dal tempo, in cui
la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320. Insomma la
conclusione ultima viene ad essere questa, che in questo periodo dovette
avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le costumanze
plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno a quel
diritto, che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e la plebe.
Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il giudice
di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai iudices
selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi sopra i
numeri 262 e 263, pag. 321 e seg. colle note relative. Si occupò molto
largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm. R. G., 1, $ 43, pag. 219 e
seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei
pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm. Literatur, Leipzig, 1882, SS 70-76,
pag. 114 a 119. 398 il console, chiamato ad amministrare la giustizia, finiva
per non avere alcun confine al proprio arbitrio, il che doveva essere grave
alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto
esclusivamente dall'ordine patrizio, poteva ritenersi favorevole a quest'ultimo.
Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse dal chiedere
che fosse eletta una commissione, che determinasse per iscritto quale fosse la
giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all' arbitraria ed
oppressiva ammini strazione di ciò, che essi chiamavano col nome di diritto e
di legge (1). Fu solo nell'anno dopo, che d'accordo coi colleghi, per togliere
alla sua proposta il carattere di odiosità contro il potere dei consoli, egli
chiese che la legge, così pubblica come privata, dovesse essere codificata, e
che cosi ogni incertezza venisse per quanto si poteva ad essere rimossa.
L'importanza della questione viene ad essere provata dalla lotta di dieci anni,
che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima; poichè solo nel 303 di
Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale. Qui non può essere il caso
di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di parlare dei tentativi di
rico struzione, che se ne vennero facendo anche in questi ultimi tempi (2): mi
basterà invece dir qualche cosa intorno al carattere generale di questo codice,
da cui doveva prendere le mosse tutto lo svolgimento posteriore del diritto
civile di Roma. A mio avviso la legge decemvirale e la legge Canuleia, che la
segui a poca distanza (309 di Roma) ed aboli il divieto de' con nubii fra il
patriziato e la plebe, debbono essere considerate, quanto al diritto privato di
Roma, come l'avvenimento che chiude il periodo delle origini ed apre quello
dello svolgimento storico della giuris prudenza romana. Colle leggi delle XII
tavole si chiude in certo modo il periodo del ius non scriptum, di quel diritto
cioè, che viveva più nelle consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe
riodo del ius scriptum, poichè da quel momento anche l'interpre tazione
cominciò ad avere la sua base nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9.
Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del
diritto romano, pag. 5 a 9. È poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione
delle XII Tavole si riducono a quelli di Jacopo Gottofredo, del Dirksen e a
quello recentissimo del Voigt, già più volte citato. (3) Non voglio dire con
ciò, che prima non esistessero delle leggi scritte: ho anzi dimostrato che
dovettero esservene fin dal periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole,
che si introdusse tutto un sistema di legislazione scritta, il quale potè
servire 399 esso parimenti termina il periodo del ius non aequum, ossia di un
diritto disuguale fra patriziato e plebe, e comincia il periodo del ius aequum,
ossia la formazione di un diritto eguale per l'uno e per l'altro ceto, il che
gli autori esprimono con dire, che le leggi delle XII Tavole erano intese ad
aequandum ius e ad aequandam libertatem (1). Con esso infine termina il periodo
della indistinzione del fas e del ius, al modo stesso che già si possono
scorgere i principii del diverso indirizzo, in cui si pongono il diritto
pubblico e il diritto privato; dei quali il primo continua a svolgersi nelle
lotte della piazza e del foro, mentre il secondo comincia ad apparire come il
frutto della tacita elaborazione prima dei pontefici e poscia dei
giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche la legislazione decemvirale
deve essere considerata come un compromesso fra i due ordini e in certo modo
come una specie di patto fondamentale della loro coe sistenza nella medesima
città (2 ). Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè comprendono un sistema
compiuto di legislazione pubblica e privata, nè rinnovano tutte le disposizioni
che già erano contenute nelle leggi regie: ma sembrano il più spesso limitarsi
ad introdurre sotto forma imperativa quei provvedimenti, che potevano essere
stati oggetto di discussione e di lotta, il che è sopratutto evidente quanto
alle disposizioni, che si riferiscono al diritto pub come punto di partenza
alla iuris interpretatio ed alla disputatio fori, di cui parla Pomponio, L. 2,
§ 5, dig. 1-2. Quanto ai caratteri particolari di questa interpre tatio dei
veteres iures conditores, vedi JHERING, Esprit du droit romain, III, pag. 142 e
segg. (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai decemviri « se quantum decem hominum
ingeniis provideri potuerit, omnibus, summis infimisque iura aequasse ». Di
quianche l'espres sione, che occorre in Livio ed in Tacito, che le leggi delle
XII Tavole fossero il fons omnis aequi iuris, ed anche il finis aequi iuris,
perchè esse, a differenza di altre leggi, non furono il frutto di una sorpresa,
ma di una vera transazione ed accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi
nel RIVIER, Introd. Histor., Bruxelles, 1881, pag. 163 a 167, come pure nel
Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 7 e note relative. (2) Questa specie di
compromesso appare dalle parole che Livio, III, 31 attribuisce ai tribuni della
plebe: « finem tamen certaminum facerent. Si plebeiae leges displi « cerent, at
illi communiter legum latores et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque «
utilia forent, quaeque aequandae libertatis essent, sinerent creari ». Di qui
rica vasi anche un argomento per inferire, che la legislazione decemvirale
suppone già una specie di fusione del diritto delle genti patrizie con quello
della plebe, il che sarà meglio dimostrato più oltre. 400 blico, e per quelle
che riguardano l'usura e il trattamento che il creditore può usare contro il
debitore (1). Cid spiega anche in parte la sobrietà e la concisione della
legislazione decemvirale, la quale, senz'entrare nella descrizione degli
istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre dei concetti sintetici e
comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica, lasciando poi alla
interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze, di cui potevano
essere ca paci (2). Di qui derivano eziandio la venerazione e la riverenza, in
cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano; la differenza
che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e quelle che si
vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto incontrastabile,
che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei proprii dettati, ha
finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero di legislazione.
Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la storia del diritto
primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione
decemvirale, consiste in questo, che siccome le XII Tavole furono il primo
codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto,
esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle istituzioni,
che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano. In esse
infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti
patrizie, il che si avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia
e alla successione e tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei
gentili, istituzioni che i giureconsulti ci dicono appunto essere state
introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In esse parimente (1) Così, ad
esempio, la legge secondo cui a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne
ferunto » mira certamente ad impedire, che le accuse capitali potessero re
carsi innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della plebe avevano più volte
tentato di fare, come lo dimostra, fra gli altri, il processo contro C. Marcio
Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la legge: privilegia ne
inroganto. Cic., de leg., 19, 44. (2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII
Tavole già si appalesa il genio giu ridico di Roma, sia perchè esse già
comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per il carattere obbiettivo e
pratico delle singole disposizioni. Vedi HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I,
117. A parer mio esse dimostrano eziandio, che l'elabora zione giuridica era
già pervenuta molto innanzi, in quanto che già si dànno come formati i concetti
del nexum, del mancipium, del testamentum, senza che occorra di indicarne il
contenuto. (3) Se prestiamo fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte
direttamente dalla legislazione decemvirale le successioni e le tutele
legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici
sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di
porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si
trovava, e procurarsi invece una posizione di diritto; come lo dimostra fra le
altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual
mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili,
e qual modo di acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione
decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel
rigido ius quiritium, che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle
altre istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum,
del mancipium, del testamentum, dell'atto per aes et libram, nei quali tutti il
quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in
certo modo a convertirsi in legge: « uti lingua nuncupassit ita ius esto » (2 ).
322. Questi varii elementi di origine diversa, che insieme ad alcune
disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è
pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma
giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in
proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione
del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg., e sopratutto a pag.
184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg., cap. IV, § 3, trattando
della mancipatio cum fiducia. (2) V. cap. precedente, relativo all'influenza
della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium. (3) V. Lattes,
L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole. Milano, 1884. Non può qui essere il
caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in Grecia e ne
quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di
un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il
seguente libro proverà fino all'evidenza, che le basi fondamentali del
primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già esistenti fra le
genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente romani così il
modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il processo logico e
storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia pertanto di certi
istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine ariana, o dalle
condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e le elleniche nel
passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina; mentre
l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la cui
origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che non
disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria superiorità
in tema di diritto. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 10 a 16, dove pare si
trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono all'argomento.
Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a
ciò che ho scritto nella Vita del diritto, pag. 179 a 194. 1. CARLE, Le origini
del diritto di Roma, 26 402 formarono il substratum della legislazione decemvirale,
finiscono dopo di essa per svolgersi contemporaneamente e quindi con essa può
dirsi aver termine il ius quiritium propriamente detto, e cominciare. invece
l'elaborazione di un ius proprium civium romanorum, in cui continuarono però a
perdurare le primitive istituzioni del ius quiritium. Ciò ci è dimostrato
dall'attestazione di Pomponio, se condo cui tutto quel diritto, che venne a
formarsi sulla legislazione decemvirale, mediante la iuris interpretatio, la
disputatio fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere
indi cato col vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto
quel singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della
giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato,
havvene una parte, che continua sempre ad essere in via di formazione. Per
talmodo accanto al ius quiritium, iniziatosi sopratutto colla costituzione
serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla
legislazione decemvirale; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium,
elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora,
secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi
detto ius extraordinarium (2 ). Parmi quindi giusto il ritenere, che colla
legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette,
in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale, e comincia
il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di
ritto pubblico e privato, già procedendo separate le une dalle altre, debbono
anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo. È a questo punto
pertanto, che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel
primitivo ius quiritium, che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di
tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica
potente, che strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la
bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per
la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie
origini, non ha cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi
perdonare l'audacia del tentativo. (1) KUNTZE, Ius extraordinarium der
römischen Kaiserzeit. Leipzig, 1886. (2 ) POMP., Leg. 2, SS 5 e 6, Dig. (1-2).
LIBRO IV. Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La
struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E
opinione pressochè universalmente adottata, che il primitivo diritto di Roma
porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato
in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata,
determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui
trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della
formazione del ius quiritium, nel momento in cui per opera della costituzione
serviana comincio ad essere comune alle due classi, mi conduce a conclusioni
alquanto diverse. Questo ius quiritium, se nei vocaboli può ancora portare le
traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il
risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a
trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento
di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto
privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium,
e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che
doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di
seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici,
anche oltre gli stretti confini del ius quiritium. Il motivo è questo, che
anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a
parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle
origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto
romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua
lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era
stata iniziata; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi
occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una
conseguenza logica di fatti, che si avverarono nel principio della formazione,
e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata. 404 - che potevano
accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento
giuridico da tutti gli altri punti di vista, sotto cui i fatti sociali ed umani
possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace; i suoi
concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche, in cui esso si
manifesta; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si
trasportano da uno ad un altro negozio giuridico; la coerenza organica delle
sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica, di
cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui
esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni
so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di
esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che
concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso
nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo
genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a
vocaboli tolti dalle scienze fisiche, chimiche e naturali, perché è soltanto
nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle
analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In
esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e
coerente, che anche un giureconsulto, preparato da una lunga edu cazione
giuridica, stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con
dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale,
guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte
giuridica, che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui
esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario
infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi, di cui esso
si vale; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che
i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti
politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e
costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica
astratta, che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica
giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più
vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii
atteggiamenti, sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito
infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite, in quanto si
considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche,
deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero
della parola. Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è
l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto
l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale
soltanto, che egli conta nel censo serviano, ed è come tale eziandio, che esso
si presenta nel primitivo ius quiritium. Esso inoltre è anche un'astrazione
sotto un altro aspetto, in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i
vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto, e lo
concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo
considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza, e
in quanto è tale, gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale
capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come
proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose; come credi tore può anche
appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il
corpo, se concorra con altri creditori; come testatore pud disporre in
qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere.
Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in
quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa,
come il magistrato del proprio imperium, ed in allora si cercherà di porre dei
limiti al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come
testatore, come padrone; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene
l'optimum ius quiritium, è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto
giuridico non subisce limitazione di sorta. Il quirite poi, in base al censo
serviano, riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di
proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due
concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro, cosicchè, quale padre di
famiglia, esso apparisce come un proprietario, e per essere proprietario deve
essere un capo famiglia; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e
di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1). (1) V. in proposito il
Voigt, Die XII Tafeln, II, pag. 10 e 11, note 5 e 6, ove son citati varii passi
da cui risulta, che la familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig.
(50, 15 ). Cid pure accade del mancipium, il quale talvolta è preso in
significazione così larga da comprendere non solo le cose, ma anche le persone
406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in quanto unifica in sè
medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero, cittadino, in dipendente
nel seno della famiglia. Esso conta per uno, ma intanto rappresenta molte
persone ad un tempo: cosicchè anche la proprietà, che trovasi posta in suo
capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia, sotto il punto di vista
giuridico viene invece ad essere considerata come una proprietà esclusivamente
propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che l'imperium del quirite nella
propria casa viene ad essere foggiato sulmodello stesso del regis imperium per
quello che si riferisce alla città. Esso ha impero sulle cose e sulle persone,
al modo stesso che il magistrato ha l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed
anche l'altra podestà, sotto il punto di vista giuridico e politico, non hanno
confine, sebbene nella realtà siano contenute in stretti vincoli dal costume
pubblico o privato. Di qui la conseguenza, che mentre questo è il momento
storico, in cui ap parisce più senza confini il potere del padrone sugli
schiavi, quello del marito sulla moglie, quello del padre sui figli, noi
intanto ab biamo tutti gli argomenti per credere, che fu appunto questo il
tempo, in cui fu migliore la condizione degli schiavi, volontariamente
accettata la subordinazione dei figli e della moglie, e quello in cuiil potere
del padre, cosi esorbitante nella sua configurazione giuridica, nella realtà
non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu sopratutto in questo primo periodo, che
i figli dei servi erano allevati con quelli del padrone; che le mogli, mentre
giuridicamente potevano essere ripudiate, nel fatto non conoscevano il divorzio;
che i figli prova vano la severità del padre, non tanto nelle pareti
domestiche, quanto piuttosto, allorchè egli investito del pubblico potere
giungeva a soffo care gli affetti del sangue per far rispettare l'imperium, di
cuitro vavasi insignito (1). dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra
l'espressione conservataci da Gellio, secondo cui la mater familias è in manu
mancipioque mariti. XVIII, 6, 9. Ciò però non toglie, che il vocabolo familia
significasse di preferenza il complesso delle per sone, e quello di mancipium
il complesso delle cose, che erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid
apparirà meglio in questo stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto
del mancipium, e delle sue varie significazioni. (1) La causa di questo contrasto
tra l'ordinamento giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima
sarà meglio posta in evidenza al cap. 1, § 1°, ove si discorre del ius
connubii. Quanto alla figura del padre di famiglia patriarcale durante il
periodo gentilizio, vedi sopra il nº 94, pag. 119. 407 326. Se non che è ovvio
il chiedersi, in qual modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed
efficace la figura del quirite. Io non dubito di rispondere che questa
concezione dell'uomo sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, se per una parte
fu determinata dalle condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche
l'effetto di una potente astrazione giuridica, compiuta da un popolo con un pro
cesso mentale non diverso da quello, che seguirebbe un giureconsulto moderno.
Gli elementi preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella
figura del capo di famiglia, e nel concetto della proprietà, che a lui
apparteneva. Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al
giureconsulto, i due concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati
dall'ambiente, in cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri
rapporti di carattere gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo,
in cui persone e cose dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa
figura tipica del quirite, che è soldato ed agricoltore, capo di famiglia e
proprietario, individuo e capo gruppo, il quale sotto un aspetto è una realtà e
sotto un altro è già una astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi
delle due istituzioni fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali
vengono a presentarsi nel ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla
costituzione serviana, An ch'esse sono tratte dalla realtà, e sono due ruderi
dell'organizzazione gentilizia, nel senso vero e proprio della parola, salvo
che, traspor tate nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le
circon dava, fanno su chi le considera un effetto analogo a quello di quei
ruderi delle mura serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella
Via Nazionale di Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e
la famiglia debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in
quanto che esse non sono la pro prietà e la famiglia, quali effettivamente
esistevano, ma sono il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e
l'altra sono iso late da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che
nella realtà ne moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale,
non è più nè il gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo, ma è un
capo famiglia, considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone,
che da lui dipendono; cosi l'aureola del buon co stume, del consiglio domestico,
del consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio, della religione,
di cui il padre antico era il sacerdote, viene a scomparire pressochè
intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi,
giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo,
e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium
o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di
una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto, se si
fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite
effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere,
cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e
sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere
in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa, e trasmessi col
medesimo atto. Anche ciò non deve ritenersi come indizio, che per i Romani la
potestà del padre si confondesse colla proprietà: ma è unicamente il frutto di
una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare
per il crogiuolo del censo, venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto
del mio e del tuo. Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu
una grande ventura per il diritto romano, che il medesimo fosse cosi costretto
a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà, in quanto che non eravi
certamente altro concetto, che potesse meglio acco modarsi a tutte le
applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi
alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità,
mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le
deduzioni, di cui poteva essere capace, e per tal modo il diritto potè appa
rire in certi casi inumano e crudele, ma la costruzione giuridica venne ad
essere più logica e più coerente. Cosi deve pure attribuirsi ad una
elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato
e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto, per cui quella
proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia, giuridicamente
in vece venne ad essere considerata come spettante ad un individuo, che poteva
disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo modo di combinare il
concetto della proprietà famigliare, che era proprio del patriziato, con quello
della proprietà privata ed individuale, che era la sola, che fosse conosciuta
dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà diedero origine a
quella singolare istituzione della proprietà quiritaria, che nel costume si
ritiene della famiglia, e in diritto si considera come esclusivamente propria
del padre, per 409 cui tutto ciò, che acquistano gli altri membri della
famiglia, a lui solo appartiene (1). 328. Fermo cosi nelle sue linee generali
il concetto fondamentale del quirite, quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del
censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i
varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato, abbiano potuto
essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante concezioni
giuridiche foggiate sullo stesso modello. Il quirite infatti costituisce in
certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva
essere concepita, e come tale può essere considerato: – o in quanto sta, ossia
nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana:
- o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti
con altri quiriti. In quanto sta, ossia in quanto egli tiene uno status, questo
può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad
avere un caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite; una
manus, che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure
quiritium; un mancipium, il quale implica parimenti nella sua significazione
primitiva così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto
quiritario. È poi degno di nota, che tutti questi vocaboli, in cui viene ad
essere racchiusa l'individualità giuridica del quirite, hanno una
significazione mate riale e giuridica, concreta ed astratta ad un tempo. Cosi,
ad esempio, il vocabolo caput, mentre da una parte indica la parte più nobile
ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale
del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo;
quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e
l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo efficacissimo
dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi determinati poteri;
e quello infine di mancipium da ma nucaptum, mentre da una parte significa una
cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus, non può sfuggire alla
mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di sottomissione giuridica, in
cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da essa dipendono. (1) Questo
carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui essa potè
formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg., $ 6, ove si discorre
dell'origine del dominium ex iure quiritium. 410 Questi varii elementi poi,
intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente; poichè,
tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico, la manus viene in certo
modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium
che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite
viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche
possono essere richiamate: al connubium, da cuideriva, si può dire, tutto il
diritto, che si riferisce alle persone; al commercium, in cui si com pendiano
tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose; all'actio, da
cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere
qualsiasi suo diritto: vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione
materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono
a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto
informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a
quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si
possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi,
che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal
periodo gentilizio, perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per
indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio, della manus per indicare
il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone
che gli erano soggette; come pure in esso, già si erano preparati i concetti di
connubium, di commercium e di actio. Vi ha però questa differenza, che mentre
questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle
varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende
nella co munanza quiritaria, ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività
giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che
mentre questi concetti un tempo avevano una significazione, che era determinata
dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati
dall'ambiente stesso, si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e
come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente
diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. (1) Il
naturale processo, in base a cui venne formandosi un diritto fra le varie
genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg., pag. 117, e quello per cui i
concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti quiritarii
trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel suo status. § 1. – Il censo
serviano e la genesi dei concetti di caput, manus, mancipium. 329. Anche oggidi
il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius quiritium, consiste
nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da
quell'ambiente religioso e gentilizio, in cui erasi formato, e come esso abbia
potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono
quelli di caput, manus, mancipium. Come mai potè accadere, che quel ius, che
presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel
mos (1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza
e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello
della religione e della mo rale? In qual modo parimenti potè accadere, che un
diritto, il quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi «
necessi tate exigente et rebus ipsis dictantibus », siasi iniziato con sintesi
potenti, che inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti? Son note
in proposito le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che
furono poste innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una
risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia,
che per comprendere le istituzioni di un popolo, sia sopratutto indispensabile
di spogliarsi delle idee del tempo, per trasportarsi nell'ambiente e nel
pensiero del popolo, fra cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo
che il solo modo per giungere a comprendere questa singolare formazione del ius
quiritium e la significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di
ricostrurre in base alle condizioni economiche e sociali, in cui si trovavano
il patriziato e la plebe, quella comunanza quiritaria, (1) Il carattere
eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu
dimostrato più sopra, lib. I, cap. V, pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti
fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il
periodo della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle
leges regiae fatta ai nn. 268 a 270, pag. 329 e segg. 412 la cui formazione
ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio.
330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe,
anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i
costumi, nè l'organizzazione gentilizia, nè i connubii, che sono il fondamento
dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse
accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome
di ius com mercii, ma bensi con quello di ius nesi mancipiique; il quale
consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria
persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel
territorio romano (1). È quindi evidente che, se era possibile una comunanza
fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere
religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere
esclusivamente economico, giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per
formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il
ius, nel senso stretto e rigido della parola, dal fas e dal mos, con cui prima
trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie. Questa selezione
erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia,
poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla
privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia (2); ma
la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di
un elemento, a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la
rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium, allorchè cominciò
ad essere comune al patriziato ed alla plebe; poichè da quel momento esso venne
ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale, che dominava il
periodo gentilizio, e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua
propria. Se non che, anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola,
non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto
alla condizione della plebe, il lib. I, cap. IX, pag. 180 a 196, e quanto al
ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160, pag. 198 e 199, come
pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia
supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti,
operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia,
fu dimostrato nel libro II, cap. IV, SS 1º, 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413
nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini,
o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro. Quindi
anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che
per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei
rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla
stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la
plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della
comune difesa, così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un
carattere più esclusivamente militare, che prima non avesse. Siccome parimenti
gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra di loro,
erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo, e alla
proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune ai due
ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni
fondamentali della proprietà e della famiglia. 331. Di cid è facile persuadersi
quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano
partecipare alla stessa comunanza. Da una parte eran vi i membri delle gentes
patriciae, i quali ancorchè fossero i fondatori della città, continuavano però
sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli altri
(famiglie, genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il popolo
primitivo era diviso per curiae, le quali erano appunto for mate ex hominum
generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto della
individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei diversi
gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno
esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia, fondata sulla
agna zione, e riunita sotto la potestà del padre. - Dall'altra parte in vece
eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui rimasti liberi
dalla clientela, o immigrati da altre città, o traspor tati da popolazioni
conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di
famiglie, le quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma
piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione (1 ). (1)
V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib. I, cap. IV, e
quanto alle condizioni della plebe, il lib. I, cap. IX. 414 Queste differenze
poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si
riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti
continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva
dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse
già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata, la quale era
designata col vocabolo di heredium. Questo consisteva nell'assegno, che le
varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a
matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia, ed era a somi glianza di esso,
che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci
un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium. Il medesimo quindi
costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva
essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia, ma doveva
invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva
indiviso (ercto non cito ); ma intanto, essendo già intestato al capo di
famiglia, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata.
Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia, non poteva
neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager
compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti
sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o
di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia, o che loro erano
stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che
questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla
medesima accordato, più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia,
poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi
agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo
dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a
quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al
punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è
evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium, come forma della
proprietà famigliare nel periodo gentilizio, vedi il nº 56, pag. 70; ma devo
aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza
esistente fra l'heredium ed il man cipium, nè aveva cercato di spiegare come
perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium
il concetto di mancipium. - 415 censo, dovendo comprendere i due ordini, non
poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo
quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la
famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così
avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano
probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto
comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita; poichè fra
essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non
avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo,
come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli
altri; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte, quella cioè di dare al
censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto
compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base
territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli
uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per
famiglie, ma per capita, attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia
significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare, che era
appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si
fosse trattato di censire le proprietà patrizie, si sarebbe dovuto prendere
come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale
sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie; ma volendosi
anche censire i possessi e gli stanziamenti della plebe, convenne di necessità
prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso,
che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium, e ai plebei sotto quello
di mancipium. Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo,
che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata
acconciamente col vocabolo di here dium, il quale era pur sempre una
istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello
di mancipium, il quale, oltre al rispondere perfettamente ai concetti di caput
e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la
proprietà e il possesso, e di esprimere con potente efficacia quel carattere di
proprietà esclusiva ed individuale, che veniva ad assu (1) Gellio, XV, 28, 4.
416 mere quel patrimonio, che nel censo era intestato ad una deter minata
persona. La conseguenza intanto fu questa, che nella comunanza quiritaria,
formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu
isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio, in cui esso prima si trovava,
il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui
esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia
come capi di famiglia e come proprietarii di terra; ebbero un complesso di
diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium. Così pure la
comunanza quiritaria, avendo una base economica, venne a considerare ogni cosa
sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi
nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è
inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso
adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche, che
si adattino per la formazione del censo, l'individualità giuridica di questo
quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste varie
rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più esatti e
precisi di quelli di caput, manus, mancipium. Nella categoria del caput verrà
il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come capo di
famiglia, e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età, della tribù
locale a cui appartiene, la cui indicazione finirà anzi per formar parte delle
denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda rubrica invece
saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a
costituire il gruppo, di cui egli è capo, sulle persone cioè, che siano in manu,
in potestate, in mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par
tire dalla moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti
questi poteri vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza
categoria infine comparirà il mancipium, ossia il complesso delle persone e
delle cose, che costituivano il vero patri monio del quirite, in quanto egli
era un capo di famiglia indipen dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a
cui il cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del
medesimo, appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il
MICHEL, Du droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto
non potrà più comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene
al capo di famiglia, ma alla gente; né le mandrie e gli armenti, che pascolano
in questo ager gentilicius; né eziandio le possessiones, che si possano avere
nell'ager publicus; nè la pecunia circolante, il cui ammontare pud essere
variabile e non si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è
quella richiesta per un censo; ma dovrà invece com prendere soltanto quella
proprietà, che costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e
pressochè tipico di un capo di fa miglia agricola, nelle condizioni economiche
e sociali in cui trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti,
per chi tenga conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro
istituti sul medesimo tipo, che quel mancipium, che doveva figurare nel censo,
quale patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità
dei casi ad essere configurato nella istessa guisa. Per verità se trattavasi
dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia,
il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager
gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e
della sua famiglia; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che,
salve le proporzioni, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti
facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui
consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi
nore di iugera, o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del
tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere
del quirite. Che anzi non è punto impro babile, che nella formazione del censo,
dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a
costituire questo man cipium, anche queste fossero raccolte sotto certe
denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia, di praediorum instru
menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum
servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai
naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come
quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi
limito qui ad accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto
l'importantissimo concetto del mancipium, perchè le molteplici questioni al
riguardo saranno prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo, §
4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 27 - 418 334. Intanto una
conseguenza necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio, che
apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia, veniva ad essere questa, che le
res mancipii, come quelle che servivano a determinare la posizione di esso
nella comunanza quiritaria, costituissero come una specie di proprietà
privilegiata, che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed esclusivo al
quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere le
espressioni più antiche di mancipium facere, mancipio dare, mancipio accipere,
le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa nel
mancipium, e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa, che fa parte del
mancipium; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un
vocabolo apposito, che è quello di mancipare, da cui derivò appunto quello
della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo
per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva tuttavia da cid, che
non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento:
ma questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite, non
entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria, e come tali
non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso
della parola: essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano
compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata
delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice
traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro
prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva
esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al
p semplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo
la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della
quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della
parola e al punto di vista quiritario. È poi questa se parazione, che a causa
del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di
una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi
autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione
delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië
e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad
essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche
seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo
Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi
citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad
essere fino ad ora formulata. (1) Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi,
Roma 1888, pag. 90. 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus
fructus (1), e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse
sopra una cosa il nudum ius quiritium, mentre un'altra invece ne aveva l'ef
fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione
privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium, abbia anche
cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager
gentilicius, e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia, la
quale venne in certo modo ad essere senza base, allorchè manco del suo
fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità
di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del
pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri
non solo, ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii
vennero spartendosi, ed all '« ercto non cito », che indicava l'indivisione del
patrimonio famigliare nel periodo gentilizio, sottentrò il principio già
riconosciuto dalle XII Tavole, secondo cui altri non può essere costretto a
rimanere in comunione suo malgrado: « si erctum ciet, arbitros tres dato » (2
). 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi
conoscere la vera posizione del quirite, non come uomo, ma come membro della
comunanza quiritaria, sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono,
che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un
cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio,
egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello, sarà un capite census, e
sarà (1) Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e
fra le altre volte in una lettera ad Curium, VII, 30, 2 ove scrive: « Cuius
(Attici) quando « proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et
fructu, contentus « isto sum. Id enim est cuiusque proprium, quo quisque
fruitur atque utitur »; il che significava in sostanza, che egli preferiva al
dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il
godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte
però questo contrapposto ha una significazione diversa, come nel bel verso di
LUCR., III, 969: « vita mancipio nulli datur, omnibus usu », ove mancipium si
contrappone ad usus, in quanto significa una cosa, che ci appartiene a
discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere
illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium. Cfr. BONFANTE, op. cit.,
pag. 92, nota 2, e pag. 96, nº 2, e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la
ricostruzione del Voigt, op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore
della legge 16, della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si
contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito. Che se egli,
pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie,
abbia tut tavia qualche sostanza (1500 assi) ed una prole, che può crescere a
benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel
censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e
sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile,
poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito,
almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che
sarà armata a spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si
riferisce al mancipium, egli giunga a quella misura, che è necessaria per
essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o
locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere
collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus
quiritium. Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di
loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un
debito, dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà
rispondere chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto; proletario, iam civi,
quis volet vindex esto »; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di
Gellio, « proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum
antiquitas consopita est » (2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse
tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come
individuo, che come capo di famiglia e proprietario. Siccome tuttavia, accanto
alle qualificazioni generali del capo gruppo, trovavansi pure nel censo le
qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi,
di sui iuris, di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato
giuridico, senza essere create dal censo, furono tuttavia nel medesimo
delineate, e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare,
accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli
stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. (1)
Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili
tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10, $$ 10 a 15. Egli poi,
citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati,
che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta. (2 )
Gellio, XI, 6, 10, 8. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo
all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il
quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino
e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva
valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso
abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed
astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium, ed il processo con cui esso
vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui
l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi
estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui
prima si trovava, ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che
comparivano nel censo. Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius.
quiritium, che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un
tratto quell'aureola religiosa, che circondava le istituzioni delle genti
patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta,
che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa, da cui
poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare, che i
concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium, siano stati creati dal censo,
poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano; ma solo di provare, che
il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa; a separarli
nettamente gli uni dagli altri; a fare in guisa che ciascuno avesse
un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire
una sola individualità giuridica. Fu in questo modo, che al punto di vista
quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo;
che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione
giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo,
essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata, ebbe un'esistenza
cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano
promettere nè stipu lare per quelli dell'altro; che infine anche le varie
membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre, e poterono
ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel
l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti
del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari
della co munanza quiritaria, quale si formò nell'epoca serviana, e al censo che
servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia
primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la
parte statica del ius quiritium, in quanto fu in parte determinata da una delle
prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della
forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e la
teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del
concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui
i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti; nè
sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare
ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il
proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di
caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città,
avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si
trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo,
quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di
pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in
cui si unifica il gruppo stesso. Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo
serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo, e conserva cosi
un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur
essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne
dipendono. Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una
sostanza valutabile nel censo stesso, verrà ad essere un capite census; se
invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so. pratutto
per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius; se
infine abbia una sede fissa, e sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni
malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo
nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium, non fu un
presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con
dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui
esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma
ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la
comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per
avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi
e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie
obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato
adsiduus o locuples (1). In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per
poter contare per uno nel censo, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris
nel seno della famiglia; come lo dimostra il fatto, che se altri abbia un
figlio, che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi
e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre,
che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito
con un'altra persona, cioè col proprio figlio: « duicensus dicebatur cum altero
id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi facile il comprendere comefosse
facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla
significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso
delle condi zioni richieste per figurare nel censo, ossia lo stato generale
della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o
quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed
astratta (persona ), la quale, ancorchè ricavata dalla realtà, può servire ad
indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la
capacità giuridica quiritaria. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere
cambiato in una concezione astratta, il medesimo potè essere assoggettato ad
una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a
costituirlo. Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui
iuris nel seno della famiglia (3). Di qui la teoria della capitis diminutio,
che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione
logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche
l'arrogato, sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto
all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo, vº
duicensus; Bruns, Fontes, pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog,
Gesch. und Syst., I, pag. 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio,
Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput
nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere,
che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece,
che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui
solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della
capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero,
cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si
considerò avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per
subire una capitis dimi nutio (1 ). Che anzi questa logica giuridica dovrà
anche applicarsi al cittadino, che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto
che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di
postliminio (2 ) Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono
l'uno dopo l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della
libertas costituisce la maxima capitis diminutio, la perdita della civitas la
media, e la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi
di questi elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde; donde le
distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e
le persone alieni (1) Gaio, Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger, op. cit., pag.
5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis
diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a
delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si
sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio, che fu poi divisa in maxima e
media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere
uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto
primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere
qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la
perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri
cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che
venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il
determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e
si comprende come il Savigny, Traité de droit romain, trad. Guenoux, II, pag.
66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio; ma questa
singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni
famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche
l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come
dice Gajo, una « prioris status permutatio », la quale era anche compresa nella
significazione larga di capitis diminutio. Del resto l'emancipatio sotto un
certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell' emancipato,
poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di
fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare
quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa
perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti
dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del
ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del
diritto civile, per la ragione appunto detta da Gajo, Comm., I, 158: « civilis
ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest »;
distinzione questa, che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a
formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium, a cui
sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione della
legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 299 e 300.
425 - iuris, le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto di
partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni di
Gaio. Che anzi, una volta adottato questo metodo, si po terono anche attuare
delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata dal ius
latii, e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si voleva
accordare il completo ius quiritium, quanto eziandio ai servi affrancati, i
quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli altri cives,
erano invece collocati nella condizione di latini iuniani (1). Certo tutta
questa teoria non potè svilupparsi di un tratto; ma intanto è con Servio, che
si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e si iniziò
così quel processo logico, che de terminò poi l'elaborazione progressiva.
Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato generale della
persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde ne provennero
le determina zioni giuridiche speciali del pater familias, del filius familias,
della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi
stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce zione astratta, per
modo che una persona poteva essere padre senza aver figli, essere tenuto come
figlio, ancorchè effettivamente fosse padre, essere riguardata come figlia,
ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto dipendeva dal punto di vista
giuridico, sotto cui la per sona veniva ad essere considerata (2 ). (1) Per tal
modo mentre prima non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando
varie gradazioni, cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei
latini, e quella infine dei dediticii; altra prova questa, che il concetto pri
mitivo è sempre sintetico, mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V.
GAJO, Comm., I, 10. (2 ) Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195, § 2,
dig. (50, 16) ove dice del pater familias: « recteque hoc nomine appellatur,
quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed et ius
demonstramus »; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il
giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo,
che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi
indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones
nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag. 25 e
dal Juering, Ésprit de droit romain, IV, p. 295, sono in certo modo ritenute
come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il
diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte
dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium.
Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare,
modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare
una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la
concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere
con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva, e che fosse
così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica, che
poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma
eziandio a quegli enti giuridici, i quali « etiam sine ullo corpore iuris
intellectum habent »: donde la co struzione delle persone giuridiche (1). Che
anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è proprio di
quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche la proprietà
quiritaria può essere considerata, o in quanto è perfetta e senza limitazione
(er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle diminuzioni, le quali
verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al
pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di minuiscono quella
perfetta posizione giuridica, in cui trovasi la proprietà del fondo, allorchè
non abbia subito limitazione di sorta (2 ). Si comprende infine come spinta
fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la medesima sia una
costruzione giu ridica, che può anche stare da sè e svolgersi per conto proprio,
secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi, che en trano a
costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico, che ne dipende, potrà
anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è facile a
spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di famiglia, e
poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo libero; nel qual
trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare successivamente ad uno dei
tre ele menti, che costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa
comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui iuris, e viene (1) Tale
essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del
concetto di persona, la famosa questione intorno all'esistenza della persona
giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che essa deve
ritenersi come una fictio iuris, attribuendo però a questo vocabolo la
significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su quella
della persona fisica, ma limitata solo a quella categoria dei diritti della
persona fisica, che poteva avere una base nella realtà; donde la conseguenza,
che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di
famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain, II, pag. 234 e segg. (2) Questo
svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà
libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi
tolo, § 5, discorrendo del dominium ec iure quiritium. 427 ad essere capace di
diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia; poi rinunzia
indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere
estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo
libero; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare
il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace
di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica
romana si basava sui fatti, e la schiavitù, finchè durò il Romano Impero, fu
una istituzione comune a tutte le genti (1). Cid perd non tolse, che il
concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani,
potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era
una costruzione logica, la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti,
erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S
3. Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi
benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza
effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose, ossia la
forza del vincitore, che si impone al vinto, o il potere dell'uomo, che doma e
addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel
periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo
poteva disporre, nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e
genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le
traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene
già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta, che
comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua
qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la
capacità potenziale del quirite: cosi l'estrinsecazione effettiva di questa
potenza sulle persone e cose (1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm.
Rechts (in HOLTZEND., Encyclop., I, pag. 105 ), ebbe a dire con ragione, che il
più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in
ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero; ma vuolsi
aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa
piena capacità prima al capo famiglia, poi al civis, e da ultimo all'uomo
libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro
mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere
designata col vocabolo di manus (1). È questo il motivo, per cui la manus viene
a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto
quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la
proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio; se essa riven dica
qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la
vindicatio e la manuum consertio: se essa lascia uscire qualche cosa dal
proprio potere quiritario, abbiamo la manumissio e la emancipatio; se essa
infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato
abbiamo la manus iniectio. Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma
talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria, che trovasi
simboleggiata nella vindicta, la quale serve come modo tipico per la manomis
sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento;
nell'hasta, sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si
infigge dinanzi al centumvirale iudicium. Questo potere giuridico, sintetico e
comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene
negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che
così il potere sulla moglie, che quello sui figli, che quello sui servi e sulle
persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della
proprietà, sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1 ) La
generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo
caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico
sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del
PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei
Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il
vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi,
oppure anche il potere sulle cose. Egli è certo a questo riguardo, che i
giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere
sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas.
Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione
del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per
il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato
vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono,
che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium: ma miriservo di
dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose
soggette al potere, che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni
caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi
quella di manu-captum, e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per
significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona. Cfr. Voigt,
XII Tafeln, II, $ 79; BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, pag. 100, nota 1;
Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 3, nota 4. 429 sentavano delle
differenze e dei temperamenti. Così pure, sotto il punto di vista giuridico,
nulla hanno di proprio nè la moglie, nè i figli, né i servi, e tutto ciò che
essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero
quirite e quegli che conta nel censo. Sarà poi una conseguenza di questa logica
giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà
addive nire alla noxae datio; che se alcuno si ribellerà al suo potere, gli
spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis; e se
alcuna delle persone, che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta, egli
potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che
potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato. 341.
Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si
comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già
a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da
Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi
nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie, nella
potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium, che qui
sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa.
Quest'ultimo vocabolo tuttavia, più che un aspetto del potere quiri tario,
sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che
dipendono dal potere spettante al quirite; come lo dimostra la circostanza, che
il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma
sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare, chementre
nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum, potestatem,
dominium, non occorre però mai l'espressione habere mancipium, ma sempre quella
habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium, derivando da
manu-captum, significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il
potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al
vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar
gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia
stato il primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium; ciò
sarebbe come dire che i vocaboli di praedium, fundus significassero il diritto
di proprietà, mentre invece indicano la cosa, che ne forma l'oggetto. L'unico
passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è
quello di GELLIO, XVIII, 6, 9, ove si parla della mater familias in manu,
mancipioque mariti, ma anche questo dimostra, che anche la moglie era talora
considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del
vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il
potere del proprietario, esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi,
che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi
separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria
elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso
concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere
un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a
quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti.
Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora
il dubbio, che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e
quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati,
vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai
soggette, sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma
per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate, in mancipio. Di qui la
conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia
possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi
facilmente ammessa, allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il
principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può
promettere nè stipulare per un'altra. Il concetto del mancipium e la
distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad
essere considerata, in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le
cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium. Mentre i
concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo
invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano
sè l'idea della forza e dell'energia, ma non mai quello di mancipium, che
allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi
giureconsulti ci attestano, che in antico non eravi un vocabolo speciale per
significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum, tuum. (1) Di qui credo di
poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo, secondo cui
altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e
niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in
cui si iniziò la formazione del ius quiritium; in quanto che nell'esercito e
nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare
da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa, e presentasi con
una signi ficazione eminentemente passiva. Non vi ha quindi nulla di ripu
gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum; e designasse
specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra, veniva ad es sere
soggetto alla potestà del vincitore. Questo è certo ad ogni modo, che nel ius
quiritium il vocabolo dimancipium, al pari di quello di caput e di manus, ha
già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel
complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di
famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium, e che nel censo
compariscono in certo modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto
coll'entrare a far parte delmancipium, che i diritti spettanti al capo di
famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così
esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di
Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen
tilizio, di cui fa parte, a compare nel censo con un complesso di persone e di
cose, che dipendono da lui in modo assoluto. È quindi in virtù di
quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini
e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ).
Anche nel mancipium, come negli altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi
in ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da
comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere
del capo di famiglia. Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das
Privatleben der Römer, pag. 2. Ritengo che debba essere seguita la prima
opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò, che le formole
serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu,
potestate, mancipio; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più
antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di
Roma (Bruns, Fontes, pag. 45) e nella lex Acilia repetundarum, del 631 di Roma
(pag. 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si
considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia, il che poi spiega
come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio, l'emancipatio e simili.
Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium
fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto
curule de mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che
doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni
dimancipium, è da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105, col quale
tuttavia non concordo in questo, che egli attribuisce al mancipium anche la
significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il
mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il
mancipium, fondendosi in certo modo coll'heredium, sia venuto a de signare le
cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato
dimostrato più sopra al nº 331, pag. 414. 432 concetti fin qui presi in esame,
trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa
persona; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per
cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello
di familia il complesso delle persone, che dipendono dal medesimo capo. Siccome
però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo
quella parte di esso, che è portata nel censo e che serve come stregua per
determinare la classe, di cui entra a far parte; così ne deriva che il censo
serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico, in cui
cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium,
che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii
e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le
molte discussioni, a cui diede argomento. 343. La distinzione fra le res
mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio, un rottame del diritto
primitivo, che indecifrabile da solo, può cambiarsi in un documento prezioso,
quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1).
L'antichità del concetto, a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal
fatto, che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente
nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La
circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra
che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve
invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto, che i
giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del
resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare, in cui è
concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta
nell'intento (1) L'importanza della questione per lo studio del diritto
primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia, come lo
dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi
e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via, che
questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei
particolari, ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non
siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo, con cui
concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. (2 ) Non può certamente
ritenersi definitiva la ragione data da Gavo, Comm., II, 22, che le res
mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio; poichè si potrebbe
sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute
suscettive della mancipatio. 433 di mettere in una posizione speciale e
privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della
distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente
negativo, cioè comprende tutte quelle cose, che non appartengono alla prima ca
tegoria. Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento
storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un
complesso di cose, che erano comprese nel mancipium, e che solo più tardi
quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec
mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già formata dalle res
mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo
l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta, lo Studemund avrebbe
adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res
mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a
ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia
l'antichissimo concetto del mancipium, le cui origini rimontano quanto meno
alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare
come nell'antico diritto possa essersi cominciato a distinguere il mancipium
dal nec mancipium, non sarà inopportuno il notare, che fin dai tempi più
antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di distinzione, che erasi
fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi troviamo infatti una
specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium, e in quelli eziandio
di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo contrapposti fra di
loro. Per verità mentre i vocaboli di he (1) Del resto la questione della i
doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal
momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della
doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica
scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova
dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man
cipiä сol primitivo mancipium. Così il BONFANTE, op. cit., pag. 21. Per parte
mia, siccome mi propongo di fare la storia del concetto, anzichè della parola,
così trovo più conveniente di adottare quella scritturazione, la quale,
esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii,
impedisce di dare a questa distin zione una significazione diversa da quella,
che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica;
ma essa condusse alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a
cercare l'origine della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa,
il che appunto deve essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma.
28 434 redium e di familia indicano di preferenza quella parte del patri monio,
che nel proprio concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i
concetti invece di peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza
quella parte di patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio, alla
circolazione ed al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può
inferire, che una distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli
diversi, e che si mantiene con una certa costanza, dovette trovare la propria
ragione d'essere nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi
il popolo romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e
poca, in cui vennesi formando il primitivo ius quiritium (1). Parmipoi a questo
proposito, che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere
rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche
analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di
Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo
modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico
costituisce come un gruppo di persone e di cose, in cui si comprende il
capofamiglia, la moglie, i figli, il bestiame, la terra coltivata, e la cui
importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso
posseduta, e il numero di braccia, di cui può disporre per la coltura della
medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio, che si intitola
al padre, ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo, for
misi naturalmente una distinzione congenere a quelle, le cui traccie pur
compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia
agricola havvi anzitutto una parte fissa, sostanziale, che comprende tutti quei
beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso
regolare. Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della
famiglia agricola; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto
appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune;
quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a
malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria
figliuo lanza. Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza
rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla. Quindi
piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal (1) Già si accenno
a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56, pag. 70.
435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un
tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di
ricorrere a quella vendita con patto di riscatto, che nei nostri villaggi si
cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde
quell'usura, che chiamasi palliata. Accanto poi a questa parte fissa del
patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale
circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti
dell'annata, le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto,
che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il
capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di
essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia, senza però mettere a
repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di
questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato, in quanto che
possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in
questa od in quella parte del patrimonio. Se tuttavia in determinate con
dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo, che
costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale,
sarebbe ad esempio, la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi
sopra una imposta, la conseguenza im mediata di questo fatto sarà, che quella
distinzione, che stava for mandosi, perderà il suo carattere vago ed
indeterminato e finirà per assumere un significato preciso, il quale, mentre
corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in
vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le
condizioni economiche del popolo, di cui si tratta. 345. Or bene un avvenimento
di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica
di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio, il quale, essendo stato posto a
base di una nuova composizione del populus romanus quiritium, non potè a meno
di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto
romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche
le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori
avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della
stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi
assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia,
che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa
436 miglia, colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano
ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece, che si facevano alla plebe,
erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus, mediante le così
dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di
due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano
una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale
(tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle
servitù rurali di pas saggio e di acquedotto, che erano del tutto
indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a
costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente
dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium. Che anzi è
anche probabile, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo
proprietario, come lo dimostra il fatto, che i poderi romani ancora più tardi
conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario, che si
considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono
successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo
mancipium, che doveva essere consegnato e valutato nel censo, e che costituiva
la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite; le
altre cose invece non gli erano tenute in conto, o perchè non appartenevano al
quirite come tale, ma piuttosto alla gente, di cui esso faceva parte, o perchè
costituivano una specie di capitale cir colante, di cui non potevasi fissare
l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che
questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli
del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886
col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata. II FUSTEL DE
COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma,
stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei
poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i
medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo
man cipium. Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una
denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del
proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus,
Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una
personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto
in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel
podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del
quirite, al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui
spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero
poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437
veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite,
cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo
ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta,
purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza
quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il
quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium, avevano per esso una
importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla
loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i
mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo,
in cui si formò ilmancipium, trova poi la sua conferma nella enumerazione, che
i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1).
Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità
remota, e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione
tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai
gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei
sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come
cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto, che corrisponde alle
condi zioni economiche del tempo, ed ai bisogni di una famiglia agricola, la
quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla
circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium, non è
già un campo nudo di qualsiasi attrezzo, ma è un praedium instructum
considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù, che sono necessarie per la
sua coltivazione (2). Una casa in città, un tugurio in campagna, circondato da
un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per
la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà
tipica del quirite; quella proprietà cioè, che lo rendeva adsiduus, perchè ne
accertava la residenza, e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e
della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo, I, 120; II, 14-17;
Ulp., Fragm., XIX, 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus
sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op.
cit., pag. 340, che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i
giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e
instrumentum fundi », ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di
servi, che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che
sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager
gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera
proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di
cose, che può raccogliersi. dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano
delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che
queste comprendevano; lº i praedia, così rustici comeurbani, purchè situati
nell'ager romanus od anche nel suolo italico, il quale mediante la concessione
del ius italicum, poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium;
2° le servitù rustiche, che sono il naturale compimento di un podere rurale,
quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in
quell'epoca strumento indispensabile per la coltura; 4º e infine i quadrupedes,
quae dorso collove domantur, veluti boves, equi, muli et asini. Invece le altre
cose tutte, che esorbitano da questa cerchia, comprendendovi la stessa pecunia,
le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla
espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei
giureconsulti si osservo, che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium,
quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè
le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose
tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei
primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della
riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma
piuttosto sulla proprietà stabile, esente da qualsiasi vincolo. Era solo questa
forma di proprietà, che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes, e
servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla
comune difesa. Non fu quindi la pecunia, che ebbe ad essere tenuta in conto,
perchè questa, anche consistendo in greggi ed in armenti, poteva sempre essere
trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti
dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia, macostituire
invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il
loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere
quiritario, ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi
negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o
nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame,
che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439
tenuto ex iure quiritium, essi costituivano quel capitale circolante, che
formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò
non offriva una base salda per essere valutato nel censo. 348. Parmi cið stante
di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso
di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite, come
capo di una famiglia agricola, all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta
l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose,
il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente
nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo
esatto e preciso dal censo serviano, il quale per tal modo potè perfino
influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti
questo mancipium, che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite, e che
costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium, che ebbe poi
a svol gersi coi caratteri di assoluta, di esclusiva e di irrevocabile. Sia (1)
Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii
abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il
mancipium, come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla
soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due
aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii.
Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35, che le teorie diverse, da lui
esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di
spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto
storico. I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di
pari passo; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo
pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere
nelle condizioni economiche e sociali del tempo, ed essa non sareb besi poi
perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico
importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo
immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato
fossile la distinzione, di cui si trattava, anche allorchè non aveva più
ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire
alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di
mancipium alla bellica occupatio; poichè questo carattere militare, inerente
anche almancipium, è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto
in quell'epoca assume il populus romanus quiritium; impronta, che rimane
inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa
sione. Tuttavia, siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame
critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni,
delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68, al
BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la
vecchia controversia. 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna
dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose, che avrebbero pur dovuto
essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite; ma in questa
parte, come nel resto, i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa
configurazione giuridica, si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le
primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium, come molti
altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla
realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente
costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per
fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero
tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il
mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che
malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni
economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base
di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il
potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora
sempre conservati i tratti del primitivo mancipium, in quanto che esso continud
pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è
quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle
servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum
fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad
essere foggiate sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo
spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato
fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello
spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i
giureconsulti (1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del
FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti
si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle
provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad
avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere
coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli,
quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi
coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più. Per
tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel
popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti,
ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione,
da cui è partito; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto
nel primitivo mancipium. 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la
cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in
un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità
dell'antico diritto. Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i
responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica
misura, e solo ammisero qualche allargamento, che corrispondeva al concetto
informatore del primitivo mancipium, e che era necessario per rendere
applicabile il concetto stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio, che i
giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi
nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non
erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium, o meglio ancora,
perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel
podere tipico, che costituiva il mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece
notare, che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche; esse
malgrado di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè
non fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano
parte integrante del podere stesso (3). Quando poi si chiese, se i cavalli e i
buoi non domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione
prevalente fu che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano
domati, non potevano essere strumento indi (1) Parmi perciò da seguirsi,ma con
una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba
ritenersi tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento
che doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel
concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res
mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui
ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè
posteriormente il concetto di mancipium, che erasi sovrapposto a quello di
heredium, tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò
talora i bona paterna avitaque, e specialmente quelli, che nel costume solevano
trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre
preziose, che costituivano in certo modo un avitum mancipium. In ciò seguo
l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello
SQuitti nella Cultura, anno 1886, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op. cit., p. 93.
(2) GAJO, Comm., II, 16; ULP., Fragm., XIX, 1. (3 ) GAJO, II, 17; ULPIANO, loc.
cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che
hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte
integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via, aquae ductus, e non le altre,
come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili, le quali, essendo
particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in
conto. -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo
man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli
di formole relative alla vendita di animali da tiro, e da soma ed anche di
servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio; poichè questa
doveva solo ritenersi necessaria, allorchè gli animali e i servi, di cui si
trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le
res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate, costituiscono però un tutto
(cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime
conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di
alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità
della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram, di cui si
parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani,
che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a
tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res
mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa
anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una
simile controversia, ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i
quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la
determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione
del fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio
dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p. 388) condussero il
Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone
nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig). Veramente non si saprebbe
ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva antiquata;
ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si ritenga
che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere questa cosa
un « instru mentumt fundi». Quindi non sempre era necessaria la mancipatio per
questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come lo attesta lo
stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di supporre degli errori
nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante, op. cit., pag. 111,
non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra formole, che vivevano
nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi giureconsulti. (3) È
tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia, intesi nel senso
di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio, l'hereditas invece è consi
derata come una res nec mancipië, e come tale è suscettiva di in iure cessio,
ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II, 14, 17, 34). La ragione, a parer mio, è
questa, che la familia o il mancipium, finchè dipendono dal pater familias,
costituiscono un'entità concreta: mentre l'eredità, riguardo a colui che vi ha
diritto, costituisce già una cosa incorporale, una res, quae etiam sine ullo
corpore iuris intellectum habet, e quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto
però non parmiaccettabile l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit.,
pag. 12, che la distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo
applicabile alle res singulares, poichè non è certamente una res singularis nè
il mancipium, nè la familia. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle
cose con dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium.
Così, ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano
solo essere compresi i praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager
romanus, mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante
suolo italico, quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà
quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima
compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i
servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in
genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col
Puctha, che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che
fossero in potestate, in manu, o in causa mancipii(2); poichè, come sopra si è
notato, qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più
ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal
capo di famiglia, le quali persone si dicono « alieni iuris, quae in manu,
potestate,mancipio sunt », ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che
anche alle persone si applica la mancipatio, ma cid provenne, come si vedrà più
tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza, che è l'atto per aes et libram, e quindi compare ogniqualvolta
trattisi di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà
giuridica quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci
pone eziandio in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori
relativa alla precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii
e nec mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece
denza alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si
chiamerebbero tali appunto, perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma
rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad
essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose.
La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri (1) Ho già
notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo, allorchè
non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice
traditio. (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op. cit., pag. 15. 444
tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il
concetto cioè di una proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio
di terra e quelle pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio
indispensabile del capo di una famiglia agricola. La formazione di questo
mancipium, che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei
primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto
l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo
economica, ma anche politica del mancipium, pose le cose, che erano comprese
nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose,
che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una
proprietà essenzialmente quiritaria, perchè apparteneva al quirite come tale.
Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese
nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per
aes et libram, mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré anche la
semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello poi, che si
riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec mancipii, parmi
evidente che essa fu l'ultima ad es. sere introdotta, e non ho difficoltà di
ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi dai
giureconsulti, quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad ordine
sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto. Il
censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res mancipii,
ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie; ma esso non poteva
determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii. È quindi
probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di cose
(mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano
formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui
caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre
tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii
(1). (1) Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la
distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già
essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio,
riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era
applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da
ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione
speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una
donna senza approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero
qui una distinzione analoga a quella, che si introdurrà più tardi, fra le cose,
che appartengono ad una persona ex iure quiritium, e quelle invece che le
appartengono solo in bonis; poichè le prime costituiscono una cerchia chiusa e
circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto, quanto ai modi
di acquisto, e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis
comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva della proprietà ex iure
quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la distinzione delman
cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex
iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave
problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure
quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già nel periodo
gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo di
famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non costituiva
ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di
famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui
apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando
gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi
mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso
populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la sola
proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e
perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris,
sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente
individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex
iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo
formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza, che in questo
periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il
che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e
da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di
cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op.
cit., pag. 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., pag. 115 e seg. 146 dominio
quiritario all'espressione meam esse: « aio hanc rem iure quiritium ». Ferma
cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del
dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo concetto siasi
venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa
proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di ogni
proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i
ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto
singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto
della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il
quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe
servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e
le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in
qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi
indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo
induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non
conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium: « aut enim ex iure
quiritium unusquisque do minus erat, aut non intellegebatur dominus » (1). È
certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al
difuori della proprietà ex iure quiritium, non vi fosse pei romani primitivi
altra forma di proprietà o di possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata
quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e
le istituzioni, che entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare
comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma
solo quella parte di esso, che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e
che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far
parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono
ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che
quella parte di diritto, che essendo stata accettata come base della comunanza
quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non
governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano
fra loro nelle (1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p.
606. MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 40.. 447 loro qualità di quiriti, e fu
solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti,
che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti,
modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una
grande e popolosa città, e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum
(1). 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò
eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a
costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non
comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma
comprende solo quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di
quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il
mancipium, che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a
cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la
primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il
mancipium, e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza,
cioè l'atto per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio
sacramento, in cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure
quiritium ». Questa infatti era l'unica proprietà, che poteva essere tenuta in
conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto
qui ritario. Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure
quiritium, aut non intellegebatur dominus »: il che non vuol già dire, che non
si potesse avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le
altre forme di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di
vista quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto
della selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla
comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa
determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man
cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite, ma
più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia
troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del
dominium ex iure quiritium. Questo infatti (1) Questo carattere particolare del
ius quiritium, per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo
quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe
entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria. fu dimostrato
sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso: lº quanto
alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia, ma tutti
i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium; 2°
quanto ai modi, con cui si acquista, che non si riducono più alla sola man
cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto
alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii,
ma tutte le cose in commercio, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è
evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium
costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata, quanto alle persone, alle
cose, ai modi di acquisto; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste
condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto
della pro tezione pretoria, che viene a poco a poco delineandosi una proprietà
in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure
quiritium. Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto
romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che
trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle
forme di quella, che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel
primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il
medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato
dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda
distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad
essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a
ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato
sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione
giuridica non dissimile da quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput,
di manus e di mancipium. Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al
concetto del quirite, e quindi al modo stesso, che questi nella sua
configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta, concepita
sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, ed (1) Non è qui il caso di parlare
nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che potevano
anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo, Comm.,
II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio,
come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata da tutti gli
altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come
assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a
cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo, che allo svolgimento
del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana loga a
quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput; cosicchè,
per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono adoperati dei criteri
analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del quirite. Così, ad
esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius quiritium allorchè la
capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il dominium
optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita zione. Al
modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi eziandio una
diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso vocabolo di
servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che anzi a quella
guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini, cosi non tutte le
cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual concetto spin gesi
a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione fra la concessione
della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da essi abitato di quel
ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio quiritario. Cosi mentre il
solum italicum ottenne questa speciale condizione, sotto il nome di ius
italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere oggetto di vera
proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la distinzione fra la
proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis (1). Vi ha di più ancora,
ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel concetto di caput,
camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure quiritium. Così, ad
esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di famiglia, anche
questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando poi la capacità
di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa
guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad un determinato
territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo
stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli
conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï e quella del ius
italicum: di cui quello si riferisce alle persone, questo invece si riferisce
al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum, nella « Nouvelle revue
historique de droit français et étranger », annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le
origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà
ex iure quiritium. Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo
li bero, perchè tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò
essere uomo libero per essere capace di quella proprietà, che un tempo era
stata privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche,
quanto alle cose che ne formano l'oggetto, le quali cominciarono dall'essere
quelle soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res
mancipii), e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in
commercio. Il che deve pur dirsideimodi diacquisto, i quali dapprima furono
probabilmente circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in
iure cessio e l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi
di acquisto, che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti; donde
la distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio,
civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che
alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella
stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il
quirite alla cosa che gli apparteneva: gli fecero afferrare materialmente la
cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua
ex iure quiritium: immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla
medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne,
goderne, e di disporne, anche abusando di essa. In questo diritto del
proprietario, che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione
giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano:
poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e
sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo essere stato una istituzione
gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu affidato al pretore
(2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella proprietà (1) Non può
ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del diritto ro mano non
esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe contraddetto dall'an
tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma soltanto che i modi
naturali, pur esistendo da epoca forse più antica, furono solo più tardi
incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale assimilava solamente
ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme prestabilite. (2 )
L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata al n° 59, p. 74. Del
resto tale origine gentilizia è comprovata dalla intitolazione stessa di questo
iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare qualche antica norma consuetudi
451 fini per ricevere una propria denominazione, e staccato dal ceppo, sovra
cui aveva radice, fini per dare origine alle varie configura zioni dei diritti
reali, comprendendovi anche il ius possessionis, ciascuno dei quali potė
ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre ritenendo l'impronta reale, che
eragli provenuta dalla pro prietà, di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi
in questa occa sione, che sembra essere venuto in uso il vocabolo di
proprietas, il quale in origine appare adoperato, quando si tratta di
contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano inchiusi nella medesima
(1). 357. Questa ricostruzione intanto del dominium ex iure quiri. tium mi
porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti, che nel diritto
romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo proposito il
diritto romano presenta questa singolarità, chementre il giureconsulto Paolo,
fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come fuori di ogni dubbio,
che il dominio dovette cominciare dalla materiale appropriazione delle cose
(dominium rerum ex naturali possessione coepisse) (2); noi troviamo invece, che
nello svolgimento storico presentasi dapprima integro e com piuto il concetto
del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto più tardi, che il possesso
viene ad essere considerato come una isti tuzione giuridica, protetta cogli
interdetti possessori. Di fronte a questo stato di cose sarebbe fuor di luogo
il sostenere, che i Romani non distinguessero dapprima fra la materiale
detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica sovra di essa; ciò sarebbe
smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e
dell'usus auctoritas, ed anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul
territorio romano, non si riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla
circostanza, che le XII Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un
tempo apparteneva alla gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo
concetto dell'heredium, che era venuto meno nello stretto ius quiritium, e
ristabili rono contro il prodigo interdetto la cura degli agnati e dei geniili,
la quale è certo una reliquia dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti,
secondo la ricostruzione del Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente: « Qui
sibi heredium nequitia sua disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea
re commercioque praetor interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto ».
(1) Che il vocabolo di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si
trat tava di contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi
nella medesima, può argomentarsi, fra gli altri passi, da quello di GAJO, II,
30, ove la proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1,
Dig. (41, 2 ). 452 proprietà, ma una specie di possesso a titolo di precario,
che non aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve
riporsi in ciò, che anche in questa parte il ius quiritium, essendo già stato
il frutto di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal
concetto più vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di
proprietà. Il concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad
essere modellato sul mancipium, il quale, implicando la sottomissione
illimitata di una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti
i po teri, che ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto
infatti, che al quirite spetta sul proprio mancipium, nella sua sintesi
vigorosa, implica la detenzione materiale e la proprietà della cosa: è un fatto
ed è un diritto; è una proprietà originaria, ma intanto comprende eziandio la
proprietà derivata; esso anzi de signa perfino una proprietà, che ha
dell'individuale e del famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche
in questo concetto venne penetrando l'analisi, la quale cominciò dal
distinguere la materiale detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale
è un puro e semplice fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di
essa (dominium ex iure quiritium ), la quale costituisce invece un vero e
proprio diritto (res iuris). Col tempo però, siccome fra questi due termini
estremiverranno ad esservi delle possessiones, che per speciali considerazioni
potranno anche apparire meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco
a poco modellando dal pretore il concetto di una civilis possessio. Questa
tuttavia non apparirà più unicamente come una res facti, ma in parte eziandio
come una res iuris; non supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa
(corpus), ma anche l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi
habendi). Questo possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la
semplice detenzione materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 );
quindi, per la protezione di esso, il pretore, non trovandosi di fronte ad un
diritto compiutamente formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola,
ma sol tanto interdicere, cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto,
del quale si tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter. (1)
Vedi, quanto alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il
nº 154, pag. 190 e segg. (2) V. in proposito Savigny, Dela possession, Trad.
Staedtler, sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25. 453 dicta,
con cui si protegge il possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un
determinato spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi
in un vero diritto; cosi il possesso, oltre al costituire per se stesso una
istituzione giuridica, protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un
mezzo, mediante cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa
(usus) può trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia
a notarsi, che siccome tanto il dominium ex iure quiritium, quanto la semplice
possessio debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite
spettava sul primitivo mancipium, il quale aveva del materiale e del giuridico
ad un tempo; così tanto il dominium, che la pos sessio, presso i romani, non
poterono mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid
è dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere
circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo
della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che
alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime
(quasi possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le
incertezze dei giureconsulti, i quali ora considerano il possesso come una res
facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del
diritto di proprietà, ed ora dicono invece, che il possesso ha nulla di comune
con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto
ed il diritto, fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto
l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui
era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia
dovuto (1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto
romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem, e del
possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e
perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così
alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto
dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità
inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre
l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio. (2
) Cfr. Savigny, V. i passi in proposito citati dal Savigny, op. cit., § 5, pag.
21 e segg., nelle note. Sono poi noti i passi di Ulp., 12, § 1, Dig. (41, 2)
nihil commune habet proprietas cum possessione», ed altri analoghi, L. 1, $ 2,
Dig. (43, 17). Cfr. JHERING, Fondement des interdits possessoires, Trad.
Maulenaere, Paris 1882, pag. 42. - 151 prendere le mosse dalla materiale
appropriazione di una cosa, il concetto del possesso sia tuttavia di formazione
posteriore, e non abbia ricevuto una propria configurazione giuridica, che per
opera del pretore, allorchè il medesimo cominciò ad accordare la prote zione
giuridica a quelle possessiones nell'ager publicus, che per la propria durata
già cominciavano ad assumere il carattere di un vero A proprio diritto (1). Per
quello poi, che si riferisce alla questione tanto agitata del fon damento
razionale della protezione giuridica accordata al possesso, essa, come al
solito, non ebbe ad essere trattata di proposito dai giu reconsulti; ma si può
indurre dallo svolgimento storico di esso, che tale fondamento deve riporsi sul
principio, sovra cui poggia tutto il diritto romano, secondo cui « ex facto
oritur ius », in quanto che ogni fatto, che riunisca in sè certe condizioni di
durata e di buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può
già meri tare la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu
capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione del Niebaur, Histoire romaine, III,
191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12 a, pag. 177-185. Essa parmi in ogni
caso più verosimile di quella sostenuta dal Pochta, Istit., § 225, secondo cui
l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla concessione del possesso
interinale, che si accordava ad uno dei contendenti nella procedura di
vindicazione coll' actio sacramento; poichè questo possesso interinale non ha
punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione giuridica tutta sua
propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la cosa, sembra che
l'interdetto più antico sia quello uti possidetis, destinato appunto ad
impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad essere evidente,
che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare il possesso
nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso dovrà certo esser
collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op. cit., $ 6, p. 42, il quale
sostiene un'opinione in parte diversa. (2 ) Senza voler qui prendere in esame
le molte teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad
osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa in due
opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è quella
del JHERING, Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la
trad. franc. del Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del Bruns, Die
Besitzklagen des röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu
adottato e largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico, XV, pag. 3 e
segg. Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su ciò, che
il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi senza tale
pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo
l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al
concetto, enunciato nella L. 2, Dig. (43, 17): qualiscumque possessor, hoc ipso
quod possessor est, plus iuris habet, quam qui non possidet ». Parmi che,
assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè
il principio: « ex facto oritur ius », si 455 358. Di fronte a questo
svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la
risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della
proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente propria dei
romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere
adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della
dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la proprietà
quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo
di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi
di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era formata, e si
cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa guisa, che la
medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione
giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare
quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici,
e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti riescirono ad
isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico, in cui
si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni
elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta, che duro pa
recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella, che
potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti. Le loro
analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche non potranno
sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro
genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca; ed è
questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa
elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della
privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi
furono i crea tori della proprietà privata ed individuale;ma è sopratutto
notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della
protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica, e quello
di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta, come al
possesso ad usucapionem. Secondo il Puglia, Studii di storia del diritto
romano, Messina 1886, pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso
come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non
potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio »; ma è ovvio il notare che in
questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non
maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr.
PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., pag. 529 e segg., ove trovasi citata
in nota la bi bliografia più recente sull'argomento. (1) SUMNER-MAINE, L'ancien
droit, trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri
riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il
concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel
nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo
quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto
logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a
tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo
la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e
patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei
Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu
ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una
proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti
essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare
comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi
dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà
privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a
pag. 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito
della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa
discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta
all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un
accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa
le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini
le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni,
che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò,
che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva
del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della famiglia.
Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso i
Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè
fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER
sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori
stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal
trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni
primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i
vicanalia (SCHUPFER, pag. 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica
dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così
anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto
individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le
genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama
l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo
vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello
di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò
dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio
avito. SCHUPFER, Op. cit., pag. 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro
popolo, è questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo
della proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo
della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo
specifico per indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la
proprietà coi concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di
mancipium, i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen,
Allod, Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei
consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di « ercto
non cito ». Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e
talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione
(SCHUPFER, pag. 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum. — Infine la
vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo
stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager
gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata, presso i
popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche
essa una sors, un lotto, un assegno (pag. 63); accanto al quale però si svolge
eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag. 60), il quale, salvo il
linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi
anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso
i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o
da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra,
che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è
indicato coi nomi dimansus, di hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano
eziandio con sè quella idea di residenza, che era indicata anche dai vocaboli
di mancipium e di dominium. Che anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche
l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro
prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la
sua proprietà esclusiva « dominium ex iure quiritium ». Infine questa proprietà
si acquista, si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la
manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138
e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi
che go vernano l'evoluzione della proprietà, sonvi anche le differenze, che
sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo
romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una
costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in
commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici
invece non giungono a questa concezione tipica; quindi mentre la proprietà
romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà
mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta
raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente
gentilizio, e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa,
pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i
popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a
districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui
era uscita, o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà,
quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della
istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero
sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione
feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e
di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla
proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad.
Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh. Il ius
quiritium ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho
cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di
seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di
questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una
con figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata,
si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte
più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una
figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità
foggiate sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di
negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività
giuridica. Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il
magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più
di notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo
in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma
giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando
col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la
supposizione più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del
primitivo diritto, sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero
venuti introducendo le istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno,
e che perciò il diritto privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere
considerato come il frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata
sopratutto dalle condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo
studio invece delle vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium,
mi hanno profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che
potrebbe chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di
una specie di elaborazione e selezione potente, (1) Tale sarebbe l'idea, forse
alquanto preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo:
Studii di storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia
scientifica, Messina, 1886. 459 che venne operandosi su materiali giuridici
preesistenti, la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica
giuridica, non dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica
del diritto quiritario. Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi
fondamentali dello status del quirite furono fissate, pressochè
contemporaneamente, dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano; lo
svolgimento invece della parte del diritto quiritario, che si riferisce al
negozio giuridico, fu l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata, la
quale si operd man mano, che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato
e la plebe, e che le loro rispettive istituzioni si fondevano insieme
nell'attrito della vita cittadina. 360. Che questo sia stato il processo, con
cui si formò eziandio la parte dinamica del ius quiritium, risulta da una
quantità gran dissima di indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più
importanti. È indubitabile anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio
giuridico, il ius quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto
particolare, ma parte invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi,
quali sarebbero quelli del commercium, del connubium e dell'actio, i quali
tutti hanno una larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel
periodo gentilizio, anteriore alla fondazione della città. Cosi pure è certo,
che il primitivo ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a
misura che si vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici, ma compare invece
con certe forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare
entrare, anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento
la convivenza civile e politica. È in questa guisa, che un solo atto, quale
sarà, ad esempio, l'atto per aes et libram, finirà per servire alle
applicazioni più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius
quiritium, nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati,
presentasi dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il
nucleo centrale, intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che
hanno qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha
dubbio, che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il
matrimonio cum manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et
libram; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio
sacramento. Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto
quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460
- ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si
adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello
del quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa
parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua
naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti
fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius
quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi
subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui
questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione
del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse
la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del
connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo
gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era
naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li
applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite,
pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si
aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica
del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla
costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di
capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella
sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi
naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella
del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la
circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni
poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite
sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i
diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius
quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si
vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività
giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello
svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità
ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium,
del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce
alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato,
sembra metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce
alle cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che
riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che
costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi
giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati,
finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con
nubium e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave
di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice
svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si
riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius
quiritium, non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo
gentilizio, il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo (3). Vuolsi
perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei
rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei
rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto
spettante ai quiriti, cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure
quiritium; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium; e infine
dall’actio il sistema delle legis actiones, che è parimenti proprio della
comunanza quiritaria. Questi concetti pertanto cessarono di avere uno
svolgimento pura mente estensivo, come era accaduto nei rapporti fra le
famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo;
cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8: «
Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad
actiones ». Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al
valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota
1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi
concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività
giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5
quanto al commercium. Quanto all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII
Tafeln, I, pag. 244 e. 274, coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor.
Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib. I, cap. VI, SS 2 e 3, pag. 123 a
138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel diritto pri
vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium, e che più
tardi chiamarono ius proprium civium romanorum. Cosi, ad esempio, il connubium
nel periodo gentilicio, era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che
esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen.
Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel
ius con nubii ex iure quiritium. Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris
iure ducendae facultas », ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze
riconosciute dal ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in
base al medesimo derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla
moglie, fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del
cittadino romano; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i
giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che
anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure
quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano
stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio
dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste
istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium, come una dipendenza del
connubium, considerato come un ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è
pure a dirsi del commercium. Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il
diritto di addivenire ai reciproci scambii « emendi vendendique invicem
potestas »; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i
quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la
proprietà ex iure quiritium, esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure
qui ritium, ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di
carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei
quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella
legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono:
lº il facere nexum, che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli
effetti riconosciuti dal diritto quiritario; 2° il facere mancipium, che è il
diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria, consistente
appunto nel mancipium, colle forme riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in
fine il facere testamentum, che è il diritto di acquistare o di tras mettere
un'eredità, mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario,
donde il vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di
questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium,
viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii
finiscono per compiersi con una sola forma tipica, che è quella dell'atto per
aes et libram, e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò
considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico
ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la
proprietà, e infine il testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di
un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non
produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di
vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro
diramarsi dal concetto, che il proprietario ex iure quiritium deve poter
liberamente disporre delle proprie cose, viene anche ad essere dimostrata dalla
circostanza, che di fronte a tutti questi atti la legislazione decemvirale
proclama il principio: « uti lingua nuncupassit », o quello analogo: « uti
legassit, ita ius esto ». 364. Da ultimo accade eziandio una trasformazione
analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio era la procedura
solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il capo di famiglia, il
cui diritto fosse disconosciuto e violato, e la medesima poteva anche dar luogo
ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi non avessero potuto
venire ad un amichevole compo nimento (2 ). Allorchè invece l'actio compare nel
ius quiritium, essa imita bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento
della ci vile giustizia, ma intanto già si compie in iure, cioè davanti al
magistrato riconosciuto come capo e custode della città. Di più questa actio
non può più seguire arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel
costume, ma deve invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa.
Essa cessa perciò di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e
viene così a cam (1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così
al connubium, che al commercium, accennerò il LANGE, Histoire intérieure de
Rome, pag. 13, in nota, il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero
prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini
dell'actio nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra
lib. I, cap. VI, § 3, pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le
proprie ragioni davanti al ma gistrato, nella forma che è riconosciuta dal
diritto quiritario. Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere
le mosse da un'azione tipica, che è l'actio sacramento, la quale può anche essa
essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non
solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema
delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del
diritto quiritario, che spiega eziandio, senza bisogno di ricorrere a quello
spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato, le
cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario: poichè
anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che
intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto
rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le
formalità, da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine
progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo
ius quiritium. Anche qui ci mancano le testimonianze dirette, perchè i veteres
iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare
il segreto dell'arte loro (2); ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che
possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del
diritto, che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente
quella relativa al commercium, e quindi viene ad esser naturale, che
l'elaborazione di un ius quiritium, comune ai due ordini, inco minciasse da
quegli atti, che si riferiscono al commercium. Questa circostanza verrebbe poi
ad essere eziandio confermata dal fatto, che la parte di antichissima
legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si
riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte
relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini
del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94, pag. 117 e
segg. e sopratutto nella nota 1a a pag. 118, ove si presero in esame le
opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering. (2) Cic., De
Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà, che ai suoi tempi ancora
accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause
di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che « veteres illi,
qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa,
pervulgari artem suam noluerunt ». 465 mercium. Cosi pure abbiamo un'altra
conferma di questo fatto nella circostanza, che, all'epoca della legislazione
decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii
giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum, il mancipium ed il testa
mentum; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente, che le leggi delle
XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si
limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite
doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine
un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo, che la
forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram,
ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii,
come nella coemptio, nell'adoptio e simili: il che significa, che l'atto per
aes et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla
concessione dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi.
Mi pare ciò stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium,
relativa al commercium, fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve
attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano
appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il
concetto espresso da Ulpiano, allorchè scrive: omne ius consistit aut in
acquirendo, aut in conservando, aut in minuendo; aut enim hoc agitur, quem
admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo
amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del
diritto romano, deve essere riposta nel fatto, che la parte del ius quiritium,
relativa al commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il
nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero
più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta. Quando si
tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium, si
trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il
diritto del marito, del padre, del padrone furono model (1) Cid non può lasciar
dubbio quanto al nexum ed al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole
come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al
testamentum, da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni
testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII
Tavole. Fragm., XI, 14. (2) Ulp., L. 41, Dig. (1-4 ). G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si
tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di
tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un
figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo
ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti
di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius
quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni
posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che
nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente
alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi,
quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo
appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare
con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar
parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius
qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto
colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei
patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di
quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di
accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza
dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata
sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di
fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum
manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre
notti di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii
fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per
eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente
dovette essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era
la confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe,
venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria
per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del
l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune
ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente
sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la
tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli
eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in
questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a
penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e
la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte
dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito
conser vatore dell'antico patriziato romano (1 ). 367. La parte infine del
diritto primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium,
deve ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già,
che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma,
secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste
riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della
medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi
si può affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma
fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi
delle tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro
tecnica giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica,
che erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi
essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio
sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo
svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che
si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla
varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse
poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non
ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero
state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius
proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi
giureconsulti, sembra (1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente
enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V, ove trattasi
diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium, che l'espressione
ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium, la quale sopratutto si
adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum.
La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere
comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius
quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile,
ossia di un ius proprium civium romanorum. 168 contraddire alla opinione oggidi
molto seguita, secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte
le altre parti del diritto quiritario (1). Credo quindi opportuno di avvertire,
che io pure ammetto, che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici, che
ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio, il concetto che prima venne a
svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde
nell'elaborazione del ius quiritium. Questo infatti è già una costruzione
organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come
individualità giuridica integra e perfetta, e che in base al medesimo cominciò
dapprima dal modellare la pro prietà, a lui spettante; poscia gli attribui il
connubio; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei suoi
diritti di proprietà e famiglia: donde la conseguenza, che il ius quiritium,
essendo già un'opera riflessa, accolse talvolta più tardi istituzioni, che
nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto questo sguardo
complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha ' per noi una
grandissima importanza, in quanto che mantenendo nella ricostruzione l'ordine
stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale formazione del ius quiritium,
si potrà giungere a spiegare certi caratteri peculiari del diritto pri mitivo
di Roma, che altrimenti riuscirebbero incomprensibili. La materia intanto verrà
ad essere naturalmente ripartita in tre capi toli, di cui il primo si occuperà
del ius commercii, l'altro del ius connubii, e l'ultimo delle legis actiones.
(1) Fra gli altri sembra attribuire questa precedenza all'actio sulle altre
parti del diritto civile romano il Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del
diritto privato, Torino, 1885, pag. 105 e segg. (2 ) Ho cercato altrove di
spiegare questo carattere delle società primitive, che al punto di vista
attuale pud apparire alquanto singolare nella Vita del diritto nei suoi
rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, pag. 40. (3 ) Per una più larga
discussione intorno al modo, in cui si formarono le legis actiones, mi rimetto
al cap. VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di quest'ar gomento. - 469
CAPITOLO IV. Il ius commercii nel diritto quiritario. $ 1. Il commercium e
l'atto per aes et libram. 368. Se havvi parte del ius quiritium, che sia
modellata in per fetta correlazione con quella individualità giuridica, integra
e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si riferisce al ius
commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce indi pendente e
sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non trovasi imposto
altro limite e confine al suo potere, salvo quello, che deriva dalla osservanza
delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal diritto quiritario.
Il quirite infatti, quale pro prietario, può disporre delle sue cose fino ad
abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti (facere
mancipium ); quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la libertà
della propria persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo
debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo del
debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo
patrimonio, dimenticando anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che
i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium,
sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver
limite o confine: concetto, che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun
ciato con dire « uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e quanto al
testamento, colle parole: « uti pater familias super familia tute lave suae
rei, legassit, ita ius esto (1) ». E questa la parte, in cui « uti (1) Mentre
nella ricostruzione del Dirksen, seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la
disposizione: « Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto » sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt
invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione
legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto », che nella
ricostruzione del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene
ad essere la prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi,
l'incertezza intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. - 470 domina
sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni,
quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi
larga parte lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti
nel concetto primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano
ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex
fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano
essere apposte ad un trasferimento del dominio, o ad un testamento (1 ).
L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium, viene
anche ad essere provata dal fatto, che un medesimo atto tipico, che può
chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per
compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente
seguita, intorno all'atto tipico del diritto quiritario, sembra ritenere, che
tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga
applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire
la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o sopra una
persona (2 ). Parmi invece, che le poche vestigia, che a noi pervennero
dall'antico diritto, conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il vocabolo di lex,
come significò la clausola di un contratto o di un testa mento, così indicò
eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso
pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia, Caput I, pag. 240.
Quanto agli altri significati del vocabolo di lex, nel primitivo diritto ro
mano, vedi sopra nº 228, pag. 278. (2) Tra gli autori recenti, che cercarono di
ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in
quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale
mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il
Voigt, XII Tafeln, II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La
mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso. Questi verrebbe alla
conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di
un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi
in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi
mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel
testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio,
non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si
riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram.
Quanto agli atti di diritto privato, in cui abbiamo ancora l'intervento del
populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus
richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come
una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come
ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, pag. 256 e segg., discorrendo
dei calata comitia, e degli atti che compievansi in essi. 471 tipica del
negozio quiritario, debba essere riposto nell'atto per aes et libram; cosicché
la nexi datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la testamenti factio debbono
essere riguardate come altret tante applicazioni di quest'atto primordiale. Cid
può essere dedotto anzitutto dal concetto fondamentale del primitivo ius
quiritium, in cui tutto si riduceva ad una questione di mio e di tuo; donde la
conseguenza, che ogni atto relativo al commercium si riduceva in sostanza a
fare in modo, che una cosa di nostra diventasse altrui (quod de meo tuum fit)
mediante un corrispettivo, che può consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione
solenne assunta dal de bitore, o nel corrispettivo di quella finta mancipatio
familiae, in cui facevasi consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova
vasi mirabilmente espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo
concetto appunto, che risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi
giureconsulti. Questi passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era
un'applicazione dell'atto per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con
esso, poichè era definito: « omne quod geritur per aes et libram ». Lo stesso è
a dirsi del facere mancipium, in quanto che una parte essenziale della
mancipatio, quale è descritta da Gaio, consiste senz'alcun dubbio eziandio nel
l'atto per aes et libram; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa
del testamento per aes et libram, il quale si introdusse più tardi, e non fu
che una nuova applicazione dell'atto per aes et libram. Si aggiunga, che questi
passi degli antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla
significazione primitiva del nexum e del mancipium. Vi sono infatti dei
giureconsulti, che nel nexum comprendono anche il mancipium, mentre altri già
distinguono fra l'uno e l'altro, osservando che dal nexum deriva un
obbligazione, mentre col mancipium si opera la traslazione della proprietà.
Questa incertezza appare eziandio quanto al testamento per aes et libram, il
quale sotto un aspetto appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come
lo dimostra l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor; mentre
sotto un altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola, ma è
già un vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in
deposito e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa
liberamente disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà
cessato di vivere (1). (1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di
antichi giureconsulti, che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella
sintesi primitiva del diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al
commercium, compievasi per aes et libram, col quale atto esprimevasi lo scambio
ed il tra passo, e che solo col tempo in questa sintesi primitiva si vennero
differenziando il nexum, il mancipium, il testamentum; i quali col tempo
procedettero ciascuno per la propria via, ed informati ad un proprio concetto
finirono per dare origine a tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti
dal nexum scaturi la teoria delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella
dell'alienazione e trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel
medesimo, e dal testa mentum si derivò tutta la teoria della libera
disposizione delle proprie cose per causa di morte, la quale non potè mai
confondersi ed imparentarsi colla successione legittima, poichè questa nel ius
quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo
tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri tium, nella sua sintesi
potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una trasmissione con corrispettivo,
tanto nel contratto, in quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel
trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel testamento, mediante cui
l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum, il mancipium e il
testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni dell'atto per aes
et libram. « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et libram geritur, in
quo sint mancipia ». Varro, De ling. lat., 7, 5, § 105 (AUSCHKE, Iurispr.
antiiustin., pag. 6 ); « Nexum, est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et
libram geritur, idque necti dicitur; quo in genere sunt haec: testamenti
factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a
questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora
« omne quod geritur per aes et libram », sonvi poi altri passi, che già
attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta. Così, ad esempio: «
Nexum, Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter
quae mancipio dentur », la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De
ling. lat., VII, 105, il quale aggiunge: « hoc verius esse ipsum verbum
ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram, neque suum fit,
inde nexum dictum » (Bruns, Fontes, pag. 386). Quest'ultima definizione sarebbe
pur confermata da Festo, vº Nexum: « Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia,
quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi eziandio dei
passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di
traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5, 28: «
Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio alteri nexu, aut in
iure cessio ». Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln, I, pag. 197, nota 7,
e II, 482 e segg. (1) La successione legittima non prende le mosse dal
commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente cap. V, $ 5. -
473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad
essere obbligato alla continuazione dei sacra. Di qui la conseguenza, che, per
ricostruire in questa parte il ius quiritium, vuolsi ricomporre anzitutto il
primitivo atto per aes et libram, cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius
quiritium, e se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero
facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato, che nel diritto romano oc
corrono le traccie di un processo, che ha del matematico, e che taluni vollero
attribuire alla influenza di Pitagora, la cui filosofia, teorica e pratica ad
un tempo, poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e
dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo, che
non si può a meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed
esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare
sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in esso noi vediamo
comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la bilancia quasi per
de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con
traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto
origine dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude,
allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si stenta a
credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come tipico
quest'atto nel ius quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca, in
cui era veramente neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato nel medesimo
come una espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che
deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che deve mantenersi
fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve in
contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto rinvenire un
atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che Aristotele chiamò
poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva sovraintendere a quegli
scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di commercium (2 ). Ad ogni
modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario « quod geritur per aes
et libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti i trapassi, in tutte
le contrattazioni, che potessero interve (1) V. ZELLER, La philosophie des
Grecs, trad. Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la nota 8, pag. 401.
(2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474 nire fra i quiriti, tanto
negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa di morte, non pud
essere posta in dubbio (1). Vero è, che il medesimo non ci pervenne nelle sue
fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse, che se ne fecero; ma
il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle obbligazioni, nei
trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo modo fra i quiriti
compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto, sopratutto in altri
tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il quale, al pari
dell'antico atto per aes et libram, con tinua in certi confini ancora oggi ad
avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo, salvo che esso sia impugnato
di falso (2). Dal momento, che erasi venuto formando per la comunanza dei
quiriti una forma particolare di diritto, che prese il nome di ius quiritium,
era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che potesse ser vire
nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub blico, come tutti
gli atti, che si compievano fra i quiriti; doveva es sere fatto colla
testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in qualche modo
la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella comunanza quiritaria,
donde l'intervento nel medesimo dei classici testes, corrispondano o non i
medesimi alle cinque classi serviane; doveva esser fatto coll'intervento di un
pubblico ufficiale, che era il libripens, il quale poteva anche essere inca
ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che ne derivavano
alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi tempi
aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator, incaricato in certo modo di
richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza dell'atto
(3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni (1) Tra gli
autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram
costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al
com mercium, parmi di poter annoverare l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano,
$ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, pag. 82. (2 ) Cod. civ. it., art. 1317. (3)
Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil
mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed
Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram,
quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per
aes et libram, dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all'
antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg. 475
diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº
dell'atto per aes et libram, il quale, mentre dava al negozio il carattere di
pubblicità e di autenticità, poteva eziandio essere un ricordo effettivo di
un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva
perciò essere pesato colla bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso
di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con
preci sione ed esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i
contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi «
dicis gratia, propter veteris iuris imitationem »; la seconda parte invece
serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le
applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram, non solo ai
negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi
all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes
et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium, esso non può e non
potrà forse mai essere determinato con certezza, anche per il motivo che il
medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è
probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette
essere quella stessa, in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium, comune al
patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità
essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che
mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure
quiritium, la quale con sisteva nel mancipium; quindi è probabile, che anche
allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii
quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram
richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio, noi sappiamo, che probabilmente
in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario,
poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non
consistette nel rame, ma nei capi di (1) L'esistenza di questo duplice elemento
nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle
XII Tavole: « qui nexum faciet, mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes
et libram, descrittici sopratutto da Gajo, Comm., II, 104-5 e da Ulp., Fragm.,
XX, 9. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra
la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa
guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è
probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per
simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo linguaggio simbolico
corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli
dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii
dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che
fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di
classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel
testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni
dell'atto per aes et libram (1). Infine anche l'intervento di un pubblico
ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità, in cui
si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri
spettiva dei quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che anche nella
formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato
dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente,
attribuendovi il carattere quiritario, e cambiandola cosi in una forma tipica,
che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto,
che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui
l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato; ma questo
è certo, che quando quest'atto compare nel ius quiritium, esso viene già (1)
Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur
». La questione se questi classici testes dovessero ritenersi come
rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno
di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio, pag. 83 e segg., il
quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla
rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i testimoni
non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può
facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm.,
II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò
essere presi anche dalla stessa classe: ma intanto non vi ha motivo per ne
gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano
essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello
spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram, con cui
si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei
testimonii tolti dalle classi al modo stesso, che ancora in base alle XII
Tavole era stabilito: « adsiduo adsiduus vindex esto ». Tale sembra pur essere
l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi non
improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque
classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo
di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della
mancipatio, come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca,
in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per
quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et
libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto
quiritario, è opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato
alla mancipatio, poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram
(2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda
dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano
attestano, che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior
mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti
indizii per credere, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum
debba essere considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo
anzitutto nel fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi
prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è
solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite
nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il
facere mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla
proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la
plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia
reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A
ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà
relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come
strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad
imprestito; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i
giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma
riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di
carattere quiritario; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di
imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di
applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad
esempio, il matrimonio per coemptionem. (2) Tale sembra, ad esempio, essere
l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., pag. (3 ) GAJO, Comm.,
II, 102; ULP., Fragm., XX, 2. 58 e segg. 478 dell'atto per aes et libram, non
solo per eseguire il pagamento del prezzo, ma anche per operare il trasferimento
della proprietà di una cosa, è già ad evidenza un espediente giuridico, e
merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio ». Si comprende
pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il facere
mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome « omne
quod geritur per aes et libram », mentre non consta che essi facciano mai
rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche
aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le
stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo: « cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »: argomento questo,
chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si
consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani,
sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo,
facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la
cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per
prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto
cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad
essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla
fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in
dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per
eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che
presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario;
perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il
mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio;
cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi
nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et libram ». La
distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio
Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et
libram fit », ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in
quello di obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad
essere seguita, e fu allora che si chiamò nexum, « quod obligatur per libram,
neque suum fit». Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe
dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi
di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che
compievasi « per aes et libram, necti dicebatur », mentre più tardi fini per
significare l'obbligazione assunta per aes et libram; trasformazioni di
significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i
vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali tutti, mentre hanno una
significazione più larga, finiscono per assumere un significato specifico più
circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge
un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto
quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto,
quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum,
ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti. Ciò è dimostrato dal
fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e
che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e
si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine
intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima
del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del testamentum per aes et
libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria. 373.
L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto, che
contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in quel (1) Non parmi
pertanto, che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui
fatti, del SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il
nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe
poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato
il prezzo. Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la
consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente
nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano
fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato
e la plebe, fu quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il
mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo
più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della
proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo
svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al
PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 250, dove, premesso che il con cetto del
diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche
precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia,
Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg. 480 l'epoca, in cui la plebe,
priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non
poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In virtù
del nexum il debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere
sottoposto alla manus iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del
creditore patrizio (1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria,
il nexum, questa obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra
la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi
nella forma tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò
sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette
essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza
cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens
e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci
giunse invece, conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale,
essendone naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la
formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella
nezi datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo
(3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero
concorrere due parti, cioè: (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima
letteratura sul nexum, ricorderò soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig,
1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains,
Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a
163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono
ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita, il nexum dava origine
ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta,
autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt
sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto
speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima
opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che ho cercato di
spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione,
che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere
l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse
prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della
stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram, per contrarre il
nexum, probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da
Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., pag. 67. (3 )
La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe
la seguente: « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te «
solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque
481 1° l'atto per aes et libram, non minus quam quinque testes, cives romani,
il libripens e forse eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa
bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti.
Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal
nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di
damnatio. Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas
sum, il che implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava
contro se stesso, al pagamento della somma (1 ). Di qui la conseguenza, che se
il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo
fosse damnatus al paga mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus
iniectio, senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato. I
dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum, sono quelli re lativi alla
natura dell'obbligazione contratta col nexum, ed agli effetti, che derivavano
da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella
legislazione decemvirale. 374. Per quello che riguarda la natura della
obbligazione con tratta col nexum, alcuni antichi scrittori, non giuristi,
descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del
loro & expendo secundum legem publicam ». Essa è per noi molto preziosa: 1°
perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio
per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui
applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere
ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento
per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere
risolte con un atto della medesima natura; 3. perchè infine ci attesta, che
l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam, e
come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col
nexum, ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati,
o del pagamento di un legato per damnationem. Ciò conferma sempre più la
congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la
forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni,
allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium. (1) La nuncupatio del nexum
secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma
egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e
damnas sum, in conformità appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non
avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che quest'ultima
parte della sua ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così essendo, la
formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi liberatio,
conservataci da Gaio, la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più testuale in
proposito. G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a
dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto
rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri tenere talvolta, che il nexum
attribuisse il diritto di procedere non solo contro la persona, ma anche contro
i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del
primitivo ius qui ritium, secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare
due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e del mancipium, lasciava poi
che ciascuno procedesse per la propria via, informato ad una propria logica,
senza che l'uno più non si confondesse coll'altro. Ora pur riconoscendo che il
vocabolo di nexum, nella sua significazione primitiva, designasse in genere il
vincolo giuridico, che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse
anche estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più
essere cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i
due con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi
sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata
anteriormente all'epoca decemvirale, e che da quel momento il quirite come tale
ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità; quello cioè di alienare
il proprio mancipium, o quello di vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva
trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli effetti
dell'uno non potevano più confondersi coll'altro. Fu in seguito a questa di
stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che
le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum, non possono mai
riuscire al trasferimento della proprietà, il quale con tinuò sempre ad
operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano sottentrate
all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa parte di dovere seguire
l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder, secondo cui il nexum
costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso, che
quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del creditore
per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio costituisce invece
(1) Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce queste parole a quel nexus, che
avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per causa della legge sui
debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris primo se agro paterno
avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis; postremo, velut tabes, pervenisse ad
corpus ». È tuttavia evidente, che quinon si dice punto, che il creditore, in
base al nexum, potesse pro cedere sai beni del debitore, ma solo che
quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo patrimonio avito, e poi
anche vincolare la sua persona al proprio creditore. 483 il trasferimento di
una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione, che fu seguita
recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono, che la primitiva
obbligazione quiritaria, la cui forma tipica fu il nexum, costituisse dapprima
un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una persona ad
un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente personale del
nexum primitivo; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può condurci in
qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto primitivo di
Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio debitore. Parmi
tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze, allorchè si
tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione contro il
debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non spiegasi
soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2 ). 375. È
certo ad ogni modo, che il nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era quella,
che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra
i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie della
soggezione, pressochè servile, a cui un tempo era ridotta la plebe; poichè
anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono sottoposti al
rigore del nexum, mentre il patrizio, anche oberato di debiti, poteva trovar
sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte fra i due
ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per assicurare la
sua superiorità sopra la plebe, e fu in tal modo che una istituzione di diritto
privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La questione della
condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il
quale, se non pagd del proprio i creditori, come vorrebbe la tradizione, certo
impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi obligare col nexum.
Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti, che i plebei si
rifiutano prima alla leva, poi abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER,
Istituz., trad. Caporali, pag. 225 e segg. Cfr. eziandio l' Esmein,
L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue
histo rique », 1887, pag. 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare la
stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament per
aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2)
La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata nel
capitolo VI, § 3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus
iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano, che dopo aver ottenuto la
istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale
porta le traccie di questa contesa; come lo dimostrano le disposizioni minute,
a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore,
ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò, le dissensioni continuano
fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum, e
neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore,
anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il
diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il
debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato (). Continuò
quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram, qual mezzo di
sottomettersi al nexum, come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio,
che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto il nexum, sprovvisto di quegli
effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di
questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad
essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume,
ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius
quiritium. 376. Accade qui, in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga
a quella, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al
concetto del mancipium. Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio, VIII,
28, sono le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum, ne quis, nisi qui
noxam meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur;
poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi
soluti, cautumque in posterum, ne necterentur ». Di qui alcuni autori avrebbero
argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura contro la
persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe
smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura
fu sempre contro la persona, mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal
pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum, introdotta dalla
legge Giulia, fu ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le
parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il
nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore
nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo
mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus
iniectio; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un
'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente
la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al
medesimo la mutui datio e la stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al
mancipium, quale unica forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò
il concetto più largo del dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma
primitiva dell'obbligazione quiritaria, sottentrò il concetto più esteso
dell'obligatio propria civium roma norum, al vincolo materiale, che stringeva
il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma
intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero
ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell'
obbligazione un vincolo pressochè materiale, e nel pagamento ravvisava lo
scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso, che col
sostituirsi al mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium,
si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio;
cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio, si
vennero accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi.
Il nexum, mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e
giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso
teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi
dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram, mediante cui avveravasi il
trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa (tuum de
meo fit ): e della nuncupatio, mediante cui fra creditore e debitore si
conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del
nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento, e si operò la
distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur
verbis, a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae
contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente
del nexum, che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium,
sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium
civium romanorum, quali sono la mutui datio, la sponsio o stipulatio, e la
acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii
contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano, sotto
il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente anzitutto
l'analogia col nexum della mutui datio. Questa infatti continua a produrre
un'obligatio stricti iuris; si ap plica dapprima alla credita pecunia, e poi si
estende a tutte le cose quae numero, pondere ac mensura constant: e la sua effi
486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae, oppure con segna
della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il
modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato,
del deposito, del pegno (1). Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più
largo sviluppo collo scomparire del nexum, è sopratutto la sponsio o stipulatio.
Questa, sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio, che già
preesisteva nel nexum, salvo che essa, liberata di quella forma rigida della
damnatio, che era propria del nexum, venne a trasfor marsi in una semplice
sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo
di una interrogazione e di una risposta, congrue e solenni, le quali, per la
propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere
la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino
romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto
nello svol gimento di essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti
romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a
concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei varii
negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si
riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla
etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo
deriverebbe da « quod de meo tuum fit ». Per conto mio, non come etimologo, ma
come giurista, ritengo invece assai probabile questa etimologia, tenuto conto
di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum
e di tuum, e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un
oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano
tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi
tempi fu il frutto di una vera elaborazione, la quale può benissimo avere
adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi
delle etimologie di testamentum da mentis testatio, di manci pium da manucaptum,
e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere
composte post factum, sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid,
che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il
significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano
sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata,
dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di
qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo. In cid
abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè
diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni
intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la
ritengono come la parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per
aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo
sponsio, la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti
all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca,
donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es.,
l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più
artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come
quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura
stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di
obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla
stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla
volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo
favore, di interrogare il promettente: « centum dare spondes? », e tocca a
colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo che non
possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene poscia
nel costume una dextrarum iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è
l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio. Forse in antico
potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento, come lo indicherebbe la
significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è
accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere
primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa
non è più quella del nexum, propria del ius quiritium, e modellata
probabilmente dal ius pontificium, nell'intento di serbare le tradizioni del
passato; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum, come lo dimostra
il fatto, che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini,
riservarono sempre per sè la espressione primitiva: « spondes? spon deo », la
quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva
accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni
modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital.
Rechtsgeschichte, pag. 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., pag.
228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un
modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla
stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i
popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio, pag. 47); ma non posso in verità
persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che
senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi
deve essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle
costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del
ius quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare
in disuso il nexum. (1) Questo carattere speciale della stipulatio, per cui
essa costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative
di un negozio, in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula,
e il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE,
L'ancien droit, pag. 311. 488 contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole,
come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale,
che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico
per conchiudere qualsiasi trattativa; può servire per un'obbligazione
principale ed anche per un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per
propria natura, si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una
convenzione bilaterale. Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio
è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta
di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi
ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i
giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei
contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e
pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai
dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più
tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di
Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti
letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio, che il diritto
civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per
dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla
propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel
costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale,
ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la
figura del primitivo capo di famiglia, il quale dir: gendo una vasta azienda e
avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il
conto quotidiano del dare e dell'avere. Ciò che egli scrive nel proprio libro
doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero, che
era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe
ricoli nel diritto, come quello, che fondavasi esclusivamente sulla buona fede.
Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma,
il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al
nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito, che doveva restare a
mani del cre ditore (cautio, chirographum ); al qual proposito viene ad essere
probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi
imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di
origine probabilmente g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino
a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es
sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad
entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a
comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo,
sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius
honorarium, sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica
all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si
perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche
l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto, poichè la legislazione
decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta, doveva essere
accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi
stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per
trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata
dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne, che essa, come contratto
stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non
ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il
dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere,
praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè
della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati
sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la giurisprudenza
romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le mosse da una unica
forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col nexum, allorchè
pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato a sentire il
bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae ex contractu
nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una suppellettile così
copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu costretta a creare
la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che si riferisce all'expensilatio ed
all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il Codex accepti et
expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap. XXI, pag. 249 e
segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella « Enciclopedia giuridica
italiana », vol. I, pag. 175 a 180, vº acceptilatio. (2) Quanto alle origini di
uno di questi contratti consensuali, cioè della societas, vedi l'articolo del
Ferrini nell'a Archivio giuridico » diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti;
accanto ai contratti nominati dovette porre quelli non no minati; accanto ai
veri e proprii contratti, i patti, che non pro ducono azione, ma una semplice
eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel
diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche
qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel
ius civile, presentisi costantemente una parte già formata e consoli data, e
un'altra, che si viene foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle
formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della
primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto
è vero, che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle
obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto, a cui si informava
l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che viene ad essere enunziato da
Paolo con dire « obligationum « substantia non in eo consistit, ut aliquod
corpus, nostrum, aut « servitutem, nostram faciat, sed ut alium nobis
obstringat ad « dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum » (1). Si viene
cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del
trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di quella, che
negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e
quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei modi,
coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i
diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del
diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. – La mancipatio
e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio
quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma
primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese
più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma primordiale,
che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure
quiritium (2). Tanto la nexi datio, (1) Paolo, Leg. 3, Dig. (44, 7). (2) Anche
sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura. Tra i recenti mi limiterò
a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition, Iena, 1865; il
MuirHead, Hist. Introd., sect. 30, pag. 131 a 149; il Voigt, XIl Tafeln, II, SS
84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come due ap
plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes et
libram, come lo dimostra il fatto, che i più antichi giureconsulti comprendono
l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per aes et
libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella nuncupatio,
ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto per aes et
libram, e che potevano attribuire al medesimo una significazione diversa.
Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di condanna
convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in imprestito;
la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci conservata da Gaio,
consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens, che la cosa gli
appartiene ex iure qui ritium, per averla egli acquistata con tutte le
solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure quiritium
meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio poi non ci
dice, se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens corrispondesse
una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è certo, che
questi, essendo presente all'atto, e ricevendo quell'aes rude, con cui si
percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo, riconosceva con cið la verità
dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella
mancipatio, che sebbene a 88; il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887. Sembra
essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di
mancipatio si dicesse mancipium; donde la conseguenza, che la espressione
facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem. Noi
abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre
significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite;
quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le
antiche espressioni di facere mancipium, mancipio dare, mancipio acci pere
dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium, o il
trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di
mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni
costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto. Di
qui la conseguenza, che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da
manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr.
BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum
Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia ».
VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo
capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le
formalità, da cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima
in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd
eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il
fatto, che era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua
proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la
conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per
gli immobili era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen
nato da Gaio, secondo cui « immobilia in absentia solent manci. pari » (1).
382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata
coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte indizio, che la
mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa, in cui
si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata introdotta quale
mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium, in
quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria,
quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel
censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita al mancipium,
che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii
contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare
probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una
stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal fatto,
che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa, continuarono
sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione del tutto
proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero cosi
chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio, Comm., I,
119. Sono da vedersi, quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa
acquistata, se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota
10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi
scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in
certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano
oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e
il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende
probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum, come lo provano i passi
citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134, nota 12. (2 ) Cfr.,
quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi
Gaio, I, 120 e Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio
era esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive
quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü ». Ciò però non
impedì, che, trattan 57 e segg. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto
alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non
erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere
man cipium, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in
vigore la semplice traditio, la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo,
poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel
mancipium. Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione
giuridica, la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium, la
traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle
cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non
formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di
cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della
legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del
mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose, che potevano
essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a sovrapporsi un concetto
più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo momento infatti le res
mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle
cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria, ma questa già può
estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium. Di
qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo
esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd
introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione
del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in iure cessio, la quale,
essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si
ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia, quali erano
ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche
la mancipatio. V. quanto si è detto a pag. 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da
ULP., Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era
propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque propria est
alienatio rerum nec mancipii »; nei quali passi è evidente, che la man cipatio
e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec
mancipium. Quello cade sotto il diritto civile, e perciò deve essere alienato
colle forme del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui,
allorchè scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et
venire iure civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto
fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra
i modi civili e naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad
evidenza da Gaio, Comm., II, 65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro
è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il
possesso di una cosa, durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà
quiritaria della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad
essere tre i principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la
proprietà quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente
proprio dei cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre
la mancipatio, la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il
tras ferimento del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium,
continua sempre ad essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii.
Vero è, che in questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi
più tardi applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere
oggetto di proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi
accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali
parlano sempre della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò
tuttavia non impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia
acquistata una elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega
come essa sia durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della
proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una influenza analoga a quella
esercitata dalla stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il
facere mancipium, negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo
diritto, che producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non
ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece
introdussero il principio: « qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita
ius esto », e diedero così libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo
mancipium, sotto la forma di una nuncupatio, che faceva parte integrante del
negozio, tutte le clausole e condizioni, che potessero convenire ai contraenti.
Fu in questo modo, che l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei
casi e delle esigenze, e che si vennero così formolando, per opera degli stessi
pontefici e giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono essere
indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio
dans, pur alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè
alienarla con patto di (1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm., XIX, 3. Vedi tuttavia
ciò che in proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto, poté
restringere la propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della
cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero naturale, che, per aggiungere
alla mancipatio tutte queste clausole, più non poteva bastare la semplice
affermazione del man cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium;
maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con una congrua risposta,
apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero essere del caso, le
quali, entrando a far parte integrante della stessa mancipatio, dovevano fra i
contraenti avere la forza di vere leggi (1). 385. Sopratutto, fra queste leges
mancipii, viene ad essere impor tantissima quella, che suol essere indicata col
vocabolo di lex fidu ciae, od anche semplicemente con quello di fiducia (2).
Questa pro babilmente doveva essere nata nelle consuetudini della plebe, la
quale, non possedendo le vere forme giuridiche, doveva di necessità nelle
proprie convenzioni lasciare una larga parte alla scambievole fiducia (3 ).
Anche questa fiducia colla legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium,
dove, combinandosi col rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella
singolare istituzione della man cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare
un così largo (1) Si può veder raccolta nel Voigt, op. cit., II, $ 85, pag. 146
a 166, una varietà grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da
passi di antichi autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono
riportati parecchi moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. (2)
Quanto alla mancipatio cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86, pag. 166 a 187,
ove sono raccolte le formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel
modulo di mancipatio fiduciae causa, che si fa risalire al primo o secondo
secolo dell' êra cristiana, riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. (3) Le
ragioni, per cui le origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze
della plebe, furono già esposte al n ° 149, pag. 184. Di recente un giovine e
dotto autore, l’Ascoli, ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come
forma di pegno, non dovette essere il prodotto spontaneo delle pratiche
necessità del commercio, ma una creazione artificiale, e che l'ipoteca nel suo
concetto astratto è più semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e
l'interdetto Salviano, Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si
riporti col pensiero ad una plebe ragunaticcia, in parte immigrata e priva
ancora di una vera posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori
della città, comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito
presso coloro, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più
acconcio, che quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro
dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza
di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà, che
mal si poteva conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496
svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto all'ele mento
strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi derazione della
buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo alla osservanza
delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche
conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo
elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della mancipatio,
cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà assoluta
sulla cosa a lui alienata, ma disse invece: « hunc ego hominem fidei fi duciae
causa ex iure quiritium meum esse aio »; colla qual formola già si lasciava
intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa
perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di
fiducia (1). Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o
con un creditore. Essa accadeva, ad esempio, con un amico nella manci patio
familiae cum fiducia, che fu una delle forme più antiche di testamento,
mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico (familiae emptor),
coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui
altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore,
allorchè a lui si mancipava la cosa, che si voleva lasciargli a titolo di pegno
(2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia
giuridica, ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio
cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico, mediante cui la
mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà; ma
serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e
riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali
essa si svolse, come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio fiduciaria
(3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal diritto
civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto; ma (1) Cfr. il
MUIRHEAD, op. cit., pag. 140 e seg. e il Voigt, op. cit., II, pag. 172. (2) È
notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal
Bruns, Fontes, pag. 406, in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche
antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca.
Della fiducia egli scrive: « fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae
pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur ». (3) Quanto alle
svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg. 497
siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii,
cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla
legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la
proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa, ancorchè entrambi
costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono l'in iure cessio e
l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di
acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure cessio viene talvolta
nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio, perchè essa, al
pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è
in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. (1); l'usucapio invece
nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas.
Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o
dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa, che
forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti almagistrato, e a cui
sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece fondasi
esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due
anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra
cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla.
Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente
legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato;,
nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in diritto, ossia
l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium,
quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste considerazioni mi
inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto,
ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali tutto già
facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato, l'usus
auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale, avendo
dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto, dovette cono
scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione, che
vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di
acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio,
Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis
actio vocatur ». A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima
di Ulp., Fragm., XIX, 10 « In iure cedit dominus; vindicat is, cui ceditur;
addicit Praetor ». G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu in
certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da
una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale era
ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a
riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale
'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1) Qui cade in acconcio di
arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione « usus
auctoritas », che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN
collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di
CICERONE, Top., 4: « usus auctoritas fundi biennium est; ceterarum rerum omnium
annuus est usus ». Essa invece dal Voigt, op. cit., I, pag. 110, sarebbe
collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così concepita: « usus, auctoritas
biennium, cetera rum rerum annuus esto ». Di qui molte discussioni fra gli
studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al
qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si
riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che
incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire,
che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno,
secondo le cose di cui si tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata
dal SALMASIO, De usuris, cap. 8, pag. 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe
seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus
dall'auctoritas con una virgola. A mio avviso invece sembra alquanto fuor di
luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli
antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che
l'espressione effi cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il
contrapposto dell'altra espres sione « iuris auctoritas », e che quindi la
significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come
titolo, e il possesso equivarrà a proprietà, allorchè essi siano durati un
biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus,
analogo a quello di possessio, non avrebbe potuto da solo indicare
l'usucapione, e fu perciò, che dovette dirsi usus auctoritas, la quale
espressione appunto occorre in Cic., Top., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro
Caec., 19, sembri separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et
auctoritatem fundi iubet esse biennium »; ma è facile il vedere, che la dizione
qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur
sempre una cosa sola, cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti
dall'uso. Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic.,
Top., loc. cit., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la
iuris auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive: «
Plurima « rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo
fuerit usus, « id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem; fundi
vero usucapio « biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero: ut, quoniam
ususauctoritas fundi « biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur aedium usus
auctoritatem biennio « fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag. 400). Che se altrove
la legge dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto », gli è perchè ivi
parlasi tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva
specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo
significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due
istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento
del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice
Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla
mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi
contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori
presso il magistrato (1). Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po
tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al
trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive
di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si
poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec
mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa
incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo
tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la
mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto
della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva
conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che
mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come
una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del
diritto. Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da
una posizione di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la
semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò
la formazione della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e
che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il
possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto
all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero
più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre
solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio, e non mai della
durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la
ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium,
ceterarum rerum annus esto »; la quale concorda anche di più colle regole
grammaticali. (1) Scrive infatti Garo, Comm., II, 25, discorrendo della iure
cessio per le res mancipii: « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus
utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non
est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae
agere ». (2) GAIO, II, 33; Ulp., Fragm., XIX, 11 e 12. 500 ritario, che essa, a
differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi,
non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto
il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di
usucapio. Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento
all'usucapio, il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che
trascurassero di esercitare il proprio diritto, ma bensi in quello di evitare
l'in certezza dei dominii: « ne rerum dominia diutius in incerto essent ». 388.
Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente
adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe
potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere
quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in
veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in
grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i
mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium,
facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso
continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve
spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e
proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di
questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la
pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per
far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine
per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di
un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non
si richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma
basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i
giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto
al nº 154, p. 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere
giuridico ai possessi della plebe nel ter. ritorio romano era il miglior mezzo
per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD,
op. cit., pag. 48, e l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei « Mélanges
d'histoire du droit », Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus
auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in
una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà
di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche
all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che
debbono concorrere in tale possesso, perchè possa dar luogo all'usucapione (1).
Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe
cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla
donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore
(sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza
venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che
dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto, fini
col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto inerente al
titolo di acquisto, proveniente o da irregolarità dell'atto di trasferimento o
da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua natura, può già
applicarsi cosi alle res mancipii, che alle res nec mancipii, ma non pud
tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non poteva essere
oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi
una istituzione del diritto delle genti, che è quella della prescrizione, la
quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a quello della
usucapio nel diritto civile: come lo dimostra il fatto, che le due istituzioni
finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio
longi temporis giustinianea (5 ). (1) Questo carattere dell'usucapio primitiva
è già accennato dall'Esmein, op. cit., pag. 177, e può inferirsi dalla
definizione di Ulpiano, Fragm., XIX, 8: « Usucapio « est dominii adeptio per
continuationem possessionis anni, vel biennii »; nella quale non occorre ancora
quel carattere della iusta possessio, che compare invece nelle altre
definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes,
pag. 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si parla, che sarebbe
il pos sesso ad usucapionem, ed il possesso ad interdicta, che costituisce un
istituto, avente un proprio scopo, e distinto da quello della proprietà, vedi
ciò che si disse più sopra al n. 357, pag. 452, nota 1. A parer mio dovette
forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem, e più tardi soltanto
quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione speciale delle res
mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha evidentemente lo
scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo nella linea agnatizia,
è attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192 e II, 80, e da ULP.,
Fragm., XI, 27. (3) È naturale infatti, che l'usucapione in una società, che si
forma, sia un modo di acquisto, e che in una società invece, che si è formatn,
si converta in un mezzo di difesa; e richieda così un tempo maggiore per
servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano sopratutto
all'acquisto; mentre le società adulte e già for mate pensano sopratutto a
conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm., II, 46: « item provincialia praedia
usucapionem non recipiunt ». (5 ) Mainz, Cours de droit romain, I, SS 111 e 112,
pag. 745 e segg. 502 389. Intanto,mentre accade questo svolgimento nei modi di trasfe
rimento della proprietà ex iure quiritium, accanto alla medesima viene
lentamente consolidandosi un'altra forma di proprietà, che prende il nome di
proprietà in bonis. Questa dapprima non è che una proprietà di fatto, ma col
tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per opera del pretore una
protezione di diritto, e viene così a costituire un vero dualismo nel concetto
di proprietà, il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: « postea divisionem
accepit dominium, ut alius possit esse ex iure quiritium dominus, alius in
bonis habere (1) ». Il primo nucleo di questa nuova forma di proprietà ebbe ad
essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse
colla semplice traditio; ma poscia essa fini per comprendere tutte le altre
cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della proprietà ex iure
quiritium. Che anzi il dualismo andò fino a tale per l'esistenza contemporanea
del ius civile e del ius honorarium, che di una stessa cosa potè accadere, che
altri fosse il proprietario ex iure quiritium, mentre un altro la teneva in
bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà
ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento. È tut tavia notabile,
che prima della fusione delle due proprietà, quella in bonis già cominciava in
certe cose ad avere la prevalenza; come lo dimostra il fatto, che se un servo
appartenesse ad una persona ex iure quiritium, e fosse stato in bonis di un
altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale
era in bonis (2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà, che diede
occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto, accanto a quelli ricono
sciuti dal diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a riassumere scrivendo: « Ergo
ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea,
quae traditione alienantur; quaedam civili, nam mancipationis et in iure
cessionis et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » (3). Così è pure
questa lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio
(4 ), ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, (1)
Gaio, Comm., II, 40. (2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm., XIX, 20. (3) Id., II, 65.
Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di
acquisto. (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De
l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique », 1885, pag. 481-526,
e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per essere
pareggiate fra di loro, ed allora si consegue l'effetto, che quelle
caratteristiche della pro prietà quiritaria, che si erano prima applicate a
quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium, poi si erano
estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium,
finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio,
possono essere oggetto di proprietà privata. È solo allora che Giustiniano,
forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo avevano compiuto le
distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure
quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste
distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno solo
più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1). 390. Infine anche qui deve
essere notato, che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà non
potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso, che più
tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et
usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa
pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro
prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una
persona ad un'altra. Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio e
della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: «
obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab
aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res
corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum; sed opus est, ut,
iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla
stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio,
che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per
tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius
quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co (1) Giustin., Cod., VII, 25: de nudo iure quiritium
tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione transformanda et de sublata differentia
rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3
) Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono
dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima
elaborazione del ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo,
che viene attraendo tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si
confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre
materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse
trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice
contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare
da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel
concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del
manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti
ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche
cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche
fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente.
Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di
questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram.
$ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391.
Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente
quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la
storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel
passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi
anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla
fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli
inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari
dell'adrogatio, della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti
coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei
comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti
patrizie, che concorsero alla fondazione delle città, le quali dovettero ser
virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è
veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia,
ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e
della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto, e un
proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale, che essa tendesse a
perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande
sventura la mancanza di un erede, che continuasse in certo modo la sua
personalità, e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico. Fu quindi
per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso
presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum: due istitu zioni, le
quali, ancorchè in guisa diversa, mirano in sostanza al medesimo intento, cioè
alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Intanto però, siccome l'una
e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia, cosi
egli è certo, che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non
poterono compiersi dal capo di famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero
invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia, che
appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè poi le due
istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse
conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due
negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di
privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie,
convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola
dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio, conviene inferirne, che anche
il testamento, in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e
propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei
comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti
patrizie, e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al
testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; (1) Ho già
toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il
testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg. Cfr. in
proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag. 184 e il CoQ, Recherches sur le
testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag.
536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel
diritto greco, e sopratutto nell'ateniese, nel quale il primitivo testamento
compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales
a Sparta. Paris, 1880, pag. 96 e segg.; e il Cocotti, La famiglia nel diritto
attico. Torino, 1886, pag. 69. (2) Questo carattere pressochè pubblico
dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come
lo prova il detto di PAPINIANO, L. 4, Dig. (28-1): testamenti factio iuris
publici est. Cfr. quanto ho scritto a n ° 221, pag. 268 e seg. 506 - ma lo
scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto, e di impedire la
divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra l'antica espressione
romana « ercto non cito »; la quale ha tutti i caratteri di una primitiva
clausola testamentaria. Quanto alla plebe, non avendo essa la organizzazione
gentilizia, non poteva certamente possedere un simile testamento; quindi è
probabile, che il capo di famiglia plebeo, quando rimaneva senza figliuolanza
diretta, non avesse altro mezzo di disporre delle proprie cose, che quello di
ri correre all'istituto della fiducia, affidando il suo patrimonio ad un amico,
che ne disponesse nel modo da lui indicato; modo questo di far testamento, che
era una conseguenza naturale delle condizioni economiche e giuridiche, in cui
trovavasi la plebe, e che Gaio ci indicherebbe come affatto primitivo, ed
anteriore ancora a quella forma di testamento, che a noi pervenne sotto la
denominazione di testamento per aes et libram (1 ). Di qui la conseguenza, che
fin dagli esordii di Roma dovettero tro varsi di fronte due forme di testamento;
un testamento cioè, di origine patrizia, fatto colla formalità di una vera e
propria legge, nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici,
diretto a perpetuare la famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione
dei patrimonii; e l'altro, di origine plebea, che compievasi colle forme stesse
di quel fedecommesso, che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il
quale non era che una applicazione della fiducia, e aveva l'unico scopo di
porgere un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il
tempo, in cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la
plebe entro eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di
testamento, comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che
l'esposizione di Gaio ci può venire in sussidio per ricostruire la storia
primitiva del testa mento civile romano (2 ). Gaio ci parla di due forme
primitive di testamento, cioè: di un testamento, che compievasi in calatis
comitiis, i quali si sarebbero radunati due volte all'anno per la confezione
dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm., II, 107. Vedi a proposito di questo
primitivo testamento della plebe, che era una applicazione della fiducia e
corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso, che fu accolto più tardi nel
diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag. 184 e seg. Cfr. MUIRHEAD,
Histor. Introd. (2 ) GAIO, II, 101 a 108. 507 testamento in procinctu, che
facevasi invece davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi
sembra compiacersi nel notare, che queste due forme di testamento
corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo, che era
proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in pace et in otio faciebant,
alterum in praelium exituri » (1); ma intanto non dice, se i comizii calati, a
cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie. Sembra
tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui discorre già delle due forme di
testamento, comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già
erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione
non si deve riferire al popolo primitivo delle curie, ma bensì al popolo
plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione,
che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un
esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui
discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle genti patrizie, che fa
cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi
un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei
comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii
delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie,
che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti:
mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni
qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite,
come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed
è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte, come ebbe
a dichiararlo espressamente la legge decemvirale; così si può in durne, che il
popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario, più non
intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare
la propria testimonianza, secondo la (1) GAIO, II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27, 1
e 2, parlando dei co:nitia calata, scrive: « eorum alia esse « curiata, alia
centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari; «
centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i
testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati
curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V, 19, 6, parla un'altra ' volta
dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere
soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a
differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie,
salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la
rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr. Cuq, art. cit., p. 539. 508
formola, che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram: « et vos,
quirites, testimonium mihi perhibitote ». Cid è confermato eziandio dalla
considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due
volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè
impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto
essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge, che
erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di qui deriva,
che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella
forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle
curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo
questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità, in
quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento,ma sol
tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende pertanto, che la
consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di
fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia,
che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta
posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era
in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea, salvo che esso era
già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram, e ac
compagnato dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile a
celebrarsi, ma che, al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima
l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il
quale poteva anche abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta.
Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice
Gaio, di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono
così quella forma di testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius
quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento
di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo
testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae
cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes
et libram, quale è descritto da Gaio, II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op.
cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il
quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare
separatamente del testamento per aes et libram. 509 pertanto compare nel ius
quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad essere
una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento di
porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in
cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di
Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e
della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto,
come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al
libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze
del testatore (familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva
mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e
l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor;
nel testamento invece per aes et libram, quale appare modellato in questo
secondo stadio, il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un
depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne «
secundum legem publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza, che il familiae
emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne
dichiara perd semplice depositario, ricorrendo alla formola seguente: « familia
pecuniaque tua endo mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure testamentum
facere possis secundum legem publicam, hoc aere esto mihi empta » (2). (1)
Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag. 565,
verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che
tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex
publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole
della formola: « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam
», mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter
fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di
cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum
legem publicam », compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui
si dice: « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem
publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la
significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea
interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et
libram, come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha
un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo. (2) GAIO,
Comm., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal
MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum, novis curis auctum, Berolini, 1884; la
quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal
Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una
imaginaria venditio, della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta
soltanto « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem ». La sostanza
invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella
quale il testatore, in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il
quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i
legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette
essere compiutamente orale; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa, in
quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai
testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie,
dichiarando solennemente, che queste contenevano la sua ultima volontà: « haec
ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor:
itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che
già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la
distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento
nun cupativo e il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione
per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un
concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle
genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis
mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri
monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al
quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato
dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve
considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui
nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur
confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento,
come di una va rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et
libram (2 ). Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva (1) Gaio,
loc. cit. e Ulp., Fragm., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue
nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram,
allorchè scrive al $ 9: « In testamento, quod per aes et libram fit, duae res
aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti »; e dopo viene
senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella, che veramente importa.
(2 ) Cic., De Orat., I, 57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e
103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da
quello in - 511. l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di
provvedere al mantenimento del culto; il testamento invece per aes et libram
viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia
della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi
si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile, quale era
l'atto per aes et libram, lasciando poi al ius pontificium di provvedere,
quanto all'adempimento dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la
volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo; nel
testamento invece per aes et libram, la volontà del quirite appare indipendente
e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter
conchiudere con fondamento, che anche il testamento per aes et libram, quale
compare nel ius quiritium, deve già essere considerato come il frutto di una
vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel
potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di disporre delle
proprie cose, non solo per atto tra vivi, ma anche per causa di morte. Non
potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento
importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a
favore del proprio erede: tanto più, che questa congettura è in diretta
opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano,
il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne « de eo
quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non
dice già, che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma
dice invece: « accessit deinde tertium genus testamenti ». (1) Cic., De leg.,
II, 19, 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., pag. 555, il quale pure
osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes et
libram più non aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2. (2) È noto come il
SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa
accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di
origine plebea, e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata
ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non
può essere ac colta; poichè il testamento per aes et libram, anzichè essere
proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium, e quindi, al
pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et
libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non sta
in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma
bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di
obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei
sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica,
ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della
primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di
carattere puramente fiduciario, figurava come un vero atto fra vivi. 512 397.
Una volta poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario,
esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non
dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza che mai si perdessero
i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così,
ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto
l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae
venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di
Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto,
che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che dipendono
dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo (1). Cosi pure il
testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare
nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che
l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen
tum testamenti»; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più
tarda giurisprudenza. Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era
stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la
parola del testatore costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo
svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui
giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso;
come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi
l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione,
e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece
palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie
specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni,
adoperate dal testatore (2 ). Infine anche quel principio, secondo cui la
volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi;
dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della
diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per
aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor
ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., II, 105 a
107 e da Ulp., Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai
completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È
nota la distinzione fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi
modo, e per praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una
vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del
legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso
testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui
consentita dal primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse
una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone
il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia
testamentaria, è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi
sempre una parte, che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche
qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche
questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento
pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però
intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al
libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che
dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo.
Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia
giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le
quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al
testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme
anteriori. Esso infatti, secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere
costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla
presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile: dal numero di sette
testimoni e dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e
infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle
costituzioni imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per
imitazione dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che
interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica
tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa
costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi,
che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della
legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso
diritto civile, poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso
Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il
diritto, prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere
riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del
testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade,
De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris, 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin.,
Instit., II, 10, $ S 3 e 10. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 33 - 514
399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti
osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento: 1 ° Il testamento
in Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di
uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il
testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato
colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu, non
solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca
diGiustiniano; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto
singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una
forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario, che era stato il
testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al
testamento quiritario, dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma
di testamento, la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento, che
all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini
per ce dere alla forza della pubblica opinione, e alla nécessità di ovviare
agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento, in cui
tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore
(1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono
più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già
preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare
in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius
quiritium. Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in
cid, che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la
successione testamentaria e la successione legittima; ma questa singolarità
potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso
di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima,
stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre
vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo
dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per
l'abuso, che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta. Appena accolto
poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza,
che si dovette ben presto istituire un pretore apposito (praetor fideicom
missarius). V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine
intorno alle cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte
intestatus decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5; perchè la questione
non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano
presso i romani la successione testamentaria e la legittima. Il ius connubii
nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana. $
1. - Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte fu osservato dagli autori,
che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto
diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di
essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come
un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad
unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla; nella realtà invece
essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano
campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre,
giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa: « pater familias in
domu do minium habet »; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap
pariscono comproprietarii del patrimonio paterno: « vivo quoque parente,
quodammodo condomini existimantur ». Mentre infine, in base al diritto, il
padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui
dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento
profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile
costume (1 ). Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia
quale appare nel diritto, e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già
accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica della fa miglia e
la realtà dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere
concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana.
Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I,
&$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad. Meulenaere, tomo
II, SS 36 e 37, e specialmente da pag. 190 a 214; il Gide, Étude sur la
condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e V; il
Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, pag. 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., pag.
24 a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1“, passim, e
specialmente ai SS 21 e 22, pag. 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano
della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il
diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius
familiae, Bologna, 1881.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano
trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti;
ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di
ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi
affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione
giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben
maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero
problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico
e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un
ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi
giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri
popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento
famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui
trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti
patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è
provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si
protrasse fin dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui
diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed
anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure
dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose
più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in
questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente
a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia
patriarcale delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà
del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa
a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione
religiosa, e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre
dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione
consensuale di un uomo e di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione,
unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo
la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1).
(1) Quanto all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I,
cap. 3', § 2º, pag. 28 a 34; quanto a quella della plebe, lo stesso lib. I, cap.
9, pagina 188 e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte, il più
elaborato, il più coerente in tutte le sue parti, era certamente quello delle
genti patrizie; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri
fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare
un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi,
quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di
imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più
agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo
contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già
essere analoga a quella propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto,
che l'ordinamento domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello
della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa
parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si
erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta
rono nella città quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel
periodo gentilizio; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui
erasi formata, il quale serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono
come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a svolgerla
logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti informatori
della famiglia, nel periodo gentilizio, si riducevano essenzialmente
all'unificazione potente della famiglia nella persona del proprio capo, ed alla
tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio;
cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il capo saldo, da cui
prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e spinti a tutte le
conseguenze, di cui potevano essere capaci, condussero logi camente a
quell'ordinamento della famiglia, che ci fu trasmesso dal diritto civile
romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel diritto primitivo di Roma,
fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il potere
del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una persona,
uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra, cessava di avere qualsiasi
rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del matrimonio
quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu; perchè solo la
conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia, poteva con
durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio capo. 518
Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per sona del
padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa imembri della
famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva essere
quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere
spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della
preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi
tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico,
appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente,
che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi
fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel
diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i
servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa,
quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure
sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia,
che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un
gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di
esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra,
quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo (1 ). 403.
È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia
quiritaria, la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente
patrizia, ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante
l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad
essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva
ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni
cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale
denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in
certo modo il mancipium. Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo
serviano, che i diritti del padre sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in
certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del
tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro,
suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente
della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si
può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit.,
II, $ 72, pag. 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come
un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione
giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui
la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul
concetto di proprietà, cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium,
poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal
connubium. Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata
in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne
così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra
ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la
legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere
anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa
infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo,
che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere
qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione
legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la
legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto
l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel
ius proprium civium romanorum, salve al cune poche modificazioni, che erano
imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2).
Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una
costruzione giuridica, organica e coerente in tutte le sue parti, i cui
caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse, che la
medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città,
e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È
certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla
famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva
dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto; ma
il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad
isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna
famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte le altre, fu dimostrato
nel libro III, cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2)
Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla
plebe il matrimonio cum manu, fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin
d'allora al matrimonio sine manu, accordando alla donna di sottrarsi al vincolo
della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della
coabitazione per tre notti di seguito. 520 vantaggio di isolare ciò, che havvi
di giuridico nella famiglia, da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così all'elaborazione
giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose e morali
avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria del
diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè inumana,
non produsse in realtà alcun inconveniente, poichè essa punto non impedi, che
il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica; che il iudicium
de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al padre la
dilapidazione del patrimonio famigliare; che il censore, vindice della morale,
punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che infine il
diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di famiglia,
al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il pericolo, che
egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante conseguenza di
questo svolgimento storico fu anche questa, che, siccome nell'organizzazione
gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al concetto del con
nubium, cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria
sembra essere derivato da quest'unico concetto. Quel connubium infatti, che nei
rapporti fra le varie genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi,
che di regola era circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo
stesso nomen, trasportato nel diritto quiritario, venne a trasformarsi nel ius
con nubii ex iure quiritium, ossia nel diritto di addivenire alle iustae
nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia,
organizzata ex iure quiritium, con tutte le conseguenze, che potevano derivarne
(1). Quindi è, che anche la famiglia ex iure (1) Io parlo ancora qui di una
famiglia ex iure quiritium: ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che
siccome l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai
due ordini del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e
la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da
Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella di ius quiritium,ma
bensì quella di ius proprium civium romanorum; poichè in quell'epoca il
concetto del quirite già si era allargato in quello del civis romanus, e per
conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium
civium romanorum. Di qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al
ius commercü, i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio,
II, 40), trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della patria potestas
(ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum. 521 –
quiritium, al pari del dominium ex iure quiritium, venne a costituire una
famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum,
in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra:
quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui
figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire
il fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il
concetto, che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium,
ha eziandio un fondamento nella realtà; perchè è col connubio che viene a
costituirsi una nuova famiglia, la quale poi si esplica nella figliuolanza: il
qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone, allorchè scrive: «
prima societas in coniugio, proxima in liberis; deinde una domus, communia
omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza, che la famiglia quiritaria, pur
essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica, fini in sostanza
per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi esprimerci,
l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto organico e
coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto essere
studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo famigliare,
cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli effetti
giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia nei rapporti fra
il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da ultimo nel suo
disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà occasione alla
successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo dell’agnazione. 405.
Siccome poi in questa parte il diritto delle genti patrizie riuscì a penetrare,
pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad imporre a tutti i cittadini
una organizzazione domestica, che era propria soltanto di una minoranza, e che
per giunta era una so pravvivenza di un periodo anteriore di convivenza sociale;
cosi, in tema di diritto famigliare, venne a farsi manifesto,meglio che altrove,
il conflitto fra le istituzioni, che riuscirono a penetrare nel diritto
quiritario, e quelle invece, che continuarono a vivere nel costume. Questo
conflitto, che può scorgersi in ogni parte del diritto fami gliare, è
sopratutto evidente nella lotta fra il matrimonio cum manu (1) Cic., De
officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu; in quella fra l'agnazione e la
cognazione; e in quella fra la successione e tutela legittima e la successione
e tutela testamentaria; e più tardi anche nella lotta fra l'hereditas e la
bonorum possessio. Sono queste lotte, che danno interesse allo svolgimento
storico delle istituzioni famigliari, spiegano le modifica zioni lente e
graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo strano come anche in questa
parte, alla parte del diritto già formato e consolidato, se ne contrapponga
costantemente un'altra, che tro vasi in via di formazione, e che tenta di
temperare il rigore delle primitive istituzioni quiritarie. § 2. – Le iustae
nuptiae e la storia primitiva del matrimonio quiritario. 406. Anche nella
parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli ultimi studii conducono al
risultato, che il medesimo, al pari della proprietà e del negozio giuridico,
dovette incominciare da un concetto tipico, che è quello del matrimonio cum
manu. Non è già che in Roma primitiva non potessero esistere altre forme più
umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della plebe; ma il ius
quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe gli effetti
quiritarii, che al matrimonio cum manu (1). Che anzi vi sono forti indizii per
supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio quiritario,
stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu quella
accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale importava
fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in parte (1)
Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo scritto:
La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain, nei « Mélanges
d'histoire du droit », Paris 1886, pag. 6. Una prova poi di quest'antico
diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo periodo, chiamavasi
materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la moglie, quae in manu
'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di CICERONE, Top. 3, il
quale scrive: « genus est enim wor; eius duae formae: una matrumfamilias, earum
quae in manum convenerunt, altera earum, quae tantummodo uxores habentur ». La
cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6, 9, ove dice: « matremfamilias
appellatam eam solam, quae in maritimanu mancipioque erat », e da Nonio
MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes, pag. 390. Sopratutto è degno di
nota, che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella formola
dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in proposito
KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, pag. 71, e il Brini, Op. cit.,
pag. 37. 523 comprovato dalla circostanza, che le leggi regie, ogniqualvolta ac
cennano al matrimonio, si riferiscono in modo espresso al matri monio per
confarreationem. Così, per esempio, Dionisio attribuisce a Romolo di aver
richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa sola forma di
matrimonio, e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi
stabilito, che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col
consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal medesimo (1). Tutto
ciò significa, che le genti patrizie, fondatrici della città, presero
senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree • sisteva nel periodo
gentilizio, e che il loro matrimonio continud nella città a celebrarsi con una
certa solennità religiosa e patriarcale; come lo dimostrano l'intervento del
pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi
gustano insieme il pane di farro, ed anche la presenza dei dieci testimonii, in
cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie, in cui dividevasi la
tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al
l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del matrimonio, il
quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de'
coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani
iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito, sembra pure essere probabile,
che questa forma primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al
divortium, ma soltanto al repudium, il quale doveva essere accompagnato dalla
cerimonia religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che
erano determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo
concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel
disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le
traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che
questa forma di matrimonio, in (1) Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268,
pag. 329 e seg. (2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo,
22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova poi, che
il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle
attestazioni di Gellio, X, 15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta,
che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo
del matrimonio primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein, Op.
cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO,
Le seconde noeze del coniuge superstite, Firenze 1885, pag. 12 a 15. 524 cui
apparisce quel carattere eminentemente religioso, che è proprio delle genti
patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette
avere più un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto, e
consistere in una unione fondata sul reci proco consenso, fatta manifesta
mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere
giuridico e religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due istituzioni,
di carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse importata dall'antico
Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura,
che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema,
che dovette risolvere la legislazione decemvirale, e la cui difficoltà era
tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe
stentassero a comprendere un matri monio, come quello cum manu, che costituiva
la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del
marito, il quale, corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione
della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso,
allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una
lunga educazione civile. È questa speciale condizione di cose, che spiega i
singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla
legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si
studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto
della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio, collo
stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si
trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu,
accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la
coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla
legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione
di un diritto comune ai due ordini; poiché (1) In base all'attestazione di
Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che
un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto
sottrarvisi, doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di seguito.
Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, pag. 708, assegnata
al n° 1', tav. IV, e ricostrutta nei seguenti termini: « si qua nollet in manu
mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito ». - 525 sussisteva
ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe. Quando invece il
divieto fu tolto dalla legge Canuleia, si dovette sentire la necessità di
introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della manus, che
poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe
ricorso a quell'atto per aes et libram, che era la forma solenne propria del
negozio quiritario, e si diede cosi origine alla coemptio, quale modo di
acquistare la manus (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera
la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu, e
neppur quella, che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del
marito. La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza, che era l'atto per aes et libram, e venne cosi ad essere un
espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla
moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ).
(1) La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto
romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi.
Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe
preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe
venuta la confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und Recht der
römischen Konigszeit, 1882, pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio:
mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen Ehe und
manus, pag. 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la
questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di
contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non ripugna,
che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata;
o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono
nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo
diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può
però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal
diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria elaborazione
giuridica. Quanto all'ordine cronologico, con cui queste varie forme furono
accolte, esso non potè essere che il seguente, cioè dapprima fa accolta nel ius
proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii; poscia fu
riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della
plebe; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve anche la
coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere la
prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN, Op. cit.,
pag. 8 e 9. (2) Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti
autori, che la coemptio fosse di origine plebea, e che essa implicasse la
compra della moglie per parte del marito. Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel
diritto romano; Voigt, XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio,
pag. 50 e segg. La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto
per aes et libram, e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto
quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto
quiritario, componevasi di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram,
compiuto colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus
per parte del marito; 20 e della nuncupatio solenne, le cui parole non ci sono
perve nute, ma la cui sostanza, secondo Servio e Boezio, consisteva in una
reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse
assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia, e questa interrogava
lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci
spiega, come la coemptio, sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da
Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito, e sotto un
altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco
consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di
madre di famiglia (invicem se coemebant) (1). È poi probabile, che, come il
vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio, cosi
anche le parole solenni, che accompagnavano la coemptio, fossero una imitazione
di quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti
religiosi, che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico
deimodi, riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum
manu, lascia abbastanza buire la manus al marito, e di attribuire carattere
giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea
di vendita della figlia, sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa
ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente
comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65, e sopratutto l'appendice sulla
coemptio in fine al volume, nota B, pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio
fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due
sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen.,
IV, 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice: « Mulier atque vir inter se quasi
coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da
Isidoro, Orig., $ 24, 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei commenti
alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il
marito e la moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS, pag.
399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes
et libram « is emit mulierem, cuius in manum convenit »; ma la cosa si
comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti, e
quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore il
marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli
sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero
assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V.
in senso contrario BRINI, Op. cit., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo
diverso, che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio
anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia, come lo
dimostrano il suo carattere eminente mente religioso, e l'origine di essa, che
rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza
romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia
continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie,
come lo dimostra il fatto, che essa continud a sussistere anche sotto gli
imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso. Noi sappiamo
infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi
privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico
patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano
figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi
speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem
era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove, di Marte e di Qui
rino, i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio (1). Per
contro può affermarsi con una certa probabilità, che l'usus, ossia la
coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la
manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto,
proprii della plebe, in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi
della manus. Ciò spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre
lo stesso effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della proprietà ex iure
quiritium, e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti,
che pur erano cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol
essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu,
essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto,
quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin
dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo
(1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie
forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si
dice espressamente che « confarreatio solis pontificibus conveniebat ». Cfr.
Esmein, Op. cit., pag. 7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto
l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la
manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione
di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad
essere la forma dimatrimonio, che incontra maggior favore presso le varie
classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia, essa sembra compiere
quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della
proprietà quiritaria. Quindi al modo stesso, che accanto alla mancipatio
effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia, così accanto alla
coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo
pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale
serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per
metterla in condizione di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio
dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile
almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente
religioso. Quindi viene ad essere probabile, che colla introduzione di essa
anche il matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del
divorzio, il che non sarebbe consentaneo col carattere religioso della
confarreatio. Nella coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un
con tratto, e perciò può essere risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad essere
acquistata, cioè mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e
l'origine diversa dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu, pud
anche spiegare le sorti (1) GAIO, I, 114 a 116. (2) GAIO, I, 115 e 137. Se
siammette che il matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il
divorzio, è un grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia
potuto essere introdotto anche nel matrimonio cum manu, e persino essere esteso
al matrimonio per confarreationem, il quale doveva però ancor sempre essere
accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio; Bruns, pag. 336.
Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio
sine manu, e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu (Cfr. Esmein,
Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa
natura. Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al matrimonio
religioso per confar reationem, venne a svolgersi il matrimonio civile per
coemptionem. Fa in quella occasione, che al rito religioso sottentrò l'idea del
contratto, la quale rese applica bile il divortium, anche al matrimonio cum
manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al matrimonio cum manu, e
precisamente a quello contratto per coemptionem, parmi che non possa essere
posta in dubbio di fronte al passo di Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie
ad una figlia di famiglia, dopo aver detto che la figlia non può costringere il
padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie: « haec autem (virum ),
repudio misso, proinde compellere potest, atque si ei nun quam nupta fuisset ».
529 diyerse, che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto
civile romano. Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la
manus, fu il primo a scomparire, poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus
sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est» (1). Esso infatti era
stato un espediente per dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che
prima non l'avevano, e quindi si com prende che le leggi e il costume
tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad
avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla
introduzione della coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso,
ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla
tenacità con servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da
considerazioni di carattere religioso. Questo è certo, che Gaio parla della
confar reatio, come di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i
flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e
non potevano contrarre altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia
da Tacito, che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo
a difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità
di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le
matrone ottennero in quell'occasione dal senato, che il matri monio per
confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto
quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio
diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum
manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione,
che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume
che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne
acquistando il matrimonio sine manu (3 ). (1) Gaio, I, 111. (2 ) GAIO, I, 36;
Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio
Vespillone, console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS, pag. 303 e seg.,
dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già
cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio
speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu, a differenza
della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò, lasciato il suo patrimonio
all'amministrazione del marito, dimostra che un fatto (Un autore recente, il
Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine
manu, come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me
parrebbe invece, che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento
giuridico della famiglia romana, debba essere considerata come una conse guenza
necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco
cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio
infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente
all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad unificare la
famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata
invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva
essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe,
poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il potere dispotico
del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur
miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or.
ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono tuttavia nella
necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle
donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa
maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo
provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure quiritium,
venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non producera le conse
guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non si preoccupo
dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si limitò a
svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex iure
quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui lo
svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della manus,
anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e fu in
allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica comune, e
dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti.
Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento
del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione
degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi, L'elogio
funebre di Turia, negli « Studii e do cumenti di storia e diritto ». Roma, 1880,
pag. 17. (1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, di fronte a
quello cum manu, presenta una singolare analogia collo svolgersi della
proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium. Quindi al modo
stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco a poco modellando su quella ex
iure quiritium, così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi
lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per
assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che ispirava il
primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu.
Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità
dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio
della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del
padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi
come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si
trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu, come lo dimostrano la
maritalis affectio, e la perpetua vitae consuetudo, di cui parlano i
giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè era già
scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione
delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi
effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere
cosi riassunti: lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo
modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la
figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però
già ad avere una propria personalità giuridica, distinta da quella del marito;
2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile, poichè, più non
essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che
questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di
famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica, quando
si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum
manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium, e più tardi
con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun
zione, che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la
coemptio, in tema dimatrimonio; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio
fidu ciae causa; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus
auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto
della manus sulla moglie. 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio, nè la
remancipatio, ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie;
3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione
economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti, che
l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu, questo è
certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del
matrimonio, non potè svolgersi che col matrimonio sine manu; poichè un simile
concorso non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente,
che veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la
dote, anche col matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà
del marito, e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi
eredi fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il
matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della
corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine
manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale
più elevato dello stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della
famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la
comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero
accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine
manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine
dell'istituto della dote al matrimonio sine manu, V. fra gli altri PADELLETTI,
Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo
proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il
padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio, e la dote in
questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu, come lo
dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae
dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 486. dote si intende invece l'istituto
già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso della moglie a
sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità
distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine
manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito
dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella persona del
proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la
resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV, 3, il
quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il
divorzio di Spurio Carvilio Ruga, seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2
) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato: Du mariage
romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique » corruppe il costume, ma fu piuttosto il
costume che abbassò l'altis. simo concetto del matrimonio. $ 3. — Il pater
familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma
primitiva la famiglia, sotto il punto di vista giuridico, costituisce un tutto
organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il potere del proprio capo,
sarà facile il comprendere come la logica quiritaria non scorgesse nella mede
sima che un capo, il quale comanda, ed un complesso di persone, le quali
debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias, che è l'unica
personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium: dall'altra
sonvi le persone, che dipendono da esso, cioè la moglie, i figli ed i servi,
che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima manus, e furono
perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia od anche
dimancipium. Il padre è quegli, che è padrone nella casa, che figura nel censo
colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i suoi
dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria; perciò i diritti, che a lui
spet tano sulle persone componenti la famiglia, sono modellati in tutto e per
tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò
tuttavia non deve essere considerato come un indizio, che i romani
confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose; ma soltanto che
essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia, si collocarono al
punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a
tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione
primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui
figli e sui servi, viene pure ad essere probabile, che questo potere sia stato
indicato con un unico vocabolo, il quale con tutta verosimiglianza dovette
essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet
tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1)
L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per
dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica,
spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80.
Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la
potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere
sulle persone, e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto
sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui
mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua
significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del
marito sulla moglie, quello invece di po testas indico di preferenza il potere
del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in
dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium, esso non scomparve, ma fini
per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di
famiglia, e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine,
siccome anche le persone libere potevano essere date a mancipio, ed essere
poste così transitoriamente in condizione di servitù; cosi dovette pure
aggiungersi la categoria giuridica delle persone « quae in mancipii causa sunt
» e che come tali « servo rum loco habentur.” Allorchè poi questi aspetti
diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri,
ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno
svolgimento storico compiutamente diverso. Di questi poteri, quello, che per il
primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina,
fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza
dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città, ove
non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere
dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali
avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per
giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la
conventio in manu, dopo essere stata la regola, sia divenuta l'eccezione,
finchè fini per cadere com piutamente in disuso. Con ciò non deve già
intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo
che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia, ma
(1) Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il
potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere
del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle
personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che
anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono
i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium,nella sua
significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla
potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa mancipii sunt, vedi lo
stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio
marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1). 415. Così invece non accadde
della patria potestas. Questa non ha più bisogno di essere volontariamente
accettata, come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita, e sotto
un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della
nascita. Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione
della manus del marito sulla moglie: donde la conseguenza, che la patria
potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze
primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a
spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si
appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche
uccidere i proprii figli; può rivendicarli, se gli siano sottratti; può dargli
a mancipio, se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire. È però a
notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre
alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii
del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli
opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli
onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il corrompersi dei
costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine,
e fu allora, che il di ritto civile romano, pur serbando integro il concetto
della patria potestà, venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem
peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in
questa guisa, che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del
padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il
quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della
famiglia, ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata, che
quanto agli effetti della patria potestà. 418. Noi troviamo infatti, che,
mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita, venne formandosi
l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare
trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il
proprio figlio, viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella parte
relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu, nn. 411 e
412, pag. 530 e segg. (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94. 536
convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche qui
abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et
libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per
l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre,
trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è
notabile eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una
libertà ed indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere
considerata come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista
giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui
esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui
ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo
si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge
alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi
indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla
logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi
pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti
del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si
viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei
peculii. Non può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere
nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel
piccolo patrimonio, di cui il (1) Gaio, I, 135. Si è molto disputato circa la
ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per
l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più
forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. A
parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione
richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della
letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si
pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto ». Per tal modo una
disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare
della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in
un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la
lettera di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote,
potè bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le
singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga
conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della
primitiva iuris interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un
appoggio in Dionisio, II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto
costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag. 424, nota
4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $ 73,
presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento,
pag. 27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata amministrazione
al figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e
gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile
eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento,
poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti
servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri,
da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali
(peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli
acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi
altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie
specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia
graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al
padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la
patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an
tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad
operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere
particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle
istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della
famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente,
quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in
qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si
viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice
adoptio, con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una
persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le
origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione
della famiglia patriarcale, nella quale (1) L'antichità del peculium è
dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è
facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio
capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli
che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione; ma
la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica.
Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia, cfr.
MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz.
Cogliolo, pag. 187, nota 4; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano, $ 169.
Sono poi degne di nota, quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del
SumnER MAINE, L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano l'intento
importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto. Quella perd fra
esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era
certamente l'adrogatio, come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia
ed il suo culto, per rendere possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa
quindi, nella comunanza gentilizia, dovette probabilmente essere compiuta
coll'approvazione dei capi di famiglia, o degli anziani del villaggio; donde la
conseguenza, che quando fu poi trasportata nella città, essa fu uno di quegli
atti solenni, che, al pari del testamento, dovevano es sere compiuti in calatis
comitiis, coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al
mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria
legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla
patria potestà, suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio
potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio, applicando al solito l'atto
per aes et libram, e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po
testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato, me diante quella
finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio. 418.
Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di
origine esclusivamente patrizia, perchè era sopratutto nella famiglia patrizia,
che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio
culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie
di un contributo diretto, che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti,
che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa
all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario,
comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo
di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche
l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune
a tutti gli ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono
sempre più il loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un
con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1)
Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg. 11, § 2,
Dig. (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas
in familiam et domum alienam transfert ». Quanto alle origini dell'adrogatio
nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, pag. 31. Le differenze poi fra
l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio, V, 19.
539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto; ma si
limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano
privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo,
anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste
istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua
famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da
contemperare i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia
adottiva (1). 419. Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa
miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al
periodo gentilizio, e che essa non dovette essere propria delle genti italiche,
ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto, che i Romani non
riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria, ma comeuna
istituzione del diritto delle genti (2 ). La medesima sotto un certo aspetto
era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza di essa
questa non avrebbe potuto costituire un gruppo, che potesse bastare a se stesso.
È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte cipare alla
comunanza quiritaria, esso comparisse nella medesima non solo colla moglie e
colla figliuolanza, ma anche coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel
suo mancipium, e costituirono così una parte integrante della famiglia romana
(3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del
cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne
gozio o commercio, senza derogare alla sua dignità, ed anche per evitare ai
proprii figli l'ignominia di una eredità passiva, chia mandoli anche loro
malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii (4). Si comprende
quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati come cose,
anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi apparisse
illimitato e senza confine. Tuttavia, anche qui la famigliarità dei rapporti
fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita, che eravi talora tra i
figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del diritto civile romano nello
svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI. (2 ) Fra gli altri
Gaio, I, 52, dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium
est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante della famiglia
risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln, II, pag. 12 e
segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152; ULP., Fragm. XXII, 11 e 24. 540 -
dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro
padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla
facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come anche
la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma, non
corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere governata
sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio,
che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione
profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente
detta. Giuridicamente parlando, il potere del padrone appare forse più rigido
nella città, che non nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il
vantaggio di poter essere fatto libero, e di essere così elevato alla dignità
di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa
necessità delle cose, cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui
apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in cliente:
nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver
attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo manomesso venne ad
essere sotto la protezione della pubblica autorità, e potè colla libertà
acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto viene a verifi
carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico, di cui ci porga
esempio il diritto civile romano. Con essa il servo, che era considerato come
una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che non aveva nė
libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia, viene ad acquistare
tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico stato di
cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò essere considerata
come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di ciò, questa
impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene dapprima ad
essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può manomettere
i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha cosi potestà di accrescere
indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1) Nota giustamente l'HÖLDER,
Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia considerato come una cosa,
non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si ri conoscono le facoltà,
che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui dominio. È questo il motivo,
per cui il potere sullo schiavo chiamavasi potestas, e gli atti acqui. sitivi
da lui compiuti erano stati validi, come se fossero stati compiuti dal suo
padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che l'esercizio illimitato di questa
po testà privata sembrò essere in conflitto colle esigenze del pubblico
interesse, e allora, mentre da una parte si cercd di assicurare i di ritti del
patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si cerco di met tere dei confini
alla manomissione dei servi, il che si ottenne in parte coll'introdurre
gradazioni diverse nella libertà, che era accor data ai servi (1). Fu in questa
guisa, che al concetto di un'unica libertà i giureconsulti, interpretando le
leggi Aelia Sentia e Junia Norbana, sostituirono le categorie diverse dei
latini, dei latini iu niani, e dei dediticii, la cui libertà può essere
migliore o peggiore, secondo che essa lasci più facile l'adito alla
cittadinanza romana: « pessima itaque, conchiude Gaio, eorum libertas est, qui
dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut senatus consulto, aut con
stitutione principali aditus illis ad civitatem romanam datur » (2 ). 421. Da
ultimo anche le persone libere, quae in causa mancipii erant,dovettero pur esse
avere un posto in questa costruzione giuridica della famiglia romana, il che si
ottenne collocandole nella posizione di servi (servorum loco habentur), per
tutto quel tempo per cui erano date a mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi
hanno cura di notare, che la concezione giuridica non deve in questa parte
essere confusa colla realtà, come lo prova questa notevole proposizione di
Gaio: « admonendi sumus, adversus eos, quos in mancipio ha bemus, nihil nobis
contumeliose facere licere; alioquin iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu
quidem in eo iure detinentur homines, sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno
mo mento, nisi scilicet ex noxali causa mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di
aver abbastanza dimostrato, che la rigidezza, con cui fu modellata nel diritto
civile di Roma la potestà spettante al capo di famiglia, trova la sua causa in
ciò, che i Romani, anche in (1) È notabile a questo riguardo, che il più antico
diritto di Roma, come lasciava al cittadino piena libertà dimanomettere i
propri servi, così, in omaggio sempre alla libertà del testatore,non aveva
tutelato in nessun modo le ragioni del patrono contro il testamento del liberto.
Ciò viene attestato da Gaio, III, 40, 41, il quale, dopo aver detto, che « olim
licebat liberto patronum suum impune in testamento prae terire » aggiunge poi
che il diritto pretorio e poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di
riparare a questa iuris iniquitas. (2 ) Gaio, 1, 26; Ulp., Fragm., I, 5. (3 )
Gaio, I, 141. 542 questa parte, trasportarono nella città il potere del capo di
famiglia patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da
ogni elemento estraneo al diritto; e riuscirono così a dare una configu razione
prettamente giuridica, ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare
molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia
romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione
legittima, nel primi tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela
legittima nel primitivo ius quiritium. 422. L'ordinamento giuridico della
famiglia primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre,
vivo il padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo,
senza aver disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur),
ricompare una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono
dalla sua patria potestà. Queste persone infatti son chia mate a succedergli
come heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et
necessarii); che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione,
sembrano essere direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio
famigliare, di cui già prima apparivano comproprietarie: « sui quidem heredes,
dice Gaio, ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente
quodammodo domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il concetto di
questa comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione
potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2). A nostro
avviso invece questa specie di comproprietà, che i giureconsulti pongono a
fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata
e conciliata coll'unità potente della famiglia romana, (1) GAIO, II, 157. (2 )
Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a
citare il PADELLETTI, Op. cit., pag. 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione
nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure
un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra
quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS,
La saisine héréditaire en droit romain, Paris, 1880, pag. 63, e il CARPENTIER,
Essai sur l'origine et l'étendue de la règle: nemo pro parte testatus, pro
parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle Revue historique », 1886,
pag. 457 e segg. 513 quando si ritenga che la famiglia quiritaria non è in
sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata nella città, ed
isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata. La famiglia
patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti fra di
loro; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del padre,
il che la rendeva unita e compatta per la lotta, che doveva sostenere cogli
altri gruppi, da cui era circondata; e quello di sup porre dall'altra
un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva
un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla. In questo
senso potevasi dire di essa con Cicerone: « una domus, communia omnia ». Questa
solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare viene
ad essere dimostrata dai seguenti indizii: che il primitivo heredium era di sua
natura trasmessibile di padre in figlio; che il padre trovava un ostacolo alla
dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus per parte del
consiglio degli anziani della gens; che il padre infine non poteva disporre
delle proprie cose per testamento, nè scegliersi un figlio adottivo senza
l'approvazione degli altri capi di famiglia, che appartenevano alla sua gente o
tribù (1). Vero è, che tutti questi temperamenti del potere patriarcale del
capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi della città, la famiglia
venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e
il capo di essa apparve così investito di un potere illimitato e senza confini;
ma ciò deve essere considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica,
che tendeva ad uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era
quindinatu rale, che, quando questa unificazione non era più possibile per la
mancanza del capo, risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le
persone libere, che appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa
unificazione potente del gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie
di comunione fra i membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza
giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera successione, ma il
dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona dei figli;
conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo:
in suis heredibus evidentius apparet continuationem dominii eo rem per ducere,
ut nulla videatur hereditas fuisse, quasi olim hi domini (1) Ho cercato di
dimostrare questi caratteri della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio
nel lib. I, cap. 4, § 3º, sopratutto pag. 70 e segg. 544 essent, qui, vivo
etiam patre, quodammodo domini existimantur. Itaque post mortem patris non
hereditatem percipere videntur, sed magis liberam bonorum administrationem
consequuntur (1). Fu in questa guisa, che la famiglia primitiva potè
perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un organismo immortale e
perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori della personalità del
padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto domestico, così
dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè si può
ammettere, che questa specie di comproprietà, a cui accennano i giureconsulti,
sia un concetto penetrato più tardi nella classica giurisprudenza, per spiegare
il passaggio del patrimonio famigliare dal padre nei figli (2 ): poichè questo
intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è certo un concetto, che rimonta
all'an tichissimo diritto, come pure è a questo, che deve farsi risalire quella
posizione del tutto speciale, che gli heredes sui assumono di fronte agli altri
ordini di eredi. Questa distinzione infatti già doveva esistere nella
universale coscienza, all'epoca della legislazione decem virale. In questa
infatti non si fa menzione espressa della succes sione dell'heres suus, ma solo
vi si accenna come a cosa, che na turalmente accade, e che quasi non abbisogna
di speciale menzione; mentre è solo per il caso, in cui non siavi un heres
suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della successione per legge, chia
mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i
gentiles: « si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus
familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che
anzi a questo proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura,
che in occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di
trasportare nel ius proprium civium (1) PAOLO, Leg. 11, Dig. X (28-2). V. nel
CARPENTIER, Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa
comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit.,
pag. 201. (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op.
cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo
proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse
una comproprietà di fatto, ma non di diritto. Convien però ammettere, che tale
comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di
diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori
della personalità del padre, e li metteva anzi nella impossibilità di
rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545 romanorum, e di rendere così comune a
tutte le classi quel sistema di successione ab intestato, che doveva già
esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio. Noi sappiamo infatti
dagli stessi giu reconsulti, che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere
introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova
nella circostanza, che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi, che
era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe, dal
momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che già
aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione
domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione.
Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere
considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della
famiglia patrizia; come lo dimostra la circostanza, che esso fondasi
esclusivamente sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si
propone come scopo esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia
agnatizia, e di farlo ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia
(1). Per tal modo, in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a
trovarci di fronte a tre ordini di eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei
quali si comprendono la moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri
discendenti nella linea maschile, tutte le per sone insomma, che erano soggette
alla patria potestà del capo di famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro,
che discendono per la linea maschile da un comune autore, alla cui potestà
sarebbero stati sog getti, quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i
gentiles, ossia tutti coloro, i quali, più non essendo compresi nella familia
omnium agnatorum, hanno però comune la discendenza da un medesimo (1) Che la
successione e la tutela legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole,
mentre queste non avrebbero fatto altro, che confermare le successioni testa
mentarie, è cosa a più riprese affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5.
Di qui ilMuirhead avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di
pianta l'ordine degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit.,
pag. 122 e 172 ). Ho già dimostrato più sopra, pag. 39, nota 1", che
questa opinione non può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già
esisteva nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a
fondamento della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta,
quando sia intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche
alla plebe quel sistema di successione legittima, che le consuetudini avevano
già svolta presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma.
35 546 antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla
stessa gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii
ordini di eredi sono chiamati a succedere. Finchè trattavasi di heredes sui,
essi, essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali
appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se
stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi
entrate in un'altra famiglia, tutti coloro insomma, che erano già usciti dal
gruppo; non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano
anche loro malgrado (heredes sui et necessarii): non potevano essere spogliati
dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe,
ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva
i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati, il
patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la
legge, per impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo
agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere
considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non
appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi
ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita
l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse
poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla
successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano
è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i
rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti
gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità,
questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 )
Gaio, III, 1 a 8; Ulp., Fragm., XXIV, 1 a 3. (2) GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm.,
XXIV, 1. L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il
concetto, che ho svolto nel lib. I, pag. 38 e 39, secondo cui la cerchia degli
agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che,
morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea
maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della
famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però
l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: « si
agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento »; il che fa ritenere,
che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto
costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo
modo ritornata alla gente considerata nella propria universalità, e sarebbe
così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i
primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che
erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia:
ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale
parla di questo ius gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso
(1). Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione
per legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio
compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del
liberto, che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla
legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente
del patrono: « si cliens in testato moritur, cui suus heres nec escit, pecunia
ex eius fa milia in patroni familiam redito » (2). omnium agnatorum. Quando poi
venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti
coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non
fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che
egli chiama i consanguinei, « id est fratres et sorores ex eodem patre »;
poscia, quando questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos
virilis sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae, (1) Gaio, III, 17; UlP.,
Fragm., XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna
ad una causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii
patrizii ed i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che gli
oratori delle parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure
». Sembra tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le
cause di questo genere. (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig. (50, 16). Nella
ricostruzione del Voigt, I, pag. 705, questa legge sarebbe la 4a della Tavola
IV. Vedi ciò che dice lo stesso Voigt, II, pag. 392 e 393, quanto alla
successione del patrono al liberto. Anche quanto alla successione del liberto
si manifesta una specie di antagonismo fra la successione testamentaria e la
legittima; poichè,mentre nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V.
Gaio, III, 40-41) dimenticare impunemente il suo patrono, la seconda invece,
introdotta eziandio dalle XII Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del
liberto alla famiglia del patrono, quando il primo fosse morto senza eredi
suoi. 548 425. Per contro è assai degno di nota, che, unitamente al sistema
della successione legittima, dalla legislazione decemvirale fu eziandio
introdotto il sistema della tutela legittima. Di cid abbiamo l'espressa
attestazione dei giureconsulti (1): ma la prova più convincente vuolsi riporre
nella circostanza, che il sistema della tutela legittima, quale ebbe ad essere
regolato dalle XII Tavole, é coordinato con quello della successione legittima,
ed obbedisce al medesimo concetto ispi ratore. Per giustificare la cosa i
giureconsulti più tardi misero in nanzi la considerazione, che l'onere della
tutela doveva cadere su coloro, che avevano il vantaggio della successione: «
ubi emolu mentum successionis, ibi onus tutelae »; ma la causa storica
deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela, che la successione le
gittima si informano ancora ai concetti dell'organizzazione genti lizia, da cui
furono desunte, e come tali mirano a conservare il patrimonio prima alla
famiglia agnatizia e pos cia alla gente. Viene così a comprendersi, come
nel sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche la cura dei prodighi e
dei furiosi, fosse affidata agli agnati ed ai gentili; come le donne, anche
perfectae aetatis, cadessero sotto la tutela degli agnati; come infine le res
mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non potessero essere usucapite,
quando non si fossero alienate col consenso del tutore. Così pure viene a
spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva del l'impubere, la
quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che non alla educazione
della persona, la cui cura soleva essere lasciata alla madre ed agli altri
congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto del sangue, che
all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio famigliare (2). i
426. Chi tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del diritto civile romano,
può facilmente inferirne, che tanto il sistema della successione, quanto quello
della tutela legittima, non trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione
comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo di pensare di quella
minoranza patrizia, che si atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie,
esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti
di (1) Ulp., Fragm., XI, 3. (2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai
suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit., pag. 188 e le note
relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo naturale del
sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie dell'organizzazione
gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina,
questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati
stessi, che dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui Gaio a questo
proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma di vere iuris
iniquitates; alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio,
introducendo, accanto alla successione legittima, una successione pretoria, e
creando, accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur
questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela
perpetua, a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto, e vennero
creando essi stessi degli espedienti giuridici, quale fu quello veramente ca
ratteristico della coemptio cum fiducia, per liberarle da una tutela, le cui
ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione
sociale (1). In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si
stema di successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo
sviluppo che presero in Roma la successione e la tutela testamentaria, e
nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. –
Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo
di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria
non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di
antagonismo fra di loro. Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto, che
scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno
darsi ragione della tutela perpetua, a cui le donne erano sottoposte, abbiamo
Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per
indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela
dei loro agnati; la quale consiste in ciò, che siccome gli agnati erano
chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato, così essi avevano
interesse a che esse, senza il loro consenso, non potessero fare testamento, nè
alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per
tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione
legittima, quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia; il
qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere cercate
nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto; è confermato dalla massima: nemo
paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest; ed è provato
eziandio da quella specie di ripugnanza, che avevano i Romani a morire senza
testamento: ripugnanza, che si spinse fino a tale da ritenere pressochè
disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato
con certezza; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la
varietà grandissima di opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito
(1 ). Credo tuttavia, che anche in questa parte possa condurci a qualche
conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium. Questo
studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione legittima ed
il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente diversi
nel primitivo ius quiritium. Mentre la successione e la tutela legittima, le
quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del diritto comune, sono
istitu zioni di origine prettamente gentilizia, ispirate al concetto di ser (1)
L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che è
lungi dall'essere risolta, malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu
argomento. Fra autori, che la esaminarono di recente, citero soltanto il
RUGGERI, nei Documenti di storia e di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle
Revue historique, 1886, pag. 449 a 474; il Padel LETTI, La istituzione di erede
ex re certa (« Archivio giuridico », vol. IV ). Anche l'ESMEIN, La manus, la
paternité, ecc., pag. 4, nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di
questa massima, dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si
trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si
poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare
un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa non possa
an cora essere la risoluzione definitiva: poichè se un culto poteva dividersi
fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione, per cui non si potesse
anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo
dotto lavoro sopra citato, verrebbe alla conseguenza, che questa massima fosse
una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la successione
legittima, quanto la testamentaria, do vevano comprendere l'intiero patrimonio;
ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva
dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii; così avrebbe potuto
dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il
motivo della massima starebbe in ciò, che anche il testamento dapprima era una
vera lex, e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma non
potevano concorrere insieme; ma egli è evidente, che questa ragione, se po
trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis, non può certo applicarsi
al testamentum per aes et libram, che non ha più il carattere di una legge. Fu
questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa
mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto
primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla
gente; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium, non è più il
testamento delle genti patrizie, ma è già un'applicazione dell'atto quiritario
per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram, che si ispira al prin cipo:
uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore
dell'antico gruppo patriarcale: mentre in questo già campeggia la fiera
individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere
legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). A cið si aggiunge,
che la successione legittima e la testamentaria, nella struttura organica del
ius quiritium, muovono da un con cetto fondamentale compiutamente diverso.
Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius connubii, ed è
quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il
testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del
principio: « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto »; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato come
un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2 ). Fu sopratutto questa
circostanza del l'essere le due istituzioni partite nella loro elaborazione
giuridica da un concetto fondamentale diverso, che impedì alle medesime di con
fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica
quiritaria, che gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano
ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un
altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso. Tale sembra appunto
essere la significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo: « ius
nostrum non patitur eundem in paganis et testato et intestato decessisse,
earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus et intestatus » (3 ).
Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il
cap. III, § 4, in cui si discorre della successione testamentaria, ed il $
precedente relativo alla successione legittima. (2) Questo carattere speciale
del testamento per aes et libram è attestato, ancorchè solo di passaggio, da
Cic., De orat., I, 57, § 245; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che
questo testamento ebbe ad essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra
testatore ed erede, e in cui la volontà del testatore dominava sovrana. (3)
Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag.
201, questa massima sarebbe invece una conseguenza della superiorità esclusiva
della successione testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un
motivo adeguato per impedire che le due eredità si confondessero fra di loro.
552 sarebbe stato illogico, che quel diritto, il quale in tutto il suo svi
luppo tenne sempre mai distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti
di proprietà, di cui quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e
questi da quello del mancipium, avesse pui consentito, che concorressero
insieme due istituzioni, le quali muove vano da concetti fondamentali anche più
distanti fra di loro. Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria
non volle piegarsi alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione
a fa vore del testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di
esaminare brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della
precedenza, che nel diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione
legittima o la successione testamentaria. Sull'autorità del Sumner Maine, suole
essere generalmente seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del
diritto romano dovette precedere la successione ab intestato, poichè la
possibilità del testa mento, anche nel diritto romano, avrebbe cominciato
dall'essere am messa soltanto in quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e
poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi (1). Mentre ritengo, che questa
opinione possa essere conforme al vero, per quanto si rife risce al periodo
gentilizio, nel quale il testamento non dovette essere, che un mezzo per
perpetuare la famiglia ed il suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei
figli, crederei invece, che essa non sia con forme all'evoluzione storica, che
ebbe ad avverarsi nel ius quiritium. Sonvi infatti degli indizii, che ci
inducono ad affermare, che nel ius quiritium penetrd dapprima il testamento,
mentre la successione legittima vi fu solo introdotta più tardi, e che il
testamento ebbe fin dal principio una prevalenza incontrastata sulla
successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice espressamente, che la
suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole, mentre queste invece
avrebbero confermata la successione testamentaria; il che indica appunto, che
il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già subito l'elaborazione
del ius quiritium, mentre la suc cessione legittima non sarebbe penetrata nel
diritto comune, che colla legislazione decemvirale. Anteriormente a quest'epoca
la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili,
(1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186. 553 doveva probabilmente essere
esclusivamente propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in
quest'argomento erano certo diverse dalle semplici costumanze della plebe (1).
Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole, che la
successione testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione
legittima, in quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il
testa mento (si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo
svolgimento storico del diritto civile romano (2 ). In cid abbiamo un'altra
prova, che il ius quiritium non deve essere considerato unicamente, come il
frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura
che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su
materiali giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche
penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei
fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima,
che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a
penetrare nel ius quiritium, mentre il testamento, che era stato ultimo a
comparire, fu il primo ad esservi accolto, come quello che meglio rispondeva a
quella potente individualità giuridica, che era il quirite. — Cid apparirà
anche più evidente trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre
furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad
essere elaborate nel primitivo ius quiritium. (1 ) ULP., Fragm., XI, 3; XXVII,
5; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della successione testamentaria
sulla legittima nel diritto civile romano è provata da una quantità grande di
passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti: « quamdiu
possit valere testamentum, tamdiu legitimus non admittitur » (Paolo, L. 89,
dig. 50, 17); « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non
defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le legis actiones e la
storia primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le origini della
procedura ex iure quiritium. 429. Quella tecnica giuridica, di cui già si
riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più
rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis
actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare
del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione
giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da
rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la
logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca
dell'argomento si aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in
questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del
tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla
ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi
sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli
antichi au tori, che la parte dell'antico diritto, relativa alla procedura
delle legis actiones, ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei pontefici,
anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e (1) Anche qui non mi
propongo di dare una bibliografia completa: ma piuttosto di indicare le opere,
di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista, a cui mi collocai in
questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions, trail. Etienne,
Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris 1845; il
KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli
1872; BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl.
Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e sopratutto il primo, che tratta delle
legis actiones; BEKKER, Die Aktionen d. röm. Privatrechts, 2 vol., e sopratutto
il vol. I, pag. 18-74; KAR LOWA, Der röm. Civilprocess zur Zeit d.
Legisactionen, Berlin 1872; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana,
Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag. 15 a 86; JHERING, L'esprit du droit
romain, tome 36, pag. 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd., pag. 181 a 235;
Zocco-Rosa, Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887; WLASSAK,
Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un
segreto di professione e di casta. Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di
aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale; egli
anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis
actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica
ragione da Gneo Flavio, segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci
pervenne di queste legis actiones, è molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio,
che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema
delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita
alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè
questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva
formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la introduzione
della legis actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio, discorrendo di
un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a cenni
assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime lacune,
quali quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla condictio (2 ). 430. Da
questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare alcune
illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la
ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella
delle legis actiones. È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo
ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si
presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura, che i
pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per
guisa che le primitive legis actiones costitui scono, secondo l'esatta
espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva
comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo
luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto,
secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi
stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di cui una compievasi in
iure, cioè (1) Pomp., Leg. 2, § 6, Dig. (1, 2 ); Gaio, IV, 11. (2) V. Gaio, IV,
17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis
postulationem, e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem. (3)
Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti al
magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo
collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal
magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel determinato caso si potesse
far luogo all'applicazione della legis actio, e si dava alla fattispecie la
configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece giudicavasi della
ragione e del torto fra le parti contendenti, in base alla configurazione
giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al magistrato (1). Ci
consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie, ispirate
ad un concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano quelle, che
miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del
medesimo, e costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi processuale
o contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del giudicato, e
costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria noi troviamo la
legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali venne ad ag
giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella seconda la
vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che è diretta
contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in pochi
casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris capio (2).
(1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la distinzione fra
il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza necessaria di ciò,
che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi dapprima a tutte
le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto quelle, che eransi
sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia, per essere deferite alla
giurisdizione del magi strato. Di qui la conseguenza, che ogni controversia
civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una questione
preliminare, da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la
controversia, o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad
un iudicium. Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa
distinzione pertanto, fra il ius ed il iudicium, non ha nulla che fare colla
separazione tra il fatto ed il diritto: ma mira in certo modo a sceverare le
questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli
arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem
publicam ». (2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura
di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare
come caratteristica delle legis actiones, che esse, ad eccezione della pignoris
capio, si compievano in iure, cioè davanti al magistrato; ma tale distinzione è
comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in
effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e
poi viene a parlare delle procedure esecu. tive, ancorchè queste fossero certo
più antiche della legis actio per condictionem. In questo stato di cose, la
questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della
procedura quiritaria, sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba
ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla
medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu
ridici già preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo
tempo, che già fin dal periodo regio, cosi nei giudizii penali come nei civili,
si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium,
che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che
dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie,
certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis
actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto
all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al
patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che
era l'atto per aes et libram, siasi pure iniziata la formazione di una
procedura propria per le questioni di carattere quiritario. Le prime origini di
tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a
Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver
ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza, mentre
avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione
delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita
alla considerazione del grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi
in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero
rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata
introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag. 19 e 20. (1) È questa
la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi
della procedura civile romanı, Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in
proposito enunciate a tre, cioè: 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva
procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che
egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla
teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla
conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole
moribus agebatur, mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le
origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine
Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si
hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva) nale quiritario dei centumviri, quella dei
iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la
iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale
iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal
novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for
mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono
punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue
parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di
Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che
possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo
cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in
base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che
in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge,
abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da
questo fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius
quiritium, relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere
elaborata dai veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius
quiritium, e che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi,
quando le altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice
incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già
essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime
furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia
potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da
una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e
personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e
dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica, e i
primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della
Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione
dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel
doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e
nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto
un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde
mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del
quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris
conditores, trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già
preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche, riuscirono a
sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium, e a richiamare
l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto
esclusivamente proprio della comunanza quiritaria: cosi essi, operando una
scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti
fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a
ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della
comunanza quiritaria. Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti;
ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro, quali esistevano, il
che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure, analoga a quella che
occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se
lezione, riducendoli a quelle forme tipiche, in cui tanto si compia ceva il
genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate
tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa, che si riuscì ad una
procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un
tempo, quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti
dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo
prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia
(1). 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già nella stessa
organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a
svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero
sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia, ed
anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla
risoluzione di tali con (1) Questa spiegazione intorno all'origine delle legis
actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi
autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti
può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio,
coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le
legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII
Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro, possono
conciliarsi fra di loro, quando si accetti la teoria, svolta più sotto, di
distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti,
cioè la parte mimica, e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una
vetustissimi iuris observantia, ed è un ricordo delle varie fasi attraversate
nello stabilimento della civile giustizia; ed è la seconda, che potè invece
essere accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO, IV, 11;
POMP., Leg. 2, 8 6 e 24, Dig. (1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a
certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità
consuetudinaria (1). Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi
di fa miglia, uguali fra di loro, che nella loro fiera indipendenza non
accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato, il quale,
anzichè giudice diretto della controversia, lo era invece della scommessa, con
cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione.
Questa è quella procedura, che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica,
e denominata actio sacra mento, le cui traccie trovansi non solo fra le genti
italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3).
L'altra invece fu una procedura, la quale ricorda ancora uno stato di privata
violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed
i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei
patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei.
Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio, ma
poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio
anche violento della potestà giuridica spettante a una persona, come lo
dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal
padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ).
Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo
anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius
quiritium, e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di
esso. La prima fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di istituire
un giudizio fra quiriti: come tale essa mira a serbare la più scrupolosa
imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa
essere il vincitore e chi il soccombente. La seconda invece fu adottata come
azione tipica, allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia
subita una condanna, o confessato il proprio debito. (1) Quanto alla primitiva
formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa
tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò, che si è
detto nel lib. I, cap. V, § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib. I,
nº 104, pag. 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions,
Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., pag. 209 e seg. (3 ) V., quanto alle
prime origini della manus iniectio, lib. I, nº 106, pag. 137. Cfr. CAPUANO,
Storia del diritto romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della
procedura civile romana, pag. 116; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di
qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della
manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali; quindi i con
tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo: sono le persone,
fra cui si discute, che recansi dinanzi al magistrato. Esse fingono un
combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto;
fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi, secondo il valore della
controversia; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se
siano ammessi al possesso della cosa, che forma oggetto della controversia. Lo
scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è
uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la
somma scommessa si perde dal soccombente, e mentre nell'epoca gentilizia era
forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a
benefizio del pubblico erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta
suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che
procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza
dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè
senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si
preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere
contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di
trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore
stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del
creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma solo di nominare
un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio
sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel
combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata
controversia fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra
essi di un vir pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria
ragione, fatta dai contendenti e rafforzata da una scommessa, della quale deve
esser giudice quegli a cui le parti si sono rimesse; la manus in (1) Tutti
questi caratteri della legis actio sacramento si possono ricavare dalla
descrizione di quest'azione fatta da Gaio, IV, 13 a 17, per quanto la medesima
presenti molte lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam, che quanto
all'actio sacramento relativa agli immobili. (2 ) Gaio, Comm., IV, 21 a 26. G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del
vincitore contro il vinto, di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale
ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve
subirla. Anche la controversia è una lotta: quindi se durante la me desima deve
essere serbata l'uguaglianza, allorchè invece essa è finita, il vincitore può
stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi
naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo, per
cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio, venisse eziandio ad essere
simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto. 434. È tuttavia degno di
nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di
procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello, che abbiam
visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto
quiritario. Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può
ravvisarsi una parte, che compievasi « dicis gratia, propter veteris iuris
imitationem » e che costituiva cosi un ricordo del passato, ed una parte
veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva
accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere
compiutamente diverso; cosi anche nella procedura primitiva, miri essa ad
istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente
distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi
anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre
uniforme ed uguale, la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del
passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra
la disinvoltura, con cui si accettano gli espedienti, che mirano a
semplificarla. Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi
sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione, se trattisi di immobile; dal
portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa; dal
simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum
consertio, dalla mutua provocatio, e dal sacra mentum. Nella manus iniectio
invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del
corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in
certomodo una soprav vivenza, col tempo divento pressochè incomprensibile, e
potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli
altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè
scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di
dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta, inerente alle
legis actiones, e di affermare che: « actionum ge nera quaedam maiorum
consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci
da un popolo, che, più di qualsiasi altro, seppe sceverare l'essenzialità del
fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un
impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio
delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui
mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi
eziandio la parte veramente viva ed attuosa, e questa consisteva in quelle
concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum, verba concepta,
certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie
fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era
in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si
riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle
tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima
i pontefici, poi il pretore, e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo
magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le
controversie di carattere quiritario, e la sola manus iniectio poté bastare a
qualsiasi procedura esecutiva. Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis
actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura
quiritaria. Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di
agire del primitivo quirite, fiero, indipendente, geloso del proprio (1) Co.,
Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla
proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata
una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De
orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in
questo studio dell'antico, allorchè scrive: « Nam si quem aliena studia
delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris, et in XII
Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et
actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. (2) A mio
avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della nuncupatio
nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto, nº 449, ed
apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole atte nersi il
primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia pronunziata;
umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio creditore,
allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto però, accanto a
queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo delle altre, che
sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare lo svolgimento
storico, così della procedura contenziosa, che della procedura esecutiva. § 2.
– Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel primitivo diritto.
485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale della procedura
contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo però, che attorno ad
essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis postulatio fra i
cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che alle medesime più
tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem. Importa
quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi esercitarono
sulla pri mitiva procedura, e di ricercare eziandio l'ordine progressivo della
loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella, intorno a cui ci
pervennero maggiori notizie, è certo l'actio sacramento. Noi sappiamo della
medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere adoperata per tutte
le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra speciale procedura,
si trattasse di agere in rem, od anche di agere in personam. Essa quindi sembra
riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la distin zione fra
l'azione in rem e l'azione in personam; il che però non impedisce, che essa
presentasse delle differenze nelle solennità e nelle espressioni adoperate,
secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in personam. Cosi pure in
essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra l'attore ed il
convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo, come lo
dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine essa non
conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a giudicare
quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e quale
perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi intervenuta
(utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit); cosicchè in
essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite, corre
anche il rischio di perdere la scom messa (1). Noi sappiamo poi, quanto alle
controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che essa
costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere
veramente quiritario, le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed
anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae
liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di
cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri
stlitibus iudicandis (2 ). Tutti questi caratteri imprimono un suggello di
vetustà all'actio sacramento, e ci richiamano a quella potente sintesi, che è
carat teristica del primitivo ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra
diritto personale e reale, fra attore e convenuto, fra la provo. catio e la
litis contestatio. Si comprende quindi, che la mimica, che la precede, sia come
un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile
giustizia, fra i capi di famiglia, e che essa, trapiantata dall'organizzazione
gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del
diritto quiritario. Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più
antica, sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le
altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare
al centumuirale iudicium, cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che
può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario, sia per il
modo, in cui era composto, sia per le controversie, che gli erano sottoposte,
che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino
nel censo, e quindi anche nello Stato (3). (1) GAIO, IV, 13 a 17: Cic., Pro
Caecina, 33, ove dice, che in una causa da lui trattata per la libertà di una
certa Aretina fu deciso, che il suo sacramentum era iustum. Di qui le
espressioni: iusto sacramento contendere, iniustis sacramentis petere. (2) La
necessità della legis actio sacramento, per una causa da istituirsi davanti al
centumvirale iudicium, è dimostrata dal fatto che, secondo Gaio, IV, 31, anche
dopo l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa
guisa: a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit ». È
poi lo stesso Gaio, IV, 14, il quale ci attesta, che le cause di stato erano
precedute dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle
XII Tavole il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta
assi. L'uso del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da
Cic., Pro Caec. 33. (3) La competenza del centumvirale iudicium, per le cause
di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello, che ci
pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem. Dal palimpsesto di
Verona non si potè ritrarne, che il titolo, mentre da Valerio Probo si ricavo
la formola, che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un
arbitro: iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati
varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato, che
suppongono una certa libertà di apprezzamento, e che talvolta sono anche
designate col vocabolo di iurgia, piuttosto che con quello di lites, si propone
la nomina di uno o più arbitri (1). Bastano tuttavia questi pochiindizii per
dimostrare le molte e gravi differenze, che la contraddistinguono dall'actio
sacramento. Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella
del conve nuto; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata, in
cuiil magistrato procede alla designazione del giudice; conduce alla
risoluzione diretta della controversia; non trae più con sè, per quanto almeno
noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa. Essa parimenti,
come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei
contendenti avanti ad un tribunale collegiale, come quello dei centumviri e dei
decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum, nel vero senso della parola,
in cui il giudice o l'arbitro, secondo un antichissimo costume ro mano,
dovevano essere concordati fra le parti (2 ). Essa infine differisce eziandio
dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie,
che ne formavano oggetto, le quali supponevano una certa libertà di
apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali
cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in cui la legge decemvirale parla
di nomine di arbitri, sono quelli relativi al regolamento di confini: « si
iurgant de finibus, tres arbitros dato »; alla divisione dell'eredità fra i
coeredi (actio familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato
dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso
analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano, $ 7, pag. 25; ORTOLAN, Expli
cation historique des Institutes de Iustinien, Paris 1883, III, pag. 494. (2 )
Sebbene non si possa dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in
senso stretto al iudicium privatum, tuttavia occorrono passi di autori, in cui
i centumviri sono contrapposti al privatus iudex, come in Cic., De or., I, 38,
39; in Quint., Instit. or., 10, n ° 115, ove scrive: « alia apud centumviros,
alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio ». Cfr. ZIMMERN,
Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4. 567 - — nel giudice o nell'arbitro
chiamato a risolverlo; cosicchè, di fronte al iudicium directum, asperum,
simplex, che era istituito col l'actio sacramento, essa iniziava di preferenza
un iudicium od un arbitrium moderatum, mite, in cui cominciava ad essere
lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle
forme rigide e precise del primitivo ius quiritium. Al qual pro posito vuolsi
eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a
questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio, colla formola serbataci
da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro, è
lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico.
Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex, sotto
il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter. Più tardi invece, e
probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale, la quale am metteva per
certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a
quella distinzione fra iudicium ed arbitrium, la quale presentava ancora tante
incertezze all'epoca di Cicerone. Questi caratteri presi insieme mi
condurrebbero alla conclusione, che la iudicis postulatio non presenti più
quell'impronta di vetustà, che è propria dell'actio sacramento, e non possa
perciò considerarsi come una procedura di carattere patriarcale, trasportata a
Roma. Essa invece dove già formarsi sotto l'influenza della vita cittadina, e
dove probabilmente essere una conseguenza della stessa formazione del ius
quiritium. Siccome infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la
formazione, il ius quiritium non costitui mai tutto il diritto di Roma, ma solo
quella parte di esso che corrisponde al concetto del quirite, e che primo era
riuscito a consolidarsi mediante il riconoscimento di una lex publica. Cosi ne
consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i
cittadini, si divi [Cic., Pro Mur.,osserva, scherzando, che i giuristi non si sono
ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La
difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra
iudicium e arbitrium, fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium,
è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente
risolte. Cfr. KELLER. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium,
mi rimetto al “De exceptionibus in iure romano” (Torino)] dessero naturalmente
in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere
eminentemente quiritario, relative al caput, alla manus, al mancipium, all'atto
per aes et libram, ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum,
mancipium, testamentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per
poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiritario,
potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed
accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacramento. Vi erano invece
dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del
loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era
chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera
legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice,
nel significato ristretto, che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo.
Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice, non accompagnata
dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le parti contendenti possono
anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto. Quindi è
probabile, che siano state appunto queste controversie, le quali, al punto di
vista quiritario, hanno minor importanza, che Servio Tullio comincia a deferire
al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così
pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio
le prime controversie di carattere quiritario si indicassero col vocabolo di
vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia.
Siccome poi col tempo, una parte di quel diritto, che in certo modo esiste allo
stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium, fini per essere
attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del
diritto quiritario. Cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis
postulatio, che dapprima ha un carattere sussidiario, puo entrare anch'essa a
far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette avvenire
naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale accolge la iudicis arbitrive
postulatio, come lo dimostrano le controversie, [L'opinione qui svolta, circa i
rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis postulatio, si avvicina a quella
enunziata da KARLOWA (“Der röm. Civilprozess”) per cui essa prescrisse al
magistrato di addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da
quel punto la iudicis postulatio entra a far parte del sistema della procedura
civile romana. Costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor
pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento,
come lo dimostra Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla
iudicis postulatio, che alla stessa actio sacramento. Questo svolgimento poi fu
sopratutto favorito dalla distinzione, che si opera nella stessa iudicis
postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla
clausola “ex fide bona”, fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere
applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in
cui domina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il mandato,
la vendita, la locazione, e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, sono
ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar
tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale
probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso
Cicerone – “uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem.” Pervenuto
a questo punto nella storia della primitiva procedura romana, parmi opportuno
di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue
modeste apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo
svolgimento della medesima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato
col vocabolo di “reciperatio”, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella
categoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recuperatores.
Si è veduto in proposito, che nelle consuetudini delle genti italiche era
indicata col vocabolo di “reciperatio” quella clausola, che soleva aggiungersi
aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui
stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i cittadini di un
popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il
magistrato di un altro. Era con [Voigt (“XII Tafeln”) assegna alla iudicis
arbitrive postulatio ben XXXV azioni, di cui IX apparterrebbero agl’arbitria, e
il rimanente ai iudicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., -- Cic.,
De offic.] questa clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato
(foedus), comincia ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio
per estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti.
Essa poi aveva questo di particolare, che pone in certo modo di riscontro i
diritti dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più
recuperatores, tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi doveno
rappresentare l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo. Quando poi si
ritenga, che Roma usci essa stessa dalla confederazione di genti di origine
diversa, e fin dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle
amicizie e colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come
in essa la “reciperatio” sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente,
e ha col tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi
nei rapporti fra i cives ed i peregrini. Cio è dimostrato dal fatto, che gl’antichi
autori indicano talvolta la “recuperatio” col vocabolo caratteristico di actio,
e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i
peregrini, si cambiarono in una categoria di giudici, che potevano essere
nominati anche per le controversie inter cives, e sopratutto dal bisogno
sentito più tardi di creare un “praetor peregrinus” “qui inter peregrinos ius
diceret.” La reciperatio s’applica anche al ius pacis, nei rapporti fra le
varie genti. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si svolsero a distanza
di migliaia di anni,direi che la reciperatio, nel passaggio dall'organizzazione
gentilizia alla città nel mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che
pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si
esplicò col nome analogo di reciprocanza di diritto, la quale consisteva
nell'accordare agli stranieri quella stessa protezione di diritto, che fosse
accordata ai nostri concittadini nello stato, a cui gli stranieri ap
partenevano. In quei tempi antichissimi la “reciperatio”, come nei tempi
moderni la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di una comunanza
di diritto fra i diversi popoli, che presso i romani prenderà il nome di ius
gentium, e che nell'età moderna e dal Savigny indicata col nome di comunanza di
diritto, la quale, secondo il grande fondatore della scuola storica, dove
essere posta a fondamento del diritto internazionale. V. Savigny, “Traité de
droit romain,” trad. Guenoux. Quanto ai rapporti poi, che intercedono fra il
concetto dell'antico ius gentium, e questa comunanza di diritto fra gli stati
moderni, mi rimetto ad altro mio lavoro col titolo, “La dottrina giuridica del
fallimento nel diritto internazionale private” (Napoli) come pure all'opera, “La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino). Quanto
all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera [Queste
circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più
antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una,
propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra
invece, applicabile ai rapporti fra cittadini e stranieri, e percid più
semplice e spedita. Siccome pero uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima
all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare
di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire
dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi
giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana
certe semplificazioni, che sono invece proprie della reciperatio. Di qui una
scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continua
ancora, allorchè l'accrescersi delle controversie condusse a dividere la
iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di “praetor
urbanus” e di “praetor peregrinus” portano le traccie del dualismo, che essi
rappresentano. E questo il motivo per cui, a quelmodo stesso, che i
recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i
cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei
rapporti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite, per
essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma. Che anzi la coesistenza di
queste due procedure dovette, a mio tores, i quali diventarono col tempo una
istituzione romana e sono i modesti preparatori della maggior opera, che doveva
poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512
dalla fondazione di Roma (KELLER, “Il processo civile romano”, ZIMMERN, “Traité
des actions,” JHERING, “L'esprit du droit romain”, KarLOWA, “Röm. Civil
prozess,” Bouché-LECLERQ, “Instit. rom.,” MUIRHEAD, Histor. introd., quanto
all'applicazione della recuperatio inter cives. Keller nota a ragione che il
riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una
asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata. Noi sappiamo
anzi da Gaio, che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al
praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nomina dei
recuperatores, anche per cause inter cives; ma ciò venne appunto ad essere
l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale
condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che
negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano
quelle, che si recano davanti al centumvirale iudicium, non potevano essere che
assolutamente proprie dei cives romani o dei latini, o dei peregrini, a cui
fosse stato esteso il ius quiritium.] avviso, servire a preparare lentamente
certi effetti, chenegli avvenimenti posteriori appariscono pressochè repentini.
Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui,
accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente
delineando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circondavano, il
concetto più largo di un ius gentium, il quale, una volta formato, doveva poi
recare cosi profonde trasformazioni nel primo. Cosi pure egli è probabile, che
il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge,
dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia,
il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo,
in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle
formulae, il quale col tempo dove poi essere accolto dal ius civile. Infine,
per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che
quella “egis actio per condictionem,” che ultima comparve nel sistema delle
legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella
procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto
iniziata, mediante una condictio, in quanto che i contendenti condicebant diem,
ossia fis savano di comparire fra XXX giorni, avanti il magistrato, per ot
tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che
occorrono nelle XII Tavole, di « status, condictus dies cum hoste », il quale
doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in
un giudizio fra cittadini. Sembra tuttavia, che vi fosse una differenza fra la
condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio
inter cives; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno
di comparire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri
zione di Gaio, era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario
denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem
capiendum (2 ). (1) Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare
il sistema delle formole e dell'editto provinciale nell'estendere il concetto
del ius gentium è da ve dersi il Glasson (“Étude sur Gajus,” Paris). Cfr.
Carle, “L'evoluzione storica del diritto romano” (Torino). Secondo Voigt, XII
Tafeln, la legge II, Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a
comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum
hoste. Cfr. quanto alla “condictio cum hoste,” il MuruEAD]. Anche intorno alla
legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che
il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli,
accingendosi a parlare della legis actio per condictionem, sembrava accennare
alle origini di essa. Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ricavare:
lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio, o meglio
nella denuntiatio, che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra XXX
giorni ad iudicem capiendum; 2º che nella medesima quella scommessa, che
occorreva nel sacramentum, appare surrogata dalla sponsio et restipulatio
tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia,
deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena; 3º
che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una
certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa
res: leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del
sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa, per cui la
condictio ha ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i
giureconsulti, i quali ha ad osservare, che per le controversie di questa
natura possono servire le anteriori legis actiones. Ricomponendo tuttavia
questi pochi indizii col resto, che sappiamo delle legis actiones, si possono
ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto, che la condictio non e
del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza, e non è punto
improbabile, che fosse una imitazione della condictio, propria della procedura
inter cives et peregrinos. Essa poi e accolta nel sistema delle legis actiones
per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad
una certa res. Quindi, riguardando obbligazioni relative ad un certum, essa
dovette restringere il dominio della [Gaio. Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae
partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio, relativo alla legis
actio per condictionem. Ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò, che egli
dice altrove, che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis fa parte
dell’actio certae creditae pecuniae propter sponsionem. Ora l' “actio certae
creditae pecuniae”, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per
condictionem. Quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di
antico, e richiama sott'altra forma la scommessa del “sacramentum”, dove certo
ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio accenna ai dubbi fra i
giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis action]
actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale e propria
delle controversie di carattere indeterminato. Per tal modo, la condictio si
presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu. Abolisce tutta la
parte mimica del sacramentum. Sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per
oggetto un certum, il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri. Infine
surroga alla scommessa, che anda a beneficio dell'erario, la sponsio et
restipulatio tertiae partis, che va invece a benefizio del vincitore delle lite.
Quanto alla causa storica, che può aver determinata questa semplificazione
nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum, essa deve certamente
essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette
avverarsi nell'epoca della Lex Silia e Calpurnia, quanto alle obbligazioni di
carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle
congetture. Ma è possibile di giungere a qualche risultato probabile, se si
tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle
obbligazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo, che la forma
primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium e quella del l'atto per aes et
libram, che piglia il nome di nexum. Colla medesima il debitore sottoponeva
senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio, per il caso
che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il
ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la Lex Poetelia tolse
di mezzo gl’effetti speciali del nexum, negando al medesimo l'efficacia di
un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il
nexum cessa di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima e, e comincia a
cadere in disuse. Ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi,
esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una
certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la “sponsio” o “stipulatio”,
la expensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di cui formano
oggetto quelle cose “quae numero, pondere acmensura constant.” Per tutte queste
obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la immediata manus
iniectio, che un tempo era con- [Cfr. in Keller e il Buonamici, “Proc. civ. rom.”]
-sentita per il nexum, non puo più esservi altra procedura, che quella
dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi e inerente, non puo a
meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il cui
credito risulta in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile. Si
comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la lex
Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis
actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa
nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a
benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore
ed una pena per il soccombente. Siccome poi nel diritto romano ogni istituto,
che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si rivendica il
posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace;
così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice,
più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè
stessa tutte le controversie relative all'obbligazione di un certum, mentre
l'actio sacramento si circoscrive a tutte quelle controversie, che hanno il
carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui consegui col tempo,
che il vocabolo di “condictio”, nel linguaggio giuridico, divenne pressochè
sinonimo di “actio in personam”, mentre l'actio sacramento finì per significare
di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte le ragioni Gaio
di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di “condictio”
per indicare l' “actio in personam”, poiché l'essenza della primitiva condictio
non consiste tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei.
Ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico,
verificatosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si riduce alle
sole vindicationes, mentre la condictio e in sostanza divenuta la forma, sotto
cui facevansi valere tutte le actiones in [(1) Cf. il nexum -- ove trattasi
appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del
nexum primitivo, che anda in disuso. Anche il MUIRHEAD stiene un'opinione
analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta
contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per
condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la
stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.] personam,
e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam. Intanto
dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della
procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più
antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione
stessa di Roma, sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura,
che e accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di
carattere quiritario, e quindi negli inizii dove essere la legis actio
fondamentale del ius quiritium, nello stretto senso della parola. Questa invece
si applica nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et
peregrinos. Siccome però a Roma e continuo l'attrito fra i cives ed i
peregrini, e l'una e l'altra procedura segue davanti allo stesso magistrato,
così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole
influenza l'una sull'altra. Cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite
della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per essere
trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad
esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere
quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto, potevano
risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più
indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia, accanto all’actio sacramento,
che continua ad essere l'a zione tipica del ius quiritium, comincia a svolgersi
la iudicis postulatio, la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare
eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guise, le controversie, che
hanno per oggetto un certum, si trattano coll'actio sacramento. Quelle invece,
che riguardano un incertum, danno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi
di queste due legis actiones fini- [Gaio, dopo aver detto, che l'essenza
dell'antica legis actio per condictionem consiste nella denuntiatio diei,
aggiunge: « nunc vero non proprie condictionem dicimus actionem in personam,
qua intendimus dari oportere; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit.”
Gaio ha ragione dal suo punto di vista, perchè l'essenza dell'actio in personam
ai suoi tempi sta non più nella denuntiatio diei, ma nel dari oportere. Ma
storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle
legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano
tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum.] per subire una
suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sacramento, penetra la
condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece attire
a sè tutte le actiones in personam, che avessero per oggetto un certum, e
divenne quasi si nonimo di actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto
civile romano penetra in parte la considerazione dell'aequitas e della bona
fides, nel seno della iudicis postulatio si opera pure una distinzione; poichè
essa puo dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un
arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro
affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni
di equità. Intanto però, mentre si ha questo svolgimento storico, è probabile,
che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, imitano
delle procedure, che già si applicano nei rapporti inter cives et peregrinos.
Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si
vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones, che poterono poi
acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le
distinzioni fra la vindicatio e la condictio; fra l'actio in rem e l'actio in
personam; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e
le incertae; fra l'actio nesin ius conceptae e le actiones in factum. Si può
quindi conchiudere che, anche in tema di procedura, tutte le varietà e
distinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica, che è
quella dell’ “actio sacramento”, la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui
si svolge la procedura contenziosa del diritto; ma che accanto alla medesima
fin dai primi tempi fuvvi la reciperatio per le controversie inter cives et
peregrinos, dalla quale dovettero essere mutuate certe procedure più semplici,
come quella della “condictio”. E poi eziandio in questa procedura, che dove
essere applicata dal praetor peregrinus, che comincia a prepararsi quel
concetto del ius gentium, e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi
tanta influenza sul diritto civile romano. Mentre nella procedura contenziosa il
diritto cerca di mantenere la più rigorosa IMPARZIALITA fra i contendenti, esso
invece apre l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i
contendenti giunse al suo termine, e trattisi di procedere all'esecuzione
contro il soccombente. Anche il linguaggio giuridico sembra allora richiamare
un'epoca di violenza. Ciascuno e vindice del proprio diritto. Noi veniamo cosi
a trovarci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella
sembra avere il carattere di una esecuzione contro la persona del debitore, e
questa invece il carattere di una pignorazione contro i beni del medesimo. È
tuttavia facile lo scorgere, che nella procedura quiritaria si preferisce
nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i
beni del medesimo. Infatti nel diritto il modo generale di esecuzione per le
obbligazioni viene ad essere la manus iniectio, che è diretta appunto contro la
persona. Mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un
privilegium, e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi, che furono
specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla
natura del credito. Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce
evidente, che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa pero
viene già ad essere regolata dall'impero della legge; poichè è questa che
determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di
esecuzione. Incominciando dalla manus iniectio, noi troviamo che la medesima,
nel ius quiritium, compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben
distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui puo appigliarsi
il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa
era una conseguenza della podestà del padrone sul servo, di cui rimasero le
traccie nella “vindicatio in servitutem”. Un'altra forma era quella invece, a
cui dava origine l'obbligazione solenne del “nexum”, in base a cui il debitore,
che non paga a scadenza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato,
essere trascinato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione
pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito. Vuolsi
qui aggiungere, che Gaio accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti,
relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non
essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis
verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius
peragebatur, e poteva perfino compiersi *in giorno nefasto*. Questa manus
iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale,
ed era una conseguenza del rigore dell’obbligazione quiritaria, contratta colle
formedell'atto per aes et libram. Questa e quella manus iniectio, la quale,
applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, da origine a quelle
dissensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la Lex
Poetelia nel 428 di Roma. La Lex Poetelia però non e ancora una vera legis
actio, in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal
rigore dell'obbligazione quiritaria, assunta colle forme del nexum, nella quale
la volontà manifestata dalle parti costituiva legge, ed implica la condanna del
debitore. Havvi infine quella manus iniectio, che occorre nella legislazione
decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro, che
avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita
una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel
damnati). A mio avviso, è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il
carattere di una vera legis actio, e che egli indica col nome di manus iniectio
iudicati, sive damnati. La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura
della [Gaio. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che
Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de
quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est », e si limita a fare una
rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando da Le XII Tavole, avrebbero
consentito questo mezzo di esecuzione. Nella sua esposizione pertanto non si
accenna più a quella rigorosa procedura, di origine pressochè contrattuale, a
cui dava origine il primitivo nexum; tanto più che la medesima era andata in
disuso fin dal tempo, in cui la Lex Poetelia ha tolte di mezzo le conseguenze
speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le
espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei
damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto possono ritenersi
compresi negli aeris confessi di Le XII Tavole, dei quali non era più il caso
che Gaio si occupasse. Poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli
obbligati col nexum, le disposizioni di Le XII Tavole sono state abrogate, e se
si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria
speciale di fronte al principio – “in iure confessus pro iudicato habetur.” Questa
opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero comprendere
i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, e da quella
eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei
nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus
iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come
Voigt e Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, “Storia del dir. rom.,” il quale
pure ha adottato l'opinione del Voigt.] manus iniectio, e probabilmente una
delle cause, per cui la medesima col tempo diventa oggetto di investigazione
curiosa per gli stessi autori latini, i quali hanno cosi occasione di
tramandarci le espressioni testuali di Le XII Tavole a questo riguardo. Allorchè
altri aveva subito condanna per un proprio debito, gli era prima consentita una
specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava XXX giorni, in cui
doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ).
Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse, il creditore puo porre sopra di
lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato, e quivi pronunziare la
formola solenne della manus iniectio. Né al debitore era lecito di depellere
manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex, che fa
valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale
pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore puo
condurre il debitore nel suo carcere, e quivi metterlo in catene, con scelta al
debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo
arresto durava LX giorni, e negli ultimi III giorni di mercato, compresi in
questo spazio di tempo, il creditore dove condurlo di nuovo davanti al
magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare
per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento, il creditore
poteva *ucciderlo* o venderlo al di là del Tevere (“capite poenas dabat, aut
trans Tiberim venum ibat”). Ed anzi, se più fossero i creditori, venivano le
famose espressioni conservateci da Gellio – “partis se canto: si plus minusve
secuerunt, se fraude esto.” L'autore, che ci ha serbata più particolare notizia
della procedura esecutiva nel diritto, conservandoci perfino le parole testuali
della legge, è Gellio, Noc. Att., -- dove introduce il giureconsulto Sesto
Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune
singolari disposizioni del diritto. Interessante discussione, poichè da una
parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi,
cerca di scusare il vigore del diritto. Dall'altra abbiamo il filosofo, il
quale, a nome della ragione, viene combattendone quelle disposizioni, che il
tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa
discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle testuali disposizioni di Le
XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle
informazioni dateci da Gaio, ci porgono le fattezze primitive della manus
iniectio. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accorda al
creditore, lascia increduli gli antichi
ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente di Voigt di interpretare la
legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in
schiavitù del debitore, e che il partis secanto si riferisse alla ripartizione
del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del
creditore. Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo
potrebbe forse consentire questa interpretazione, punto non ripugnando che la
legge attribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè
letterale. Ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento, che
vi diedero gli antichi. E questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione
più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio, che il giureconsulto Sesto
Cecilio, pur tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla
possibilità di tale interpretazione. Sesto Cecilio dice invece, che il legislatore,
nell'intento di tutelare la fede nei negozii,
introduce una pena, che, per la propria immanità, non puo essere
applicata, come in effetto non lo era mai stata. Voigt, “XII Tafeln”. Egli, ciò
stante, nella ricostruzione della legge VIII della Tav. III, aggiungerebbe alle
parole serbateci da Gellio. “Tertiis nundinis, partis secant” -- le parole “si
coheredes sunt” -- il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da
uno dei suoi creditori, egli non poteva più essere soggetto alla manus iniectio
degli altri; ma intanto se fossero stati più i co-eredi del creditore, che
l'aveva domum ductus, i medesimi potevano, in base alle XII Tavole, procedere
contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò
dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Questa supposizione è
ingegnosa. Ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima,
quale e quella di Gellio, puo restringersi ad un caso abbastanza speciale, qual
e quello posto innanzi dal Voigt. Questa interpretazione letterale della legge,
di cui si tratta, non e solo attribuita
alla medesima da Gellio ma eziandio da Quintiliano e da TERTULLIANO -- ma con
parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta,pur fatta da Gellio, che la storia non ricorda alcun caso di “sectio
corporis”. “Dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi, neque audiri.”
Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio
in quell'altra disposizione delle XII Tavole. “Si membrum rupit, ni cum eo
pacit, talio esto” -- ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare
a colui che ha subìto un danno per colpa di un altro, una potestà
corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ha pure ad
essere sostenuta, col sussidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler (“Das
Recht als Culturerscheinung”, Vürzburg) il cui brano relativo è riportato dal
MUIRHEAD. Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significazione
diversa da quella, che vi attribuirono gl’antichi, ma piuttosto di cercare,
come mai i decemviri possono giungere ad una disposizione di questa natura.
Tale spiegazione non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi
romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi
trovate le traccie nelle varie parti del “ius quiritium”, e sopratutto nel
rigoroso concetto, che questo diritto ha a formarsi dell'obbligazione
personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude,
trattandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa, oggetto della
proprietà, colla persona a cui essa appartiene. Così pure esso, nel concepire
il diritto di obbligazione, vide nel medesimo un vincolo strettamente
personale, che stringe pressochè materialmente il debitore al suo creditore
(nexum), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo.
Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto
non si appiglie all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore. Procede
diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di co-azione contro il
debitore che non paga, nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento. Che
se le co-azioni di carattere giudiziale od estra-giudiziale non bastano, questa
logica, fissa nel carattere esclusivamente personale dell'obbligazione, puo
anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di
vendere o di *uccidere* il debitore, al modo stesso, che attribuisce al
proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gl’appartiene (ius
abutendi). È tuttavia evidente, che il diritto, accordando simili diritti al
creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un
diritto reale ed effettivo, quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti
mezzi di co-azione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura. Lo stesso Kohler
già erasi occupato della questione nel “Shakespeare vor dem Forum der
Jurisprudenz” (Vürzburg), di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD
nella “Nouvelle revue historique.” A compimento di questa notizia ricordo anche
l’interessante saggio di ESMEIN, “Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges
d'histoire de droit” -- ove il diritto del creditore prende un altro singolare
svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di
rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gl’amici non
ne abbiano pagato il debito. Qui la co-azione adoperata s'appoggia
sull'opinione popolare che l’ANIMA del debitore non trova riposo, finchè il suo
CORPO non riposa nella tomba.] della manus iniectio, dalla necessità nei varii
stadii della medesima della presenza del magistrato, dall'obbligo imposto al
creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona
del debitore. Ed è questo il concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il
giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri. “eam capitis poenam,
sanciendae fidei gratia, horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus
metuendam reddiderunt.” Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione di Le
XII Tavole, nella parte, che si riferisce alla spartizione del corpo del
debitore, appare perfino di impossibile attuazione, poichè vien dichiarato in
frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o
minore diquella che gli sia dovuta, il che conferma eziandio l'altra
espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui – “eo consilio tanta
immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur.” Del resto non è
questo il solo esempio di questa logica astratta, propria del diritto, che
talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il
diritto infatti del creditore sul corpo del debitore trova un riscontro nel
diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro -- talione
che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino, non puo essere più facilmente eseguito che la
spartizione del corpo del creditore in proporzione dei crediti. Cosi pure esso
ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando
spetta al padre sui figli, al marito sulla moglie, al padrone sullo schiavo,
ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trova dei
temperamenti nel pubblico costume. Non è quindi il caso di inferire da queste
disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i romani. Ma soltanto di
scorgere in ciò una nuova prova, che il loro “ius quiritium”, essendo il frutto
di una elaborazione giuridica, la quale mira ad isolare l'elemento giuridico da
ogni elemento estraneo, fini per essere governato da una logica inesorabile,
che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. Dice
infatti Favorino presso Gellio: “Praeter enim ulciscendi acerbitatem ne
procedere quoque executio iustae talionis potest; nam, cui membrum ab alio
ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero, an efficere
possit rampendi pariter membri aequilibrium? in qua re primum ea difficultas
est inexplicabilis”. KOHLER dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi
escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola, quella cioè che
i romani sono degli antropofagi. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium,
nella sua procedura di esecuzione, ha preso di mira piuttosto la persona del
debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio, si comprende, che
esso, nella sua perseveranza tenace, stenta più tardi ad abbandonare la via,
che prima segue. Noi troviamo infatti, che nel posteriore svolgimento della
procedura esecutiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della
parola continua sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del
debitore, e invece il ius honorarium, il quale soltanto molto più tardi riusci
ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il
patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata
dalle atte stazioni di Gaio. Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci
fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile
di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre
leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi
dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre
due, non impede che il debitore potesse “manum a se depellere et lege agere pro
se”, senza ricorrere all'opera di un vindex. Posteriormente poi, la legge
Vallia ristrenge di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se
lege agere, a quei due, che primierano stati introdotti, in cui si agiva o in
base a un giudicato, o contro una persona per cui altri aveva dovuto pagare
qual sicurtà. Di questo, secondo Gaio, rimane una traccia anche dopo
l'abolizione delle legis actiones in ciò, che anche ai suoi tempi colui, col
quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, «”iudicatum
solvi satisdare cogitur.” Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice
altrove, che l'introduzione della bonorum venditio sole essere attribuita a
Publio Rutilio, il quale dovette essere praetor nel 647 di Roma, e noi
sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio, che si introdusse in Roma
un concorso fra i creditori, non dissimile da quello, che ora ha luogo nella
procedura per fallimento. E solo più tardi, che anche il diritto civile, per
mezzo della lex Iulia de [Gaio. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua
esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni
del debitore. Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura contro i beni, vedi
KELLER, “Il processo civ. rom.” e quanto alle analogie, che questo con corso
dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, “La faillite chez les
Romains” – ] -cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo di evitare
l'esecuzione personale, ricorrendo alla cessio bonorum. Ma anche allora questa
cessio bonorum dove essere consentita dallo stesso debitore, e costitui in
certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la esecuzione
personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era accompagnata. Quindi
neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma
piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un
mezzo per liberarsi da essa. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del
ius quiritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro
i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si
mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pignoris capio. Essa
infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes
militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo
di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio, in dapem). Un
solo caso di pignoris capio lascia traccie durature nella storia delle
istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o
censoria, a favore degl’appaltatori delle imposte, sui fondi che sono gravati
dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha un'analogia
incontrastabile col privilegio generale sugl’immobili, che ancora oggidi spetta
al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto, che nel
diritto di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie
obligazioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal
pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa procedura sembra negl’inizii
essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto, che noi la
troviamo descritta dapprima nella “Lex Rubria” de Gallia Cisalpina. Una ragione
di questa preferenza [Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i
beni, vedi eziandio LENEL, “Das Edictum perpetuum”, La lex Rubria, Bruns,
Fontes, attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo
pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge “Praetor”
– “isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius
de « eius rebus omnibus ius deiicito, decernito, eosque dari bona eorum,
possideri, « proscribique venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, “Röm.
Processegesetze”] dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del
debitore, non potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il
primitivo ius quiritium ha ad essere modellato sul concetto fondamentale del “quirites”,
in quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto
l'aspetto giuridico, la cui parola dava origine al “nexum”, e la cui volontà
costituiva una legge, cosi nei negozii tra vivi come nel testamento? Non
abbiamo anche in questo una conseguenza dal punto speciale di vista, a cui
eransi collocati i modellatori del diritto? Basta ora ricomporre insieme queste
varie parti della procedura romana e metterle in movimento ed in azione, per
comprendere come il sistema della “legis actio”, anzichè essere, come
vorrebbero taluni, un complesso di solennità, escogitate dallo spirito sottile
e formalista dei romani, sia stato invece il mezzo più potente ed efficace,mediante
cui venne preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. La “legis actio”
e per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del
fatto umano puo essere isolata da tutti gl’elementi estranei, ed essere ridotta
cosi a quello stato di purezza, che solo si rinviene negli scritti dei
giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto, per poter affermarsi in
giudizio, dove passare per lo strettoio della “legis actio”: cosi ne venne, che
con questo sistema prima il pontefice, nel modellare la “legis actio”, poscia
le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia. Quindi il magistrato
nel determinare i termini, in cui tale controversia dove essere giuridicamente
concepita. Infine i giudici, che doveno di necessità restringere la loro
decisione al punto di questione che e loro sottoposto, attendeno tutti ad un
medesimo lavoro, che e quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento
etico (morale) o religioso, con cui si trovasse implicata, per ridurla ad una
configurazione e ad una formola ESCLUSIVAMENTE LEGALE O GIURIDICA. Siccome poi,
il giudice della controversia, o e tolto dalle varie classi o tribù, come i
centumviri e forse anche i decemviri, o scelto nel l'ordine dei senatori, come
i iudices selecti, o convenuto fra le parti, come gl’arbitri, od anche scelto
in parte fra i peregrini, come i recuperatores. Cosi ne veniva, che
l'elaborazione del diritto in Roma e un'opera collettiva, a cui concorrevano
tutti gl’ordini e le V classi, e che puo perfino sentire l'influenza del
diritto e della procedura, che applicasi dei rapporti fra i cittadini e gli
stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro e unificato e coordinato per
opera del magistrato, che sovraintende all'amministrazione della giustizia, ed
e poi assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano racchiudendo in
formole la varietà grandissima dei negozii giuridici. Cosi ne venne, che in
Roma fin dai suoi inizii si trova sapientemente organizzato un sistema di
mezzi, il quale mira ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagl’elementi
estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in una forma determinata e
precisa, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e
generali. E in questo modo, che puossono scomparire i contendenti e si
sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali -- Aulus Agerius e Numerius
Negidius nella formola processuale, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quella
contrattuale --; che una controversia PARTICOLARE e richiamata a certa forma GENERALE;
e che intanto i concetti primordiali, da cui ha preso le mosse il diritto di
Roma, poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le
conseguenze, di cui erano capaci. E quindi sopratutto in Roma, che il diritto
potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un
elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e
varia ad un tempo, la quale obbedisce costantemente a quei processi, i quali,
applicati prima dal pontifice, passarono poscia al praetor ed al giureconsulto,
e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi principi. Per tal modo, quel
lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante la legge, le quali,
trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne hanno ricavato un
diritto tipico, esclusivamente proprio del quirites, e perciò chiamato “ius
quiritium”, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della
legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima
di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente
dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e
vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè
esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di
provvedere. Per tal modo il “ius quiritium” si allarga ed amplia nel “ius
proprium civium romanorum”; poscia accanto a questo venne svolgendosi il “ius
honorarium”, il quale pur derogando al ius civile ed assimilando nuovi
elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate
dal ius civile. È in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la
selezione più rigida dell'ELEMENTO ESCLUSIVAMENTE GIURDIICO E NON ETICO, che
presenti la storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del
popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le
considerazioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle
altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma,
finchè non diventa tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano
somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è
anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione sono
dapprima inconsapevoli, come gl’inizii di tutte le opere umane, e fossero
determinati dal modo di formazione di Roma, e dal genio eminentemente giuridico
dei fondatori di essa. Ma egli è certo eziandio, che essa non tarda a cambiarsi
ben presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita con una perseveranza
tenace, di cui non potrebbesi trovare paragone. Così, ad esempio,
dell'importanza della “legis actio” già dovette aver consapevolezza il
patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il
proprio diritto, continua tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici
la formazione della “legis actio”, e la cambia in un segreto di professione e
di casta; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come
lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione,
ha resa di pubblica ragione la piu primitiva “legis actio”. Questa influenza
poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè
l'abolizione della “legis actio” e l'intro duzione del sistema delle formole
attribui da una parte al magistrato libertà maggiore nella concezione giuridica
delle varie fattispecie, e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre
nuove azioni, accanto a quelle, che si fondano direttamente sui termini della
legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si [(Pomp.,
Leg. 2, § 7, Dig. (1, 2 ); Liv. IX, 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio e
dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di *tribune* della plebe,
di senatore e di edile curule.] trova eziandio nella necessità di edicere,
ossia di pubblicare, entrando in ufficio, la norma, che avrebbe applicate
nell'amministrazione della giustizia; che accanto ai iudicia legitima si svolgeno
quelli imperio continentia; che, accanto alle “actiones legitimae”, quae ipso
iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, “actiones quae a praetore
dantur.”Da quel momento il “praetor” puo essere considerato come una “lex
loquens”, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione
della giustizia. Tuttavia l'abolizione della “legis action” e la sostituzione
del sistema delle formulae devono essere intese alla romana, il che vuol dire,
che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell' “actio
sacramento”, come preliminare del “centum. virale iudicium” e di quello “damni
infecti nominee”, al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una
rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una
pratica, che dove già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti probabile che
il sistema delle formulae già puo esser applicato nella “procedura inter cives
et peregrinos”, nella quale non potevano essere applicate la “legis actio”, e
che in tal guisa una procedura propria della “recuperatio” sia penetrata nel “ius
proprium civium romanorum”, almodo stesso, che più tardi l'”actio sacramento” puo
eziandio essere proposta davanti al “praetor peregrinus”. Il sistema delle
formole e in certa guisa già contenuto in germe nel sistema della “legis actio”.
A quel modo, che la “stipulatio” riducesi in sostanza alla parte nuncupativa
del “nexum”, la quale, liberata dalla solennità del l'atto “per aes et libram”,
puo essere adattata alla varietà dei negozii [Gaio dice espressamente, che,
negl’esordii di questo sistema di procedura, “edicta praetorum nondum in usu
habebantur”. Era quindi naturale, che quando questi sono introdotti, accanto a
quella parte di diritto, che fondasi direttamente sulla legge, e che perciò da
origine alle denominazioni di “actus legitimus”, “actio legitima”, “iudicium
legitimum”, si svolgesse un diritto, che fondasi in certo modo sull'autorità
del magistrato, e che, come tale, “imperio continebatur”, il quale finì poi per
essere compreso sotto il concetto di “ius honorarium”. È poi Cic., pro
Cluentio, il quale ha a dire, che siccome la legge e al disopra del magistrato,
e questo è al disopra del popolo, “vere dici potest magistratum legem esse
loquentem -- legem mutum magistratum.” Quanto ai concetti di “actio legitima” e
di “iudicium legitimum”, vedi WLASSAK. Sull'influenza del “praetor peregrinus”
e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, “Étude sur
Gajus”] giuridici. Così, la formola consiste essenzialmente in quei “concepta
verba”, che già occorrevano nella “legis actio”, salvo che questa “verborum conceptio”,
liberata dalla parte mimica, da cui era accompagnata, e da quel rigore di
termini (“certis verbis”), che era propria della “legis actio”, puo acquistare
una duttilità e pieghevolezza, che la prima non ha. Noi trovammo infatti, che
già sotto la veste ferrea della “legis actio”, ogni modus agendi finisce per
abbracciare diverse azioni particolari. Queste azioni già cominciano a
distinguersi nelle “actiones in rem” in “actiones in personam”, in quelle, che
hanno per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che dano origine ad un
iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi materiali, che ancora erano
riuniti nella sintesi potente della legis actio, si trovano in certo modo
abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed
indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola ed un proprio
contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che
ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola, che
sarebbe stata pericolosa negl’inizii della elaborazione giuridica, venne invece
ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza progredita.
Le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina della “legis
actio” e del “ius pontificium”, indicano abbastanza la via, in cui dove
mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la
ragione, per cui il “praetor”, malgrado la libertà apparente, che lo
appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già
ricevute, procede in cio molto a rilento, ed ama piuttosto di ricorrere a
finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme riconosciute dal
diritto, che non di alterare la forma che già e accolta. Per tal modo, il nuovo
trova sempre un addentellato nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una
modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce, che una parte del diritto,
che vive fluttuante pelle consuetudini, accanto al vero ius civile, si venisse
ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre
modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva del praetor
succedentisi l’uno all’altro, puo manifestarsi uno spirito di continuità, per
cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono
per costituire un ius translaticium, che passa al praetor successore, e serve cosi
a preparare i materiali, che raccolti e coordinati costituirono poi l'editto
perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza
l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della
giurisprudenza romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova
azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una
eccezione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto
civile. Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene
ad essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per
abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella
ricchezza di formole, a cui accenna Cicerone, allorchè dice: -- “sunt formulae
de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione
actionis errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore,
incommodo, calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata
lis accomodatur.” Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a
compiere quel lavoro di selezione, iniziato sotto l'impero della “legis actio”.
Esse si accomodano alle varie fattispecie. Isolano l'elemento giuridico da ogni
elemento estraneo, gl’elementi essenziali del fatto umano dalle circostanze
accidentali: accolgeno quelle aggiunte, che sono rese necessarie dalla maggiore
varietà dei negozii; riassunggeno le varie fasi della controversia in guisa da
presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio. Queste
formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla procedura. All'epoca
stessa, in cui penetrarono in questa, si vennero eziandio esplicando nel contratto,
nei testamento, nei legato, e in ogni altra parte del diritto civile romano, e
vi portarono cosi dappertutto l’ESATTEZZA E LA PRECISIONE DELLA LOGICA DEI
CONCETTI GIURIDICHI, non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà
infinita dei negozii. È quindi facile il comprendere come il pontefice, il pretore
e il giureconsulto, non credeno indegno del loro ufficio l'attendere alla
composizione delle formole, e come bene spesso l'invenzione di una formola ha reso
celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto.
Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima
applicazione, che [Cic, Pro Roscio -- Cfr. WLASSAK. Occorrono delle notevoli
osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso
LABBÉ-ORTOLAN, “Explication historique des Institutes de Justinien” (Paris)] ricevettero
le clausole “ex fide bona” “quando aequiusmelius” e “propter te fidemve tuam
fraudatus siem” -- le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe
lungo ricordare; le quali serveno a far penetrare nel diritto la considerazione
dell'equità e della buona fede, e a dare forma concreta e pratica applicazione
alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giuridica del
popolo romano. E infatti per mezzo di una piccola aggiunta in una formola
contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni latenti della coscienza
giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante
nelle consuetudini venne ad ottenere la tutela e la sanzione dell'autorità
giudiziaria. Questa considerazione mi
porge opportunità di conchiudere questo saggio, spiegando un carattere del
tutto peculiare della giurisprudenza romana. Nostro tentativo di “ri-costruzione”
del primitivo ius quiritium quanto meno dimostra che il diritto civile romano,
anzichè essere il frutto di una incorporazione qualsiasi di consuetudini
preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu
invece governato, fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale, che non
venne mai meno a se stessa. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di
cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un
liquido, cominciano dal precipitarsi a poco a poco, e poi si compongono
insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte
dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio,
vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica fondamentale, la quale regge
tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere
dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel
poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed
indipendenti gli uni dagli altri, go [Questa importanza delle formole appare
sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso
nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella
composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ha ad esprimere, molti
anni or sono, in “De exceptionibus in iure romano” (Torino) -- colle seguenti
parole. “Neque vereor dicere, omnia quae in
iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione,
invecta fuerunt ad corrigendam, producendam, emendandam et adiuvandam
antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse.”] --vernati ciascuno
da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono
stringere un istituto cogli altri. Vero è, che considerando attentamente il
formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici,
educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono
paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma. Ma intanto più
non si scorgono le traccie della legge, che ne governa la formazione. Era
questo disordine apparente dei giureconsulti, che torna grave alla mente FILOSOFICA
ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i primi grandi
maestri cercano di dissimulare la propria arte. Ma se questo potè forse esser
vero, finchè la scienza del diritto – come la filosofia, dopo -- e un monopolio
della gente patrizia, o meglio del pontefice massimo, custode delle loro
tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del
giureconsulto e aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo. Anche i plebei
furono ammessi a questo collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza.
Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio, che
vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione, che presenta l'elaborazione
della giurisprudenza romana. Ma questo e piuttosto il modo, in cui venne in
Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo vuolsi aver presente,
che i modellatori del primitivo diritto di Roma – “veteres iuris conditores” – non
hanno mai in animo di insegnare una scienza, ma piuttosto di professare un'arte
(“iuris prudentia”), che forma solo più tardi argomento di scienza. Essi quindi
non intesero punto di soddisfare alle esigenze didattiche, nè di introdurre
quell'ordine sistematico, che è proprio della scienza. Si proposero sopratutto
di soddisfare alle esigenze pratiche. Sono i casi, che si venneno presentando,
che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro. Siccome per tanto nella
pratica era l' “actio”, che predomina, poichè era con l’ “actio”, che il
diritto sperimenta se stesso. Così ne venne, che dapprima sono la “legis actio”
che costitue il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica, e determina
l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi potente
della “legis actio” venne ad essere disciolta, e pullularono così azioni e
formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed una propria
funzione nella formazione dei negozii e nell'amministrazione della giustizia, sono
eziandio le actiones, l’”interdictum.” -- Cic., De orat., I. la “exceptio” e
simili, che costituirono il punto centrale, intorno a cui dovette appuntarsi
l'arte dei giureconsulti. Quindi è, che essi, per quanto ubbidissero ad una
dialettica fondamentale, trascurarono naturalmente di far scorgere i fili, che
componevano la trama. Cosicchè la girusprudenza apparisce come a frammenti, e
ravvicinano istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone altri, che sono
in vece strettamente affini fra di loro. Di qui la conseguenza, che la
costruzione giuridica romana non segue il processo dei concetti fondamentali,
da cui parte, ma venne seguendo invece l'ordine, prima, di Le XII Tavole, e, poscia,
dell'Editto. Nè questo disordine apparente puo recare imbarazzo agl’esperti,
perchè l'arte in essi era viva e feconda. Puo invece riuscire grave agl’altri,
i quali, come Cicerone, cercano di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo
mentale concettuale e filosofico – di ‘re-costruzione logica.’. Fu soltanto,
allorchè la ricchezza dei materiali comincia ad ingombrare il campo, che si
senti il bisogno di introdurre questa o quella distinzione sistematica, al modo
del Liceo per genere e specie, ma anche queste distinzioni non compariscono
nelle opere di costruzione giuridica propriamente detta, quali sono quelle dei classici
giureconsulti, ma soltanto nell’opere di carattere didattico o tutoriale -- donde
la spiegazione dell'ordine diverso, che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di
Giustiniano e nelle Pandette. Siccome poi anche l'ordine sistematico,
introdotto nelle Istituzioni, ha naturalmente lo scopo pratico di coordinare la
giurisprudenza romana nello stato in cui si trova, anzichè di fare assistere
alla formazione progressiva di essa; cosi ne viene, che anche le distinzioni,
che occorrono in Gaio ed in Giustiniano, danno talvolta come contemporanei degl’istituti,
che possono avere avuto origine in epoca compiutamente diversa. Ne consegue,
che la giurisprudenza romana, quale a noi pervenne, colle sue proporzioni
armoniche e colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la
trasformazione lenta e graduata, che venne operandosi in essa, e la dialettica,
che ne governa la for [Ciò appare sopratutto nelle “Receptae sententiae” di
Paolo Diacono. Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei
cosidetti “Fragmenta” di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue
già passo passo l'ordine dei “Commentarii” di Gajo, abbreviandoli in qualche
parte, e facendovi altrove qualche aggiunta, che altera talvolta le armoniche
proporzioni dei “Commentarii” di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità
maggiore o minore del giureconsulto, sono il nostro modello di ordinamento
sistematico, fatto in un intento didattico o tutorial per l’elite diriggente.
Cfr. Huschke, Jurisp. antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere
sopra citate dei giureconsulti] –mazione. Ma ciò punto non impedisce, che,
penetrando sotto la scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali
e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi
al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passa la lenta e
graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di questo
faticoso lavoro di ricostruzione, ritengo opportuno di riassumere a grandi
linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in
qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di
Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza
organica, che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni di
Roma. Allorchè le genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima
stanziate sopra quel suolo, che più tardi e denominato “italic”, dove avverarsi
un periodo di forza e di violenza, non dissimile da quello, che si avvero più
tardi all'epoca delle invasioni barbariche, ed il maggior bisogno, che dove
sentirsi allora dai vincitori e dai vinti, e quello di uscire da quello stato
di privata violenza. E allora, che le genti sopravvenute, memori forse delle
tradizioni, che portavano dall'antico oriente, irrigidirono la propria
organizzazione gentilizia, cercando di attirare nella medesima anche le
popolazioni dei vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei
patres, dei patroni, dei patricii, mentre i vinti sono organizzati nella classe
inferiore dei servi, dei clienti, e infine dei plebei. Questa organizzazione,
malgrado le differenze nei particolari, assunge pressochè dapertutto un
carattere uniforme, non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel
Medio Evo. Essa organizzazione venne cosi ad essere composta di familiae, di
gentes e di tribus, strette in sieme dal vincolo di discendenza reale o
fittizia da un medesimo antenato, le quali risiedevano rispettivamente nella
domus, nel vicus e nel pagus, mentre il territorio da esse occupato era
ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in compascua. Fu a questo stadio
del proprio svolgimento, che le genti italiche presero tutte a travagliarsi
intorno alla grande opera del passaggio dall'organizzazione gentilizia a Roma.
Questa organizzazione ha sopratutto lo scopo di assicurare la comune difesa e
di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane fra i varii gruppi. Roma comincia
dall'essere un sito fortificato (“arx”, “oppidum”, “capitolium” ) per servire
di rifugio in caso di pericolo. Poi diventa un sito per il mercato (“forum”) e
un luogo di riunione dei capi di famiglia delle varie comunanze confederate per
la trattazione degli affari comuni (“conciliabulum”, “comitium”). E posta sotto
la protezione di un divino – “dius,” “dius-piter” -- , comune patrono. Finchè
da ultimo sotto la protezione della comune fortezza cominciano eziandio a
costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi però sono pervenute al
medesimo stadio di svolgimento, nè tutte hanno seguito il medesimo indirizzo
nella formazione di Roma. Mentre gl’umbro-sabelli adereno ancora strettamente
alla organizzazione gentilizia, e gl’etruschi sono già pervenuti alla città
chiusa e fortificata, i Latini invece si trovano in uno stato intermedio. I
latini sono pervenuti a Roma di carattere federale, considerata come un centro
della vita pubblica per varie comunanze di villagio. È al buon seme latino, che
s’attribuie l'origine del nome di Roma. Roma comincia dall'essere lo
stabilimento fortificato di un nucleo di uomini forti ed armati – “vir”, “quirites”),
staccatisi d’Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine
comune delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio
braccio, ma non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui
appartenno. Le lotte di questo nucleo di uomini di arme, stabilitosi sul
Palatino, i quali, senza essere ancora veri capi di famiglia, tendeno a
diventarlo, colle comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti
dell'antico septimontium, lo conducenno prima alla comunanza dei connubii e in
seguito alla confederazione colle medesime. Percorse due periodi compiutamente
distinti -- cioè: il periodo della città federale, in cui Roma è una città
esclusivamente patrizia, ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze
gentilizie. Il secondo, quello in cui Roma, esclusivamente patrizia associasi
anche la plebe circostante delle periferii, già pervenuta ad una certa
agiatezza, nell'intento sopra tutto di provvedere alla comune difesa, e chiude
nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio, che entrano a
costituirla. Nel primo periodo, i
cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno
scopo di comune difesa, e la loro città, posta nel centro delle varie comunanze
di villaggio, rispecchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione
gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i
villaggi, collocati sulle alture, che lo circondano. Essi infatti trapiantano a
Roma, centro della loro vita pubblica, le proprie istituzioni gentilizie, salvo
che le medesime, assumendo un intento essenzialmente civile, politico e
militare, cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale, e
ricevono cosi uno svolgimento compiutamente diverso. Roma esce cosi dalla
confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres) e dei loro
discendenti (patricii). Ma intanto assume un carattere religioso, politico e
militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i
pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo. Gli
auguri modellano gli auspicia publica sugli auspicia, a cui già ricorrevano i
capi di famiglia o delle genti. I feziali serbano le tradizioni relative ai
rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città serve ad operare la
selezione della vita pubblica, che comincia a spiegarsi nella città, dalla vita
domestica e patriarcale, che continua a svolgersi nelle varie comunanze di
villaggio. L'urbs infatti designa l'orbita sacra, in cui trovansi riuniti gli
edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel proprio contro il tempio di
Vesta e la domus regia. La civitas non comprende ancora quelli rapporti soltanto
che si riferiscono alla vita civile, politica e militare. Il populus non
comprende tutta la popolazione, ma quella parte eletta della medesima che puo
giovare alla res publica col braccio (“iunior”) o col consiglio (“senior”). Per
tal modo il grande intento della città in questo periodo e quello di sceverare
la vita pubblica dalla privata – “publica privatis secernere” -- , di modellare
il concetto della “res publica”, in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla “res
familiaris”, e di architettarne la costituzione politica, la quale venne cosi
ad uscire dal concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La
sorgente della pubblica potestà risiede quindi nel “populus.” Ma in tanto la
parte dovuta all'età e all'esperienza nel provvedere all'interesse comune viene
ad essere rappresentata dal “senatus”, che è già elettivo ed è nominato dal “rex”;
il quale alla sua volta è l'eletto del “populus” e unifica in se medesimo l'”imperium”,
che il medesimo gli conferisce. Tutto cio, che riguarda l'interesse comune, si delibera
col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato
dal senato, votato dal popolo. Cosicchè, la legge assume la forma di una
pubblica stipulazione – “communis reipublicae sponsion”. Per quello invece, che
si riferisce alla vita domestica e privata – “res familiaris” --, essa continua
a svolgersi nel seno della “domus”, del “vicus”, del “pagus”, sotto la potestà
dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie
terre sotto la forma collettiva di “agri gentilicii” e di compascua, soli
eccettuati gli heredia, assegnati dalla gens od anche dal re, i quali
appariscono intestati ai singoli capi di famiglia. Anche la repressione dei
delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale, e le
pene conservano quel carattere religioso, che hanno nel periodo gentilizio. Solo
assumono carattere di delitti *pubblici*, e sono sotto posti alla giurisdizione
del re, temperata dalla provocatio ad populum, il parricidium e la perduellio,
di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato
politico. Ma il diritto private continua in gran parte ad essere governato dal
costume (“mos”), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (“fas”).
Cio tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni
preesistenti già ve ne sono di quelle, che sono sanzionate dala “lex publica”,
la quale è preparata dal pontefice, proposta dal re, e votata dal popolo; donde
la formazione della “lex regia”, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche
serbano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istituzioni
delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione
già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo
incremento collo svolgersi della città. Poichè, esso trovasi accresciuto dalle
popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'organizzazione
gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa
moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per
difetto di organizzazione chiamasi “plebes”, non entra ancora a formare il “populus”,
nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle circostanze di
essa, e tiene cosi una posizione più di *fatto* che di diritto. Ai plebei, che
la compongono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città
esclusivamente patrizia, il “ius nexi”, ossia il diritto di contrarre dei
prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il “ius mancipii”,
ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano
stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che Roma comincia
a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata
nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad
essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie, che trovansi
stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città. La
trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie, allorchè con Servio
Tullio Roma viene a comprendere nella propria cerchia non solo gli edifizii
pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene
a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii
e di plebei, ripartito in V classi ed in centurie, di carattere essenzialmente
militare, i cui membri hanno i loro diritti ed obblighi civili, politici e
militari determinati sulla base del CENSO. Da questo momento quel dualismo, che
esiste negl’elementi, che entra vano a partecipare alla medesima Roma, penetra
eziandio nelle istituzioni politiche. Per tal modo accanto ai veri magistrati
del popolo, comparvero il “tribune” della plebe. Accanto ai comizii delle curie
e delle centurie si formar il “concilium plebis”, il quale col tempo si
trasforma in comizio tribute. Da ultimo, accanto alla “lex” si svolge il “plebiscitum.”
Di qui lotte, che condussero a svolgere e in parte anche a modificare i
concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di
Roma. Intanto Roma si è ingrandita. Nelle suemura non si esplica più soltanto
la vita pubblica, ma anche la vita domestica e private. Quindi la grande opera,
che si inizia in questo periodo, viene ad essere la formazione di un diritto
privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani
dovevano essere maestri al mondo, cioè dell'”ars iura condendi.” Gl’elementi,
che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, sono due, cioè:
il patriziato, onusto di tradizioni religiose, giuridiche e politiche, e la
plebe la quale e un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita
civile e politica. Quello ha l'organizzazione gentilizia fondata sul vincolo
civile dell'agnazione, e questa non conosce che la famiglia, stretta insieme
dal vincolo naturale della cognazione. Quella ha tante forme di proprietà,
quante sono le gradazioni dell'organizzazione gentilizia. Questa non ha in
certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stanziata (“mancipium”).
Qello ha il “fas”, il “ius”, l' “imperium”, l’ “auspicium”, il “mos veterum”. Questa
non conosce che l'”usus auctoritas”. Fu
la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo
di sentire e di pensare compiutamente diverso, in fatto di religione e di morale,
che resero necessaria la elaborazione di un DIRITTO, comune ai due ordini, il
quale FA COMPIUTAMANTE ASTRAZIONE DALLA MORALE E DALL RELIGIONE. Cosi pure è
questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza
dei risultati a cui essa pervenne. Questa dove prendere le mosse dalle
istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a
poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento
continua ad attenersi alle proprie consuetudini e costumanze. La convivenza dei
due ordini, pero, nelle stesse mura e l'attrito dei quotidiani interessi
finirono per determinare una specie di precipitazione del materiale giuridico,
fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (“mos veterum”), o di
costumanze della plebe (“usus”). Si inizia così la più mirabile selezione
dell'elemento giuridico dagl’elementi affini, con cui trovasi implicato, che
siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da una parte
obbedisce alla legge naturali di formazione, e dall'altra è già l'opera di una
elaborazione, per parte sopratutto del pontefice, i quali, essendo i custodi
delle tradizioni delle genti patrizie, già sono in possesso di una vera tecnica
giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il concetto
del “quirites”, ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per
essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e proprietario di terre,
quale appunto compariva nel censo. Il “quirites” viene cosi ad essere una
realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un
agricoltore ad un tempo. Ed il punto di vista, sotto cui si riguardano il “quirites”
nel reciproco rapporto, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello
del mio e del tuo – “il nostro” --. Di qui consegue, che per essi ogni negozio
riducesi ad un trapasso dal MIO al TUO – il nostro -- , simboleggiato nell'atto
“per aes et libram”, e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una
specie di combattimento e di reciproca scommessa. Questo diritto, costituendo
un privilegio dei “quiriti”, viene ad essere denominato “ius quiritium”. I suoi
concetti fondamentali sono quelli vasti e comprensivi di caput, manus, mancipium,
commercium, connubium ed actio. Esso costituisce in certo modo l'ossatura
rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo
nucleo, che si vien precipitando e consolidando, si mantengono ancora sempre,
allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto
gli usi della plebe; così il primitivo “ius quiritium” viene in certo modo
attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere
qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo,
arricchendosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel “ius pro
prium civium Romanorum”, il quale può essere considerato come un proseguimento
di quella selezione, che erasi già incominciata col “ius quiritium”. Sono Le
XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile.
Quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi,
che entrano a costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i
giureconsulti chiamano “proprium civium Romanorum”, può scorgersi una
formazione centrale, che è dovuta al “ius quiritium”, e due laterali, di cui
una suole essere di origine patrizia, e l'altra di origine plebea. Così, ad
esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la “confarreatio,” di
origine patrizia e dall'altra l'”usus” di origine plebea. La “coemption” sta
nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiritaria. Fra le forme del testamento,
le più antiche sono il testamento “in calatis comitiis”, propria del patriziato,
e la “mancipatio familiae cum fiducia”, propria della plebe, le quali poi,
pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario,
che è quello “per aes et libram.” Infine, fra i modi di acquistare e
trasmettere il dominio, il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario
della “mancipatio”, attorno a cui si vengono poi accogliendo l'”in iure cessio”
e l'”usucapion”. Intanto pero questa selezione non si arresta ancora colla
formazione di un “ius civile”, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il “ius
honorarium”, il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi,
facendoli pero entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate
dal “ius civile”. È con questo meraviglioso processo che il diritto di Roma,
dopo aver cominciato dall'essere la *selezione* più rigida dell'elemento
giuridico, che ricordi la storia, ed una produzione esclusivamente romana,
venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di
equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che si acconciavano alla logica fondamentale, da cui era governato, finchè
divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter
essere accomunato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui
erasi venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una
costruzione eminentemente dialettica, la quale riunisce da sè gli opposti ed i
contrarii. Il diritto romano è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo
per le applicazioni che se ne ricavano. Sotto un aspetto il diritto romano è
sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di
formazione. Il diritto romano obbedisce ad una logica fondamentale, e intanto
lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto
ispiratore. Mentre il diritto romano è una produzione del tutto propria del
genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti; è un'arte
ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle
esigenze pratiche, appare informato, come ben dice il giureconsulto, ad una
vera e propria FILOSOFIA, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali,
mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella
in concezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui
possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche
dei giureconsulti romani sono sempre dei modelli, che difficilmente potranno
essere superati, poichè nella divisione di lavoro, che si opera fra i popoli
moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le
attitudini veramente meravigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione
dell'elemento giuridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il
modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla
immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello di Roma. Come
le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia; così i
concetti, che le servirono di base, furono la sintesi potente di tutto un
periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora discoprendo nelle necropoli
delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico oriente.
Da questi ruderi di un periodo che può chiamarsi pre-istorico, essa seppe
ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che basta ad organizzare
il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza essere ricca di concetti
proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare
nei medesimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto.
Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza
giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze
con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stano a base
della sua grandezza, sono anch'essi esauriti, dalle loro macerie usce ancora la
grande idea della umanità civile, e la sua legge puo servire come punto di
partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le
città dell'universo, puo personificare in se stessa quella legge di continuità,
che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella
preistoria, e le nazionalità moderne sono preparate da essa. Essa e l'erede e la
raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose
le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci
a Roma. Quando si pretende di cambiarla in sede esclusiva del potere
spirituale, essa sa di nuovo rivivere alla vita civile. Quando si crede di riguardarla
come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie essa coopera
a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora esistono in Roma,
non ci debbono impaurire. Roma e sempre la città dei dualismi. Punto non
ripugna, che Roma e la sede del governo civile. Già altra volta essa apprese
l'arte di separare il potere religioso dal civile – “sacra profanis secernere.”
Non ripugna parimenti, che Roma continua ad essere la città dei dotti e degl’eruditi,
e che intanto sia la capitale di un giovine stato. Roma ha tal copia di
monumenti del passato da ricavarne la più splendida passeggiata archeologica, e
ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle
nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai er tempo, che essa un'altra volta
arricchisse il nucleo ristretto della sua popolazione,
accordando nuovamente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi
concorsero da ogni parte dell'Italia. Lo stato federale non cerca di far
rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di
combattere l'influenza della romanità. Noi, studiando fra i ruderi di Roma
antica, abbiamo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento
per l'avvenire; nè e inutile, che il giovine regno cerchi di educare il suo
senso politico e legislativo, studiando l'opera dei più grandi politici e
legislatori del mondo. La storia civile e politica di Roma e quella del suo
diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi. Deve essere
parte dell'istruzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano.
È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, che si
precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro, allorchè lo studio
della storia del diritto romano e opportunamente chiamato a far parte
dell'insegnamento giuridico nell’università italiane. Credo infatti di poter
affermare, senza timore di essere contraddetto, che nessun nuovo insegnamento
provoca nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le
pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli istituti per lo studio del diritto
romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso, con cui non solo
l'Italia, ma tutta l’Europa partecipa alla commemorazione solenne di
quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano pone le
fondamenta dell'illustre ateneo di Bologna. L'importanza dogmatica del diritto
romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del codice civile germanico,
il quale fa si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un
grande Popolo. Ma la sua importanza storica venne per cio stesso ad essere
accresciuta, perchè si tratta pur sempre di determinare la parte, che nelle
moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto
romano. Ne è da farsi illusione, che questo gepere di studii possa ugualmente
mantenersi fuori della cerchia dell’università. Poichè, tanto in Italia che in
Germania, la scienza è nata e si è svolta nell’università, ed è in esse, che
deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nell’università,
che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di
minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di concetti, che
possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Diritto
romano. Keywords: implicatura, diritto romano, legge romana, concetto di legge
romana, natura romana Roman law often invoked nature to justify a legal ius –
the principle of individual ownership: JOINT position of a single object is said to be contra naturam. CONTRA NATVRAM
QVIPPE EST VT CVM ALIQVID TENEAM TV QVOQVE ID TENERE VIDARIS. SERVITVS EST
CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA QVIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Orazio.
Sat, Roma – filosofia antica – Luigi Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carle” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carlini: l’implicatura conversazionale della filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more, but then he is Italian! My favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile, trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza è GENTILE, conosciuto qualche anno prima, e CROCE, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al C., anche Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in
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